Kronstadt 34

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k ronstadt 34 © Massimo Ghimmy

periodico mensile Numero 34 Giugno-Luglio 2007

dead city walking

Pavia 2007 issodaraP 25 giugno 2007. Cos’è successo quest’anno a Pavia? In una città in cui l’anno viene misurato da settembre a luglio. In una città in cui gli studenti rappresentano una parte davvero importante della popolazione. In cui metà delle case sono affittate ai giovani. In cui in un anno ci sono due notti bianche! Gremite di gente! In cui i locali chiudono a mezzanotte... ... eh... sì... a volte alle dieci, è vero...

Pavia dismessa: una piccola Lipsia in potenza? E’ ormai consuetudine ogni anno, nella celebre città di Lipsia in Germania, l’avvento di uno dei Festival d’arte rock più importanti sorti in Europa negli ultimi vent’anni. Stiamo parlando della maratona multidisciplinare in quattro giornate del Wave Gotik Treffen, vera e propria macchina di promozione culturale che abbraccia a piovra l’intera città e vede la convergenza di luoghi studiati ad hoc. Non pensiamo certo che Pavia possa equipararsi a

tali intenzioni, ma nelle sue dimensioni raccolte potrebbe realmente trasformarsi in un gioiello atipico della promozione culturale in Italia; usufruendo delle sue risorse naturali, istituzionali e logistiche, specialmente tenendo conto di quelle aree attualmente lasciate in abbandono o aperte sporadicamente. Tenteremo una disamina generale su ciò che si potrebbe convogliare artisticamente in questi “vuoti” partendo da una suddivisione in 3 punti: - le zone industriali dismesse o non utilizzate - i luoghi naturali, o naturalistici, presenti nella città - gli edifici storicamente sorti come simboli di “trasmissione culturale” A) Le zone industriali Pavia ne possiede molte e parte di queste sono lasciate in abbandono, contravvenendo alle potenzialità artistiche ricavabili in tali spazi (va bene il fascino dada nei riguardi dell’oggetto o del luogo spogliato dall’utile, ma non esageriamo). Pensiamo alla Neca (la cui logistica nei pressi della stazione è pertinente in maniera quasi perfetta), alla Snia, all’Idroscalo (riadattabile in un’estetica dai contenuti neo-futuristi), al territorio inesplorato, artisticamente, della Fiera o del Palazzo Esposizioni (in quanto

“contenitore promozionale artistico” nei mesi d’inattività). Le zone industriali consentono di istituire una serie ampia d’intrecci formali artistici, tenendo conto della logica dell’happening e dell’installazione multimediale. In parole più semplici, si potrebbe studiare un serio percorso espositivo connesso reciprocamente alla video-arte, alla pittura contemporanea (pensiamo per esempio alla Street Art di Pho, Rae Martini e KayOne, recentemente ospitata al PAC di Milano) e alle avanguardie sonore industriali. Uno stuolo minimalista di suoni, colori, dimensioni, riflessi, ombre, corpi, seguendo sì l’esempio del Festival di Lipsia poc’anzi accennato, ma anche esperienze italiche come nel caso del Lenz, realtà teatrale d’avanguardia parmense strutturata proprio in una zona industriale di 1000 metri quadrati. Ergo, usufruire di ambienti simili in senso rituale oltre che teatrale (luoghi/location in grado di accogliere e trasformare chi vi entra). Non solo, strutture come quelle della Neca consentirebbero la creazione di locali onde ospitare musicisti, anche di fama internazionale, in seno a tour organizzati in collaborazione con gli enti statali e/o privati della città, le case discografiche e, perché no, importanti periodici nazionali come Rumore (guarda caso pavese). Tutto questo stimo-

lerebbe un ritorno economico, sociale e culturale, enorme per la città. B) Location naturali Altra fortuna di Pavia è quella di possedere al suo interno zone naturali estremamente suggestive. Il caso quindi dell’area Vul, degli Orti Borromaici, dei Giardini Malaspina, del Castello Visconteo in tutti i suoi profili. Beh, qui entrerebbe in campo la chance estetica nei riguardi di una categoria stilistica e musicale in cui l’Italia si difende parecchio bene: il neofolk, la musica medievale e quella da camera. Citiamo alla rinfusa alcuni nomi del settore in causa evocabili: Ataraxia, Camerata Mediolanense, Ianva, Argine, Death In June, Dernière Volonté, Sieben, Ain Soph, Ordo Equitum Solis, e la lista potrebbe continuare. Zone per loro natura caratterizzate da un’intrinseca spiritualità agreste; ecco perché in occasione di stagioni come la primavera, l’estate o l’autunno, organizzare affreschi sonori di tale portata consentirebbe alla stessa città di rievocare il suo significato storico, le proprie origini medievali (delle serate, o festival, in tale prospettiva), ovviamente in combutta con incontri teatrali (pièce volutamente

