Music In N. 8

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RIVISTA inverno.QXP

9-02-2009

17:30

Pagina 1

QUI SUCCEDE UN 68 Periodico di informazione, attualità e cultura musicale a cura del Saint Louis College of Music

Inverno 2009

PERIODICO DI INFORMAZIONE, ATTUALITÀ E CULTURA MUSICALE A CURA DEL SAINT LOUIS COLLEGE OF MUSIC

di Romina Ciuffa Mi sento ribelle anche oggi, mi sento sessantottina ogni qualvolta apro il giornale, mi stendo su un prato, uso i bagni dell’università e m’innamoro. Il Sessantotto era la margherita in bocca, una canna rock, la confusione di una generazione stanca e sesso di gruppo. Oggi come ieri, ma meno di ieri. Perché muore anche la politica, crepano le ideologie, sesso si fa in chat. Il Sessantotto rollato, appicciato, tirato, et voilà tutte le illusioni tossiche son più reali che mai. (...)  CONTINUA NELLA PAGINA MUSICALL

GENIAL PORNO

YOUTUBE STATE OF MIND

di Eugenio Vicedomini

di Flavio Fabbri

Il «Genio» è un progetto musicale ideato agli inizi del 2007 da Gianluca De Rubertis (che era tastierista degli Studio Davoli) e Alessandra Contini alla voce e al basso. Il loro improvviso successo è fatto di canzoni dal sapore di zucchero filato che riportano in mente la Parigi al tempo di Brigitte Bardot e la swinging London di Marianne Faithfull. (...)

Come arrivare un giorno ad esibirsi di fronte al pubblico del grandioso Carnegie Hall di New York? Come ottenere un’audizione per provare, finalmente al mondo intero, il talento di cui siamo forniti? Chissà quanti aspiranti musicisti o studenti di conservatorio si saranno fatti tali domande. Eppure la risposta potrebbe venire da dove meno te la aspetti e cioè dalla rete. «Practice, practice and practice, then download your performance video on YouTube», recitano gli ambasciatori del progetto sponsorizzato dal social network proprietà di Google. Insomma, niente di più semplice, fare tanta pratica e immortalare l’esecuzione giusta su un video. (...)

 CONTINUA NELLA PAGINA ALTERNATIVE

Ppop&rock OPCK

OASIS

 CONTINUA NELLA PAGINA JAZZ&BLUES

FEED back

GRACE JONES

Direttore ROMINA CIUFFA Direttore Responsabile SALVATORE MASTRUZZI Redazione Romina CIUFFA [email protected] Flavio FABBRI [email protected] Rossella GAUDENZI [email protected] Valentina GIOSA [email protected] Roberta MASTRUZZI [email protected] Corinna NICOLINI [email protected]

Contributi di rubrica Nicola CIRILLO [email protected]

Progetto grafico Romina CIUFFA Impaginazione Cristina MILITELLO Logo Caterina MONTI

Redazione Via del Boschetto, 106 - 00184 Roma Tel 06.4544.3086 Fax 06.4544.3184 Mail [email protected] Marketing e Pubblicità Mail [email protected] Tipografia Ferpenta Editore Srl Via R.G. di Montevecchio - Roma Contributi Elisa Angelini, Lorenzo Bertini Nicola Cirillo, Giosetta Ciuffa Stefano Cuzzocrea, Cristina D’Eramo Alessandra Fabbretti, Clara Galanti Gianluca Gentile, Eugenio Vicedomini Livia Zanichelli

Anno III n. 8 Inverno 2009 Registrazione presso il Tribunale di Roma n. 349 del 20 luglio 2007

STEFANO MASTRUZZI EDITORE

BALLET

RICCARDO REIM

BEY&further OND

HELICOPTER STRING QUARTET

QUELLA D’ARTISTA Ansa esordisce con «l’indiscutibile signora della musica italiana» riferendosi all’intervento di Mina che, con un tocco L ’ da Re Mida, dovrebbe far recuperare credibilità e nobiltà al Festival di Sanremo. Controcorrente, avrei da dubitare sulla indiscutibilità di chiunque, quindi anche di Mina, che con la sua impalpabilità è ormai assurta a dea di un Olimpo che, proprio in quanto furbescamente imperscrutabile, sembrerebbe a prova di critica. La rispettabilità e la longevità della sua carriera non possono indurci, come pecore, a bere a priori qualunque cosa faccia o dica; ricordiamoci sempre della Merda d’artista di Piero Manzoni. Se Mina rappresenta la vetta del Festival, nelle stalle troviamo Maria De Filippi e la banale ovvietà delle sue proposte, ora anche in Rai. L’italiano medio (ma sempre più basso) guarda a queste e alle trasmissioni di Simona Ventura come alla fucina dei nuovi progetti musicali italiani per un unico motivo: possiede una cultura sottosviluppata. Di questo eviterei di dare la colpa alla scuola, troppo comodo. Tutt’altro: la colpa è come la responsabilità penale - personale - ed è legata alle difficoltà crescenti dell’italiano a sviluppare sufficienti sinapsi nelle proprie cellule encefaliche. Dal canto loro, Paolo Bonolis e Luca Laurenti fanno ridere e lo fanno - a differenza di alcuni cantanti - di proposito; se non dissacreranno questo crogiuolo di pseudo-artisti a caccia di diritti Siae e della facile noto-

rietà che permette loro di mangiare a ufo nei ristoranti in cambio della classica foto da esporre, ci penserà Checco Zalone (dal barese «Che cozzalone»), parodia di un cantante neomelodico napoletano: fatevi un giro su Youtube, sarà lui il vero protagonista di Sanremo 2009. Quanta perversione c’è nell’attirare gli spettatori con colpi bassi? A sufficienza. Pensate a che affluenza di pubblico ci sarebbe in un seminario su «Il logaritmo neperiano e il calcolo della massa del Bosone di Higgs» se solo il relatore fosse introdotto dalle conigliette di Playboy. Abbiamo però, oggi, una grande opportunità, che è lo zapping: sintonizzarci su Raiuno per gli starnazzi delle conigliette, poi tornare in tempo per il finale di «Dr. House», meno scontato di una canzone di Al Bano. Il messaggio è chiaro, gli sponsor comunque contenti, il direttore Del Noce ancorato alla poltrona. Del resto, il Bosone di Higgs continuerà pure a non essere visibile a occhio nudo (al giorno d’oggi l’ipotetica particella non è mai stata osservata, a differenza di questo Festival), ma l’occhio vuole sempre la sua parte.

Stefano Mastruzzi

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J AZZ & blues a cura di ROSSELLA GAUDENZI

Music In  Inverno 2009

MARCELLO ROSA Amo parlare di me come di un suonatore di trombone: la definizione di musicista è troppo gravosa.

PRENDIAMO FIATO Saint Louis Un’iniziativa che fa prender fiato a tromboni, clarinetti, sassofoni, trombe, bassotube e flauti

IL JAZZ ROSA «À LA CARTE» crive Marcello Rosa: «Il jazz ha circa un secolo di vita, ma rimane ancora sotto molti aspetti una musica misteriosa; molto del suo fascino dipende probabilmente anche da questo. Il jazz è una musica seria, ma non seriosa; impegnata ed impegnativa, ma che sa al momento giusto disimpegnarsi; ludica e al tempo stesso profonda, di una semplicità a volte così complicata da sbalordire anche il più attento e preparato musicologo. E tante, tante altre cose…». Non solo: «Il jazz è però, soprattutto, l’espressione del proprio stato d’animo (di chi suona e di chi ascolta) ed è questa sua peculiarità che ne fa una musica sempre nuova e imprevedibile, coinvolgente, unica. La scelta del repertorio dipende quindi dall’umore del musicista, ma non c’è da meravigliarsi se alcuni celebri temi possano a volte essere serviti a gentile richiesta per soddisfare quei palati affezionati a particolari sapori, sensazioni, ricordi». Sarebbe impossibile introdurre più efficacemente l’ultimo progetto musicale ideato e realizzato dal suonatore di trombone, così ama definirsi, Marcello Rosa («… Amo parlare di me come di un suonatore di trombone: la definizione di musicista è troppo onerosa, gravosa…»). Eppure il suonatore di trombone in questione, oltre ad avere un’esperienza di mezzo secolo come arrangiatore e compositore, ha diffuso la musica jazz nel nostro Paese a partire dal 1963 attraverso indimenticabili programmi radiofonici e televisivi dei quali è stato autore e conduttore. Jazz «à la carte». L’idea di inserire brani jazz in un menu è di vecchia data, risale a circa venti anni fa, ai tempi in cui Marcello Rosa suonava regolarmente presso un ristorante romano dall’affascinante atmosfera Art Déco di Via Palestro, Il Pavone. Entrare nel salone blu era come fare un tuffo in pieno stile Liberty; ebbene, in quel luogo, era nato il proposito di realizzare

S

il «The Blue Room Jazz Club», con tanto di Jazz «à la carte». All’epoca il progetto incontrò qualche difficoltà e non venne realizzato, così è rimasto a lungo tra i pensieri e i cassetti di Marcello. Poi l’Alexanderplatz ha aperto le porte, il lunedì sera, al menu firmato dal celebre trombonista. «L’idea è in fondo semplice e nasce da una sorta di pigrizia: fare la scaletta richiede fatica, e presentare al pubblico un repertorio quasi sterminato, comprendente brani originali composti da me e brani classici, per un totale di ben cento composizioni da poter scegliere sul menu, è una sorta di uovo di Colombo. In più, ci sono i ‘piatti del giorno’. Ci ho messo dentro tutto ciò che so fare, la scelta specifica spetta di sera in sera agli spettatori. Una pecca è che le richieste prediligano la maggior parte delle volte i classici, rimangono un po’ in sordina le preferenze per i brani originali», (tra i quali i pregevoli pezzi tratti dal suo ultimo album, A Child is Born, ndr). «In una serata quanti brani si riescono ad eseguire, quante richieste si riescono a soddisfare? Circa 10, 12. Ebbene, talvolta ci si scontra con un pubblico che dimostra una certa mancanza di cultura jazzistica. Il punto è: se suono un classico non lo suono diversamente da come suonerei un pezzo be-bop o funky. Sono io. C’è la mia personalità in qualsiasi mia esecuzione musicale, affronto i temi che mi piacciono». Il lunedì, cadenza quindicinale, è il giorno dedicato a queste serate. Sembra essere una scelta azzardata, come giorno della settimana, eppure il progetto piace, permette una forte interazione tra musicisti e pubblico. Jazz «à la carte» si è rivelato un modo nuovo di far musica che fa presa, vincente. Merito dello spirito, della predisposizione e del modo di far jazz di Marcello Rosa. «Chi mi conosce, mi vede sempre e ovunque. Questo perché la voglia di ascoltare musica per scoprirla per me è fondamentale.

PRENDIAMO FIATO Fresca e intrigante iniziativa del Saint Louis College of Music, la più intraprendente scuola di musica moderna che - mentre apre la sua quarta sede, questa volta nella città di Brindisi - dà il via al progetto Prendiamo fiato, rivolto a tutti i suonatori di tromba, trombone, sassofono, clarinetto, flauto e bassotuba, di tutti i livelli, dai principianti ai professionisti. Da sempre attento ad offrire sbocchi lavorativi nel tortuoso mondo musicale, il Saint Louis ha «imposto» negli ultimi due anni sul mercato nazionale oltre 400 concerti con i migliori nuovi talenti fioriti e maturati al suo interno. L’iniziativa oggi mira a dare linfa vitale ad un vivaio di musicisti specializzati negli strumenti a fiato, offrendo nuove e appassionanti occasioni di lavoro sia con la Saint Louis Big Band diretta da Antonio Solimene, che si è già esibita su palchi importanti in tutta Italia, da Atina Jazz a Villa Celimontana, sia con una nuovissima Marching Band diretta da Michel Audisso, che sfilerà ogni mese per le vie della capitale. Non solo: i nuovi iscritti potranno partecipare ad altri gruppi combo e piccole orchestre con il medesimo intento lavorativo, come quello diretto da Stefano Mastruzzi che esegue e riarrangia le colonne sonore di film e telefilm che hanno accompagnato i nostri ultimi trent’anni - e altre formazioni dirette da Massimo Pirone e Marcello Rosa. La scuola offre a tutti i fiatisti la possibilità di partecipare a costo zero o quasi ai propri corsi ed ensemble, cosicché i principianti possano maturare le prime esperienze di orchestra e i musicisti già avviati possano trovare nuovi stimoli e reali occasioni di lavoro. Questa proposta ha tutta l’aria di voler durare nel tempo, proprio per sostenere una categoria di strumentisti che trova mille difficoltà di sopravvivenza per la carenze di orchestre e di iniziative a suo sostegno.

a cura di Rossella Gaudenzi È data da un profondo affetto che nutro per essa, sono pronto a mettermi sempre in discussione, filtrando con esperienze ed ascolti. Citando Ellington, in sintesi si potrebbe dire che la modernità è giorno per giorno, facendo riferimento al quel suo concetto che afferma: ‘Noi (l’orchestra) non lavoriamo per la posterità, va bene che la nostra musica sia di gradimento oggi’. Ciò che conta è dunque essere attuale. Io vengo spesso citato come musicista Dixieland, perché con questo stile ho iniziato, essendo, sulle prime, apparentemente più facile. Poi però si va avanti. Non si deve restare ancorati al passato, per me è stupido sentimentalismo». «Io suono il Dixieland talmente bene da non suonarlo più. Non trovo oggi la mentalità giusta per farlo. Ho vissuto sino ad oggi e vivo grazie alla mia passione. Se nella vita non mi fossi realizzato nel suonare uno strumento, mi sarei dedicato al giornalismo musicale, così come ho fatto per molti anni, a partire dal 1963». «Non amo il giornalismo odierno, e proprio per questo mi piacerebbe dire la mia e fornire la mia esperienza per un giornalismo qualitativamente ed eticamente migliore. Di cose da dire ne avrei un’infinità. Ma questa è un’altra storia».

WIN TER IN JAZ Z Il jazz d’inverno si accende come legna di un caminetto: Umbria, Lamezia, Piacenza e ovunque vi sia un fuoco

RITMICA AFRO-SARDA Quando la Sardegna dialoga con gli Usa e l’Africa, Paolo Angeli suona con Hamid Drake

D

ella tradizione della sua Sardegna Paolo Angeli, grazie al chitarrista Giovanni Scanu, ha accolto, amato, studiato ed approfondito forme e moduli del canto a chitarra gallurese e logudorese. Della musica contemporanea e di avanguardia è assetato da sempre: indaga e ricerca dai tempi dell’università a Bologna con studi di composizione e improvvisazione, che lo hanno portato in giro per i più importanti festival innovativi europei. Le due anime, quella tradizionalista e quella sperimentale, s’incontrano nella chitarra sarda preparata, strumento articolato a 18 corde - ibrido tra chitarra baritono, violoncello e batteria - dotato di martelletti, pedaliere, eliche a passo variabile. Il risultato è musica non del tutto definibile, sospesa tra il free jazz, il folk ed il pop minimale: tra i progetti discografici Linee di Fuga (1997), Bucato (2003) e Tessuti (2007); tra le collaborazioni importanti quella con Antonello Salis, Pat Metheny,

FOTO DI

Fred Frith. Ci si sposta focalizzando l’attenzione sugli Usa e sulle veloci ritmiche afro-cubane ed orientali per incontrare Hamid Drake, il musicista chiamato al Dialogo con Paolo Angeli. Batterista e percussionista dalla lunga e prestigiosa carriera, influenzato sin dalla fine degli anni Settanta da musicisti quali Ed Blackwell e Adam Rudolph, segnato dalla collaborazione con Don Cherry in primis, e a seguire con Herbie Hancock, Wayne Shorter e molti altri. Dialogo: la rassegna dell’Auditorium Parco della Musica metterà faccia a faccia il mondo musicale del giovane Paolo Angeli con i suoni percussivi ad alte velocità del grande Hamid Drake, per un incontro che si prospetta altamente suggestivo, ricco di interesse e spunti curiosi. In programma il 7 febbraio.

ROBERTO CIFARELLI

ANGELI-DRAKE Il Dialogo Tra la chitarra sarda preparata e le percussioni afro-cubane

Rossella Gaudenzi

d’

inverno la natura si addormenta; sotto la morbida neve riposa tranquilla in attesa che il sole torni a brillare. La buona musica, invece, scivola sul ghiaccio con pattini di dolci note ed invita i suoi amanti a seguirla nelle piroette dei concerti. Il jazz si accende come legna in un caminetto e in questa stagione presenta ben tre festival di spessore. Il più prestigioso è l’Umbria Jazz Winter, che si tiene dal 30 dicembre al 4 gennaio nella splendida cornice di Orvieto. La sedicesima edizione di questo incontro è dedicata al Brasile e alla Bossa Nova per i suoi 50 anni, con ospiti del livello di João Gilberto e Duduka Da Fonseca. Questi musicisti unici hanno suonato al Teatro Mancinelli, inaugurato nel 1886, con il suo suggestivo sipario realizzato dal Fracassini che rappresenta Belisario che libera Orvieto dai Goti. Ci saranno anche le grandi voci gospel del The Harlem Jubilee Singers, Stefano Bollani con Martial Solas e Antonello Salis e l’imperdibile Roberto Gatto Italian All Stars. Anche il Sud ha la propria fetta di qualità. Il Lamezia Jazz Festival sfoggia concerti di grande rispetto. Dopo Astor Piazzolla, per febbraio, il Tenor Legacy, quartetto caratterizzato dall’incontro dei due tenori più interessanti del panorama jazzistico italiano, Daniele Scannapieco e Max Ionata con una sezione ritmica formata dal contrabbassista Reuben Rogers e dall’incredibile batterista Clarence Penn. La stagione invernale sarà chiusa dal Piacenza Jazz Fest, dal 28 febbraio al 4 aprile. La sua sesta edizione sarà dedicata al grande Charles Mingus, scomparso a Cuernavaca il 5 gennaio del 1979. Non solo grandi concerti: dalle consuete masterclass, seguitissime dai musicisti in erba, alle presentazioni di libri e progetti per le scuole con la finestra Jazz & Grande Schermo incentrata sul lavoro del regista Stanley Kubrick. Piacenza sarà la culla del talento, affermato e ancora da scoprire. Confermati, infatti, i concorsi Chicco Bettinardi e Note di Donna. Si abbassano le temperature ma i motivi per scaldarsi il cuore in questo lungo inverno non mancano di certo. Corinna Nicolini

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J AZZ & blues

Music In  Inverno 2009

BLUES Mud Morganfield Il blues nasce quando il negro è triste, quando è lontano da casa, PINO FORASTIERE lontano dalla madre o dall’innamorata. Allora pensa a un motivo o a un ritmo preferito e su quel Praticamente l’erede di TOLLAK OLLESTAD Folgorazione armonica motivo scandaglia le profondità della sua immaginazione. Questo gli fa passare la tristezza: il blues Michael Hedges

QUANDO IL NEGRO È TRISTE Mud Morganfield passa per Roma e questo ci dà l’occasione per scrivere di blues, di New Orleans e Chicago «Il blues nasce quando il negro è triste, quando è lontano da casa, lontano dalla madre o dall’innamorata. Allora pensa a un motivo o a un ritmo preferito e prende il trombone o il violino o il banjo o il clarino o il tamburo, oppure canta o semplicemente si mette a ballare. E su quel motivo scandaglia le profondità della sua immaginazione. Questo gli fa passare la tristezza: è il blues». Ernest Ansermet

L’

associazione blues Chicago non perde mai di fascino per l’immaginario collettivo, sebbene parlare di blues e dei suoi albori sia impresa ardua, rischiosa, azzardata. Impossibile risalire con precisione alle sue origini. Non si può prescindere dallo spaesamento della moltitudine di neri ex-schiavi, delle loro difficoltà di inserimento e della ricerca esasperante di superamento della condizione di esclusione dalla società americana, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del XX secolo. Musicalmente parlando, gli albori del blues e conseguentemente del jazz traggono origine dai canti di lavoro, i cosiddetti worksongs, che hanno accompagnato per secoli le fatiche di generazioni di africani trapiantati negli Stati Uniti, pian piano arricchite tanto da generare forme nuove di argomento religioso o profano come gli spirituals, inni, litanie o ballads e blues. Si può così affermare che il blues sia il padre legittimo del jazz. Nel momento in cui aumentò il numero di strumenti di derivazione europea (per lo più ottoni) e più esattamente quando il negro d’America divenne padrone di tali strumenti, il blues iniziava a cambiare: si era giunti all’era del jazz, che è dunque una musica originale, sviluppatasi dal blues, concomitante con

esso, che mosse poi su una strada autonoma. La città di New Orleans (Louisiana), situata sul Golfo del Messico, rappresenta un buon punto di partenza per risalire alle origini del jazz: porto di mare, dunque ottimo centro di incontro per le varie popolazioni che vi si avvicendarono, sede dello storico quartiere a luci rosse di Storyville, luogo di convivenza di creoli e neri americani. Dall’incontro di queste differenti realtà nacque lo «stile di New Orleans», in cui viveva una solida tradizione bandistica di impronta europea: i musicisti delle brass bands suonavano ad orecchio sempre gli stessi motivi, e quando si stancavano di ripetere variavano improvvisando sulle armonie del tema prescelto: è questo l’inizio dell’improvvisazione, caratteristica essenziale del jazz. Dopo l’ingresso degli Usa in guerra (1917), con la chiusura di Storyville, i musicisti rimangono senza lavoro ed inizia l’esodo verso le

città del Nord e Nord-Ovest: Chicago, New York, e in seguito Kansas City. Siamo così giunti a Chicago, capitale dell’Illinois, che durante gli anni Venti accolse un alto numero di musicisti provenienti dal Sud degli Stati Uniti: in anni di proibizionismo, il proliferare di locali notturni era garantito dai gangsters e dalla malavita; il Southside della città apre le porte alla seconda fase del jazz. Chicago accoglie, negli anni 20, i migliori musicisti jazz venuti dal Sud: sancisce gli anni d’oro del jazz e, sull’altro versante, del blues. È in questo clima che riesce ad esprimersi un artista come Muddy Waters (1915-1983), uno dei più grandi bluesman di tutti i tempi nonché uno degli artisti più influenti del XX secolo, autore della serie di successi che definiranno il Chicago Sound. Mud Morganfield, figlio del grande Muddy Waters, ha seguito con successo le orme paterne grazie ad una voce potente che fa la differenza. Dopo aver calcato i palchi dei più famosi locali di Chicago e degli States e dopo l’uscita del primo disco di puro Chicago Blues risalente allo scorso aprile 2008, dal titolo Fall Waters Fall, egli sta diffondendo capillarmente la sua musica con un tour che ha toccato Europa, Messico e Russia. In Italia è venuto a fine gennaio, presso Stazione Birra, accompagnato dalla band romana Caldonians.

