Music In N. 9 Primavera

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24-04-2009

17:58

Pagina 1

PARACADUTARIA

TI SI APRE UN PORTAL di Adriano Mazzoletti

Periodico di informazione, attualità e cultura musicale a cura del Saint Louis College of Music

Primavera 2009

PERIODICO DI INFORMAZIONE, ATTUALITÀ E CULTURA MUSICALE A CURA DEL SAINT LOUIS COLLEGE OF MUSIC

di Giosetta Ciuffa Giovanni Allevi si è laureato in Filosofia con la tesi «Il vuoto nella Fisica contemporanea»; un suo omonimo, Giovanni, conosce bene il vuoto di un uomo in un corpo di donna (sempre fisica è). Lo interpreta un grande Roberto Herlitzka in Aria, film che lo stesso regista Valerio D’Annunzio definisce «un lancio senza paracadute». È proprio nell’aria che si lancia un paracadute, poi si sta in silenzio ad ascoltare suoni naturali e attendere l’impatto con la terra, morbido o duro, il confronto tra il sogno - quello fatto volando - e la veglia di chi non dorme mai. (...)

Pochi sanno - o meglio è ormai dimenticato che il primo ad utilizzare il clarinetto basso nel jazz moderno è stato un italiano, Aurelio Ciarallo, clarinettista diplomato a Santa Cecilia. Una sera uscendo dal Conservatorio di Via dei Greci, passando da Via del Corso di fronte alla «Conchiglia» all’epoca sede del Jazz Club Roma, incuriosito dalla musica che ascoltava in lontananza entrò nell’ultima sala dove si stava svolgendo una jam session. Colpito da quella musica che non aveva mai udito prima, abbandonò Mozart per dedicarsi al jazz. (...)

 CONTINUA NELLA PAGINA SOUNDTRACKING

BALLET

LE MADRI DELLE FIDANZATE di Romina Ciuffa Confondiamo Opera ed operai tutte le volte in cui trattiamo i musicisti come salariati e, ciononostante, li priviamo di una dignità professionale. Succede perché le madri delle fidanzate li considerano «scansafatiche», perché le Scuole di musica non sono equiparate alle Università alla stregua dell’Accademia di Belle Arti (che un impervio percorso ha dovuto compiere per dare un senso al «pezzo di carta»), perché il sindaco di Roma è anche presidente del Teatro dell’Opera di Roma, e perché il Fondo Unico dello Spettacolo è gestito sempre da politici che sono i genitori delle fidanzate. Io - quando il ministro dei Beni Culturali Sandro Bondi ha commissariato il Teatro capitolino e nominato commissario straordinario, nella patria delle multiple cariche, il sindaco di Roma - nel dubbio ho sentito Federico Mollicone. (...)

 CONTINUA NELLA PAGINA JAZZ&BLUES

JOAQUIN CORTES

Ppop&rock OPCK

 CONTINUA NELLA PAGINA BEYOND

LENNY KRAVITZ

Direttore ROMINA CIUFFA Direttore Responsabile SALVATORE MASTRUZZI Redazione Romina CIUFFA [email protected] Flavio FABBRI [email protected] Rossella GAUDENZI [email protected] Valentina GIOSA [email protected] Roberta MASTRUZZI [email protected] Corinna NICOLINI [email protected]

Progetto grafico Romina CIUFFA Impaginazione Cristina MILITELLO Logo Caterina MONTI

Redazione Via del Boschetto, 106 - 00184 Roma Tel 06.4544.3086 Fax 06.4544.3184 Mail [email protected] Marketing e Pubblicità Mail [email protected] Tipografia Ferpenta Editore Via Tiburtina Valeria, Km 18.300 Guidonia Montecelio - Roma Contributi Elisa Angelini, Lorenzo Bertini Nicola Cirillo, Giosetta Ciuffa Stefano Cuzzocrea, Cristina D’Eramo Alessandra Fabbretti, Gianluca Gentile Chiara Grimaldi, Adriano Mazzoletti Paolo Romano, Eugenio Vicedomini Livia Zanichelli

Anno III n. 9 Primavera 2009 Registrazione presso il Tribunale di Roma n. 349 del 20 luglio 2007

STEFANO MASTRUZZI EDITORE

CLASSI CA MENTE

SHROEDER E LUCY BRONZO DI TIVOLI TOO LANDMARK PLAZA, ST. PAUL

BEYOND &further

NORA, THE PIANO CAT

UN PESO E DUE MISURE L’uomo ha bisogno di misurare tutto il suo mondo per poterlo definire nel suo peso, nel suo spessore, nella sua importanza, e per poterlo facilmente paragonare ad altri oggetti omologhi e compilare le classifiche su tivvusorrisiecanzoni. Mi occupo di musica da più di vent’anni, ma solo recentemente ho compreso quali siano i vari gradi di percezione che il pubblico utilizza per definire un artista come un genio o squalificarlo come pezzente. Secondo una probabile futura indagine Istat, il 96 per cento degli italici - fra cui comprendiamo la maggior parte dei senatori - misura la statura di un personaggio, cantante, attore o musicista che dir si voglia, in base al successo: quindi Lori Del Santo ha più spessore di Arnold Schoenberg (nella foto). Da un certo punto di vista non posso che trovarmi d’accordo, anche se lo spessore cui penso poco inerisce al talento artistico. L’altro parametro è quello della monetizzazione: se dalla tua occupazione ottieni un guadagno hai comunque vinto, il tuo pensiero merita di essere amplificato nel salotto di Raiuno e certamente varrà di più rispetto a quello del carrozziere da mille euro al mese. Quasi a riprendere un po’ il concetto calci-

stico per il quale chi segna ha sempre ragione. Si tende purtroppo a confondere l’arte con lo spettacolo, la cultura con gli indici di ascolto, una bella canzone con l’estratto conto Siae, a giudicare la passione di un pianista in base alla sua notorietà o la qualità di un chitarrista dai salti che fa sul palco. Johann Sebastian Bach ha definito la musica come l’arte che ci permette di non sentire dentro il silenzio che c’è fuori; magari ai suoi tempi sarà stato pure vero, ora però là fuori c’è un gran rumore. Con internet che ha reso possibile la libera e istantanea ma non sempre proficua - circolazione delle idee, anche le più idiote; con il computer che consente a tutti di dire la propria, spesso senza alcuna cognizione o competenza; con la televisione che crea personaggi del tutto impreparati che la gente si beve; ma questo non è il bello della democrazia, è il turpe del dilettantismo. D’altronde ancora c’è chi definisce Carla Bruni una donna in gamba, ma se lo fosse stata davvero sarebbe diventata lei presidente di un Paese e non avrebbe dovuto sposarne uno per sedere in un’auto ministeriale; per non parlare poi di come canta.

Stefano Mastruzzi

RIVISTA primavera.QXP

22-04-2009

13:49

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J AZZ & blues a cura di ROSSELLA GAUDENZI

 CONTINUA DALLA PRIMA PAGINA

Music In  Primavera 2009

MICHEL PORTAL Poliedrico, sceglie Brahms e Stockhausen, Galliano e Fresu, libera improvvisazione ed Ellington. Tutti per uno (uno per tutti). di ADRIANO MAZZOLETTI

TI SI APRE UN PORTAL (...)

Era il 1950. Immediatamente Nunzio Rotondo gli propose di entrare nel suo gruppo e di utilizzare il clarinetto basso strumento fino allora assai poco impiegato nel jazz. Solo Jelly Roll Morton in If Someone Would Love Me (1930) aveva previsto una parte scritta per questo strumento eseguita, forse, da Ernie Bullock.

Anche Harry Carney con Duke Ellington lo utilizzava soprattutto negli assieme orchestrali (Mood Indigo) assai raramente in assolo. La prima volta che il clarinetto basso in sibemolle venne utilizzato negli Stati Uniti, in una incisione di jazz moderno, fu nell’aprile 1958 quando a Los Angeles Eric Dolphy incise con il Quintetto di Chico Hamilton. Ben cinque anni dopo le incisioni di Rotondo, dove il suono del clarone di Aurelio Ciarallo, si amalgamava perfettamente, nelle parti arrangiate, a quello della tromba del leader e del sassofono di Gino Marinacci. Non so se furono le incisioni di Ciarallo con Rotondo a destare l’interesse per questo strumento oppure quelle di Eric Dolphy.

Sta di fatto che, quasi contemporaneamente, due musicisti europei - il francese di origine basca Michel Portal e il bergamasco Gianluigi Trovesi - si dedicarono a questo strumento. Il settantaquattrenne Portal è da tempo il solista di clarinetto basso più ammirato e stimato non solo nel mondo della musica improvvisata, ma anche in quello della musica classica contemporanea. Nella prima è ben nota la sua attività con musicisti europei e americani, Bernard Lubat, Daniel Humair, John Surman, Richard Galliano, Paolo Fresu, Jack De Johnette, Dave Liebman, Howard Johnson, Sonny Murray. Nella seconda è il prediletto di grandi musicisti contemporanei che lo richiedono per l’interpretazione delle loro composizioni. Difensore ad oltranza del free e dell’incontro musicale aperto, il suo gusto lo porta verso l’enfatizzazione, che raggiunge spesso momenti di brio con un trascinante senso del ritmo ed altri di grande tragicità. A Portal va anche il merito di aver dato al jazz europeo una sua originalità, avulsa dall’imitazione del jazz originale. È stato uno dei primi, inizialmente con il New Phonic Art, basato sulla improvvisazione collettiva e, nel 1971 con il Michel Portal Unit, ad inserire nel linguaggio jazzistico elementi della cultura musicale europea, colta, ma soprattutto popolare. Se vogliamo, Portal nel jazz europeo è stato un caposcuola, ma è soprattutto un musicista colto con stile e sonorità strumentali assolutamente personali.

LE MUSE RACCOLTE

Le Muse scelgono Enrico Rava, Sergio Rubini e Andrea Camilleri per un requiem: il primo lo suona, il secondo lo narra, il terzo lo scrive. È la storia di un suicida, le origini del jazz afro-americano, le vicende della Sicilia fascista. Poi Roma, Palermo e la New Orleans dell’uragano Katrina

i sono quattro Muse quest’oggi sedute alla tavola rotonda delle Arti. C’è Clio, musa della Storia, incoronata d’alloro; c’è Euterpe, musa della Musica, che si accompagna con il flauto, ghirlande e fiori tra i capelli; c’è Calliope, musa dell’Eloquenza e della Poesia Epica con stilo e tavoletta tra le mani, e c’è Melpomene, musa della Tragedia, che sorregge la maschera tragica ed un pugnale insanguinato. Dialogano a bassa voce, hanno il difficile compito di stabilire in quale modo e attraverso quali artisti diffondere i propri talenti. Non impiegano poi molto tempo. Hanno deciso, e la scelta è caduta sul trombettista Enrico Rava, sullo scrittore Andrea Camilleri e sull’attore Sergio Rubini. «Requiem per Chris», in scena all’Auditorium Parco della Musica il 24 aprile, è il risultato di un lavoro corale. Tratto da un soggetto inedito di Andrea Camilleri, è stato inserito tra i progetti curati da Enrico Rava, che ha gestito per questa stagione la rassegna Carta Bianca. Alla voce narrante di Rubini, affermato nome del cinema italiano (pregevole attore-sceneggiatore-regista non a caso scoperto da Fellini) si affida la vicenda del trombettista Chris Lamartine, personaggio di fantasia morto suicida in giovane età nel 1917. Si intrecciano passato remoto e passato recente, le origini e la storia del jazz afro-americano alle vicende della Sicilia fascista; si sovrappongono Palermo, Roma e la New Orleans devastata dall’uragano Katrina. Frammenti sospesi tra tempo e spazio, in bilico tra la tromba di Enrico Rava e quella di Chris Lamartine. Il trombettista italiano più celebre al mondo che ha collaborato con i grandi del jazz (da Jack de Johnette a Pat Metheny, da John Abercrombie a Richard Galliano, a Steve Lacy) con il suo spirito indomito e la sua immediatezza dà linfa vitale e ritmo all’opera di Camilleri. Tragica, suggestiva e struggente.

C

Rossella Gaudenzi

SESSION VOICES Cosa succede a CAMILLERI-RAVAproporre un po’ di Seeger-Springsteen? RUBINI Un ellepi fantaCoro femminile e recupero del folk sma, l’uragano alle porte

ALAMBICCO GOSPEL Dal Tennessee allontanato ogni rischio di erudizione e di alambicco filologico recupero della tradizione folk statunitense Il pare essere operazione in voga nel corso degli ultimi anni; dopo la nascita dei molti centri di studio e ricerca nati qua e là nella «pancia» degli Usa, a partire dalle tante cittadine del Tennessee intorno a Nashville (dove sorge il più grande museo di musica country e folk nazionale), giù giù fino alla Louisiana (che è e resta il brodo primordiale della musica afroamericana prima del big bang che ha prodotto la fortunata «diaspora» dei musicisti verso le coste e il centro degli Stati Uniti). Con operazione un po’ «furbacchiona» ma commercialmente lungimirante, come pure è avvezzo, è stato il Boss Springsteen a intuire le potenzialità di questo recupero e allontanatolo subito da ogni rischio di erudizione e di alambicco filologico s’è impossessato della musica di Pete Seeger e ha registrato un album (molto bello a dire la verità), con tanti brani di uno dei padri nobili del folk bianco, riarrangiati a puntino e stratosfericamente energici e vitali. Dev’essere questo, forse, il contesto che ha mosso Laura Montanari e le sue complici a provare a verificare cosa poteva succedere a proporre un po’ di SeegerSpringsteen (perché quanto il secondo abbia mediato nella sensibilità delle ragazze è evidente) in formato gospel. E così le Session Voices hanno iniziato a cantare brani meravigliosi da Oh Mary don’t you weep, fino a Jacob’s ladder e ancora John Henry. E già la contaminazione è servita: coro femminile bianco, recupera la tradizione folk americana nella forma nera del gospel. E da lì, le sette «voices» hanno iniziato ad arrangiare e cantare un vasto repertorio di musica tradizionale spiritual, soul e blues. E la ricetta funziona! A dispetto di una qualche perplessità con la quale pure avevo approcciato l’iniziativa (confesso e abiuro). Funziona perché le Session Voices trasmettono una carica ed una effervescenza davvero notevoli con le loro performance dal vivo e funziona perché

dietro ognuna di loro (ma non trascuriamo l’importante apporto della chitarra e della batteria) c’è una brava solista e musicista, capace di far brillare le canzoni con arrangiamenti solidi e ricchi di tessiture intriganti. La tradizione musicale cui il gruppo fa riferimento è trattata con grande sensibilità, frutto di autentica passione di conoscenza, e trova riferimenti sicuri nelle signore in nero del blues e del jazz (da Bessie Smith, ad Ella Fitzgerald fino a Carmen Mac Rae), nei moderni stilemi dei Take 6 e anche nelle riletture del Vocalese dei Manhattan Transfer. Ma soprattutto è l’entusiasmo contagioso che sanno trasmettere a fare da stella cometa per entrare in contatto con il pianeta delle SV, che fanno della musica popolare, folk in senso

pieno e autentico, il luogo eletto per celebrare la musica e i suoi simboli. Molti i progetti in cantiere e molte le date live per poterle ascoltare (entrambi disponibili sul loro myspace virtuale) e che già le hanno portate lo scorso luglio al prestigioso e oramai ultradecennale Varese Gospel Fest. Insomma, ci sono tutte le premesse per dare una buona notizia alla musica italiana, mentre può legittimamente crescere la curiosità per l’avvio di una produzione originale di brani che - garantiscono le SV - è in via di realizzazione. Paolo Romano

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22-04-2009

15:04

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Music In  Primavera 2009

MARIA PIA DE VITO Non esiste una voce, ma «le» voci. Non esiste una personalità, ma «le» personalità.

JUDY NIEMACK Una californiana che è un tributo alla notte, a 7 anni cantava nelle chiese, il suo jazz «twists, turns, scats, leaps and bounds» con grazia olimpionica

MARIA PIA DE VITO: LA MOTIVATRICE

otremmo definirla Maria Pia la pasionaria, volendo osare e puntare il tutto e per tutto sulla P sua forte personalità innovatrice, «rivoluzionaria» appunto. La celebre cantante, compositrice ed arrangiatrice partenopea che il mondo della musica jazz segue con interesse e stima da oltre trent’anni è una delle perle nostrane che all’estero tanto ci invidiano – il suo nome è stato inserito dalle più celebri firme del giornalismo musicale americano nella prestigiosa categoria Beyond Artist del Down Beat Critics Poll 2001 accanto ad artisti come Caetano Veloso, Joni Mitchell, Cesaria Evora…–. Ha iniziato l’attività concertistica a metà anni Settanta come cantante e strumentista, accompagnandosi con percussioni e piano e concentrando l’attenzione sulla musica etnica, in particolar modo mediterranea e balcanica. Poco dopo viene rapita dalla scena jazzistica, collezionando collaborazioni importantissime: da Kenny Wheeler a John Taylor; da Joe Zawinul a Michael Brecker; da Dave Liebman a Steve Turre, a Paolo Fresu, a Giorgio Gaslini, a Rita Marcotulli, per citarne alcuni. La sua ultima opera discografica è Dialektos (per l’etichetta Parco della Musica/Egea, 2008), disco nato dall’incontro tra la sua vocalità ricca di sfumature e le note pianistiche dell’inglese Huw Warren: è lo scambio di due menti creative, versatili, fantasiose e raffinate che hanno saputo trovarsi in un progetto volto a sperimentare le molteplici possibilità della voce insieme ad innovazioni pianistiche. La vita artistica di Maria Pia De Vito si scinde tra registrazioni, concerti ed insegnamento. La dimensione della didattica rappresenta un momento di particolare rilievo, vitale e necessario. Per il secondo anno consecutivo Maria Pia tiene presso il Saint Louis College of Music un Corso di Perfezionamento di Canto Jazz con cadenza mensile, ogni incontro della durata di oltre sei ore, seguito con altissimo interesse da allievi provenienti dalle regioni più diverse. Così racconta la propria formazione. Sono totalmente autodidatta, sul versante jazzistico. Anche se poi non si impara mai del tutto da soli, quando si è insieme ad altri musicisti. Il pianoforte è stato il mio strumento guida, mi sono circondata di libri e libri di piano e armonia; tutto ciò al fine di sviluppare la mia vena compositiva. Napoli, la mia città, è un focolaio di talenti, lì non mancano mai, è stato un ambiente sempre molto stimolante. Il passaggio da Napoli a Roma avviene quando Maria Pia ha ventisei anni, e già possiede un’esperienza di insegnamento. Avevo ventun anni quando ho iniziato a insegnare tecnica di canto, risiedevo ancora a Napoli.

JAZZ & blues

di Rossella Gaudenzi L’insegnamento del canto jazz è arrivato dopo tre o quattro anni. La didattica è stata per me una fonte di lavoro e di sostentamento vera e propria. L’insegnamento mi garantiva da vivere e non solo, mi ha dato la possibilità di fare le scelte per ciò che amavo. Dopo una lunga fase di insegnamento del canto jazz, ormai in pianta stabile a Roma, è arrivato un momento molto significativo: dal ‘90 ho iniziato a prendere parte ai seminari del Nuoro Jazz Festival. Il seminario rappresenta la forma di insegnamento a me più congeniale, entro un contesto importantissimo. Quei dieci giorni annui trascorsi con allievi e altri musicisti danno vita ad uno scambio, ad un laboratorio creativo. Questa è la mia vena di didatta, l’essere una motivatrice. Mi considero in primis una concertista, e ciò che è per me importante trasmettere è un’esperienza, un metodo. Nessuno mi deve riprodurre, nessuno mi deve somigliare. Non esiste una voce, ma «le» voci, non una personalità, ma «le» personalità… Certamente tutto si impara per imitazione, ma per trovare poi «le proprie cose». Ecco che allora il mio diventa un lavoro di formazione dell’artista. C’è stato anche un periodo di assenza dalla didattica; dal ‘95 ha poi smesso di insegnare privatamente, l’incremento dell’attività di concertista le ha imposto delle scelte. Credendo fermamente nella necessità di continuità e di costanza per apprendere, ha deciso di lavorare con allievi già indipendenti. Accolgo con maggiore entusiasmo le richieste di livello avanzato. Cerco di far misurare gli allievi con l’armonia, con la trascrizione degli assoli. Non creo le fondamenta, ma vado ad operare laddove c’è già un livello intuitivo, psicologico, emotivo. Una volta che si dà per scontato che ci siano A, B, C e D, ossia il «cosa», si passa al «come». Da tutto ciò io traggo un arricchimento pazzesco. Toccare con mano il talento dei miei studenti è commovente: mi sento utile, ho davvero costruito qualcosa. Incontrarli a distanza di tempo e constatare la loro crescita… Ciò che ho dato torna indietro decuplicato.