continua a pagina quattro

Una città di controsensi. Il Sindaco firma un’ordinanza per chiudere un circolo culturale alle dieci (apre alle nove...) e poi lo ringrazia tramite missiva per l’impegno profuso a favore della cittadinanza. Si fa un Festival dei Saperi, ma non si Sa dove finiscono i soldi del Festival. Arriva il papa (il Papa!) e si fa una bella spianata di quegli orti borromaici in cui prima non si potevano neppure organizzare feste! Qualcuno (con il Q maiuscolo) vuol far l’autostrada, e la gente dice che tanto passa a San Martino, mica a Pavia! Forza Nuova apre una sua sede di fianco al Barattolo! Pavia approda alle reti nazionali, e lo fa grazie a un folto gruppo di rom e rumeni che abusivamente abita la ex-SNIA! Ma siamo impazziti? Ci sono evoluzioni possibili a questo scenario? A ben guardare, qualcosa si sta muovendo. Sono nati comitati contro l’autostrada, ci sono stati moti di protesta contro Forza Nuova, articoli sono stati scritti contro la strana gestione del Festival dei Saperi, e una notte bianca è stata organizzata per la maggior parte dalle associazioni giovanili. Cosa c’è di comune in questi movimenti? Sono nati tutti dal basso, da cittadini che si uniscono per fare, per far sentire la propria voce. E’ a questi che guardiamo, quando pensiamo a un futuro possibile e desiderabile per la città. E’ a tutte queste persone e a questi gruppi, che rivolgiamo un sentito ringraziamento. Se qualcosa di buono c’è, a Pavia, nella nostra Pavia, lo dobbiamo a loro.

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oh, scegliamole bene, le frasette, che abbiamo poche pagine...

L’Era del Diritto e l’Idiozia Sportiva Ebbene sì, pare proprio il caso di dirlo: non si era mai caduti così in Basso. Che le vicissitudini decennali dell’ambiente ciclistico internazonale non fossero terminate con l’avvilente(1) caso Pantani era risaputo ormai da tempo. Non che si considerasse poi il ciclismo parentesi a se stante in un mondo sportivo corretto e adamantino(2): si va dall’atletica allo sci, passando per calcio, tennis, nuoto. Basta interpellare zio doppia O(3) per rendersense conto(4). Fatto è che la recente svolta nell’inchiesta “Operacion Puerto”, volta a dipanare(5) la fitta rete di relazioni del magostregone spagnolo dottor Eufemiano Fuentes, supera di gran lunga l’immaginifico tragicomico di qualsiasi tentativo di difesa delle accuse: il provocatorio alibi a sfondo quasi sessuale, meglio noto come “affare tarello” (“tronchetto della felicità” in ambito strettamente giudiziario). Si, perchè questo sarebbe il nome che il nostro prode Ivan Basso avrebbe certificato, tramite apposito, falso, documento dell’anagrafe canina, essere riconducibile al suo fido compagno canuto(nda). Non “birillo” come risultava dalle indagini, ma TARELLO. Particolare non di poco conto se si considera che alcune sacche di sangue congelato, in possesso del sopracitato alchimista, riportavano proprio la prima delle diciture. Codice seppur goliardico, alquanto raffinato. Oltre ad apprendere con un certo rassegnato sgomento l’esistenza di entità ed istituzioni come l’anagrafe canina, che provvederò a smantellare non appena avrò piena possibilità di agire(ndr), il Signor Basso di nome e di spirito, oltre che alla frode in senso stretto, oltre ad esseresi dichiarato per 12 mesi totalmente estraneo ai fatti, lamentando calunnie, minacciando querele, promettendo innocenza e rivelando verità, come poteva credere che non avremmo quantomeno riso anche solo all’idea dell’eventuale veridicità del fatto? Fanno particolarmente senso ad oggi, dopo l’ammissione del coinvolgimento, le dichiarazioni del presidente della Federciclismo, Di Rocco, che lo vorrebbe testimonial di una campagna antidoping. Un uomo così non può essere preso a canone di niente, menchemeno epitome(7) di nulla. Manca solo l’istituzione di una nuova figura giuridica, il dopato&pentito, protetta e garantita a legge, tanto per completare il quadretto italiota