“FOLGORATO” OLLESTAD Nasce a Steward, modesto e piccolo centro dell’Alaska, lo straordinario armonicista e pianista dalle origini norvegesi Tollak Ollestad. Sarà però Seattle, la Big City, ad ispirarlo artisticamente e musicalmente, ad aprirgli le porte del soul, dell’R&B e a legarlo al primo idolo, Stevie Wonder. Arriverà presto la folgorazione per l’armonica; e dopo la seconda, importante scoperta, la passione per il piano jazz, deciderà di «esplorare il mondo» facendosi accompagnare dall’eccezionale capacità di padroneggiare i due strumenti. Oltre a possedere la voce giusta del singer di blues and soul. Curriculum sorprendente quello di Tollak, poiché ha accompagnato i grandi: Michael McDonald, Earth Wind & Fire, Natalie Cole, Andrea Bocelli, Al Jarreau e molti altri. Il suo album solista Walk the Earth ha confermato le spiccate capacità di song writing. Egli ama profondamente l’Italia, dove ha conosciuto recentemente, presso l’Euro Bass Day di Verona, musicisti eccellenti quali Lello Panico, Luca Trolli e Pippo Matino, nei confronti dei quali sono nati immediatamente una profonda stima, un forte feeling e lo stesso modo di intendere la musica, all’insegna del soul, del funk, del blues e del jazz. Il quartetto, di casa al Big Mama, stavolta con Francesco Puglisi al basso, ha presentato un repertorio spaziando da brani originali a rielaborazioni di classici. Peccato chi se l’è perso, ma tenerlo d’occhio questo sì.

Rossella Gaudenzi

PINO FORASTIERE LUCANIA PERCHÉ NO T

ra il Big Mama, ufficiale home of the blues romana e Pino Forastiere c’è un legame forte e saldo, fatto di esperienza e di continuità, tale da rendere ogni suo concerto caldo e avvolgente, un vero e proprio godimento per il suo pubblico di affezionati. Il talento lo ha reso uno dei migliori chitarristi acustici del nostro tempo, la critica lo definisce l’erede del grande Michael Hedges, e non è a caso molto amato negli Stati Uniti e in Canada. Si è fatto conoscere per la dimestichezza con la chitarra a dieci corde (con la quale ha sostenuto l’esame di diploma in chitarra classica al Conservatorio di Santa Cecilia) per imporsi poi e scavare la sua nicchia di celebrità con la chitarra acustica. Dopo Overcrossing (1999), Rag Tap Boom (2003) e Circolare (2005), il 2008 è stato foriero di un nuovo disco da solista, dedicato quasi interamente alla sua terra, la Lucania, dal titolo Why Not? per l’etichetta americana CandyRat Records. Il titolo è legato alla registrazione fatta nel gennaio 2008 del concerto, in prima assoluta, di chitarra elettroacustica e orchestra d’archi presso il Teatro Palladium. L’anno nuovo gli riserva un paio di date in Italia (in Lucania e nel Lazio) e sul finire dell’inverno salirà su un volo per gli Stati Uniti, dove lo attende una primavera densa di appuntamenti musicali. Non va perso di vista, né va perso il suo concerto del 25 febbraio al Big Mama. La primavera è lunga e l’America lontana. BIG MAMA - Mercoledì 25 FEBBRAIO 2009 - ore 22:30 Vicolo San Francesco a Ripa, 18 - Tel: 065812551 - www.bigmama.it

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PO PCK pop&rock a cura di CORINNA NICOLINI

Music In  Inverno 2009

MICOL BARSANTI Con Jovanotti e Saturnino ridendo al cielo

OASIS Come un mitologico Re Mida, trasformano in oro tutti i pezzi che toccano. Poi ci coprono di gioielli MEG Psicodelizia partenopea

MICOL UN SOLO SOGNO

I RE MIDA

Quello di fare la cantante. «Solo questo».

M

icol è come le sue canzoni, solare e sognatrice come i suoi testi, grintosa come il suo rock, immediata come il suo pop. Grazie al suo talento e a qualche incontro fortunato è uscito il suo album d’esordio prodotto dalla Soleluna Music di Lorenzo Jovanotti. Canta l’amore Micol, amore per la vita, amore per il mondo, amore per sé, amore per l’altro, amore per l’amore. Non potevamo resistere, abbiamo deciso di parlare con lei per farci contagiare.

Com’è nata la collaborazione con Jovanotti? Tutto è partito da Cecilia Dazzi (attrice impegnata al momento nella fiction Amiche mie, già una dei Ragazzi del muretto, ndr). Ci conoscemmo per caso e nacque subito una bellissima amicizia. Iniziò ad ascoltare le mie canzoni e a credere molto in me. Cecilia aveva già alle spalle un passato di autrice, aveva scritto Capelli e Lasciarsi un giorno a Roma per Niccolò Fabi e un giorno mi propose di scrivere qualcosa insieme. Nacque un bel pacchettino di canzoni e ci

mettemmo alla ricerca di un produttore. Iniziammo a ricevere una serie di porte in faccia. Poi Cecilia ebbe l’idea di contattare Jovanotti, tramite delle amicizie in comune. Per me lui era un mito, lo ascoltavo da sempre. Gli mandammo una demo e lui ci rispose quasi subito dicendoci che gli piacevamo e che ci voleva incontrare. Da lì partì tutto. Che cosa significa cantare sui bassi di Saturnino? Significa stare sul ritmo giusto, non c’è niente da fare. Abbiamo da poco girato una puntata di Salotto Live in un appartamento delizioso di Milano e mi sono divertita un sacco. Con lui cambia tutto: ti senti più artista. Forse la gavetta più formativa inizia proprio quando esci dal

sottobosco musicale e hai l’onore di lavorare con dei fuoriclasse. Stando con loro impari per forza. Dopo tutte le canzoni che sono state scritte sull’amore, come si fa a non cadere nella banalità? Hai ragione, è davvero difficile. Ma io sono fatta così, sono troppo romantica e non posso frenare l’esigenza di scrivere quello che mi scoppia dentro quando sono innamorata. Credo che il segreto sia questo: essere spontanei, scrivere di getto quello che si vive. Ma anche osservare molto per cogliere le emozioni che tradiscono gli occhi delle persone che ti passano accanto. In Ridere al cielo dico che quando sono innamorata riesco a prendere la vita con più filosofia. Penso che quando ti svegli la mattina, se piove o c’è il sole non ha importanza, la giornata dipenderà da te e da come ti va di viverla. Oh, io quando sono innamorata sono felice, riesco a sorridere anche facendo la fila alla posta! Cosa pensi dei nuovi circuiti attraverso i quali è oggi possibile far conoscere la propria musica, MySpace sopra tutti? E dei canali tradizionali, come Sanremo? MySpace mi ha aiutato un sacco. Oggi puoi fare entrare le tue canzoni nelle case della gente senza alcun vincolo. Forse si sono persi un po’ di filtri: grazie ad internet oggi la musica la possono fare un po’ tutti. Ma poi è la risposta della gente che conta. A Sanremo sogno di andarci da quando ero una bambina. Ci ho provato già diverse volte, l’anno scorso l’ho sfiorato. Nonostante le delusioni continuo a tentarlo e anche se il mio successo dovesse iniziare da un canale diverso, non lo snobberei mai e mi presenterei lo stesso. Cosa c’è sulla tua scrivania? Un gran casino. Ma sotto tutto il disordine non mancano mai lo stereo, i dischi, il computer e un bel po’ di libri. Mi piace leggere un po’di tutto. Mi piacciono i classici del ‘900 come Victor Hugo e Dostoevskij, ma devi essere concentrata per affrontare letture come queste e allora, quando ho voglia di distrarmi un po’, mi butto sulle biografie. Ora ne sto leggendo una bellissima sui Beatles scritta da Bob Spitz. Poi adoro i libri di poesie, in questo periodo mi sto avvicinando a Pessoa. Per quanto riguarda i dischi ne ascolto davvero di tutti i generi. Amo Jeff Buckley ma, per esempio, ieri sera ho ascoltato un po’ di Caterina Caselli. E cosa c’è nel tuo cassetto? Un sogno: quello di fare la cantante. Solo questo.

Gli Oasis di Noel Gallagher fanno la storia della musica mondiale tutte le volte che decidono di suonare, e dietro non guardano mai. O almeno, non con rabbia. ome un mitologico re Mida, Noel Gallagher ha avuto la facoltà di trasformare in oro qualunque cosa toccasse. Sin da quando si aggiunge al gruppetto del fratellino Liam e dei suoi amici, a patto soltanto di esserne il leader, unico compositore e chitarra solista. In poche parole: potere assoluto. Sarà stato il carisma, sarà stato l’innegabile talento, fatto sta che i quattro, Liam compreso, accettano questa condizione. Siamo nel 1991 e gli Oasis iniziano ad esibirsi nei locali di Manchester. Tre anni dopo si vedono già i due singoli Supersonic e Shakermaker in top 40 inglese ed è già record di vendite inglesi per il loro album di debutto, Definitely Maybe. Da qui in poi sarà una interminabile scalata al successo; un successo che trascende il lato prettamente musicale, che coinvolge i media, la stampa ed il gossip, rendendo i fratelli Gallagher icone di una nuova moda che stava nascendo negli anni 90 in Inghilterra, il brit-pop; un successo dovuto all’immagine, alla celebrazione, ad una vita sotto i riflettori, alla faccia tosta. Il secondo disco, (What’s the Story) Morning Glory?, li consacra al successo mondiale e vende più di 20 milioni di copie. Ma se non ci fossero i litigi tra i due fratelli Gallagher non staremmo qui a parlare degli Oasis. La loro vita sregolata attira in quegli anni sempre più le attenzioni dei media che arrivano addirittura a creare una vera e propria battaglia del brit-pop tra Blur e Oasis. Una gara di vendite, tant’è che i due gruppi per un periodo programmano le uscite dei loro singoli negli stessi giorni. Noel Gallagher è sempre stato consapevole della potenza mediatica dei suoi Oasis e non si stupisce di certo quando, nel 1996, al parco di Knebworth vede 250 mila spettatori lì per loro. Proclama: «La storia è qui, adesso, stiamo facendo la storia”. Ormai è scoppiata l’Oasis-mania nel Regno Unito. Brani come Wonderwall, Don’t Look Back in Anger e Champagne Supernova hanno scaldato gli animi di milioni e milioni di persone fino ai giorni nostri, entrando di diritto nel grande librone immaginario della storia della musica. Be Here Now (1997) raggiunge un nuovo record di vendite nella prima settimana d’uscita e, anche se lo stesso Noel ne decanterà in seguito i difetti, i quattro singoli D’You Know What I Mean?, Stand by Me, All Around the World e Don’t Go Away andranno a scrivere un’altra pagina del consistente librone. Essere sempre sulla cresta dell’onda, però, inizia a creare dissapori e malumori all’interno della band e, come in tutte le favole, ogni sogno è destinato a svanire prima o poi. Nel 1999, durante le registrazioni di Standing on the Shoulder of Giants i fratelli Gallagher restano soltanto col batterista Alan White. Il disco non piace alla critica e vende poco; il nuovo tour mondiale porta all’ennesimo litigio tra i fratelli coltelli che vede Noel abbandonare la band in pieno tour. Con vari avvicendamenti Liam diviene il nuovo leader fino al concerto di Wembley del 2000, per il quale Noel rientra all’ovile. Dopo la tempesta c’è sempre bisogno di un periodo di pausa, per riflettere e riordinare le cose. Le persone cambiano scalfite dal fardello del tempo e degli avvenimenti. Con Heathen Chemistry (2002) e Don’t believe the truth (2005) si torna alle origini accantonando le sperimentazione del disco precedente. Ritornano le vendite da capogiro e i lunghissimi e affollatissimi tour mondiali. Ora però gli Oasis sono un gruppo vero e proprio e tutti iniziano a partecipare alla stesura dei testi. Tra gli immancabili cambi di line-up i dinosauri del pop sfornano il nuovo album Dig out your Soul (2008), che si configura come un ritorno definitivo al passato, al sound degli anni 60 e 70 che li ha contraddistinti rievocando tutti i giganti del genere, a partire dagli immancabili Beatles e passando per Who, Rolling Stones e Cream. Ed ecco un nuovo tour, che toccherà anche l’Italia, per riassaporare le loro ballate immortali, per osannarli, per rivivere ancora una volta la celebrità e la musica.

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Gianluca Gentile 20 febbraio - PALALOTTOMATICA

a cura di Corinna Nicolini

MEG L’ORO DI NAPOLI Uno spiritello dell’aria imprigionato da una strega, dalla teatralità brillante, la voce duttile e malleabile, l’aureo talento partenopeo ei è l’oro di Napoli. La conturbante personalità di Meg torna ad amplificarsi nella capitale, il 30 gennaio, per un live che promette ritmo e poesia al Circolo degli Artisti di via Casilina, cui si abbina la transartisticità del personaggio. Maria Di Donna, classe 1972, è infatti dotata di una teatralità talmente connaturata da averle concesso incursioni nella recitazione. Dopo l’esordio musicale con i 99 Posse, dà vita al progetto Nous insieme a Marco Messina, con cui realizza l’album La Tempesta, colonna sonora dello spettacolo Dentro la tempesta, visionario e insolito adattamento del regista Giancarlo Cauteruccio e del suo gruppo Krypton de La Tempesta shakespeariana, all’interno del quale Meg è Ariel, spiritello dell’aria imprigionato dalla strega Sycorax. Le tracce la congiungono al più dirompente rock italiano degli anni 80, quello dei Litfiba, che per la stessa compagnia teatrale hanno musicato L’Eneide. Una breve incursione nel cinema è d’obbligo e Meg recita nel progetto Tree’r Us, film prodotto da Spike Lee. Ma il suo campo è la musica. Il primo singolo solista, Simbiosi, arriva nel 2004. Segue Meg, omonimo album di debutto; canzoni intriganti su cui si incrociano melodie mediterranee e toni glaciali ammiccanti a Björk, che diviene così cruccio e delizia del percorso intrapreso da Maria. L’impegno politico degli esordi rimane una costante, tanto che il brano Parole Alate viene incluso nella compilation GE-2001, a sostegno finanziario del Genoa Legal Forum per i processi intentati dopo i fatti del luglio 2001 al G8 di Genova. Lo scorso aprile l’artista napoletana realizza il suo secondo album solista, Psycodelice. La prima hit estratta è Distante, motivetto ritmato con movenze lo-fi, che non si priva di un’introspezione di fondo capace di fondere piglio filosofico e dance, contemporaneità sociologica e musicale. Dietro le tracce ci sono mani sapienti, come quelle dell’amico Marco Messina; ma il produttore

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più partecipe all’insieme è il dj Stefano Fontana aka Stylophonic, che firma la maggior parte dei brani. Lo scorso novembre la meritata consacrazione del Mei, dove Psycodelice conquista il premio come miglior album solista del 2008; mentre attraverso il sito di Radio Deejay viene data la possibilità agli utenti di Internet di poterne remixare un pezzo. Un’inventiva, quella di Meg, che si evolve ancora di più nelle sue performance dal vivo, in cui c’è spazio per inedite versioni dei brani incisi con i 99 Posse, per canzoni melodiche intrise di poesia e per un’idea di dance intelligente che guarda Oltremanica. Il tutto condito da una teatralità brillante, una voce duttile e malleabile e un aureo talento partenopeo. Stefano Cuzzocrea

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PO PCK pop&rock

Music In  Inverno 2009

NEGRITA Che rumore fa la felicità Se il mondo è un inferno dorato, nel loro c’è il lavoro nero, la politica estera, l’integralismo del Vaticano e una felicità che fa rumore

FRANCESCO GUCCINI Sorridevi e sapevi sorridere coi tuoi vent’anni portati così come si porta un maglione sformato su un paio di jeans

PAOLA TURCI E GIORGIO ROSSI Lei la voce e lui la danza

CHE RUMORE FANNO I NEGRITA L’uomo sogna di volare, i Negrita sono già in volo tra il Sud-Africa e Roma assordati dalla felicità di un futuro possibile he rumore fa la feliciC tà? Con questo interrogativo tornano i Negrita con un nuovo album, che sembra proprio destinato al successo. Dopo tre anni di silenzio, la band toscana si riappropria della scena rock italiana ed Helldorado, dopo una sola settimana dall’uscita, conquista il disco d’oro. Se il mondo è un inferno dorato, i Negrita lo raccontano con poesia, lo affrontano con ritmo e lo vivono con animo libero e vitale. Alla ricerca di una bellezza offuscata, oltre le apparenze, la band aretina continua a perseguire le ispirazioni sudamericane che si ritrovano nei colori dei testi e nella ricchezza del sound. Registrato tra Buenos Aires e la Toscana, Helldorado mantiene le promesse di L’uomo sogna di volare (2005) sviluppandone, in modo ancor più profondo e impegnato, tematiche e motivi. Agli esordi, negli anni Novanta, le ripetute collaborazioni con Ligabue, dapprima negli arrangiamenti e successivamente come gruppo di supporto, hanno contribuito a diffondere il nome della band tra il grande pubblico. Una fama consolidata anche grazie al trio comico Aldo, Giovanni e Giacomo e alle colonne sonore dei due film Tre uomini e una gamba (1996) e Così è la Vita (1998). Quest’ultimo permette ai Negrita di lanciare il singolo Mama Maé, anticipazione del fortunato album Reset (1999) che, con 100.000 copie vendute e un sound più elettronico, ottiene il disco di platino.

