Music In N. 11

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  • Pages: 16
PERIODICO DI INFORMAZIONE, ATTUALITÀ E CULTURA MUSICALE

IL ROBOT LITTLE DRUMMER BOY CHE VOLEVA SUONARE

Periodico di informazione, attualità e cultura musicale a cura del Saint Louis College of Music

Novembre-Dicembre 2009

MANGIARE 68 FOGLIE

SPECIALE SESSANTOTTO

di Flavio Fabbri

P

on si può dire quale eredità sia stata lasciata o cosa abbia significato il jazz nel 1968 senza accennare alla «rivoluzione culturale» che invase il mondo a metà degli anni Sessanta e che raggiunse la sua apoteosi nel 1968. In Occidente - Europa e Stati Uniti - un numero imponente di studenti e operai prese posizione contro l’ideologia della società dei consumi, che proponeva il valore del denaro come punto centrale della vita sociale. Nel blocco orientale le popolazioni si sollevarono per denunciare la mancanza di libertà e l’invadenza della burocrazia di partito, gravissimo problema sia dell’Unione Sovietica che dei Paesi legati ad essa. (...)

er l’Orchestra J Futura la musica è prima di tutto immaginazione: una macchina non è una macchina, un robot non è un robot, un uomo non è un uomo. Ma tutti suonano. In ogni sperimentazione è presente la possibilità di assaporare a livello multisensoriale una forma di inquietudine, di fastidio, per ciò che non si comprende e non si riesce a tradurre con i tradizionali strumenti cognitivi. La sperimentazione vera, autentica, significativa, deve rompere un equilibrio mentale, sociale, storico, percettivo e sensitivo, portare con sé una rara sapienza sovversiva e avere l’ardire di mostrarsi spudoratamente coraggiosa, anzi arrogante nel suo essere ribelle. (...)

! CONTINUA NELLO SPECIALE SESSANTOTTO

! CONTINUA NELLA PAGINA CLASSICA-MENTE

di Adriano Mazzoletti

N

J AZZ &blues

SONNY ROLLINS

di Nicola Cirillo

T

he little drummer boy («Il piccolo tamburino»), scritta nel 1941 da Katherine K. Davis, suggerisce un tema natalizio, la storia di un ragazzino povero che propone in dono a Gesù, poiché non ha nulla, di suonare per lui il tamburo. Shall I play for you, pa rum pum pum pum, On my drum? Oggi c’è un nuovo little drummer boy: Gianluca Pellerito, 15 anni. Nato a Palermo il 1° maggio del 1994 sotto il segno del Toro, del Toro ha la determinazione. Conosce la batteria dall’età di 4 anni - énfant prodige - e gioca con amici tipo Peter Erskine, Alex Acuna, Gigi Cifarelli, Davide Ghidoni e Michael Rosen. (...) ! CONTINUA NELLA PAGINA BEYOND

ALTNATIVE ER

CHICKS ON SPEED

Direttore Responsabile Salvatore MASTRUZZI Direttore ROMINA CIUFFA Redazione Romina CIUFFA [email protected] Flavio FABBRI [email protected] Rossella GAUDENZI [email protected] Valentina GIOSA [email protected] Roberta MASTRUZZI [email protected]

Contributi Lorenzo Bertini, Rita Barbaresi, Luca Bussoletti Nicola Cirillo, Stefano Cuzzocrea, Alessandra Fabbretti Attilio Fontana, Gianluca Gentile, Adriano Mazzoletti Corinna Nicolini, Livia Oreste, Paolo Romano Sabrina Simonetti, Donato Zoppo

Music In Video Videointerviste Romina CIUFFA Sabrina SIMONETTI www.youtube.com/musicinchannel Web > www.musicin.eu www.myspace.com/musicinmagazine Progetto grafico Romina CIUFFA Cristina MILITELLO Redazione Via del Boschetto, 106 - 00184 Roma Tel. 06.4544.3086 Fax 06.4544.3184 Mail [email protected] Marketing e Pubblicità Mail [email protected] Tipografia Ferpenta Editore Srl Via R. Gabrielli di Montevecchio, 17 Roma Anno III n. 11 Novembre-Dicembre 2009 Registrazione presso il Tribunale di Roma n. 349 del 20 luglio 2007

STEFANO MASTRUZZI EDITORE

MUSICALL

‘68 ITALIAN ROCK MUSICAL

TRAINING

LA «TAV» DEL JAZZ

«VUOI» SI DICE AGLI ARTISTI Avviserei, prima che sia troppo tardi. Oggi sono un Bianconiglio e, con un orologio al collo, corro gridando: «Presto, che è tardi!». Tra le pagine della cronaca romana il Corriere della Sera titola: «Troppo Facebook? Si cura al Gemelli», e un occhiello: «Dipendenza dal pc, apre un nuovo reparto». C’è un neonato ambulatorio psichiatrico sulle dipendenze patologiche ed è in fibrillazione: chi dovrebbe far musica trascorre il tempo ad «addare». Non scherziamo. La vera musica si fa al pianoforte, piegati sulla chitarra, sfiatati nel sax, alle feste di paese e in locali sconosciuti la cui insegna domani recherà: «Chiuso per fallimento». Odore di anice, sigari, legno, odor di muffa e di periferia. Sta per: «Fatemi suonare, io devo suonare, io adoro la muffa mentre suono».

Chiediamo venia. Chiediamo agli stonati di smettere di tormentarci dal web, di cercarsi un lavoro, di iscriversi a un corso di canto ed armonia, se tenaci; perché crediamo che non esistano stonati dove la voce e l’orecchio siano allenati con tecnica accurata e sacrificio. Chiediamo soprattutto ai loro amici di esser sinceri con loro, come si deve a un amico. La tecnologia non può significare questo, l’abbassamento se non l’azzeramento della qualità: è lo scotto da pagare? Piuttosto ci pignorino il pianoforte. Parliamo, qui nella rubrica ClassicaMente, di robots che suonano e congegni che consentono di eseguire concerti in streaming a distanza intercontinentale, ma siamo privi di orecchio umano: giudichiamo l’artista dalle visite che riceve in termini di click, nemmeno si trovasse in una stanza di ospedale. Si visita un malato, un artista lo si ascolta. Mi rifiuto ancora di pensare che il parametro per inserire una band nel palinsesto musicale sia costituito dai downloads gratuiti: la musica non consta del numero di amici contati nel network, la musica è l’artista, è lui che ascolteremo cantare stasera, non il click metallico e falso di un «add a comment». Siamo tutti cantanti allora, tutti scrittori, tutti registi, perché ci sono i blog, Myspace e

Youtube; dimenticando che i networks sono solo un biglietto da visita, al cui indirizzo deve corrispondere un citofono che non suoni una nota sola. Continuiamo flebilmente a sostenere che il vero artista debba saper non solo cantare e suonare almeno due strumenti, ma anche solfeggiare; che il vero scrittore non debba confondere «romanzo» con «alfabetizzazione»; e che il vero regista debba saper sceneggiare. In poche parole, che in ogni settore creativo siano richieste 3 condizioni, necessarie ma non sufficienti: una profonda umiltà, studio incessante e fiere di paese. Sì, proprio la porchetta o i funghi, il vino rosso, la nocciola tonda gentile romana. Non è il web che consacra il talento, ma il palchetto. L’evoluzione. E gli artisti da web sono fermi, riversi sulle loro pagine online a fare spamming, chiedere amicizie, creare gruppi, invitare ad ascoltare qualcosa che dovrebbe esser convertito in manodopera o volontariato. Ad appoggiare cause cantando testi sulla guerra in congiuntivi sbagliati, senza muoversi dalla stanza. Forse, allora, una visita di cortesia gliela dovremmo fare davvero, e portar loro le nocciole tonde di Ronciglione.

Romina Ciuffa

J AZZ & blues a cura di ROSSELLA GAUDENZI

Music In ! Novembre-Dicembre 2009

SALVATORE RUSSO Esce JOE BONAMASSA Quando a 12 anni MILES DAVIS Ai tempi del bebop, tutti suonavano velo«La Touche Manouche» per la si partecipa a un tour di B.B. King è ine- cissimi. Sentivo gli altri musicisti suonare tutte quelle scale label Saint Louis Jazz Collection vitabile cadere nella malia del blues. e quelle note, e mai niente che valesse la pena di ricordare.

QUESTAGITANOMANIA Occorre risalire all’anno 1000 d.C. circa e alla cacciata degli zingari dall’India e dal Pakistan da parte del re afgano Mahmud di Ghazni per capire Salvatore Russo. E ascoltare «La Touche Manouche»

za di Michael Wegen, costruttore di plettri olandese e gran conoscitore dei chitarristi di jazz manouche. «Stiamo parlando del miglior costruttore di plettri per chitarra gipsy: un vero artista, oltretutto profondo amante dell’Italia, dei nostri Da Vinci e Michelangelo. Nel momento in cui decido di acquistare una seria chitarra gipsy mi reco dal liutaio Leo Eimers ed è lì che nel 2007 mi imbatto in Stochelo Rosenberg, il più grande chitarrista di gipsy jazz vivente, indiscusso a cura di Rossella Gaudenzi talento internazionale e grande compositore». Tra Salvatore Russo e Stochelo Rosenberg è feeling immediato. Grande stima da parte del musicista olandese, leader del Rosenberg Trio, per il talento made in Italy: ascolta brani composti da Salvatore e inizia a chiedergli di incidere insieme un disco. «Mi prendo il pieno merito di aver fatto conoscere Rosenberg nel nostro Paese: ho organizzato due concerti in Italia e quasi immediatamente è arrivata la ntramontabile, il tempo dei gitani. È accaduto che per una richiesta del bis. L’idea di registrare un disco insieme a lui era casualità Salvatore Russo, chitarrista di fama internaziona- talmente lusinghiera che, partiti dalla proposta di fargli regile, professionista da oltre 20 anni in contesti pop-rock ed strare solo due brani come special guest, il suo tocco ha invece orchestrali e neo-direttore didattico del Saint Louis di impresso tutto il disco. Ci siamo incontrati a Lecce dov’è stato Brindisi, ascoltasse Nuages di Django Reinhardt e ne rimanesse registrato metà del lavoro». colpito al punto da voler conoscere a fondo questo jazz «poco La storia è antica e affascinante: occorre risalire all’anno 1000 ortodosso». Siamo nel 2004 e stiamo mettendo piede nel mondo d.C. circa e alla cacciata degli zingari dall’India e dal Pakistan da del gipsy jazz, o jazz manouche. parte del re afgano Mahmud di Ghazni; le varie etnie sono approCiò che lo calamita è, ovviamente, la centralità della chitarra: date in Europa dopo una migrazione cinquecentenaria, stanziandobasti pensare che nel ‘35 il quintetto di Reinhardt - caposcuola si, se così si può dire per una popolazione nomadica, in Ungheria, della chitarra gipsy - comprendeva una chitarra solista, due chitar- Francia, Spagna, Grecia, ed altri Stati europei. Musicalmente le re di accompagnamento, contrabbasso e violino, quest’ultimo etnie risultanti dai vari ceppi, migrazioni e persecuzioni, si sono nella persona di Grappelli. fuse con le culture circostanti. Il musicista tzigano unisce il gusto Nella sua ricerca e sete di conoscenza Salvatore procede dappri- musicale alla tecnica per colpire gli ascoltatori e stupirli con effetma a tentoni: innanzitutto su internet non trova una quantità di ti quasi circensi. Non conoscono la musica, non sono in grado di informazioni paragonabile a quella oggi fruibile; inoltre come leggerla né di scriverla, occorre sempre ricordare che la loro tradimusicista rimane dapprima isolato in questa sua ricerca, non riesce zione musicale è legata all’oralità dalla notte dei tempi. Rosenberg a trovare contatti con altri musicisti. La vera svolta è la conoscen- è di etnia sinti al 100 per 100: il nome però è stato scelto e stabili-

SALVATORERUSSO I

to dal padre per sfuggire alle persecuzioni naziste. Egli suona gipsy jazz dall’età di 10 anni seguendo le orme paterne ed ispirandosi al caposcuola della chitarra del genere, Django Reinhardt, e forte di un trio che suona moltissimo a livello internazionale. «Si percepisce la complessità di questo genere, ma arriva al cuore, te ne arrivano le vibrazioni. In Italia siamo sommersi dalla pop music, ma in fondo la chitarra elettrica è uno strumento sordo, a differenza della chitarra gipsy; il gipsy jazz nasconde pochissime star e vi si riscontra un’umiltà non presente altrove: la tradizione musicale zingara, tzigana, fa sì che i musicisti abbiano bisogno gli uni degli altri, per suonare. Il jazz manouche è un genere per addetti ai lavori, forse di nicchia, poiché percepito come antico. Il tramandarsi lo rende unico». Oggi - per tramandare, appunto - esce La Touche Manouche per l’etichetta Saint Louis Jazz Collection e contiene 13 brani, di cui 4 composti da Salvatore Russo, 2 da Stochelo Rosenberg (il suo inedito dà il titolo al disco) e i restanti pezzi di Django Reinhardt e della tradizione gipsy rivisitati. Un intero anno di lavoro. «Make the cd, Sal!, m’incitava Rosenberg fino a che non ho deciso di mettermi al lavoro. È un musicista che incide raramente e sentirmi così sollecitato è stato estremamente gratificante. Si tratta del mio terzo lavoro discografico, successivo a dischi rock e fusion (Salvatore Russo, 2000; Contact, 2004). I temi gipsy mi hanno spinto a ricominciare. Ci sono temi riconoscibili, cantabili, comprensibili. Un anno di lavoro: buttavo giù le parti, Rosenberg le demoliva e si ricominciava, più volte ci siamo incontrati in Olanda. Difficile spiegare questo mio lavoro ai produttori...». «Da parte di Stefano Mastruzzi ho trovato il supporto necessario: ha avuto una visione chiara del progetto che era un pacchetto finito da stampare interamente ideato da me. Il riscontro è stato molto buono, da subito: dovrò spedire una trentina di copie in America perché in una settimana ne sono state vendute venti. È un disco che ha le carte in regola per diventare un bestseller. Il 2010 sarà il centenario della nascita di Django Reinhardt e spero che apra le porte alla conoscenza della musica manouche. Dovremmo prender parte al Fara Festival, in estate. E vogliamo diffondere un diverso modo di stare e comunicare con gli altri. Voglio portare Rosenberg in Italia».

di Rossella Gaudenzi

comincia con il suonare la chitarra classica, ma quando a 12 anni si parteS icipa a un tour di B.B. King è inevitabile cadere nella malia del blues. Ci si fa conoscere nei primi anni del XXI secolo, ma dopo aver affiancato, a

Londra nel 2008, il mito Eric Clapton, oggi, all’età di 32, si è consacrati a pieno diritto tra i migliori chitarristi blues contemporanei, a livello internazionale. Sono linee guida della biografia di Joe Bonamassa, lo statunitense chitarrista dalla voce suadente propria dei veri e buoni bluesman, a breve sui palchi italiani; nonché valido compositore, definito erede dallo stesso B.B. King in persona. Lui allieta il nostro dicembre 2010 - con qualche buona azione ce lo saremo meritato - imprimendo di sé con un tocco la rassegna La Chitarra, dopo il

WEWANTMILES

Vogliamo miglia e miglia da percorrere con Davis. Ne facciamo anche fino a Parigi che fino al 17 gennaio 2010 ci fa viaggiare tra Saint Louis e l’odio di sé, l’uscita del cool, la libertà controllata, la pulsazione del funk, la distorsione del rock, la solitudine. arigi celebra ancora una volta Miles Davis. La riuscita Cité de la Musique, struttura risalente al ‘95 che ospita il Conservatorio, il Museo della Musica ed una vasta sala concerti, fino al 17 gennaio 2010 apre le porte ad un’esposizione, una serie di concerti di prestigio, film, workshops, conferenze e molto altro. Il tutto incentrato sull’uomo, il musicista, l’artista Miles Davis qui racchiuso in un percorso suddiviso in otto stanze: Da Saint Louis alla 52ma Strada (1926-1948); L’uscita del Cool: l’invenzione e l’odio di sé (1949-1954); Miles Ahead: in studio per la Columbia (1955-1962); Miles Smiles: la libertà controllata (1963-1967); Miles elettrico: la distorsione Rock (1968-1971); All’angolo: la pulsazione del Funk (1972-1975); Silenzio, solitudine e requiem (1976-1980); Star People: l’icona interplanetaria (1980-1891). Sono stanze che ripercorrono i periodi della sua vita attraverso fotografie, estratti video dei concerti, strumenti, partiture, costumi di scena, manifesti, oltre a dipinti e sculture, in una mostra che ha voluto focalizzarsi sulla musica, la prima a così larga scala sul leggendario trombettista statunitense. Tra le formazioni musicali che lo rappresenteranno: Jimmy Cobb’s So What Band, Joe Lovano Nonet, Paolo Fresu Quintet, Laurent Cugny Enourmous Band. (Rossella Gaudenzi)

P

successo di quella dello scorso anno legata ai grandi nomi del basso elettrico in circolazione. Nel 2009 è uscito l’album celebrativo di 20 anni di carriera, The Ballad of John Henry, con brani originali e rivisitazioni di pezzi di Ailene Bullock, Tom Waits e Tony Joe White. Ora l’Europa lo attende, attende il suo show teatrale e il cambio delle sue trenta (o giù di lì) chitarre sulla scena da fissare entro il 13 dicembre sul palco dell’Auditorium Parco della Musica. Da tenere a mente questa Chitarra, che durerà una lunga stagione invernale. Sciorino in ordine sparso: non solo blues, ma ottimo jazz, musica folk, rock, pop da Bill Frisell al leggendario Paco de Lucia, da Pat Metheny a Tuck & Patti, a John Abercrombie; da Mark Knopfler a Mike Stern, alla nostra Carmen Consoli.

J AZZ & blues

Music In ! Novembre-Dicembre 2009

NUNZIO ROTONDO Nella notte fra il 14 e il 15 settembre è scomparso a Roma SONNY ROLLINS Per chiunque studi il linguaggio del jazz è un’estasi e un torNunzio Rotondo. Di lui parla, con un’anteprima del suo libro, Adriano Mazzoletti, mento. Per chiunque ami ed ascolti il jazz è un irraggiungibile, complesso labiringiornalista e scrittore, dirigente Rai e conduttore radio, che si occupa di jazz dal 1955 to di idee. Sonny Rollins vincerebbe una gara spirometrica con un quindicenne

JAZZROTONDO

di ADRIANO MAZZOLETTI

La personalità di Nunzio Rotondo è assai complessa. Dava voce jazzistica al «fanciullino» pascoliano: pieno di speranza e insieme di timore del mondo, incline a ripiegare in una malinconia senza altro sfogo che l’amarezza solitaria.

N

ella notte fra il 14 e il 15 settembre è scomparso a Roma Nunzio Rotondo. La sua morte a 85 anni segue di poche settimane quella di un altro nostro musicista di jazz, Gianni Basso, di qualche anno più giovane. Nato a Palestrina nel 1924, figlio di un clarinettista e di una cantante, venne subito avviato allo studio della tromba e nel 1944, quando Roma non era stata ancora liberata, faceva già parte della sezione trombe di una orchestra dell’Eiar, quella diretta da Piero Rizza con Armando Trovajoli con il quale Nunzio avrebbe avuto, negli anni successivi, occasione di esibirsi spesso. La personalità di Rotondo è assai complessa. Dava voce jazzistica al «fanciullino» pascoliano: pieno di speranza e insieme di timore del mondo, incline a ripiegare in una malinconia senza altro sfogo che l’amarezza solitaria. Di sicuro c’è che Rotondo non ha mai voluto staccarsi da Roma, anche quando ebbe offerte allettanti da grandi musicisti, come Lionel Hampton, Clark Terry, Sonny Rollins o Dizzy Gillespie sempre alla ricerca di giovani talenti. Il suo rifiuto di inserirsi nel mondo del jazz internazionale, che forse considerava difficile o insidioso, che lo avrebbe allontanato dalla semplice e tranquilla vita romana, lo indusse a trovare rifugio per lungo tempo negli studi della Radio e cambiare spesso partner, anche se per lui era difficile trovare musicisti alla sua altezza. Il suo debutto discografico avvenne il 9 marzo 1950. Quella prima seduta ebbe grande significato per il jazz italiano: un giro di boa di notevole importanza. Dei tre brani incisi il primo è il bel tema di Piero Piccioni Boppin’ for Bop, in cui Rotondo si limita a suonare sedici battute, incastonate fra uno splendido Marcello Boschi e un modesto Bruno Campilli, pianista che scomparve dal mondo del jazz così come era apparso. Dove invece Rotondo è realmente superbo è in The Man I Love. Un Rotondo davisiano non per scelta estetica ma per urgenza interiore - lo sarebbe stato anche senza Miles Davis - e il modello sono le ballad incise dal quintetto di Charlie Parker, come ricorda anche Marcello Piras. Ma a parte che qui i ruoli sono invertiti-predominante la tromba, secondario il sax alto-, Rotondo ha personalità tanto forte da ripensare

tutto a modo suo. Esordisce con un rubato per tromba sola, come una invocazione tenera e struggente; e si inoltra quindi nel giro armonico gershwiniano, a tempo lentissimo, senza vincoli nel suo più libero canto. Del tema originario egli espone poche note e subito se le scrolla di dosso: è se stesso, lamentoso e commosso, implorante e disperato. Sotto il volo della sua tromba ha predisposto un fondale scritto per sax alto e tenore, che evocano a note lunghe il familiare disegno del tema di Gershwin. Dopo il suo assolo, Rotondo lascia spazio al sax alto di Marcello Boschi, che vi colloca il più bell’assolo della sua vita, perfetto e quasi furioso nella sua ansia scalpitante. Non so se qualcuno nel lontano 1950 abbia sottoposto qualche studioso americano o anche europeo a un blindfold test. Con ogni probabilità sarebbe rimasto assai sorpreso nell’apprendere che quella tromba e quel sax alto erano due ragazzi provenienti da quella che all’epoca era considerata la più inaccessibile periferia del jazz. Nel corso della sua continua evoluzione è possibile individuare due momenti topici. Il primo copre il periodo 1950-54, caratterizzato da una produzione discografica con formazioni di sei-sette elementi e da una notevole attività concertistica. Il secondo periodo, 1958-1975, segna invece gli anni più intensi del lavoro negli studi radio con complessi di quattro-cinque musicisti. Della sua lunga attività sono attualmente reperibili solo quattro cd. Il primo è la riedizione del long playing Rca Romano Mussolini con Nunzio Rotondo e Lilian Terry, con una splendida copertina in cui i tre protagonisti sono fotografati, in una bella giornata di sole romano, sulla terrazza del Pincio che si affaccia su piazza del Popolo. Il secondo una riedizione delle sue prime incisioni, con The Man I Love, in un cd della Riviera Jazz Record. La cospicua produzione realizzata per la radio e la tv giace ancora negli archivi del nostro servizio pubblico. Solo di recente la giovane etichetta Via Asiago Dieci, che si prefigge di rendere pubblico l’archivio radiofonico, ha diffuso due cd con ventinove brani del periodo 1964-1980.