JUDY NIEMACK AUDIOLEZIONI DA BERLINO

avuto il piacere di incontrare Judy al Ho Jazz Institute di Berlino dove è responsabile del corso di canto jazz. L’appuntamento era previsto nella grande sala d’attesa di questo punto di riferimento per i giovani e aspiranti musicisti tedeschi. In sottofondo note di piano, melodie di sax, una voce lontana che intona la spensierata Beautiful Love. Ecco che arriva: capelli rossi, sorriso smagliante e una bellezza tipica delle vecchie attrici di Hollywood. Una carriera luminosa e tante le soddisfazioni. Inizia a girare l’Europa con il gruppo Pipedreams e da quel momento non si è più fermata. Collabora con David Byrne, George Benson, Lee Konitz, Dave Brubeck, Cedar Walton, Kenny Werner, Joe Lovano, Eddie Gomez, inciso nove dischi, pubblicato metodi di canto. Una voce che racchiude innocenza e universalità. Attualmente Judy Niemack vive fra Berlino e New York dove sta ultimando il suo nuovo libro All Kinds of Blues: The Jazz/ Pop vocalist’s guide to improvising e sta lavorando al suo nuovo disco In the Sundance, album che si preannuncia fresco ed estivo e che fra le cover contiene anche il brano italiano Estate. Com’è nata la tua passione per il jazz? Sono arrivata al jazz dopo aver esplorato la musica classica, il folk e il rock.

Quando hai capito che volevi fare della tua voce il tuo lavoro? All’età di 17 anni. Ho cominciato a studiare con un insegnante della mia città, Pasadena, California. Si chiamava Primo Lino Puccinelli, era un cantante d’Opera giunto in America dall’Italia durante la seconda guerra mondiale. Lui mi ha insegnato il metodo del Belcanto. Faceva anche del buon vino che ogni tanto mi faceva assaggiare dopo la lezione. È stato un insegnante favoloso. So che una delle tue prime esibizioni internazionali è stata quella del Pisa Jazz Festival… Si, viaggiavo con un clarinettista free-jazz, Perry Robinson, un chitarrista e un altro vocalist. Il gruppo si chiamava Pipedreams. È stata una meravigliosa esperienza, a tratti surreale per me. Non capivo una sola parola di italiano e mi sentivo come in un film... ma ho trascorso delle giornate bellissime e la gente era stupenda. Hai collaborato con David Byrne, George Benson, Lee Konitz, Eddie Gomez, tanto per nominarne qualcuno. Qual’è stata l’esperienza per te più memorabile? Quando ho cantato con George Benson in Finlandia al Pori Jazz Festival. Mentre stavo eseguendo Moody’s Mood For Love, George è spuntato all’improvviso sul palco suonando la chitarra e cantando insieme a me. È stato molto divertente. E poi suonare con Eddie Gomez al basso è sempre emozionante. È un vero maestro di intonazione, suono e groove. Durante una session di registrazione di About Time (Sony Jazz), Eddie si stava preparando per andare via ma il taxi tardava trenta minuti. Allora mi ha chiesto: «C’è qualcos’altro che vuoi fare?». Mio marito, Jeanfrançois Prins, che ha prodotto e suonato la chitarra del disco voleva provare un’altra canzone Time Remembered, che Eddie aveva originariamente registrato con Bill Evans. E Eddie: «Certo, proviamola!». Ed ecco

che in una sola prova è venuta fuori la versione definitiva perfetta! Come definiresti la tua voce in tre parole? Bellezza, colore, espressione. Queste sono le mie priorità. Qual è il brano che avresti voluto scrivere? The Cost of Living di Don Grolnick C’è qualche artista con cui ti piacerebbe collaborare? Si, ho intenzione di collaborare con Gil Goldstein per il mio prossimo progetto a mi piacerebbe inoltre lavorare con Til Brönner, Curtis Steiger e Simone Zanchini. Ti piace solo il jazz o ascolti anche altro? Nel tuo disco Blue Nights c’è per esempio un’emozionante versione di Blue di Joni Mitchell e fra i tuoi riarrangiamenti compaiono anche brani di Stevie Wonder, Sting, Beatles e Cindy Lauper… Ascolto tantissimi tipi di musica, per esempio cantanti e cantautori come Steely Dan, Bjork, Paul Simon e Jacques Brel. Sono affascinata inoltre dalla musica indiana. Ho un progetto con una cantante classica indiana di Mumbai, Sangeeta Bandyopadhyay e sto inoltre scrivendo i testi di pezzi strumentali di compositori classici. Credi che sia cambiata la scena jazz negli ultimi anni? Certo. A causa di internet e della proliferazione delle scuole di jazz c’è una maggiore consapevolezza della musica jazz. Perciò ci sono più musicisti e più cantanti jazz. Ora abbiamo solo bisogno di più pubblico! Cosa pensi della scena jazz italiana? Visto che vivo tra Berlino e New York e insegno ogni due settimane in Spagna, non ho una grande conoscenza della scena jazz italiana. Però ci sono stata spesso e so che c’è una scena jazz molto forte. Ho inoltre cantato con meravigliosi musicisti come Claudio Fasoli, Dado Moroni e Simone Zanchini. Maria Pia De Vito e Roberta Gambarini sono molto diverse ma entrambe delle

a cura di Valentina Giosa

vocalist eccezionali. Inoltre mi piace molto ascoltare Enrico Pieranunzi al piano. Oltre ad essere una vocalist sei anche un’ottima insegnante. Dove insegni attualmente? Sono responsabile del corso di Vocal Jazz al Jazz Institute di Berlino e al Musikene Conservatory a San Sebastian, Spagna. Mi piace molto lavorare con i cantanti e aiutarli a trovare la propria strada. So che da poco dai anche lezioni via internet… Si, sul mio sito (www.judyniemack.com) è possibile prendere delle audiolezioni da me ad una cifra molto limitata tramite ArtistShare, il sito creato da Maria Schneider. Ci sono lezioni di improvvisazione e di fraseggio. Hai scritto anche dei metodi… Si, ho scritto due metodi: Hear It and Sing It! Exploring Modal Jazz (Second Floor Music), un book/cd molto utile per l’improvvisazione dove gli allievi sono invitati a ripetere frasi e patterns costruiti sui sette modi della scala maggiore. Vocal Jazz Standards, (Hal Leonard) è stato realizzato lo scorso anno e riporta le melodie e i solo di dieci fra gli standard jazz più conosciuti che lo studente può imparare ad orecchio e con la trascrizione. A cosa stai lavorando ora? Sto ultimando il mio nuovo libro All Kinds of Blues: The Jazz/ Pop vocalist’s guide to improvising e mixando il mio prossimo cd, In the Sundance, che ho registrato a New York lo scorso anno. Include anche una canzone italiana resa famosa da Chet Baker, Estate e riarrangiamenti di How About You?, Summertime e alcuni brani originali. Sono molto soddisfatta di questo cd. È ricco di energia positiva ed è molto estivo! Dove suonerai nei prossimi mesi? Verrai anche in Italia? Ho alcuni concerti in Germania, Spagna e New York ma non in Italia. Mi piacerebbe davvero venirci presto.

RIVISTA primavera.QXP

22-04-2009

13:50

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PO PCK pop&rock a cura di CORINNA NICOLINI

Music In  Primavera 2009

BOB DYLAN Sapevo bene quando DEPECHE MODE Altro che moda mi sono dedicato alla musica folk che LA DIFFERENZA Musica è la cosa veloce: sono 29 anni di seminale carriera. si trattava di una cosa molto più seria più bella che un avvocato sa fare.

L’ESERCITO AMERICANO RASSICURA CI SONO I DEPECHE MODE SU ALTRI PIANETI

a

ltro che moda veloce. Il loro nome di battesimo sembra dare un tocco scaramantico ad una longeva e seminale carriera: sono 29 anni che i Depeche Mode smuovono le masse. Non farà eccezione la folla che si lascerà catturare dalla quintessenza dell’electro-pop, per l’ennesima volta, il 16 giugno allo Stadio Olimpico di Roma. Il tour si preannuncia lunghissimo, anche se sono in agenda solo due show italiani. Il loro Tour of Universe 2009, già dal titolo è un viaggio, e sbarca prima in Europa, poi in America del Nord e in quella del Sud. «Si chiama Tour dell’Universo–ironizza David Gahan–perché l’esercito americano ci ha assicurato che c’è vita su altri pianeti, e così noi saremo i primi. Non vogliamo suonare in Paesi dove c’è la guerra–aggiunge Fletcher–ma non consideriamo Israele un Paese in guerra permanente e quindi vogliamo ritornarci». Questa serie di show porterà sui palchi il suono di Sounds Of The Universe e segna la reunion tra i Depeche Mode e Ben Hillier, che aveva già prodotto Playing The Angel, il loro album del 2005. Eclettico ed energico, il dodicesimo album della band é stato registrato tra Santa Barbara e New York, e arriva nei negozi di dischi ad aprile. Parlare di uno spirito di fondo vintage sembra essere un paradosso. La band, seminale per un’infinità di fermenti sonori, porta tra le proprie note iniziali, avvertite nel 1980, un primato: quello di aver stimolato e fecondato la techno di Detroit, ovvero di essere stata, assieme ai Kraftwerk, la prima realtà musicale occidentale ad aver ispirato un genere afroamericano, divenuto tra l’altro la chiave di volta del sound che fa vibrare il presente a suon di loop da due decenni. Unici. Tra l’altro Sounds of the universe continua a percorrere le innovazioni d’equipe inaugurate nell’assetto compositivo nel passato più recente. È solo nel 2005, dopo 25 anni dal loro esordio e 50 milioni di dischi venduti, che i Depeche Mode al completo entrano in studio di registrazione e ne escono con il singolo Precious e con l’album Playing The Angel. E poi, una nuova particolarità: per la prima volta Dave Gahan è coinvolto nella scrittura. E anche questa volta Gahan firma alcune canzoni, prendendo comunque le dovute distanze dai meriti principali: «Quando sei in una band devi sperimentare, mettere in gioco le tue idee, senza preservarle. Martin ha fatto un lavoro incredibile, aiutandomi anche a vestire le canzoni. Non posso paragonarmi a lui, anche solo per la quantità delle canzoni che scrive. Diciamo che adesso mi sento come un giocatore che non è

più in tribuna, ma in panchina e può giocare 10 minuti a partita». Lui, del resto, pur essendo arrivato più tardi degli altri all’interno del complesso, gli ha fornito un'impronta decisiva. I semi della lineup vengono, infatti, gettati a Basildon, Essex, nel lontano 1976, quando il tastierista Vince Clarke e Andrew Fletcher formano i No Romance in China, duo che non dura a lungo ma che sfocia, nel 1979, prima nei French Look e poi nei Composition of Sound, dei quali fa parte anche il chitarrista e tastierista Martin Gore. Il moniker definitivo viene assunto solo nel 1980, appunto quando Dave Gahan diventa il cantante ufficiale della band; fino a quel momento era stato Clarke a cantare, ma è con la tonalità di Dave che la band assume una struttura stabile. Speak And Spell, il disco di debutto, è subito un successo, ma la dipartita dell’irrequieto Clarke sembra minare la stabilità della band. Ma Some Great Reward del 1984 conquista Usa e Europa. Il termine contemporanei, per loro, sembra essere riduttivo. Infilando in un lettore uno qualsiasi dei loro album, e premendo il tasto play, si avverte un’attitudine a non invecchiare. Complice un certo, modaiolo, ritorno in auge del sound anni 80, certo, ma anche la minuziosa tendenza dei Depeche a sperimentare, ad osare e ad avanzare a colpi di elettronica. Sounds of the universe è un disco semplice, almeno nella realizzazione. «Mentre Dave faceva il suo secondo album solista, Martin scriveva canzoni», spiega Fletch. «ci siamo trovati l’anno scorso, e abbiamo iniziato a registrare». Le loro nuove ed ultime tracce incrociano passato e presente. «È un album quasi vintage–chiarisce Martin–realizzato con strumenti antichi come sintetizzatori di prima generazione, drum machine, chitarre e pedali che ho acquistato su ebay e sono arrivati in studio ogni giorno, nei mesi scorsi, in grandi pacchi». La tendenza, però, è quella di rimarcare i propri tratti somatici: «Qualsiasi cosa facciamo, per quanto proviamo a mutare, suoniamo sempre come noi stessi». Del resto la loro tempra è forte, ha generato un carattere che ha saputo riscrivere la storia della musica mondiale e ha dominato le scene e le nicchie degli ultimi 30 anni. «La voce di Dave è inconfondibile, per esempio. Ma ci piace pensare che suoniamo contemporanei, che andiamo avanti». Il resto è storia recente che accomuna più generazioni. Pop ancora moderno e sempre di gran moda. Stefano Cuzzocrea

GIUDA! «

Le canzoni folk sono disperazione e trionfo

Ho imparato più dalle canzoni che da qualsiasi altra entità. Le canzoni sono il mio lessico. Io credo nelle canzoni. Sapevo bene, quando mi sono dedicato alla musica folk, che si trattava di una cosa molto più seria. Le canzoni folk sono colme di disperazione, di tristezza, di trionfo, di fede nel sovrannaturale, tutti sentimenti molto più profondi. [...] C’è più vita reale in una sola frase di queste canzoni di quanta ce ne fosse in tutti i temi del rock’n’roll. Io avevo bisogno di quella musica.» Menestrello, cantore, oracolo, profeta, traditore, Bob Dylan regala (il 17 aprile) quel folk al Palalottomatica. Più di quarant’anni di carriera e un continuo sfuggire alle definizioni e agli stereotipi, quasi una costante contraddizione delle infinite aspettative legate indissolubilmente al suo nome. L’America e gli anni Sessanta. La riscoperta del folk e del blues tradizionali si iscrivono in un quadro generale in cui tra le vie del Greenwich Village si discute del movimento per i diritti civili e nei locali ognuno può salire sul palco e cantare con la propria chitarra. Appassionato instancabile di Woody Guthrie, Robert Allen Zimmerman, in arte Bob Dylan comincia a suonare nei club della grande mela, poco meno che ventenne, con chitarra e armonica; le armi di battaglia che lo accompagneranno sin dal primo disco omonimo (1962), passando per The Freewheelin’ (1963) e The Times They are a-changing (1964) tra languide ballate folk, canzoni d’amore, di attualità, ironia e talking blues surreali. Partecipe, tra gli altri eventi, alla marcia su Washington in cui Martin Luther King pronunciò il suo famoso discorso «I have a dream», Dylan e la sua musica sono spesso stati innalzati a icone e simboli del movimento folk per i diritti civili. Le pressioni dell’opinione pubblica aumentano nel 1965, l’anno della svolta elettrica con Bringing it all back home e il seguente tour accompagnato per la prima volta da una band al completo. Fan e soprattutto sostenitori del movimento folk rimangono scandalizzati. Emblematico quel concerto al Newport Folk Festival dove Dylan, fischiato, lasciò il palco "solo dopo" tre canzoni. Giuda! gli gridavano. Ma il cammino dell’arte e delle sensazioni prosegue a prescindere da tutto. Dylan percorre gli interminabili chilometri di quella Highway 61 tra i campi assolati che separano il Minnesota da New Orleans, cullato dal caldo sound dei blues del delta del Mississippi, per poi spostarsi a Nashville e dare vita al capolavoro Blonde on Blonde. Poi buio. Quell’incidente con la sua motocicletta quasi gli costa la pelle ma gli offre

l’occasione di scappare dalle opprimenti pressioni che lo ossessionavano, e scappa a rifugiarsi in un periodo di isolamento lungo 18 mesi. Nei successivi anni 70 dovette subire diverse accuse e critiche, complice quel Self Portrait tanto bistrattato e odiato dalla critica. Nel ‘73 si torna on the road e le canzoni che man mano prendono forma nel suo bloc notes rosso nei ritagli di tempo, diventano Blood on the Tracks (1975), considerato uno dei suoi migliori album di sempre. Il tour con la incredibile Rolling Thunder Revue, collettivo di artisti itineranti, musicisti e non, tra cui Allen Ginsberg, è una delle esperienze più profonde e significative vissute da Dylan. La fine dei Seventies significa rinascita cristiana e si porta dietro, oltre che un aspro dibattito tra fans e critica, una serie di album, Slow Train Coming (1979) su tutti, in cui si fa più forte il simbolismo religioso delle liriche ma senza modificare il suo temperamento iconoclasta. L’andamento negli anni 80 è molto altalenante e probabilmente l’unico bagliore è rappresentato da Infields (1983). D’obbligo per uno come lui è la partecipazione al progetto di We are the world con conseguente Live Aid e nel 1988 inizia quello che ancora oggi è il suo «Neverending Tour». Quando entra nella Rock ‘n Roll Hall of Fame, Bruce Springsteen afferma: «Suonava come qualcuno che avesse aperto a calci la porta della tua mente. [...] Sapevo di star ascoltando la voce più forte che avessi mai sentito.» Me è solo l’inizio di una sfilza interminabile di riconoscimenti internazionali, grammy e lauree ad honorem che lo vedono protagonista per tutti gli anni 90 e il nuovo millennio e che culmineranno con l’Oscar per Things Have Changed, nel film Wonder Boys fino al 2006 e al grande successo dell’ultimo Modern Times. Con 40 anni di carriera alle spalle e collaborazioni con i più grandi della musica di tutti i tempi (Tom Petty, Joan Baez, George Harrison, Johnny Cash, Eric Clapton, Neil Young, Van Morrison solo per fare qualche nome), cantautore ma anche scrittore, pittore, attore e conduttore radiofonico, Bob Dylan è sicuramente tra le figure artistiche più importanti e significative di tutti i tempi. Parole e melodie di brani quali Blowing in the Wind, Knockin on Heaven’s Door, Like a Rolling Stone, Mr. Tambourine Man, Just like a Woman sono scritte indelebilmente nei cuori di nuove e vecchie generazioni e continueranno ad accompagnarci, trasportate dal soffio del vento, per le strade che ognuno di noi dovrà percorrere prima di poter bussare alle porte del paradiso. Gianluca Gentile

LA MUSICA CHE FA LA DIFFERENZA

razie a Che farò, nel 2005, la Differenza G si è imposta tra le giovani band italiane consacrando un successo radiofonico confermato dalla loro presenza, per svariati mesi, nelle classifiche dei singoli più venduti. Dopo una significativa esperienza live all’estero, eccoli tornati con un nuovo lavoro, in uscita nei negozi a maggio. Fabio Falcone ci parla di 3, e non solo.

Il vostro nuovo cd: come si pone rispetto agli altri, c’è un senso di continuità, di crescita, o è un punto di arrivo? Semmai siamo giunti a un punto di «non ritorno»; la nostra musica continua ad evolversi insieme a noi. Ci rappresenta, ci contiene e ci sfugge. Il nuovo album è ricco e variegato. Energico nei brani veloci, intenso nelle ballad, che secondo me sono le più belle che abbiamo mai scritto. Il sound, quello de La Differenza ma con più chitarre elettriche e ritmiche serrate. La mia voce, finalmente senza compromessi. Quanto vi hanno contaminato le vostre numerose esperienze all’estero? L’estero ci ha resi liberi di suonare la musica che volevamo. È stata una sorta di fuga per purificarci. Qui in Italia eravamo ingabbiati in una

serie di limiti strutturali e secondo me anche culturali che ci stavano distruggendo. In Europa e poi in Thailandia ci siamo completati e siamo venuti a contatto con musica totalmente diversa dalla nostra che ci ha fatto crescere, questo già da Un posto tranquillo ma con 3 ancora di più. Alla domanda «che musica ti piace», in molti rispondono: «tutta». Tu cosa ne pensi? Anni fa avrei saputo rispondere a questa domanda. In questo preciso momento no. Oggi il tutto e il niente si accavallano e si intrecciano rendendo pericolosa la fruizione moderna, tecnologica della musica. C’è troppa offerta, troppa musica in circolazione, molta della quale scadente. Penso che la cosa migliore da fare sia tornare ad affezionarsi a quei cinque album che ascoltavi quando eri adolescente e conoscevi a memoria, persino nelle pause tra una traccia e l’altra. La grande musica classica, Chopin, Mozart, l’opera di Puccini: pensi che ci sia una «sottile linea rossa» che la unisce con la musica di oggi?

a cura di Chiara Grimaldi

C’è un collegamento, per forza! Basta ascoltare le grandi opere di artisti come Bach o Mozart per scoprire che gran parte della musica moderna proviene da lì. In un’opera di Bach ci trovi una decina di canzoni pop, è incredibile. Ogni buon musicista dovrebbe studiare questi artisti immortali per completarsi. Sei un avvocato: l’amore per la musica e l’amore per il diritto. Ti va di parlarcene? Con gli anni mi sono accorto che se non facessi l’avvocato, probabilmente, avrei smesso anche di fare musica. Il cosiddetto «lavoro serio» mi ha salvato, mi ha reso libero e più consapevole dello spazio e del tempo intorno a me. Oggi è difficilissimo vivere di sola musica, cosa che magari qualche anno fa era ancora possibile. E poi, da quando gestisco tutta la contrattualistica de La Differenza, le cose girano meglio. Fabio, che farai da domani? Comincio a scrivere le canzoni per il nuovo album… è ancora la cosa più bella che so fare.

RIVISTA primaveraNEW:Layout 1

24-04-2009

18:00

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POpop&rock PCK

Music In  Primavera 2009

VINICIO CAPOSSELA La terra si spezza in due in Irpinia, strade chiassose, un terremoto e molto randagismo musicale. Il risultato? Una specie di abbuffata secolare

GIORGIA Scioccamente in tour

LENNY KRAVITZ Dopo tutto questo rock, altro rock

AFFITTATE IL SALONE PER LE FESTE

GIULIETTA E LENNY

Venite, venite! Vestitevi eleganti, mettete abiti da sera, lucidate bottoni e mostrine!