Se i punti di forza di questo gruppo sono sempre stati la ricerca ritmica e l’inconfondibile timbro vocale di Pau, con l’ultimo album i Negrita dimostrano una evidente evoluzione e una continua ricerca musicale sostenute non dalle mode del momento, ma da una serie di significative esperienze personali e artistiche. Nell’aprile del 2004, infatti, il gruppo da il via ad un interessante progetto internazionale: un mini-tour in Sud America in collaborazione con gli Istituti italiani di cultura del continente. Questo viaggio ispiratore getta le basi per le sonorità di L’Uomo Sogna di Volare (2005) e per la realizzazione del film-documentario Verso Sud (2006). Le numerose collaborazioni con artisti sudamericani e il coinvolgimento diretto in alcuni progetti solidali comportano una definizione di stile e di tematiche nelle loro nuove produzioni. I testi di Helldorado sono ricchi di riflessioni sul mondo contemporaneo, sulla società e sul ruolo che l’uomo ricopre in essa, rafforzate dall’utilizzo di ben cinque lingue differenti, che si mescolano nei pezzi ampliandone il respiro. Dalla politica estera al lavoro nero, dall’integralismo islamico al Vaticano e alla decadenza della politica italiana. I Negrita cantano con disincanto di tutto ciò che sta sotto la superficie, di un sottobosco scomodo che non trova corrispondenze negli ideali, nei valori, o in un futuro possibile. Sono brani che denunciano, che ricordano, che dipingono con le parole una realtà a tinte forti. Non si tratta di semplice schieramento politico, come afferma il gruppo, ma piuttosto di libera espressione del pensiero poiché «spesso, per vedere le cose, devi allontanarti da esse». Anche i ritmi si fanno più caldi e trasversali, con un’anima rock, tributi al sound dei Clash e ai ritmi reggae in stile Bob Marley. Così, la forza creativa della band «libera, non barricadera» si concretizza nell’entusiasmo del viaggio interiore, geografico e musicale - che riesce a contagiare l’ascoltatore. Ottime premesse per l’Helldorado Tour, che passerà da Roma il 27 febbraio all’Atlantico live. Clara Galanti

VOX SANA IN CORPORE SANO Lei la musica, lui la danza. Lei la voce, lui il corpo. Insieme sono espressione, contaminazione. Paola Turci e Giorgio Rossi si incontrano il 22 gennaio sul prestigioso palcoscenico dell’Auditorium dopo una tournée che ha toccato molte città italiane negli ultimi mesi. Cielo. Concerto per un corpo sonoro e una voce danzante è il nome dello spettacolo ed è già una poesia. I movimenti fisici dell’uno disegnano linee su cui viaggia la musica dell’altra, come le nuvole che spostandosi assumono forme sempre diverse soffiate dal vento che le trascina con sé, mentre nel Cielo, appunto, si estende la sua eco. In questa sorta di «recital mimato» la voce non è mai mera didascalia della danza e i movimenti non si riducono a

VOI CON IL NASO CORTO L’unica locomotiva che non ha mai subito ritardi è quella di Francesco Guccini

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oi vennero gli aeroplani e le astronavi. L’uomo toccò la luna con i piedi e viaggiò da casa grazie al web. Eppure il fascino di una locomotiva, «La locomotiva», è restato invariato. I ragazzi partono ancora all’avventura con l’Inter-rail e gli universitari bruciano ancora di ideali nelle loro esistenze pendolari e fuori sede. La storia bella e misteriosa del gesto di libertà dell’anarchico Pietro Rigosi è ancora attuale, è troppo attuale. Questo è quello che succede quando un cantautore cattura la vita nei suoi versi e Francesco Guccini di vita ne ha raccontata molta. Gli esordi del modenese classe ‘40 risalgono al 1967, quando la CGD gli pubblica l’album Folk beat n. 1. È un’opera notevole, di spessore, e infatti vende pochissimo. «Appena per pagarmi gli studi», commenta l’artista. Ma è una fortuna; che lui studi si nota infatti dai suoi versi e dall’album L’isola non trovata, che sfoggia canzoni come Un altro giorno è andato. Il successo arriva nel 1972, con il disco Radici, che racchiude la già citata La locomotiva e la splendida Il vecchio e il bambino. Sono anni magici in cui gli italiani si svegliano dal loro torpore mediatico e vanno alla ricerca della poesia. Sono anni in cui l’interesse comune è orientato a capire cosa sta spaccando la nazione più di quante donne abbia Mastroianni. Un bel risveglio dura poco. E così l’orgoglio di Modena si appanna a favore dei miti anni novanta e i giovani lo riscoprono per caso in un suo cameo come barista-allenatore di calcio nel film Radio Freccia di Ligabue. Il 23 gennaio al Palalottomatica un buon motivo per alzarci dal nostro comodo letto mentre la nazione, o forse il mondo intero, ricominciano a scricchiolare. Un’opportunità per ascoltare chi da più di quarant’anni ci ricorda che in mezzo alle orecchie c’è una testa pensante. Corinna Nicolini

semplice illustrazione della parola cantata. Quello che arriva al pubblico è un mix equilibrato di arte e sentimento. Il repertorio è quello dei due artisti. Le canzoni di Paola Turci sono quelle a cui siamo affezionati ormai da tempo, fin da quando, solo una ragazzina, chitarra a tracolla, si mostrava seria e professionale sul palco dell’Ariston, ormai venti anni fa. Pezzi come Sarà bellissima, È questione di sguardi, Volo così si uniscono alla danza di Giorgio Rossi, uno dei più talentuosi coreografi italiani. Già ballerino della Fenice di Venezia e uno dei fondatori della scuola di danza Sosta Palmizi, con la sua arte sta girando il mondo. Il ricavato dello spettacolo sta aiutando l’Ucodep, un’associazione onlus che opera, tra l’altro, in favore dei bambini del Vietnam. Perché per chi vive di arte staccare a volte i piedi da terra è un’esigenza. Corinna Nicolini

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ALT ER NATIVE a cura di VALENTINA GIOSA

Music In  Inverno 2009

ADAM GNUDE Scrittore e cantante. Se dovesse scegliere tra EVANGELISTA La voce s’insedia, gli un foglio bianco e una chitarra, non sceglierebbe nessuno dei due: GIANT SAND strumenti rispondono come personaggi di farebbe il contadino nel Kansas e sarebbe perfettamente felice. Stato d’animo uno scenario gotico-nichilista-espressionista

FAI CHE NON TI PRENDA LA PAURA Il suo nuovo libro uscirà dopo l’Apocalisse e dopo la caduta delle infrastrutture tecnologiche ato a San Diego, California, Adam Gnade vive a Portland, nello Stato americano dell’Oregon. La particolarità di Adam è la forte e imprescindibile connessione fra i suoi romanzi e i suoi dischi che condividono temi e personaggi, come se i libri continuassero e arricchissero un discorso lasciato aperto dalle canzoni. Realizzato nell’autunno del 2008, Hymn California è il suo primo romanzo. The Darkness to the West (Punch Drunk Press) e il cd Trailerparks (Try Harder Records) sono invece le sue ultime realizzazioni. Uno scrittore dal talento innato, in bilico fra la beat generation e i film di Cassavetes e pure un musicista che si rifà al meglio dei folksinger americani. I suoi libri sono momentaneamente disponibili solo in lingua originale.

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hat I want to say in Trailerparks is don’t let fear take you. Be mighty and live as hard and long as you can. It [the record] begins very dark but I hope people can see the light at the end». (Adam Gnade)

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Quando hai cominciato a scrivere Hymn California? Non ne ho idea. Ho impiegato più o meno due anni a scrivere il libro ma poi è passato del tempo prima che venisse pubblicato. Realizzare il disco è stato più veloce, i libri invece procedono lentamente. Ho appena finito un nuovo romanzo, probabilmente uscirà fra qualche anno, forse nel 2023, forse più tardi. Dopo l’Apocalisse. Dopo la caduta delle infrastrutture tecnologiche. Parlando dei tuoi lavori dici: «I libri e i dischi sono la stessa cosa». Cosa intendi esattamente? I libri e i dischi condividono lo stesso cast di personaggi e fanno da filo conduttore l’uno per l’altro. Tutto fa parte di una storia unica che io chiamo «We Live Nowhere and Know No One» («Viviamo dovunque e non conosciamo nessuno»). La storia si estende con un romanzo, due romanzi e una serie di dischi. Sarà il film della mia vita fino a quando morirò. Ci tieni sempre a specificare che i tuoi libri non sono poesia o «spoken word» ma parli di «talking songs». Perché? I libri e i dischi non sono poesia perché danno vita ad una prosa e i dischi sono «talking songs». Credo che si sia diffusa la voce fra gli addetti stampa che non mi piaccia la poesia, e probabilmente un po’ è colpa mia. Tanto per chiarire: non scrivo poesie ma ci sono tanti poeti che mi piacciono, come Han Shan’s (scrittore cinese del IX secolo) o Andrew Mears fra i contemporanei. Dopo il tour abbiamo realizzato una lettura insieme alla Oxford University. Andrew canta negli Youthmovies. Riguardo alla «spoken word»... odio quella roba. Le mie canzoni sono parlate ma il mio non è qualcosa di molto diverso dal cantare. Ci sono ritornelli e strofe e

durante la performance mi accompagno suonando. Le canzoni non devono necessariamente avere una maniera standard per essere tali. Guarda per esempio la musica classica, l’hip hop, il deathmetal, l’hardcore. Le stagioni sono come personaggi in Hymn California. Cosa sono le stagioni per te? Crescere a sud della California significa non sapere cosa sono le stagioni. C’è solo una grande stagione che varia quasi impercettibilmente. Così quando finalmente sono andato via da lì, vedere e avvertire il cambio di stagione è stato incredibile. Mi girava la testa ogni volta. Qual’è la tua stagione preferita? In estate ti direi l’inverno. In inverno ti direi l’estate. Sta per uscire «Trailerparks», il tuo primo disco dopo «Honey Slides». Lo hai paragonato ai film di John Cassavetes, perché? In realtà non credo ci siano molte connessioni, a parte la «fiducia nella spontaneità» di Cassavetes. Di solito passo molto tempo a scrivere le liriche ma Trailerparks è stato quasi del tutto scritto di getto. Ho bisogno dell’«anima del momento». Tutti dovrebbero vedere «A Woman Under the Influence». La pura realtà. Il mio nuovo romanzo «The Darkness to the West» si rifà molto a questo film. Davvero molto. Sì, Cassavetes... colui che ti cambierà la vita. A parte Cassavetes c’è qualche artista che senti molto vicino a te? Adoro i Neutral Milk Hotel. Non credo che i miei dischi suonino come i loro ma sono senza dubbio il mio spirito guida. Da cosa o chi prendi ispirazione? Dalla gente che non si preoccupa troppo dei soldi. Dalle cassette di musica country che la mia grande nonna registrava dalla radio di Denver decenni fa, qualsiasi buona e vecchia musica country. E dalle barche. Se dovessi scegliere fra un foglio bianco o una chitarra? Se dovessi scegliere, non sceglierei nessuno dei due. Non posso fare una cosa senza l’altra. È una relazione simbiotica. Forse farei il contadino nel Kansas e sarei perfettamente felice.

HELLO EVANGELISTA Carla Bozulich torna ma oggi è un’Evangelista ex cantante dei Geraldine Fibbers e fondatrice degli Ethyl Meatplow, gruppo industrial di Los Angeles, Carla Bouzulich, ha da poco pubblicato Hello Voyager (Constellation, 2008), uscito sotto il nome di Evangelista. Potremmo considerarlo tanto un debutto quanto un ulteriore affascinante album solista della Bozulich che la riconferma musicista in continuo rinnovamento e sperimentazione senza mai cadere nell’incoerenza. Newyorkese, classe 1965, Carla Bozulich cresce nel Greenwich Village e si trasferisce a San Pedro, in California. A 13 anni lascia i genitori e inizia a vagabondare dividendosi tra musica ed eccessi. La sua prima apparizione discografica risale al 1982, su Zurich 1916 di Gary Kail. Registra i primi brani in studio con gruppi come Neon Veins e Invisible Chains. Ma la vita della Bozulich non è molto semplice: a vent’anni si procura i soldi per l’eroina facendo la prostituta. Ma ecco che arriva un ragazzo, se ne innamora e la salva da quell’inferno portandola in un centro di riabilitazione e regalandole le sinfonie di Mahler. Cantante, chitarrista, performer e videomaker, Carla Bozulich inizia così la sua carriera con gli Ethyl Meatplow ma con il tempo collaborerà con diversi artisti come Mike Watt, Hadda Brooks, Lydia Lunch, Thurston Moore, Christian Marclay, Okyyung Lee, Carla Kihlstedt, Wayne Kramer, Wilco e dal 2000 comincerà la sua carriera da solista.

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a cura di Valentina Giosa

TRAVOLGENTE STATO D’ANIMO CANGIANTE I Giant Sand hanno il sapore di una tempesta di calda polvere del deserto che ti viene tutta in faccia e te la ritrovi in bocca di Gianluca Gentile

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iant Sand è uno stato d’animo, come ama affermare il leader Howe Gelb. È uno stato d’animo che ha subito un continuo e perenne cambiamento nell’arco degli ultimi vent’anni, proponendosi come una delle realtà più salde e nello stesso tempo sottovalutate del panorama indie. Gelb arriva dall’arida e deserta Tucson, Arizona. Inizia ad avvicinarsi alla musica con in bocca il sapore aspro della polvere del deserto e la terra che scotta sotto i piedi. Rumina classici del blues e del country dalla fine degli anni 70 e inizio 80, quando in America spopola il post-punk. Nascono così, fortemente influenzati da David Byrne e soci, i suoi Giant Sandworms, nome che richiama i terrificanti vermi di Dune, pellicola di fantascienza girata da David Lynch. I continui cambi di formazione (la line up è diversa all’uscita di ogni disco) procedono di pari passo con le evoluzioni del sound e gli umori di Gelb. Nel 1985 esce il primo disco a nome Giant Sand, Valley of Rain. Sono già evidenti le influenze che caratterizzeranno la loro musica fino ai giorni nostri: le tradizionali ballate country americane riprese da Neil Young

e Gram Parsons, le sperimentazioni jazzistiche di Thelonious Monk in primis, il rock n’ roll dei Velvet Underground ma anche Bob Dylan e Roy Orbison. Del combo Giant Sand costituiranno la sezione ritmica per lungo tempo due dei personaggi più influenti della scena di Tucson, John Convertino (batteria) e Joey Burns (basso), i quali andranno, in seguito, a formare i Calexico. Ospiti del calibro di Victoria Williams, Neko Case, Juliana Hatfield, PJ Harvey, Vic Chesnutt, Steve Wynn, Vicki Peterson e Rainer Ptacek hanno impreziosito nel tempo le composizioni di Gelb che, ai dischi dei Giant Sand, alterna anche i propri lavori solisti. Nel 2002 i Giant Sand si reincarnano in una nuova band di musicisti danesi che, dopo It’s all over the Map (2004) tornano con un nuovo disco, Provisions. Un’opera tetra e pensata con cura che sa unire allo stesso tempo le suggestioni di Nick Cave, Lou Reed, Tom Waits, Leonard Cohen e Johnny Cash. Sullo sfondo il solito country-blues, quello che arriva da terre lontane e desolate, in grado di travolgerti come una tempesta di calda polvere del deserto. Del resto Giant Sand è un sapore che si può riconoscere soltanto assaggiandolo.

Una vita di eccessi, di droga e prostituzione quella della Bozulich, ma di un’artista intensa, che riesce a comunicare come pochi direttamente con l’anima. Impossibile non restare immediatamente colpiti dalla sua voce che può facilmente riportarci a Lydia Lunch, Diamanda Galas, Nico o Nick Cave non solo per il timbro grave e sofferto ma anche per l’ approccio «teatrale» e provocatorio con cui la musicista americana costruisce i suoi labirinti sonori glaciali e ossessivi. Ma il mondo dell’ ex Geraldine Fibbers è qualcosa di più, qualcosa di molto più vicino alla performance art che alla pura musica. La voce si insedia a volte sussurrata, altre urlata, gli strumenti rispondono e interagiscono tra loro come personaggi di uno scenario gotico-nichilista-espressionista ed ecco che si rimane intrappolati in un autentico capolavoro estetico. La necessità espressiva e il bisogno di supporto da parte di una backing band che mancava negli album precedenti, ha preso forma proprio in Hello Voyager. Il nuovo album include infatti contributi di oltre una dozzina di musicisti canadesi, fra cui alcuni componenti di Thee Silver Mt. Zion (archi), Nadia Moss (organo) e un gruppo di batteristi locali che ha guidato il disco con grande maestria da Smooth Jazz fino alla title track conclusiva. Valentina Giosa

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Music In  Inverno 2009

EUROSONIC Ci rappresentano in Olanda i Mojomatics, i Baustelle e Jennifer Gentle

OLTRE OGNI SENSO Daniele Stefani e Sarah Maestri Cantano per i sordi. In LIS

IL GENIO Pop Porno Se ti prendi sul serio allora devi afferrarti per il collo e sbatterti il cranio sullo stipite di un adito su cui vi sia scritto: benvenuti i minchioni.

ELLIOT SMITH CENERI GRUNGE

di Lorenzo Bertini

La sua musica ha la sostanza delle nuvole in volo, la limpidezza dei cieli invernali, la fragilità delle foglie in autunno. Sospesa tra Beatles e Cobain, aleggia su Paranoid Park, tra i campus scolastici e le piste da skate della periferia di Portland. Echo Park, Los Angeles, è invece dove l’hanno trovato morto, il 23 ottobre 2003, a 34 anni, in circostanze più che misteriose, sbrigativamente affidate a ipotesi di suicidio, dato lo spleen malinconico-depressivo. Sono trascorsi cinque anni dalla morte di Elliott Smith, cinque anni in cui la memoria ha fatto il suo corso, proiettandolo nell’empireo maudit, seduto fianco a fianco dei fratelli maggiori, Kurt Cobain e Jeff Buckley. Nato dalle ceneri del grunge, Elliott Smith ne raccoglie gli acuminati frammenti sparsi lungo la strada che da Seattle va a Portland, riassemblando ad arte le increspature vocali di Cobain e il sound minimale dei Fugazi. Minimalismo e attitudine «nerd» sono le coordinate dei primi due album, Roman Candle (1994) e Elliott Smith (1995), con partizioni per voce e chitarra acustica, tematiche «addicted» e ballate terse e vetrose (Condor Ave, The White Lady Loves You More, Needle in the Hay) che lo collocano idealmente tra Nick Drake e Simon and Garfunkel, mentre virate elettriche e composizioni più sofisticate appaiono a partire dal seguente Either/Or (1997). Per le strade di Portland gira in quel periodo anche Gus Van Sant, che lo adocchia per la colonna sonora di Will Hunting. Per Van Sant prepara Miss Misery, con cui calcherà i palchi degli Academy Awards e degli Oscar ‘98, accanto alla Celine Dion appena fresca di Titanic («È stato divertente camminare sulla luna, almeno per un giorno», dirà poi). Lo adocchiano anche le major, e Elliot Smith passa alla Dreamworks Record. Nel ‘98 esce XO, con evidenti tributi a Beatles e Beach Boys nell’arrangiamento barocco dei brani, seguito a due anni di distanza da Figure 8, il suo lavoro forse più bello. Psichedelia fredda, canzoni sussurrate e fiabesche, su tutte l’ipnotico piano di Everything Means Nothing to Me. Si rincorrono le incursioni nel cinema (Needle in the Hay per I Tenenbaum, la cover della beatlesiana Because per American Beauty), come anche le voci di dipendenze e tentati suicidi, fino all’epilogo californiano, giusto in tempo per lasciarci ancora un pugno di canzoni, raccolte poi postume in From a Basement on a Hill, lunari frammenti disseminati lungo la strada che da Portland va alla città degli angeli.