ADRIANO MAZZOLETTI, «IL JAZZ IN ITALIA DALL’ERA DELLO SWING AGLI ANNI 70» ANTEPRIMA DAL VOLUME DI PROSSIMA PUBBLICAZIONE EDITO DA EDT

Se il nostro Alessandro Manzoni, tormentato dai dubbi di lingua e di stile, esponeva le bozze dei suoi sposi promessi in una casa aperta al pubblico per poterle liberamente correggere, Sonny Rollins di giorno studiava il rapporto tra improvvisazione e struttura, di sera lo sperimentava sul Williamsburg Bridge, nell’East Side di NYC, per capire le reazioni della gente

di Paolo Romano

Il Solo Album di Sonny Rollins: 50 e passa minuti di improvvisazione completamente da solo. Un torrente in piena di idee. Sconvolgente. Non una frase uguale all’altra, ma un perfetto marchingegno di struttura e melodia. E là, in quelle circostanze, presi definitivamente atto del canyon che separa un musicista, pur talentuoso, da un genio

SONNY, PLEASE P

er chiunque studi il linguaggio del jazz è un’estasi e un tormento. Per chiunque ami ed ascolti il jazz è un irraggiungibile, complesso labirinto di idee. Da 65 anni (sic!) è nei più importanti santuari del mondo di musica afroamericana e conta una produzione in studio e live da doverla almeno dividere in decadi per provare a repertarla con dovizia. È Sonny, al secolo Theodor Walter, Rollins, il ragazzo ottantenne di Harlem che se c’è un solo appassionato che, non avendolo ancora fatto, si perde la chance di ascoltarlo l’11 novembre al Parco della Musica capitolino, beh... dovrebbe per penitenza essere costretto ad un anno di ascolto forzato e continuo di Korn e Sepultura. I suoi solos sono materia di studio obbligatoria per diplomarsi alla Berklee di Boston, dove ti fanno rompere le corna sulla trascrizione ritmica esatta della sua più celebre St. Thomas: una manciata di poche note messe là a costruire il principio di una storia da raccontare, con intervalli desueti piazzati a prolusione di uno dei più intriganti, lucidi e complessi assoli del jazz (provare per credere). Sarà che il gusto per il calypso gliel’avevano trasmesso i genitori delle Isole Vergini, sarà che il blues l’ascoltava da ragazzino per strada, ma Sonny si ritrovò a 16 anni a padroneggiare ogni più sottile sfumatura della musica di Harlem e a buttarsi in uno studio disperato, che - a sentir le interviste, cui mite e umile si sottomette da altrettanti 65 anni - continua come se fosse il primo giorno di alfabetizzazione musicale. Se il nostro Alessandro Manzoni, tormentato dai dubbi di lingua e di stile, esponeva le bozze dei suoi sposi promessi in una casa aperta al pubblico perché le potesse liberamente correggere, il buon Sonny - troppo presto assediato da un travolgente successo decise di darsi uno stop, basta serate e basta registrazioni: di giorno studio del rapporto tra improvvisazione e struttura armonica, di sera via a sperimentarlo per strada, sul Williamsburg Bridge, nell’East Side di NYC, per capire la reazione della gente, perché la musica jazz è della gente.

Per i cultori delle etichette, il suo fu presto definito «hard bop», come dire un bebop più aggressivo, torrenziale, spesso frammentato e con zero concessioni ai melodici di Saint Louis, prima, di Chicago, poi, di inizio secolo. Il resto è storia. Collaborazioni sterminate con i mammasantissima che, di decennio in decennio, andavano affermandosi. Indomito scopritore di giovani talenti, Rollins ha sfatato, tra gli altri, i cliché per cui i sassofonisti «vecchi» non hanno più fiato (vincerebbe una gara spirometrica con un quindicenne) e non hanno più idee (visto che continua a sfornare nuovi album di una bellezza imbarazzante). Ripropone all’Auditorium di Roma una capacità pressoché infinita di inventare storie che inchiodano alla poltrona e tolgono il fiato; lui le chiama «creative session», spettacolari giochi al rilancio con i suoi musicisti, tutti rivolti a seguire un’idea e a dire la loro: con Rollins Bob Cranshaw al contrabbasso, Kobie Watkins alla batteria, Victor Y See Yuen alle percussioni e Bobby Broom al piano, gli stessi che hanno suonato nel suo ultimo Sonny, please e che compaiono anche nel recentissimo Road Show, Vol. 1 che dovrebbe iniziare a raccogliere le migliori session effettuate per il mondo, molte delle quali appartenenti a registrazioni private del Colosso del Sassofono. Mi correggo, lasciamo a Roma il suo, di Colosseo, e apriamo il cuore e le orecchie all’ultimo dei grandi gladiatori del bop. Post Scriptum. La recensione è finita. Per i più pazienti, spiego la prima riga. Qualche anno fa, al Saint Louis College of Music di Roma, il giovane e bravo chitarrista Antonio Nasone mi diede da ascoltare il Solo Album di Sonny Rollins: 50 e passa minuti di improvvisazione completamente da solo. Un torrente in piena di idee. Sconvolgente. Non una frase uguale all’altra, ma un perfetto marchingegno di struttura e melodia. E là, in quelle circostanze, presi definitivamente atto del canyon che separa un musicista, pur talentuoso, da un genio.

CLASSICA MENTE a cura di FLAVIO FABBRI

Music In ! Novembre-Dicembre 2009

MARIO BRUNELLO Shuffle Bach Perché nel ‘capannon’, luogo che useremo per dar vita ai pensieri e alle idee, una volta si lavorava il ferro. Lavoro duro, materia di fuoco e terra, che la tenacia, la passione, l’intelligenza arriva a piegare e dar forma. Non lasciamo la nostra mente alla ruggine

PLACIDO DOMINGO Eccellenza spagnola a servizio di sua Maestà svedese

di Flavio Fabbri

Viene da pensare che la metafisica è anche ritmica, che le suggestioni sonore e magiche di atmosfere eteree hanno molto in comune con la modernità aggressiva del Barocco. Si sperimenta - con uno sperimentatore dall’intelligenza vorace, Mario Brunello - come l’ibridazione, nella sua semplicità naturale, venga crescendo e mutando nell’esecuzione, fino a lacerare la «pupa» culturale degli ambienti più conservatori, in una prova di volo libero e contaminazione artistica

Il

g enio è sempre moderno. Bach in quattro serate, ma non solo. L’opera d’arte musicale che Mario Brunello ha fatto risuonare nel Teatro Palladium della Garbatella romana, è un fulgido esempio di forza creativa, ibridazioni e rovesciamenti sonori, con un’idea forte di fondo: raccontare la tradizione classica attraverso la musica contemporanea, quella che nasce a cavallo tra Ottocento e Novecento, fino ai giorni nostri. Si chiama Shuffle Bach il suo nuovo lavoro, presentato al Romaeuropa Festival 2009 e dedicato al Concerto Brandeburghese di Johann Sebastian Bach. Un singolare quanto originalissimo titolo tecnico, in cui il genio di Eisenach viene fuso, come in un’alchemica pozione di metalli, con un secolo barocco e denso di ritmi per la musica di Charles Ives e Philip Glass, Alfred Schnittke e Giya Kancheli, George Crumb e Giovanni Sollima. Brunello si è presentato al pubblico nelle vesti di violoncellista e di direttore, accompagnato dall’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia. Allo spettatore è toccato il compito di stabilire quali, tra i brani eseguiti nelle prime tre serate, siano stati i più belli ed esaltanti e i componimenti più votati hanno dato vita alla serata finale, entrando di fatto nella ‘top chart’ di Shuffle Bach. È come immaginare il pubblico e gli esecutori all’interno di in un gigantesco iPod che interagiscono con la struttura e i file virtualizzati dalle onde sonore, per un risultato assolutamente divertente e unico nel suo genere: «Prove dove si concerta-scrive Brunello nel suo blogconcerti dove... si riprova». Anche l’aspetto tecnologico e comunicativo, quindi, come in molti altri artisti sensibili al tempo che vivono, ha avuto il suo peso in questo nuovo progetto. Mario Brunello prima ancora di essere un artista di fama mondiale è uno sperimentatore dall’intelligenza vorace, in cerca di soluzioni sempre nuove in grado di soddisfare le proprie curiosità culturali e artistiche. Fondatore e direttore dell’Orchestra d’archi italiana, nel 1986 ha vinto il primo premio al Concorso Internazionale Ciajkovskij di Mosca, nella categoria dedicata al violoncello, esibendosi poi nelle maggiori sale da concerto di tutto il mondo, diretto da nomi di grande prestigio quali Claudio Abbado, Myung-Whun Chung, Valery Gergiev, Carlo Maria

Giulini, Eliahu Inbal, Marek Janowski, Riccardo Muti, Zubin Mehta e Seiji Ozawa. Molto attivo in formazioni cameristiche, ha collaborato con diversi solisti di fama, come il pianista Andrea Lucchesini e i violinisti Gidon Kremer, Salvatore Accardo e Frank Peter Zimmermann, a cui si aggiungono il progetto tutt’ora in corso con Vinicio Capossela, Uri Caine e Gian Maria Testa e gli spettacoli teatrali con Maddalena Crippa e Marco Paolini. Shuffle Bach, in anteprima assoluta per l’Italia, è il tentativo coraggioso e difficile di far dialogare e interagire secoli diversi, culture lontane, intelligenze e sensibilità poco affini, che solo la passione e l’amore per la musica possono vantare in comune. Un’opera, ma soprattutto una performance, in cui Brunello fa girare la testa al pubblico del Palladium, mischiando i secoli, riempiendo gli spazi vuoti dell’arte e invitando il pubblico a giocare con la storia. Ascoltando Unanswered Question di Ives del 1906, o Violoncelles vibrez! di Sollima del 1993, ma anche Concerto grosso di Al Fred Garryevi Schnittke o i Morning Prayers di Giya Kanchel, viene da pensare che la metafisica è anche ritmica, che le suggestioni sonore e magiche di atmosfere eteree hanno molto in comune con la modernità aggressiva del Barocco. Si è così sperimentato come l’ibridazione, nella sua semplicità naturale, venga crescendo e mutando nell’esecuzione, fino a lacerare la «pupa» culturale degli ambienti più conservatori in una prova di volo libero e contaminazione artistica. «Perché nel ‘capannon’, luogo che useremo per dar vita ai pensieri e alle idee, una volta si lavorava il ferro. Lavoro duro, materia di fuoco e terra, che la tenacia, la passione, l’intelligenza arriva a piegare e dar forma. Non lasciamo la nostra mente alla ruggine». Musica come antiruggine, insomma, un lubrificante per l’intelligenza, la creatività, la sensibilità, che il maestro di Castelfranco Veneto diluisce per bene, passa con cura, accertandosi che nessun meccanismo culturale e sociale sia tralasciato. Solo in questo modo la musica creativa, le opere d’arte, i linguaggi del futuro avranno vita assicurata anche in tempi di omologazione e irrigidimenti ideologici. Bach sarà sempre moderno, incredibilmente più di un iPod.

È la storia di un’amicizia, quella tra il tenore Placido Domingo e la soprano Birgit Nilsson, e di un premio da un milione di dollari consegnatogli dal Re di Svezia

PLACIDA MENTE IL

13 ottobre 2009 il Maestro Placido Domingo ha ricevuto, dalle mani di Re Gustavo di Svezia, il premio di un milione di dollari assegnato ogni due o tre anni dalla Fondazione Birgit Nilsson, un premio tra i più alti mai conferiti nella storia della musica classica, quasi un Nobel, attribuito probabilmente a uno dei maggiori tenori della storia contemporanea. A render solenne l’evento c’erano, oltre alla Regina Silvia con la famiglia reale al completo, numerose personalità del mondo musicale ‘colto’, operistico e lirico, tutti a corte del grande Domingo. Tra discorsi ufficiali, brani di opera eseguiti dalla soprano Nina Stemme con l’orchestra reale svedese e filmati tratti dall’Otello e la Turandot, la cerimonia ha dato anche occasione al tenore di ricordare la Nilsson: «Provo tanta emozione, ma anche tristezza e rimpianto per una grande artista, una donna che ha certamente influenzato la mia carriera». Placido Domingo ha attraversato tutta la storia della concertistica, fin da quel febbraio del 1969 quando al Metropolitan di New York si trovò a duettare proprio con il soprano Birgit Nilsson: due voci dalle straordinarie qualità artistiche, unite dal lavoro e dall’amicizia. Per questo un cenno deve andare, qui, a lei (1918-2005), che esordì all’Opera di Stoccolma nel 1946. La sua carriera internazionale ebbe inizio nei primi anni Cinquanta con i debutti a Glyndebourne, Bayreuth, Vienna e Monaco di Baviera, a cui ne seguirono altri, pochi anni dopo, in America del Nord e in America Latina. La sua apertura della stagione 1958 alla Scala di Milano nei panni di Turandot, il suo debutto come Isotta presso il Metropolitan di New York nel 1959 e le sue esi-

bizioni nei ruoli di Isotta e di Brunilde nelle produzioni di Wieland Wagner a Bayreuth, sono considerate pietre miliari della sua carriera e della storia della lirica. Lasciò le scene nel 1982. Di leggenda si può già parlare in vita anche per Placido Domingo, uomo cordiale, estroverso, sorridente, amabile con tutti ma duro e rigoroso con se stesso, considerato a ragione dai critici e dalla stampa un tenore inarrivabile, per potenza ed eleganza. Una carriera stupenda, ma non senza problemi e momenti drammatici, soprattutto negli anni delle difficoltà economiche, con una moglie (la soprana Marta Ornelas) anche lei impegnata nel ‘Bel canto’ e un figlio da crescere. «Studiavamo ore ed ore, ogni giorno. Dovevamo fermarci a Tel Aviv sei mesi e ci restammo quasi tre anni. La nostra vita era miserrima, 330 dollari al mese in due. I soldi ci bastavano appena per sfamarci. Non potemmo mai permetterci uno svago, un capriccio», ha raccontato Domingo in un’intervista al giornalista Renzo Allegri. Tanto studio, assoluto impegno, fede e rinuncia, fino all’agognato e meritato successo planetario. 130 i ruoli operistici sostenuti, più di qualsiasi altro artista. Nel 2009 sono esattamente 40 gli anni che separano Domingo dalla sua prima esibizione al Metropolitan, dove ha poi inaugurato la stagione per ben 21 volte. Eccellenza artistica e professionale, testimoniata non solo dalla straordinarietà del suo repertorio e della sua carriera operistica, ma anche dai risultati ottenuti come direttore d’orchestra, amministratore, responsabile di iniziative umanitarie e ideatore di concorsi e programmi per giovani artisti, vanta innumerevoli onorificenze, tra cui la «Medal of Freedom» e il «Kennedy

Center Honors» del governo statunitense, la Legione d’Onore francese, il titolo di Cavaliere Onorario dell’Impero Britannico, la Laurea ad honorem dell’Università di Oxford e il Premio Mikhail Gorbachov per le cause umanitarie. È stata la stessa Nilsson, prima di morire, a decidere che il primo vincitore del premio a lei intitolato fosse il celebre tenore, amico e direttore d’orchestra spagnolo Placido Domingo. «Desiderava onorare uno dei più grandi cantanti lirici di tutti i tempi; un artista che ha saputo offrire un contributo senza eguali alla musica operistica e concertistica», ha spiegato Rutbert Reisch, presidente della Birgit Nilsson Foundation. «Attraverso la scelta del primo vincitore, Birgit Nilsson ha voluto sottolineare come lo scopo del premio da lei istituito sia il riconoscimento dell’eccellenza nell’arte dell’esecuzione musicale». Un premio immaginato dalla mirabile soprano svedese quale riconoscimento formale e materiale dedicato a tutti quegli artisti che si sono distinti come cantanti nel campo dell’opera, del concerto e dell’oratorio; come direttori d’orchestra nel campo dell’opera e del concerto; o come produzione specifica di una compagnia operistica, a condizione che questa produzione sia realizzata e diretta in modo magistrale e, soprattutto, che venga rappresentata nello spirito del compositore. Una serata di metà ottobre indimenticabile, quella alla Royal Opera House di Stoccolma, in cui un commosso e solare Placido Domingo ha ricevuto uno dei premi più ‘consistenti’ della storia della musica classica, ma anche un abbraccio caloroso da parte di un’amica dalla voce indimenticabile. Investirà la vincita in giovani artisti, consolidando il concorso per voci nuove «Operalia» da lui fondato anni fa. A chi gli ha chiesto quali fossero le registrazioni discografiche che preferiva dell’amica Nilsson, il tenore ha risposto: “Una delle mie preferite di tutti i tempi è ‘In questa reggia’, ma il disco non regge assolutamente il confronto con il suono che ho sentito cantando insieme a lei». Una storia d’amicizia che sfida il tempo e la sorte, dunque, incompiuta teoria di voci svolta ‘in un tempo di favole’ dove sempre cantando, come recita la Turandot di Giacomo Puccini: «... In gioia pura, sfidasti inflessibile e sicura l’aspro dominio e oggi rivivi in me!». (Flavio Fabbri)

CLASSICA MENTE

Music In ! Novembre-Dicembre 2009

ORCHESTRA J FUTURA Opere per robots Una macchina non è una macchina, un robot non è un robot, un uomo non è uomo. Ma tutti suonano, e sognano di diventare musicisti ! CONTINUA DALLA PRIMA PAGINA

GARR Oggi Lola non è solo un/a amante dei Kinks ma un sistema audio visuale di LOw LAtency che consente a più musicisti di suonare insieme essendo fisicamente lontani

ESSERE IL ROBOT CHE VOLEVA SUONARE UBIQUI di FLAVIO FABBRI

Robot che suonano e un’opera pensata per automobile e orchestra: ma riusciremo a convivere davvero con il rumore tecnologico, le spigolosità, le superfici metalliche, le densità gassose di scarto della nostra band? e Suguru Goto, è possibile (...) A Kourliandski immergersi in ambienti negativi e rabbiosi. ncora oggi, grazie ad artisti come Dmitri