dipinto a tinte tristi. Piuttosto urgono soluzioni efficaci, drastiche e risolutrici. L’idea più pulita, come dichiarato dal poderoso. eroico, scomposto sciatorefigliodihippy Bode Miler, sarebbe certamente legalizzarlo. Doping controllato a tutela dell’utilizzatore cosciente e responsabile. L’ennesimo passo in avanti verso l’eliminazione di ogni vincolo all’agire personale. Chissà che qualcuno degli stati di estrazione pseudolibertaria(8) a me tanto cari (si va dalla Corea del Nord all’Iran, passando naturalmente a tema, per i Paesi Bassi) non decidano di promuoversi pionieri in questo senso, almeno per competizioni nazionali. Se invece bloccassimo il ciclismo professionista, disintegrando in un solo istante l’esistenza del motore primo della questione? Matteo Bertani

Note: (1) Che umilia, rattrista. (2) Dal lat. adamanti°nu(m), dal gr. adamántinos, deriv. di adámas ‘diamante’. (lett.) brillante, puro e terso come diamante. (3) www.google.com (4) Per una panoramica allarmante si veda http://www.sportpro.it/doping/ (5) Dal lat. volg. *depana¯re, comp. di dì ‘de-’ e un deriv. dal gr. pa¯nus ‘gomitolo’. (fig.) risolvere, districare, sbrogliare. (nda) Chiara consonanza con la parola “canino”. Come si confà ai grandi della letteratura, ogni licenza è concessa, l’utilizzo di parole svincolato da ogni dogma linguistico. Tuttavia il lettore “senza pelo” potrebbe carpire un ulteriore riferimento razziale. Alcuni indizi farebbero pensare possa trattarsi di un “bull terrier”. Le fonti, per altro riservate, non garantiscono riscontri. (ndr) Apprendiamo con apprensione dei postumi di esperienze passate (si veda l’articolo “L’era del diritto e la Comune Futuribile”). L’autore soffre tuttora di personalità multiple, crisi di egocentrismo acuto, manie di onnipotenza, come avrete potuto verificare dal testo di cui sopra. Onde evitare il peggioramento della situazione si consiglia di assecondarlo. Ci scusiamo con i lettori per la situazione imbarazzante. Si conceda il fine umanitario. (7) Dal lat. epito°me(m), dal gr. epitomé, deriv. di epitémnein ‘compendiare’. compendio, riassunto, sintesi, esempio. (8) Si gioca semplicemente sulle libertà date/negate dai paesi citati in provocatorio assonanza dissonante con le opinioni ambigue del sottoscritto, che farebbe il fisico nucleare in iran per “esportare” il modello olandese ovunque. No. Non per il motivo a cui state pesando. Almeno: non solo...

periodico mensile Numero 34 Giugno-Luglio 2007

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In questo senso, allora, ogni poesia e una poesia d’amore. Ci si chiede alle volte perché si scriva. Perché si compongano poesie, racconti, romanzi. Che atto sia, insomma, quello di scrivere. Ogni persona che scrive si confronta, presto o tardi, con questa domanda. Questo perché scrivere è interrogarsi, prima di tutto. Non dubito, comunque, che se si chiedesse a più persone il motivo per cui passano ore del loro prezioso tempo a scrivere si potrebbero ottenere le risposte più diverse. Se quindi ci sono persone che dedicano ore delle loro notti a questo lavoro faticoso, senza riceverne nulla in cambio, né in termini di fama né in termini di sostentamento economico, ci deve essere per forza qualche ragione ultima di certo valida. Probabilmente non si tratta di una sola ragione, ma di un’insieme di ragioni, presenti in sfumature diverse in ogni scrittore. Ma vediamo di razionalizzare, facendoci aiutare da qualche contributo “celebre”. Se fossi io stesso a pormi questa domanda, ben conscio di non poter rappresentare nessun campione statisticamente significativo, risponderei che scrivo perché è una mia esigenza, per rendere più chiari i