L’ITALIA IN OLANDA S

ono i Mojomatics, la band italiana scelta dall’Italia Wave Love Festival per rappresentare l’Italia a Eurosonic, festival di musiche europee di Groningen (Olanda) finanziato dalla Comunità Europea conclusosi il 17 gennaio. The Mojomatics si sono già esibiti lo scorso luglio sullo Psycho Stage di Italia Wave 2008, a Livorno, approdando poi ad agosto in Sud Africa per un tour di 5 date organizzato dalla fondazione Arezzo Wave Italia. Formatosi nel 2003, il duo veneto si è imposto all’attenzione del pubblico europeo dopo soli due anni di attività, grazie all’album d’esordio A Sweet Mama Gonna Hoodoo Me pubblicato dalla label tedesca Alien Snatch. La conferma è arrivata nel marzo 2008 con l’uscita di Don’t Pretend That You Know Me, disco prodotto dalla Ghost Records, presentato con un tour europeo e uscito poi in Usa il 23 settembre. La band esce protagonista dalla tre-giorni olandese del Noorderslag Weekend, tra gli eventi musicali europei più importanti degli ultimi tempi. La manifestazione è divisa in due sezioni: Noorderslag Seminar, la conferenza europea dell’industria discografica per la musica dal vivo, ed Eurosonic, festival in cui si esibiscono i nuovi talenti europei proposti dai festival di Yourope e dalle radio pubbliche d’Europa associate in EBU (European Broadcast Union). Sullo stesso palco del Deubeurs, Frank Turner (Gran Bretagna), The Moood (Romania) and The Kilians (Germania) in una serata sponsorizzata dal magazine tedesco Visions. L’Italia è stata rappresentata ad Eurosonic anche dai Baustelle e dai Jennifer Gentle. Una grande vetrina per la band, se si pensa che proprio ad Eurosonic anni fa sono stati lanciati i Franz Ferdinand e l’ennesima conferma per la «fAwi» Fondazione Arezzo Wave che continua a distinguersi per le numerose iniziative volte a valorizzazione la musica italiana all’estero. (Valentina Giosa)

IN SORDINA Daniele Stefani è il protagonista di una singolare iniziativa: per la prima volta in Italia la traduzione di un intero album - il tour e il video - in LIS, la lingua italiana dei segni, che, in un’atmosfera intima e personale, avvicina alla musica le persone con deficit acustico che utilizzano i segni per parlare e gli occhi per sentire. Stefani distribuisce palloncini gonfiati ad aria che permettono di sentire attraverso sensazioni tattili le vibrazioni della musica. Oltre ogni senso è il primo singolo estratto dal nuovo album dell’artista milanese che ha condiviso il proprio palco con le ragazze sorde dell’Afae di Catania, interpreti in LIS dei brani dell’album Punto di partenza della Cama Records. Oggi esce, con Sarah Maestri, il duetto Niente di speciale. Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Romina Ciuffa

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P O P IL GENIO P O R N O Perché Pop e Porno sono parole riconosciute a livello internazionale.

(...)

Con la loro Pop Porno hanno sbancato: il testo accattivante e la melodia di immediata percezione rimandano ad illustri ricordi, da Je T’Aime di Serge Gainsbourg a You Really Got Me dei Kinks; da Satisfaction degli Stones a Fade to Grey dei Visage. Eccoli.

MEI: LA SVOLTA DEL PICCOLO Il

Meeting delle Etichette Indipendenti, giunto alla dodicesima edizione, si conferma come l’unico festival delle produzioni musicali e culturali indipendenti in Italia. Questa volta incontri dedicati ai nuovi modelli di distribuzione digitale della musica, ascolto guidato al nuovo album di Niccolò Fabi e la presentazione del libro di Morgan intitolato In pArte Morgan; quindi, esibizioni, quelle di Bandabardò, Daniele Silvestri, Tricarico. Con oltre 30 mila presenze nei tre giorni, 300 espositori, 400 concerti, 250 videoclip in concorso per il PIVI (Premio Italiano Videoclip Indipendenti), convegni e workshop, la presenza di centinaia di operatori del settore, artisti, festival e fiere dall’estero e un ritorno economico valutato intorno ai 3 milioni di euro, il Mei è un forte punto di riferimento per la piccola discografia indipendente che sembra aver conquistato un posto d’onore all’interno del complicato e intricato panorama musicale. Le novità più interessanti degli ultimi anni sono venute fuori proprio dal mercato indipendente: sono i Baustelle, gli Afterhours, Caparezza, Elisa.

Non più allora l’onnipotenza delle major ma un mercato creativo e propositivo che dalla piccola discografia esce fuori a testa alta mostrando enormi potenzialità. «Nel 1997, la prima volta - afferma Giordano Sangiorgi, mente del Mei - si contavano appena una trentina di espositori e una dozzina di band e sbrigammo tutto in un giorno solo. Ormai è una realtà troppo grande, un intervento delle istituzioni è necessario a trasformarci nella vetrina della nuova canzone italiana a integrazione del Festival di Sanremo. Così potrebbe nascere una piattaforma di tutta la musica italiana». Grande la svolta di una sincera e seria possibilità di cooperazione fra piccola e grande impresa: «Invito le etichette presenti al Mei ad inviare materiale: quest’anno Sanremo offre una grande opportunità agli indipendenti, una categoria la cui selezione avverrà su internet, che potrebbe svilupparsi moltissimo nei prossimi anni», afferma Gianmarco Mazzi, uno dei direttori artistici del Festival di Sanremo 2009. Valentina Giosa

a cura di EUGENIO VICEDOMINI

Come e quando è nato il progetto «Il Genio»? Non è un progetto. Nasce nell’immediato, senza alcuna preparazione. Nell’immediato dei primi mesi del 2007. Qual è il vostro background musicale? Studiodavoli, musica classica, un corso di bandoneon per Gianluca. Tanta musica pop, anche giapponese e il basso per Alessandra. Come sono nati i brani e che metodo di lavoro avete adottato: lavoro comune o anche lavoro remoto? Dipende dai brani. Alcuni sono frutto di un lavoro comune, altri solo in parte, altri ancora sono più personali. Ma la composizione di questo disco è filata liscia come l’olio, trascinata dal divertissement e dalla spensieratezza. Quali sono i vostri principali gusti musicali? Siamo di palato buono. Troppa roba per poter dire tutto: dalla classica al punk.

Il vostro disco d’esordio nasce in un’epoca in cui la deregolamentazione del download spinge ad ascolti superficiali ed abusi frammentati di mp3 sparsi a centinaia tra PC, iPod e chiavette USB. Contrariamente a questa tendenza, il disco è un’opera compiuta e segue la più bella delle tradizioni dei dischi di musica rock: un collage composto da deliziose canzoni su cui spicca una intrigante hit single di rara potenza, Pop Porno. Pensate che, in altri tempi, Pop Porno sarebbe stato un 45 giri di sicuro successo? Probabilmente. Ma avrebbe subito la cesura della censura. Oggi, invece, risulta anche fin troppo pudico, e nessuno storce il naso. Tranne quelli, ovviamente, a cui la canzone non garba per nulla. Il Genio non è solo Pop Porno: nel disco si avvertono influenze electro-pop mescolate a suggestioni retrò del periodo fine Cinquanta inizio Sessanta, in una linea ideologica che da Parigi arriva fino a Tokyo. In particolare, si respira la spensieratezza dei film francesi ed inglesi dell’era «swinging London» e l’ironia delle sigle dei cartoon giapponesi: questa serena attitudine a non prendere le cose troppo sul serio è anche lo spirito con cui state vivendo il vostro attuale successo? Se ti prendi sul serio allora devi afferrarti per il collo e sbatterti il cranio sullo stipite di un adito su cui vi sia scritto: benvenuti i minchioni. Siete passati da poco tempo dalla Cramps Music ad una major come la Universal. «Il Genio» sembra un disco adatto ad un mercato di stampo nord-europeo: c’è già una strategia della vostra casa di produzione per proiettarvi in una dimensione internazionale? Sicuramente il singolo sarà inciso anche all’estero. Pop porno è internazionale, così come i genitali sono oggetti di comune uso in tutto il pianeta. Credo che anche per quanto riguarda il live si andrà presto al di là delle nostre Alpi. State pensando già a dare un seguito al vostro disco d’esordio: se sì, che tipo di suggestioni avrà il nuovo album? Ci stiamo pensando e ci sono già delle cosine. Ma sulle suggestioni non sapremmo proprio darti ragguaglio, non ci siamo ancora lasciati suggestionare dai nuovi pezzi. Pensate di tornare a Roma con una band al completo? Torneremo senz’altro, Roma è una città che è poco chiamare meravigliosa. E torneremo con la band, visto che tra un pò cominceremo a provare con due altri ragazzi. Infine, concedete anche a me la classica domanda del «bravo presentatore»: i cinque dischi da portare in un’isola deserta? Antology dei Beatles: non è in 5 volumi?

RIVISTA inverno.QXP

9-02-2009

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MUSICALL a cura di NICOLA CIRILLO

Music In  Inverno 2009

SESSANTOTTO Il Musical È questo l’unico vero HAIR I capelloni POVERI MA BELLI NOTREDAME DE musical, è questo l’unico vero ‘68. Ed è dove Freud del ‘68 e i freak del Un’isola (tiberina) PARIS La storia del cerca sicurezze in un atto mancato di ribellione. nuovo millennio Gobbo raccontata da lui dei famosi

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(...)

di ROMINA CIUFFA

QUI SUCCEDE UN

Su una bandiera multicolore un hippie aveva disegnato speranze e ucciso John Lennon. Come quando da un incubo ci si sveglia e si sa che tornerà - freudianamente camuffato in lapsus, in atto mancato, in un’altra metafora dell’inconscio - così il Sessantotto torna, nelle nostre delusioni, nella solitudine e nel dolore caroselli dei nostri mattini, nell’amare Obama, nel maestro unico, nel fumare e nello smettere di fumare, nell’essere precari. E in un musical, ma non uno qualunque. C’è chi pensa che in Italia la qualità si ritrovi solo nelle grandi produzioni. Ma io ho visto Freud seduto a guardare il Sessantotto del Saint Louis College of Music e battere il tempo con la testa, come un tic. Perché è questo l’unico, vero musical che è oggi in scena e che vale la pena di vedere, un musical in cui i cantanti diversamente che negli altri - sanno cantare, muoversi, comunicare. Questo «Sessantotto» nasce al termine del corso di musical «Andiamo in scena», ideato e diretto da Maria Grazia Fontana che - con Attilio Fontana, Franco Ventura, Michela Andreozzi ed il regista Giulio Costa - ha scritto, durante il corso e non prima, i testi del musical. Accanto a loro, il coreografo Orazio Caiti, lo scenografo Davide Orlandi Dormino, l’aiuto regia e coreografia Anna Gargiulo e la costumista Laura Distefano. Ma non è per loro che Freud continua a battere le ciglia nevroticamente. È per il Sessantotto che vede negli occhi di 22 sognatori che non erano nemmeno nati quando le madri ruzzolavano per i prati con i padri e le zampe d’elefante. Un anno di intensa preparazione in tutti gli ambiti dello spettacolo (canto, recitazione, coreografia, regia, backside, storia del musical) è servito a questo cast di giovani artisti per salire, assieme a una vera band, sul palcoscenico, oggi quello del Teatro Furio Camillo (dal 17 gennaio al primo febbraio), domani

a

gli altri della tournée. Il musical nasce proprio con loro: il soggetto, infatti, è stato scelto durante il corso e non fa parte di un progetto preesistente. Per questo c’è qualcosa, qui, che contiene il germe del talento ma anche quello di un’intuizione. Innazitutto, le voci. Guardi i protagonisti e pensi che non li vedresti mai sul palco del Sistina: non sono parenti di nessuno e li confondi con studenti della Facoltà di Psicologia. Poi aprono bocca e Freud sussulta: primo tic (ecco, entra dritto al cuore). Davanti al protagonista - un silenzioso «Johnny» che rappresenta il rock, la confusione, il non schieramento - e la sua chitarra (per tutto il musical suonerà e basta, dal vivo, accompagnando i pezzi), inizia un carosello: «guarda com’è bello, guarda il Carosello mentre tuo fratello muore in piazza, Johnny perde sangue, il padre sta in mutande...». Le voci, ognuna di esse meriteremmo di ascoltarla per radio tutti i giorni, perché siamo fatti d’orecchie e di cuore e questi ragazzi ci sanno fare con entrambi. Sanno di incomprensione, rivoluzione, amore libero e qualche speranza, «e il pane è questa musica: i fiori nei cannoni, le donne le scambiamo», Mao Tse Tung e il Che Guevara, Gesù e gli Intillimani, autostop e yoga, «lentamente squaglia-accendi-scappa-o-prendi ma non dirle di no». Freud ora i tic ce li ha tutti, perché il Sessantotto è proprio risalito a galla con una constatazione che non va via: «Sei solo un muro di incertezze che non romperai, sei solo i passi su un pianeta che non cambia mai». Quanti atti mancati per un sogno che non si avvererà, pensa. Dice «tormenti», ma voleva dire «complimenti», poi si alza e, scosso, esce dalla sala. Bravi, ma voleva dire bravissimi.

PO VERI MA ...

CAPELLONI

distanza di 40 anni dalla prima rappresentazione a Broadway, torna nei teatri italiani «Hair», uno dei musical più innovativi e di successo della storia della musica. È la storia di un gruppo di hippies capelloni, che vivono nella magica era dell’Aquario. Nella loro esistenza, che ruota tra la rivoluzione sessuale e la nascita del movimento pacifista, Claude, il protagonista, deve scegliere se rigettare gli obblighi di leva (come hanno fatto i suoi amici) o partire per il Vietnam. La nuova versione del musical, interamente di produzione italiana, presenta elementi di eccellenza e alcuni punti deboli. Eccelle, ad esempio, la direzione musicale di Elisa, che pur preservando le melodie, ha lavorato sugli arrangiamenti per dare ai brani suoni più moderni e credibili. È particolarmente efficace anche l’interpretazione di alcuni attori - tra tutti il protagonista Gianluca Merolli (Claude), fisicamente ineccepibile e affidabile vocalmente, e Kate Kelly (Crissy), che potendo concentrasi su una sola canzone da solista (Frank Mills) riesce a restituire in pochi minuti tutta la delicata sensibilità del personaggio. C’è

anche il bravo Attilio Fontana qui. Eppure, nonostante la colonna sonora accattivante e trovate intelligenti, il musical non riesce a trasmettere la carica emotiva che è alla base dell’opera: le incursioni nella contemporaneità, dal punto di vista della regia, sono molto limitate (e non si capisce il perché, se si è scelto di attualizzare la maglia musicale, non si sia lavorato anche sul senso di trasgressione che nel tempo, ovviamente, si modifica). Anche la scenografia dinamica, costituita da mega schermi elettronici, sortisce un effetto «televisivo», e non aiuta a catapultarsi nel magico mondo della comunità freak. Così, mentre la tribù di Hair viveva nel cuore della città e pulsava sentimenti di pace, fratellanza e anarchia nelle vene della società, la rappresentazione che ne fa quest’edizione del musical è piuttosto favolistica e inefficace. Persino la scelta di esporre delle nudità viene autocensurata dal regista (Saverio Marconi) con un gioco di luci. Una rivoluzione per un pubblico da salotto. Un ’68 ben temperato. Nicola Cirillo

a

ndiamo a teatro a vedere Roma perché a noi romani ‘ce piace’. Perché vogliamo scappare dall’Italia di oggi e tornare a 50 anni fa, illuderci, essere poveri ma belli. Era Dino Risi, erano Maurizio Arena e Renato Salvatori, e poi erano Marisa Allasio, Lorella De Luca e Alessandra Panaro, tutti a contrariare i marxisti. Neorealismo rosa del 1956 e una società povera e immatura, nutrita da paure ingiustificate e sentimentalismi romantici. Ma non c’è scampo: oggi ci sono reality e cantanti che fanno i registi, tutto in un calderone. Da una parte, la trasposizione in musical che ne fa il Teatro Sistina abbandona l’atmosfera incantata degli anni Cinquanta per restituirci una Roma più attuale, per ciò semplificando i caratteri dei personaggi. Dall’altra, l’atteso livello dei protagonisti (Antonello Angiolillo, Michele Canfora e Bianca Guaccero) non frena una disillusione: innanzitutto, l’allestimento sbagliato, che di Roma antica non ha nulla. Minimizza lo scenografo Marco Calzavara che se la cava con una

L’AMORE È COME UN ALBERO

Spunta da sé, getta profondamente le radici in tutto il nostro essere, e continua a verdeggiare anche sopra un cuore in rovina. oon. Doon. Doon. Questo suono assordante è il mio lavoro; Notre Dame, con le sue campane, la mia casa. Sono qui grazie al mio padrone, Frollo, che mi ha raccolto dalla strada, quando i miei genitori mi hanno abbandonato perché sono un mostro. La mia bruttezza spaventerebbe anche te, se potessi vedermi. Ma non mi vedrai perché me ne sto qui, solo, vicino ad Esmeralda; lascio cadere le mie lacrime sui suoi occhi per farla, ai miei, sembrare viva. Era bella il giorno che è arrivata: danzava per le vie di Parigi con gli altri gitani. Anche il mio padrone subiva il suo fascino. Lui era un arcidiacono, non poteva manifestare i suoi sentimenti. Fu per questo che decise di rapirla, chiedendo aiuto proprio a me, che già

D

l’amavo. Il nostro colpo venne sventato dal capitano delle guardie di Parigi, Phoebus e fui condannato alla fustigazione. Esmeralda mi avrebbe odiato e avrebbe amato il suo salvatore. E invece no. Lei mi diede da bere, mi consolò: ora capivo perché Dio mi aveva lasciato nascere, anche se in un corpo così deforme. Per amare è sufficiente un cuore e per vivere è sufficiente amare. E lei amava Phoebus, perciò Frollo tentò di ucciderlo. Per amore. Credimi. Ma le facemmo del male. Tutti pensarono che

fosse stata lei a pugnalarlo, la credettero una strega condannandola all’impiccagione. Folli. La rapii e le offrii diritto d’asilo alla cattedrale, ma una folla in delirio ai piedi della cattedrale chiedeva la sua esecuzione. Frollo, ormai privo di senno per quell’amore non corrisposto, la consegnò a quella gente e in preda ad un piacere sadico assistette all’esecuzione. Non potevo accettarlo. Non sai cosa significa amare fino a lacerarsi: lo uccisi. Ora sono qui, vicino al corpo inerme della mia Esmeralda e mi lascio morire anch’io. Cercami. Un poeta dei tuoi tempi, Pasquale Panella, ha riscritto in versi la mia storia; un musicista che di certo conosci, Riccardo Cocciante, li ha accesi di musica, ed ora girano l’Italia. Fatti raccontare la mia storia dalle luci e dalle ombre di un palcoscenico, dai movimenti dei ballerini, dalle vibrazioni delle loro voci. Perché l’amore si canta. Il dolore si urla. La vita si danza. E almeno tu, ora che mi conosci, non avrai paura di me. Corinna Nicolini

di Romina Ciuffa

scala e un baldacchino, e fissa pannelli in cui la prospettiva non coincide a destra e sinistra. Possiamo credere nell’intenzionalità, avremmo preferito l’«anche l’occhio vuole la sua parte». Torna qui, però, Gianni Togni, che se prima guardava il mondo da un oblò oggi compone tutta la colonna sonora di questo musical con canzoni di facile presa, suo stile caratteristico, e salva lo show. Peccato l’audio del Sistina. Peccato anche la scelta di alcune voci non uniformi, le sorelle dei protagonisti, ad esempio: destinate a cantare duetti all’interno del musical, non trovano un traitd’union per i loro timbri troppo differenti, che finiscono per stridere. Alla regia Massimo Ranieri: ma non improvvisiamoci eclettici e, soprattutto, non diamo al teatro la parvenza di uno show televisivo. Noi volevamo sdraiarci sulle spiagge del Tevere anni Sessanta e sentirci un po’ Romolo un po’ Salvatore, tutto qui. Nel Sud Italia, fino alla Sicilia, porteremo però questa d’immagine, fino a marzo: un’isola tiberina dei famosi.

di Nicola Cirillo

La

provincia italiana è protagonista a Hollywood: Rob Marshall, già premio Oscar per Chicago, gira ora l’adattamento cinematografico di Nine, il musical tratto dal racconto di Arthur Kopit e Mario Fratti scritto da Maury Yeston, ispirato al film di Federico Fellini 8 e mezzo. Il musical, messo in scena per la prima volta nel 1982 nel Richard Rodgers Theatre di New York, è una delle opere teatrali più premiate nella storia dei musical e il film è già il titolo cinematografico più atteso per il 2009. Merito anche del cast - Kate Hudson, Daniel Day-Lewis, Penélope Cruz, Judi Dench, Marion Cotillard e Nicole Kidman - ma anche una rappresentanza di attori italiani, prima tra tutti Sophia Loren, che interpreta la madre di Guido Contini (l’io narrante della storia). Riusciremo a esportare negli USA anche un po’ il mood della genuina provincia italiana, oltre che l’immagine stereotipata di «Gomorra»?

RIVISTA inverno.QXP

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BALLET

Music In  Inverno 2009

RICCARDO REIM L’intervista Solitamente seduce, oggi è sedotto. Da Mozart.