La Biennale di Venezia 2009 ce ne ha dato la possibilità quest’anno, ospitando alcune delle più rare performances musicali di questi tempi, al limite tra sperimentazione e provocazione, tra avanguardia e creatività: «Il Corpo del suono», un’arca musicale su cui sono saliti 73 compositori da tutto il mondo - Stati Uniti, Giappone, Germania, Svezia, Russia, Norvegia, Grecia, Belgio, Svizzera, Serbia, Cile, Francia, Spagna, Italia - per 87 esecuzioni, con 26 novità di cui 16 assolute, distribuite nell’arco di 9 giorni. Nove puntate di un libro fantastico, fatto di installazioni, incontri, laboratori e convegni, in cui si parla di corpo e di sue estensioni, di ‘body and machine’, di tentativi di fondere le due dimensioni plurime attraverso la comunicazione emotiva, quindi la musica principalmente. Niente di nuovo, in fin dei conti, se non un ritorno a determinate sensibilità che hanno fatto la storia dell’arte e dell’espressione artistica: futurismo o dadaismo, tanto per iniziare. Due volani culturali epocali che hanno trasportato, con le macchine e con la fantasia, l’essere umano avanti di 100 anni rispetto alla tabella di marcia degli ultimi millenni. Dal momento che la tecnologia ha fatto ingresso nella società degli uomini con essi s’innesca un rapporto indissolubile, fatale, appassionante, moltiplicante potenzialità insite e ignote. Ma questa domanda non se la sono proprio posta i primi pionieri della musica-macchina, del rumore come sinfonia del futuro, della musica concreta od elettronica. Un primo esempio di estemporaneità espressiva e musicale è la Robot Music di Suguru Goto, eclettico artista giapponese affascinato dalla robotica, dai new media, dalla possibilità di interagire con le macchine e dalla loro improbabile attitudine alla musica e alla lettura delle note. Tant’è che i suoi ‘musicisti artificiali’ si sono cimentati con strumenti percussivi, suggerendo lampi di luce colorata e ritmi stravaganti. Anche i Robot suonano, sentono o si emozionano? Anche loro sognano di diventare dei musicisti? Una cosa è certa secondo Goto, già noto per l’invenzione della ‘body suite’ (tuta digitale per danzatori in grado di produrre musica a partire dai movimenti): la musica delle macchine (fatta dalle e con le macchine) è l’inizio di una nuova forma espressiva del suono, per capacità esecutive infinitamente più grandi delle nostre: «Un giorno presenterò un’intera orchestra di robot che non si stancherà mai di suonare». Oltre a due computer e un programma musicale che garantisce interazione continua con l’ambiente, è stato il pubblico a dare l’input finale con un ‘click’ del mouse. Un omaggio al genio musicale e all’ardore futurista di Giovanni Russolo forse, ma che non ha convinto fino in fondo il pubblico del teatro. Certo è che presto dovremo abituarci al fatto che le macchine faranno parte integrante della nostra vita, assolutamente più di adesso e in modo decisamente diverso; esse saranno più autonome, interattive e vogliose di comunicare con noi, anche suonando. Riusciremo a convivere davvero con il loro ‘rumore’ tecnologico, con le loro spigolosità, le superfici metalliche, con le loro densità gassose di scarto? Chi ha avuto la fortuna di assistere all’altra grande performance Emergency Survival Guide, di Dmitri Kourliandski, eseguita in prima assoluta e commissionata proprio dalla Biennale, probabilmente potrebbe dire la sua anche su queste tematiche complesse. Un’opera pensata e realizzata per automobile e orchestra: una Porsche 2000 del 1976 e la meravigliosa Orchestra J Futura. Quale migliore cornice sonora poteva accogliere le opere in pro-

gramma di Ansgar Beste, Edgar Varése e Georges Antheil, se non il rombo universale di una Porsche accompagnato da clacson, frecce, tergicristalli e luci? Nessun’altra, è ovvio, perché si parla qui di lavori leggendari, come il Ballet mècanique del 1924, pensato per 16 tastiere meccaniche sincronizzate, 2 pianoforti con pianisti dal vivo, percussioni (3 xilofoni, 4 grancasse, 1 gong, incudini), 3 eliche d’aeroplano di dimensione e materiali diversi, 7 campane elettriche e, incredibile per il tempo, il clacson. Ma c’è anche Hyperprism del 1923, composizione basata sull’idea di scomporre i suoni come il prisma con i colori, isolandone i singoli componenti tra frequenza, durata e intensità. Qualcosa che non fu capita, perché nuova, troppo presto svelata e che per questo ha dovuto pagare lo scotto di un senso comune della melodia vecchio e in crisi: «Non è troppo presto, ma forse troppo tardi», amava affermare tristemente Varése. Dimensioni estreme del pensiero e dell’esecuzione musicale, senza ritegno alcuno, dedicate a spostare in avanti le lancette del tempo, vecchie pratiche e tronfi orgogli neoclassici, ma così intense che solo per un attimo hanno lasciato passare un po’ di luce dal piano orizzontale del futuro. Sonorità ottenute da materiali eterodossi per il panorama classico, come pettini, vetri, polistirolo, campanelli, sirene e motori d’aereo. Gli oggetti ritrovano uno spazio fisico riempiendo uno straordinario teatro cinquecentesco, da cui poi si elevano a musica con un arsenale di inusitati e sorprendenti effetti percettivi. Qui, tra autentiche aurore boreali sonore, trova posto reale il gesto nuovo di Kourliandski, la sua «musica oggettiva» e il suo «catastrofismo tecnologico». L’artista russo pensa i musicisti e i loro strumenti come parti di un oggetto monolitico, impegnati a suonare ‘tutti’ dall’inizio alla fine, come un unico meccanismo. Nella sua musica non c’è maestro né esecutori, c’è solo un bottone da premere per far partire una macchina in grado di suonare la complessità non robotica dell’anima. Concetti difficili e semplici allo stesso tempo. Oggi viviamo l’era del digitale e della riproduzione infinita di un brano, del premi e scrolla sul mouse, nelle molteplici forme del remastering e del mixaggio, ma oltre all’aspetto tecnico e tecnologico c’è assolutamente una dimensione spirituale che subisce un’accelerazione eccezionale. Diceva Kourliandski: «Un oggetto trasferito dal mondo materiale allo spazio artistico diventa un’immagine, da vedere o da ascoltare, esattamente come la pipa di Magritte non è assolutamente una pipa». Una macchina non è una macchina, quindi, un robot non è un robot, un uomo non è un uomo, ma tutti insieme sono dei suoni e suonano. Un punto di vista non significativamente definitivo, ma segnato dal senso transitorio di una dimensione musicale temporanea e caratterizzata dall’esigenza e dal caso, una ‘situazione’ tipica dell’Orchestra J Futura. Un compito per molti sicuramente ingrato, ma per tanti altri davvero imperdibile, ricco di bizzarrie filosofiche, tecnologiche, poetiche, musicali e artistiche. Qui si è ritrovata e ha incantato l’Orchestra J Futura, composta da giovani di età compresa tra i 18 e i 30 anni. ‘J’ sta per Jeunesse, Junior, Juventud, ma anche Joy, Jump, Joke, Juego, e rappresenta un modo per rapportarsi al mondo, agli altri e alla vita attraverso un complesso di idee portatrici di grande versatilità stilistica ed esecutiva. Le stesse da cui discende la sensibilità artistica e la caparbietà imprenditoriale di Paola Stelzer, fondatrice dell’Orchestra, accompagnata in quest’avventura dal direttore artistico e co-fondatore Maurizio Dini Ciacci. ‘Futura’, infine, sta proprio per tutto ciò che ancora avremo modo di aspettarci dal mondo della musica ‘colta’ in trasformazione digitale ed espressiva irreversibile.

Il Conservatorio di Musica Giuseppe Tartini di Trieste e la New World Symphony di Miami, collegatisi in streaming con le istituzioni musicali del Texas, di Seattle, di Yale e di Barcellona, hanno dimostrato l’efficacia dei nuovi sistemi EchoDamp e Lola sulla trasmissione sonora di Flavio Fabbri

U

na grande opportunità per quanti sono coinvolti nella produzione di eventi artistici e musicali, una grande speranza per i molti che stanno faticosamente emergendo dall’anonimato e che vedono nel progresso tecnologico dei prossimi anni una reale chance professionale. Ad alimentare questo bagaglio di aspettative è stato il Garr, l’Associazione che gestisce la Rete Italiana dell’Università e della Ricerca che, in un incontro (il «TerenaInternet2-Garr: Performing Arts Production Workshop») tenuto presso il Conservatorio di Musica Giuseppe Tartini di Trieste, ha presentato al pubblico due novità tecnologiche importanti - EchoDamp e Lola (LOw LAtency audio visual streaming system) - che consentono la prima di controllare l’audio e l’eco in modo integrato e digitalizzato; la seconda di ottenere flussi streaming audiovisivi ad alta definizione, con latenze infinitesimali tali da garantire performance musicali e artistiche di qualità mai raggiunta prima. Fino ad oggi per due musicisti che avessero voluto esibirsi da ‘luoghi’ diversi, ma in una stessa esecuzione musicale, non c’era altra via se non la tecnologia Dvts, che permetteva interazioni multimediali e video a lunghe distanze, ma con latenze enormi dell’ordine di 400 millisecondi. Oggi, con Lola, si può scendere a 30 millisecondi, su distanze di centinaia di chilometri. Praticamente suonare insieme essendo fisicamente lontani, molto lontani. «Un sogno nato nel 2005, assistendo alla prima MasterClass intercontinentale alla Conferenza Garr e oggi finalmente realizzato qui dal nostro Conservatorio», ha dichiarato Massimo Parovel, direttore del Conservatorio di Musica di Trieste. L’utilizzo di EchoDamp, unitamente alla piattaforma Lola, consente un processo d’integrazione delle funzioni di un singolo computer, equivalente oggi alle costose

e complesse apparecchiature per gestione audio di una sala concerto o di un intero teatro, in grado di eliminare echi ed effetti indesiderati che le lunghe distanze sulla rete causano nella gestione dell’audio. Per meglio calarsi nella dimensione digitale e multimediale del convegno sono stati effettuati diversi collegamenti streaming con elevatissima capacità di banda tra il Conservatorio di Musica G. Tartini e gli Stati Uniti: due dimostrazioni con la New World Symphony (NWS) di Miami, una con la TCU School of Music del Texas e la Washington University di Seattle, un’altra con la Yale School of Music e un’altra ancora con il Grand Teatre del Liceu di Barcellona, durante le quali i partecipanti hanno avuto l’occasione di ascoltare in altissima qualità brevi performance eseguite da archi, pianoforte e fagotto, oltre a qualche minuto dell’opera La Cenerentola di Gioachino Rossini. Il Garr è stata la prima rete europea dell’Università e della Ricerca a collaborare in quest’ambito con Internet2, consorzio non-profit di 207 tra università, imprese e fondazioni, che sviluppa tecnologie e applicazioni avanzate per la rete e per trasferimenti ad alta velocità negli Usa. L’idea animatrice e la speranza latente di questa prima edizione europea è stata quella di immaginare la nascita di una comunità più ampia di utenti e artisti, che possa beneficiare dello scambio di esperienze e costruire nuove e più strette collaborazioni tra i protagonisti del settore musicale e, più in generale, delle arti espressive in Europa. La tecnologia viene qui a mostrarsi come possibilità e opportunità di fare musica, buona musica, senza limiti geografici e temporali, grazie a piattaforme digitali di alta qualità, diffuse, orizzontali, culturalmente ‘open source’, effettivamente aperte a nuove soluzioni ed applicazioni, in cui le prossime generazioni possano affacciarsi concretamente.

BEY&further OND a cura di ROMINA CIUFFA

Music In ! Novembre-Dicembre 2009

GIANLUCA PELLERITO Ha 15 anni, una batteria, nell’iPod la scaletta del suo prossimo concerto e un po’ di Frank Sinatra

NAKED MUSICIANS Sono folli creatori rapiti dalla lucida forza emotiva di un collettivo siciliano

a cura di NICOLA CIRILLO

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LITTLE DRUMMER BOY (...) G

ianluca Pellerito si prepara a diventare la nuova stella italiana del jazz. Un adolescente, con amici così, a ricreazione pensa al futuro in modo diverso dai suoi coetanei. Tra i prodigi, come lui, oggi c’è lo sbalorditivo e altrettanto piccolo Igor Falecki, polacco di 6 anni, i cui video già da qualche anno popolano la rete; ieri c’era il pugliese Michelino Uli, che a 4 anni debuttava in un live al Kandysky di Foggia con un grande solo di batteria. Ma ora, davanti a noi, c’è Pellerito. Gianluca, la tua biografia ufficiale dice che suoni da quando avevi 4 anni. Ci spieghi come è accaduto? È stata un’enorme fortuna. Mi sono ritrovato in casa la batteria di mio padre, che suonava da autodidatta. È cominciata così. A 8 anni ho partecipato alla Berklee Summer School at Umbria Jazz Clinics e sono entrato nel circuito del Berklee College of Music di Boston. Quando sono tornato a Palermo, a 10 anni, alla scuola di musica internazionale mi hanno accolto a braccia aperte. I tuoi genitori sono musicisti? No, mio padre suonava la batteria solo da autodidatta. Mia madre ascolta tanta musica da sempre, e la mia sorellina più piccola balla da quando aveva 5 anni. Ora ne ha 10. Che genere si ascolta in casa? Funk, jazz e latin. Io preferisco la latin e la funk, ma da quando sono andato alla Berklee ho cominciato ad apprezzare il jazz, che è la madre di tutti gli altri generi. Io non sono pop e non sono rock. Il rock non lo apprezzo, il metal neanche: è pesante e non ho pazienza nell’ascoltarlo. La tua popolarità sta crescendo. Forse anche grazie alla tua presenza nella trasmissione di Fiorello. È stata l’esperienza più bella della mia vita, grazie alla quale ho conosciuto Michael Rosen, una persona fantastica, un grande musicista e un amico. Ed ora anche il mio direttore artistico. Chi sono i tuoi fan e cosa ti chiedono? Molti coetanei. Un commento che mi ha colpito, pubblicato di recente su un social network, diceva: «Non smettere mai di suonare». Non me lo aveva mai detto nessuno. Per ora nessun feedback

Pa rum pum pum pum. Gianluca Pellerito è un piccolo tamburino, a soli 15 anni si è già esibito a New York e, per la ricreazione, ha amici davvero «grandi». Quando «play» vuol dire davvero due cose

negativo: temo commenti non veritieri. Un po’ me la prenderei. Penso di essere umile: a scuola non si parla mai della mia attività musicale, anche se tutti lo sanno e fanno il tifo per me. Cosa studi? Secondo anno di liceo classico. Ho bei voti e le mie materie preferite sono storia e italiano. Come è il rapporto con i tuoi compagni? Sono molto «amiciaro», come si dice a Palermo. E questa è una delle poche cose che so in siciliano, che non conosco. E come vive a Palermo un giovane musicista? Io ci vivo benissimo. Davvero, non ho nessun tipo di problema. Credo che Palermo sia una città bellissima, ma non soddisfa tutte le mie aspirazioni. Vorrei diventare un batterista di livello internazionale e in questo la mia città non può aiutarmi per niente. Dopo la maturità verrò a Roma, una città che mi piace moltissimo e che mi dà la possibilità di crescere nella musica. Ci sono molti posti dove poter studiare bene, poi andrò all’estero. I tuoi «friends» sono tutti più grandi di te... Io non ho mai suonato con dei miei coetanei. Proprio mai. Ti sei mosso spesso per suonare? Suono soprattutto a Palermo. Certo più grande divento, più le date crescono e più mi dovrò muovere. Lo scorso 8 luglio, a New York con il tuo Quartet, sei stato ospite dell’ Istituto Nazionale di Cultura: il più giovane musicista italiano a suonare a Park Avenue. Vero? Un grande sogno che si è avverato, perché desideravo vedere la città. Anche se ho fatto un solo concerto mi sono trattenuto una settimana e mezzo. L’ho presa come una vacanza. Lì ho suonato con

NAKED

IMPR OVVI SARE MUSICIANS

di Luca Bussoletti

Michael Rosen; Giuseppe Milici, grandissimo armonicista; Michael Eknasten al pianoforte e Marco Panacia al contrabbasso. So che dovrò tornare ma ancora non so quando. C’è gente che pensa che quando vado via a suonare me ne frego della scuola. Invece no: quando torno devo studiare il doppio. Qual è il tuo genere preferito? Ascolto il mio gruppo preferito, gli Incognito, ma anche il jazz puro, soprattutto i grandi padri come Charlie Parker, Duke Ellinghton, Charles Mingus. Cos’hai ora nel tuo Ipod? La scaletta del mio prossimo concerto e un po’di Frank Sinatra. A differenza dei miei coetanei non lo ritengo un pezzo d’antiquariato. Lo swing è molto piacevole. Quali sono i tuoi modelli, chi ammiri? Peter Erskine, uno dei miei batteristi preferiti; con lui ho suonato il 31 luglio al Teatro di Verdura di Palermo nel «Three Drums Show», accompagnati dall’Orchestra della Fondazione The Brass Group. Il terzo «drum» era Alex Acuna: di lui mi affascina la capacità di poter suonare benissimo sia la batteria che le percussioni. È una cosa che piacerebbe poter fare anche a me. Ci sono altri due batteristi che adoro: Dave Weckl e Steve Gadd. Se non avessi trovato una batteria in casa, cosa avresti suonato? Per il momento penso solo alla batteria. Sicuramente non la tastiera, anche se la studio per una formazione a livello personale. L’unico strumento che mi potrebbe attirare adesso è il sassofono. Cosa hai sacrificato per la musica? Niente. Forse un po’ di gioco, ma la musica per me è anche gioco. A cosa pensi prima di salire sul palco? La cosa che faccio sempre è il segno della croce. Può sembrare strano ma è vero. Sono cattolico e credente e prego sempre che il Signore mi accompagni. È una cosa che faccio da sempre. Proprio come nel popolare canto natalizio, quando il little drummer boy, povero e senza doni, decide di regalare al suo piccolo Dio un concerto. E quegli gli sorride: a lui e al tamburino.

CARMINE TORCHIA

Naked perché sono corpi, poliformi, aperti, porosi, bianchi, neri, rossi e gialli. Tutta carne da macello e del perché è impossibile che l’uomo sia atterrato sulla Luna

C

BARBONE Quella che sembra la degenerazione di un artista in barbonaggio è in realtà il ritorno fulgido all’essenza reale di questo mestiere

di Flavio Fabbri

i sono tanti modi di dare nome a un buon disco, ma ‘Carne da cavallo’ è più una definizione che un semplice titolo. I Naked Musicians, d’altronde, non sono un gruppo musicale tradizionale, o per meglio dire normale, visto che nel nome che hanno scelto si fondono tradizioni lontane, metafore accattivanti e sapori antichi della terra di Sicilia. Naked? Perché sono corpi, poliformi, aperti, porosi, bianchi, neri, rossi, gialli. Vivi come il sangue, la luce, il sole, la terra e la carne degli emisferi meridionali del mondo. L’uscita del loro terzo lavoro, Emiliano Culastrisce, ne è stata la dimostrazione antropologica ed etnomusicale di come all’evoluzione delle idee segue necessariamente la trasformazione della musica e la trasposizione di un concetto di arte, da verticale a orizzontale, da chiuso ad aperto, da selettivo a contaminato. Il gruppo di artisti, prodotti dalla vivace etichetta siciliana Improvvisatore Involontario che conta ormai oltre 30 membri tra Roma, Bologna, Venezia, Udine, Parigi e New York, ha scelto inequivocabilmente la strada dell’improvvisazione e della performance teatralmusicale certamente, ma nel delirio delle percezioni visive, uditive e cromatiche del corpo improvvisatore che si agita tra scrittura, lettura, musica, design, video e fotografia. Un fronte ‘teatral-visual-performativo di jazzisti rinomati e rocker rampanti, disturbatori d’ogni sorta e voci angeliche’ (si definiscono), in cui la musica si assaggia come fosse

CARMINE TORCHIA Piazze d’Italia Il diario di una strampalata discesa nell’Ade della musica

carne di cavallo, da macello anche, esposta al pubblico, che si narra, si fa notizia, luce, immagine, urgenza comunicativa. Un lavoro che segue i precedenti A sicilian way of cooking mind (2004) e Antivatican Coalition against the Hippies Resistance (2008), che vede ancora il poliedrico batterista-compositore-presidente-fondatore Francesco Cusa dirigere 24 musicisti senza partitura o note, in preda all’improvvisatore esaltato, lanciati in un progetto originalissimo e avanguardista: una conduction: «Un sistema non convenzionale di direzione semiotica in cui si utilizzano dei simboli appositamente creati», un piano espressivo dettato direttamente da uno sguardo destro derivato dalla tradizione jazzistica e uno sinistro da quella cameristica e colta. Si dice «free jazz», ma è fatto anche con violoncello, clarinetto, pianoforte, tromba, contrabbasso, viola, chitarra e se non bastasse ci sono anche gli electric live, i videosaxophonics e i visuals. Ci sono Biagio Guerrera, Riccardo Pittau, Mauro Schiavone, Carlo Natoli, Toni e Carlo Cattaneo, Maurizio Morello e tanti altri artisti-musicisti, che non sono (solo) dei folli, ma creatori e innovatori rapiti dalla lucida forza emotiva di un collettivo siciliano entrato a far parte della grande famiglia dell’Improvvisatore Involontario, uno degli attori più interessanti della scena delle etichette e dei collettivi indipendenti italiani. Giustappunto, nessuno di prevedibile.

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e non v’interessa morire di televoto e pochi mesi dopo morire artisticamente, vuol dire che forse ancora credete nel peso delle canzoni originali. Sicuramente crede nelle sue creazioni Carmine Torchia, artista che dal MySpace ha iniziato un lungo viaggio di note che lo ha fatto passare dai click da social-network ai la maggiore dei concerti. Il cantautore calabrese è d’animo nobile e i suoi brani ne sono uno specchio pulito. C’è gentilezza e ricercatezza. Non c’è voglia di urlare né di apparire. È evidente da subito che il percorso promozionale per dare un senso alla sua carriera debba essere altro da quello che predilige la major. Spenta la tivù Carmine accende il computer. Fino a qui è storia di molti. Il risvolto degno di nota, però, è che poi anche il computer si spegne magicamente. Forte di un pubblico creato attraverso la rete, il pescatore Torchia infila i piedi nell’acqua per toccare con mano i pesci finiti nella sua tonnara dolce. Non c’è sangue però, ma l’amore della gente che esce di casa e si infila nei piccoli locali di tutta Italia per ascoltare dal vivo Trema la foglia e tu e L’astrologo. Ma non basta. Il cacciatore imbraccia un fucile a 6 corde e si getta nella savana. Non a bordo

di una jeep ma con i treni, non tra i baobab del Kenya ma nelle piazze nostrane. Apre la custodia della chitarra e canta. La gente si ferma e si stupisce. E gli compra i dischi. Con la cacciagione della giornata ci si paga un albergo e da mangiare e via verso una nuova città. È una scelta atavica, quasi nostalgica, ma allo stesso tempo moderna e coraggiosa. Carmine Torchia tiene un diario di questa strampalata discesa nell’Ade della musica: Piazze d’Italia consente a tutti di scoprire che quella che a molti sembra la degenerazione di un artista in barbonaggio è in realtà il ritorno fulgido all’essenza reale di questo mestiere. In fondo scriviamo canzoni e le cantiamo in giro. Nulla di più. «Ho compreso che quando non si muovono le cose intorno a te, devi muoverle tu», commenta il musico nel frontespizio del libro. Così il Maometto Carmine ha girato nelle sue scarpe su e giù per la penisola (o montagna, se vogliamo rimanere nella metafora) e nel frattempo ha scritto, ha disegnato, ha studiato, ha vissuto. Ora è tornato a casa e forse il computer lo riaccenderà, ma con la dimostrazione pratica - messa su carta stampata - che il pubblico che si crea attraverso il web, se coltivato con i concerti, è un pubblico reale. Più reale di chi preferisce schierarsi con la squadra blu o con quella rossa pur di non uscire dalle quattro mura della propria sicurissima prigione... scusate, volevo dire casa.