R

ullino i tamburi, squillino le trombe, venghino signori, venghino! Ecco Vinicio Capossela al Teatro Sistina, un mago e il suo circo errante sulla vita e la sua magia. Un lungo viaggio che Vinicio comincia in Germania 44 anni fa, passando per l’Italia, l’Irpinia, sua terra d’origine - qualcosa che oggi più che ieri fa pensare a un terremoto - per approdare nel nuovo mondo, tra le sconfinate strade di New York, e tornare in Italia. Viaggio infinito e interminabile che si porta dietro come simbolici souvenir i suoni, le atmosfere, le culture, sapori perduti e suggestioni aliene. Le contaminazioni tra canzone italiana, mambo, swing, jazz, tango, twist, marce e ballate, filastrocche, polke, ninnananne e gli incredibili strumenti magici e sognanti, al limite dell’im-

maginazione e dell’esistenza. «I suoni fanno da sfondo al mio mondo immaginario. Un mondo pieno di guai, affollato di guitti stralunati, strade chiassose e vecchie macchine». Sentimento, poesia, humor, attitudine teatrale. Quello di Capossela è un randagismo musicale che si nutre di visioni e personaggi surreali. Tra i blues deliranti alla Tom Waits e il mood jazzistico intriso di popolarità alla Paolo Conte, tra divertissment esotico e riscoperta delle proprie radici popolari antiche, tra le mille suggestioni letterarie e teatrali, tra Geofrey Chaucer, John Fante, Celine, Wilde e Brecht, Capossela, coi suoi nove album all’attivo, i tre premi «Luigi Tenco» ed il libro Non si muore tutte le mattine (2004) è tra i cantautori italiani più originali ed estroversi di sempre. La sua carriera inizia nel segno dell’incontro emozionante con un certo Francesco Guccini con quel All’una e trentacinque circa nel 1990. Passando per le atmosfere pittoriche di Modì (1991), la canzone popolare italiana e mediterranea de Il ballo di San Vito (1996), le splendide, affascinanti e immaginarie Canzoni a Manovella (2000) e le grandi collaborazioni con il chitarrista Marc Ribot (che ha collaborato spesso con Tom Waits) e i desertici Calexico, l’istrionico cantautore italiano torna con nuovo album. Da Solo è un lavoro più intimo ed interiore pur senza tralasciare il suo costante e tipico sincretismo di stili. E allora, «Venite!, Venite! Affittate il salone per le feste, vestitevi eleganti, mettete i vostri abiti da sera, lucidate i bottoni e le mostrine, perché l’orchestra ce l’abbiamo messa noi, ed è a vostra disposizione. Una specie di abbuffata secolare, questo è in definitiva il risultato». Gianluca Gentile

Torna il Romeo blu coi suoi vent’anni di carriera sulle spalle. Vent’anni in cui, a partire dal 1989 e da quel Let Love Rule, Lenny Kravitz ha dimostrato cosa voglia dire suonare rock contaminato dalla black music ed essere tra i migliori a farlo. Vent’anni e 9 album, una serie infinita di grammy vinti per i suoi singoli di grande successo e la stima a livello internazionale da parte di critica e artisti. Quegli stessi artisti coi quali ha avviato sempre interessanti collaborazioni come mucisista, produttore e compositore e che rispondono ai nomi di Guns ‘n Roses, Michael Jackson, Puff Diddy, Jay Z, N.E.R.D., Lennon, Aerosmith, Alicia Keys e soprattutto Madonna. La signora Ciccone gli apre le porte del successo nel 1990 coverizzando la sua Justify My Love standogli vicino proprio nel periodo in cui stava divorziando dalla moglie Lisa Bonet.

CON TUTTO QUEL CHE GIORGIA HA DA FARE Tra dire e fare tra terra e mare / tra tutto quello che avrei da dire sto qua a parlare d’amore tra dire e fare tra bene e male / con tutto quello che avrei da fare sto qua

«Q

uando guardo il cielo, cerco te/ Distrattamente guardo il cielo e cerco te/E scioccamente mi sollevo/su con te, su con te, su con te…». Saranno in tanti a cantarla, aggrappati con gli occhi e le orecchie all’eleganza delle movenze e alle magie vocali di Giorgia. Il 15 aprile al Palalottomatica di Roma e il 17 al Dutchforum di Milano, le prime due date che aprono ufficialmente lo ‘Spirito libero tour’, nato dall’ultima tripla raccolta della cantante romana: «Spirito libero, viaggi di voce 19922008» (Sony BMG). Più di quindici anni di canzoni, successi, performance live, video e videclip con l’aggiunta di 4 inediti, tra cui il singolo «Per fare a meno di te», già doppio disco di platino che ha anticipato l’uscita del tris di cd. La canzone, che i più maligni hanno subito additato come scopiazzatura della bellissima «Philadelphia» di Neil Young, è stata scritta da Giorgia con la collaborazione di Fabrizio Campelli e ha fatto parte della colonna sonora per il film di Luca Lucini «Solo un padre» (2008).

Un poderoso Greatest hits, speciale cofanetto che conterrà oltre ai tre cd, un dvd con 19 videoclip di Giorgia e alcune chicche televisive: dal debutto sul palco di Sanremo nel 1994 al live di Capodanno. Più di 40 canzoni, completamente riarrangiate e reinterpretate, in cui ogni disco è stato pensato come un viaggio tra ricordi, foto, amici e voglia di raccontarsi: un primo cd («Per riabbracciarsi») più intimista, un secondo più ritmato («Per liberarsi») e un terzo per riproporre i live e alcune tra le più belle collaborazioni dell’artista («Per ®incontrarsi») con Ronan Keating, Pino Daniele, Herbie Hancock e Mina. Un assaggio, insomma, di quello che i più fortunati potranno godere a Roma il prossimo aprile, mentre per tutti gli altri non resterà che attendere le numerose date che porteranno Giorgia in giro per l’Italia: 10/05 Bologna, 13/05 Genova, 15/05 Torino, 16/05 Firenze, 18/05 Ancona, 19/05 Napoli, 21/05 Barletta, 23/05 Catania. Flavio Fabbri

Polistrumentista e grande appassionato di funk, soul, black music, ma anche di jazz, pop, reggae, elettronica, Lenny Kravitz è diventato negli anni uno degli artisti più eclettici attualmente esistenti. Ma è sul palco che si scatena tutta la sua energia devastante. Forte del successo mondiale di Time For a Love Revolution (2008), misto viscerale di rock classico anni 60 e 70, Kravitz ha posticipato il tour causa ricovero in ospedale per problemi di salute. Ma si è rimesso e il 5 giugno sarà a Roma a riempire di rock il Palalottomatica. Gianluca Gentile

RIVISTA primavera.QXP

22-04-2009

13:50

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ALT ER NATIVE a cura di VALENTINA GIOSA

Music In  Primavera 2009

CRISTINADONÀ L’inter- BLOODY BEETROOTS Sono pepevista La sua Rolling Stone è roni o barbabietole, comunque sanguinastata suo marito ri. Salvo voler tradurre «bloody» con...

NANNUCCI Chiude il più antico rivenditore di dischi per corrispondenza, sogno rocker della provincia italiana rimpolpata a colpi di vinili introvabili

CRISTINA DONÀ: NIDO DI EMOZIONI

a cura di Eugenio Vicedomini

i

nizia a lavorare come scenografa eseguendo importanti opere (fra cui quelle per la Scala di Milano) e ricevendo grandi soddisfazioni professionali. Il suo crescente amore per la musica e in particolare per le canzoni di Bruce Springsteen la portano in breve tempo ad imbracciare la chitarra e salire sul palco dando vita ad ipnotiche esibizioni. La sua prima produzione, Tregua, risale al 1997 per conto dell’etichetta indipendente Mescal. Dopo gli acclamatissimi Nido (1999) e Dove sei tu (2003), il 2007 segna l’approdo ad una major, la EMI, con cui incide La Quinta Stagione. Piccola Faccia (2008) è il suo ultimo lavoro, intimo ed acustico e in assoluto uno dei suoi dischi più ispirati. Tanti i riconoscimenti ed attestazioni di stima da parte di critica e pubblico anche a livello internazionale, e numerose le collaborazioni fra cui Manuel Agnelli (Afterhours), Mauro Pagani, Morgan, Robert Wyatt, Davey Ray Moor e Peter Walsh, il produttore dei suoi due ultimi lavori. Music In ha avuto il piacere di scambiare due chiacchiere con una delle artiste femminili più affascinanti del panorama italiano, che a breve sarà anche mamma.

Prima di diventare una musicista, hai dedicato molti anni all’arte, al teatro, la scenografia e i videoclip. Per Springsteen è stato l’attacco della canzone Like a Rolling Stone di Bob Dylan, per te quale è stata la molla che ti ha portato a scrivere canzoni? In realtà secondo me lui ha avuto le idee molto più chiare delle mie fin da subito. Non a caso ha iniziato molto prima di me. Per quanto mi riguarda, nonostante avvertissi fin da piccola un’attrazione fortissima verso la musica ho indirizzato i miei studi verso il liceo artistico e l’accademia di scenografia ricevendo anche grandi soddisfazioni professionali. Sotto sotto però, ardeva sempre quella fiamma per la musica che ho alimentato solo come ascoltatrice per tantissimi anni. Poi ho avuto la fortuna di incontrare

personaggi importanti all’interno dell’ambiente e fondamentale è stato l’incontro con Davide Sapienza, oggi mio marito che all’epoca - ti parlo dell’86 - lavorava per Fire una rivista nata come primo fans club degli U2 (tra parentesi il nuovo disco nuovo degli U2 è strepitoso). È stato Davide la mia «Like a Rolling Stone». Un giorno mi ha detto: «Ma tu non puoi non fare la cantante», e così è stato. 1997-2009. Sono passati dodici anni da Tregua. Cosa è cambiato in te in questi anni? Penso di aver acquisito una maggiore maturità, sebbene a scapito della perdita dell’istinto degli esordi. Quando ho iniziato, mi sembrava bello solo ciò che fosse difficile ed ostico. Poi, con il passare del tempo, ho approfondito la mia conoscenza musicale ed imparato ad apprezzare altre realtà che solo apparentemente potevano sembrare più semplici, come le canzoni dei Beatles e quelle di Lucio Battisti. Non mi ritengo ancora una artista completa: ho studiato canto, ho preso lezioni di chitarra, ogni tanto faccio le mie escursioni sul pentagramma ma faccio ancora troppa fatica. Nel 2007 con il disco La quinta stagione sei passata ad una major come la EMI. Com’è andata? Trovo che sia stato un passaggio molto positivo. La Mescal, in precedenza, ha fatto degli autentici miracoli per promuovere me ed altri artisti del calibro di Afterhours e Massimo Volume. Una major però, ti apre delle porte che una label indipendente fa fatica ad aprire. Come nasce una tua canzone? Ai tempi di Tregua partivo sempre dalle parole perché mi piaceva pensarmi come una cantautrice che avesse testi particolari. Adesso mi capita spesso di cominciare anche prima con l’ idea melodica. Qual’è la canzone a cui sei più affezionata? Ce ne sono diverse canzoni di cui mi sento orgogliosa: Dove sei tu (prodotta da Davey Ray Moor, leader del gruppo inglese dei Cousteau), Universo e Goccia (scritta con Robert Wyatt) molto amata questa anche dal mio pubblico. E la cover che senti più tua? Premetto che decido di fare una cover solo quando penso di poter dare qualcosa di mio. Mi sto affezionando sempre di più a quella di Labbra blu di Federico Fiumani, un «must» dei miei ascolti giovanili. Tra l’altro la canzone è suonata e prodotta interamente da me. Quali voci femminili ti hanno emozionata? La prima è Ginevra di Marco. Anche Sinead O’ Connor mi ha influenzata moltissimo: Old England è stata la mia prima cover dal vivo. La canzone L’aridità dell’aria è ispirata ad un suo brano intitolato Just Like You Said It Would Be. Hai riscosso moltissimi riconoscimenti a livello internazionale ed attestati di stima da artisti di primo piano (primo fra tutti Robert Wyatt). Quanto è difficile per un’artista italiana ritagliarsi uno spazio a livello internazionale? Ci sono tanti fattori che rendono difficile il percorso di un artista italiano alternativo perché, se si parla di persone del target di Eros Ramazzotti e di Laura Pausini, il problema non

si pone. Però se tu fai qualcosa di meno «nazional popolare» e vuoi uscire fuori, è piuttosto difficile. Spesso sono le stesse major che, come nel mio caso, focalizzano le loro strategie commerciali esclusivamente sul mercato italiano. Per un artista italiano la vita è più dura in quanto si trova ad operare, da una parte, all’interno di una crisi che non è solo quella discografica e, dall’altra, in una dimensione prettamente domestica con un mercato di sbocco per forza di cose più ridotto. La lingua può essere una barriera culturale in questo senso? Sicuramente. Tanto è vero che quando uscì il mio terzo disco con l’etichetta indipendente Mescal, la Ryco, pur esprimendo attestati di stima, decise subito di farne una versione in lingua inglese per il mercato internazionale. Come vivi la dimensione live? Il live per me è un momento molto importante con cui sento un legame imprescindibile. Bruce Springsteen in questo senso è il mio punto di riferimento. Quando suono dal vivo mi piace far uscire quella parte di me che magari all’interno delle canzoni non si sente o si sente meno. Ritengo che ogni concerto abbia una sua identità. Il pubblico crea l’atmosfera che di volta in volta cerco di assecondare. Mi piace pensare che una persona che viene a vedere più volte un concerto possa vivere, ogni volta, delle emozioni diverse. Hai partecipato lo scorso 15 marzo a Generazione X in qualità di madrina della Marcosbanda. Cosa pensi di manifestazioni di questo genere? Sicuramente esse sono importanti per tutti i talenti emergenti che vogliono farsi conoscere. Ma - come dice anche il mio amico Morgan bisognerebbe lavorare su quella che è la formazione scolastica dei ragazzi e magari spiegar loro che prima dei Tokyo Hotel c’erano i Led Zeppelin. C’è qualche artista contemporaneo che ti è piaciuto particolarmente fra i tuoi ultimi ascolti? In Italia i Baustelle e Beatrice Antolini. Per quanto riguarda l’estero, mi sono innamorata di Joan as Police Woman. Mi piace molto anche My Brighest Diamond, con cui ho avuto il piacere di condividere il palco quest’estate. Quante opportunità per gli artisti e bands alternativi vedi derivare dalla rete (come MySpace per esempio)? Penso che sia una strada importante che potrebbe portare maggiori possibilità per tutti quegli artisti che vivono una realtà discografica indipendente e aumentare la possibilità di sviluppare contatti con etichette straniere e con locali. Conosco molta gente che ci riesce ma con grande fatica. Si va all’estero, se va bene a rimborso spese e spesso ci si rimette del proprio. Hai già idee per un nuovo disco? Sto già lavorando alle nuove canzoni per un disco in uscita a giugno 2010. In realtà c’è un evento che ha una priorità assoluta sia come tempistiche che come importanza che sarà la nascita di mio figlio fra qualche mese: evento straordinario che mi rende immensamente felice.

I LOVE THE BLOODY BEETROOTS Alcuni loro pezzi si trovano in CSI Miami, amano punk, colonne sonore e cartoni animati ma sulla Luna porterebbero Fred Buscaglione

on è certo la prima volta che un gruppo italiano viene notato all’estero molto prima che a casa propria. È successo anche ai The Bloody Beetroots, N oramai fenomeno di fama mondiale in continua e veloce ascesa (basta guardare la lista interminabile di date del loro ultimo tour) tanto da poter essere considerati uno dei gruppi rivelazione degli ultimi anni. Originari di Bassano del Grappa (vicino Venezia), Bob Rifo e Tommy Tea danno vita al progetto nel 2007 e dopo pochissimo tempo divengono il fenomeno più chiacchierato e scaricato del web. Etienne De Crecy e Alex Gopher (Solid, V2France) li «arruolano» subito come remixer ufficiali e poco dopo iniziano anche le collaborazioni con Martin Solveig, Crookers, South Central, Rinocerose, The Whip, The Toxic Avenger e AudioPorno, tanto per citarne qualcuna. Un concentrato esplosivo di Electro, Punk e Tropical che rimanda tanto ai Misfits quanto ai Daft Punk e dove estro e linearità sembrano trovare un equilibrio perfetto ed estremamente attuale. Rombo Ep è il titolo del loro recente album uscito per la Dim Mak Records (casa produttrice anche di Steve Aoki e Mstrkrft) che il «duo mascherato» sta portando in giro per il mondo registrando continuamente il sold out. La band sarà a Roma in occasione di Deepsession il 6 maggio al Brancaleone (Via Levanna, 11). Valentina Giosa

ALTA FEDELTÀ NANNUCCI La notizia, recapitata fredda come un lancio di agenzia, non gli rende davvero onore: «Chiude ad aprile Nannucci, il più antico venditore di dischi per corrispondenza in Italia. Dopo anni di lento calo del fatturato per cause facilmente intuibili legate alla crisi del mercato del disco, la decisione di chiudere. È stato firmato l’accordo di mobilità con i 9 dipendenti». Perché Nannucci era qualcosa di molto di più. Nato nel ‘36 come negozio di elettrodomestici, si era poi convertito in toto alla musica, con una politica di distribuzione capillare di dischi di importazione a basso costo. Nannucci diventò allora un’eco, un sapore, alimentando nei foschi e gloriosi anni 70 e 80 il sogno rocker della provincia italiana, rimpolpata a colpi di vinili introvabili alle nostre latitudini, quando l’unica navigazione possibile non era quella algida del download, ma quella fisica e contrabbandistica tra le copertine dei dischi, all’uscita dalle scuole, o nei nebbiosi pomeriggi d’inverno. Quando l’arrivo a casa del disco agognato, rigorosamente segnato all’angolo da punzonatura postale era preceduto da ferventi attese messianiche. E con i pochi spiccioli racimolati si partiva alla volta della storica sede di Via Oberdan 7 di Bologna, in una sorta di muto pellegrinaggio. Era il mondo prima dell’avvento, il mondo pre-digitale. Oggi un manipolo di aficionados si è attivato su facebook nel comitato «Quelli che non vogliono chiudere Nannucci». Cose, direbbe Nick Hornby, «da Alta Fedeltà». Lorenzo Bertini

TECHNO BERLINO Lost and Sound Giornalista, dj, critico musicale ed estremo conoscitore della scena musicale tedesca, Tobias Rapp è music editor per Die Tageszeitung e collabora regolarmente con la Deutschland Radio oltre che scrivere per numerosi magazine come Spex, Groove, De:Bug, Spiegel. Lost and Sound. Berlin, Techno und der Easyjetset, edito dalla casa editrice Suhrkamp Taschenbuch, è la sua ultima pubblicazione. Un accurato ritratto dell’affascinante, estrema e influente cultura Techno berlinese (che non è mai stata così concentrata in un unico luogo) con tutti i suoi potagonisti: i dj, le discoteche, i produttori e il fenomeno dell’easyjetset. «Ogni fine settimana arrivano a Berlino giovani da tutta Europa con voli low cost e ci restano fino a quando l’ultimo after hour si fonde nel weekend successivo», dice l’autore. Il libro è disponibile al momento solo in lingua originale. Valentina Giosa

RIVISTA primavera.QXP

22-04-2009

13:50

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Music In  Primavera 2009

RECENSIONE Is Tiny Dancer Really Elton’s Little John? La domanda sulle parrucche, ma anche che voti avesse Mick Jagger alla London School of Economics. Risponde un curioso, Gavin Edwards, che è andato alla ricerca del capello (è il caso di dire).