FESTIVAL DELL’EQUILIBRIO Quinta edizione Sbarcano a Roma i danzatori più equilibrati e si premiano gli emergenti

LA BELLA ADDORMENTATA NEL BOSCO Dormendo fa sognare

RICCARDO REIM, SEDUTTORE SEDOTTO Non si picca se sia ricca, se sia brutta, se sia bella... Don Giovanni oggi seduce anche l’eclettico autore, e lo lascia là rte a trecentosessanta gradi. Impresa ardua, quella di non perdere la A retta via, di non smarrirsi in un labirinto intricato di esperienze e di racconti e limitarsi all’argomento del giorno, quando ci si trova a dialogare con Riccardo Reim. È egli infatti un uomo affabile dal fascino sfacciato e dalla favella che ammalia. Si parte da un accenno al suo ultimo romanzo, Il tango delle Fate, per aprire una finestra sulla sua opera di curatore della raccolta di racconti truculenti Il cuore oscuro dell’Ottocento, per giungere al libretto scritto per Don Giovanni o il gioco di Narciso, il balletto con coreografia e regia di Mauro Astolfi creato per la Biennale di Venezia 2008 -sebbene riecheggino di continuo le sue esperienze di attore, regista, sceneggiatore, romanziere, saggista, traduttore. È stata un’innovazione illuminante, quella di ripristinare il rapporto tra coreografo e librettista così come era di norma nell’Ottocento. Il merito va al coreografo e al direttore generale del Balletto di Roma, rispettivamente Mario Piazza e Luciano Carratoni. Circa tre anni fa ho condiviso con Mario Piazza un viaggio in treno, diretti al set di un documentario-fiction per il quale ci siamo trovati a collaborare, e lì per la prima volta al mio compagno di viaggio è balenata l’idea. Al rientro a Roma ho ricevuto una sua telefonata. Stava lavorando allo Schiaccianoci. Stanco della «solita zuppa», delle versioni tradizionali che devotamente vengono proposte al pubblico durante le vacanze natalizie, mi ha fatto la proposta di scriverne il libretto. Si è trattato di un interessante tentativo per la produzione, innovazione appoggiata dal presidente e direttore artistico Walter Zappolini. Per me si è aperta una sfida eccitante. Mi sono trovato a contatto con un universo nuovo. Inizialmente ho avuto la sensazione di essere «orfano»: io vivo di parole e gioco con le parole; farne a meno, imparare le regole di un linguaggio a me sconosciuto, quello del corpo, ha fatto sì che il mio estro registico si esprimesse al meglio. Il risultato è stato eccellente: il debutto risale al 2006 presso il Teatro Quirino, lo scorso anno la replica al Teatro Italia (che conta circa 900 posti a sedere) e tra il 16 dicembre 2008 e il 6 gennaio 2009 è toccato al Teatro Italia. Ci sono i numeri a parlar chiaro: si è arrivati a contare trentamila spettatori. Ma l’esperienza per Riccardo Reim è andata avanti. Ha scritto il libretto per Coppelia, sempre per la coreografia di Mario Piazza, e con il Don Giovanni o il gioco di Narciso di Mauro Astolfi, in scena al Teatro Italia

tra il 4 e il 9 novembre 2008, è arrivato alla terza prova. Ha assistito allo spettacolo quasi ogni sera. Qui si danza sulle musiche di W. A. Mozart e V. Caracciolo, musiche originali di Luca Salvadori, scene e costumi di un’eccezionale Giuseppina Maurizi. Mauro Astolfi era piuttosto intimidito dall’idea del libretto. Egli ha colto perfettamente la psicologia di questo personaggio, Don Giovanni, uno e trino come Dio, che si scompone e ricompone di continuo, condannato a vivere in una condizione di perenne maledizione. Gli serviva una chiave di lettura intellettuale, che esaltasse la sua profonda intuizione. Abbiamo voluto mettere in scena il dramma del «burlador de Sevilla» di Tirso de Molina ispirandoci non tanto alla rilettura di Molière, quanto alle letture successive di Lorenzo Da Ponte, Goldoni, Puskin, Zorrilla sino ad arrivare a Lord Byron che lo trasforma in un «seduttore sedotto». Potremmo definirlo un personaggio masturbatorio, non a caso la sua ultima donna altri non sarà che se stesso; come Narciso, egli non può che amare se stesso. Egli è prigioniero entro un giardino recintato, al di fuori del quale non vi è nulla di interessante. È lo specchio della forte incapacità di donare e di donarsi. Non potendosi dare a chi si ama, si dona a chi si condanna. La coreografia è straordinaria, di una difficoltà assoluta. I metaforici specchi invadono fisicamente la scena, i ballerini si librano, rallentano i movimenti fino a sollevamenti millimetrici senza mai cadere nel ginnico (nella danza sempre in agguato). Alla Biennale di Venezia, per la quale l’opera è stata realizzata con prima assoluta il 28 e 29 giugno 2008, i giudizi sono stati molto controversi: alcuni lo hanno trovato troppo carico, troppi i costumi. Mauro Astolfi ha avuto l’intelligenza ed il coraggio, che pochissimi avrebbero trovato, di tagliare quindici minuti di balletto. Sono stati ridimensionati i tempi e i costumi: è il corpo a doversi vedere in ogni suo interstizio, per culminare nella spoliazione finale. C’è in scena una psicologia. Don Giovanni non è affatto uno sciupafemmine, e lo dice bene Lorenzo Da Ponte, il librettista di Mozart: «…Non si picca se sia ricca, se sia brutta, se sia bella ...»; in gergo moderno potremmo definirlo uno «spaghettaro del sesso». Don Giovanni è colui che non guarda all’altro, al soggetto, non ne è capace, riesce a visualizzare soltanto l’oggetto. Egli non ama nessuno, egli non sa donare. È tragicamente il dramma della solitudine dell’uomo contemporaneo. Cupo, funerario, senza scampo. a cura di Rossella Gaudenzi

PER BALLARE SERVE EQUILIBRIO È giunto alla quinta edizione il festival di Giorgio Barberio Corsetti e mette Febbraio in punta di piedi quilibrio è il festival del nuovo che irrompe e avanza nel mondo del balletto contemporaneo mondiale, giunto alla quinta edizione. La fucina delle idee, la mente creatrice, è quella di Giorgio Barberio Corsetti, infaticabile sperimentatore: regista, autore, attore consacrato a metà degli anni Ottanta dalla Biennale di Venezia e coronato dal 1999 al 2002 dall’assegnazione della direzione della Sezione Teatro della stessa Biennale. Egli ha dato vita ad un appuntamento che sta delineando ed affermando la propria personalità anno dopo anno; ha deliziato l’esigente pubblico romano e non solo con strepitose coreografie nel 2008 (dalla sperimentazione dell’artista canadese Marie Chouinard, al duo delle danzatrici Kettly Noël e Neilisiwe Xaba, alla produzione dei brasiliani Membros, passando attraverso il fiorentino Sieni, il collettivo belga Peeping Tom, Les SlovaKs, la danza indiana), pubblico che attende con curiosità la prossima, imminente programmazione. Sarà la performance di ogni singolo artista a far parlare di sé, tra il 6 e il 24 febbraio 2009. L’apertura del festival è stata affidata al geniale

E

coreografo sino americano Shen Wei, seguito dall’artista fiamminga Anne Teresa De Keersmaeker; di spicco la presenza del belga Alain Platel, tanto quanto quella dei coreografi di origini israeliane Guy e Roni. Le aspettative per la danza nostrana sono alte: i toscani Samuele Cardini e Marina Giovannini, vincitori del Premio Equilibrio 2007, presenteranno in prima assoluta la loro creazione. Così dopo il successo della prima edizione, risalente allo scorso anno, la Fondazione Musica per Roma proporrà nuovamente il Premio Equilibrio Roma per la danza contemporanea, nell’intento di sostegno e promozione degli artisti emergenti italiani. Verranno dapprima selezionati i dieci migliori gruppi, per designare poi il

di Rossella Gaudenzi vincitore finale che, con un contributo di ventimila euro, produrrà il proprio spettacolo e lo metterà in scena nel 2010. Infine, stage e masterclass tenute dagli artisti ospitati dalla rassegna per danzatori e coreografi professionisti.

a cura di ROSSELLA GAUDENZI

LA BELLA NEL BOSCO ADDORMENTATO U

na delle fiabe della tradizione europea più amate di sempre ritorna ad essere rappresentata in forma danzata. E cosa c’è di più appropriato del balletto classico per riproporre l’atmosfera impalpabile e fantastica di un capolavoro che ha segnato l’infanzia di ben più di tre generazioni? La Bella Addormentata nel Bosco (o secondo alcuni La Bella nel Bosco Addormentato, come sarebbe la giusta traduzione dal francese La Belle au bois dormant) viene ricordata soprattutto nella versione di Charles Perrault (ne I racconti di Mamma Oca, 1697), attraverso il celebre adattamento cinematografico Disney, La bella addormentata nel bosco (Sleeping Beauty, 1959) e il balletto di Pëtr Il’iã âajkovskij (la cui coreografia venne affidata a Marius Petipa) che ebbe la sua prima rappresentazione il 3 gennaio 1890 al Teatro Mariinskij di San Pietroburgo in Russia. Il successo fu immediato ma bisognerà aspettare il 1896 perché il bal-

letto giunga in italia, al Teatro alla Scala di Milano (l’allestimento milanese fu anche il primo allestimento ad essere eseguito al di fuori della scena pietroburghese). La prima romana risale al 1954 con la coreografia di Boris Romanov e gli interpreti Attilia Radice e Guido Lauri. Nello stesso anno il teatro ha ospitato la compagnia del Sadler’s Wells Ballet, che ha proposto la versione di Frederick Ashton con Margot Fonteyn nel ruolo di Aurora (versione che pochi mesi prima per la Scala aveva rappresentato la prima rappresentazione integrale). Nel 1965 quel ruolo fu ballato al Teatro dell’Opera da un’affascinante Carla Fracci, che nel 1983 sarebbe tornata accompagnata da Peter Schaufuss nel ruolo del Principe. La Belle au bois dormant è la protagonista al Teatro dell’Opera dal 10 al 22 febbraio insieme all’Orchestra e il Corpo di Ballo del Teatro e la partecipazione degli allievi della Scuola di Danza del Teatro dell’Opera diretta da Paola Jorio. Il balletto, composto di un prologo e tre atti, vede Paul Chalmer come coreografo, Marzio Conti alla direzione ed Aldo Buti alla cura delle scene e dei costumi. Valentina Giosa

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CLASSICA MENTE a cura di FLAVIO FABBRI

PROTESTA Delia Palmieri e Mathieu Muglioni L’Italia destina allo spettacolo solo lo 0,17% del Pil.

Music In  Inverno 2009

«PIANO NOTES» di Charles Rosen. Recensione. Josef Hofmann aveva una mano così piccola che non riusciva a prendere più di un’ottava, Glenn Gould si sedeva sul pavimento, mentre Arthur Rubinstein lo suonava in piedi il pianoforte.

OPERAI ALL’OPERA (MA NON ALL’OPERÀ) L’Italia dei tagli alla cultura si confronta con la realtà francese: Delia Palmieri vs Mathieu Muglioni

A

dicembre gli artisti del Maggio Musicale Fiorentino, una delle Istituzioni musicali più prestigiose a livello internazionale, hanno protestato contro il taglio del Fus, il Fondo Unico dello Spettacolo, deciso dall’attuale governo. Tagli pesantissimi, del 30%. I musicisti si sono esibiti fuori dal teatro in spettacoli gratuiti e partecipati (per la Nona sinfonia in Re minore di Beethoven al Mandela Forum c’erano 8.000 spettatori). L’Italia destina allo spettacolo solo lo 0,17% del Prodotto Interno Lordo, e tale cifra va diminuendo, mettendo a repentaglio il lavoro di migliaia di artisti; il Paese di Giuseppe Verdi, Giacomo Puccini, Gioachino Rossini, Luciano Berio e Ennio Morricone, per i finanziamenti allo spettacolo è dietro alla Grecia e ben lontana dalla Francia (che invece spende l’1%). Abbiamo parlato con due cantanti d’opera: Delia Palmieri, 44 anni, apprezzata e infaticabile soprano, corista «aggiunto» presso il Maggio Musicale Fiorentino e Mathieu Muglioni, 31 anni, giovane e promettente tenore francese. A che età hai cominciato a studiare musica? Delia. A 10 anni frequentando i corsi di solfeggio e pianoforte Mathieu. A 6 anni ho cominciato violino, mentre il canto molto tardi: avevo 20 anni. In strutture pubbliche? Delia. Dopo un primo anno in conservatorio, ho studiato privatamente: lo studio del canto richiede il confronto con metodi di insegnamen-

to diversi. Inoltre ho fatto stages all’estero anche per imparare le lingue. Mathieu. Da bambino ho studiato violino con un maestro privato e solfeggio presso un’associazione, ma già a 12 anni mi sono iscritto a una scuola pubblica. Ho sempre studiato in scuole pubbliche ma ho seguito anche corsi privati per approfondire e confrontarmi con altri professori. Ritieni che siano sufficienti le strutture pubbliche per la formazione musicale? Delia. In Italia la musica non si studia nelle scuole dell’obbligo ma solo in scuole apposite, e queste hanno luoghi inadeguati, pochi strumenti disponibili, insegnanti non formati. La durata delle lezioni poi è davvero insufficiente. Mathieu. In Francia ci sono molte scuole di musica pubbliche: comunali, provinciali, regionali, nazionali. Alle medie e al liceo abbiamo anche la fortuna di avere classi con «orari adattati» all’esigenza di chi studia musica A che età hai affrontato il primo concerto? Delia. Il primo vero concerto a 25 anni, ma per il primo ruolo da protagonista sono passati anni. Mathieu. Il mio debutto è avvenuto nel corso del primo anno di studi nella classe del mio maestro. Ero Ardimedon in un’operetta di Christiné. Hai mai debuttato da solista in un teatro di una certa rilevanza anche internazionale? Delia. Ho cantato con ruolo da solista all’Accademia Chigiana di Siena (diretta da Vlad), al Lingotto di Torino, diretta da Jeffrey Tate e per le celebrazioni dei 400 anni del

Melodramma. Da corista, invece, in tutto il mondo, sempre in luoghi prestigiosi. Mathieu. Ho cantato al Teatro Imperiale di Compiègne e al Centro lirico di Auvergne. A febbraio 2010 canterò nei Briganti di Jacques Offenbach, nel Gran Teatro di Limoges. Ricevi cachet che ritieni equi? Delia. Come corista è equo: uno stipendio da impiegato, per un lavoro che comunque è quotidiano e usurante: affrontando stili diversi rischiamo di vanificare anni di studio e di tecnica vocale. Quando capita e riesco a ottenere il permesso dal Teatro, mi esibisco anche in recital personali o con il Trio Mila; allora dipende: in genere ricevo un compenso, a volte solo un rimborso spese. Mathieu. Guadagno più delle spese! Anche se il cachet non sempre è formidabile. Hai o hai avuto un contratto stabile con qualche ente lirico, qualche teatro? Delia. Stabile mai. Ho avuto invece contratti di collaborazione col Teatro di Cagliari e ora con il Maggio, che mi sta confermando come corista aggiunto, anno dopo anno, da 6 anni (per i primi tre, ogni anno la conferma era comunque subordinata al superamento di un’audizione). Mathieu. Sì, ho cantato 4 anni nel coro dell’Esercito Francese. Lì, avendo un contratto di «impiego giovani» (come ce ne sono tanti in Francia) si può cantare al massimo per 5 anni, ma l’ultimo anno ho preso un congedo di formazione e l’Esercito mi ha pagato un corso in Italia.

PIANO MIO, PERCHÉ TI AMO? Un

libro scritto più sull’esperienza di suonare il pianoforte che sulle caratteristiche tecniche dello strumento: è quello di Charles Rosen, Piano notes. Non un manuale da scuola di musica, ma una storia d’amore che vede l’uomo in perenne conflitto passionale con l’oggetto del desiderio, il pianoforte, uno tra i più diffusi, versatili e in quanto amante, incompreso strumento: «Quello che mi ha interessato più di tutto è il rapporto tra l’atto fisico del suonare e quello degli aspetti della musica generalmente considerati più intellettuali, spirituali ed emozionali». Charles Rosen, uno dei massimi pianisti e musicologi del mondo, cerca di

spiegare i motivi per i quali alcuni di noi suonano il pianoforte invece che il violino, piuttosto che la chitarra, per poi cercare di capire come rapportarsi all’eterno terzo specchio dell’artista: il pubblico. Attraverso un’analisi lucida e allo stesso tempo dettata dal bisogno di raccontare questo sentimento d’amore verso il suo piano, Rosen affronta uno dopo l’altro i maggiori problemi, gli aspetti meno noti e i grandi miti da sfatare della vita e del mestiere di pianista: il rapporto fisico intensissimo che lega il musicista allo strumento e quello tra virtuosismo ed espressività, il problema del suono e del timbro, i pregi e i difetti della meccanica, l’esecuzione in pubblico e i suoi trabocchetti, gli studi in conservatorio, splendori e miserie dei concorsi pianistici, l’avvenire della musica per pianoforte. Leggero, ricco di aneddoti, citazioni e storie di una vita vissuta al piano: «Josef Hofmann aveva una mano così piccola che non riusciva a prendere più di un’ottava, Glenn Gould si sedeva sul pavimento, mentre Arthur Rubinstein lo suonava in piedi il pianoforte». Suonare il piano è avere un rapporto fisico, è fare sport: «Il modo con cui si sta seduti al pianoforte ha influenzato la musica scritta dai compositori,

di Nicola Cirillo

di Flavio Fabbri

oltre all’esecuzione», un modo a dir poco originale di rapportarsi a uno strumento, quasi rovesciandone la sostanza nella forma e viceversa, scambiando i tasti neri con i bianchi, che Rosen propone gettando un fascio di luce inaspettata su un territorio in parte inesplorato. La forza del libro di Rosen non è solo quella di stimolare nel lettore, musicista o semplice appassionato che sia, la riflessione critica su una grandiosa tradizione culturale e musicale, ma di farlo attraverso una solida passione e un contagioso buonumore. La musica è fatta di note e di movimenti, il primo suono dell’umanità è stato sicuramente accompagnato da un passo di danza e forse da un verso: «La musica è tanto gestualità quanto suono». Il rapporto tra l’esecuzione musicale e il suono è complesso e ambiguo, afferma Rosen, bisogna allora capire la particolare natura della produzione della sonorità pianistica, se si vuole capire la storia della musica in Europa e in America dal 1750 a oggi: « Se ci saranno ancora pianisti nel XXII secolo ci sarà anche un pubblico disposto ad ascoltarli, ma è il piacere fisico del suonare e dell’ascoltare il pianoforte che custodisce le chiavi del futuro della musica scritta per questo strumento».

IL PIANO ‘FELIX’ DI ROBERTO PROSSEDA cclamato come il più grande interprete dell’opera di Felix Mendelssohn, tra i pianisti di più giovane generazione, Roberto Prosseda ha regalato una serata indimenticabile all’Auditorium Parco della Musica, per presentare il suo nuovo lavoro: un doppio cd con la registrazione completa dei ‘Lieder ohne Worte’ (traducibile come ‘Canzoni senza parole’) del compositore tedesco, arricchendo la produzione mendelssohniana con degli inediti assoluti da Prosseda ritrovati in esclusive biblioteche musicali disseminate tra Europa e America. Otto volumi scritti dal compositore tedesco tra il 1830 e il 1845 di sei composizioni ciascuno. Pianista, compositore, interprete tra i più amati di Mendelssohn è stato spinto dalla sua passione per la musicologia alla realizzazione di un lavoro intensissimo che, oltre le 48 romanze già conosciute, comprende otto nuove incisioni mai eseguite fino ad oggi, completando così il quadro dell’intensa produzione mendelssohniana dedicata a questo genere da camera. La sua fama di ricercatore, oltre che di esecutore, lo ha visto guadagnare una notorietà

a

mondiale di tutto rispetto, conquistando recensioni favorevoli sulle pagine delle più autorevoli riviste di settore, tra cui: American Record Guide, Fanfare, Diapason, Fono Forum, Amadeus e molte altre. La serata è stata un omaggio a Mendelssohn nel bicentenario della nascita, con un recital monografico alternato ad altri autori secondo una particolare logica musicale (Mendelssohn-Chopin, MendelssohnHaydn, Mendelssohn e autori del Novecento, Mendelssohn-Bach). Nel 2010, inoltre, Prosseda dedicherà un’analoga attenzione ad altri due grandissimi compositori, Robert Schumann e Fryderyk Franciszek Chopin, di cui cadrà il 200mo anniversario della nascita. Flavio Fabbri

Ricevi un sussidio dallo Stato per la tua inattività? Delia. Non esiste alcuna forma di sussidio in campo solistico. Esiste un’indennità (tramite l’Inps) riguardante i periodi in cui non ho contratto come corista. Mathieu. Sì. In Francia se un artista lavora abbastanza durante un periodo, ha diritto a un sussidio dallo Stato durante il periodo successivo se non è occupato. Il sussidio è mensile e calcolato sulla base degli stipendi precedenti. Attualmente vivi del solo lavoro musicale? Delia. Sì, ma solo da pochi anni. È una situazione molto instabile, perché non so se e quando lavorerò. Ad alcuni colleghi scade il contratto proprio questo mese, e non avranno il rinnovo. A me scade a luglio. Un altro mio collega, invece, ha fatto un concorso all’Operà di Parigi e lo hanno preso stabilmente: si trasferirà lì con tutta la famiglia. Qui concorsi per soprani stabili non ne fanno da anni. M. Sì, anche se il futuro non è sicuro. Ma dobbiamo mantenere fiducia nell’arte, sennò a che serve fare questo «mestier»?