TRAINING

Music In ! Novembre-Dicembre 2009

COORDINAMENTO NAZIONALE PER L’ALTA FORMAZIONE MUSICALE Sta per MICHEL AUDISSO Docet nascere la TAV della didattica della musica jazz, una linea ad alta velocità con tappe: Civici Corsi Parigi, Verona, Roma, Brindisi, a passo di danza e sax di Jazz di Milano - Fondazione Siena Jazz - Saint Louis College of Music di Roma e Brindisi.

LATAVDELJAZZ DI

MICHELAUDISSO SECONDA PELLE

PAOLO ROMANO

In Europa si sta definendo l’impianto didattico dell’Alta formazione musicale e, con esso, quello inerente il Jazz. Un sistema di curricula didattici leggibili e comparabili, processi di verifica e percorsi formativi trasparenti e svolti nella piena condivisione dei risultati di apprendimento attesi, tra l’altro, sono necessari per creare standard riconoscibili e misurabili. A ciò sono particolarmente attente tre istituzioni private: il Saint Louis College of Music di Roma, i Civici Corsi di Jazz di Milano e la Fondazione Siena Jazz, che oggi creano il Coordinamento nazionale delle Scuole dell’Alta formazione jazzistica. E chi c’è, c’è. A Faenza, Palazzo delle Esposizioni, venerdì 27 novembre 2009, la Jazz Convention «L’Alta Formazione Jazzistica nelle Istituzioni pubbliche e private in Italia: obiettivi comuni e collaborazioni».

A

a cura di ROBERTA MASTRUZZI

lle 10.10 di una tiepida mattina romana d’ottobre un’agenzia di stampa che recita nel titolo «Il meeting degli indipendenti apre al Jazz» scuote il vostro annoiato redattore, che ancora impigrito la legge, quella e le altre che di là a pochi minuti inizieranno a tamburellare sul monitor. Niente male: la notizia, per una volta, c’è ed è di quelle di cui è bene parlare, di quelle di cui c’è, in qualche misura, bisogno. Approfondisco un po’ ed eccoci a raccontarlo ai nostri lettori. Di che si tratta? Sta per nascere, per così dire, la TAV della didattica della musica jazz, una linea ad alta velocità che parte dai Civici Corsi di Jazz di Milano, passa per la Fondazione Siena Jazz e arriva a Roma al Saint Louis College of Music. E mentre parte l’alta velocità di alcuni dei più prestigiosi istituti di formazione jazzistica nazionale già dotatisi delle adeguate «infrastrutture», i pachidermici benemeriti Conservatori (ingessati in una soffocante burocrazia autoreferenziale e in programmi che per vetustà annoierebbero Orlando di Lasso) continuano felici a viaggiare sullo scarto ridotto, accumulando ritardi davvero imperdonabili e chiusure a stento giustificabili. Un po’ di storia: dieci anni fa a Bologna si incontrarono ben 29 ministri e dirigenti dell’istruzione da tutta Europa; definirono un percorso attraverso il quale armonizzare i sistemi di istruzione superiore, spesso disomogenei tra loro, e arrivare alla creazione di uno standard qualitativamente misurabile attraverso il quale agevolare lo scambio culturale, la formazione e i percorsi di accesso alle professioni. La musicale compresa. Provate a indovinare qual’era la nazione con il maggior deficit da recuperare per varietà dell’offerta formativa, programmi e cicli di studio in tutta Europa? No, non era la Grecia... poveri noi. Insomma, queste linee guide, filtrate poi nel gergo comune come Dichiarazione di Bologna e ancora parzialmente ignorate dai tanti governi che si sono succeduti (è sempre bene non investire denari pubblici per progetti solidi di formazione superiore, o no?), hanno costituito il preambolo perché i tre suddetti istituti italiani promuovessero tra loro un «Coordinamento nazionale delle Scuole dell’Alta formazione jazzistica». Il Coordinamento ha individuato da subito dei princìpi e delle linee guida chiare ed inequivoche per consentire, previa presentazione dei requisiti richiesti, l’adesione di altri istituti dello stesso genere. Come dire, un protocollo ISO con obiettivo la realizzazione di programmi didattici condivisi e comparabili per conseguire l’eccellenza degli studenti, l’interscambio professionale dei giovani musicisti diplomati presso le istituzioni facenti parte del coordina-

mento stesso e la creazione di uno schema formativo utile ad individuare il riconoscimento di titoli congiunti fra gli associati. Detto fuor di tecnicismi, con poca diplomazia e un tocco di politica: si verrà a formare una importante lobby (uh, che scandalo, le lobbies che nel mondo anglosassone sono addirittura agevolate e favorite dalla legge) che porrà le fondamenta per un riconoscimento, anche normativo, degli istituti d’eccellenza nella formazione musicale jazzistica. E il panorama che si va delineando, senza il bisogno di essere delle grandi «cassandre» di predittività, è quello di una progressiva erosione dell’autorità formativa dei Conservatori che, a forza di non voler volgere lo sguardo alla realtà dei fatti, resteranno chiusi nella loro caverna baronale, mentre opportunamente i risultati conseguiti e tangibili delle istituzioni del Coordinamento offriranno un solido percorso di avviamento professionale ai giovani e talentuosi musicisti (che si suderanno un diploma degno per davvero degli standard anglosassoni ed internazionali). Ed ecco perché l’alta velocità è già partita e non nasce come un fenomeno «contro», ma nel segno opposto della progettualità. Effetto: chi fino ad oggi il dialogo l’ha rifiutato rischia di trovarsi inesorabilmente al palo a stretto giro di posta. Basta scorrere i princìpi costituenti del Coordinamento nazionale per accorgersi quanto il progetto sia strutturato: anche solo da un punto di vista logistico gli istituti che vorranno entrare a far parte di questo nuovo «sistema didattico formativo» dovranno (oltre ad avere tutte le certificazioni di agibilità lato sensu prescritte dalla legge) impiegare un corpo docente qualificato, avere la disponibilità di strutture qualificate predisposte specificamente per la musica jazz e fornire, di conseguenza, tutta la strumentazione idonea per il corretto svolgimento dei corsi jazz e soprattutto dovranno uniformarsi agli stardard qualitativi di verifica delle competenze e abilità d’ingresso e di uscita dei propri allievi. Il Saint Louis College of Music, la Fondazione Siena Jazz ed i Civici Corsi di Milano raccolgono una sfida importantissima, alla quale si sono andati preparando nel corso degli anni da un lato maturando un’esperienza preziosa nel settore della didattica jazz, dall’altro soffrendo tutti gli effetti distorsivi legati alla difficoltà tutta italiana di fare impresa, vuoi per la nefasta congiuntura economica di medio-lungo periodo vuoi per la giungla normativa ed impositiva vigente. La buona, edificante notizia, allora, è la seguente: in questo Paese c’è ancora qualcuno che crede che investire nella formazione e nella cultura può essere una gran buona idea. E non lo dice solo, lo fa.

a cura di Rossella Gaudenzi

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privilegio di inaugurare la Stagione di Balletto 2009-2010 della Fondazione Arena di Verona spetta quest’anno a Michel Audisso, autore delle musiche della nuova produzione Seconda Pelle del coreografo canadese di origine haitiana Hans Camille Vancol, in scena il 7, 8, 13, 14 e 15 novembre al Teatro Filarmonico. Polistrumentista e compositore francese residente in Italia da quasi 30 anni, vanta un’esperienza musicale diversificata: jazz, musica leggera, spettacoli teatrali e danza contemporanea. Fa da tempo parte del corpo docente del Saint Louis di Roma come coordinatore della sezione fiati, docente di sax e direttore della promettente, neonata, Marching Band. «Non conoscevo personalmente Hans Camille Vancol; mi ha contattato dopo aver apprezzato il disco del 2004 Petits Voyages del gruppo che dirigo, Escaping Strings, in cui un quintetto jazz e un quintetto d’archi si affiancano in un connubio di jazz, musica classica e sonorità elettroniche. Nel dicembre 2008 mi ha proposto di comporre le musiche per un balletto da rappresentare nel giugno 2009. Baudelaire e Les Fleurs du Mal, erano l’idea originaria, ho inizialmente ricevuto delle poesie della raccolta; poi mi sono concentrato sulla suddivisione del balletto in tre atti: mattino, pomeriggio e sera». Michel inizia a lavorare; poi incontra a Verona il coreografo per definire due temi fondamenta-

li ricorrenti nell’opera, di vaga ispirazione all’Amélie di Yann Tiersen. I musicisti scelti sono quelli degli Escaping Strings, il sound degli archi è adatto al genere balletto. La conferma dell’Arena di Verona arriva in estate. L’impronta al balletto viene data dalle musiche composte da Michel Audisso. Ha avuto quasi carta bianca, poche linee guida: qualche indicazione sulla durata e sulla ritmica. Ma l’esperienza del compositore legata alla danza ha radici remote. «Lavoro a contatto con la danza dal 1978, quando a Parigi muovevo i primi passi in duo con un amico ballerino -sax e danza-. Un paio di anni dopo ho collaborato con la bravissima Karine Saporta, divenuta celebre nella danza contemporanea. L’arrivo in Italia è legato soprattutto al jazz, ma al 1983 risale l’importante collaborazione con Virgilio Sieni. Nel 1995 torno a far parte delle orchestre, per 10 anni accanto alla compagnia di Aurelio Gatti (La Fabula di Orfeo, Tango Eros, L’Orfeo dei Pazzi). Oggi compongo per l’Arena di Verona: una prova inattesa intensa e gratificante». Seguirà a breve la produzione del disco delle musiche del balletto Seconda Pelle, registrate presso il Saint Louis Recording Studio per l’etichetta Saint Louis Collection. Un nuovo genere per l’etichetta, quello della musica per balletto, che va ad ampliare un catalogo già in crescita.

JAZZ CONTEST I TALENTI VANNO PREMIATI

I

talenti vanno premiati. E quale miglior riconoscimento può ricevere un musicista che non sia quello di suonare su un palco? Questa è la filosofia che fin dalla sua prima edizione nel 2008 ha ispirato il Jazz Contest, concorso per giovani jazzisti organizzato dal Saint Louis College of Music. È per questo che i vincitori hanno avuto sempre più di un’occasione per farsi notare. La prossima? L’European Jazz Expo di Cagliari, che quest’anno premia la carriera di un ospite d’onore, Enrico Rava, e ascolta esibirsi (il 22 novembre) Laura Lala e il suo quartetto, vincitrice del Jazz Contest 2008, e gli Ipocontrio, freschi di «incoronazione» al Festival estivo di Atina Jazz. Il meccanismo del concorso musicale è semplice: l’iscrizione è gratuita e aperta a tutti quegli artisti portatori di un progetto musicale originale in stile jazzistico. Le selezioni avvengono durante serate nei locali romani - nell’ultima edizione sono stati ospitati dal Bebop Jazz Club di Roma, ma per la prossima edizione si prevede una fase eliminatoria in quattro città (Roma, Milano, Siena, Brindisi), per dare più spazio ai gruppi provenienti da tutta Italia - e arrivano alla fase finale i gruppi selezionati da una giuria tecnica formata da musicisti come Enzo Pietropaoli, Maurizio Giammarco, Paolo Damiani, Bruno

Biriaco e giornalisti specializzati, come la storica penna di Adriano Mazzoletti. Al concerto finale che si svolge nell’ambito dell’Atina Jazz Festival accede anche il gruppo più votato dalla giuria popolare, ovvero il pubblico presente alle varie serate nei locali. Il premio per il vincitore consiste nella possibilità di pubblicare un cd per l’etichetta Saint Louis Jazz Collection e in un contratto di management per un anno con l’opportunità di partecipare ad alcune tra le più importanti manifestazioni jazzistiche. Il Laura Lala Quartet è in studio per ultimare le registrazioni di Pure Songs, dodici composizioni originali incise con la partecipazione straordinaria al piano di Salvatore Bonafede. Gli Ipocontrio, trio salernitano formato da Bruno Salicone al piano, Franceseo Galatro al contrabbasso e Armando Luongo alla batteria, sarà invece impegnato in una serie di concerti che culmineranno nella partecipazione al concerto finale presso il Teatro comunale di Cassino nell’ambito dell’Atina Jazz Festival 2010. Il Jazz Contest non si ferma qui: per la prossima edizione prevede di allargare letteralmente le sue frontiere, coinvolgendo nel concorso artisti e festival europei, per dare alla competizione un respiro assolutamente internazionale, come si addice a chi è talentuoso. (Roberta Mastruzzi)

speciale

1968

a cura di ROMINA CIUFFA

Music In ! Novembre-Dicembre 2009

MANGIAR LA FOGLIA In questo contesto nacque il movimento «hippy», parola JOHNNY È il Sessantotto, taciturno in gergale che stava a significare «uno che ha mangiato la foglia», in seguito ribattezzato un lucido silenzio riflessivo, perché cono«figlio dei fiori». Si distinse per costumi liberali e ampio uso di droghe, soprattutto LSD. sce il futuro e non glielo fanno dire

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di ADRIANO MAZZOLETTI

di ATTILIO FONTANA e ROMINA CIUFFA

HAMANGIATO68FOGLIE Il «nostro ‘68» arriverà tardi. Solo negli anni Settanta quando, sotto la spinta politica dell’estrema sinistra, inizieranno le contestazioni ai grandi del jazz classico. Count Basie, Duke Ellington, Stan Getz, furono accusati di «fascismo» e d’esser «servi della Cia» da alcuni fra i più accaniti contestatori che frequentavano Umbria Jazz. La quale fu sospesa per tre anni.

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iffusa in buona parte del mondo, dall’Occidente all’Est comunista, la contestazione generale ebbe come nemico comune il principio dell’autorità. Nelle scuole gli studenti contestavano i professori, la cultura ufficiale e il sistema scolastico classista. Nelle fabbriche gli operai rifiutavano l’organizzazione del lavoro e i principi dello sviluppo, che mettevano in primo piano il profitto a scapito dell’elemento umano. In famiglia veniva contestata l’autorità dei genitori. Facevano esordio nuovi movimenti che mettevano in discussione le discriminazioni di sesso e di razza. Gli obiettivi comuni dei diversi movimenti erano il principio di uguaglianza, il rinnovamento della politica in nome della partecipazione di tutti alle decisioni, l’eliminazione di ogni forma di oppressione sociale e di discriminazione e l’estirpazione della guerra. Negli Stati Uniti già negli anni 50 era venuto maturando un movimento nero per l’eguaglianza, promosso dalle comunità di colore. Uno dei momenti più significativi fu il boicottaggio nel 1955 degli autobus di Montgomery (Alabama) per protesta contro la segregazione razziale. Anche gli studenti bianchi del Nord affiancarono le proprie proteste alla popolazione di colore. Le battaglie per il riconoscimento dei diritti civili ai neri si dividevano in due filoni: il primo, pacifista, auspicava la progressiva integrazione delle masse di colore nella società bianca; era guidato da Martin Luther King, apostolo della «non violenza», che si era dedicato alla lotta contro la discriminazione razziale. Il suo celebre discorso, «I have a dream», in cui auspicava l’uguaglianza tra i popoli, scatenò un’ondata di proteste e di violenze, culminate nel suo assassinio nel 1968. Il secondo, più intransigente, fu quello delle Black Panther, che chiedevano la formazione di un potere contrapposto a quello dei bianchi, libertà e occupazione, case e istruzione per tutti, la fine delle oppressioni verso le minoranze etniche. Il movimento era guidato da Angela Davis, Elridge Cleaver e Malcolm X, che preferì cancellare il suo cognome americano «Little» sostituendolo con una «X». Era propenso ad un’alleanza tra tutti i popoli neri e lottava per la superiorità razziale del proprio. Dopo un viaggio in Egitto ed Arabia Saudita rinnegò le sue teorie e disse che «esistevano dei bianchi sinceri» e che era «amico di buddisti, cristiani, indù, agnostici, atei, bianchi, neri, gialli, marroni, capitalisti, comunisti, socialisti, estremisti e moderati». Morì nel 1965 assassinato da tre membri della Nation of Islam. Negli Stati Uniti le lotte si polarizzarono contro la guerra del Vietnam, assumendo la forma di un conflitto antimperialista. Essa, iniziata nella prima parte degli anni 60, cambiò il modo di guardare l’America. In questo contesto nacque il movimento «hippy», parola gergale che stava a significare «uno che ha mangiato la foglia», in seguito ribattezzato «figlio dei fiori». Si distinse per costumi liberali e ampio uso di droghe, soprattutto LSD, un allucinogeno di cui si teorizzavano le doti di espansione della mente. Gli elementi di novità erano molteplici. Innanzitutto era ritenuto importante il riferimento alle lotte dei popoli del terzo mondo e alla rivoluzione cubana. Una situazione diversa si stava verificando, invece, nei Paesi del Patto di Varsavia. Le manifestazioni chiedevano maggiore libertà; la più alta fra di esse fu la rivolta studentesca in Cecoslovacchia, che condusse alla Primavera di Praga. La presenza di giovani operai a fianco degli studenti fu la caratteristica del Sessantotto italiano, il più ampio con quello francese tra tutti quelli dell’Europa occidentale. In Italia la contestazione era il risultato di un malessere sociale, accumulato negli anni Sessanta e dovuto al fatto che il boom economico non era stato accompagnato da un adeguato aumento del livello sociale ed economico della classe operaia. La contestazione negli anni Settanta degenerò in seguito negli «anni di piombo» che culminarono con il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse. Il jazz in quanto tale inizialmente non venne influenzato da quel movimento. La sua «rivoluzione» l’aveva già vissuta anni prima con Miles Davis e John Coltrane, Ornette Coleman e Don Cherry i cui importanti lavori: Kind of Blue, Something Else e Tomorrow is a Question furono pubblicati, suscitando perplessità, ma anche grande interesse, nel 1958 e ‘59. Negli Stati Uniti nel 1968 gli avvenimenti più significativi furono invece la creazione della World Greatest Jazz Band, un’orchestra che annoverava al suo interno alcuni fra i migliori esponenti del jazz classico di Chicago e New York, la nascita del quartetto della tromba Chuck Mangione, l’unione fra Gerry Mulligan e Dave Brubeck, la nuova Reunion Band di Dizzy Gillespie, ma soprattutto la cosiddetta «svolta elettrica» di Miles Davis, mentre Don Cherry, abbandonato Ornette Coleman, iniziava a collaborare con il pianista sud-africano Dollar Brand, che in seguito assumerà il nome musulmano di Abdullah Ibrahim. Se negli Stati Uniti il jazz alla fine degli anni Cinquanta sembrava non aver ancor assunto connotazioni politiche, alcuni musicisti avevano però preso coscienza dell’annoso problema dei diritti civili e contribuirono alla lotta dei neri per la conquista della parità. I più sensibili furono Max Roach, Sonny Rollins e Charles Mingus che crearono composizioni dedicate al movimento. Fra le molte Original Fables of Faubus che Mingus indirizzò al governatore razzista dell’Arkansas, oppure Freedom Suite incisa da Sonny Rollins nel 1958. Fu però il mondo della canzone a prendere posizione con i maggiori interpreti del pacifismo e della solidarietà tra i popoli, Joan Baez e Bob Dylan. In Italia dal punto di vista musicale, le prime tracce della ribellione appaiono nel 1966, quando Franco Migliacci e Mauro Lusini scrissero C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones, cantata da Gianni Morandi, anche se per quanto riguarda il cantante bolognese la sua avventura «politica» terminò presto perché scoraggiata soprattutto dalla Rai, la cui censura finì con l’abbattersi

JOHNNY SULLA LUNA COS’È «’68 ITALIAN ROCK MUSICAL»?

inesorabilmente sul testo. Ma la canzone di Migliacci fu ripresa da Joan Baez che ne fece un vero e proprio inno alla pace. Altre canzoni cosiddette «di protesta» vennero composte e cantate da Lucio Battisti, Fabrizio De Andrè, Francesco Guccini e i Nomadi. Contrariamente alla canzone, il jazz italiano negli anni precedenti al ‘68 non aveva ancora assunto quelle caratteristiche, non solo musicali, che lo avrebbero contraddistinto in ambito europeo. Il boom economico, con la ritrovata tranquillità che toccò l’apice all’inizio degli anni Sessanta, coinvolse anche il mondo del jazz che ottenne vasta popolarità in quanto tale. Il rock’n’roll apparso in Italia intorno al 1958, quando la RCA iniziò a pubblicare i primi dischi di Elvis Presley, non influì negativamente sui gusti del pubblico e non creò soverchi problemi di lavoro ai musicisti. Affondava le radici nel rhythm’n’blues che molti musicisti italiani conoscevano per averlo ascoltato e praticato già nel dopoguerra. Little Richard o Fats Domino, che si trovavano al centro del movimento, erano epigoni diretti della tradizione del blues nero, dove non mancavano né swing né improvvisazione. Musicisti jazz come i sax Gabriele Varano e Paolo Tomelleri, il pianista Nando De Luca non ebbero soverchie difficoltà ad inserirsi nei gruppi r’n’r di Peppino Di Capri e Adriano Celentano. Per contro, quei primi anni Sessanta furono per il jazz italiano un momento di grande vivacità e affermazione. Tutti «si buttarono alla scoperta del jazz». Il jazz passò dalle sale da ballo a quelle da concerto ed anche nei night club i musicisti di jazz erano scritturati come «attrazione». Quando però, verso il 1965, l’Italia fu invasa dalla musica inglese, dove la tradizione nero-americana e l’improvvisazione erano assenti e lo strumentario era fatto in gran parte di chitarre e bassi elettrici, i musicisti jazz ebbero meno lavoro. Molti furono costretti a riciclarsi. Altri si rifugiarono all’estero in attesa di tempi migliori. Altri entrarono in complessi che accompagnavano cantanti di gusto e stile più vicini alla loro sensibilità: Bruno Martino, Gino Paoli, Bruno Lauzi, Mina, Ornella Vanoni o Fred Bongusto. Alcuni vennero assunti nelle tre orchestre di musica leggera della RAI. Altri ancora, soprattutto a Roma, lavorarono negli studi per la sincronizzazione delle colonne sonore cinematografiche. I gusti del pubblico indirizzati verso la musica dei Beatles e dei loro innumerevoli imitatori, la conseguente scomparsa dei night, sostituiti da discoteche con musica riprodotta, la massiccia programmazione di musica cosiddetta «beat» alla radio pubblica, causarono una lenta ma inarrestabile erosione del favore che il jazz aveva ottenuto presso vasti strati di pubblico. Bisognerà attendere i secondi anni Settanta, con i grandi festival, per vedere nelle nuove generazioni un rinnovato interesse per il jazz. Il «nostro ‘68» arriverà tardi. Solo negli anni Settanta quando, sotto la spinta politica dell’estrema sinistra, inizieranno le contestazioni ai grandi del jazz classico. Count Basie, Duke Ellington, Stan Getz, furono accusati di «fascismo» e d’essere «servi della Cia» da alcuni fra i più accaniti contestatori che frequentavano Umbria Jazz, che fu costretta a sospendere la manifestazione per tre anni. Ma questa è un’altra storia. C’è da registrare che nel 1968 alcuni musicisti romani iniziarono, con un ritardo di almeno dieci anni, ad interessarsi al «free jazz». L’atteggiamento di forte reazione di questi musicisti causò inizialmente numerosi problemi alla diffusione del jazz presso molti strati del pubblico. Per quanto riguarda il jazz, il 1968 non fu certo un anno di grandi cambiamenti come lo furono il 1917, quando i dischi della Original Dixieland Jazz Band invasero il mondo, il 1935 quando esplose «l’era dello swing», il 1945 quando si assistette alla nascita del «bop» o quando nel 1958 e 1959 «il modale» e il «free jazz» modificarono il linguaggio del jazz.