DO YOU WANT TO KNOW A SECRET? «1. His lack of compositional abilities aside, is Ringo Starr generally considered as a drummer: A. A very talented instrumentalist whose abilities are/ were underestimated? B. A not-bad musician elevated by his good fortune in winding up a Beatle? C. A pretty lame musician by comparison not just to his bandmates but to most of his contemporaries in successful rock bands? I have thought both B and C at various points, but heard (possibly fulsome/insincere) testimony to A. Help me out!» (Gavin Edwards) ualcuno si è mai chiesto se Mick Jagger Q abbia preso buoni voti alla London School of Economics? Oppure sapete se Bob Dylan ha davvero avuto un incidente con la sua moto o se stava solo «coprendo» qualcosa? E cosa rappresentano quei simboli sulla copertina di Led Zeppelin IV? E ancora Robert Johnson ha poi venduto la sua anima al diavolo? Tutto ciò e tante altre risposte a domande che forse mai vi sareste fatti potete trovarlo in Is Tiny Dancer Really Elton’s Little John?: Music’s Most Enduring Mysteries, Myths, and Rumors Revealed, il nuovo libro di Gavin Edwards. «Durante gli anni in cui ho lavorato a questo capitolo [NdR capitolo 15] che poi mi ha dato lo spunto per il mio nuovo libro, c’erano alcune domande a cui non trovavo risposta – dice Edwards -. Alcune erano banali, altre troppo specifiche e alcune sembravano fuori dalla mia portata. E non riuscivo a capacitarmi di non essere in grado di placare la mia sete di curiosità e scoprire finalmente: quali rockstar indossano la parrucca?». La domanda secondo lo scrittore americano, giornalista di Rolling Stones, Details, Wired, Spin, New York, GQ, nonché già autore di un altro avvincente libro ‘Scuse Me While I Kiss This Guy and Other Mishead Lyrics, ha una bellezza elementare: sono così tante le rockstar che vanno ormai per i sessanta che senza alcun dubbio ci deve essere qualcuno la cui folta criniera dei bei tempi andati deve averlo già abbandonato da molto! Così come ci sono tanti,

a parte Elton John che si è fatto una bella risata quando il pubblico si è reso conto che i suoi capelli non erano veri, che cercano di nascondere la loro età e apparire ancora «giovincelli» e vigorosi. E addirittura Edwards sostiene che questa particolare vanità è una caratteristica tipica dei cantanti e dei chitarristi; i membri della sezione ritmica sembrerebbero invece più aperti e inclini a lasciare che la natura prenda il proprio corso. Lo spunto per questo divertente capitolo, da cui è nata poi questa insolita e spassionata storia del rock, è nato dall’incontro dell’autore con David Bowie. Mentre il duca bianco si trovava in tour con Moby, Edwards lo ha raggiunto al Jones Beach Theater, a pochi chilometri da New York City, per intervistarlo e dopo che Bowie gli aveva già offerto tanto materiale e curiosità riguardo a Moby e Busta Rhymes ecco balzar fuori l’ ossessione «antica» di Edwards: la domanda sulle parrucche. «Ma perché vuoi saperlo?» pare sia stata la risposta di Bowie. «Gli ho esposto la mia nobile volontà di sapere – dice Edward –. Lui è scoppiato a ridere, ha riflettuto. «Oh – ha detto – ovviamente morendo dalla voglia di spettegolare – non dovrei». Pare che la «questione parrucca» abbia dovuto attendere un altro giorno fin quando poi Bowie si sia finalmente deciso a parlare. E da quel giorno ecco l’idea di un libro, un tesoro di piccole e incredibili chicche e risposte a tanti e immortali misteri del rock. Valentina Giosa

POCO PIÙ DI UNA RAGAZZINA Sono uscite fuori tante one-woman show negli ultimi tempi, ma non si può non restare colpiti da Anja Plaschg, creatura decadente in arte Soap & Skin. Un universo misterioso, inquietante e fragile. Un dipinto espressionista, un’essenza introspettiva e a tratti ultraterrena tanto da richiamare Dead Can Dance, Sinead O’Connor e Cat Power, Shannon Wright e Bat for Lashes allo stesso tempo. Una voce che fra sussurri e urla

resta impressa nella memoria e quasi non si direbbe che a cantare sia poco più di una ragazzina. Solo un pianoforte e un laptop accompagnano la musicista austriaca in una conturbante e teatrale ode alla Notte. Anja Plaschg si era già fatta notare nel 2006, all’età di soli sedici anni, con Mr. Gaunt Pt 1000, brano inserito nella compilation Shitkatapult Empfiehlt!, insieme ad artisti fra cui Apparat e Fenin. Dopo un ep composto da quattro brani ecco finalmente arrivare il suo primo disco, Lovetune for Vacuum (Pias, 2009), un racconto mistico dove la parola d’ordine non può che essere: malinconia. Valentina Giosa

TUTTE LE EMOZIONI DEL PIANETA La

voce eterea e sognante di Antony Hegarthy torna a regalarci impalpabili dipinti sonori con l’ultimo lavoro, The Crying Light. Sulla copertina: il volto di Kazuo Ohno, attore e co-fondatore dell’arte Butoh del 1977 da uno scatto di Naoya Ikegami a Tokio. Un volto intenso quello di Ohno, una posa reclinata, un mood gotico-espressionista che riecheggia sensazioni che vanno dalla culla alla tomba,

contrapponendo efficacemente la vita e la morte in un’unica immagine. «Il mio nuovo album The Crying Light è dedicato al grande ballerino Kazuo Ohno dice Antony - lo vidi in uno spettacolo gettare un cerchio di luce sul palco, entrarci dentro, e svelare i sogni e i desideri del suo cuore. Erano i suoi occhi a danzare emanando mistero e creatività; in ogni gesto incarnava la bellezza femminile e il bambino. È come se la mia arte fosse stata generata da quel momento». Un nuovo disco dall’ estetica impeccabile, così come da copione per il dandy neworkese, seguito da un nuovo tour, ha portato Antony and the Johnson a Roma in una sensibilità antica e «ultraterrena», in una voce che come ha ammesso anche Diamanda Galas - riesce a racchiudere «tutte le emozioni del pianeta». Valentina Giosa

COMMAND CLIENT Volete il vostro sogno erotico latino materializzato dal vivo?

ALT ER NATIVE

COMMAND CLIENT olete il vostro sogno erotico latino materiaV lizzato dal vivo? Bene, prendete queste tre algide bellezze d’oltremanica, fasciatele in abiti da hostess scandinave, adagiatele sul palco. Ma attenzione, maneggiare con cura, non aspettatevi candore o dolcezza, perché lo spettacolo ha il lucore lucido e opaco del latex. Estetica da regime sovietico, tappezzerie sonore acuminate e sottili come strisce di neon, vibrazioni da nightclubbing berlinesi, o, come da auto-definizione, «un mix di pastiglie, sesso e prostituzione», questo il manifesto programmatico delle Client, «commando» glamour-futurista al femminile (Kate Holmes aka Client a ai synth, Sarah Blackwood aka Client b alla voce, la top-model e dj Emily Mann, aka Client e, al basso, più all’occorrenza altre performer rigorosamente reclutate sotto l’identità «client») in orbita ormai da un decennio e di passaggio al Circolo degli Artisti a Roma l’8 maggio. Con alte referenze alle spalle, alla voce Kraftwerk, New Order, Ladytron e Depeche Mode (Client,

del 2003, è stata la prima produzione della Toast Hawaii, la label di Andrew Fletcher), più svariate collaborazioni, dalla coppia DohertyBarat (i fratellini dispersi dei Libertines), a Martin Gore fino a Tim Burgess dei Charlatans, le Client approdano al loro quarto album, Command, uscito a marzo per la Out of Line Records, affidandosi alla produzione di Joe Wilson (già Sneaker Pimps) e Youth (tra gli altri, collaborazione con Sir Paul McCartney). Il risultato è elettropop elegante e acido, fedele alla linea Client. Si parte con la corrosiva Your love is like petrol, per poi scivolare sui battiti di Can you feel, nuovo singolo da dancefloor. Atmosfere in puro stile Pet Shop Boys in Lullaby, mentre con Blackheart si fila dritto nel cuore della notte, seduti su comodi sedili vinilitici. Satisfaction è la traccia più suggestiva e spettrale, con recitativo e backvocals smozzati in sottofondo. In tutto dodici pezzi lineari e compatti. Da mandare giù lisci come vodka orange. Lorenzo Bertini

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MUSICALL a cura di ROMINA CIUFFA

ROCKOPERA L’intervista Quando ci si mette in testa di fare musical entra in ballo anche Jesus Christ

ROCKOPERA introduce il direttore Simone Giusti: o Rockopera è un progetto nato nel 1998. L Si tratta di una struttura che opera nell’ambito artistico sotto vari profili: produzione, organizzazione di eventi e formazione. Al centro di ogni attività c’è la musica, che ovviamente è sempre dal vivo. Questo perché noi non conosciamo altro tipo di esecuzione. Se il musical sgocciola e lo si trova - quello di qualità - per puro caso, c’è un progetto, quello di Rockopera, che unisce un gruppo di giovani da ben 10 anni e li fa credere in una sorta di «resurrezione». Proprio come quella pasquale e non sarà un caso che tra i più grandi successi di questi artisti ci sia proprio Jesus Christ Superstar. Il primo spettacolo prodotto è stato proprio Jesus Christ Superstar che abbiamo portato in scena fino al 2001. Sono seguiti altri progetti fino al 2002, anno in cui abbiamo realizzato la prima produzione italiana di Joseph and the amazing technicolor dreamcoat di A.L. Webber e T. Rice. Lo spettacolo vedeva la partecipazione di Antonello Angiolillo e Rossana Casale, per la regia di Claudio Insegno e le coreografie di Fabrizio Angelini. A supportare il tutto naturalmente l’orchestra dal vivo. Lo spettacolo è realizzato su licenza dell’editore inglese. Con vocazione imprenditoriale Rockopera decide di realizzare le repliche in autoproduzione, e la consacrazione avviene nel 1999 quando viene invitata a partecipare al Festival La Versiliana e ottiene un risultato eccellente (tutto esaurito per 2 repliche). Ciò convince la direzione a riconfermare lo spettacolo che viene replicato nel cartellone 2000 con il medesimo risultato. La produzione di Jesus Christ Superstar viene replicata 30 volte tra il 1999 ed il 2000. È un’opera meravigliosa. Rappresentarla è sempre una grandissima emozione. Questa nuova produzione è fresca e vivace con un cast motivatissimo ed un’orchestra combattiva. Lo spettacolo raccoglie tantissimi consensi ed il pubblico è entusiasta. Nel 2001 Rockopera è tra i finalisti del progetto regionale Il debutto di Amleto e si esibisce per il Teatro della Pergola di Firenze. Nel contempo Rockopera sviluppa nuovi progetti come Musical Greatest Hits, Beatles Forever, Radio Hollywood: progetti in cui la musica (sempre dal vivo) è la base sulla quale la drammaturgia si articola. Parallelamente all’attività teatrale si sviluppano iniziative di formazione e nel 2001 a Lucca il Jam-Centro Musica Moderna, un centro per l’insegnamento della musica leggera che vanta attualmente oltre 300 allievi. Nel 2002 il gruppo realizza la produzione di Joseph e la strabiliante tunica dei sogni in technicolor di Andrew Lloyd Webber e Tim Rice. La regia è affidata a Claudio Insegno e le parti principale sono di Antonello Angiolillo,

Music In  Primavera 2009

ROBIN HOOD L’intervista Valeria Monetti è Marianna, Robin Hood il suo superladro. E mentre ruba, canta e balla

di ROMINA CIUFFA

Lighea ed Ivan Cattaneo. Lo spettacolo debutta a Lucca e compie un tour di prova tra Trieste, Novara, Grosseto, Bari e Viareggio. Nel 2002 viene realizzata la produzione dello spettacolorecital Sì, Viaggiare, dedicato a Lucio Battisti. Lo spettacolo è costituito da un collage delle più significative canzoni del compositore, eseguite da 3 solisti ed un’orchestra dal vivo. La coreografia è affidata alla compagnia del Balletto di Milano diretta da Carlo Pesta. È un omaggio alla figura di Lucio Battisti. Non si tratta di un tributo di carattere imitativo. In poche parole, niente teste cotonate e foulard. La line-up prevede 4 musicisti e 3 solisti. Gli arrangiamenti vocali sono molto curati è c’è spazio anche per le interpretazioni femminili dei grandi classici di Lucio. L’atmosfera è molto intima e lo spettacolo, che portiamo in scena dal 2001, è stato rappresentato sia in forma teatrale che in forma di concerto. Nell’estate 2004, Rockopera produce lo spettacolo Back to Beatles, basato sulle musiche del quartetto di Liverpool; in autunno 2004 il musi-

cal Cannibal di Trey Parker, autore della fortunatissima serie televisiva South Park; nel 2005 il tour dello spettacolo Joseph e la strabiliante tunica dei sogni in technicolor è inserito nelle stagioni teatrali ufficiali del Teatro Nuovo di Milano, il Teatro delle Celebrazioni di Bologna, il Teatro Sociale di Trento, il Teatro Alfieri di Torino ed altri. Lo spettacolo si avvale di un nuovo cast con la partecipazione di Rossana Casale e le coreografie di Fabrizio Angelini. Normalmente mi occupo io della direzione musicale ma operiamo sempre in squadra. Per le produzioni più grandi abbiamo sempre fatto dei casting, mentre per le produzioni più piccole possiamo attingere da una rosa di professionisti di grande talento. Nel 2006 Simone Giusti, direttore di Rockopera, riceve l’incarico di direttore del Teatro Oscar di Milano, acquisito dal gruppo Sogete del Teatro Nuovo di Milano. E come vede lui il Musical in Italia? Di quali musical stai parlando? In Italia girano solo mega karaoke con basi e cori registrati. Non ricordo di aver visto produzioni di musical fatta eccezione per qualche produzione della Compagnia della Rancia e poche altre eccezioni.

RUBA AI RICCHI PER DONARE A LEI Valeria Monetti, attrice giovane e versatile, è in tournee con Robin Hood accanto al bravo Manuel Frattini, già al Teatro Brancaccio di Roma e in giro fino a Civitavecchia, dove li aspettano a maggio. Lei comincia a recitare all’età di 13 anni, studia canto e segue corsi di danza classica e moderna, è finalista alla V edizione del concorso teatrale femminile ‘La parola e il gesto’ e lì per due volte vince il premio del pubblico. La sua carriera professionale inizia nel 2001 quando è ammessa alla trasmissione Saranno Famosi, oggi Amici, un’esperienza che le apre le porte del mondo dello spettacolo. Quindi è la protagonista del musical Sette spose per sette fratelli nel ruolo di Milly, al fianco prima di Raffaele Paganini e Manuel Frattini, quindi di Michele Carfora; dopo c’è il musical Lungomare di Maurizio Costanzo e Alex Britti. Nel 2007 è in scena con due spettacoli: la commedia musicale Datemi tre caravelle! con Alessandro Preziosi e il Rugantino Dance Opera di Gino Landi e Renato Greco. Robin Hood è la nuova celebrazione del viaggio di un uomo alla ricerca di se stesso, che si ritrova nel più debole e nell’amore per Marianna. Una leggenda eterna di eroi e malvagi dove un ladro gentiluomo sarà il principe della foresta incantata di Sherwood. Ambizione, coraggio, amore e avventura: tutto in un grande musical originale di Beppe Dati con Manuel Frattini e Valeria Monetti. Che ci dice: Valeria, è già passato qualche anno ormai dal tuo debutto. Ormai 7 anni. Nel 2001 terminai la trasmissione Saranno famosi di Maria De Filippi e subito dopo cominciai a lavorare in Sette spose per sette fratelli. La ricordi ancora come la tua esperienza più significativa. Sì, pensa che era anche il mio sogno recitare in quel musical. Poi ne sono venuti altri, ovviamente, tutti molto belli. Sette spose per sette fratelli è un classico, Robin Hood un musical originale. È stato più difficile affrontarlo senza avere riferimenti? No, anzi, io l’ho vista come un’opportunità, una fortuna. In questo modo ho potuto dare al personaggio che interpreto un carattere molto vicino alla mia personalità, al mio gusto. In cosa siete simili tu e Marianna? Ci sono aspetti in cui è simile a me, altri in cui è lontana. Sicuramente è una donna dalle molte sfaccettature: è vanitosa ma con uno spirito forte, sicura, fiera. Una donna moderna per quei tempi. Comunque una donna con le sue paure. Un po’ è facile identificarsi: Marianna è innamorata ed è innamorata anche Valeria. Una storia vera, dunque, non una favola con supereroi.

Esatto. Robin Hood non è un eroe coi superpoteri, ma un ragazzo che diventa uomo, uno splendido uomo, e nella sua crescita impara ad assumersi le proprie responsabilità, credendo in valori come l’altruismo e la generosità. Tu la senti questa responsabilità «educativa» dello spettacolo? Be’, un po’ sì. Quando vedi tra il pubblico tanti bambini e ragazzi è confortante sapere che stai trasmettendo dei valori che condividi. Ma devo essere onesta: se mi presentassero un copione che presenta contenuti in cui non credo, prima di rifiutare ci penserei due volte. Il lavoro è lavoro e per me è prioritario farlo bene. In effetti molti ragazzi possono vedere in voi dei modelli di riferimento, proprio oggi che il musical sta rivivendo una stagione d’oro. Come ti spieghi questo successo? Il motivo è che il musical riesce a coinvolgere un pubblico davvero eterogeneo che va dai ragazzi alle persone più mature. C’è chi ama la danza, chi il canto, chi lo spettacolo in sé. Ultimamente vedo anche molti artisti che vengono dalla prosa pura o cantanti e ballerini che si mettono in gioco nelle altre arti, e questo ovviamente contribuisce al successo del genere. Nei vari musical che hai interpretato hai cambiato impostazione vocale, fisicità, a seconda dei personaggi. Ma Valeria Monetti non vuole uscire sul palco come Valeria Monetti? Non hai mai pensato a una carriera da cantante? No, io cerco di mettere la mia personalità nei vari ruoli che interpreto. Non ho mai pensato a un futuro discografico. Sin da piccola ho studiato danza, canto, recitazione, proprio perché il musical era quello che volevo fare. E tra tutti, sognavo proprio il primo che mi è toccato fare, «Sette spose per sette fratelli». L’esperienza di «Saranno famosi» dunque l’hai vissuta con questo spirito? Sei cresciuta all’interno di quel programma? Dal punto di vista didattico c’è poco tempo, non si riesce a fare un percorso approfondito. Abbiamo cercato di imparare, ma il periodo della trasmissione non è certo sufficiente a formare una professionalità. Però come formazione artistica, come contatto col mondo dello spettacolo è molto utile. Tutte le sere una recita. Massacrante? Tutte le sere troviamo un motivo per divertirci. Direi solo che è un lavoro impegnativo. Lo svago, il divertimento, il relax ce lo concediamo durante la giornata, magari andando al cinema o seguendo i nostri colleghi nelle matinée. Cercando di risparmiare la voce per la sera. Cosa chiedi al futuro? Di fare ancora tanti musical. a cura di Nicola Cirillo

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BALLET

Music In  Primavera 2009

JOAQUIN CORTES Noi rom siamo stati perseguitati, umiliati e maltrattati per molti secoli. Da sempre la musica e la danza sono il nostro grido di libertà. Credo prima di tutto nello spirito di ribellione. Salvifica solitudine.

CARMEN STORY Antonio Gades Company Ha lasciato tutto a una fondazione. Compresa la sua eredità artistica

Le

soglie dell’intimo tablao sono state varcate da un pezzo. Con il passo di chi possiede l’energia straripante di un fiume in piena e carisma e sensualità tali da rompere gli argini, un talento del flamenco è destinato ad andare oltre. Ad imporsi come solista e a diffondere prepotentemente la propria arte in giro per il mondo, tanto più se ha lo spirito

ROM SOLO di Rossella Gaudenzi

«Credo prima di tutto nello spirito di ribellione. Noi rom siamo stati perseguitati, umiliati e maltrattati per molti secoli. Da sempre la musica e la danza sono il nostro grido di libertà. È la nostra unica arma, la forza dei miei spettacoli, il perno della mia popolarità. Dopo tutto chi sono io se non un nomade del ventunesimo secolo?». Joaquín Cortés

dello sperimentatore. Questo è il flamenco: la danza che colpisce dritto al cuore, sapendo che si passa da un cuore messo a nudo per arrivare all’anima. Non ha catturato l’interesse di storici e accademici, ma ha contaminato da sempre il mondo dei poeti, dei musicisti, degli scrittori. Nella storia del flamenco c’è la storia del gitano Joaquín Cortés, nato quarant’anni fa a Cordova, che grazie al prestigioso Balletto Nazionale di Spagna ha presto raggiunto i lontani palchi di Mosca e New York ed è stato fortemente voluto da registi del calibro di Almodóvar e Carlos Saura per essere consacrato al successo mondiale. Lo spettacolo Mi Soledad, dal 23 al 25 giugno in scena al Teatro Sistina, ha debuttato il 3 maggio 2005 presso l’Auditorium di Città del Messico; da oltre due anni continua ad essere richiesto dai maggiori teatri del mondo e questo successo non accenna a diminuire. La musica originale è qui commistione di stili ed è stata composta dallo stesso Cortés, da José e Antonio Carbonell: il jazz, la classica e la musica cubana si intersecano alla musica flamenca. La scenografia è semplice, i costumi eleganti e sobri, creazioni di Jean-Paul Gaultier. La città di Londra, divenuta da tempo suo quartier generale, lo ha ringraziato con 17 sold out alla Royal Albert Hall. Il più celebre ballerino di flamenco dei nostri giorni ha messo in scena il viaggio che attraversa le emozioni umane, giungendo alla desolante, salvifica, suggestiva, misteriosa solitudine. Solitudine che è al contempo luce ed ombra, e che appartiene a noi tutti. Donataci con la freschezza, la maturità artistica, l’eleganza di cui è capace da sempre.

AND THE WINNER IS… Il Premio Equilibrio va a Samuele Cardini e Marina Giovannini. Acqua scrosciante Battiti, forse battiti del cuore. Acqua scrosciante, forse acqua di pioggia lontana, interminabile. Una radio, a intermittenza, si sintonizza con i ballerini e gli spettatori. Accenni di canzoni jazz. Musica elettronica. Poi nuovamente acqua, e poi nuovamente battiti.