pensieri che mi affollano la testa, per rivivere una situazione, per raccontare una storia, per combattere battaglie, per gridare il mio amore o la mia indignazione, perché mi piace farlo. Scrivo per rendere più chiare le nubi che mi affollano la testa. Perché così mi riesce più facile esorcizzare i pensieri che salgono dallo stomaco, razionalizzarli, vederli come parole di cui è più semplice trovare punti deboli e combattere faccia a faccia, corpo a corpo. “Nulla di ambiguo, come vedete. Scrivo per far cadere la pioggia. Scrivo per bandire le guerre. Parole per scacciare fantasmi, per riempire il ventre, per dichiarare senza paura ciò che si ama e che si odia” (Wu Ming 5, Bukkake, in Giap, Einaudi, 2003) Scrivo per raccontare delle storie, per narrare, per rinfrescare certe memorie. “Ogni singolo individuo, ogni comunità umana complessa, ha un insopprimibile bisogno di raccontare storie e di sentirsele narrare. Chi volesse confutare quest’affermazione, si troverebbe presto nei pasticci, poiché tale bisogno è parte integrante della

nostra concezione di essere umano e di comunità.” (Wu Ming 2 e Wu Ming 4, Homo fabulans, in Giap, Einaudi, 2003) Scrivo perché mi piace farlo. “Ogni poesia è un atto di amore e di fede. Quello del poeta è un mestiere che rende così poco, sia finanziariamente sia in termini di fama e successo, che l’atto di scrivere una poesia dev’essere un atto che trova la propria giustificazione in se stesso e non mira a nessun altro scopo. Per volerlo fare, bisogna amarlo, quell’atto. In questo senso, allora, ogni poesia è una “poesia d’amore.” (Raymond Carver). Scrivo, sapendo che si tratta di un atto morale. Niente di esaustivo, beninteso. Pochi caratteri a disposizione per la risposta a una domanda così importate. In questa mia breve, ne sono conscio, mancano molti altri contributi fondamentali. Ma ho pensato potesse valer la pena iniziare a pubblicarla così, pronta a calamitare qualsiasi riflessione di chi ci legge. E magari aprire un piccolo dibattito. Paolo Bottiroli [email protected]

Scultura Moderna

Che fine hanno fatto le colonne del Pomodoro? Qualcuno di voi non saprà neanche a cosa mi stia riferendo, qualcun altro (tra cui il sottoscritto) le conosce con il nome “carote rosicchiate”, qualcun altro ancora magari non si è neanche accorto che non ci sono più (il COR su tutti: http://cor.unipv.it/pre/corsi_addestramento/raggiungerci.html). Se volete trovare la risposta alla domanda riportata nel titolo, o se volete conoscere quanto Pavia sia stata interessata alla cultura e all’arte, vi consiglio di continuare nella lettura. Le tre colonne in questione sono state donate dall’autore (Arnaldo Pomodoro) e collocate nel centro del piazzale del Rondò di Borgo Calvenzano nel 1986; esse sono una copia dell’opera originale intitolata “La Triade” realizzata nel 1979 e attualmente ubicata a New York. A seguito di molte polemi-

che sull’ubicazione dell’opera da parte dei cittadini (ostruiva la vista in ingresso alla rotatoria?!?) e da parte dell’autore (era stata relegata in periferia) e, soprattutto, perché versava in cattive condizioni, nel 2002 sono state rimosse al fine di essere sottoposte ad operazioni di restauro. Successivamente, nell’ambito di un progetto itinerante, le tre colonne sono state esposte dapprima a Parigi (primaveraestate 2002) e successivamente a Lugano (marzo-giugno 2004). Infine nell’ottobre 2005, in occasione dei Giochi Olimpici Invernali del 2006, l’opera è stata installata a Torino. Sotto la supervisione dell’autore stesso le colonne sono state montate al centro della rotonda di Corso Maroncelli, arredata per l’occasione con un sistema di vasche circolari atte a riprodurre lo scenario di uno specchio riflettente al centro delle

quali sarebbero sorte le colonne. L’opera di arredamento urbano, del costo di circa 550’000 euro è stata completata da un impianto di illuminazione scenografica. Ora che avete ottenuto risposta, vorrete sapere quando torneranno a Pavia, Città dei Saperi, città vogliosa più che mai di arte e di eventi culturali? MAI. Si, mai. Perché? Perché nel 2002, contemporaneamente alla loro rimozione presentata (o forse camuffata) come necessaria al fine di restauro, l’autore ha deciso di revocare la donazione fatta al Comune (http://www.architettilombardia.com/al/AL200510n4_1223.pdf). Non è che per caso le altre città hanno dato “leggermente” più attenzione all’opera? (http://www.mdam.ch/pomodoro/it/informazioni_pomodoro.html). Ciop

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periodico mensile Numero 34 Giugno-Luglio 2007