Innanzitutto un’epoca. I Beatles, Bob Dylan, Mina, Guccini ed altri poeti. Le nostre madri e i padri fumatori, le zampe d’elefante e il rosso politica. Ma anche un musical per noi, nuovi pezzi, nuovi artisti, vecchie cose da gridare: vogliamo esser liberi, vogliamo lavorare, vogliamo contestare etc. Lo facciamo seguendo Johnny, che è il ‘68: un ragazzo al confine della gravità, con sogni grandi in un mondo stretto. Voler andare sulla luna prima ancora di cambiar le cose, far gridare la chitarra oltre il rumore assordante della vita terrestre, dei quiz, della politica e della famiglia ossessiva, della borghesia e del proletariato, di professori, dittatori, laureati e notai. Il sogno di cambiare bastando solo dita su fili di metallo e un alfabeto sonoro, quello di una musica nuova. A noi è piaciuto insegnarla, riscriverla, a noi piace cantarla e ballarla. Così abbiamo preso Johnny e lo abbiamo messo in mezzo a un palco, sempre in silenzio, con una chitarra in mano e i dubbi affissi negli occhi. Un trascinatore silenzioso, attento alle masse ma anche disinteressato, un fatalista se vogliamo, che non reagisce ma che è causa di reazioni. Johnny non è solo il 1968, ma anche il 2010, il significante di un contenitore che trasporta merce usata, il «visto uno visti tutti» emblema del cambiamento necessario e di una rivoluzione stridente che avviene senza coraggio, in cuor proprio, nella rabbia e nello sdegno presenti quando i tempi devono di nuovo cambiare e non sono solo maturi, ma scaduti. Oggi che si rimasterizzano i Beatles, proposti come unica grande zattera della nostalgia sulla quale salvarsi dal grande naufragio - mentre la politica sbiadisce, la tv è lo zoo dei padroni, chi la guarda pecore impazzite e noi tifosi da acquario - un gruppo di autori, talent scouts, musicisti, allievi, insegnanti, ballerini, che si muovono all’interno del Saint Louis College of Music, ha ripescato il 1968 facendolo specchiare in una scatola a forma di tv, l’embrione di ciò che siamo diventati: innocenti sognatori di scene violente, con pretese semplici che le menti della comunicazione strumentalizzano e trasformano in irrinunciabili necessità. Uno spaesato Johnny - in un lucido silenzio musicale - fa da perno a un’umanità confusa mentre l’atteso mondo «migliore» woodstockiano si riversa su un mero «bisogno di nostalgia» e sul senso di frustrazione che aleggia, soprattutto tra i giovani, sopra la consapevolezza che un «meglio» c’è già stato e che non ci sia più spazio per l’arte e le forme innocenti di crescita. È perché abbiamo ancora argomenti che abbiamo fatto un musical «contromano». Prodotto e creato da un team di professionisti dello spettacolo e da una coraggiosa produzione, con un cast di 22 giovanissimi talenti «non» provenienti da talent show, Sessantotto vuole divertire, innanzitutto, ma senza cancellare la facoltà di pensare, rivedere e rivivere un momento delicato della storia dei nostri cromosomi senza associarla a qualcosa di pesante o distante. Dopo il successo dell’anteprima, debutta ufficialmente a Roma, per poi toccare Milano e partire in tour nazionale. Così noi siamo un po’ Malcolm X (siamo ordigni non scoppiati) ma in un animo di artisti (non scoppiamo, cantiamo).

speciale

Music In ! Novembre-Dicembre 2009

‘68 ITALIAN ROCK MUSICAL Torna al Teatro Greco, dal 9 al 20 dicembre. Il servizio di MUSIC IN VIDEO su www.youtube.com/musicinchannel

FRATELLI FONTANA Labicarte è una piazza monumentale, loro ne sono la fontana al centro che zampilla talenti

IL MUSICAL

‘68 Recensione Loro sono stelle e questo cd un salame Negroni: vuol dire qualità.

Se le fontane richiamano arte, allora questa famiglia è come un monumento, a Roma: un fontanone che zampilla talenti e arte, un F ontana connubio reso

ufficiale dai fratelli Maria Grazia e Attilio Fontana al punto da creare Labicarte, un luogo dove esercitare libera creatività senza l’ossessione di cercare situazioni definitive. «Quant’abbondanza c’è». Lei, pianista diplomata al Conservatorio di Santa Cecilia, a soli 13 anni aveva già prestato la voce per la colonna sonora di Profondo Rosso, capolavoro horror di Dario Argento; una vita dedicata all’insegnamento, alla tv, al musical, alla scrittu-

www.youtube.com/musicinchannel

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al 9 al 20 dicembre al Teatro Greco di Roma replica il 1968. Tornano gli hippies, l’hashish, i megafoni, la rabbia, il gioco della sedia, ma soprattutto una musica di qualità. Il Saint Louis College of Music fa l’en plein di talenti: Fabrizio Giorgi (Ernesto), Marco Meccoli (Johnny), Nicole Di Gioacchino (Lauretta), Elena Allegri (Patty), Francesco Mantuano (Silvio), Giovanbattista Mazza (armonica) e tutti gli artisti che hanno frequentato il corso Andiamo in Scena di Maria Grazia e Attilio Fontana, Franco Ventura, Michela Andreozzi, Orazio Caiti e Giulio Costa. Allievi e autori hanno compiuto un miracolo: rappresentare l’unico musical italiano in cui tutti sanno cantare, ballare, recitare, interpretare. Ossia dare. Vivere un ‘68 nel 2009. Ricreare il bianco e nero. Fare un twist. Mangiare una Dufour, la caramella che ci piace tanto. Va detto, manca qualcosa rispetto agli altri musical. Innanzitutto, la spocchia. Gli artisti di Sessantotto sono ragazzi normali - non piacerà al mercato nepotistico ed eccentrico delle grandi produzioni - e, ancor più grave, studiano. Canto, ballo, recitazione, storia del musical, regia, backside, coreografia, repertorio, vocal ensemble. Tale dettaglio li colloca totalmente controcorrente ed è destinato a causar loro disagi nello scontrarsi con la preparazione dei colleghi italiani. Manca il diavolo: non piacerà all’industria che gli stessi non s’interessino ai reality e non vendano l’anima alle majors per scrivere, preparare, ultimare, mandare in scena uno dei migliori spettacoli musicali degli ultimi anni.

Manca la strumentalizzazione: Sessantotto non pretende di raccontare ciò che accadde allora per regalarlo alla politica, ma attraversa con obiettività, in un flusso continuo e corale, tutti gli ambiti che risentirono del cambiamento - famiglia, università, boom economico, fabbrica, scontri con la polizia, musica, minigonna e Rischiatutto - senza macchiarsi di significati da asservire ad altri scopi. Manca la dipendenza, il fine di lucro. A questo musical, siamo sinceri, manca il Musical stesso. È la sua salvezza: in un parallelo troverebbe perfetta collocazione nel circuito offBroadway e consentirebbe all’industria italiana di esser rivalutata per qualità e meriti dell’investimento privato. Per questi motivi Sessantotto ha, come il negativo di una foto d’epoca, tutti i requisiti per entrare in una nuova storia, quella in cui i giovani riprendono, oggi come allora, possesso di se stessi e delle proprie, frustrate ambizioni.

di Romina Ciuffa

Carosello sostituiva le benzodiazepine, lo zapping furioso, il branco, l’aperitivo alla milanese, i reality, la politica. Il Carosello non sostituiva il bacio della buonanotte, una cena in famiglia, la lettura di un libro, il cinematografo, il muretto sotto casa. Per 20 anni fu trasmesso tutti i giorni, dalle 20.50 alle 21, interrotto solo della morte del Papa e dei Kennedy, dalla strage di Piazza Fontana e dallo sbarco sulla Luna. Più che pubblicità, un teatrino con palchetto e sipario. Qualità in bianco e nero, un braccio di ferro tra il consumismo scalpitante e la povertà di una guerra da cui facevano capolino i prodotti pubblicizzati da Carmencita e Caballero (Carmencita, sei già mia, chiudi il gas e vieni via), Calimero (Uh Ava, come lava!), la Linea di Osvaldo Cavandoli. Carosello faceva rima con manganello e si era tutti, come Agostino Lagostina, una linea virtualmente infinita di cui si formava parte integrante ma che, perso il proprio disegnatore, si bloccava su se stessa, proprio in pizzo.

IL

L’amore è libero e siamo liberissimi di amare ‘68 Italian Rock Musical come fosse Mamma mia!. Ci piacerebbe esser giustificati a cantarne i motivi intonare Sfatti, Carosello, Se mi vuoi mi sposi, Democrato praticità - come quando, dal nulla, si sente fischiettare Take a chance on me degli Abba o si vive il «dramma-mia», quella reiterata tentazione, durante una lunga giornata, di gracchiare «mamma mia» senza pudore. Simile sindrome colpirà chi darà fiducia a questo gioiellino di produzione indipendente (Saint Louis College of Music, D’AltroCanto Produzioni). Se i nostri tic non ci bastano, potremo affidarci ai loro. Che, direttamente dal ‘68, ci consegnano - pronti da canticchiare nel secondo millennio - brani di elevata qua-

lità e testi che si addicono ai grandi parolieri. Un lavoro che si apprezza ancor di più dinanzi a un dettaglio: quando nel 2008 iniziò il corso «Andiamo in Scena» da cui il cd è tratto, per scelta non si conosceva il leitmotiv del Musical e lo si affidava alla personalità dell’intero corpo allievi che avrebbe superato le audizioni e reso questo uno spettacolo cucito a pennello dal sarto: i fratelli Fontana. Per la nostra doccia il rock del titolo, coralità, blues e pop, un duo (Emanuela Monni alla batteria e Alessandro De Panfilis al basso) che suona dal vivo anche sulle scene, ampie citazioni tematiche e twist intorno alle sedie fino al Ritorno dalla luna di Johnny (Marco Meccoli), unico momento in cui il ‘68 da lui rappresentato apre bocca (non sarà un caso che il Carosello fu interrotto solo per trasmettere la missione lunare dell’Apollo 14). Oltre alla luna lavatrici, mariti, Beghelli, quiz televisivi, sesso e bigotte. Dalla luna anche le voci, che son di stelle: limpide, preparate, emotive. Talenti che sono come il salame Negroni: le stelle sono tante, milioni di milioni, la stella di Negroni vuol dire qualità. E le stelle di questo musical sembrano uscir proprio da questo (Romina Ciuffa) carosello.

Guarda quant’è bello, guarda il Carosello mentre tuo fratello muore in piazza! Johnny perde sangue, il padre sta in mutande, il fratellino piscia al letto, la mamma sta in cucina. Arriva l’arrotino, Agostino è sul pulmino perché la Polizia se l’è portato via!

MOTEL POTAREWOODSTOCK

altra faccia di Woodstock. Lo storico conL’ certo che riunì sullo stesso palco il meglio del rock - Jimi Hendrix, Janis Joplin, Who,

FEED back

ra, alla ricerca di talenti, all’accompagnamento artistico dei grandi nomi della musica italiana. Lui, il fratello minore, bravo paroliere anche nel suo ultimo cd «A», era uno dei Ragazzi Italiani che nel 1997 cantavano a Sanremo Vero amore; Lucio Dalla lo sceglie per la sua Tosca ed Elisa per il musical Hair; scrive l’opera Actor Dei insieme alla sorella. Entrambi collaborano con il Saint Louis College of Music e sono autori di ‘68 Italian Rock Musical. (RC)

E DOPO IL CAROSELLO TUTTI A NANNA

ERBA DA

AA.VV. - ‘68 ITALIAN ROCK MUSICAL

CAROSELLO Siamo tutti una lunga, spezzata Linea di Cavandoli.

FONTANA

di ROMINA CIUFFA

Videointervista

1968

Jefferson Airplane, Grateful Dead e altri - «per 3 giorni di pace e musica» visto da una prospettiva insolita e finora inesplorata: quella di chi su quel prato ci è nato e cresciuto e, fiutando l’affare, ha affittato i propri pascoli agli organizzatori del mega-raduno. La musica non è solo lo slogan hippy peace and love, ma è anche guerra di soldi.

Ce lo ricorda uno dei protagonisti di Motel Woodstock, l’ultimo film di Ang Lee che si rivela un regista eclettico capace di passare da una sceneggiatura all’altra - da Banchetto di nozze a Tempesta di ghiaccio, da I segreti di Brokeback Mountain a Lussuria - senza mai ripetersi, pur mantenendo lo sguardo disincantato sul mondo che lo contraddistingue. In Motel Woodstock svela anche un lato ironico, dando vita ad una commedia che si regge in equilibrio tra cinismo e spensieratezza, tra momenti comici e drammi

familiari, tra conformismo e voglia di libertà. Motel Woodstock è la storia di Elliot, architetto trentenne che lascia New York per aiutare i genitori a risollevare le sorti di un vecchio motel nella sconosciuta cittadina di Bethel sulle rive del White Lake. Quando Elliot scopre che una vicina località ha rifiutato di accogliere il festival di Woodstock, contatta gli organizzatori offrendo loro ospitalità e la sua licenza per organizzare un festival da camera nei suoi terreni. Il festival da camera si trasforma nel più grande concerto rock mai organizzato e la tranquilla vita di provincia viene invasa da migliaia di persone: artisti, musicisti, attivisti pacifisti, giornalisti. L’invasione sarà compensata da un mucchio di dollari che, da sempre, fanno girare il mondo. Ma sarà anche l’occasione per entrare in contatto con una cultura diversa che sognava di cambiare il mondo e per tre giorni trasformò una collina nel centro dell’universo di allora. In un film ambientato nel 1969 ti aspetti come minimo di ascoltare un riff distorto di Hendrix o la voce roca di Janis Joplin, ma nel film di Ang Lee non ce n’è quasi traccia. Come Bob Dylan a Woodstock, la musica del festival è la grande assente. Il concerto sarà una eco lontana, che viene dalla stanza accanto, sogno che non si fa prendere. Come dicono i saggi, il bello non è la destinazione ma il viaggio in sé. Nel suo tentativo di raggiungere il concerto, il protagonista sperimenterà il gusto della ricerca e, inciampando in droghe, amore libero, omosessualità, nuove filosofie di vita, cambierà percorso più volte per conquistare una nuova consapevolezza di sé. Alla fine rimane il solito prato da ripulire per tornare alla normalità, per tornare ognuno al proprio business. Che sia il prossimo concerto da organizzare o il prossimo affare da concludere (Roberta Mastruzzi) poco conta.

ALT ER NATIVE a cura di VALENTINA GIOSA

Music In ! Novembre-Dicembre 2009

C.O.S. La chitarra-stiletto la colleghiamo ad un pedale e poi al Marshall: que- BLACK HEART PROCESSION I BHP sono sto strumento è nato dalla mia frustrazione di non poter usare tacchi alti visto «un uomo ubriaco senza scarpe», disse una che ho dei piedi enormi. Così ho riciclato un paio di scarpe economiche di Zara. volta Pall Jenkins. Tanto per capire il mood.

& SCALZI UBRIACHI

CHICKS ON SPEED PATCHWORK DI ARTE POP

a cura di Valentina Giosa

L’

ppuntamento all’Alpheus il 6 A dicembre con l’indie d’essai dei Black Heart Procession, tra i gruppi più

electro pop fem-band più folle sin dal 1997 è tornata a stupire con un nuovo album e nuovi progetti che, come sempre, riescono a racchiudere come solo pochi sanno fare musica, moda, sperimentazione. Un gruppo multidisciplinare d’arte o, che dir si voglia, un collettivo dove si fa tutto ciò che è artistico e che ammette in entrata e uscita personalità artistiche di vario tipo, mentre trova nell’australiana Alex Murray-Leslie e nell’americana Melissa Logan le due anime stabili. Sin dalle serate nei bar di Monaco di Baviera guidate da un’etica di performances fatte di arte, grafica e collages fatti in casa, queste chicks fan da sé i costumi di scena al più basso costo e con materiale riciclato, senza escludere sacchetti di plastica e nastro gaffer. Con la tedesca Kiki Moorse avevano cantato I don’t play guitar e avevano fatto il botto, un botto fai-da-te. Ma poi videoinstallazioni e progetti fuori norma son ciò che le distingue: le «pollastre veloci», tra l’altro, hanno disegnato un enorme seno all’esterno di un palazzo di Melbourne e fatto un concerto in un parco per il principe di Norvegia. «Crediamo in un nuovo tipo di femminismo: esci e realizza ciò che vuoi. Si tratta di libertà, e dovrebbe essere possibile per tutti» dichiaravano. Oggi - innovative e sempre al passo con i tempi - le Chicks on Speed raccontano a Music In com’è nato il quinto lavoro registrato in ben 10 città diverse tramite il media che ha ormai conquistato il mondo rendendo ogni distanza un soffio, Skype. Alex Murray-Leslie e Melissa Logan ci rivelano come nascono i loro curiosi «oggetti-strumento», anticipandoci inoltre nuove collaborazioni in vista fra cui quella con Yoko Ono e Brian Eno.

GOLDEN SILVERS

Il vostro quinto album, Cutting The Edge, prende il nome da uno dei vostri «oggetti-strumento», le forbici elettroniche. Come è nato e cosa lo differenzia dagli altri vostri lavori? AML Consideriamo questo album un disco «bubble gum pop intelligente», un mix di pop e arte, diciamo un «patchwork di arte pop». È la definizione giusta per descrivere l’ispirazione che abbiamo preso dagli anni Sessanta tanto quanto dalle girls-band che abbiamo voluto «sporcare» un po’. Il bubble gum pop è la radice dell’ondata femminile, alla Kylie Minogue o alla Madonna, l’opposto delle ‘girl monsters’ (The Slits, The Raincoats) in cui invece ci riconosciamo molto. ML Direi che è un album frivolo ma nello stesso tempo con un contenuto, un messaggio. Divertitevi sì, ma andate anche più a fondo se volete. Gonne-amplificatori, chitarre-stiletto, sassofoni-chitarra elettrica… Come nascono i vostri «oggetti-strumento»? AML L’ idea è nata nel corso degli ultimi 5 anni. Abbiamo cominciato connettendo un microfono su scatole di sigari, pietre e forbici. Poi abbiamo iniziato a pensare di sviluppare questo discorso soprattutto dopo aver scoperto Hangar a Barcellona, un media-art space dedicato solo a questo. È lo spazio più incredibile che abbia mai visto e al mondo ci sono pochi posti simili. Abbiamo così iniziato a collaborare con il direttore Pedro Soler, Alex Posada, Merche Blasco e il resto del team. La chitarra-stiletto è certamente uno degli strumenti che più usiamo dal vivo. La colleghiamo ad un pedale e poi al Marshall. Credo che questo strumento sia nato dalla mia frustrazione di non poter usare tacchi alti visto che ho dei piedi enormi! Perciò è una sorta di oggetto fetish del desiderio. Ho riciclato un paio di scarpe economiche di Zara. Fra i nostri progetti c’è anche quello di realizzare un’intera serie di chitarre-stiletto con Max Kibardin. Vorremmo creare la «Chitarra-stiletto Orchestra» e fare un concerto per l’apertura della mostra «The Making of Art» alla Shirn Kunsthalle di Francoforte. Innovative e sempre al passo con i tempi, avete registrato l’album in diverse locations tra cui treni, toilettes di gallerie d’arte e stanze d’albergo utilizzando anche Skype. Com’è andata? AML Abbiamo letteralmente registrato in 10 Paesi diversi (Vienna, una fattoria di Oxford, una camera di albergo di New York, un aereo verso Riga, Lettonia) on line e off line. L’idea di creare uno studio «portatile» ha influenzato molto il taglio e lo stile dell’album. Nello studio degli Astrud a Barcellona abbiamo addirittura ballato nude sul tetto e girato un video mentre registravamo simultaneamente la canzone. ML Skype è fondamentale per noi, lo usiamo per provare e per sperimentare e serve anche a tenere insieme il gruppo. Inoltre ha contribuito tanto alla versatilità dell’album. Gli stili e i diversi tipi di musica sono frutto dei nostri viaggi e delle tante persone con cui abbiamo collaborato. Infatti il nuovo disco ospita nomi importanti come Fred Schneider e Tina Weymouth.