Questa come vera e propria colonna sonora della coreografia Luogo Comune-Pausa Paradiso del duo Samuele Cardini-Marina Giovannini, vincitrice del Premio Equilibrio 2008, in scena come prima assoluta lo scorso 21 febbraio all’Auditorium Parco della Musica. Si parte dalla musica perché i ballerini e coreografi in questione di musica se ne intendono profondamente, come specifica Marina: Siamo dei cultori musicali molto appassionati. Abbiamo scelto di comporre in prima persona, per la nostra coreografia, per far riecheggiare ciò che suona dentro di noi. Si tratta della colonna sonora che è il filtro che c’è tra me, Samuele e coloro che hanno contribuito attivamente a questo progetto. È stato proprio Samuele a montare l’apparato musicale, denso di passaggi elettronici forti, di schitarrate. La radio che torna, il battito che torna, hanno il fine di riportare il tutto ad una circolarità. Marina e Samuele sono i vincitori della prima edizione di un concorso importante, all’interno di Equilibrio Festival della nuova danza, la rassegna giunta alla quinta edizione prodotta dalla Fondazione Musica per Roma e curata da Giorgio Barberio Corsetti. La finalità del concorso è quella di stimolare la creazione nell’am-

bito della danza contemporanea, sostenendo e promuovendo il lavoro di artisti emergenti. I coreografi toscani si sono fatti largo tra ben novantotto gruppi partecipanti, e si sono imposti tra i dieci progetti finalisti con un’idea di «luogo comune», coreografia della durata di venti minuti, poi sviluppatasi in un lavoro omogeneo che rapisce lo spettatore per oltre un’ora, sul filo di un’energia ad altissimo livello che mai tradisce cali di tensione. Definiamo questo nostro lavoro come l’evoluzione di una serie di appunti, i primi dei quali risalgono al settembre del 2007. Lo stesso titolo iniziale, Studi per Luogo Comune, voleva approdare, come attraverso un percorso, ad altro da sé. Ad una Pausa Paradiso, appunto, ossia il risultato di materiale stratificato, di movimenti molto diversi da loro seppure amalgamati. Si giunge ad una sosta di contemplazione tra una figura e l’altra, come se si aprisse un immaginario sull’Eden, un paradiso ideale per tutti: è la Pausa Paradiso. Rispetto al momento del concorso (febbraio 2008) il lavoro di Marina e Samuele è stato enormemente arricchito: dalla presenza dei ballerini Martina Gregori e Leone Barilli e da una serie di elementi singolari portati in scena. Avere altre persone, altri danzatori attorno, la voglia di confrontarsi con loro è stata importante. Una pianta, una mazza da baseball, un impermeabile bianco, una coda… Non vogliono essere elementi metaforici di difficile lettura. Abbiamo trasformato le figure in scena per descrivere la cultura che ci appartiene, per essere riconoscibili. I tempi non sono ancora maturi per fare bilanci, valutare la reale portata di questo successo. Avvertiamo indubbiamente una sensazione di cambiamento, ma ora tutto è «in fieri»: le proposte iniziano ad arrivare, c’è un gran fermento attorno a noi e dentro di noi. Stiamo da un lato cercando di riprendere fiato dopo aver fatto una fatica sovrumana, perché questa esperienza ci ha obbligati a cercare tutto da soli, da un punto di vista tecnico ed organizzativo. La ricerca delle sale prova, ad esempio, è stata estenuante. Nel contempo, siamo in movimento, Pontedera, poi il Festival Danae, a Milano. E davvero la vita a volte manda strani segnali: la prima del nostro spettacolo ha coinciso con l’unica data romana del lavoro di Virgilio Sieni, nostro maestro. Tu prova ad interpretarla, questa coincidenza…

a cura di ROSSELLA GAUDENZI

NASCEMUORE

LIBERA LIBERA

Antonio Gades: Carmen Story, la cosa più grande che esiste al mondo è la libertà. ochi mesi prima della sua scomparsa P avvenuta nel 2004, Antonio Gades aveva dato vita ad una Fondazione a cui lasciare la propria eredità artistica, una compagnia stabile grazie alla quale i cinque lavori più importanti da lui creati vengono ancora oggi riproposti con ciclicità sui palcoscenici di tutto il mondo, la Antonio Gades Company.

Tra questi un classico meraviglioso come Suite Flamenca del 1968, Nozze di Sangue del 1974, ispirato all’opera Bodas de Sangre di Federico García Lorca e la sofferta e appassionata Carmen del 1983, un esempio di un’inimitabile eleganza e nobiltà. L’idea del balletto era venuta fuori dopo le fortunate riprese di Carmen Story, film nato dal sodalizio di Gades con Carlos Saura, premiato

al festival di Cannes e nominato agli Oscar come migliore film straniero. Ma la Carmen qui appare un po’ diversa dalla versione «storica» di Bizet. Nella versione Gades – Saura la Carmen è non solo una donna attraente, sensuale e spregiudicata ma soprattutto indipendente, libera, non frivola e proprio per questo ancor più ricca di fascino e potenza. «La cosa più grande che esiste al mondo è la libertà-afferma Gades-. E per la libertà bisogna lottare, perché non te la regala nessuno. Nella mia Carmen Story, in fondo, è di questo che si tratta. Ne hanno fatto spesso un personaggio frivolo, ma Carmen non ha niente di frivolo! È una donna che si fa rispettare dagli uomini, e va con gli uomini, e non crede nella proprietà privata dei sentimenti. Quando ama, ama e quando smette di amare, smette di amare. Pur di non perdere la sua libertà, si precipita verso la morte: la morte è presente e visibile fin dall’inizio, non arriva all’improvviso. Carmen sa che la uccideranno, ma per lei è molto più importante questo senso, così nobile, della libertà. No, non è frivola e non è sciocca! È una ribelle. Contro determinate situazioni, e contro determinate classi. Una Carmen molto più vicina a quella «autentica» di Prosper Mérimée, da cui Bizet si ispirò nel 1872: un’ eroina rivoluzionaria che crede nell’intangibilità dei sentimenti tanto da preferir morire invece che rinunciare alla sua libertà. Stella Arauzo and Adrian Galia, insieme ad un cast di 26 cantanti, musicisti e ballerini, sono stati i protagonisti del riadattamento di questo classico di tutti i tempi in scena al Teatro Olimpico ad aprile. A seguire, Nozze di Sangue+Suite Flamenca. Sul palco, rispettando l’estetica rigorosa di Gades, pochi elementi saranno sufficienti a creare la giusta l’atmosfera, minimale e priva di inutili orpelli e proprio per questo ancora più incisiva. La Antonio Gades Company è reduce dalla fortunata ed acclamata esibizione al Festival Flamenco Festival London 2009. Valentina Giosa

LES BALLETS RUSSES Agli inizi del ‘900 i migliori ballerini dei due teatri più importanti al mondo, il Bolshoi di Mosca e il Mriinskij di San Pietroburgo, vennero selezionati per far parte di un nuovo corpo di ballo, fondato dal brillante impresario Sergei Diaghilev: nasceva Les Ballets Russes, la compagnia di danza destinata a divenire la più prestigiosa del XX secolo. L’intento era quello di diffondere nell’Europa Occidentale l’arte della danza russa, ricca di balletti di breve durata ed intrisa di tecnicismi. Forte di un immediato successo, dovuto a celeberrimi ballerini e coreografi - Vaslav Nijnskij, Adolph Bolm, Michel Fokine - la compagnia si stabilì dapprima nella Ville Lumière, per spostarsi in seguito a Monte Carlo. L’ondata di esotismo catturò presto l’attenzione dei maggiori artisti del tempo: pittori come Picasso, Henri Matisse, Giorgio De Chirico si prestarono alla creazione di scene e costumi; tra i compositori si annoverano Claude Debussy, Sergej Prokofiev, Maurice Ravel, Ottorino Respighi, Richard Strauss… Diaghilev fu anche un «talent scout», aprendo le porte al successo di un giovane Igor Stravinskij. L’Orchestra e il Corpo di ballo del Teatro dell’Opera metteranno in scena le migliori coreografie di Fokine, Massine e Nijinska: Les Sylphides, Les Biches, Cléopâtre, Il Cappello a Tre Punte, L’uccello di Fuoco. Dal 17 al 22 aprile; dal 28 aprile al 3 maggio TEATRO DELL’OPERA Piazza Beniamino Gigli, 7 - Tel. 06 481 601 - www.operaroma.it

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CLASSICA MENTE a cura di FLAVIO FABBRI

Music In  Primavera 2009

PEANUTS Schroeder e Charles Schulz Beethoven suona più buffo

KURT WEILL-MARIANNE FAITHFULL Voglio che la mia musica si ascolti adesso, finché sono vivo

FRANZ JOSEPH HAYDN Bicentenario Le ultime sette parole di Cristo sulla croce le sapeva tutte lui

UN CASSETTO DI CALZE DI LANA, QUESTO È SICUREZZA

HAYDN È MORTO!

Beethoven è meglio di Bach perché ‘Suona più buffo’: la storia del piano giocattolo che Shulz ha regalato a Schroeder isognerebbe riprendere in mano un numero B qualsiasi dei Peanuts e cercare di capire perché Schroeder si arrabbiava così tanto quando Lucy lo tormentava con le sue battute, o quando i suoi amici lo chiamavano per le solite interminabili partite di baseball. Stiamo parlando di Charlie Brown, di Linus e la sua coperta, di Snoopy, Piperita e Mercie. Mentre Schroeder, con la sua maglia a righe verdi e nere, eterno oggetto dell’amore non corrisposto di Lucy, voleva solo stare col suo piccolo piano giocattolo e tutte quelle note che

gli volteggiavano sulla testa. Un ottimo pianista ovviamente, perché così l’ha voluto il suo creatore Schulz, quasi un virtuosista, con una profonda venerazione per Ludwig van Beethoven, di cui il 16 dicembre festeggiava sempre l’anniversario della nascita. È da qui che sono nate tutte quelle magnifiche note che inondavano gli spazi bianchi del foglio. Le straordinarie melodie fuoriuscite dal piano di Schroeder, anzi, sarebbe meglio dire dall’amore del suo disegnatore per Beethoven. Note vere, trascritte una per una dagli spartiti del Maestro di Bonn. Si proprio lui, il grande Ludwig van, il genio indiscusso, tempestoso indagatore dell’animo umano, la prima grande rock-star dei tempi moderni. Qui musa ispiratrice di un piccolo Schroeder e del suo papà

Charles Schulz. Certo, ma solo per un motivo: l’idolo di Schroeder avrebbe dovuto essere Bach, ma il disegnatore preferì alla fine Beethoven. Perché? Semplice, «suonava più buffo». Così vuole la leggenda e le leggende devono essere rispettate, altrimenti si perde la magia: come quella che ogni tanto faceva apparire, sopra il pianoforte giocattolo del nostro giovane talento, un busto che riproduceva la testa di Ludwig van Beethoven. Il soggetto di Schroeder, secondo i fumettofili, compare in realtà solo nel 1951 e viene subito fatto crescere nell’arco di tre anni per raggiungere un’età simile a quella degli altri compagni di giochi. Al debutto non mostrava caratteristiche particolari, ma quando Schulz volle inserire nel fumetto il pianoforte giocattolo (un regalo per la figlia Meredith), nacque immediatamente un personaggio davvero singolare: il pianista estatico, scontroso e incompreso che tutti gli appassionati della striscia oggi conoscono. Ogni volta che Schroeder si piega sul pianoforte e i suoi occhi diventano due fessure, cadendo quasi in trance, le note che fluttuano sulla sua testa non sono semplici macchie di inchiostro disposte a caso o in chiave di Sol. Schulz aveva accuratamente scelto ogni singolo brano di musica che ha disegnato, trascrivendo tutte le note dagli spartiti. Più che un’illustrazione, la musica era diventata così la colonna sonora della striscia, un assaggio di quello che oggi chiamiamo multimedialità, un anticipo prelibato di quello che sarebbe stato l’ipertesto, il trait d’union tra le pagine, la ‘chiave’ per legare tra loro gli stati emotivi dei personaggi, passando dall’uno all’altro con una nota, formulando una domanda o sottolineando un’esclamazione. La musica ha assunto nelle pagine di Charlie Brown le dimensioni e lo spessore di ‘un personaggio’ del fumetto, al pari degli altri, perché è la musica a dare alle strisce la giusta tonalità. Questo amava raccontare spesso la figlia

Meredith quando gli chiedevano cosa avesse spinto Shultz a scegliere Beethoven e ad inserire quelle nuvole di note nelle strisce. E proprio la figlia ha impiegato oltre un anno a identificare le composizioni, raccogliere le registrazioni e reinterpretare le strisce, per rendere possibile la mostra intitolata Schulz’s Beethoven: Schroeder’s Muse (Il Beethoven di Schulz, la musa di Schroeder), allestita al Charles M. Schulz Museum in California, con la collaborazione del Beethoven Center e conclusasi il 26 gennaio scorso. Una mostra che, oltre la possibilità di ripercorrere la storia dei Peanuts, ha fornito lo spunto per qualche riflessione su come la musica possa interagire con le arti visive, in questo caso il fumetto. Musicologi ed esperti come William Meredith, direttore dell’Ira F. Brilliant Center for Beethoven Studies all’università statale di San Jose in California e profondo conoscitore delle strisce dei Peanuts dedicate alla musica di Beethoven, hanno scoperto una forte correlazione tra le note disegnate sulle strisce e il grado di comprensione profonda del messaggio. C’è molto di più di un semplice tratto di matita nella passione per la musica di Beethoven da parte di Charles Schulz e già negli anni Settanta in molti, soprattutto pianisti, l’avevano capito. Come ricorda in un’intervista rilasciata al quotidiano La Repubblica, un particolare fan di Brown & Co., Nicola Piovani: «… Eravamo ragazzi, innamorati di Charlie Brown, provammo a suonare quelle note e scoprimmo che corrispondevano a opere reali, delle vere suonate per pianoforte». Questo ci aiuta a capire che se non si legge la musica, se non si identificano i brani degli spartiti nelle varie strisce, si perde una grande parte del loro significato. Leggere le note ci permette di considerare la musica come un vero personaggio al pari degli altri, perché è la musica a dare alle scene la giusta tonalità. Schulz, bisogna ricordarlo, amava la musica classica e l’ha sempre ascoltata, fin dai tempi dell’Istituto d’arte, quando con i compagni giocava ‘all’indovina chi suona’, ascoltando per ore adagi e sonate. Chissà se l’indovinava tutte, colui che diceva sempre: «… Non pretendo di avere tutte le risposte… A dire la verità non m’interessano nemmeno tutte le domande». Pensiamo proprio di si, «Good grief!». Flavio Fabbri

AL DIAVOLO I POSTERI I vizi umani prendono forma come mali sociali della borghesia in sette peccati capitali. Marianne Faithfull li compie tutti

«Al

diavolo i posteri, voglio che la mia musica si ascolti adesso, finché sono vivo», disse Kurt Weill poco prima di morire. In questa frase è compendiato tutto il valore della sua opera attraverso cui, finalmente, la distanza tra la musica colta e quella popolare - ampia a quel tempo - cominciò a ridursi in maniera significativa. Con gli anni l’opera di Kurt Weill è diventata oggetto di culto, soprattutto da parte di artisti marcatamente rock: il regista canadese Larry Weinstein ne ha tratto ispirazione per il progetto cinematografico September song; Sting, Tom Waits, Lou Reed. Nick Cave, PJ Harvey e tanti altri hanno inciso (o hanno in repertorio) alcuni dei suoi brani. La ragione di tanta devozione del rock per un autore di musica classica è anche la comune concezione dell’arte come luogo della riflessione, della protesta, della divulgazione di istanze sociali e politiche. Marianne Faithfull, che interpreta Anna nei Sette peccati capitali (titolo originale Die sieben Todsünden), una delle opere più eseguite del musicista tedesco, si inserisce perfettamente tra questi due mondi musicali: il primo rappresentato dalla raffinatezza colta della musica classica, l’altro dalla necessità di utilizzare l’arte come strumento di riflessione e provocazione per i contemporanei. Celebre per essere autrice di alcune canzoni leggendarie e provocatorie - scritte con il compagno di allora Mick Jagger - ma anche per essere una delle più intense interpreti del pop, nonché attrice di successo (come ha confermato nella sua interpretazione cinematografica più recente, Irina Palm di Sam Garbarski del 2007), Marianne Faithfull ha già inciso in inglese i brani dei I sette peccati capitali nel 1998; negli ultimi anni l’ha rappresentata con enorme successo di pubblico e di critica nei principali teatri del mondo. L’opera, scritta su libretto di Bertold Brecht, è un balletto cantato, di cui sono protagonisti due personaggi femminili di nome Anna: la prima, immagine della razionalità e del senso pratico, si rivela danzando; la seconda, che invece si esprime col canto e con la recitazione, rappresenta l’istinto, la passionalità. Probabilmente due aspetti della stessa personalità, o voci contrastanti all’interno della stessa coscienza. La forma del balletto dà una maggiore enfasi all’amara ironia della storia, che sottintende una critica sociale spietata, facendo muovere Anna tra sette scenari in cui i vizi umani prendono forma come mali sociali della

In occasione del bicentenario della morte di Franz Joseph Haydn, avvenuta a Vienna il 31 maggio del 1809, l’Orchestra Sinfonica di Roma, sotto la direzione di Francesco la Vecchia, ha scelto di eseguire presso l’Auditorium della Conciliazione della Capitale alcune delle composizioni per le quali il genio austriaco è più noto. Saranno presentate le ultime cinque opere che fanno parte delle 12 sinfonie cosiddette «londinesi» (la Sinfonia n. 100 Militare il 19 e il 20 aprile, la Sinfonia n. 101 La Pendola il 26 - 27 aprile, la Sinfonia n. 102 il 2 e il 3 maggio, la Sinfonia n. 103 Rullo di timpani il 10 e l’11 maggio, la Sinfonia n. 104 Londra il 17 e il 18 maggio), e due composizioni sacre: il Die letzen worte unseres erlosers am kreuze (Le ultime sette parole di Cristo sulla croce) e il Die Schopfung (La Creazione). La scelta di eseguire le ultime sinfonie di Haydn (a volte conosciuto, forse con un eccesso di enfasi, come ‘il padre della sinfonia’) rende omaggio a chi, comunque, contribuì enormemente a riscattare la musica sinfonica (e più in generale quella strumentale) dalla subalternità rispetto a quella vocale, che in quel tempo si stava imponendo sia nelle corti che negli altri ambiti sociali. Lo stile di Haydn (che oggi porta l’etichetta di classico, ma che tra i suoi contemporanei fu considerato come uno stile innovativo, con orchestrazioni complesse e chiassose) si manifesta al meglio in queste sinfonie, che incontrarono un successo

borghesia. Non a caso Weill e Brecht scrissero l’opera quando si trovavano entrambi in esilio dalla Germania nazista. L’Accademia di Santa Cecilia propone la versione inglese dell’opera: diretta da Ingo Metzmachei, va in scena a Roma il 25, il 27 e il 28 aprile, nella Sala Santa Cecilia, in una serata che prevede la messa in scena di un altro celebre balletto, il Petruska di Igor Stravinskij, oltre che l’esecuzione di Storie di altre storie di Salvatore Sciarrino, uno di più geniali compositori contemporanei. Insieme con Marianne Faithfull su palco ci saranno Mark Bleeke (tenore), Eric Edlund (baritono), Peter Becker (bass-baritono), Wilbur Pauley (basso), ovvero l’Hudson Shad Quartet, a interpretare i ruoli dei familiari di Anna. Nicola Cirillo

senza precedenti. La ragione è da attribuirsi, probabilmente, al grande richiamo ‘popolare’ della sua musica, che pure mantiene una struttura colta e rigorosa: l’inserimento di elementi folcloristici (in particolare nei finali delle sonate o nell’apertura del tema finale) creava una certa continuità e riconoscibilità in composizioni che avevano una struttura formale molto elaborata. Elementi stilistici che si trovano anche nelle due opere con cui l’Orchestra sinfonica di Roma, terminerà le celebrazioni haydniane: Le ultime sette parole di Cristo sulla croce (il 24 e 25 maggio,) e l’oratorio Die Schopfung (La Creazione), che sarà eseguito proprio la sera del 31 maggio (e replicato il giorno successivo). Opere che appartengono all’ultima fase della vita del compositore e che riflettono anche una maggiore maturità nella scelta dei temi. In particolare «La creazione» contiene il tema del significato della vita e dell’umanità e rappresenta - per il religiosissimo Haydn - un tentativo di rappresentare in musica l’idea del sublime. Francesco La Vecchia, direttore stabile dell’Orchestra, in tre occasioni cede il podio ai colleghi Edward Cumming (il 19 e 20 aprile), Muhai Tang (2-3 maggio), Edvard Tchivzhel (17-18 maggio) per una serie di concerti con grandi solisti come Gilad Karni, Angela Hewitt, Gesualdo Coggi, Marco Fiorni, Andrea Noferini, Anita Selvaggio, Michael Smallwood, David Wilson Johnson. Nicola Cirillo

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CLASSICA MENTE

Music In  Primavera 2009

FUTURISMO Centenario Tutti gli innovatori sono stati logicamente futuristi, in relazione ai loro tempi. Palestrina avrebbe giudicato pazzo Bach, e così Bach avrebbe giudicato Beethoven, e così Beethoven avrebbe giudicato Wagner. Rossini si vantava di aver finalmente capito la musica di Wagner leggendola a rovescio.