[...] 1 Alla Corte di Azathoth È passato senza particolare clamore, lo scorso 15 marzo, il settantesimo anniversario della scomparsa di Howard Philipps Lovecraft, il grande scrittore statunitense nato nel 1890, la cui fama è legata ai suoi racconti dell’orrore. Con la pubblicazione, nel 1928, su Weird Tales del racconto The Call of Cthulhu Lovecraft dà via alla sua più celebre produzione che vede come protagoniste, accanto a inermi esseri umani, le mostruose divinità del suo pantheon, entità onnipotenti e raccapriccianti annidate nelle tranquille campagne del New England, in fondo agli abissi marini o negli spazi tra gli universi, esseri la cui sola visione produce orribili devastazioni fisiche e mentali. Tuttavia Lovecraft non era pienamente soddisfatto dei suoi

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dai ragazzi, ne manca solo una!

racconti; in una sua lettera all’amico Clark Ashton Smith il motivo di questa delusione è evidente e lo scrittore attribuisce la colpa di ciò ad una sua certa incapacità nell’esprimersi, era in pratica convinto di non riuscire a riferire, attraverso la sua opera, le emozioni create in lui da impressioni visuali. Forse è anche per questo che Lovecraft affidò ai versi il compito di trasmettere le visioni che solo in parte riuscivano ad evocare le sue storie, appartiene al 1929 una raccolta di trentasei sonetti Fungi from Yuggoth, nei quali le catastrofiche immagini dei suoi racconti si uniscono all’amore per la sua terra , in particolare per la natale città di Providence. Il sonetto qui presentato è il ventiduesimo della raccolta. Azathoth , di cui il sonetto parla, è il più potente tra gli dei di questo Olimpo folle, in origi-

ne il suo intelletto rivaleggiava con la sua forza ma una guerra tra dimensioni portò alla distruzione della sua intelligenza e per questo viene chiamato “il Dio cieco e idiota”. L’intero universo è in realtà un sogno di Azathoth che dorme nella sua dimora al centro dell ’ u n i ve rs o , quando il Dio si sveglierà il mondo cesserà di esistere.

Alessandro Pellegrino alessandro.pellegrino @hotmail.it

Come si scrive un articolo per Kronstadt Il treno ebbe come un tremito e subito dopo era fermo sui binari. Titti si alzò sulle gambe magre e guardò fuori attraverso il finestrino aperto. La presenza di grovigli di rovi e nutriti alberi segnalava una discreta distanza dalla stazione più vicina. Stanco si risedette. Si chiese cosa avrebbe potuto fare o

XXII. Azathoth Out in the mindless void the daemon bore me, Past the bright clusters of dimensioned space, Till neither time nor matter stretched before me, But only Chaos, without form or place. Here the vast Lord of All in darkness muttered Things he had dreamed but could not understand, While near him shapeless bat-things flopped and fluttered In idiot vortices that ray-streams fanned.

XXII. Azathoth Il demone mi portò fuori nel folle vuoto, accanto ai lucenti grappoli di spazio dimensionato, finché né il tempo né la materia si stendevano oltre di me, ma solo Caos, senza forma o spazio. Qui il vasto Signore di Tutto mormorava nell’oscurità Di cose che aveva sognato ma che non poteva capire, Mentre accanto a lui deformi pipistrelli svolazzavano in vortici idioti trasportati da raggi di luce.

They danced insanely to the high, thin whining Of a cracked flute clutched in a monstrous paw, Whence flow the aimless waves whose chance combining Gives each frail cosmos its eternal law. “I am His Messenger,” the daemon said, As in contempt he struck his Master’s head.

Danzavano follemente al ritmo dell’acuto e stridente piagnucolio Di un flauto spezzato stretto da una zampa mostruosa, Da dove fluivano le insensate onde che legate casualmente Davano a ogni fragile universo le sue leggi eterne. “Io sono il Suo Messaggero” disse il demone, mentre con disprezzo colpiva la testa del suo Padrone