UN PIANO A BRANDELLI Esempio di musicista poliglotta è Antonio Ballista, artista dall’ascolto vasto e lontano dai cliché dell’ortodossia ‘classica’. Curioso e insofferente verso ogni convenzione e routine, ha rivolto il proprio interesse ai molti linguaggi della musica: il jazz, la classica e in questo caso il Ragtime. L’appuntamento, organizzato dall’Accademia Filarmonica Romana per il ciclo "Sunday Morning, ha proposto allo spettatore un ‘piano a brandelli’, ‘Ragtime’, del tutto inconsueto e per questo da non perdere, con la possibilità di ascoltare dal vivo brani storici di Scott Joplin, James S. Scott e Robert Hampton. Una vera e propria rarità nelle sale da concerto, nonostante la musica Ragtime sia stata resa famosa anche dal cinema, in lungometraggi celeberrimi come La stangata (1973), Ragtime (1981) e La leggenda del pianista sull’oceano (1999). Questo genere di musica è da molti considerato il padre spirituale del jazz e fu un genere tipicamente pianistico che andò pian piano scomparendo intorno gli anni 20 del Novecento. Tempo stracciato, a brandelli, potrebbe essere tradotto il termine Ragtime, musica ‘nera’ del profondo Sud americano, le cui note erano diffusissime già dalla seconda metà del XIX secolo e tornata poi improvvisamente in auge dopo cinquant’anni di oblio nel 1970, per un decennio circa. Di Artie Matthews, Ferdinand Jelly, Roll Morton, Claude Debussy, Igor Stravinskij, e Paul Hindemith le altre musiche proposte dall’originale repertorio di Antonio Ballista. Flavio Fabbri

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YOUTUBE SYMPHONY ORCHESTRAA New York Democraticizzazione della musica? O commercializzazione della classica? Eppur basta mettersi a suonare un brano originale di Tan Dun di fronte a una web-cam, dimostrare capacità e competenze tecniche e inviare il tutto a YouTube per essere in lista per il Carnegie Hall di New York. Ma fuori dal web, siamo tigri o dragoni?  CONTINUA DALLA PRIMA PAGINA

DI

FLAVIO FABBRI

YOUTUBE STATE OF MIND Da YouTube al Carnegie Hall, la strada della musica classica a una svolta? Siamo tutti «eroici» come Tan Dun?

(...)

Basta mettersi a suonare di fronte a una videocamera o meglio ancora (fa molto web 2.0) davanti una web-cam, dimostrare le proprie capacità e competenze tecniche e inviare il tutto a YouTube. Si, proprio il popolare sito per la condivisione di video più utilizzato al mondo, stavolta protagonista della YouTube Symphony Orchestra. Il materiale spedito permette di partecipare a questo speciale evento tra web e mondo della musica classica, che per una volta sembra aver davvero deciso di aprire le sue porte all’innovazione e alla sperimentazione. Seguendo le istruzioni si legge (e si ascolta) che i video devono essere realizzati interpretando un brano originale del celebre compositore cinese Tan Dun e, in aggiunta, eseguendo una performance più tecnica in cui mettere in risalto le abilità proprie del candidato. Tali video verranno poi esaminati da una giuria di esperti provenienti dalle più rinomate orchestre del mondo, tra cui quelle di Londra, Berlino, Hong Kong, Sydney e New York, prima delle semifinali dove i materiali saranno giudicati dal pubblico stesso di YouTube. Democraticizzazione della musica? È questo l’intento dell’esperimento? O più un’operazione di commercializzazione, in un processo dall’alto verso il basso, dell’elitaria produzione dell’universo classico? Qualcuno penserà che il video, come tante altre piattaforme tecnologiche o mezzi di comunicazione, non sia

poi così neutrale, riuscendo ad amplificare o a rendere godibili, in modo finzionale, performance altrimenti mediocri. A guardar bene, però, non è proprio così. La tecnologia aiuta, amplifica e diffonde (popolarizzando), certo, ma è la capacità del singolo, la sua forza comunicativa, la passione per l’arte e la competenza tecnica a determinare il successo o meno di una performance. Un occhio esperto riesce a vedere, scrutare, anche in un video e quindi valutare la preparazione e le potenzialità di un allievo. Il web sarà sempre più indispensabile in tal senso, mettendo a disposizione della formazione dell’artista le edizioni originali, nonché tutte le partiture delle opere di ogni singolo compositore, poiché ci sono opere che non sono mai state pubblicate e che magari possono far parte del bagaglio culturale di un musicista. Opere, questa è la preoccupazione più grande, che al momento, mentre discutiamo sulla qualità o meno di un video o di una performance, rischiano d’esser dimenticate o peggio perdute. Ma di una cosa si può star certi: la musica non si fa con Internet. Si può imparare a leggerla e a scriverla, ma non a suonarla ‘in rete’. Questo c’è da tenerlo a conto. La cosiddetta pratica, il rapporto con gli strumenti e con il proprio insegnante, si può fare solo in un preciso modo, in un preciso momento, con un proprio linguaggio e interpretazione che non sarà mai quella di altri ‘visti da remoto’. La scuola in questo non è al momento sostituibile. Tornando on-line, una pagina apposita su YouTube ha presentato l’evento utilizzando un video-comunicato in cui il Maestro Tan Dun (compositore premiato con l’Oscar per le musiche del film La tigre e il dragone nel 2001) invita tutti i musicisti della rete a non lasciarsi scappare questa occasione. Perché, se pure tanti ‘puristi’ della classica sgraneranno gli occhi di fronte a tanta sfrontatezza, non si può ignorare la portata mondiale, anzi, globale, che ha avuto tale operazione denominata YouTube Symphony Orchestra, l’orchestra sinfonica di YouTube. Il Maestro Dun, sostenendo appieno l’idea e la forza propulsiva di un ‘palco virtuale’ su cui esibirsi, ha scritto appositamente una nuova composizione dal titolo Internet Symphony N° 1, Eroica (parte di una composizione più grande 21st Century Sound), già disponibile in versione video on demand, con l’accompagnamento della London Symphony Orchestra, sul network di YouTube. A prove terminate e scrutini conclusi i vincitori del concorso voleranno a New York per una tre giorni con il direttore della San Francisco Symphony, Michael Tilson Thomas, il pianista cine-

se Lang Lang ed altri importanti musicisti, per un concerto che si terrà il 15 aprile 2009 al Carnegie Hall. Qui, nel teatro di New York considerato tra i luoghi più sacri della musica classica mondiale, costruito nel 1890 da Andrew Carnegie e che oggi propone più di cento spettacoli a stagione, i fortunati utenti del web si ritroveranno su un palco reale, a contatto fisico col pubblico. Da notare inoltre che la Carnegie da diversi anni non ha un’orchestra stabile e la YouTube Orchestra potrebbe così trovare una sua straordinaria collocazione ‘off-line’. L’evento è inserito in un programma che lo stesso M.T. Thomas ha definito eccezionalmente importante, perché permette a livello planetario di pro-muovere milioni di musicisti e le loro opere, aprendo la strada a un futuro diverso per questo genere così ‘tradizionale’ e che, in futuro, potrebbe rappresentare anche una risorsa da non sottovalutare sia per la salvaguardia del grande repertorio classico, sia per la sperimentazione e la nascita delle nuove avanguardie di giovani musicisti. Non bisogna dimenticare che oggi è grazie alla rete che molti allievi e aspiranti tali sparsi per il mondo possono sentire e vedere grandi compositori e interpreti all’esecuzione, riuscendo così non solo a goderne dei piaceri musicali generati, ma a captarne anche un minimo di insegnamento tecnico. Per tre giorni i fortunati musicisti emersi dal web lavoreranno inoltre con Thomas in una grande prova d’orchestra. Nel frattempo i tecnici di YouTube prepareranno un’esecuzione virtuale dell’Eroica di Tan Dun, (sinfonia, in quattro movimenti, della durata di 5 minuti e 20 secondi) in un mash-up di contenuti video e audio ottenuto unendo (ma sarebbe più indicato dire montando o combinando) i brani mandati dai vincitori e le riprese live dalla Carnegie Hall. Tan Dun ha definito l’operazione The YouTube Symphony Orchestra, come una «silk road of dream», la via della seta e dei sogni del XXI secolo, leggendaria strada che già 1600 anni fa univa come in un sogno la città cinese di Xian a Roma, passando per India, Persia, Arabia e Grecia e che non solo permetteva importantissimi commerci, ma che concettualmente univa e culturalmente contaminava popoli tra loro lontanissimi, per distanza geografiche, lingue e tradizioni storiche. Internet, nella fattispecie YouTube, è oggi l’equivalente di una lunga strada dei sogni che incrocia tante altre vie della seta odierne, con le loro carovane cariche di tesori ancora tutti da scoprire, e che ad aprile porterà un gruppo di musicisti alla Carnegie Hall e alla realizzazione di un sogno.

GONFALONE TRA SOGNO E FOLLIA cicli pittorici che affrescano l’Oratorio del Gonfalone fanno da sfondo al consueto appuntamento con il Coro polifonico romano. Grazie all’ambientazione suggestiva e alla programmazione musicale, la 59a stagione del Gonfalone, rimanendo fedele al repertorio settecentesco, ci consente di fare un salto nell’Italia barocca di Giovanni Battista Pergolesi e Domenico Scarlatti. Dei venti appuntamenti proposti dal Maestro Angelo Persichilli, due sono dedicati al compositore jesino. Dopo La serva padrona (la Serpina del titolo), che ha aperto la stagione il 20 novembre scorso, musica di Pergolesi anche a Pasqua, con l’esecuzione dello Stabat Mater da parte dell’Orchestra Tartini, composizione sacra

I

che l’aneddotica vuole sia stata conclusa nell’ultimo giorno di vita del compositore ventiseienne nel convento dei Cappuccini di Pozzuoli. Insolito e originale il concerto del 5 marzo che metterà in scena momenti e personaggi della vita spagnola del compositore Domenico Scarlatti: ne La camera della regina danze e ritmi spagnoleggianti con un clavicembalista, un attore e una ballerina di flamenco. Viaggio nel barocco europeo il 19 febbraio con Il sogno e la follia. Tra i brani eseguiti dall’Ensemble Il ricercar continuo, la Sonata per violino e clavicembalo di Johann Sebastian Bach. L’Ensemble del Gonfalone sarà protagonista dell’appuntamento del 12 marzo: omaggio al compositore austriaco F. J. Haydn, con i suoi

di Livia Zanichelli

Notturni per lira organizzata dedicati al re di Napoli Ferdinando IV. Per rimanere in argomento mecenatismo, fu un tema scelto dal re di Prussia, Federico il Grande, a dare il via alla composizione dell’Offerta musicale di Bach, le cui note, eseguite dall’Ensemble Nuovo Contrappunto, saranno accompagnate il 26 marzo dalla lettura di brani tratti dal Paradiso dantesco. Fuori dal repertorio classico gli eventi del 26 febbraio, concerto La canzone romana, eseguito dall’ensemble Alma latina e del 21 maggio, affidato all’Orchestra Tartini che eseguirà in chiusura di stagione insieme a Mario Stefano Pietrodarchi il concerto per bandoneon e orchestra di Astor Piazzolla.

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SOUND tracking a cura di ROBERTA MASTRUZZI

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PATRICE LECONTE L’intervista Voglio alzarmi da tavola quando ho ancora fame

ANGELO BADALAMENTI E DAVID LYNCH Il sodalizio Misteriosi, estranianti, estremi. Sono i pini gemelli del cinema.

MEDFILM FESTIVAL Promuove il multiculturalismo ed il cinema è bagnato dal Mare Nostrum

LECONTE IL MIO MIGLIOR AMICO L’amicizia è come l’amore, ma è più difficile da raccontare. Perché l’amore si dichiara, l’amicizia no. a cura di Roberta Mastruzzi

«L’

attenzione è l’essenza dell’amicizia». In Italia per partecipare al Festival Teranova, rassegna multiculturale di cinema, poesia, fotografia e musica, Patrice Leconte, regista francese di estrema grazia e sensibilità, incontra il pubblico italiano e, come in un suo film, questo incontro si trasforma in un piacevole scambio di idee sui sentimenti e le passioni che animano la vita di ognuno di noi e che spesso, per pudore o diffidenza, nascondiamo agli altri. L’atmosfera è calda e rassicurante: Leconte, aiutato dal suono morbido della lingua francese e dalla lieve ironia che accompagna il suo sguardo, sembra assomigliare alle sue opere, in cui con semplicità e leggerezza cerca di indagare su quel mistero profondo che caratterizza le relazioni tra esseri umani. A cominciare dall’amicizia, sentimento universale spesso trascurato dal grande schermo, che Leconte racconta in Il mio migliore amico, il film uscito nelle sale ormai due anni fa, che ha avuto un grande successo nei cinema europei. «Sono sempre stato scettico nei confronti dell’amicizia: il bisogno di mostrare agli altri di avere molti amici, nasconde in realtà il fatto che forse non ne abbiamo. Il successo de ‘Il mio miglior amico’ mi ha dimostrato quanto l’amicizia sia un valore universale a volte difficile da raggiungere. Da quando è uscito questo film tutti mi domandano la stessa cosa - cos’è l’amicizia? - come se io fossi un esperto, ma in realtà sono solo un regista. Non sono un professionista dell’amicizia, sono un autodidatta». Sorride, e chi ha visto e amato i suoi film non può fare a meno di sorridere con lui, pensando a quante volte nei suoi racconti la telecamera si

è soffermata su uno sguardo tra due sconosciuti che grazie a un incontro casuale colmano le loro solitudini, come in L’uomo del treno o Tandem. A volte l’incontro si è trasformato in una storia d’amore, come in La ragazza sul ponte, splendido bianco e nero con Vanessa Paradis e Daniel Auteuil, o in Confidenze troppo intime, storia di un’intimità che nasce prima nello spirito che nella carne. Sembra difficile credergli quando dice di non essere un esperto, lui che con i suoi film è riuscito a colmare anche la nostra di solitudine. Ma si fa perdonare quando dice: «L’amicizia è come l’amore, ma è più difficile da raccontare perché l’amore si dichiara, l’amicizia no: non si dice mai ad un’altra persona ‘tu sei mio amico’. È un sentimento sfuggente, perché difficile da definire: l’esatto contrario del fregarsene. È attenzione. È qualcosa che nasce spontaneo dentro di noi ma che poi deve essere corrisposto, altrimenti non ha senso. Perché un amore che finisce è devastante, ma il tradimento di un amico è ancora peggio». Sorride di nuovo, un sorriso più amaro questa volta. Una piccola pausa e subito arriva la parola di conforto: «Oggi grazie alla tecnologia si comunica moltissimo, talmente tanto che ci si dimentica di abbracciare le persone care. Non sto dicendo che era meglio prima, non ho nostalgia per il passato. Ma il mio consiglio è di mettere da parte il computer e fare come me: abbracciare». Confida poi che gli piacerebbe scrivere un film sull’amicizia tra un uomo e una donna perché «sarebbe una storia meravigliosa». E il suo sorriso ora ha una sfumatura più dolce.

PINI GEMELLI di Roberta Mastruzzi no dei più celebri sodalizi artistici nel mondo cinematografico è quello tra il regista David Lynch e il compositore Angelo Badalamenti, una collaborazione talmente solida da non riuscire a distinguere nel risultato finale il contributo dell’uno o dell’altro. Dal 1986 ad oggi, da Velluto Blu fino ad Inland Empire, le opere di Lynch sono state accompagnate dalla musica di Badalamenti - che in alcuni casi è anche comparso in piccoli ruoli, ma questa è un’altra storia.

U

Al Film Festival di Ghent, cittadina belga che ogni anno dedica un’interessante manifestazione alla musica da film in un’atmosfera molto lontana dai riflettori di Cannes o Venezia, è stato consegnato al compositore newyorchese di origini italiane il Premio alla carriera. Il suo lungo curriculum cinematografico comprende collaborazioni con registi come Jane Campion (Holy Smoke), Mark Pellington (Arlington Road) e Danny Boyle (The Beach), ma è sicuramente con le opere di Lynch che il suo lavoro tocca l’apice della fusione tra musica e immagini. L’incontro tra i due avviene sul set di Velluto Blu, dove il compositore, poco conosciuto, è chiamato per aiutare la protagonista Isabella Rossellini ad interpretare un brano. Il risultato è talmente convincente che Lynch decide di affidare a lui la composizione dell’intera colonna sonora. Poi, da Cuore selvaggio a Fuoco cammina con me fino a Strade perdute, Badalamenti coglie alla perfezione il senso di mistero ed estraniamento che avvolge il mondo lynchiano, universo enigmatico e labirinto di storie che s’intrecciano e si moltiplicano senza soluzione finale né un punto d’arrivo. In una struttura complessa, dove ogni dettaglio è un indizio e ogni indizio è ulteriore enigma, nulla è lasciato al caso. Il controllo del regista su ogni elemento della

scena, ogni parola, ogni suono è totale: la musica non è sottofondo ma essa stessa sceneggiatura. Ciò è reso possibile anche dal metodo particolare con cui Lynch e Badalamenti si mettono al lavoro, quasi una jam session. Lynch comincia a raccontare una storia, descrivendo il paesaggio e l’atmosfera delle prime immagini e Badalamenti improvvisa un tema e sulle note di questo il regista continua ad aggiungere elementi alla scena e ad immaginare i futuri sviluppi della storia. È andata così anche per Twin Peaks, il serial Tv più amato e discusso degli anni Novanta Lynch è così, o si ama o si odia - la cui storia parte da un omicidio per arrivare a denunciare l’ipocrisia strisciante di una «tranquilla» cittadina di provincia e scoprire che l’apparenza inganna ma anche la realtà non scherza. Una storia intrecciata ad altre storie, un senso di inquietudine che cerca una soluzione e una risposta che non arriverà mai. Tutto questo è suggerito dalla colonna sonora che intreccia temi che si ripetono e si confondono l’uno con l’altro. Bella da ascoltare senza immagini - ne sono state vendute più di tre milioni di copie in tutto il mondo - la musica creata per Laura Palmer è però impossibile da concepire senza pensare anche al genio artistico di Lynch che ha saputo creare e far amare al pubblico un prodotto decisamente al di fuori dei classici standard da telefilm americano. Anche quando si tratta di scrivere le musiche per quello che sarà un film totalmente diverso dai precedenti, Una storia vera - lo stesso Lynch ironicamente lo definisce il suo film più sperimentale, perché questa volta la trama segue un percorso lineare -- il compositore riesce ad interpretare fedelmente il mood del film. Una linea melodica semplice e un suono dal sapore country accompagnano il viaggio attraverso l’America di Alvin Straight a bordo di un trattore, nella splendida cornice offerta da una natura selvaggia. Una sosta, una boccata di aria fresca nell’universo di Lynch che presto ritornerà con Mulholland Drive ad atmosfere più cupe e misteriose. Anche qui la colonna sonora è parte integrante della sceneggiatura. E se la prima parte del film sembra prendere una piega romantica, nel commento sonoro si intuisce già un senso di inquietudine, un indizio sul dramma che sta per compiersi: il tragico risveglio alla cruda realtà. «No hay banda! Non c’è una banda! Eppure possiamo sentire lo stesso il suono di un clarinetto… o di un trombone… è tutto un’illusione!»: ancora una volta, non ci sarà dato sapere dove finisce il sogno e dove comincia il reale.