LET’S DANCE

rappresentativi della scena a stelle e strisce, in tour per presentare il loro ultimo album, Six (uscito in ottobre per la Temporary Residence), già dal titolo significativo ritorno alle «nude» origini di 2, del 1999, vero e proprio albumtestamento che segnò la loro ascesa nel firmamento post-rock accanto agli allora emergenti Sigur Ros, Elbow e Low. Nati

Come scegliete di solito gli artisti con cui lavorare? ML Scegliamo sempre di lavorare con amici-artisti che poi diventano collaboratori e parte della grande «famiglia Chicks» cosi come è stato con Fred Schneider, che è forse una delle nostre più lunghe conoscenze. La collaborazione più bizzarra? AML Mark Stewart. È arrivato, ha urlato nel microfono, lo ha rotto ed è andato via: eccezionale! Quella che ancora non avete realizzato? AML Ci piacerebbe lavorare con Yoko Ono per una performance di arte e poi ci sarebbe il progetto con Brian Eno insieme alla nostra Chitarra-stiletto Orchestra. Vorremmo includerlo in una performance di moda e arte. Cosa vi ispira da anni e vi fa essere sempre piene di brillanti idee? AML Prendiamo inputs da diverse cose, arte, musica, moda, new-medias o anche esperienze di vita quotidiana che contribuiscono in misura uguale alla nostra ispirazione. Per l’ultimo album sono stati fondamentali, per esempio, Scott Walker, Yoko Ono, The Slits, il bubble gum pop degli anni Sessanta, il Jpop, Clara Rockmore, Eartha Kitt, Joni Mitchell e l’artista surrealista Helen Vanel. La contaminazione di diverse forme d’espressione è molto evidente. Vi dividete con disinvoltura fra moda, musica e design dando vita ad un singolare crossover fra le arti. Come vi definireste esattamente? AML Ci piace chiamare il nostro stile «Objektifications». Siamo molto ispirate da artisti come Elsa Schiaparelli, Meret Oppenheim, Salvador Dali, Oscar Schlemmer e anche da Bauhaus e Shiburi per esempio. Il nostro designer preferito del momento è Pelican Avenue che ha ispirato il nostro ultimo video «Terrible Twins». A proposito di moda, avete disegnato collezioni per Crystal Ball e Yoox, ed ora la collezione Insight on Chicks on Speed… ML Abbiamo creato trenta capi ispirati al surf; abbiamo anche fatto una canzone abbinata alla collezione che è poi diventata un video. L’idea è nata quando ci siamo rese conto che non esisteva un abbigliamento idoneo per le surfiste, ma tutte dovevano rifarsi all’ immagine maschile stereotipata. Eppure ci sono figure femminili leggendarie che hanno rivoluzionato il mondo del surf, ad esempio Isabel Letham. Noi le celebriamo così. Fra gli altri progetti c’è anche la pubblicazione del secondo libro… ML Sì, ma questo è un segreto. Avete dichiarato recentemente in un’intervista: «Adoriamo l’Italia ma nessuno ci invita mai». È vero? AML Non esattamente. Abbiamo suonato in Italia molto spesso durante la nostra carriera. Negli ultimi anni Yoox è stato uno dei nostri maggiori sostenitori, ma anche la Diesel. Ci siamo esibite proprio pochi mesi fa per il grande anniversario del brand. In Italia torneremo presto, in jeans.

P

robabilmente una delle band al momento più amate in Inghilterra, i Golden Silvers sono stati fra gli headliner del NME Radar Tour 2009, festival inglese che ha aperto la strada a Maximo Park, Glasvegas, Crystal Castles, La Roux, Friendly Fires, White Lies, Heartbreak, Blood Red Shoes, Forward Russia, Howling Bells. Vincitori della Glastonbury Festival 2008’s New Talent Competition e dopo il successo

della disco psycho-pop di True Romance (True No. 9 Blues) che ha scatenato tutti in pista, la band ritorna con un nuovo video dal titolo Please Venus, un tuffo nella spensieratezza e leggerezza della discosoul anni 70 arricchito di un pizzico di psichedelia di beatlesiana memoria. Semplice e quanto mai attuale la formula dei Golden Silvers: intrattenimento, kitsch «intelligente» e (l’oramai immancabile) retro. (Valentina Giosa) E funziona.

a San Diego dalle ceneri dei Three Mile Pilot, formati sulla dorsale della premiata coppia Pall Jenkins e Tobias Nathaniel, i BHP hanno dato vita a sei album (da 1, del 1997, per passare a 3, Amore del Tropico e The Spell) in una dozzina d’anni, tracciando un percorso tortuoso fatto di illuminazioni e cadute. Un chiaroscuro che ben si adatta alle loro atmosfere minimali e intimiste, giocate su ipnotiche linee di piano e tesi feedback di chitarra, violini e fisarmoniche di sapore zigano, accompagnati dallo straniato canto alla luna di Jenkins. I BHP sono «un uomo ubriaco senza scarpe», disse una volta Jenkins, tanto per capire il mood. Con o senza scarpe, con Six la processione dei cuori neri riprende a marciare, e anche piuttosto spedita. Ascoltare ad esempio Witching Stone, pilotato sulla progressione batteria-basso-chitarra, e Drugs, per solo voce e piano, ballata magica e sospesa con relativo video da «Gabinetto del Dr. Caligari» e un occhio verso Mercury Rev e Dresden Dolls. Per restare nei dintorni di fine millennio.

LORENZO BERTINI

ORRORI MALEDETTI

10

a nni fa cinque ragazzi dal fascino maudit e con la passione per il garage e le sonorità «oscure» si aggiravano nell’area di Southend suonando The Witch dei The Sonics e Jack the Ripper degli Screaming Lord Sutch. Il successo per i The Horrors non tarderà ad arrivare una volta che i brani originali verranno alla luce. Con sonorità e atmosfere garage, shoegaze, post punk e gothic rock e un look già ben definito, la band inglese comincia a farsi un nome già con il primo disco Strange House, a cui seguiranno importanti esibizioni come il Glastonbury Festival, il Carling Weekend, diversi festival scandinavi, il Summer Sonic Festival in Giappone e Splendour in the Grass in Australia. La band è ora in tour in Europa (a Roma il 18 novembre al Circolo degli Artisti) per promuovere il secondo album Primary Colours pubblicato a maggio, prodotto da Craig Silvey, Geoff Barrow dei Portishead e Chris Cunningham, e nominato per il 2009 Mercury (Valentina Giosa) Prize.

PO P C K pop&rock

Music In ! Novembre-Dicembre 2009

PIETRA MONTECORVINO Nascondi la UN TRENO ROCK Senza i limiti delle 4 piste, diffi- FUMETTI POP Ma no, di mano perché sai che la responsabilità di una cilmente i Beatles e George Martin avrebbero tirato fuori che m’illudo? Ancora è tutto passione mediterranea non la puoi sostenere le geniali sovraincisioni di «Revolver» e «Sgt. Pepper». nuvole e niente che si afferri.

a cura di ROMINA CIUFFA

!"#$%&'%()*"&(&#"+$,#-%&!"&."#, a cura di Sabrina Simonetti e Romina Ciuffa

Videointervista

www.youtube.com/musicinchannel

S

i chiama Barbara D’Alessandro, è conosciuta come Pietra Montecorvino («perché quando si apriva la porta di San Pietro, che si apre ogni 7 anni, io mi trovavo lì») e siede accanto a Eugenio Bennato, Sanremo compreso. Questo non vuol dir nulla: una pietra è una pietra, si provi a lanciarla e lei sarà forte ovunque cada, anche in fondo a un lago, perché avrà sempre il proprio spazio. E, soprattutto, a morra cinese la batte solo la carta: carta canta, appunto. Da cui una riflessione: ascoltando il suo ultimo album, Italiana, la signora Montecorvino fa rimpiangere una Salerno-Reggio Calabria non ancora pronta, fa cinicamente soffrire perché ce lo offre ora che è inverno e poi ci spiega: «Di getto, è venuto di getto». Con la complicità del tarantico potere di Eugenio che firma la direzione musicale, di Erasmo Petringa agli arrangiamenti e in chitarra battente, e di tutti loro: Luigi Tenco, Domenico Modugno, Fred Buscaglione, Lucio Battisti, Mogol e quanti altri, che lei qui interpreta «mediterraneamente». E un inedito - Amante italiana, scritto col compagno di una vita Bennato - ancor più mediterraneo in un bel video che parla di mare napoletano e rende Pietra una gemma, ma anche una fata. Perché (un omaggio al cognato Edoardo per il suo Pinocchio?) i capelli li ha turchini. Come nasce la tua carriera artistica? Nel 1983 in un film di Renzo Arbore, «F.F.S.S. Che mi ha portato a fare a Posillipo se non mi

PHOTOCREDITS ARIANNA TONDO

vuoi più bene?», la mia prima esperienza. Cantavo «Sud», scritta da Claudio Mattone e Renzo Arbore. Cosa c’è di nuovo oggi in te? Tanta nicotina in più, ma soprattutto credermi tutti i giorni un’artista alle prime armi. Chi ha suonato con te in Italiana? Gli arrangiamenti sono di Eugenio Bennato, che lavora con me da sempre. Ha curato quasi tutti i miei dischi tranne uno che ho scritto io, un disco di tanghi, «La stella nel cammino». Oggi esce un album di cover anni 60, con un inedito scritto da me e Eugenio, «Amante italiana». Che influenze ci sono nella tua musica? Sicuramente ho il Mediterraneo nelle vene ed è parte della mia espressione artistica, ma appartengo al mondo e non cesso di esplorarlo. Spero

La storia del rock parte da Abbey Road e dai limiti delle 4 tracce della Emi

UN TRENO ROCK

MEMORIE DI MONDI NOTTURNI di Romina Ciuffa

di Donato Zoppo

«Q

C

osa c’è da raccontare sul rock? Una domandina del genere me la porto dietro da anni. Tempi foschi quelli dell’università, quando frequentavo Giurisprudenza per far contenti i miei, ma per far contento il mio demone davo sfogo a una malsana passione per il rock. Ascoltando, studiando, scrivendo a più non posso. A mio modo, raccontando. Era tanto simpatico il professore di Economia Politica, esperto di qualsiasi dettaglio relativo alle curve dell’offerta e della domanda, all’oligopolio e alla stagflazione, ma il rock non era pane per i suoi denti. «E cosa c’è da raccontare sul rock?», mi chiese quando gli spiegai che studente non lo ero a tempo pieno, che dedicavo le mie energie da gavetta come scribacchino in un giornale locale, che già cominciavo a tenere i miei incontri sulla storia del rock. E questa domanda si è presentata nuovamente - sotto altre vesti, con un’altra ben più insidiosa questione - quando sono stato invitato a tenere il workshop Rock’n’ Roll Train presso il Forum dei Giovani di Quadrelle il 10 ottobre 2009. Cosa c’è da raccontare sul rock, ma soprattutto, come narrare i suoi 55 anni? Come farlo in un’oretta a disposizione, di fronte a giovanissimi che hanno scoperto il celebre riff di Smoke On The Water perché lo fischiettava il papà? Non si può che puntare alla sintesi estrema, esponendo personaggi, decadi e correnti, dagli anni 50 di Chuck Berry al recente In Rainbows dei Radiohead. Senza dimenticare, però, che il rock è una cosa seria, soprattutto per me che ogni sera, prima di addormentarmi, recito le giaculatorie a San Jimi, Madonna Janis, l’Arcangelo Brian Jones e Beato John Lennon. Perché trattasi di cosa sacra. Come ogni concerto d’altronde. Pensate al rito celebrato dal Gran Sacerdote Elvis Presley, alla grandiosa liturgia amministrata dai Led Zeppelin, alla dimensione mistica di un live degli U2, a quella orgiastica e dionisiaca dei Mars Volta. Volendo si potrebbe raccontare il rock attraverso i suoi concerti, e

di somigliare sempre di più a tutto quello che c’è da vivere, senza rimanere ferma alle mie radici. Scopriamo nel tuo album miscugli di cori africani e indiani: da dove provengono? Da musicisti arrivati coi barconi. Non portano solo cose brutte come può sembrare, ma arte e un grandissimo contributo alla musica. Perché è difficile avere successo in Italia? Perché non c’è spazio per le cose che durano, ma solo per l’usa e getta. Ormai nella musica c’è un cambio velocissimo tra un artista e l’altro e, alla fine, non ci si ricorda di nessuno, solo tanto anonimato. Quali sono i tuoi prossimi impegni artistici? Spagna innanzitutto, perché è lì che sta uscendo il mio disco: sarò presto a Malaga, Barcellona, Pamplona. Poi in Belgio, in Francia e in altri Paesi d’Europa. Come hai scelto le tue cover? Con naturalezza: andavamo sempre a finire sui sentimenti e sempre su pezzi degli anni 60, un momento in cui la musica costituiva una visione del mondo ben determinata. Ho preferito Tenco, che è un po’ l’eroe di quel periodo, ma anche Modugno e Battisti (che mi ricorda l’infanzia) e Umberto Balsamo, una canzone poco nota che si chiama «Tu non mi manchi». È tutta emozione o anche un briciolo di recitazione? Un insieme, perché c’è un po’ di tutto. Presunzione, insicurezza, passione, anche recitazione: ci sono io, io come sono. E il cinema, quanto ti appartiene? È una passione che non si spegne, e che vorrei si accendesse sempre di più nella mia vita. Ho da poco finito di girare un film con John Turturro, che sarà al Festival di Berlino a febbraio, e spero di aver fatto una bella figura.

non mancano studi del genere. Ma se avete tempo e pazienza di spulciare, scoprirete che il mezzo secolo che ci separa dal 5 luglio 1954 Elvis varca la soglia degli studi Sun Records di Sam Phillips per registrare That’s All Right - è ricco di eventi, di contatti con altre forme di arte, di sapere e di attività umane. Parlare di rock significa parlare di storia contemporanea: è una musica che nasce registrata, dunque è il prodotto dell’industria discografica, segue e asseconda l’evoluzione del mercato e della tecnologia. Tanto per intenderci: senza i limiti delle 4 piste degli studi Emi di Abbey Road, difficilmente i Beatles e George Martin avrebbero tirato fuori le geniali sovraincisioni di Revolver e Sgt. Pepper. La stessa tecnologia ha consentito ad un Anton Corbjin di realizzare il visionario videoclip di Heart Shaped Box dei Nirvana e a Woodroffe e Fisher di progettare il trionfale Bridges To Babylon Tour dei Rolling Stones. Se poi volessimo parlare del parallelismo tra l’evolversi del rock’n’roll e del costume, dei rapporti con l’arte grafica, la letteratura, la fotografia, la spiritualità e le droghe, ci sarebbe da far spaventare sul serio il docente di Economia Politica. Caro professore, e se facessimo una bella cattedra di storia del rock? Nell’attesa, cordiali saluti.

ui tutto pesa poco, tutto è nebbia, è vapore senza appiglio, ogni forma dura appena, come una nuvola, poi cambia. E come nuvole, queste forme, a guardare da vicino sono ancora e solo nebbia. Vorrei la gravità, vorrei la vecchia terra, quella pressione antica sui talloni...». Questo è precipitare durante un sogno. Graziano Staino racconta, nella collana «ipotalamica» Black Books della casa editrice veneziana Lightbox, «una monocromatica storia a fumetti» in cui sognano i personaggi della scena musicale italiana - Manuel Agnelli degli Afterhours, Cristina Donà, Morgan, Piero Pelù, Francesco Bianconi dei Baustelle, Meg, Enzo Moretto di A Toys Orchestra, Simone Cristicchi, Irene Grandi, Paolo Benvegnù, The Niro, Stefano Bollani, Cristiano Godano dei Marlene Kuntz e Cesare Basile - intorno a una misteriosa «ombra di vuoto» che disperatamente vuol capire. Il racconto è un sogno in sé, con i cambiamenti strutturali che l’inconscio compie - una macchina a più pedali, una caduta infinita che è desiderio ma anche paura di volare, luoghi che mutano senza troppo senso, guerre (i conflitti del sé) vinte o perse, volti che si intercambiano e nessuna spiegazione - e con il senso dell’etereo e del pesante insieme. Librarsi e non cadere mai. Precipitare e ossessionarsi. Ma l’ombra vuol capire: a Cristicchi viene chiesto, nei testi di Dario Honnorat, cos’è il sogno lucido, quell’esperienza onirica in cui il sognatore si rende conto di star sognando, ha percezione cosciente del suo mondo onirico e, con la pratica, può esplorarlo, controllarlo e modificarlo a piacere. «Aspetta! Conosco questo luogo! È qui che una volta ho visto dei folletti in mezzo alle

La casa editrice Lightbox fissa gli incubi di artisti pop (CristinaDonà, Piero Pelù, Morgan, Meg, Irene Grandi, The Niro e molti altri) in un fumetto, che è poi una domanda: precipitando nel sogno, precipito? foglie. Nessuno mi ha mai creduto...», ma i folletti gli rompono gli occhiali (una paura che prende forma onirica) e lui sparisce. «Dove sei sognatore? Devi spiegarmi i segreti del sogno lucido, devi insegnarmi a controllare i sogni...», invoca l’ombra. Niente da fare, s’è svegliato. Piero Pelù viene trovato a sognare «un sogno maledetto che non facevo da millenni», un asino assorto a contemplare uno strapiombo, «ti prego allontana l’asino dal precipizio! Io sono legato a quell’asino da un filo profondo e impalpabile. È una specie di simbiosi emotiva: tutto quello che provo lo prova anche lui». In questi mondi notturni, «io sono un rebetiko», dice l’ex leader dei Litfiba, «quindi siamo in Grecia», la Santorini del primo Novecento per l’esattezza. «Posso suonarti un brano rebetiko», ma riprendono il cammino («Non c’è gusto a cantare per te, sei troppo rigido e silenzioso», dice all’ombra) fino a incontrare il «nano greco»: «La parola sogno non ha senso, i sogni non esistono, ed io certo non sono un sogno. Ti è mai capitato di fare un sogno in cui sai che stai sognando? Nel sonno, bisogna raggiungere lo stadio prelucido, mettere in dubbio la realtà del sogno. Dubitare che quello che si sta vivendo sia realtà, ad esempio notando che accadono cose impossibili, come volare, respirare sott’acqua. Allora si può controllare il mondo onirico». E precipitare? Un lungo volo e laggiù la terra amica mi accoglierà come un cuscino. E se anche mi attende un dolore di roccia dura contro le ossa, sarà realtà, perlomeno. Sarà materia, concretezza, veglia. Ma no, di che m’illudo? Ancora è tutto nuvole e niente che si afferri, non c’è niente di fisso, niente di solido. Qui non c’è nulla che sia coerente. E non sopravvivrei, se non ci fosse un suolo su cui atterrare.

SOUND tracking a cura di ROBERTA MASTRUZZI

Music In ! Novembre-Dicembre 2009

BASTARDI SENZA GLORIA Quentin Tarantino Senza mai peccare di snobismo intellettuale ma con l’entusiasmo di un bambino di fronte al suo gioco preferito

MUSIC IN VIDEO Venere, Biorn Le stanze in cui viviamo ci somigliano. Per questo manca sempre qualcosa

GLORIA

BASTARDO CON

Non mi interessa fare cartoni animati, ma rendere autentica la violenza.

di Roberta Mastruzzi

I

l cinema salverà il mondo e lo farà sacrificando se stesso. L’ultimo film di Quentin Tarantino, Bastardi senza gloria, parte da una fattoria nella campagna francese all’epoca dell’occupazione nazista e finisce in un piccolo cinema di Parigi dove una tremenda vendetta sta per essere consumata. Protagonisti della storia sono un irreprensibile comandante delle SS che parla molte lingue (Christoph Waltz), una ragazza ebrea riuscita a salvarsi dall’eccidio della sua famiglia e proprietaria di un cinema parigino (Mèlanie Laurent), un gruppo di marines infiltrati nelle retrovie - i bastardi del titolo - dediti alla cattura e all’uccisione dei nazisti, con il vizio di togliere lo scalpo ai cadaveri per conto del loro comandante (Brad Pitt). Svelare oltre la trama sarebbe un grave peccato per un film che tenta di riscrivere la storia, fregandosene di rispettare tempi e fatti realmente accaduti. Qui Tarantino spinge al massimo il pedale dell’immaginazione sfruttando a pieno le potenzialità della settima arte e realizzando un film - il primo in assoluto nella storia del cinema - con un’anima veramente europea.