[...] 2 Riscatto dalla brutalità (dead or alive) Il 2 dicembre 1916, a dieci giorni dalla morte di Jack London, sul San Francisco Bulletin, Ernest J. Hopkins scrive: “ Nessuno scrittore, eccetto Mark Twain, ha avuto una vita più romantica di Jack London”. Un romantico, dunque, che per adattarsi agli stretti confini di un’unica, breve vita non dormiva più di quattro ore per notte. Per il resto assaporava il piacere del lento spiegarsi di un’appassionata ed intrepida esistenza. Finì così per essere considerato il più animoso scrittore della sua epoca: le sue gesta erano sconsiderate ed insolenti, la sua dottrina intrisa di un evidente realismo socialista, la sua indole screziata di una sediziosa combattivi-

tà, eppure la gente lo considerava una celebrità. Fu la ricerca interrotta di quel significato che perennemente sfugge (in un’epoca destituita di ogni valore) che portarono London a scappare dalla vita di città da lui stesso definita ‘trappola per uomini’ e rifugiarsi in una fattoria in California. Qui continuò a scrivere articoli, piccole storie e romanzi. Spese anche una quantità indefinita di tempo sulla sua barca, in viaggi che duravano anni. Nel 1914 il suo stile di vita aveva ormai compromesso la sua salute che giorno dopo giorno diventava sempre più precaria: disturbi ai reni, al fegato, allo stomaco, al cuore. I medici lo incalzavano a calmarsi, a cambiare le sue abitudini, a non fare più uso di alcol e droghe; sua moglie Charmian lo portò

I would rather be ashes than dust! I would rather that my spark should burn out in a brilliant blaze than it should be stifled by dryrot. I would rather be a superb meteor, every atom of me in magnificent glow, than a sleepy and permanent planet. The proper function of man is to live, not to exist. I shall not waste my days in trying to prolong them. I shall use my time.

alle Hawaii. Ma il 22 novembre del 1916 morì di avvelenamento uremico gastrointestinale. Sul mio libro di letteratura americana c’è scritto invece che si suicidò. Strano, dal momento che è noto che i giorni prima della sua morte tutti lo videro pieno di entusiasmo e di vitalità. Inoltre ho sempre assaporato i suoi scritti come inni alla vita, piuttosto che alla morte. Sì, London era tormentato e disperato; le sue parole erano più esaustive della sua stessa vita; talvolta la malinconia che gli attraversava l’anima era così spessa, dura e inamovibile che avrebbe potuto ucciderlo. Ma è anche vero che aveva stillata dappertutto, dentro e fuori una passione vitale, sapeva di arte. Forse London ci ha illuso con

un improbabile maschera da artista da strapazzo, scribacchino della domenica, millantatore e dispacciatore di versi mai in rima e antisonanti. Potremmo dirci che la vita nel mondo scorre anche senza la sua ombra di scrittore chiuso nel suo ranch a contare pagine di libri, disegnare con la mente e bere litri di alcol. Ma sappiamo bene che non e’ vero, che lui e’ stato chiamato a combattere con se stesso per lasciare un segno nella storia. Sappiamo anche che non verrà studiato a scuola, che non verrà ricordato come eroe. Però sentiamo come nel suo adoprarsi ad essere se stesso abbia lasciato un segno nella letteratura americana del novecento e noi gli saremo grati per sempre. Sara Faggiano [email protected]

Vorrei essere cenere piuttosto che polvere! Vorrei che la mia candela bruciasse in una fiamma splendente Piuttosto che essere soffocata da marciume secco Vorrei essere una splendida stella cadente, ogni atomo di me in una magnifica incandescenza piuttosto che un dormiente e immobile pianeta. La giusta funzione dell’uomo è di vivere, non di esistere. Non devo sprecare i miei giorni cercando di prolungarli. Devo usare il mio tempo.