DISERTARE I CONSERVATORI Cento anni di Futurismo e di musica d’avanguardia: ‘Bad boys’ per un piano, quello di Daniele Lombardi

acchine al lavoro, echi M di motori lontani, rumori diffusi, urla, rottura di giunture metalliche, sintesi, forse un teatro della sorpresa, un ‘cabaret epilettico che fa tanta musica’, con la suggestione infine di avere il signor Igor Fëdorovic Stravinskij tra il pubblico. Un mondo atonale e anarmonico che avrebbe cambiato per sempre il modo di fare musica. Questo e molto di più ci aspetta al Teatro dell’Opera di Roma dal 7 al 10 maggio, con il ritorno dei Bad boys of piano, gli anarcoidi esteti dell’arte musicale, i camaleonti del Futurismo sonoro: Alberto Savinio, Arthur Vincent Lourié, Alfredo Casella, Virgilio Mortari, Silvio Mix, Franco Casavola, George Antheil e Aldo Giuntini. Gli alfieri di un grande movimento artistico italiano di respiro internazionale, nato nel 1909 e che proprio quest’anno festeggia i suoi primi 100 anni. Il Teatro dell’Opera di Roma renderà così omaggio a quella che da molti è stata definita l’ultima avanguardia artistica del Novecento nel nostro Paese, forgiata dal furore creatore dei suoi esponenti più carismatici: da colui che ne coniò il termine, Filippo Tommaso Marinetti, da Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Giacomo Balla, Luigi Russolo, Gino Severini e tanti altri nomi più o meno noti. Una vita, quella del futurista, che doveva essere scandita dalla creazione continua e dal tremore delle idee, fino al fanatismo tecnologico e all’abisso oscuro, cosciente o meno, in cui il fascismo prima e la Grande Guerra poi trascinò molti di loro. Alcuni abbracciarono l’impeto bellicoso, facendo del Futurismo più una fede politica che una pratica culturale, altri se ne allontanarono portando con sé, comunque, la forza pura e primigenia dell’istinto creatore futurista. Casella non si definì mai un futurista, come non lo era Savinio, ma le loro opere portavano e portano inevitabilmente i semi dell’avanguardia artistica, come i Deux contrastes dedicati a Boccioni e alla sua prematura scomparsa, o gli Chants con il loro carico di innovazione tecnica. Vale lo stesso per gli altri autori in programma, fin da subito dichiaratisi figli del Futurismo, vi dedicarono la loro vita artistica, sociale e politica, tesa alla creazione di suoni e mondi sonori inediti, che il pianista Daniele Lombardi riproporrà al Teatro dell’Opera di Roma in un’atmosfera sine-

stetica e storicamente proiettata all’indietro. Sì, proprio al passato, lungo un percorso in cui i colori, le luci, la musica, la danza e i filmati saranno la miscela base per rinnovare il clima futurista del tempo, tutto lanciato, invece, verso quello spettacolare futuro tecnologico e multisensoriale in cui noi oggi viviamo. Anche gli allestimenti grafici, con evidenti richiami ai lavori di Antonio Sant’Elia, lo stesso Alberto Savinio, Pablo Picasso e Fernand Léger, spingeranno il pubblico tra le braccia della storia, quella dimensione temporale che i futuristi non hanno mai amato, rivolti anima e corpo al futuro e alla radice del progresso, al domani radioso, che qualcun’altro ha chiamato Il sol dell’avvenir. Uno spettacolo pensato sulle linee teoriche dell’avanguardismo, con il corpo di ballo del Teatro dell’Opera, il soprano Susanna Rigacci e le coreografie di Ileana Citaristi, Vittorio Di Rocco, Tadashi Eudo, Mario Piazza, Luca Veggetti e Gillian Whittingham. Una tempesta animata dalle linee-forza dinamiche delle note, dalla potenza visiva e visionaria del cinema, dalla poesia fisica della danza, dal sex appeal immateriale del video e quindi dalla musica deformata a rumore e a linguaggio delle macchine. Franco Casavola (1891-1955) è stato forse il più conosciuto del folto gruppo dei Bad boys of piano: compositore, direttore d’orchestra, critico d’arte e scrittore, porterà la sua firma il Manifesto sul Futurismo musicale in Puglia. Ebbe come maestro il grande Ottorino Respighi e nello stile alcuni vi ritrovano anche la poetica colorita e pedissequa di Giuseppe Mulè. Non meno interessanti sono le produzioni musicali di Silvio Mix e Francesco Pratella, tra i firmatari del Manifesto dei musicisti futuristi nel 1911 e del successivo La musica futurista-Manifesto tecnico: «… Tutti gli innovatori - scriveva Pratella nel Manifesto dei musicisti - sono stati logicamente futuristi, in relazione ai loro tempi. Palestrina avrebbe giudicato pazzo Bach, e così Bach avrebbe giudicato Beethoven, e così Beethoven avrebbe giudicato Wagner. Rossini si vantava di aver finalmente capito la musica di Wagner leggendola a rovescio!». Tentativi di rinnovare la musica, di strapparle di dosso quel velo di popolarità, tradizione o folclore che tanto il movimento rifiutava, fino all’incitamento a «disertare i conservatori, i licei e le accademie, e determinatene la chiusura; si vorrà certamente provvedere alle necessità dell’esperienza, col dare agli studi musicali un carattere di libertà assoluta». La ricerca profetica di ‘sgocciolii’ e ‘fruscii’, intesi quali suoni e non come rumori, quindi le anticipatrici realizzazioni meccano-sonore dell’Intonarumori e dell’Arte dei rumori di Luigi Russolo, oggi riconosciuto come antesignano della musica elettronica contemporanea. Fino ai cosiddetti «rumori trovati», già sperimentati negli spettacoli radiofonici di Marinetti e alla base delle avanguardie musicali anni Sessanta, di artisti eclettici come John Cage e Steve Reich. Concludendo, con le parole del Manifesto della musica futurista di Pratella, per i Futuristi bisogna sempre e solo: «… Liberare la propria sensibilità musicale da ogni imitazione o influenza del passato, sentire e cantare con l’anima rivolta all’avvenire, attingendo ispirazione ed estetica dalla natura, attraverso tutti i suoi fenomeni presenti umani ed extraumani». Che il pubblico romano del Teatro dell’Opera si prepari. Flavio Fabbri

CRONACHE DI BRUEGHELLANDIA

Un’anti-anti-opera, un «pastiche» grottesco, frivolo ed assurdo, dal music hall al teatro delle marionette jazz, folclore magiaro, citazioni classiche, echi verdiani, rossiniani, beethoveniani. Pur sempre la Morte, nel Grand Macabre di Gyorgy Ligeti

a

cosa dobbiamo quel senso di inquietudine e terrore che ci pervade mentre assistiamo alle scene salienti del film horror Shining di Stanley Kubrick, come il palesarsi definitivo della pazzia di Jack Torrance, alias Jack Nicholson o l’apparizione delle gemelle Grady a suo figlio Danny? È possibile che, se non del tutto, almeno in parte tale sensazione ci derivi dall’incalzare delle note dell’opera per orchestra Lontano di Gyorgy Ligeti. Dello stesso Ligeti, è anche la musica Atmospheres che aleggia lungo le scene di 2001 Odissea nello spazio insieme a molte altre opere del compositore transilvano. È in questi e in numerosi altri componimenti di Ligeti che emerge l’anticonvenzionalismo del suo linguaggio artistico; che si concretizza quell’abbandono totale di melodia, armonia, ritmo, in favore della supremazia del timbro del suono; che prende forma quel fenomeno chiamato, con un termine coniato da Ligeti stesso, micro polifonia. Una tecnica tramite cui l’autore, servendosi di canoni e scrittura polifonica, toglie alle varie voci la loro specifica identità melodica, rendendo l’organico una densità sonora che modifica il timbro. La micropolifonia e l’uso antidogmatico del linguaggio musicale quanto verbale permeano tutta la produzione di Ligeti fino agli anni 70 rendendo i suoi lavori delle vere e proprie anti-opere, radicalmente distaccate dalla tradizione, cui si guarda solo attraverso una lente deformante. Ma qualcosa cambia nell’ultimo periodo creativo di questo compositore ebreo nato nel 1923 nella città ungherese Dicsoszenmarton. Ligeti sente infatti di dover ripensare il proprio linguaggio: da un lato sviluppando la componente mimica, già presente in sue opere precedenti, dall’altro recuperando elementi più vicini alla tradizione.

È in questo contesto «retrospettivo» che nasce Le Grand Macabre, opera in due atti e quattro scene composta tra il 1975 ed il 1977, revisionata nel 1966, definita dal suo stesso autore un’anti-anti-opera, caratterizzata da un’azione evidente e da un testo comprensibile, in contrapposizione all’anti-operismo di Maurice Kagel. Anti-operismo che trova la sua massima espressione nello Staatstheater (Balletto per non danzatori) del compositore argentino fautore del teatro strumentale, la cui opera, improntata al teatro dell’assurdo, si allontana dai classici del passato ripensandoli e dissacrandoli in una deformazione parodistica. Le Grand Macabre sarà per la prima volta in scena a Roma al Teatro dell’Opera con 5 recite: il 18-19-20-21-23 giugno. Un nuovo allestimento del Teatro La Monnaie di Bruxelles in coproduzione con il teatro dell’Opera di Roma, l’English National Opera di Londra e il Gran Teatro Liceu di Barcellona, diretto del Maestro Zoltan Peskò e per la regia di Alex Ollè. Rappresentata per la prima volta il 12 aprile 1978 al Teatro Reale dell’Opera di Stoccolma, ente e committente tramite Goran Gentele direttore del Teatro, Le Grand Macabre è un’opera in due atti e quattro scene, su libretto di Michael Meschke, liberamente ispirata ai toni grotteschi, all’atmosfera mistica e carnevalesca presenti nella pièce teatrale La ballade du grand macabre del drammaturgo belga Michel de Ghelderode, nonché ai temi fantastici, ai raccapriccianti, apocalittici scenari dei quadri di Brueghel. È infatti proprio a Brueghellandia che giunge Nekrotzar, le grand macabre, per annunciare la fine del mondo e dare il via con l’aiuto dell’ubriacone Piet al dies irae. L’angelo della morte si imbatterà nel corso della sua opera in

due coppie di amanti dai nomi ridicoli: Amando e Amanda; Mescalina ed Astradamors; nonché nel principe Go-Go nel cui palazzo Nekrotzar fa la sua apparizione accompagnato da una musica terrificante, tema distorto del finale dell’Eroica di Ludvig van Beethoven. Ma le peripezie dei personaggi culminano in un inaspettato finale, non si sa se più lieto o grottesco, in cui la Morte unitasi agli stravizi di Piet e Astradamors stramazza al suolo ubriaca, essendo così l’unica a perire in questo parodistico Giorno del Giudizio. La trama di Le Grand Macabre è già emblematica della dimensione ironica che caratterizza quest’opera di Ligeti, incontro felice tra i più disparati generi teatrali e musicali. Tradizione operistica, music hall, teatro delle marionette, teatro Alfred Jarry da un lato; jazz, musica folklorica magiara citazioni classiche di Giuseppe

Verdi, Gioachino Rossini e Ludvig van Beethoven dall’altro; sono gli ingredienti di questo pastiche dalle tinte umoristiche ed ironiche che tuttavia non possono non imprimere un forte senso di inquietudine ed irrequietezza in chi vi assista. Livia Zanichelli

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SOUND tracking a cura di ROBERTA MASTRUZZI

Music In  Primavera 2009

MOKADELIK L’intervista a Cristian Marras Nella moka caffè, Salvatores e Ammaniti. Da servire caldo

CHE GUEVARA Alberto Iglesias, un eclettico, racconta in musica la vita del Comandante

ONDA Disoccupazione, ingiustizie sociali, malcontento, inflazione, nazionalismo esasperato favoriscono la nascita di una dittatura

COME SALVATORES COMANDA QUATTRO FORMAGGI È OSSESSIONATO DA DIO, DAL PRESEPIO E DA UNA PORNODIVA (MA CHI NON LO È?)

N

ati nel 2000 con l’iniziale nome Moka, i romani Mokadelic mescolano sapientemente post rock e suggestioni psichedeliche in un impasto sonoro denso e rarefatto allo stesso tempo nel suo incedere esclusivamente strumentale. Con due dischi e diversi ep all’attivo, già protagonisti con la loro musica di diversi cortometraggi e partecipi del progetto Violenza 124 con Niccolò Fabi, vengono in seguito incaricati dal registra Gabriele Salvatores di comporre la colonna sonora per il suo film Come Dio comanda, tratto dall’omonimo romanzo di Niccolò Ammaniti. Music In approfondisce questa interessantissima realtà alla ribalta. Com’è avvenuto l’incontro con Gabriele Salvatores? L’incontro artistico è avvenuto quasi per caso: un giorno Gabriele Salvatores ha sentito a casa di un amico comune il nostro precedente lavoro Hopi e giudicando le atmosfere che avevamo descritto nel nostro precedente album in linea con quelle che aveva intenzione di descrivere in Come Dio comanda siamo entrati in contatto. Niccolò Ammanniti l’avete conosciuto? Lo abbiamo conosciuto di persona a casa sua a Roma in occasione dell’ascolto collettivo dell’opera Violenza 124 di Niccolò Fabi. La vostra musica già in passato era diventata colonna sonora per alcuni cortometraggi. Salvatores invece vi ha chiesto di scrivere brani liberamente ispirati alle atmosfere e ai temi che sarebbero stati affrontati nel film:

composizioni suggerite dalla sceneggiatura, dai luoghi, dai personaggi. Cosa ha comportato questo modo di procedere differente per il vostro approccio alla composizione? Questo ha comportato per noi una immersione nel mondo che veniva descritto da Ammaniti, un mondo dalle tinte molto forti, decise, drammatiche, un metodo per noi assolutamente nuovo e inusuale anche nel cinema. Fino a Come Dio comanda infatti abbiamo avuto esperienze come colonne sonore ma in maniera differente, i nostri brani venivano utilizzati a commento delle immagini dopo che questi erano già ultimati effettuando così solo un lavoro di editing. In questo caso invece siamo partiti dalla psicologia dei personaggi, dalle sensazioni che noi per primi avevamo provato nel conoscere la storia e le abbiamo trasportate nei temi principali che poi sono andati a comporre la colonna sonora del film. Avevate già letto il romanzo di Ammaniti prima di accettare l’incarico di comporre la colonna sonora per Come Dio comanda? Alcuni di noi si, altri no, in ogni caso leggere il libro e la sceneggiatura, firmata anch’essa dallo stesso autore, è stato un passaggio fondamentale e precedente all’intero lavoro dunque il vero punto di partenza di tutto il processo. Senza leggere il libro sarebbe stato tutto molto più difficile, mentre conoscere i personaggi fino al loro profondo ha aiutato ad esprimere in musica ciò che con le parole non è possibile esprimere. Una volta terminate le riprese, come è stato

CHE GUEVARA Ne

sono stati fatti davvero pochi di film su Che Guevara. Considerando la mole del personaggio, il mito che alimenta se stesso e la forza catalizzatrice, non si capisce perché dal 1969 sono state girate solo 7 pellicole. Steven Soderbergh ne ha firmate addirittura due, in realtà un unico prodotto cinematografico che il mercato ha chiesto di scindere in due: CheL’argentino e Che-Guerriglia (sugli schermi italiani rispettivamente ad aprile e maggio). Sono questi due ottimi film in fondo, che vedono Benicio Del Toro interpretare in modo superbo il Comandante Guevara, tanto da aggiudicarsi la Palma d’Oro come Miglior Attore a Cannes 2008. Una produzione cinematografica molto lunga (sette anni), tra biografie più o meno ufficiali e consulenze, che poi in fin dei conti non stravolgono più di tanto la biografia del ‘Che’ che tutti conosciamo. Una storia infinita, tra libri, pellicole, ricordi e speranze mai infrante, che anche la musica ha continuato ad alimentare ed accrescere. La colonna sonora del ‘Che’ di Soderbergh, (in Italia ancora non disponibile), è uscita negli Stati Uniti con l’etichetta Varese Saraband e in un unico cd. Musica curata dal compositore

Flavio Fabbri

spagnolo Alberto Iglesias, fedelissimo collaboratore di Pedro Almodovar (Tutto su mia madre, Parla con lei, La mala educación) con cui ha vinto sei Goya, ricevendo anche una nomination ai Golden Globe per la miglior colonna sonora di Il cacciatore di aquiloni e agli Oscar per The Costant Gardener. Un compositore eclettico, esperto malgrado la giovane età, che spesso è passato a comporre dalla musica sinfonica a quella da camera, dalla danza classica a quella moderna. In questa soundtrack sono da evidenziare due pezzi molto significativi: Fusil contra fusil di Silvio Rodriguez e Balderrama di Mercedes Sosa. Due score piene di malinconia, passione, amore per la vita e per i propri ideali, che vedono la partecipazione di due artisti molto popolari, rispettivamente dalla tradizione cubana e argentina. Tracce di forte impatto narrativo, come Sierra Maestra o Luces Y Sombras, che fanno da cassa armonica al coinvolgimento del Che Guevara nella ribellione di Fidel Castro contro il regime di Fulgenzio Batista nel 1959 a Cuba. Mentre nel secondo episodio, quando il Che accoglie su di sé la missione di diffondere l’idea rivoluzionaria in tutta l’America Latina partendo dalla Bolivia, emergono le tracce I Want To Take The Revolution To Latin America e Patria O Muerte che fermano in note drammatiche quanto evocative i momenti più emozionanti. Si arriva così all’epilogo, che per noi coinciderà al cinema con l’episodio Che-L’argentino, quando il Comandante troverà la morte nel 1967, fucilato da un reparto militare antiguerriglia boliviano assistito da agenti speciali della CIA, che il tema musicale La Higuera, October 9, 1967 (luogo, giorno e anno della sua morte) sottolinea solennemente, accompagnando la fine dell’uomo e la nascita del mito.

vedere il film con la vostra musica ad accompagnarlo? È stata davvero una forte emozione. Una caratteristica del film è quella di far parlare i personaggi attraverso la musica, che quindi ha ricoperto anche un ruolo fondamentale, per questo essere investiti di una tale responsabilità ci ha lusingato. Come Dio comanda, oltre che un romanzo ed un film, è anche un disco dei Mokadelic a tutti gli effetti. Post rock e psichedelica gli ingredienti principali per un tipo di musica strumentale che spesso sembra nascere anche dall’improvvisazione. Da cosa o da chi vi sentite ispirati nel momento in cui prende vita un brano dei Mokadelic? Niente in particolare se non dalle sensazioni che proviamo nel momento in cui iniziamo a suonare. Sicuramente l’incipit è l’improvvisazione, che è per noi il metodo di creazione più naturale che avviene per ognuno in maniera molto libera. Una volta individuate delle idee interessanti si inizia a condividere e lì nasce il lavoro di gruppo. Il risultato che assume le sembianze mokadeliche però è qualcosa che va al di là delle volontà e delle abilità di ognuno di noi. Il 2008 è stato sicuramente un anno importante per voi. Vi ha visti protagonisti anche del progetto Violenza 124 con Niccolò Fabi,

a cura di Gianluca Gentile che tra l’altro è presente al piano anche in alcuni brani di Come Dio comanda. Cosa ha significato per voi questo progetto e in particolare la collaborazione con un artista affermato da anni nel panorama italiano? Ha rappresentato innanzitutto una grande possibilità: collaborare con Niccolò infatti ci ha lusingato, anche perché ha coinvolto nel progetto persone che stima tantissimo e per noi fare parte di quella cerchia è stato motivo di grande soddisfazione. Inoltre la natura del progetto ci è sembrata davvero particolare, una occasione per sperimentare un metodo nuovo di fare musica e per noi una sfida molto appassionante. Cosa c’è invece nel futuro dei Mokadelic? Portare il più possibile in giro la nostra musica con i live. Dopo tanto tempo passato in studio, ora fare concerti è diventata una vera necessità per noi che siamo una band che ha sempre suonato più dal vivo che in studio.