Girato in 4 lingue, con tutto ciò che ne consegue incomprensioni comprese. Questo sarà il filo conduttore della pellicola e in alcuni punti la chiave di volta della narrazione. Come a dire che la storia europea sarebbe stata diversa se avessimo parlato tutti la stessa lingua. Ma la diversità porta anche ricchezza e ne sa qualcosa il regista americano, cresciuto in una videoteca dove ha potuto assaporare e amare l’intera cinematografia europea, dai registi più famosi a quelli sconosciuti anche nella loro stessa patria, dagli spaghetti western alle commedie francesi fino ai melodrammi tedeschi, senza mai peccare di snobismo intellettuale ma con l’entusiasmo di un bambino di fronte al suo gioco preferito, da vero appassionato di cinema. Ed è un pregio non da poco, è raro trovare un regista che sappia riconoscere il valore del lavoro altrui. A pensarci bene, è raro trovarlo in qualsiasi settore e non solo nel cinema. Tarantino invece ne ha fatto il proprio marchio

di fabbrica: come i suoi precedenti lavori, Bastardi senza gloria è un film nel film, tante sono le citazioni, a volte trasformate in parodie, altre in ossequiosi omaggi a registi, attori e sceneggiature di ogni nazionalità e genere, che se ne consiglia una visione multipla per poterle individuare ed apprezzare tutte. Le citazioni sconfinano anche nella musica, ed è così che nella colonna sonora molti brani del passato rievocano classici cinematografici, ma anche semisconosciuti film di serie B. Dal brano che accompagna la prima scena - The green leaves of summer - tratto da un film di John Wayne (La battaglia di Alamo) a numerosi brani scritti da Ennio Morricone (The verdict, The surrender e Un amico, scritti per i film di Sergio Sollima La resa dei conti e Revolver) fino a David Bowie e la sua Cat People (Putting out the fire) che, estratte dalla pellicola per cui sono nate e trapiantate nel terreno fertile dell’immaginazione tarantiniana, riprendono vita e acquistano nuove sfumature di colore. In colonna sonora anche brani tratti da vecchie commedie tedesche, fino al gran finale con di nuovo protagonista Morricone che con Rabbia e tarantella, scritta per Allònsanfan dei fratelli Taviani, chiude tutti i giochi: sarà il momento in cui il cinema riscriverà la storia.

di Roberta Mastruzzi

A

Napoli, un’insegnante di lettere in scuole serali si trova ad affrontare una gravidanza non prevista. Il suo compagno rifiuta la paternità e la bambina nasce prematura, dopo solo sei mesi di gestazione. Maria, la madre interpretata da Margherita Buy, si troverà ad affrontare un momento difficile, nell’attesa che la figlia Irene completi la sua crescita dentro un’incubatrice, senza sapere se la figlia riuscirà a sopravvivere e con quali conseguenze sulla sua salute. Lo spazio bianco è un film tratto dall’omonimo libro di Valeria Parrella, diretto da Francesca Comencini - da non confondere con la sorella Cristina, ugualmente regista ma con uno stile più conformista - che sceglie di affrontare il racconto di una maternità vissuta e sofferta da una donna sola in una città estranea, in preda a dubbi e paure, ferita dagli uomini e dalla burocrazia italiana per la quale esistono ancora figli «illegittimi». È l’attesa di Maria che non sa attendere, è il difficile percorso della piccola Irene verso la vita, è la distanza con cui si guarda il mondo quando si è costretti a guardarlo attraverso un vetro, quel-

lo dell’incubatrice ma anche quello che separa ed esclude la propria vita da quella degli altri. Un tema così delicato, che tocca sfere profondamente radicate nell’intimità di un essere umano, richiedeva una colonna sonora all’altezza, perché la musica potesse riempire con discrezione questo spazio bianco. L’autore delle musiche originali, Nicola Tescari, ha il merito di lasciare spazio nella scelta dei brani di repertorio alle voci femminili. Una scelta non così scontata, considerato il fatto che quando si parla di maternità la voce delle donne, indiscutibilmente principali artefici di tale evento, è messa spesso in secondo piano. Ad accompagnare l’attesa di Maria la voce energica di Blondie con Call me, quella struggente di Cat Power e la sua Where is my love?, quella di Nina Simone che interpreta I wish I knew how it would be feel to be free, l’indimenticabile voce di Ella Fitzgerald con una malinconica Misty e le sonorità elettriche di Dani Siciliano in Same. Una colonna sonora tutta al femminile per un film che non si rivolge solo alle donne, perché la nascita di una nuova vita dovrebbe riguardare tutti.

DON GIOVANNI N

di Roberta Mastruzzi

ella Venezia del Settecento un giovane ebreo viene battezzato e prende i voti da sacerdote. Un prete sui generis: si chiama Lorenzo Da Ponte ed è poeta e libertino. Intimo amico di Giacomo Casanova, seguirà le sue orme, intrecciando storie e avventure con centinaia di donne e scrivendo invettive contro la stessa Chiesa e l’Inquisizione. Esiliato a Vienna, conoscerà Mozart e per lui scriverà i libretti delle sue opere in italiano: Le nozze di Figaro, Così fan tutte e lo stesso Don Giovanni. Il regista Carlos Saura dirige il suo primo film musicale Io, Don Giovanni, dedicato alla vita finora poco conosciuta del librettista di Mozart. È la storia vera di un’amicizia ed il racconto della nascita di un’opera immortale, il Don Giovanni, nata dall’incontro di tre grandi personalità: Mozart metterà la musica, Lorenzo da Ponte le parole e Casanova il suo stile di vita. Il progetto musicale del film è stato seguito da Nicola Tescari, che ha ricostruito il suono di un’orchestra del 700 utiliz-

IO, DON GIOVANNI Mozart mette la musica, Casanova lo stile di vita

zando strumenti antichi e registrando in una piccola chiesa nella campagna laziale, nel tentativo di ricreare l’atmosfera della prima esecuzione in pubblico dell’Opera, avvenuta a Praga nel 1787. Il regista ha voluto che fossero gli stessi attori impegnati nella messa in scena ad interpretare le celebri arie mozartiane, e realtà e finzione si mescolano. Il dramma giocoso (questo il sottotitolo originale dell’opera, in affiancamento al titolo originale Il dissoluto punito ossia il Don Giovanni, K 527) di Don Giovanni si confonde con la storia dello stesso Lorenzo, combattuto tra la sua vocazione libertina e la tentazione di un amore unico ed eterno per la sola donna che abbia amato, Annetta. L’amore per questa donna ritrovata dopo anni di lontananza e la difficile impresa di riconquista, dopo la scoperta di Annetta - proprio come accade nell’opera mozartiana - del lungo elenco delle sue avventure, influirà sull’opera dello scrittore e contribuirà a dare quel tocco di immortalità proprio dei capolavori.

VENERE IN BIORN

L

e stanze in cui viviamo ci somigliano. Parlano di noi, del nostro stato d’animo. Il video Venere dei Biorn - gruppo romano emergente della scena indie rock, un pittore che realizza piccoli affreschi sonori - è il primo estratto dall’omonimo album. Parla di due stanze, un uomo e una donna e due solitudini, un gatto rosso, un cucciolo di Labrador. Lei è tornata da un viaggio e si prepara ad incontrare lui che è tornato da una rapina ed è ferito. Lei in una stanza rossa ed accogliente, lui in una stanza fredda e spoglia, affiancate, un muro di separazione, qualche centimetro che evoca film come Bound e il cinese The Hole. Ci sono quadri, un pacco regalo da scartare, un divano bianco e un cavalletto: gli oggetti si accumulano per colmare un vuoto. Per quanto una stanza possa somigliare a noi, sembra mancare qualcosa: «Completami, completalo il mio mondo». Verso la fine del video ci sono anche loro, i Biorn, e sono Aure (batteria, percussioni), Blaze (voce, chitarre, synth), Eddie (voce, basso, contrabbasso) e Manuele (chitarre, synth, pianoforte, fisarmonica), mentre «tutto scorre così leggero senza troppi sé» ma in un video sorprendente.

SOUND tracking

Music In ! Novembre-Dicembre 2009

VIOLA DI MARE Merita d’essere visto solo perché meritava d’essere letto, per dire «Non c’è paragone» ascoltando qualcosa della Nannini

CINEMA E STEREOTIPO Ciò METROPOLIS Nella che gli americani vogliono farci THE SOLOIST Non città muta le musiche di credere degli arabi. Aladino a parte lo vedremo mai. Aljoscha Zimmerman

VIOLA

ARABINMACCHINA

Mio padre lo voleva maschio. Doveva essere per forza come lui, il figlio del curatolo delle cave di tufo di Cala di Tramontana. Una femmina è roba di signorine, tutti sono capaci. Digli che sono una femmina. Sono nata io. Una femmina, papà. Rassegnati, sono io. Ecco, io sono nata così. E lo giuro, c’era la luna piena

DI MARE

di Rita Barbaresi

L

a viola di mare è un pesce ermafrodita che transita nella fase maschile. In Sicilia lo chiamano anche «minchia di re», da cui Giacomo Pilati trae il titolo per un romanzo che racconta dal 2004. Meritava di essere letto per i temi trattati: pregiudizio, soprusi, la vergogna di una famiglia per un amore omosessuale vissuto

ME TRO PO LIS

nella Sicilia dell’800. Tematiche ancora al centro di mille dibattiti, molto più semplicemente una storia popolare satura d’amore. Merita d’esser visto - Viola di mare - per i medesimi motivi. La regista Donatella Maiorca - tornata al cinema 10 anni dopo un film dal titolo simile, Viol@ - porta sul grande schermo questo amore nato tra le zagare di un’isola del Mediterraneo. Ma il valore aggiunto - accelerazione di cui il film aveva bisogno per non disperdere l’incanto della storia - è nella colonna sonora, firmata da Gianna Nannini con la collaborazione di Wil Malone (produttore degli ultimi due album della rocker senese). È proprio lei ad affermare che per far arrivare al pubblico la magia del luogo con l’odore del tufo di Favignana era indispensabile il suono acustico della chitarra, suono acido del rock. Brava la Maiorca a decidere di contrastare le immagini dolci, drammatiche e romantiche di una storia popolare con una colonna sonora fuori dagli schemi classicheggianti; brava la Nannini a raccogliere la provocazione con un

Q

u a n d o il cinema non aveva voce, erano le immagini e la musica a raccontare una storia. Questa sinergia ha dato luce a capolavori che ancora oggi non hanno perso di fascino: Metropolis di Fritz Lang è uno di questi. Uscito per la prima volta nelle sale cinematografiche nel 1927, nel 2001 è stato restaurato e dichiarato patrimonio dell’umanità dall’Unesco; la sua sceneggiatura ha ispirato molti compositori a creare per la pellicola un commento sonoro. Il primo fu G. Huppertz nel 1926, negli anni 80 fu Giorgio Moroder a realizzare una versione rock - tra i brani inseriti anche Love Kills di Freddie Mercury - fino ad arrivare ai nostri giorni e ad Aljoscha Zimmerman, autore di oltre 400

merito: alleggerire un prologo troppo lungo e lento. Scorre il film e istintivamente la musica avverte l’inconscio: è fuori contesto, non è affatto in sintonia con il film. Siamo abituati a colonne sonore fedeli e mansuete, suddite della storia; la senese, invece, rompe l’idillio e superbamente graffia e conduce alle pagine di Minchia di Re, ad Angela (Valeria Solarino) e Sara (Isabella Ragonese) che si desiderano consapevoli che «ci sarà qualcosa nei tuoi occhi viola, ci sarà qualcosa nella vita per cui valga la pena». Viene naturale ascoltando Sogno andare alle immagini del video Attimo (protagonista la stessa Solarino) e capire quanto piaccia alla Nannini restar fuori dagli schemi musicali (e non). Solo la presenza spregiudicata della sacerdotessa del rock italiano ha consentito a questo Viola di mare di non entrare in quella categoria di film didascalici che, come spesso accade, sono i figli di una presunzione tipica di alcuni registi, che si ostinano a rovinare traducendo in immagini pagine di romanzi meritevoli di notorietà a prescindere dal distacco miope dello schermo.

colonne sonore per film muti (da Ernst Lubitsch a Chaplin e Buster Keaton) presente l’11 novembre all’Auditorium Parco della Musica e il 13 novembre al Teatro Cassia per suonare dal vivo con la sua orchestra le musiche originali da lui composte. La storia è storia: Metropolis è una città immaginaria (ma quanto?) i cui abitanti vivono su due livelli diversi, rigorosamente distinti: in superficie vivono quelli che comandano, nella città sotterranea tutti gli altri. Considerato da molti il capostipite dei film di fantascienza, Metropolis è molto di più: il racconto attuale dei pericoli insiti in una società rigidamente divisa in classi sociali, d’incomunicabilità, d’ingiustizia. (Roberta Mastruzzi)

THE SOLOIST L’ennesimo film che in Italia non vedremo, la colonna sonora di un grande Dario Marianelli che scaricheremo illegalmente, lo scotto che pagheremo all’ignoranza di una distribuzione venale che plagia i suoi stessi spettatori

di Flavio Fabbri

«T

he Soloist» è innanzitutto una grande storia di amore per la musica e per la vita. Una storia che in Italia probabilmente non vedremo mai al cinema, l’ennesimo caso di ottimo cinema che non troverà mai una distribuzione, l’altra occasione perduta dal nostro mercato per proporre al pubblico italiano una bella storia: commovente, costruttiva, socialmente impegnata, istruttiva e piena di buoni propositi. Il Joe Wright di Orgoglio e Pregiudizio ed Espiazione, vincitore di tanti premi ai festival di Boston, Chicago e ai Bafta Awards, non proprio l’ultimo arrivato, con grandi incassi ai botteghini e al mercato homevideo. Ma allora, perché questo film non è nelle nostre sale? Negli Usa è uscito ad aprile scorso, in Gran Bretagna a settembre, il resto delle uscite programmate arriva fino a febbraio 2010, proponendo il film in ordine di debutto nelle sale tedesche, spagnole, greche, olandesi, francesi e scandinave, compresa l’Europa dell’Est. Non ha incassato molto, è vero - solo 33 milioni di dollari a fronte di una spesa di produzione di 60 milioni - e forse anche qui sta la ragione di tale ‘svista distributiva’. Di questi tempi non c’è tanta voglia di rischiare. La storia è bella. Nathaniel Ayers (Jamie Foxx) è un ragazzo di colore schizofrenico che vive da clochard e suona un violoncello scassato (con sole due corde) ai bordi delle strade. Steve Lopez (Robert Downey Jr.) è invece un giornalista nel mezzo di una crisi di nervi, che nella ricerca di una storia da raccontare s’imbatte nell’artista disabile e a sua volta riesce

a dare un nuovo senso alla propria vita. Ne nasce una storia di grande amicizia, di amore per il prossimo e di rinnovata voglia di vivere, grazie anche alla musica. Ma The Soloist non è solo questo, perché Nathaniel e Steve esistono per davvero. Le musiche del film, bellissime, sono state scritte da un ottimo Dario Marianelli, al suo terzo lavoro con Wright e già vincitore di un Golden Globe come miglior colonna sonora per Espiazione, proponendo (già nel trailer ufficiale) il Prelude Cello Suite No. 1 di John Sebastian Bach e One Day Like This degli Elbow, attingendo inoltre a piene mani dalla bravura del violoncellista Ben Hong. Il resto dei componimenti sono presi da Ludwig van Beethoven, Neil Diamond e Jerry Jeff Walker. Con tali presupposti, perché la Universal Pictures non distribuirà questo film in Italia? Si parla tanto di contenuti di qualità, di mercato ‘alto’, di valor aggiunto della musica ai prodotti cinematografici, che poi si finisce sempre a guardare alla fiction televisiva o a gioielli rari del cinema italico (come gli acclamati Gomorra e Il divo). Se proprio i distributori non vogliono correre rischi, perché non uscire dal circuito delle sale cinematografiche ed entrare su altre piattaforme di distribuzione? C’è il web oltre alle sale, ci sono le pay-tv, si potrebbero decidere delle uscite (windows) in contemporanea o a poca distanza, ovvero su piattaforme scelte (satellite, digitale terrestre, Internet). Soluzioni non mancano per chi voglia (davvero e in cuor suo) combattere la pirateria digitale del download illegale. Per un buon prodotto c’è sempre un prezzo giusto, che tutti sono disposti a pagare. Forse ciò che manca in questo Paese è la voglia di far vedere del buon cinema e di far sentire della buona musica al di là dei noiosissimi ‘cinepanettoni’ e ‘cinecocomeri’ che tanto piacciono. Soldi facili contro buon gusto e storie avvincenti? Inutile accettare la sfida, in Italia sappiamo già come va a finire. (Noi lo scaricheremo).

di Alessandra Fabbretti

C

he tipo di immagine offre il cinema made in Usa degli arabi? «Fatta qualche eccezione, si tratta di un’immagine stereotipata. La società appare retrograda, lontana dalla modernità, schiava dell’Islam e - peggio ancora - dell’islamismo», afferma Habib Attia, produttore televisivo e cinematografico tunisino e direttore generale della Cinetelefilms, la prima compagnia di produzione tunisina privata che punta sullo sviluppo di co-produzioni con l’Europa e sta lavorando su un progetto di co-produzione con l’Italia. Non sbaglia. Il grande schermo hollywoodiano è popolato di ricchi sceicchi che dilapidano dollari e giovani danzatrici sempre sorridenti e disponibili. La cinematografia allude con ripetitività alla cultura arabo-musulmana, ma in modo errato fin quando la parola arabo voglia suggerire solo, in un contesto di paesaggi esotici, sinuose fanciulle e pericolosi individui pronti a far saltare in aria l’Occidente. Gli appassionati di Indiana Jones non possono non ricordare la scena ne I predatori dell’arca perduta in cui Harrison Ford abbatte con un colpo di pistola il tracotante guerriero arabo vestito di nero. Altrettanto feroci, ma incapaci, sono i terroristi contro cui si cimenta Arnold Schwarzenegger in True Lies (1994), mentre Doc, l’eccentrico co-protagonista di Ritorno al futuro (1985), viene preso a colpi di kalashnikov da alcuni terroristi libici. In Hot Shots 2 (1993) l’intera missione dell’agente Topper (Charlie Sheen) si svolge in Iraq per salvare dalla prigionia alcuni soldati americani ed è lo stesso presidente degli Stati Uniti ad affrontare in un duello stile Star Wars il dittatore Saddam Hussein. Politically incorrect. Alan Nadel, docente nella Rutgers University (Kentuky, Usa) in uno studio analizza il celebre cartone della Walt Disney Aladdin (1992), e avanza una teoria: realizzato durante il conflitto del Golfo, esso contro tendenza intendeva offrire una visione innovatrice degli arabi, dove i «vecchi» venivano sostituiti con i «nuovi». Aladdin e Jasmine abbraccerebbero i valori americani, rifiutando il passato e le tradizioni. Per avvalorare la propria tesi Nadel cita una strofa della canzone cantata dagli innamorati nella famosa scena del volo sul tappeto magico, A Whole New World: «I can’t go back to where I used to be», non posso tornare dov’ero. Nel mondo della musica, invece, una singolare inversione di tendenza. Diversi studiosi hanno confermato un avvicinamento del pubblico a quella araba proprio in seguito agli attacchi del 2001: c’è chi li teme, ma c’è anche chi nutre curiosità e interesse per un universo tanto lontano e composito. Così numerose star spiccano il volo proprio dopo la data critica dell’11-09, come la bella libanese Nancy Ajram, che nel 2008 vince il World Music Award per le vendite ed è la prima testimonial scelta dalla Coca Cola per il mondo arabo. Dawn Elder, vicepresidente di una delle etichette commerciali che più hanno contribuito al boom dell’Arab music negli States, Mondo Melodia, si dimostra molto ottimista: gli appassionati non diminuiranno, tutto il contrario. Dopo il 9/11 molti concerti furono annullati dagli stessi musicisti arabi che, per rispetto, preferirono non esibirsi. «In quel momento li ho capiti-sostiene Elder-ma mai come ora la gente dimostra di voler conoscere il Nord Africa e il Medioriente. È come se ci dicesse: ne vogliamo sapere di più!». Staremo a vedere se i grandi della music industry saranno in grado di cogliere questo non sottile messaggio.

BALLET a cura di ROSSELLA GAUDENZI

Music In ! Novembre-Dicembre 2009

IPERCORPO Intervista Un sodalizio lega cinque compagnie nazionali multidisciplinari all’avanguardia

FLAMENCO. Il critico si affidi al pubblico: c’è una sanguigna Fuensanta La Moneta tra la luna e gli uomini.

IL LAGO DEI CIGNI Rimpiangendo il passato e sperando nel futuro senza mai essere soddisfatto del presente: così ho trascorso la mia vita.

IPERCORPO

a cura di Rossella Gaudenzi

«Nanou» è innanzitutto un nome di donna; identifica un prodotto nato dall’unione di tre persone ma che si riassume in una persona terza. È inoltre il titolo di un film del 1986, è il titolo di una canzone, è il nome di un vulcano australiano, e in dialetto romagnolo significa «mio caro»

C

ominciamo con il parlare di un network: una rete di progetti collegati tra loro per la condivisione di modi, finalità e programmi. Il network in questione nasce nel 2006 e si chiama IperCorpo, il sodalizio lega 5 compagnie nazionali multidisciplinari all’avanguardia: Città di Ebla, Santasangre, Gruppo Nanou, Cosmesi, Ooffouro. «IperCorpo», il festival di danza, teatro, musica, video e arti visive (Forlì, 18 settembre-3 ottobre), è giunto alla IV edizione: una sede di sperimentazioni e confronti, un laboratorio creativo senza confini di genere. La voce di Marco Valerio Amico, attore e danzatore, racconta il Gruppo Nanou (finalista del Premio Equilibrio all’Auditorium di Roma nel 2008), che nasce a Ravenna nel 2004 ed è composto, oltre a lui, da Rhuena Bracci e Roberto Rettura, in scena a Forlì con Motel (Faccende Personali)-Prima Stanza. Gruppo Nanou: la prima curiosità che nasce è sulla natura di questo nome. Nanou raccoglie una pluralità di significati: è innanzitutto un nome di donna; identifica un prodotto nato dall’unione di tre persone, ma che non incarna nessuna delle tre perché si riassume in una persona terza. È inoltre il titolo di un film (C. Templeman, 1986), è il titolo di una canzone, è il nome di un vul-

cano australiano. Infine, per rimanere radicati alle nostre origini, in dialetto romagnolo significa «mio caro». Gruppo in quanto fa capo a competenze unite in linea orizzontale e non verticale: le mie di attore e danzatore, quelle di Rhuena di danzatrice ed ex ginnasta, quelle di Roberto di sound designer ed esperto di post produzione. Qual’è la natura del network-festival IperCorpo, e quale tipo di sinergia lega le 5 compagnie che lo compongono? Il progetto IperCorpo nasce dapprima dall’interazione delle compagnie Città di Ebla di Forlì e dei romani Santasangre, volto ad inventare realtà giovani attraverso un’esperienza di scambio; i Santasangre rappresentavano una realtà isolata a Roma, che approdando nella città romagnola ha potuto trovare un confronto reale con diversi artisti, basato su un vero rapporto di amicizia. Claudio Angelini della compagnia Città di Ebla ha poi invitato altri gruppi; abbiamo così trovato un contatto artistico che ci ha permesso di continuare a sviluppare, come singole individualità, i singoli linguaggi. Non si può assolutamente parlare di una lobby strutturata al fine di ottenere finanziamenti, né proponiamo un «pacchetto» commerciale che abbia un suo riconoscimento artistico. Non esiste, per dirla in breve, una «generazione ipercorpo». L’ultimo lavoro del Gruppo Nanou Motel (Faccende Personali)-Prima Stanza ha ricevuto un paragone lusinghiero da parte del critico Rodolfo Di Giammarco: Marco Valerio Amico e Rhuena Bracci sono stati definiti realizzatori di «tableaux vivants minimalistici che paiono ispirarsi a stupendi quadri imborghesiti di Hopper». Un tavolo centrale, due sedie, una gab-

bia per uccellini e un tappeto. Due performers che sembrano sospesi, quasi una sorta di En Attendant Godot del XXI secolo rafforzato da magistrali effetti di luci e suoni. «Lo spettacolo Motel (Faccende Personali)-Prima Stanza, della durata di 30 minuti, è il primo atto di una trilogia suddivisa in stanze. Elementi forti del nostro lavoro sono, da sempre, i suoni e le luci. Quanto ai suoni, Roberto procede con un lavoro di microfonatura, utilizziamo perlopiù suoni reali che vengono campionati e rielaborati digitalmente. Il risultato è una ‘drammaturgia sonora’ in cui c’è un continuo passaggio tra ciò che è presente in scena e ciò che è evocato. Le luci vogliono essere di forte effetto e in questo il lavoro di Fabio Sajiz è esemplare, è in grado di dare l’effetto di un’intimità spiata, più che gettata addosso. Il motel è un asettico non-luogo, i due personaggi in scena lasciano intravedere la preparazione di una cena, ma lasciano anche ad intendere che qualcosa si svolge al di fuori di quelle quattro mura». «Non c’è nessun messaggio da esplicitare, bensì un invito. Il tentativo è quello di lasciare spazio al vuoto narrativo; lo spettatore può e deve metterci del suo, senza essere guidato nella visione e nell’interpretazione».