vedere se fosse sceso in quel momento. E scattò in piedi. Ecco che subito stava camminando lungo il lato della ferrovia, portava uno zaino nero, in spalla. Trovava un passaggio tra la vegetazione e scendeva lungo il pendio. Un cagnolino gli veniva incontro, piano, timido ma beffardo. Portava un fazzoletto blu intorno al collo. Titti lo guardava incerto e proseguiva. Il sole era alto e Titti appoggiandosi al tronco di un albero notava il cane che a distanza lo teneva d’occhio. Appariva quasi dal nulla una piccola casa, l’intonaco bianco scrostato, incorniciata da foglie e rami. Tre scalini salivano alla porta e su quello più basso stava un vecchio dall’aria assorta. Si reggeva a un bastone, gli occhi ciechi velati di bianco opaco. Subito si avvicinava a Titti e chiamava “cchi è? cchi è?” con una vocetta acuta “Sstelliina, cchi è?” ; “sono io” rispondeva Titti tranquillo, “ posso entrare?” “ssii”. La casa era buia e l’odore di fumo impregnava le stanze. Il vecchio indicava a Titti una sedia, si sedeva di fronte a lui, accendeva una sigaretta e lo guardava coi suoi occhi vuoti. Stellina intanto entrava esitante dalla porta d’ ingresso lasciata spalancata e si acquattava fissando Titti con diffidenza. Il vecchio passava a Titti un ritaglio di giornale ingiallito. Titti lo guardava e rideva, rideva. Il suo sguardo si faceva cattivo mentre posava gli occhi sul vecchio che, con le mani nodose appoggiate alle ginocchia, continuava a fumare guardandolo spento. Titti sapeva chi era il giovane che ammiccava dalla foto sul ritaglio. La risata di Titti si faceva ora spessa e volgare, Stellina lo fissava con un’espressione di biasimo. D’un tratto Titti sferrava un calcio alla sedia, il vecchio cieco cadeva carponi. La luce veniva meno in quella casa già buia, Titti non vedeva più, ma sentiva il suo corpo muoversi efferato, sentiva il suo respiro faticare nel petto, e poi lontanissimo immaginava un flebile lamento, un rantolo disfatto. Usciva dalla casa, il sole lo abbagliava, risaliva il sentiero con il suo zaino sulla spalla. Stellina lo seguiva per un pezzo e poi, si fermava e lo guardava andarsene composta. Una scossa e il treno era di nuovo in movimento, scivolando veloce sui binari, Titti si svegliò di soprassalto, madido di sudore, con un fischio continuo nella testa. Scrutò fuori velocemente dal finestrino, tra pochi minuti il treno si sarebbe fermato alla stazione e Titti si preparò a scendere. Emanuela Iannotta

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periodico mensile Numero 34 Giugno-Luglio 2007

ma vaffanc..lo! te e ste c..o di frasette!!!

vita pavese

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Il Gambero Rotto presenta:

Reg. Trib. PV n°594 - Stampa: Industria Grafica Pavese sas, Pavia - Chiuso in Redazione 25-6-2007 - Tiratura 2000 copie - 2007, Alcuni diritti riservati (Rilasciato sotto licenza Creative Commons 2.5 by-nc-sh)

Guida ai kebab di Pavia ovvero Lo prende completo? Il cinese è la solita pizza? Le costose piadine ce le permettiamo solo per le occasioni speciali? Allora non c’è dubbio: sei un tipo da kebab e questo articolo è dedicato a te. Da anni Kronstadt combatte in favore della società multietnica e come non dedicare un omaggio ai sapori che l’immigrazione, clandestina e non, ha portato nelle nostre cene! Un equipe di volenterosi composta unicamente dal sottoscritto ha girato per i kebabbari del centro di Pavia ed ecco cosa abbiamo concluso. Il premio della critica va ad Eurokebab di c.so Garibaldi. Piadine di produzione propria, lattuga sempre fresca e squisita cortesia. Per quelli con tanto di pelo sullo stomaco c’è una vera chicca: la famigerata pizza-kebab. Al modico prezzo di cinque euro e cinquanta scoprirete una prelibatezza che vi sazierà per un giorno o due. Dato che non stiamo qui a fare markette segnaliamo una certa disfunzione nelle consegne a domici-

lio, molto lente, ed un menù non troppo ricco. Prezzo standard del kebab tre euro e cinquanta. Voto: Una legge empirica ci dice che il kebab davvero buono lo mangi nei posti che hanno tutta l’aria di essere la copertura di una cellula di Al Quaeda. Se questa legge è vera il kebab che trovi nell’angolo fra c.so Manzoni e la stazione dei treni (via Guidi) è il migliore di Pavia. I kebab in effetti sono molto sugosi e abbondanti, sempre che vi facciate mettere le patatine fritte. E qui dobbiamo accennare all’eterna questione fra le due scuole di pensiero: chi ritiene le patatine nel kebab una delizia e chi le vede come un orrendo imbastardimento. Ai vostri palati l’arduo giudizio. Il kebab ha il prezzo standard di tre e cinquanta patate incluse. Voto: e 1/2

lino con tanto di coltello e forchetta, vi consigliamo il kebab di c.so Cairoli. Al solito prezzo vi serviranno un kebab molto pastoso e sapido, che può piacere molto o no (noi no). Il pezzo forte della ditta sono le mille specialità arabe che vi serviranno su richiesta, dai primi ai dolci. Voto: Infine segnaliamo un kebab di nuova acquisizione in via Bossolaro accanto al cinema Corallo Con una strategia commerciale da far invidia al Mcdonald propone un menù fisso kebab + patatine + coca da cinque euro venti. Che dire dopo averlo provato? Certo lo stomaco era bello satollo ed a modico prezzo, ma sinceramente il panino-kebab non lascia un gran ricordo di sapori, per non parlare delle mediocri patatine. Farà di-