L’ONDA

«

Quali sono i fattori che favoriscono la nascita di una dittatura in un Paese?» «La disoccupazione, le ingiustizie sociali, il malcontento, l’inflazione, il nazionalismo esasperato Queste sono le risposte degli allievi di Rainer Wenger, docente che tenta di spiegare ai suoi ragazzi cosa sia l’autarchia. Siamo in Germania, ma potrebbe essere l’Italia o qualsiasi altro Paese del mondo. Siamo ai giorni nostri, ma ciò che viene raccontato nel film L’onda è realmente capitato nel 1967 in una scuola di Palo Alto, California. Per far capire ai propri studenti come il pericolo del nazismo sia sempre dietro l’angolo, un insegnante inizia un esperimento: trasforma la sua classe in un movimento - «l’onda» che dà il titolo al film del regista Dennis Gansel invitando tutti a seguire una rigorosa disciplina, a vestirsi in un determinato modo, inventando gesti di riconoscimento e piccoli riti e assumendo egli stesso il ruolo di guida. Nulla di pericoloso all’apparenza. I ragazzi accettano con entusiasmo il compito, quasi un gioco per loro, sperimentando la potenza e il fascino del sentirsi parte di un gruppo. Ma quando l’uguaglianza diventa omologazione, non c’è più spazio per le voci fuori dal coro e la coesione del gruppo diventa violenza contro chi non ne fa parte. Dopo soli sei giorni, la

»

Roberta Mastruzzi situazione è inevitabilmente compromessa e l’esperimento deve essere interrotto. Per una volta, non parleremo della colonna sonora, seppur essa risulti perfettamente integrata al contesto, con i suoi ritmi incalzanti e frenetici, quasi volesse gridare un disagio troppo grande da sopportare, per dare invece risalto al senso profondo del film, che è prima di tutto un monito contro chi pensa che il fascismo e il nazismo siano episodi storici e isolati. Cambiano nome, forma ed appartenenza politica ma sono sempre lì, negli angoli più nascosti del nostro animo, perché l’uomo è anche istinto. Ed è un istinto di sopravvivenza, innanzitutto. Non a caso sono le personalità più deboli a cedere per prime al richiamo dell’ideologia: per sentirsi finalmente gratificati dall’appartenenza ad una comunità e per sopravvivere all’interno di una società sempre più indifferente all’esigenze più profonde dell’animo umano. Il rischio è quello di cadere nell’errore di pensare che certe debolezze capitino solo agli altri. Ma già ritenere di essere migliori del resto dell’umanità è forse il primo passo verso l’autarchia, concetto ben sintetizzato da uno dei protagonisti all’inizio del film: «quando un singolo uomo o un gruppo ha il potere di fare le leggi per sé e per il proprio gruppo senza alcuna reale opposizione».

THE WRESTLER

SE MAI VEDESSI UN CANE CON UNA ZAMPA SOLA, QUELLO SONO IO

H

ave you ever seen a one-legged dog making its way down the street? La ballata acustica che Bruce Springsteen ha scritto per The Wrestler di Darren Aronofsky non è solo la musica che accompagna i titoli di coda, ma è anche la sua chiave di lettura. Mickey Rourke interpreta Randy «The Ram» Robinson, eroe del wrestling americano degli anni 80, che venti anni dopo aver raggiunto l’apice del proprio successo, si trova a fare i conti con se stesso. La vita non è facile, soprattutto se sei stato acclamato come un eroe, ti hanno fatto credere di essere indistruttibile e invece ti ritrovi con un corpo che rivendica il suo diritto ad invecchiare. È cosa abbastanza nota che nel wrestling tutto sia finto e il regista ci mostra come negli spogliatoi ogni botta, ogni colpo basso sia pianificato a tavolino. Forse non tutti sanno però che, al contrario di quanto succede nei film, il sangue è tutto vero. Come in molti mestieri, più o meno leciti che siano, il corpo è strumen-

Roberta Mastruzzi

to di lavoro, ma qui è anche un corpo che volontariamente soffre, si procura ferite profonde, sopporta i dolori più estremi fino a diventare carne da macello. E tutto perché lo spettacolo continui. Poi, quando si spengono i riflettori, ci si ritrova fare i conti con l’altra parte della vita. Quella in cui non puoi sbagliare, perché un colpo dato male è una ferita nell’anima di qualcun’altro. È così che Randy deve confrontarsi con una figlia (Evan Rachel Wood) che ha abbandonato e con la quale tenterà di riavvicinarsi, con l’amore per una ballerina di lap-dance non più giovanissima (Marisa Tomei) con cui vorrebbe ricostruire una famiglia, con un cuore malato che non gli consente di fare ciò che più ama al mondo, il suo lavoro. Ma il destino non si può cambiare e alla fine, come salmoni che risalgono la corrente per tornare al luogo in cui sono nati, ognuno arriva alla propria meta. Il richiamo è troppo forte, la gente vuole il suo spettacolo e l’avrà, anche a costo della tua stessa vita. La risposta è nelle parole del Boss, che ogni volta che viene chiamato dal cinema non delude gli spettatori e come già con Philadelphia, Dead Man Walkin’ e The Fuse (scritta per La 25° ora) aveva inchiodato il pubblico alle poltroncine del cinema fino all’ultimo dei credits, così anche in the wrestler Springsteen incanta e invita a riflettere sul triste destino di certi eroi: If you’ve ever seen a one-legged dog then you’ve seen me.

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SOUND tracking

Music In  Primavera 2009

ARIA L’intervista a Roberto Herlitzka Respirare non vuol dire aspirare se nei polmoni non c’è aria, ma vuoto.

CINEMA ITALIANO Le colonne sonore di Enzo Pietropaoli, Fulvio Maras e Giovanni Venosta

REVOLUTIONARY ROAD Thomas Newman ancora su un film di Sam Mendes

 CONTINUA DALLA PRIMA PAGINA

ARIA

PARACADUT

(...)

La colonna sonora la scrive quello stesso Allevi che considera la musica «parente stretta della settima arte», che è la cinematografia, una «colonna sonora di film immaginari». Questa volta il film c’è, è uscito solamente in due sale a Roma nel Warner Village Parco dei Medici e nel Cineplex Gulliver - e rischia di passare inosservato come quei piccoli capolavori coraggiosi che affrontano temi delicati. La disforia sessuale, l’infelicità, il buio, la rinnegazione di se stessi sino alla rinuncia a suonare il pianoforte. Roberto Herlitzka è qui ed è un uomo, una donna e un pianista. Cosa ha trovato in Giovanni? Ho trovato il significato del percorso che ho compiuto per immedesimarmi. L’aspirazione a un tipo di bellezza che non si possiede si identifica, nell’uomo, con il significato attribuito all’immagine femminile, quella che Giovanni diversamente non desidera possedere indirettamente, tramite una donna, ma avere per se stesso. Essendo un artista trasferisce il proprio desiderio dentro quell’aspirazione alla bellezza che anche l’artista vuole rappresentare. Nel caso di

a cura di GIOSETTA CIUFFA questo personaggio l’identificazione è addirittura fisica, pur sempre impossibile, quindi dolorosa. La musica svolge un ruolo di catarsi? Nella storia ciò non accade, niente catarsi: la musica rappresenta sì un richiamo a qualcosa che Giovanni aveva molto desiderato ma a cui lui rinuncia. Durante l’infanzia e la giovinezza attraverso di essa riusciva ad ottenere parte di quanto nascostamente desiderava; poi, per crearsi una vita normale, reprime tutto. Abbandona anche la musica e, all’apparire di quel bisogno ecco che essa diventa un tormento più che una salvezza. Lei suona qualche strumento? Ho studiato da ragazzo il pianoforte, per lunghi anni ho letto la musica di mia iniziativa, nello spettacolo teatrale Le tre sorelle di Cechov suonavo il piano. Nel film ho suonato solo nella scena in cui eseguo in un bar un «mio» brano, in realtà composto da Giovanni Allevi; nel resto del film fingo di suonare Bach durante il concerto o Brahms in casa con mia figlia, ma si tratta di riproduzioni da dischi. Com’è stata la collaborazione con Allevi, avendo voi un punto di incontro che è stata la musica e una necessità di collaborare che immagino più forte per lei rispetto agli altri? Devo ammettere che Allevi l’ho visto una sola volta quando, prima che cominciassimo a girare, venne chiamato dalla produzione per mostra-

NOTIZIE: UNA BELLA UNA BRUTTA «ASPETTANDO IL SOLE» E «IL CASO DELL’INFEDELE KLARA»

La

bella notizia è: esistono registi italiani che tentano di battere nuove strade espressive, cosa insolita per il cinema nostrano degli ultimi anni. Quella cattiva è che il risultato è a volte deludente, e non solo a livello di «incasso al botteghino». È il caso ad esempio di Aspettando il sole, prima opera di Ago Panini, regista che viene dal bel mondo della pubblicità: nonostante un cast di tutto rispetto, formato dagli attori più noti dell’ultima generazione - Giuseppe Cederna, Claudio Santamaria, Raoul Bova, Claudia Gerini, Vanessa Incontrada e molti altri - è rimasto in programmazione nelle sale il breve spazio di una settimana o poco più. Al pubblico, ma anche a parte della critica, non è piaciuto il tentativo di «confezionare» un film che ricorda troppo da vicino nella trama e nel suo svolgimento registi come Robert Altman (un complicato intreccio di vite e destini) e Quentin Tarantino (il racconto si svolge nelle camere di un albergo - vedi Four Rooms - e non mancano scene alla Pulp Fiction). Ambientato in una notte qualsiasi del 1982, quando come dice il regista - era ancora possibile perdersi prima che l’avvento di telefonini, internet e navigatori satellitari ci rendesse tutti costantemente rintracciabili, il film è da apprezzare per la scelta coraggiosa di affidare la colonna sonora a Nicola Tescari, giovane compositore autore della colonna sonora di Texas. Tra gli interpreti del film c’è Raiz, voce storica degli Almamegretta, e sarebbe stato logico affidare la musica del film a lui che invece si limita ad interpretare nel finale un suo brano, Sole, in una nuova versione com-

pletamente riarrangiata dallo stesso Tescari ed eseguita dagli Hotel Bellevue (dal nome dell’albergo in cui si svolgono le vicende), gruppo di musicisti del calibro di Enzo Pietropaoli e Fulvio Maras, riuniti insieme per l’occasione. Il risultato è un’ottima colonna sonora, inconsueta e in linea con lo spirito noir che accompagna il film. Le corde del contrabbasso di Enzo Pietropaoli - che già con Note di basso, il suo ultimo lavoro per contrabbasso solo, ha lasciato intendere quanta forza inespressa ci sia nel suo strumento - lasciano vibrare nell’aria un suono morbido e doloroso allo stesso tempo. Molto più convenzionale invece la colonna sonora che Giovanni Venosta ha scritto per il nuovo film di Roberto Faenza, Il caso dell’infedele Klara. Il tema centrale del film, tratto da un romanzo di Michal Viewegh, è l’eccessiva gelosia di Luca, musicista italiano interpretato da Claudio Santamaria, verso la fidanzata Klara (Laura Chiatti) che lo porterà ad assumere un investigatore privato per trovare le prove dell’infedeltà della ragazza. Il film gioca su due piani, la passione e il dramma di Luca contro la freddezza e lo sguardo cinico dell’investigatore, e la musica si tiene in equilibrio nel gioco delle parti, spaziando tra vari stili, dal jazz al reggae, e utilizzando strumenti come il cimbalom ungherese e il mandolino (il film si svolge tra Praga e Venezia). Venosta, finora noto soprattutto per le colonne sonore dei film di Silvio Soldini, si ispira deliberatamente a Ennio Morricone (Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto) ed inserisce suoni un po’ vintage, come lo scacciapensieri o il fischio, che richiamano i tempi d’oro dei film polizieschi anni 70 e della commedia all’italiana. Una colonna sonora costruita ad arte, un po’ scontata forse, ma capace di far rivivere i tempi in cui il cinema italiano era ancora capace di emozionare e divertire senza far sentire stupidi gli spettatori. Roberta Mastruzzi

re come si sta seduti al pianoforte agli attori Olivia Magnani e Francesco Martino (che interpreta me da giovane). Io non ne ho avuto bisogno. L’ho conosciuto allora e, con gli altri attori, abbiamo trascorso delle ore insieme ma non c’è stata una collaborazione vera e propria, anche perché la colonna sonora è stata composta dopo aver girato il film. Che cosa la musica aggiunge al film? Le composizioni originali di Allevi per accompagnare il film sono suggestive; accanto ad esse i classici come Bach, Brahms, Chopin, Beethoven, di certo «non guastano». Cosa rappresenta per lei la musica e quale genere preferisce? Sono appassionato, la ascolto, vado ai concerti. Ho ascoltato tanti cantanti quando ero ragazzo, ora di meno. Apprezzo la musica classica, non direi che la preferisco ma è difficile fare una distinzione tra classica e leggera perché se una canzone è molto bella può dare un’emozione non tanto diversa da una composizione; la musica classica tocca più nel profondo, arriva proprio

allo spirito, la canzone si ferma a uno stadio più sentimentale. Quale pezzo le ha dato un’emozione? Se ne citassi solamente uno farei un torto ad altri; mi piacevano moltissimo le canzoni di Lucio Battisti e Mina, brani che fanno parte della mia giovinezza, un momento in cui interessano di più le canzoni; mentre, per la musica classica, quando sento Chopin mi pare sia il più bello, ma Bach mi emoziona di più. A quali altri progetti si dedicherà? Girerò la versione cinematografica di Edipo a Colono, uno spettacolo teatrale scritto e ridotto per il cinema dal regista Ruggero Cappuccio, che a teatro ho già interpretato in un monologo anche calandomi in altre parti con i burattini, come vecchio puparo siciliano. Nella sceneggiatura cinematografica sarò un professore un po’ fuori di testa con dei ricordi simili alla vicenda di Edipo. Un Edipo vedente.

REVOLUTIONARY ROAD American Beauty Sam Mendes torna a Dsuo,opo raccontare la famiglia americana a modo e così anche in Revolutionary Road la vita familiare è rappresentata senza ipocrisie e romanticismi. La sceneggiatura nasce dal libro di Richard Yates e nella sua versione cinematografica il ruolo dei protagonisti è affidato a Leonardo Di Caprio e Kate Winslet. Ancora una volta, come in tutti i precedenti film di Mendes, la colonna sonora è di T h o m a s Newman. Nella soundtrack il compositore sembra quasi citare se stesso: la musica ricorda molto quella scritta nel 1999 dallo stesso Newman per il film interpretato da Kevin Spacey e Annette Bening con cui il regista inglese esordì e che gli valse l’Oscar. Ma qui, in Revolutionary Road, nella sceneggiatura e nella musica, manca quella nota di ironia e leggerezza con cui in American Beauty il regista riprendeva i suoi personaggi. A guardar bene, la differenza sta proprio nel fatto che nel primo film erano «personaggi» appunto, rappresentativi ognuno di un particolare tipo di genere umano: il quarantenne in crisi, la madre in carriera, la ragazzina un po’ lolita, il padre severo e così via. Nell’ultimo film di Mendes, i personaggi sono diventati «persone» e hanno acquisito sfumature ancora più reali e proprio per questo drammatiche. La musica che in American Beauty quasi commuoveva ora è tragica, la poesia ha lasciato il posto alla realtà. Il titolo non inganni: Revolutionary è solo il nome della strada di una cittadina nel Connecticut dove vivono i protagonisti, Frank e April. Quando si conoscono lui ancora non sa cosa fare della sua vita, lei studia per diventare attrice e si sentono destinati a diventare qualcosa di speciale. Il tempo passa e Frank si ritrova intrappolato in un lavoro che non ha scelto, April ha rinunciato alle sue ambizioni artistiche per dedicarsi alla famiglia. I sogni giovanili hanno ceduto il passo all’urgenza della realtà: la casa da comprare, i figli da crescere, le regole della convivenza sociale. Sono gli anni Cinquanta e il conformismo è la risposta all’insicurezza di una società appena uscita dalla guerra: gli uomini con abito scuro e cappello al lavoro e le donne con grembiule da cucina e messa in piega perfetta accanto al focolare. Qualcosa non va nel rapporto tra i due e la donna immagina un futuro diverso in un luogo dove poter vivere liberi e realizzare i pro-

pri sogni, Parigi. Mai sottovalutare la potenza dell’immaginazione: l’idea di lasciarsi tutto alle spalle e ricominciare da capo in un’altra città sembra appianare ogni conflitto. Il risveglio dal sogno sarà brusco e inevitabilmente tragico. La tesi di Sam Mendes è che la nuova forma di schiavitù sia il mutuo da pagare, invenzione dell’età moderna per consentirci di vivere l’illusione che a questo mondo tutto si possa comprare, a rate. Ma queste ti legano per sempre a un progetto che può cambiare, a un amore che può finire, a un lavoro che non puoi lasciare. Lo scontro con la realtà può essere molto duro e per fuggire da essa (e da se stessi) ci si inventa un posto dove essere felici. È così in tutto il mondo, che siano gli anni Cinquanta o il ventunesimo secolo, che sia il Connecticut o l’Europa, ognuno sogna di essere da qualche altra parte: Parigi o New York, cambia solo la sponda da cui si guarda l’Oceano. La felicità sembra essere sempre al di là di qualcos’altro. Roberta Mastruzzi

RIVISTA primavera.QXP

22-04-2009

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BEY&further OND a cura di ROMINA CIUFFA

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Music In  Primavera 2009

POLITICA Intervista a Federico Mollicone Ci siamo domandati se il direttore del Teatro dell’Opera non debba, per caso, essere sordo, oltre che Muti.

NORA THE PIANO CAT Intervista a una gatta pianista In Pennsylvania c’è una gatta che sa suonare il piano da quando aveva un anno

NORA

a cura di ROMINA CIUFFA

a cura di ROMINA CIUFFA

LE MADRI DELLE FIDANZATE (...)

Al presidente della Commissione Cultura di Roma ho chiesto se per caso non ci sia qualcosa che non va nel nostro sistema, considerato che, per cause politiche che nulla hanno a che vedere con la musica, stava per saltare l’Ifigenia del Maestro Riccardo Muti. Mutatis mutandis: questa figlia di Agamennone non era stata già una volta immolata ad Artemide su consiglio di un indovino, per placare le tempeste che la dea aveva provocato nel mare che bagnava Aulide, sulle coste della Beozia, per impedire che Agamennone partisse per Troia? Ne avevamo parlato su Music In, prima ancora che accadesse il «fattaccio». Teatro dell’Opera o degli Operai? Le linee di indirizzo per il rilancio del Teatro dell’Opera prospettate dal Sindaco Gianni Alemanno contengono indissolubilmente la difesa dei dipendenti del Teatro dell’Opera, dagli artisti del coro dell’orchestra fino all’ultimo figurante o tecnico. Perché non si considera lo spettacolo un’industria e l’artista un lavoratore? Il problema risiede nella forma giuridica che vede i teatri dell’Opera rappresentati da fondazioni liriche, e questo rende complesso sia il discorso dei finanziamenti pubblici che quello delle sponsorizzazioni private. La dignità professionale degli artisti è compromessa, considerarli «scansafatiche» è prerogativa italiana; noi non dimentichiamo mai che alle Accademie di Musica non è ancora stato riconosciuto il grado di Università. Non è necessario riqualificare gli artisti anche «dal basso»? Il Comune di Roma ha dato il via ad una serie di iniziative che affermano il riconoscimento delle eccellenze giovanili artistiche. Il Festival «Adrenalina-L’arte emerge in nuove direzioni» è il paradigma di questa politica culturale che ha promosso giovani emergenti nelle arti visive, musicali e coreografiche. Si è parlato, nel dibattito sul rilancio del Teatro dell’Opera, di eliminare gli sprechi. Ciò vuol dire eliminare gli artisti: vero o falso? È vero che i tagli del FUS colpiscono soprattutto le produzioni: purtroppo, per come sono stati gestiti gli enti lirici e i teatri pubblici in passato, ci sono stati e ci sono ancora molti sprechi che possono essere eliminati. Fus: come «ripartire»? In entrambi i sensi: ri-partenza e ri-partizione. Il Fus è un contesto sicuramente da ripensare, in quanto troppo condizionato da influenze politiche ma anche da scelte apparentemente tecniche, in realtà discrezionali. Quali i punti principali della discussione in corso in Commissione Cultura sui finanziamenti pubblici allo spettacolo? In Commissione Cultura abbiamo aperto una fase di ascolto che ha già esaminato le audizioni del Teatro dell’Opera e dell’Auditorium. Proseguiremo nei prossimi mesi con il Teatro di Roma, Santa Cecilia e tutte le realtà istituzionali che hanno come interlocutori la Commissione stessa. Da questi incontri purtroppo emerge una mala gestione negli anni passati che porterà a scelte dolorose e comunque obbligate nel prossimo futuro. Quale, idealisticamente, il modello di sostegno che in Italia più si addirrebbe alle attività musicali? Un modello basato sul concetto sussidiario degli investimenti privati nella Cultura. Ogni realtà dovrà potenziare gli uffici di Fund Raising e mettersi sul mercato. Penso alle grandi potenzialità che avrebbe l’Opera italiana sul mercato orientale, mentre oggi siamo costretti ad acquistare l’Aida da registi texani. Tante case (una del Jazz, una del Cinema, una delle Letterature, l’Auditorium e così via) pochi (selezionati) inquilini? Il riordino delle strutture create dalla precedente Amministrazione è una delle urgenze a cui sto lavorando, in collaborazione con l’assessore Umberto Croppi. La cosa incredibile che abbiamo trovato è la disomogeneità nella gestione amministrativa. Alcune case sono autonome, altre addirittura sono uffici comunali. Occorre mettere ordine, razionalizzare e vedere chi ha avuto capacità e successo, e chi no. Cultura e fondazioni. È solo un problema di soldi? Sicuramente, oltre alla copertura di budget delle stagioni, il problema è il confronto con il mercato culturale. Ci sono delle programmazioni talvolta incomprensibili di spettacoli teatrali sperimentali in teatri classici, metteremo ordine anche in questo ambito al più presto. Dicono che l’udito del Maestro Muti sia assicurato per 10 milioni di euro. Considerato che le sollecitazioni politiche sono di gran lunga maggiori di quelle musicali - non sarebbe meglio un sordo a dirigere un grande ente lirico in Italia? Il prestigio che il Maestro Muti porterebbe al Teatro dell’Opera è condizione necessaria ma non sufficiente al suo rilancio, se non accompagnata da una direzione artistica capace di affermare il repertorio tradizionale e rilanciarlo nel mondo, inserendo solo episodicamente opere sperimentali. In sostanza non si capisce per quale arcano motivo non vendiamo al mondo che ce le invidia le opere classiche e ci facciamo rifilare sperimentazioni già vecchie e già viste in Europa venti anni fa.