IL LAGO DEI CIGNI IL

orse più spesso il critico, di qualsivoglia forma artistica, dovrebbe affidarsi al pubblico in sala e tenere in giusta considerazione - ponderare - il riscontro che questo pubblico esprime. Come quello per la terza edizione di «Flamenco!», il festival creato dalla Fondazione Musica per Roma che ha riunito per 11 giorni autunnali gli appassionati del flamenco tutto, non trascurando nessuna disciplina nelle tre categorie rappresentate, cante, toque e baile. Per il primo, tre interpreti: Esperanza Fernàndez, Diego El Cigala, El Pele; due per il toque (la chitarra accompagnata dal ritmo di palmas y tacones), il sassofonista valenciano Perico Sambeat e il chitarrista Juan Manuel Canizares. Quindi, el baile: quale migliore inaugurazione se non l’irruenta presenza sulla scena della sanguigna Fuensanta Fresneda Galera «La Moneta»? Uno strepitoso De entre la luna y los hombres per un’ora e mezza di struggente interpretazione. Un plauso che doverosamente si estende ai chitarristi Miguel e Paco Iglesias, alla cantante Eva Duran, alle capacità percussive di Josè Carrasco. La padronanza assoluta di una tecnica solida appresa dai migliori maestri è rafforzata dalla carica drammatica ed espressiva che solo l’esperienza formativa di chi si è esibito nei tablaos può possedere. Non un posto vuoto, il pubblico in visibilio palpita all’unisono con l’artista. Assiste al cambio di vesti e al passaggio tra i colori tradizionali del flamenco: bianco, nero, rosso. Assiste al passaggio tra ruoli talvolta nettamente definiti, talvolta talmente sfumati da perdersi, come in un gioco: così la virilità dell’hombre può sciogliersi in morbide costruzioni e quello della mujer può oscillare tra una femminilità sfacciata e un’aggressività ed un piglio felini. Seducente il gioco di simmetrie che proietta su due grandi teli la ballerina in video in differenti momenti. Fuensanta la Moneta diviene una e trina: campeggia sulla scena in carne ed ossa e si ammira e fa ammirare proiettata sul telone. Poi i fantasmi scompaiono e la ballerina, nuovamente sola in campo, torna a catturare l’attenzione generale. Sul palco si è affacciato un intero mondo, o meglio, uno stile di vita. Tanto distante da quello espresso dal balletto classico da poter sembrare al confronto addirittura sgraziato. O lo si ama o lo si odia, ma quando lo si ama ed è così ben fatto il consenso è universale. Non

di Livia Oreste

Questo è il Fato, [...] Invincibile, non lo domini mai. Non resta che rassegnarsi. Così tutta la vita è un’alternanza ininterrotta di pesante realtà, sogni fugaci e fantasie di felicità... Non c’è approdo. Vaga per questo mare, finché esso non ti avvolge e ti inghiotte nelle sue profondità.

Lago dei Cigni è il primo dei tre balletti di P. I. Tchaikovsky che egli compose con grande entusiasmo tra il 1875 e 1876, traendo ispirazione dalla tradizione favolistica tedesca e dalle tematiche romantiche. Dall’intenso lavoro nacque una musica ricca di fascino e di colore che, però, risultò troppo impegnativa per i ballerini che necessitavano di ritmi più semplici: fu quindi modificata per esigenze coreografiche. Quello che sarebbe diventato il «balletto dei balletti» venne accolto con grande freddezza e, dopo poche repliche, ritirato dalle scene. Negli anni successivi alla sfortunata prima, la massima autorità allora riconosciuta nel mondo della danza - il marsigliese Marius Petipa, impareggiabile maestro di danza del Balletto Imperiale di San Pietroburgo - progettava una riforma del balletto, convinto che l’insuccesso non fosse da imputare alla musica ma all’allestimento. Con l’aiuto del suo collaboratore Lev Ivanov e del maestro Riccardo Eugenio Drigo, riordinò le sequenze musicali secondo più giuste esigenze drammaturgiche. L’opera, come oggi la conosciamo, si fonda sui due temi fondamentali della danza ottocentesca: realtà e sogno. La calda atmosfera romantica e la perfetta armonia tra la parte lirica e quella drammatica fa del Lago dei

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I nostri cameramen sono lì fuori Music In Video è videointerviste, riprese, showreels, musica in movimento e i vostri video in anteprima Music In Channel > [email protected]

cigni una delle opere più importanti del repertorio ballettistico. La poesia del tema d’amore esercita un fascino durevole rappresentando la romantica aspirazione verso un ideale irraggiungibile: la donna-cigno bianca, figura emblematica ed eterea, alla quale si contrappone la donna cigno nero, enigmatica e seducente. Le due figure celano archetipi e dicotomie dell’amor sacro e dell’amor profano, di Eros e Thanatos, del bene e del male. L’opera è il più completo omaggio alla bravura della prima ballerina, un cigno, chiamata ad essere di volta in volta simbolo di estrema dolcezza o di assoluta malvagità. Sono necessarie grandi doti tecniche e interpretative per comunicare al pubblico lo spessore psicologico e la complessità del doppio personaggio Odette/Odile: proprio per questo, al Teatro dell’Opera dal 27 novembre al 2 dicembre, ci si affida all’interpretazione di grandi ètoile internazionali del calibro di Svetlana Zakarhova. Con le sue ideali proporzioni, la tecnica cristallina e la delicata intensità si dimostra interprete d’eccellenza; ogni piccolo gesto, ogni passo, ogni port de bras strega il pubblico. Impossibile distogliere lo sguardo da un corpo etereo che, come suggerisce ogni passo sulle punte, tende ad innalzarsi al cielo con emozioni fortemente terrene.

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KATIA LABÈQUE Shape of my Heart La falda del mio cappello nasconde gli occhi di una bestia che solo lei, al piano, sa calmare

QUARTETTO NAZIONALE Senza filtro Stanno abituandoci a sonorità melodiche groove che ci spalancano le orecchie

KATIA LABÈQUE - SHAPE OF MY HEART CLASSICA

Questo album merita non parole, ma silenzi. Per tale motivo tutto ciò MENTE che sto per dire deve suonarvi come la lavatrice che gira mentre la radio passa Chick Corea. Appunto: terza traccia, We will meet again (Bill Evans) riarrangiata da lui e, mentre il duo suona due pianoforti, la lavatrice è in prelavaggio ma non la si sente più. Non voglio, non devo assolutamente cadere nel tranello, non io, non quello di dire che i primi due brani - Moon over Bourbon Street e Shape of my heart di Sting - hanno fatto breccia in quel luogo dentro di me dove l’alcol è l’unico appiglio per amare, un luogo in cui prima solo «Leaving Las Vegas» mi aveva rinchiuso. È che adoro girare per New Orleans ubriaca quando c’è luna piena. La falda del mio cappello nasconde gli occhi di una bestia, ho il viso di un peccatore e le mani di un prete. Non posso cadere nella tentazione di recensire Sting se è lei che lo accompagna, la pianista preferita di Madonna, cui Miles Davis dedica due brani - Katia Prelude e Katia (You’re under arrest, 1985) -, francese e un po’ italiana per una madre, Ada Cecchi, nata a Torre del Lago ed ex-allieva di Marguerite Long. C’è in quest’album anche una sorella che non c’è, Marielle, dalla quale pianisticamente solo qui si separa (la loro Rapsodia in Blu di George Gershwin ha venduto oltre 500mila copie) e con la quale - fraterna sbalorditiva carriera - ha fondato la KML Recordings per lo sviluppo e la diffusione del repertorio per due pianoforti. La lavatrice è un rombo, i panni sporchi si lavano in casa. Ma, mentre io sono ancora sotto una finestra di notte a combattere il mio istinto bestiale sotto una pallida luce lunare, tutt’a un tratto al piano con lei va a sedersi Herbie Hancock per darmi un classico, My Funny Valentine, qui a Bourbon Street con questa bottiglia mezza vuota, mai mezza piena, di whiskey. Provo a ricordare, me lo ripetevo prima di ubriacarmi, devo amare ciò che distruggo e distruggere ciò che amo - devo amare ciò che distruggo e distruggere ciò che amo, come una tiritera insisto ma c’è Chopin, ora. Lei, sola, Chopin, Prélude n. 4, ed io sotto una luna da lampioni. (Centrifuga). Gli occhi tesi a guardare la stessa finestra, nessuno si affaccia, poi capisce: ci vuole un pezzo dei Radiohead (sceglie Exit Music), il lunare Notes to the future e, in formazione B for Bang (la B sta anche per Beatles) Because, Purple Diamond con David Chalmin, il suo amato Satie con Gnossienne n. 3 e, al piano con Gonzàlo Rubalcaba in persona, Bésame Mucho in controtempo, bacio sì e bacio no, come fosse stanotte l’ultima volta. L’ultima volta è stata già, tanti anni fa. Bésame mucho non si dà ai lupi mannari, non ci voleva. Ripara, la Labèque, cambiando ancora una volta registro, come piace a lei, con una Meditation di Bernard Hermann da Wuthering Heights. Tempestosissime, queste cime, ed è meditando che mi ricordo dei panni.

ROMINA CIUFFA

AMBROSE FIELD & JOHN POTTER - BEING DUFAY BEYOND

I vasti campi della musica

&further elettronica e delle nuove tec-

nologie si riconfermano territorio fertile per una sperimentazione che non vuole essere simbolo di ricerca instancabile di novità intellettuale, ma piuttosto fonte di nuove interpretazioni e letture di un passato storico che percepiamo come remoto, troppo spesso dimenticato se non sconosciuto, alla luce di come si è trasformata la concezione di arte e musica al cospetto di una modernità quanto mai conoscitrice e rispettosa. Ecco allora Guillame Dufay - il più grande compositore franco-fiammingo di polifonia di tutto il XV secolo, attivissimo anche in diverse corti italiane e autore imprescindibile per i nostri monumenti nazionali quali Palestrina e Monteverdi - rivivere nel 2009, tra sacro e profano, come se dal ‘400 avesse potuto continuare a fare musica, attraversando tutti gli sviluppi e le correnti, per giungere sino ai giorni nostri cambiato, ma memore delle sue origini. E le strutture complesse della sua polifonia, in cui ogni cosa è calcolata a puntino, si specchiano nei paesaggi sonori creati dall’elettronica di Ambrose Field, vero esperto di musica quadrifonica, magnifico nel creare landscapes artificiali con l’ausilio di suoni campionati dalla natura o dal contesto urbano. Un’elettronica che si avvale della voce del tenore inglese John Potter, membro dell’Hiliard Ensemble, con esperienza già maturata nel

campo della musica d’avanguardia; un’elettronica che parte da ciò che è tangibile e lo trasforma nel nuovo ed irrealizzabile; un’elettronica che esplora, pesca, riedita, combina, incide, sovrincide, trasforma, deforma, trasfigura ma mai assale né prevale; diventa corpo sonoro, fascio caleidoscopico polimorfo e quasi intangibile per riflettere la volontà di spingersi oltre le possibilità della vocalità umana e trascenderle.

Sembra come se la tecnica del «cantus firmus», stra-abusata da Dufay, potesse rivivere ancora e rendere le sue stesse composizioni «cantus firmus» di una composizione ulteriore, più ampia, distesa, immensa, che non è tributo passivo verso un passato la cui immensità si estende per secoli (come sempre avviene per gli artisti «da repertorio»), ma un modo nuovo ed odierno di «essere Dufay». Gianluca Gentile

PONENTINO TRIO Ruma Però, si co’ ‘sto canto, io v’ho svejato, m’aricommanno che me perdonate

Opera prima del Quartetto nazionale finalmente, e senza filtro. Si realizza così il progetto da tempo ambito di 4 musicisti di grande esperienza, legati da tempo ai più importanti palchi del pop-rock italiano e internazionale e agli innumerevoli contributi in studio di registrazione. Punto di partenza: groove, prelevato da trascorsi rhythm’n’blues, jazz e rock. Percorso: scrittura di composizioni e arrangiamenti articolati, aggiunta di soli a ispirazione rock (Jimy Hendrix, Brian Auger) e jazz (Jimmy Smith). Approdo: forte componente melodica, totalmente origina-

le. I Fantastic4 sono Alessandro Centofanti (organo e tastiere), Marco Rinalduzzi (chitarra elettrica e acustica), Marco Siniscalco (basso elettrico e acustico), Marcello Surace (batteria), e superpoteri «progressive». Ottime sonorità blues innanzitutto, fuse a jazz e rock, le stesse che hanno iniziato a girare per Roma e a rendersi note, orecchiate, attraverso i concerti degli ultimi mesi (anche Marcello Rosa come special guest). Senza filtro (Rinaldo Musica) propone perlopiù brani inediti strumentali e vi affianca arrangiamenti complessi con soli strepitosi ne che valorizzano il groove: energia, gusto e raffinatezza dei musicisti. Linee chiare e semplici in copertina come si richiede a chi fa musica, non grafica. Infatti, contenuto articolato e imperdibile. Rossella Gaudenzi

a cura di ROMINA CIUFFA

PONENTINO TRIO - RUMA BEYOND &further

No, non è un refuso. Questo album si chiama Ruma, una possibile etimologia - rilevano che risale alla lingua degli Oschi, popolazione indoeuropea di ceppo sannitico della Campania antica pre-romana, cui si riconduce una pluralità di popoli dell’Italia meridionale. Possiamo scegliere tra due significati: «colle» o «zinna» (la zinna romana è la tetta italiana). Preferiamo la seconda se diamo rilievo alla presenza, nella nostra romanità, di una lupa che ci ha sfamato (io, personalmente, la compro perché il mio nome deriva da Romolo). Scegliamo colle, invece, se è domenica e andiamo a Squarciarelli a fa’ ‘na gita a li Castelli - traccia 12 - ma è chiaro, ci fa comodo utilizzarli entrambi, a seconda che sia giorno o che sia notte, per due diversi, irrinunciabili vizi. La dea Rumina o Ruma era una «zinnona» indigena, protettrice dei lattanti e degli armenti, ed aveva un sacello in riva al Tevere proprio presso il fico detto «ruminale». Sotto l’ombra del fico, nella stagione calda, ruminavano i buoi, mentre i pecorari andavano al sacello ad offrirle latte. Oggi là sotto a prendere il ponentino ci va questo Trio, nato durante la Festa de’ Noantri 2004. Dà la copertina all’album di Cesario Oliva (chitarra e voce), Daniela De Angelis (voce) e Costantino Pucci (affabulatore, clown) il «naso-

ne», fontana con la quale abbeveriamo i turisti che ci sfamano. Questo bel Ruma - dopo un precedente Roma, lo senti er Ponentino? scalpitavo sotto al fico perché Rumina ne benedisse un secondo - raccoglie ancora repertorio romanesco con le più belle canzoni antiche e moderne e i testi basati sulle poesie di Trilussa, Belli, Pascarella etc. (c’è un affabulatore nel gruppo). Tra cui La povera Cecija, Sinnò me moro, Li nummeri, Cristo al mandrione, Il walzer della toppa, Più semo e mejo stamo, che ad ascoltarli «nde ‘sta serata piena de dorcezza pare che nun esisteno dolori» (Nina, si voi dormite). Loro cantano tanto pe’ cantà, noi li ascoltiamo perché ce piaceno. E - nostalgia di Gabriella Ferri - accade un classico: il friccicore ar core (mettice ‘na pezza). Romina Ciuffa

MONO - HYMN TO THE IMMORTAL WIND

ALTER NATIVE Quinto lavoro in studio per i Mono, quartetto capitanato da Takaakira Goto, composto da Tamaki Kunishi, Yasunocri Takada e Yoda. Sette le tracce che costituiscono Hymn to the Immortal Wind (Conspiracy Records, 2009), concept album vecchio stampo prodotto da Steve Albini (Nirvana, Sonic Youth, Pixies, Neurosis, Mogwai), centrato su cupi noises e un’orchestra di 30 elementi, tra archi tardoromantici, fiati, arrangiamenti sovrapposti e danze emotive sostenute da percussioni tipi-

camente orientali. Sound dove l’intimità dell’emozione si mostra nuda e impotente di fronte alla forza espressiva del gruppo, alla sua necessità di suonare, di farsi ascoltare attraverso milioni di mp3 sincronizzati. I Mono dosano sempre con molta sapienza la forza dei live, con la cura dei suoni digitali delle loro produzioni. Ashes in the Snow, Battle to Heaven o Burial at sea, sono esempi della profonda volontà di rappresentare il dramma dei corpi e delle note in conflitto, che il ‘vento immortale’ dei Mono trasforma e doma continuamente. Un post-rock visionario e sinfonico che in Italia ancora non trova riscontro, forse anche per la miopia delle corporazioni della mediocrità targate MTV o X-Factor. Flavio Fabbri

GRAZIA DI MICHELE - PASSAGGI SEGRETI

PO PCK pop&rock

La separazione vista attraverso la stortura della guerra (Anja), la disperazione dei clandestini, la solitudine del carcere, le dinamiche dell’amore (Il resto è vita, Fino all’ultima carezza), ma anche la tensione erotica che attraversa la vita nelle sue varie fasi (Allo sbaraglio, Autunno perfetto), fino all’ironica rappresentazione dei modelli televisivi. Grazia Di Michele dà alla luce un album bello e controcorrente, in un periodo in cui i cantautori scelgono di rifugiarsi nell’intimismo puro. Argomenti importanti e nessuna vuota retorica: uno sguardo attento sulla realtà, per offrirci una chiave di lettura emotiva. All’intenso lirismo dei testi corrisponde una trama melodica sapientemente semplice, arricchita da arrangiamenti originali: ottimo il lavoro di Filippo De Laura che è riuscito a inserire con gusto e ele-

ganza strumenti di altre terre (tra cui stick, dholak, tabla, banjo indiano) in un tessuto armonico tradizionale, ribadendo col suono l’universalità dei temi trattati (tra tutte si ascolti Il diritto di amare). Collaborazioni col brindisino Bungaro - nella scrittura di due brani - e con il poeta Raffaele Pietrangeli in altri due. Elementi che uniti alla versatilità interpretativa di Grazia Di Michele, che si muove con disinvoltura tra armonizzazioni jazz (Il mare in una stanza), folk (Caterina) e pura linea melodica (duetta con un insolito Massimo Ranieri ne L’amore va in scena), contribuiscono a fare di Passaggi segreti uno dei migliori album cantautorali italiani degli ultimi tempi. Nicola Cirillo

MASSIVE ATTACK - SPLITTING THE ATOM

QUARTETTO NAZIONALE - SENZA FILTRO

J AZZ & blues

FEED back

ALTNATIVE ER

C’era una volta il trip hop. Se si dovesse pubblicare un libro sul fiabesco suono degli anni 90, il capitolo sui seminali Massive Attack inizierebbe così. Ma il favoloso stile della band di Bristol non si smentisce neppure nel nuovo millennio e il recentissimo Splitting the Atom ne conferma il talento in maniera inequivocabile. Quattro nuovi brani, usciti dopo posticipi durati un anno, preludio di un album previsto nel 2010. Gli ingredienti sono ormai un classico: ritmiche legate alla dance più urbana, arrangiamenti eterei, melodie ipnotiche e attitudine cinematografica. Non mancano le belle voci. Per la

title track il gruppo si è affidato a due personaggi divenuti presenze caratterizzanti di ogni produzione firmata Massive: Daddy G e Horace Andy, un uomo che è parte essenziale dell’intera storia del reggae. In Pray for the Rain è Tunde Adebimpe dei Tv On The Radio ad accompagnare il gruppo, mentre le corde di Martina Topley Bird colorano una nuova versione di Psyche, curata da Van Rivers & The Subliminal Kid. C’è anche un altro remix, quello di Bulletproof Love, composto da Christoff Berg, con tanto di featurig di Guy Garvey degli Elbow, a chiudere questo capitolo della saga. Stefano Cuzzocrea

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