scutere la novità dei cetriolini nel panino: danno una nota di freschezza ma... non convincono, poco da fare. Voto: Il portafoglio ed il dietologo ci hanno proibito di recensire i kebabbari fuori dal centro, anche se una bella passeggiata ci avrebbe fatto bene; d’altronde non possiamo chiudere senza un commento sui falafel, una specialità sconosciuta ai più. Essi sono delle temibili polpette di ceci e possono essere serviti nella classica piadina al posto della carne. Provocheranno nel vostro lato oscuro della forza alitosi e flautolenze che non avreste mai sospettato, per giorni e giorni. Sono consigliati ai solitari, a chi ha amici/partner privi di olfatto od agli autentici schifosi. S.D.

Se non avete troppo fretta, e volete gustarvi una bella cena seduti a un tavo-

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Pavia dismessa: una piccola Lipsia in potenza? ricondotte all’epoca) e letture poetiche. In quest’ottica i Giardini Malaspina rappresentano una via mediana tra la struttura industriale e quella naturalistica, non a caso sono stati scelti per il Festival Dada-Industriale di luglio. Consentono l’interagire concettuale di più anime, meglio ancora di molteplici interpretazioni e direzioni estetiche. I gruppi coinvolti infatti, benché provenienti culturalmente dalla prima scuola industrial, ne sviluppano il senso più rituale, simbolico, pagano, ambientale o post. Quindi terrestre anziché artificiale, come la struttura che li ospiterà. c) Gli edifici di “trasmissione culturale” Chiudiamo postulando non provocazioni ma idee alternative collegabili a strutture già utilizzate nella città e direttamente coinvolte nel motore primo: gli studenti. L’Università (collegi inclusi), il Teatro Fraschini e Il Conservatorio Vittadini potrebbero rientrare, con vigore, in questa promozione sinergica d’ampliamento degli spazi culturali. L’Università non solo possiede l’enorme struttura centrale, contraddistinta da chiostri e cortili naturali da cui poter ricavare (secondo una metodica itinerante composta in stazioni) installazioni pittoriche e scultoree in cooperazione con performance teatrali

(consentendo un solidale supporto verso i giovani talenti italiani, volendo studenti o compagnie della stessa città), ma anche la concreta-postindustriale struttura della Nave. Che dire poi degli spazi del Conservatorio e del Teatro Fraschini, collocabili in una visione più europeista che sappia porsi oltre i confini accademici di settore favorendo l’intreccio tra filarmoniche imparentate pure col rock o le avanguardie. La possibilità evidente di poter trarre da queste realtà preesistenti gli spunti per dibattiti con artisti nazionali ed internazionali, magari in seno all’idea di Festival, o Evento, in cui si vuole ospitarli. Personaggi del calibro di Lou Reed, Diamanda Galás, Einstürzende Neubauten, Brian Eno, Meira Asher, hanno tenuto dibattiti in Università statali come quelle di Milano, Bologna, Roma, Firenze… Perché non Pavia, considerando che è una delle più antiche ed importanti del nostro paese?! “…abbiamo bisogno di andare nelle strade! Dobbiamo distruggere quest’architettura che separa gli uomini. Dobbiamo andare verso l’uomo nella strada per fargli conoscere le sue possibilità di essere”. (Julian Beck, da “Il Lavoro del Living Theatre”, Ubulibri) Stefano Morelli

I disegni in questo numero sono di Alice Tassan Alla foto di copertina hanno collaborato Simone Leddi, Matteo Pellegrinuzzi e il dottor Gonzi. La vignetta che non è presente in questo numero sarebbe stata di di Matteo Amighetti e, chissà, magari avrebbe ritratto il dottor Gonzi Conduce... Iva Zaaaaaaaanicchi! Va bè.... abbiamo chiuso l’anno, un po’ di demenza ci sta...

KRONSTADT: iniziativa realizzata con il contributo concesso dalla Commissione A.C.E.R.S.A.T. dell’Università di Pavia nell’ambito del programma per la per la promozione delle attività culturali ricreative degli studenti. Altre entrate sono rappresentate da eventi culturali, feste, concerti, il sangue di chi collabora, libagioni e gozzoviglie varie

- Simone Marini, direttore, [email protected]; - Simone Leddi, fotografie, [email protected]; - Luca Schiavi, impaginazione e grafica, [email protected];

ronstadt periodico mensile Numero 34 www.kronstadt.it

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