Leconte, che ha iniziato a lavorare nel cinema all’età di quattordici anni e ha conquistato la popolarità negli anni novanta grazie a Il marito della parrucchiera, conferma la sua volontà di girare altri tre film. E poi basta, per lasciare spazio agli altri. «Voglio alzarmi da tavola quando ho ancora fame». E quasi per giustificarsi racconta di una volta in cui un giornalista ha chiesto a Mario Monicelli, «Lei cosa fa per aiutare i giovani registi?», e lui rispose: «Invecchio!». Uno dei suoi ultimi tre film è La guerre des miss, presentato in Francia proprio in questi giorni. E come ultimo desiderio, confessa di voler realizzare un film musicale. «Non un musical ma un film in cui la musica sia la vera protagonista in tutte le sue forme espressive». Un esperimento che il regista ha già realizzato con Dogora, documentario musicale ambientato in Cambogia, un film fatto solo di musica e immagini. Difficile da spiegare ma immediato da capire. Non c’è bisogno di traduzione e doppiaggio, perché in questo caso è la musica a parlare e, come è noto, il suo linguaggio è universale e accessibile a tutti. «Un film è fatto perché piaccia a chi lo vede». Con sincerità Leconte ammette: «Se il pubblico non lo capisce è colpa mia. E quand’è così mi vergogno di aver utilizzato soldi, attori e energie». Altrettanto sinceramente dice che la domanda più difficile che si possa fare a un regista è chiedergli perché fa cinema. Per spiegarlo racconta

una storia. Una volta Wim Wenders rispose così a una domanda simile: «Io faccio film per rendere il mondo migliore». Leconte confessa di essere caduto dalla sedia appena ha sentito la risposta e di aver pensato: «Ma chi si crede di essere questo!», poi ha riflettuto tutta la notte e la mattina dopo ha dovuto ammettere che Wenders aveva ragione. Non si cambia certo il mondo con un film, ma lo si può «portare un po’ più in alto». E da quel giorno ha sempre un sogno: che le persone diventino migliori guardando i suoi film. «Beh, sicuramente non peggiori, spero!». E così si congeda e si dilegua in un attimo. È atteso all’ambasciata di Francia dove riceverà il premio Teranova per il cinema. Ci saranno ad attenderlo centinaia di invitati e mani da stringere, complimenti e sorrisi, giornalisti e fotografi. Quanto di più lontano ci possa essere dai suoi film, fatti di molte parole e gesti appena accennati, con un punto che li accomuna tutti: la voglia di raccontare quel piccolo miracolo che si compie ogni volta che due estranei si incontrano e si riconoscono.

SBARCA IN TURCHIA IL MEDFILM FESTIVAL Bisogna guardare al Mediterraneo e a quella fetta di mondo che fa crescere il cinema con serenità di Alessandra Fabbretti è conclusa la prima edizione del Si MedFilm Festival in Turchia, che oltre ad essere stato il Paese d’onore della rassegna romana di quest’anno è divenuto anche luogo d’accoglienza e pretesto per un evento tutto dedicato al cinema italiano, che si prevede proseguirà negli anni a venire. Il MedFilm Festival ha aperto i battenti nel 1995 con lo scopo di riassumere in sé il meglio del cinema bagnato dal Mare Nostrum e un unico obiettivo: promuovere il multiculturalismo. «Bisogna guardare al Mediterraneo, il nostro futuro prossimo, aderendo con serenità al corso della storia, per mutare profondamente l’approccio con una fetta di mondo oggi partner imprescindibile dello sviluppo economico-culturale dell’intera area euro-mediterranea», ha spiegato Ginella Vacca, presidente del MedFilm. Già in Italia avevamo avuto il piacere di assistere alle proiezioni provenienti da numerose nazioni europee e non, tra cui Iran, Algeria, Palestina, Marocco, Israele. Alcune divertenti e leggere, altre dai temi forti e impegnati, come quella del palestinese Masharawi di Eid Milad Leyla, vincitore del Premio «Amore e Psiche», che propone la giornata-tipo di un tassista di Ramallah costretto ad affrontare svariate peripezie (in cui ritroviamo Mohammad Bakri, la cui interpretazione meriterebbe un più lungo commento); oppure Hassan wa Marqos di Ramy Imam, che tratta con ironia e un pizzico di humour la questione dell’intolleranza religiosa in Egitto e ci offre un Omar El Sharif ancora abile e capace davanti alla macchina da presa. Forte anche il tema della ricerca di una patria e della propria identità in Française (coproduzione Francia-Marocco, di Souad El Bouhati) e nell’iraniano Seh Zan (Tre Donne, di Manijeh Hekmat), le cui trame sono rese più particolari dalla forte presenza di donne-protagoniste, le

quali cercano con coraggio di volgere la situazione a loro favore. Le offerte cinematografiche italiane per la Turchia non sono state da meno: con una scelta di 35 proiezioni (comprendenti 10 lungometraggi inediti per il Paese, e vari documentari e corti) realizzate tra il 2007 e il 2008, il pubblico di Istanbul non è certamente rimasto deluso. Tutta la vita davanti di Paolo Virzì ha fatto da apripista all’evento, un abile gioco di luciombre sul precariato in Italia, per proseguire con Il mio peggior nemico che porta la firma di Carlo Verdone, commedia esilarante che vuole anche far riflettere sui conflitti generazionali. E poi Signorina Effe di Wilma Labate, propone una delle vicende più importanti del nostro Paese, quella degli scontri tra un colosso industriale, la Fiat, e la classe operaia che reagirà con uno sciopero dalle conseguenze politiche e sociali considerevoli; Notturno bus di Davide Marengo, noir italiano dal sapore beffardo; La ragazza del lago, di Andrea Molaioli, giallo che vuol descrivere il disagio esistenziale e riadatta in versione «nostrana» il romanzo della scrittrice norvegese Karin Fossum. L’Italia, con i suoi pregi e le sue pecche, i suoi volti e la sua storia, è la grande protagonista di questa rassegna. Tuttavia alcune proposte volgono lo sguardo ad altre realtà: i bambini di strada di Bucarest di Casa mia (di Debora Scarpetti) e quelli della periferia di Nairobi che interpretano Pinocchio Nero (di Angelo Loy), sono documentari brillanti che puntano i riflettori sull’infanzia rubata in cerca di riscatto. Organizzato in sinergia con gli Istituti di Cultura Italiana ad Istanbul e Ankara, l’iniziativa si ripeterà annualmente con la speranza di incrementare la distribuzione del cinema italiano all’estero e migliorare l’interscambio di prodotti culturali tra i due Paesi.

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SOUND tracking

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Anton THE MILLIONAIRE Una ‘concept soundtrack’, realizzata con gli CONTROL Corbijn Si impicca sotto strumenti classici del maestro indiano: sitar, chitarre, flauti, bassi, santo«Idiot» di Iggie Pop. or, viole, poi trame elettroniche, fraseggi synth-pop e richiami house

DI MADRE IN FIGLIA Sono le mondine di Novi, quelle che ricurve hanno cresciuto le loro figlie

THE MILLIONAIRE CONTROL Lo sguardo di Danny Boyle sulla musica di Allah Rakha Rahman ragazzo indiano nato e cresciuto nelle favelas di Bombay si innamora di una bellissima ragazza del suo slum, ma per coronare il sogno che porterà con sé fino all’età adulta dovrà affrontare situazioni pericolose ed estreme. Dodici fatiche, dodici momenti di una vita intera, dodici risposte per diventare ‘millio-

Un

naire’ e ottenere il sogno di un amore eterno. Struggente film romantico, The millionaire, speziato di melodramma bollywoodiano, pieno di azione e ricco di colpi di scena, che solo lo sguardo ‘visionario’ di Danny Boyle, regista inglese già autore dei celeberrimi Trainspotting, 28 giorni dopo e Sunshine, poteva realizzare con tanta forza emotiva e visuale. Altrettanto vitale ed esotico è il commento

sonoro al film offerto da Allah Rakha Rahman, il più grande compositore indiano di colonne sonore cinematografiche vivente (noto in Italia per la colonna sonora di The Darjeeling Limited, 2007). Tredici brani che corrono lungo l’intero film, tra i sorrisi dei bambini di tutta l’India, le discariche, le fogne a cielo aperto, i colori magnifici dei teli stesi nei lavatoi assolati, attraversando gli sguardi affascinati e ammalianti dei figli dimenticati di Bombay. Anche tredici videoclip immersi e confusi nel film, che danno colore alle domande a cui il protagonista deve rispondere nello show televisivo più famoso di tutto il paese: Chi vuol esser milionario. Una ‘concept soundtrack’, realizzata con gli strumenti classici del maestro indiano, sitar, chitarre, flauti, bassi, santoor, viole, a cui si aggiungono trame elettroniche, fraseggi synthpop e richiami house; con i brani in successione strutturale rispetto al film, complementari allo svolgimento della narrazione non solo per il tema sonoro, ma anche per i testi e i loro messaggi. Tra le tante splendide track che compongono l’album, due le collaborazioni di rilievo: O…Saya e la hit mondiale Paper Planes (DFA REMIX), cantate da M.I.A., Gangasta Blues e Jai Ho per la collaborazione di BlaaZe & Tanvi Shah, artisti tra i più in voga della scena dub indiana. Un mix di sound in classiche tonalità ‘Bollywood’, musica Hip-hop, basi minimaltechno e sorprese dubstep, per una miscela di suoni che non mancherà di coinvolgere il pubblico nel viaggio di Boyle. Una colonna sonora perfettamente in linea con le immagini e i ritmi, a tratti frenetici, dettati dal montaggio, soprattutto per i brani Riots, Mausama & Escape, Millionaire e Aaj ki Raat, dove però non mancano momenti romantici e melodici, come nel caso della sognante Latika’s theme, per la calda voce di Suzanne. di Flavio Fabbri

on un lungo ritardo rispetto alla sua presentazione al Festival di Cannes (17 maggio 2007), lo scorso autunno è uscito nelle sale italiane Control, primo lungometraggio del famoso «fotografo del rock» Anton Corbijn, dedicato a Ian Curtis, leader dei Joy Division, gruppo post punk passato come una meteora e che ha lasciato un segno incancellabile nella storia della musica. «Avevo un debito nei confronti di Ian. Senza la sua musica non avrei mai avuto il coraggio di emanciparmi (…). Curtis era un genio assoluto che, però non è riuscito a sopportare il peso di vivere. Ricordo come se fosse oggi il primo servizio fotografico con lui sulla banchina della metropolitana a Londra. Era tutto incredibilmente grigio, la situazione ideale per fare grandi scatti in bianco e nero». E così in bianco e nero è la pellicola, per mantenere intatto lo spirito della band, ma soprattutto quello di un’epoca di grande fermento musicale. La trama è tratta liberamente dall’autobiografia di Deborah Curtis, Touching from a distance, e narra la storia struggente e profonda del cantante, carismatico, epilettico: dal suo incontro con Debbie, al matrimonio e tradimento; dall’unione con Peter Hook, Bernard Summer e Stephen Morris per formare i Joy division, al tragico epilogo della sua morte avvenuta a soli 24 anni. Con uno sguardo sull’uomo, sui suoi limiti e drammi, non adagiandosi alla figura del mito e del personaggio, descrive così un ragazzo che cerca la «normalità» e che paradossalmente non può avere a causa della sua malattia. È il destino che gli gioca un brutto scherzo perchè Curtis prima di entrare a far parte della band, aveva lavorato in un ufficio pubblico preposto al recupero e alla collocazione professionale di disabili e malati di epilessia. Da qui il titolo del film, che fa riferimento alla canzone dedicata alla vita spezzata di una conoscente del leader (She’s Lost Control). Interpretato da Sam Riley (al suo primo ruolo da protagonista, scelto per la grande somiglianza con Curtis), il film ci mostra un uomo che non sa controllare il proprio corpo da quelle forti scosse epilettiche, che rigetta anche sul palco. ma è anche la storia di uomo che non ha più il controllo della propria vita sentimentale: un ragazzo che cade nell’errore di sposarsi trop-

C

di Elisa Angelini

po presto (a soli 19 anni) e che troppo presto sprofonda nella monotonia di una vita domestica, che lo porterà a tradire la moglie con Annik Honorè. Curtis, agli occhi di Corbijn, ci appare come un adolescente introverso, un «giovane Holden» dei nostri tempi, tenero e tragico, esemplificato perfettamente nella copertina del loro primo disco Unknown Pleasures: la trascrizione dell’urlo di una stella morente, attraverso lo schema di linee contorte di una spettrografia di Fourier.

Questa richiesta di aiuto è «urlata» da Curtis la notte del 18 maggio 1980, quando decide di riprendere sotto ‘controllo’ la propria vita, impiccandosi (la leggenda dice che il giradischi stava suonando Idiot di Iggy Pop), ma anche qui Corbijn ha la discrezione di spostare l’inquadratura di fronte alla sua morte. Da tener presente che la colonna sonora del film è stata cantata e suonata dagli attori stessi, tranne Shadowplay suonata dai The Killers, e Love Will Tears Us Apart e Atmosphere proposte nella versione originale.

DI MADRE IN FIGLIA «Alla mattina appena alzata in risaia mi tocca andar» di Flavio Fabbri

«A

lla mattina, appena alzata / in risaia mi tocca andar / e tra gli insetti e le zanzare duro lavoro mi tocca far / O bella ciao, bella ciao, bella ciao… Il capo in piedi / col suo bastone / e noi a curve a lavorar…». Così inizia una celebre cantata delle mondine di Novi. Donne oggi ottantenni, che a dieci anni di età hanno cominciato a lavorare nei campi di riso, nelle risaie della Lombardia e del Piemonte, barattando la veloce adolescenza con le poche lire di una fatica immane, peggiorata, se possibile, dal Fascismo e dalla Seconda Guerra mondiale. Donne che hanno tirato su famiglie, fatto la resistenza e che, grazie al film di Andrea Zambelli Di madre in figlia (prodotto da Davide Ferrario e in rassegna al 26° Torino Film Festival), sono tornate a raccontare con i loro canti una cultura popolare, fatta di grande dignità, amicizia femminile, rispetto del lavoro e azione collettiva. Ma Di madre in figlia non è solo un documentario storico-sociale, perché oltre che ricordare il passato e commuovere nuove generazioni, rappresenta, con la voce, il canto e i suoni che lo accompagnano, un percorso canoro e musicale originalissimo frutto del lavoro decennale del Coro delle Mondine di Novi di Modena, approfondito e sviluppato in chiave

folk dal gruppo musicale dei Fiamma Fumana. Un esperimento che ha visto unire il coro, la musica folk-popolare e uno stile elettroethnic-pop, per un risultato tutto da ascoltare. Un coro che ha ormai trent’anni di attività sulle spalle, passati in tour tra il nostro Bel Paese, la Francia, la Bulgaria, l’Argentina e gli Stati Uniti. Nel film, le belle voci di queste venti donne sono accompagnate dalla particolarissima miscellanea sonora prodotta dagli strumenti dei Fiamma Fumana: la leggendaria piva emiliana, flauto, basso, tastiere, chitarra acustica, fisarmonica, organetto, basi elettro-folk e il supporto del Dj per i live elettronics. Nel terzo lavoro dei Fiamma Fumana, Onda del 2006, il Coro delle Mondine aveva già prestato voce in Angiolina e Mariulèina.

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BEY&further OND a cura di ROMINA CIUFFA

Music In  Inverno 2009

HELICOPTER QUARTET Karlheinz Stockhausen L’elicottero è uno strumento musicale, e l’inconscio lo dirige.

MATITE DI VINILE CONTEMPORANEA La mostra Quel sapore Oscar Pizzo C’è qualcosa di nuovo oggi nell’aria di panca

DE ANDRÈ La mostra Comunque sorridere a metà

QUARTETTO D’ELICOTTERI I L D I S C O È U N T A M A G O C H I È questo l’unico pezzo al mondo composto per elicotteri e violini. E come tutte le visioni, inizia da un sogno: quello di Karlheinz Stockhausen di Romina Ciuffa

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uesto è un sogno e noi stiamo tutti dormendo. È il sogno di un visionario, il tedesco Karlheinz Stockhausen, eccentrico, narcisista, pur sempre Stockhausen, padre dell’elettronica moderna. «Questo brano è dedicato a tutti gli astronauti del mondo», disse, messianico quando lo consegnò al violinista Irvine Arditti, che gli aveva chiesto un quartetto d’archi, un genere - tipico del XVIII secolo - che lui non avrebbe mai scritto. Poi sognò violini e rotori, un ritmo serrato, le pale di un elicottero al pari di violini, e disse: Sia. L’Helicopter String Quartet divenne la terza scena di Mercoledì, parte della monumentale opera lirica Licht, esagerata, tra le più voluminose mai scritte nella storia della musica e anche esemplare interesse di Stockhausen per la cosmologia, le formule matematiche, le proporzioni geometriche e le allegorie. Nelle sue intenzioni, Mittwoch rappresentava il rapporto tra conflitto e riconciliazione, nel Quartet è il percorso dalla terra al cielo, un viaggio dal terrestre verso l’utopia. Ciò che è possibile nei sogni non lo è ad occhi aperti, e il partito ecologista austriaco si oppose all’esecuzione nell’ambito del Festival di Salisburgo del 1994 per problemi ambientali: la prima mondiale dovette attendere il 1996 quando, nel corso dell’Holland Festival, volarono sulla città i quattro elicotteri. Oggi, per la terza esecuzione mondiale, sorvolano Roma e partono dall’Auditorium, nell’ambito del Festival delle Scienze 2009, i violinisti del Quartetto Arditti (con i violini di Irvine Arditti e Ashot Sarkissjan, la viola di Ralf Ehlers, il violoncello di Lukas Fels), interpreti di un sogno, che urlano cifre in tedesco esattamente come

indicato nelle partiture. Visionari quanto il loro creatore. Il cielo è piovoso al pari dell’angoscia che prorompe dall’inconscio stockhauseniano. Lui aveva previsto tre microfoni: uno per lo strumento, uno per la voce, il terzo all’esterno, accanto alle pale - il suono del motore, dell’aria, del volo. Il suono del terrore inconscio di precipitare. L’esibizione è di 18 minuti e 36 secondi. Le voci sono indicate negli spartiti in quattro diversi colori, come le camicie dei quattro musicisti. La partitura è complessa, nulla di orecchiabile: gli strumenti non hanno un procedimento melodico definito e si muovono attraverso la tecnica del «glissato» (l’innalzamento e l’abbassamento costante e progressivo dell’altezza di un suono, imitazione da parte dello strumento del linguaggio espressivo della voce umana). Un delirio, un incubo. Si diventa Stockhausen tutte le volte che si realizza l’irrealizzabile, che si dà spago a un sogno. Quando si hanno deliri di onnipoIrvine Arditti tenza («Sono stato istruito su Sirio e ci ritornerò anche se vivo ancora a Kürten»). Questo quartetto d’elicotteri dà atto dell’inafferrabilità di un suono sordo, di una sviolinata senza armonia, dell’assordante pesantezza dell’essere, passeggeri a bordo dell’elicottero di un pazzo. Quando i violinisti toccano terra è come restituire un silenzio dovuto alle orecchie e all’animo. Sognare di volare si lega al simbolismo della salita, della discesa e della caduta; Freud vedeva nel volo onirico l’espressione di un desiderio fisico non soddisfatto nella realtà. Stockhausen lo ha avverato, in qualche modo. Che ciò sia di spunto anche per il più grande dei sonnambuli. A CURA DI