GATTA PIANISTA Rossini aveva scritto un Duetto buffo di G ioacchino due gatti, un brano per piano e due voci femminili che interpretano il miagolio suadente e lamentoso di due mici. Il testo faceva proprio «miao». Un pezzo ironico composto per ricordare quei due gatti che lo svegliavano tutte le mattine nella sua residenza di Padua e che appartenevano alla padrona di casa, alla quale lo dedicava. Oggi in Pennsylvania c’è Nora, una gatta che sa suonare il piano da quando aveva un anno: sa scegliersi le note, cerca quelle nere, conosce il ritmo e lo segue, sa cambiare il volume. Appoggia anche la testolina sulla tastiera mentre suona, come faceva Beethoven da che divenne sordo. Non sarà un caso, allora, che ha ottenuto milioni di visite su Youtube questa micia. Vive con altri cinque gatti e due umani, Betsy Alexander e Burnell Yow, che la presero per caso in un negozio di animali del New Jersey, il Cherry Hill. Betsy, diplomata in Composizione, suona e canta dal 1978, a 15 anni scrisse il suo primo musical, su Caino e Abele, si trasferì a New York, scrisse i musical Stakin’ My Claim, Another Kind Of Hero, poi un musical su Anna Frank, un altro basato sulla commedia I Never Saw Another Butterfly e molti altri per bambini. Per la sua gatta ha scritto duetti, che ha pubblicato perché i suoi allievi potessero studiarli: Nora the Piano Cat’s Easy Piano Duets (because not everything in life should be hard) e Nora The Piano Cat’s Impressive Sounding Duets (because sometimes you just want to impress other people). Burnell è un pittore e un musicista autodidatta. Insieme a Betsy ha creato il Raven Wings Studio (www.ravenswingstudio.com). Nora, come hai imparato a suonare il pianoforte? Ho vissuto con Betsy e Burnell per circa un anno prima di cominciare a suonare. Mentre i miei fratelli sonnecchiavano al piano di sopra, io trascorrevo tutto il mio tempo sotto, nello studio con Betsy e i suoi allievi. Ballavo - specchiandomi nel riflesso delle mie zampe - sopra la coda del pianoforte formando circoli mentre loro suonavano, e dalla coda del piano osservavo dall’alto i libri di musica sul leggio e le loro dita; altre volte mi sedevo accanto agli allievi sulla panca o sulla poltrona e guardavo Betsy fare lezione. Mi piaceva soprattutto infilarmi nel fodero della chitarra. Vedevo l’attenzione che Betsy dava ai suoi allievi mentre suonavano ed io adoro essere al centro dell’attenzione. Di solito non faccio follie per essere coccolata o tenuta in braccio, ma mi piacciono gli applausi e i complimenti: un giorno semplicemente sono saltata sulla panca e mi sono seduta proprio come gli altri allievi, ho usato i cuscinetti delle zampe per premere sulle note e mi sono compiaciuta di ascoltare i suoni che ne uscivano. Betsy e Burnell mi hanno sentito e sono corsi giù per le scale esultanti: è lì che ho deciso di continuare a studiare pianoforte. È stato come un viaggio premio: ricevo mail da tutto il mondo e i fans mi vengono a trovare per sentirmi suonare. Sono felice di ispirare gli altri a raggiungere il proprio potenziale e scoprire la gioia di suonare uno strumento. Ti viene mai da cacciare una mosca che ti ronza intorno mentre suoni? O meglio: i tuoi istinti animali prevalgono mai sui tuoi talenti umani privandoli di razionalità? Come ho scritto sul mio libro, Nora The Piano Cat’s Guide to Becoming a Good Musician (or How To Get Good At Anything Hard), in vendita su Amazon.com, Betsy è umana e ha l’attenzione di un umano; io sono un gatto e, per natura,

ho l’attenzione di un felino. Il rumore più sottile, il movimento più fine mi distraggono, ahimé, così procedo a intervalli, ma riesco molto perché sono molto concentrata durante le lezioni di pratica e lavoro duramente sulle parti più difficili. Tuttavia, se un insetto mi vola davanti, devo smettere di fare ciò che sto facendo e vado a cacciarlo. Sono un predatore, dopo tutto. E se uno dei miei fratelli si avvicina al piano mentre sto suonando, devo interrompermi e dirgli di andar via: è il mio pianoforte e non mi piace dividerlo con nessuno, nemmeno con Betsy. È importante non doversi comparare agli altri mentre s’impara a suonare uno strumento. Naturalmente traggo ispirazione dai musicisti talentuosi, ma accetto chi sono e faccio il meglio con ciò che ho. Betsy ha dieci dita ma io ho solo due zampe e la mia testa da usare, e suono con passione ed entusiasmo a prescindere da questi limiti. Credo di essere come il primo astronauta che ha camminato sulla luna: sono un pioniere, un esempio per tutti gli altri gatti del pianeta, e ispiro tutti a esaudire i proprio sogni. Chi è il tuo musicista preferito? Chi ti fa fare più fusa, chi ti esalta, chi ti fa venir voglia di suonare di più? Facile: Betsy è la mia musicita preferita! L’ascolto ogni giorno. Faccio rumorose fusa anche mentre sono io a suonare il piano (le faccio a volte anche quando dormo e mi accarezzano la pancia). Il solo fare musica è in grado di eccitare ogni parte di me, come accade ad ogni altro musicista professionista. Ho anche degli artisti preferiti: innanzitutto Johann Sebastian Bach, un genio. Tutte le volte che ascolto suonare il suo Minuetto in Sol, dal libro di Anna Magdalina, o il dolcissimo, delirante Preludio in Do, o qualunque altra sua brillante composizione, devo correre al piano e suonare, anche se stavo riposando. Sono anche una grande fan di Beethoven, in particolare di Per Elisa. E sono stranamente colpita da Mary Had A Little Lamb. Qual è il tuo genere preferito? Sono una musicista classica. Essendo un’intellettuale, non posso che immergermi nella perfezione matematica ed emotiva di questo genere, ma sono aperta a tutti i tipi di musica e di strumenti. Se solo potessi tenere un flauto, proverei a suonarlo: grazie al cielo sono stata adottata in una casa con un pianoforte! Mi dicono sempre che sembra che suoni del jazz, e sono d’accordo: è facile per me suonare il tritono perché tra il si e il do o tra il mi e il fa non ci sono tasti neri. Per questo mi ascolterete spesso suonare un si e un fa insieme: è un intervallo buonissimo per la mia zampetta. Ma posso anche raggiungere i tasti neri, che aggiungono molto sapore al suono. Preferisco le note sopra il do5: sono sempre stata attratta dalle note alte poiché posso ascoltarle molto meglio di quanto non facciate voi umani. Eh già, tutti abbiamo dei limiti da superare nella vita. Sai davvero cosa stai facendo mentre suoni il pianoforte, o suoni a caso? Mi prendi in giro? Certo che so quello che faccio. Se guardi i miei video, noterai che spesso nei duetti suono nella medesima chiave in cui suonano gli allievi. Non è un caso: decido davanti a quali note sedermi prima di suonare. Suono anche ritmi diversi e ripeto note da pianissimo a forte e al contrario. Quando l’allievo smette di suonare, anche io termino nel duetto. Ogni volta. Sempre. Quando lui smette, io smetto. Come potrebbe essere un caso? Una volta, sotto Natale, Betsy insegnava usando il mio piano, così mi sono seduta all’altro e ho suonato: la la la, la la la, la do fa sol la in ritmo perfetto, l’esatta introduzione di Jingle Bells. Quando sono da sola, improvviso. Se Betsy e Burnell entrano per riprendermi, io mi interrompo e salto giù - non mi piace essere interrotta durante momenti di intensa creatività -. A volte utilizzo una zampa per tenere una nota e uso l’altra per suonarne un’altra, così posso produrre un suono uniforme. Cantare è un’ipotesi? Una volta Betsy e Burnell stavano rilasciando un’intervista al piano di sopra, ed io ho cominciato a suonare furiosamente e a cantare (mi piace essere sempre nello «spotlight») miagolando più forte che potevo: nel futuro proverò anche a cantare mentre suono. Ti senti un gatto differente, o un umano differente? Mi sento un gatto. Ultimamente mi hanno detto che sono ingrassata: perché la gente comune ha queste aspettative rispetto a una celebrità? Perché bada solo alle apparenze? Noi siamo come tutti. Come Oprah, mi piace mangiare e ho un metabolismo lento. Mi piace stare da sola, o con Betsy. Il mio unico amico è mio fratello Ronnie, i miei fan mi adorano e per me è un piacere essere intervistata da Music In. Saluto tutti i miei ammiratori italiani e auguro che i loro sogni di tonno divengano realtà.

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24-04-2009

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Music In  Primavera 2009

RAF FERRARI QUARTET VANESSA PETERS & ICOM LUCA OLIVIERI La UMBERTO TOZZI Non solo Pauper Un menù di bordo di Sweetheart, Keep Your Chin Quarta Dimensione live Una guerra di carta igienica venti portate (e vino a profusione) Up Volo Itaca-Amsterdam Come un film muto

UMBERTO TOZZI - NON SOLO LIVE

FEED back a cura di ROMINA CIUFFA

VANESSA PETERS & ICOM - SWEETHEART, KEEP YOUR CHIN UP

UMBERTO TOZZI - Non solo live

Al sicuro dietro le pareti domestiche diventa naturale e semplice percorrere i sentieri del nostro io, mentre l’amato fuori naviga nella tempesta, parte, ritorna, vola, sogna, promette, tradisce. Vanessa Peters attraverso la rivisitazione dei miti greci racconta sentimenti universali che rivivono tra Austin e Itaca, tra Cnosso e Amsterdam. I testi, scritti con un lirismo intenso e ispirato, sembrano frammenti raccolti da una storia d’amore, ma in realtà raccontano un sentimento più vasto che coinvolge le relazioni tra gli umani, smarriti in un’egoistica incomunicabilità, e degli

ALT ER NATIVE

Un soldo in aria, e in attesa che tocchi terra penso. Una canzone che fa «ti amo» e lo ripete per più di dieci volte di fila non strazia? ti-amo-ti-amoti-amo-ti-amo-ti-amo-ti. E il giro di do? do-laminore-fa-sol. E la censura anni 70? Nel letto comando io ma tremo davanti al tuo seno. La mia moneta non accenna ad atterrare, se viene testa vuol dire che basta. Attendo. Umberto Tozzi, a vent’anni dal suo celebre disco live Royal Albert Hall, canta nel suo nuovo Non solo live le storiche - per Gloria, per Anna (Perdendo Anna), per gli altri e per noi (Gli altri siamo noi), per gli Innamorati e per la Gente di mare - e aggiunge 5 inediti e due cover - Lullabye Goodnight my Angel di Billy Joel, e Petit Marie (Stella d’amore) di Francis Cabrel - e due ghost tracks, Vida e Un corpo e un’anima, brano con cui nel 1974 Dori Ghezzi e Wess vinsero ‘Canzonissima’ e che per la prima volta il torinese propone in versione studio. Tra gli inediti Anche se tu non vuoi, primo singolo in radio, Muchacha, un’ironica ballata ispirata a una giovanile fuga d’amore del figlio Gianluca (anche produttore dell’album per Momy Records) e Oriental Song, brano in cui sperimenta il genere lounge. Ascolto questo guerriero di carta igienica mentre mi fa la guerra (ti-amo-ti-amo-tiamo-ti-amo-ti-amo-ti) e lui mi chiede: 1) vino leggero, 2) lenzuola di lino, 3) il sonno di un bambino, 4) un po’ di lavoro, 5) di stirare cantando. Pretenzioso? Mi prende pure in giro. Ma poi mi chiede perdono. È a quel punto che il cd si arresta, il soldo cade a terra. Vuol dire basta, lasciamoci. Ma (finalmente) è primo maggio: su coraggio. Romina Ciuffa

RAF FERRARI QUARTET - PAUPER Pauper è il debutto discografico del Raf Ferrari Quartet. Eppure il pianista lucano sfoggia una sicurezza e una solidità compositiva che dopo cinque battute della prima traccia comanda di chiudere gli occhi al più arcigno dei critici. Ci sono suoni talmente diversi, tutti talmente evocativi e fortemente personali, da causare un senso di vertigine. Il Caronte di questa imbarcazione francescana (che «pauper» sia latino o inglese poco importa, ma la nobile povertà già in sé racconta il tipo di cammino ricercato) si fa accompagnare da tre musicisti capaci di intuire al volo la mappa melodica ed armonica del nocchiero; il contrabbasso di Guerino Rondolone dimostra una sobria eleganza, preciso, ritmicamente fantasioso e mai convenzionale. Claudio Sbrolli si muove tra i pezzi della batteria con decisione e sensibilità, padrone del tocco e attento al flusso. Vito Stano con il suo archetto accarezza le quattro corde del suo violoncello sempre in perfetta interplay con Ferrari e crea sonorità inattese da uno strumento che pareva destinato a non uscire che dalle camere sinfoniche degli auditori classici. Il resto è l’itinerario personalissimo proposto attraverso le otto tracce, brani inediti e sofisticati con arrangiamenti originali, che evitano tanto il baratro dell’elitarismo sonoro quanto una certa piaggeria da citazioni a catena che spesso invade i debutti d’autore. È vero, tra le dita di Ferrari c’è parsa scorrere tanta

JAZZ & blues

musica proveniente da tanti generi diversi, da Keith Emerson, a Chick Corea, a Horace Silver a Theolonius Monk fino al pianismo lirico di Claudio Arrau, ma questo è parso un surplus di valore perché il carattere di Ferrari si sente fin dalle prime due (affatto lineari) tracce: Il Vuoto e Semisfera. Sontuoso del ritmo, variazioni di tempi semplici e composti, difficili accelerando e rallentando sempre sincronizzatissimi e poi melodie ed improvvisazioni esatonali, ottofoniche, liricamente dense di jazz fresco e tradizionale allo stesso tempo. Il quadro complessivo, ricco di colori, esclude di incasellare questo Pauper in alcun genere perché il risultato è musica e la sua gioiosa celebrazione. Eppur si ha come l’impressione che Ferrari abbia da dire troppo e subito, un’urgenza espressiva, quella di quando ti invitano a pranzo e - per far bella figura - ti sfornano un menu da venti portate: alla fine ci si alza leggermente frastornati. Pauper presenta, appunto, un menù di bordo da venti portate (ma vino a profusione).

LUCA OLIVIERI - LA QUARTA DIMENSIONE La Quarta Dimensione è tempo e titolo dell’ultimo album di Luca Olivieri (AG Prod 2008). Dodici brani, tra realizzati per spettacoli teatrali e sonorizzazioni di film muti d’epoca, o nati come brevi frammenti e rielaborati in tempi diversi. Avanguardia, new age, world music, classica ed elettronica abitano questa dimensione come figure danzanti o flussi sonori di una conchiglia, elemento in primo piano del progetto grafico del disco. Il risultato è una raccolta di brani strumentali,

ALT

colonna sonora che scorre liscia e morbida e dov’è l’ascoltatore a crearsi di volta in volta nuove immagini. Tinte malinconiche e nostalgiche nelle prime tre tracce, fra cui spiccano Angelina, le chitarre a là Ry Cooder e la seducente fisarmonica de Il sogno di Napo, uno dei migliori brani del disco. Timbriche più intricate e scure per la batteria tribale de L’Attesa, spensieratezza arabeggiante in Un Mondo Segreto, circo e mazurca in Fantasmi; in Alibi un coinvolgente rullante. Dopo una reprise di Angelina il disco si chiude con l’elettronico-minimale Le Ali del tempo e la sognante Ricordo. Oltre a Luca Olivieri, alle prese con tastiere, wurlitzer, Korg MS 20, programmazioni, glockenspiel, melodica e, percussioni hanno preso parte numerosi musicisti tra cui Mario Arcari, storico collaboratore di Fabrizio De Andrè, Ivano Fossati, Mauro Pagani ed altri. Valentina Giosa

MALIKA AYANE - MALIKA AYANE Ultimo e unico album di Malika Ayane (per la Caterina Caselli Sugar, 2008), venticinquenne di Milano, a cui la paternità marocchina ha donato forse la parte più interessante del suo talento: «Il colore della sua voce è un arancione scuro che sa di spezia amara e rara», secondo Carlo Conte e Caterina Caselli, suoi genitori artistici. Lo stile è deciso, e capace di adattarsi a generi e musicalità differenti: soul, trip hop, anche vicino alla black music, contagiato dalle melodie della musica d’autore italiana e da quelle africane, con un timbro morbido e una personalità genere Amy Winhouse+Norah Jones. In italiano e in inglese riesce a far emergere queste doti con naturalezza disarmante. Felling better, successo dell’estate scorsa, e True Life sono ballate allegre e vivaci arricchi-

te da un violoncello discreto e non invadente, strumento che lei studia dall’età di undici anni e che torna in Someday e Sospesa, scritta per lei da Pacifico, versione italiana di Soul Weaver. Come Foglie (firmata da Giuliano dei Negramaro), rivela l’impronta della canzone italiana. Blue Bird che si apre con un assolo di chitarra, presenta una voce ruvida e profonda, vagamente drammatica e molto interessante. Moon e Fandango, pezzi più dark e pop, sono i più forti e incisivi. Degna di nota anche la divertente interpretazione della celebre Over the Rainbow, di cui Malika offre una lettura soul che svela la grande capacità di fare suoi elementi diversissimi rielaborandoli con una personalità che ricorda spezie orientali di color arancio. Alessandra Fabbretti

Paolo Romano

GINEVRA DI MARCO - DONNA GINEVRA

LORENZO MARSILI - SUCCEDE Un album, quello di Lorenzo ER Marsili, in cui Succede. Cosa? NATIVE Innanzitutto un po(p) di introspezione: sulla società, la solitudine, le scelte. Lui vorrebbe fare la canzone di questa generazione, la Pablo del 2000, ma non è proprio in questo album. Anche tradizione elettronica d’oltremanica, da techno a jungle, dunque influenze fac-Tiromancino (e infatti questo Marsili nel 2005 incontra Luigi Pulcinelli-ex Tiromancino che lo produce interamente); ecco a cosa si deve la sperimentazione di sonorità e di testo italiano su atmosfere elettroniche internazionali. Ma è anche un amante del primo Fossati, di Francesco De Gregori, comunque della scuola romana e genovese, ha frequentato Franco Battiato, ama Portishead, Massive Attaks e Subsonica. Poi, adora il cartone animato Yattaman. Sarà per questo che cerca, e cerca ancora: i quattro frammenti della pietra Dokrostone sono sparsi e guerra di bottoni ricomincerà. Romina Ciuffa

umani stessi con la natura, con Dio. I quattordici brani di «Sweetheart, Keep Your Chin Up» sono un viaggio nel country-folk americano più autentico, impreziosito dalle esperienze rock mediterranee e mitteleuropee dei musicisti coinvolti: oltre agli Ice Cream on Mondays (ICOM), sono ospiti del disco Guglielmo Gagliano (violoncello), il cantautore danese MC Hansen e l’olandese Eva (cori) e Alex Akela (violino, mandolino e cori). Prodotto con Salim Nourallah, il nuovo disco di Vanessa Peters & ICOM è una finestra aperta sul mare. E dall’altra parte scorgi l’America. Nicola Cirillo

In Bretagna e Macedonia va a ritrovare antichi canti d’amore e da matrimonio (Au bord de la fontaine del 1842 e Usti usti baba, canto in lingua rom); poi in Albania scopre una lingua difficile in un antico canto storico (Ali Pasha). Attraversando l’Italia, ritrova la Toscana con La Malontenta - ninna nanna dal sapore amaro (il babbo gode la mamma stenta) - e In Maremma - spaccato della Toscana contadina del Novecento -. Verso sud si va in Campania con un canto cilentano del XVI secolo (Li’ffiglile) rielaborato in dialetto fiorentino, la macchietta napoletana del dopoguerra M’aggia curà, e ancora Il crak delle banche, brano di fine Ottocento sullo scandalo della Banca di Roma. Ginevra Di Marco - dopo un primo disco dal vivo, Smodato Temperante - rende omaggio alla musica d’autore con matrice popolare: Io sì di Luigi Tenco (quasi un sirtaki greco) e Terra mia (un vecchio, migliore Pino Daniele che cantava - prima di tradirli con una mar-

BEYOND &further

chetta - il profondo legame con la tradizione napoletana e il senso di libertà). Prendere un aereo poi, destinazione Cuba: La Maza di Silvio Rodriguez sul senso della vita. La nave va e ci sono momenti in cui, al suo posto, Gabriella Ferri sembra tenere l’àncora (la passione è romana, l’accento toscano). Calda e duttile. Smodata temperante. Un viaggio nel viaggio. Romina Ciuffa

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