GIOSETTA CIUFFA

AL RITMO DELLE GALASSIE Gong, elicotteri, 100 chitarristi e il ritmo delle galassie: l’intervista a Oscar Pizzo, curatore di «Contemporanea» La rassegna Contemporanea, curata da Guido Barbieri e Oscar Pizzo, giunge alla terza edizione e fino a maggio sviluppa temi come il rapporto con la musica etnica e popolare, il barocco, il cinema, la cultura americana, in un modo molto particolare. La stagione si caratterizza anche per la presenza di due eventi speciali, come la più importante e utopica opera di Karlheinz Stockhausen e una nuova sinfonia di Rhys Chathan per 100 chitarristi provenienti dal panorama musicale romano. A Oscar Pizzo chiediamo spiegazioni. Come nasce la rassegna «Contemporanea», di cui sei curatore? Nasce in sintonia con l'esigenza di un'apertura verso la musica contemporanea, ma anche come confronto con tutte le arti: un'apertura a 360 gradi sia dal punto di vista degli interpreti, sia degli stili, dalla «contemporanea classica», al rock, al jazz, alle performance, al teatro, alle arti visive, al cinema, al barocco rivisto. Cosa avete ricercato per diversificarvi da altri festival analoghi? L'attenzione: non chiudere alle diverse esigenze del panorama contemporaneo. Non si tratta di un festival «autopunitivo» ma dell’apertura verso tutto ciò che è nuovo, sfruttando anche eventi come l’Helicopter String Quartet ma anche A secret rose, concerto per 100 chitarre elettriche, basso elettrico e batteria, con musiche di Rhys Chatham (che l’ha definito «una jam session immaginaria tra John Cale, Tony Conrad e i Ramones»). La rassegna è anche rock: l'anno scorso Glenn Branca, quest'anno John Luther Adams, due padri spirituali della chitarra elettrica. Immaginate cosa può significare ascoltare il suono di 100 chitarre? Cosa c’è di contemporaneo aldilà del nostro spazio? Abbiamo curato il rapporto con la musica popolare con Gagaku, spettacolo dell'orchestra Ichihimegagaku della Corte imperiale giapponese, con musiche di Toru Takemitsu - musicista anche per Kurosawa - e danzatori; a maggio avremo Trance ed Exotica, due incontri per approfondire il lato musicale del sufismo, il primo dal Pakistan e il secondo dal Marocco, due modi differenti di interpretarlo. Presto avremo Moondog, il vichingo della Sesta Avenue, spettacolo dedicato a Louis Thomas Hardin, musicista che si esibiva a New York vestito da vichingo: saranno eseguite sue composizioni e verrà proiettata l'intervista inedita a Philip Glass, che lo ha seguito per un anno. Altro momento intenso sarà Leçons de ténébres: il testo, in comune con le tre religioni cattolica, ebraica e musulmana, verrà recitato dai cantori della Cappella Sistina, della Moschea e della Sinagoga, durante il momento del terrae motus che simboleggia la morte di Cristo. Qualche anticipazione sulla stagione 2009-2010? Durante la Notte delle stelle ascolteremo il ritmo di due galassie, riprese dal vivo da un osservatorio astronomico; stiamo cercando poi di organizzare il concerto per il gong dal diametro più grande del mondo, tanto da entrare nel Guinness dei primati; ospiteremo City Life, nuova opera di Philip Glass con Vincenzo Cerami e Steve Reich.

di Romina Ciuffa antarle, le abbiamo cantate tutte. Ma, C senza accorgercene, le abbiamo guardate, tenute accanto al giradischi, lette, riconosciute. Non solo orecchie ma occhi, e ti penetrano velocemente, da tutti i pori, queste copertine degli album che hanno fatto la nostra storia. Sono i disegni più celebri quelli che riportano a un ritornello, un collegamento neuronale immediato tra la vista e la strofa, guardare la matita di Crepax e canticchiare Massimo Ranieri. Sulla panca per anni, sono esposte nella mostra «Matite di Vinile», che fino al 27 febbraio, a Roma nella Sala Santa Rita (in Via Montanara), documenta il rapporto tra musica e fumetto a partire dagli anni Cinquanta. Oggi sono cd, ieri era vinile. Quindi più grandi, più belli, collezionabili. Ritornelli palpabili. La generazione-vinile è diversa da quella iPod, sono masse che tengono non solo alla sostanza, ma anche alla forma. Non un pezzo da Limewire: è necessario averlo lì, con nome e cognome e con la copertina originale, spenderli i soldi. Recarsi al negozio, ordinarlo, attendere giorni, ritirarlo con un appagamento estraneo. A che serve tenerlo solo per ascoltarlo? Evviva il copyright. Un pezzo va coccolato, tenuto in mano, cresciuto come un Tamagochi. Va pagato. Un pezzo va nutrito, letto, pensato, anche ascoltato ma, prima di tutto, visto, lì, tra gli album, la matita di Crepax e quella di Andrea Pazienza, tutte lì, copertine da appendere. In questo senso, Mina rimane una delle principali ispiratrici della matita, la vera musa si è fatta contorcere, rigirare, beffeggiare da tutti gli illustratori, si è storpiata al punto da essere Paperina accanto ad Adriano Celentano anche su video. A lei dobbiamo non solo musica ma arte, a lei dobbiamo riflessioni non solo emotive, ma meramente cognitive: quelle del guardare e pensare, oltre che sentire. E allora, compiamo un’incursione nelle nostre fantasie neuronali in cui una papera ci canta Acqua e Sale. È già dalla metà degli anni 50 che i rapporti tra musica leggera e grafica si fanno più intensi per la nuova diffusione dei dischi in vinile, a 33 e a 45 giri. La busta che contiene il disco cessa di essere un anonimo contenitore con il centro forato e il logo della discografica produttrice, com’è fino a quel momento per i 78 giri. Le nuove buste, per ambedue i formati, sono chiuse e illustrate, con

fotografie e con disegni. Esigenze di illustrazione di cui le nuove buste si fanno portatrici rendono necessaria la presenza di un progetto: ed ecco i giovani grafici assumere le vesti degli illustratori, alcuni intraprendere un percorso artistico all’interno del fumetto. È il caso di Guido Crepax, che ha disegnato copertine di dischi per anni, stile «Valentina», per Massimo Ranieri ad esempio (il pezzo era Per una donna, del 1974) o per Alberto Baldan (Io e Mara, del 1969) o per il gruppo rock dei Garybaldi (Nuda del 1972). Pazienza illustra molte copertine per i dischi di Roberto Vecchioni e indimenticabile è quella di Milo Manara per il Tango dei Miracoli di David Riondino (1987), in cui la Morte abbraccia con vigore una bellissima donna con la coda da diavolo. La consuetudine continua per tutti gli anni Settanta e Ottanta fino alla scomparsa dei dischi in vinile, ma in alcuni casi sopravvive fino ad oggi, anche con il formato ridotto del compact disc. Veri e propri progetti grafici coinvolgono non solo la busta esterna dei 33 giri ma anche quella interna, in qualche caso l’etichetta e perfino i poster allegati al disco. Le copertine esposte a Roma sono tutte italiane e per cantanti italiani, con la sola eccezione del lavoro di Tanino Liberatore per il disco di Frank Zappa, The Man from Utopia, del 1983. In alcuni casi, coincidono cantante e illustratore: Augusto Daolio, uno dei Nomadi, ne disegnò per i dischi del gruppo, e Paolo Conte ha scarabocchiato dischi propri ed altrui. Non da meno Lucio Battisti e Francesco De Gregori. Poi Ferruccio Piludu (autore per Sergio Endrigo), Mario Convertino, Emanuele Luzzati. C’è tutta la storia visiva della musica, l’incontro dei sensi là dove due insiemi percettivi combaciano e danno, a un ritornello, un vigore più forte: e non è, questa volta, l’operazione classica - aggiungere la colonna sonora a un’immagine - ma dare fattezza alla musica, restituire bidimensionalità alla percezione e, se vogliamo - un giochetto tutto nostro - unire anche l’olfatto. Perché quel sapere di panca che hanno i vinili se si appoggia il naso, quel sapere di polvere e di vecchio fa sentire, paradossalmente, più giovani e le sinapsi neuronali iniziano a girare come un 45 giri (nel buco al centro, un vuoto incolmabile).

DE ANDRÉ, QUELLA SPECIE DI SORRISO di Romina Ciuffa

È

una «specie» di sorriso quello di Fabrizio De André. Noi che non riusciamo a non piangere - dieci anni dopo la sua scomparsa nel pensare alla sua poesia tutta da ballare lungo il filo della notte sulle pietre del giorno. E che non riusciamo a non ridere, perché la nostalgia porta quel senso martoriante di felicità - andata - e non un sorriso, ma una specie. Appunto. Una mostra di disegni, quella di Mauro Biani si ispira alle canzoni di questo «suonatore di mandolino»; vignettista e seguito blogger, interpreta le canzoni in maniera poetica e romantica. C’è una Bocca di Rosa che precede la vergine in processione (anziché seguirla), un Michè impiccato in un CPT, e poi Piero, Nina, Marinella, Andrea, Princesa e tanti altri personaggi che rivivono in nuovi contesti: attraverso le linee morbide e i colori caldi di una matita, i protagonisti si muovono in scenari attuali, tra la manifestazione del G8 di Genova, il dramma dell’emigrazione e del precariato, le situazioni imbarazzanti del potere e della Chiesa. 15 tavole a colori, a Roma e nelle librerie Feltrinelli delle principali città. In un’ attualità criminale, se ti tagliassero a pezzetti tu sai che il regno dei ragni cucirebbe la pelle e la luna tesserebbe i capelli e il viso, e questo ti lascia proprio «una specie» di sorriso.

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Music In  Inverno 2009

TIZIANO FERRO Alla mia età Sono un falco, un angelo o un aviatore

VINICIO CAPOSSELA Solo Strumenti fantastici tra toy piano, bicchieri, theremin e la sua solitudine

GRACE JONES Hurricane Quel ponte virtual-sonoro tra Giamaica e Bristol

JOHN MAYER Continuum Ferma questo treno. Voglio scendere e ricominciare.

ROMINA CIUFFA

VINICIO CAPOSSELA - DA SOLO

J AZZ & blues

Ritrovarsi a un certo punto, dopo tante traversie, da solo. Ma non del tutto. Vinicio Capossela è stavolta in compagnia del suo amico più intimo, il pianoforte. Da solo è un disco per piano e strumenti inconsistenti. I 12 brani del nuovo lavoro spaziano tra i mille cambi di stile ed umori tipici del cantautore italiano che si destreggia tra suggestioni di waltzer, tip tap, orchestrali, big band e canzone italiana. Una serie infinita di strumenti fantastici (tra cui toy piano, bicchieri, theremin, optigan, mellotron, mighty wurlizer, ottoni, fiati e grancassa) tratteggiano ora con delicatezza, ora con maestosità, i contorni luccicanti di un disegno intimo, del nucleo di un animo che riflette a voce alta nella malinconia delle notti invernali, accompagnato dalle note che soltanto i tasti bianchi e neri sanno plasmare. È la solitudine cantata con spensieratezza apparente, coperta dal sottile velo della metafora che ci mostra lo sterminato immaginario dell’artista. La solitudine che ti permette di mostrare la tua vera natura, la libertà dalla clandestinità. E ancora l’unione, la guerra, la distanza, l’importanza delle parole, il cielo, il silenzio, l’America, la verità.

E soltanto quando soffia forte il vento, quando il lume sembra spento e si fa scuro tutto attorno e non c’è niente del gran giorno puoi pregare di incontrare il gigante e il mago. E noi preghiamo!

Ritorna ruggente la pantera di Kingston all’età di ben 60 anni. Per Grace Jones è come se il tempo non fosse mai passato. Sembra ancora di vederla, negli anni Ottanta, algida e imponente, beniamina del radical-chic di New York, icona gay, sintesi perfetta fra il reggae e la disco music. La classe, il talento, l’essenza «animale» e incisiva dell’artista giamaicana sono esattamente le stesse ma la forza di Grace Mendoza sta nel fatto che dopo ben 20 anni di assenza (il suo ultimo disco, Bulletproof Heart, è uscito nel 1989) ha la forza di risultare ancora meravigliosamente attuale e all’avanguardia. Incredibile l’impatto dell’album al primo ascolto. Hurricane ha un suono metropolitano, freddo, tecnologico e soul, tribale, esotico, solare al tempo stesso. Trip-hop, dub (I’m Crying –

Ennesimo film sulla Seconda Guerra mondiale e su un pugno di ebrei che è riuscito miracolosamente a sfuggire dall’Olocausto, così si potrebbe riassumere The defiance di Edward Zwick, ma non basterebbe. Soprattutto perché, oltre alla bella interpretazione di Daniel Craig, Liev Schreiber e Jamie Bell, il film gode di una colonna sonora davvero preziosa. Le musiche, infatti, sono state composte da James Newton Howard, uno che di cinema e di musica se ne intende. Tantissime le nomination agli Oscar per l’artista (tra cui Il fuggitivo, The village, Michael Clayton) e recentemente, proprio per The defiance, come miglior colonna sonora ai Golden Globe 2009. Grande amico e collaboratore di registi del calibro di M. Night Shyamalan e Peter Jackson, la sua musica spesso è stata avvicinata a quella di un altro grande compositore di musiche per film, Jarry Goldsmith (vincitore nel 1976 dell’Oscar per le musiche de Il presagio-The Omen). In questo suo ultimo lavoro Howard punta le note, coadiuvato in studio dal grande violinista

Joshua Bell (che impugna uno Stradivari del 1713), al cielo cupo della guerra, degli inverni polacchi e bielorussi, nelle tonalità malinconiche del pianoforte e più struggenti se possibile del violino, come in Escaping the ghetto, Survivors e Winter. Un coinvolgimento totale, come nei profondi assolo di violino in The wedding o Exodus, in cui le immagini dai colori scuri si accompagnano, emotivamente e psicologicamente, alle note basse degli strumenti e alle miserie della storia, fino alla bellissima Nothing is possible dove anche la musica assieme ai giusti rovescerà il buio nel suo contrario. Flavio Fabbri

CARMINE CATALDO - CAPRI JAZZ BAR TRIO & FRIENDS

J AZZ & blues Un disco che esce dall’estate del Capri Jazz Bar questo di Carmine Cataldo, che è colonna sonora a una malinconia da nutrire in riva al mare ascoltando l’alternanza tra originali e standards consolidati come Invitation di B. Kaper o The Shadow of your Smile di J. Mandel. Grintosa la terza traccia Hard Pop Engineering, dichiarato omaggio a B. Powell di ispirazione bop

nello stile di Charlie Parker, dal quale attinge sia nella scrittura del tema che nell’improvvisazione. Noti i solisti, fra i quali spicca Daniele Scannapieco, la cui presenza costituisce di per sé una certezza per la fluidità dei brani sia nell’esposizione che negli assolo. Tommaso Scannapieco, Jerry Popolo, Giovanni Amato, Domenico Basile, Franco Gregorio e Peppe Plaitano sono gli altri «friends». Sonorità uniforme che scorre senza guizzo, Cataldo preferisce la scolasticità a quei fuori riga che avrebbero dato spunto ad esplorazioni di solisti e ritmica. Sono scelte. Ne La storia di un miaù e di un limone il rumore del pedale del piano riporta allo strumento. L’amore di Tristano e Isotta, omaggio a Michel Petrucciani, chiude l’album e una serata al Capri Jazz Bar. Romina Ciuffa

JOHN MAYER - CONTINUUM

Gianluca Gentile «Babyface», così lo chiama la stampa americana. Piace alle mamme, alle figlie… È il giovane della porta accanto che sta vivendo il «sogno americano». Potrebbe sembrare uno dei tanti ragazzini ingaggiati dalle major discografiche per un ennesimo disco pop, per quell’aspetto acqua e sapone, per quella voce così calda e delicata. Delicato: il maggior cruccio di John Mayer è proprio quello di liberarsi da questa immagine da bravo ragazzo e ci riesce perfettamente con il suo terzo disco, Continuum, rilasciato dopo l’esperienza live con il trio formato assieme a Pino Palladino e Steve Jordan. È il disco della svolta, del cambiamento, in cui decide di abbandonare la ballad acustica che ha caratterizzato i suoi primi due lavori per abbracciare una matrice più elettrica; ad un primo

GRACE JONES - HURRICANE

ALTNATIVE ER

a cura di ROMINA CIUFFA

AA.VV. - THE DEFIANCE

TIZIANO FERRO - ALLA MIA ETÀ «Lo sanno tutti che in caso di pericolo si salva solo chi sa volare bene, quindi se escludi gli aviatori, falchi, nuvole, gli aerei, aquile e angeli, rimani te». Sognavo di pilotare un ultraleggero, volavo sopra i Castelli Romani e, nell’atmosfera rarefatta dei sogni dove l’Es sprigiona la sua pulsione arcaica, la realtà si alterava ed io non riconoscevo gli strumenti: il mio inconscio si era divertito ad invertire la manetta e i flaps - guardiano delle mie più fedeli paure - impedendomi di gestire l’emergenza, così da venir ingoiata nelle termiche di una vallata. Esterno giorno, carrellata sul prato - mi ritrovavo a terra, sapevo di stare sognando e la paura investiva solo quella parte di me che diceva: «Questa è la metafora di qualcosa di più grande». Si, ma di cosa? Tiziano Ferro, voce limpida, impeccabile - un arrangiamento chiaro nei termini di una ballata, oltre a qualche spunto rap a volte commerciale - mi accusa: «Indietro». Io sono a terra, l’aereo è fermo, cerco un modo per uscire dall’emergenza, e lui ripete: «L’amore va veloce e tu sei indietro». Non si tratta della paura di volare, ma del non sapere dove andare mentre sono in volo: non sono precipitata per l’incoscienza di portare un Sierra senza saper gestire un’emergenza, ma per non aver guardato oltre mentre pilotavo (perché «il bene più segreto sfugge all’uomo che non guarda avanti mai»). Un disco limpido questo, continuità con quelli precedenti ma anche nuovo stimolo per i romantici instancabili, ci stende su un lettino da psicanalista e parla lui, le paure psicosomatiche, gli inferni, una sosta dai concetti e i preconcetti, una sosta dalla prima impressione. Qui con lui Laura Pausini (La paura non esiste), Franco Battiato (Il tempo stesso), Ivano Fossati (Indietro) , Kelly Rowland (Breathe Gentle); ma anche altri, quelli delle accuse di plagio (il primo, Virginio Simonelli con la sua Davvero di Sanremo 2006, identica a La mia età; poi Ligabue, la cui Ho messo via si trova online montata con Ti scatterò una foto; sino ai Green Day di Wake Me Up When September Ends per ll sole esiste per tutti). Comunque, a me un regalo l’ha fatto: qualcosa di dolce, di raro, non un comune regalo di quelli che hai perso, o mai aperto, o lasciato in treno, o mai accettato. È l’interpretazione di un sogno. Il suo cd sbadatamente lo lascio sull’aereo mentre cerco aiuto, ma il mio è un caso limite: sono appena precipitata.

FEED back

Mother’s Tears, Hurricane e Devil in my Life) e reggae (Well Well Well, Love To You Life e Sunset Sunrise) convivono piacevolmente creando una sorta di urban reggae, un ponte virtual-sonoro fra Giamaica e Bristol, possibile anche grazie alle numerose e prestigiose collaborazioni come quelle di Sly & Robbie, Brian Eno e Ivor Guest, Tricky e Tony Allen. Se non si conoscesse il titolo del disco l’impressione che si avrebbe sarebbe proprio qualla di un uragano potente e travolgente che ti rapisce al primo istante. Proprio come entrare in un’altra dimensione. Ma dopotutto, cosa aspettarsi da colei che, parlando di sé sul sito ufficiale, dice: «I believe whatever I dream. Whatever I dream, I want to»? Valentina Giosa

ascolto l’album si presenta con 12 tracce in cui predomina la melodia rispetto al virtuosismo chitarristico tanto aspettato, ma dopo un ascolto più approfondito, i fraseggi emergono senza disturbare, sottovoce, non vogliono mostrarsi e impressionare, ma accarezzarci dolcemente le orecchie con un suono rotondo e caldo. Le tracce sono quasi tutte Mid-tempo, ma non per questo povere di energia; c’è vitalità nel singolo di apertura Waiting On The World To Change, spiritualismo in Gravity, un groove sinuoso in Vultures e malinconia acustica e delicata che ha caratterizzato la sua prima produzione in Stop this train. Mayer è il musicista che conosce le proprie potenzialità ne è consapevole, ma non le sfoggia per vivere delicatamente a servizio della musica. Elisa Angelini

H.E.R. - MAGMA CLASSICA MENTE

H.E.R, al secolo Erma Pia Castriotta, già violinista dei Nidi d’Arac, di Teresa De Sio e collaboratrice di numerosi altri artisti, ha deciso di svelare la sua natura più creativa e esce con un CD molto interessante: «Magma». Non è facile dare una definizione al lavoro, e già questa di per sé è una cosa positiva.

È un disco di presentazione (si spiegano così alcune personalissime cover, testimonianza della sua formazione: Sweet dreams di Annie Lennox, Amandoti dei CCCP, Non c’è ragione di Teresa De Sioe Vita Spericolata di Vasco Rossi), ma anche un disco sperimentale in cui voce e violino duettano in maniera inusuale e quasi morbosa: la voce cristallina, pura (nei timbro ricorda la voce della sua amica Rettore) contrasta con l’immagine dark della musicista, mentre il violino si impone quasi sempre sulla linea melodica, svelando quasi un’altra parte dell’anima, più timida, che la voce non riesce a raccontare. Gli amici che sono accorsi a sostenere il progetto (Peppe Voltarelli, Momo, Alessandro Castriota Scanderbeg e Petra Magoni) aiutano ad alternare il ritmo di un percorso in 13 tracce che altrimenti, forse, sarebbe risultato un po’ ripetitivo . Nicola Cirillo

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