Music In N. 7

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Periodico di informazione, attualità e cultura musicale a cura del Saint Louis College of Music

Autunno 2008

PERIODICO DI INFORMAZIONE, ATTUALITÀ E CULTURA MUSICALE A CURA DEL SAINT LOUIS COLLEGE OF MUSIC

WE ALL LOVE ENNIO

WHAT BACHARACH UNA CANTATINA TRA NEEDS ROSSINI E MARTINEZ di Valentina Giosa

di Romina Ciuffa

Emme come Morricone, Ennio, senza bisogno di presentazioni. Si dice sia burbero e scostante. Pensi sia impossibile avvicinarlo e che ti darà risposte secche e svogliate. Mentre stai lì che fai i tuoi calcoli mentali (se uno ha scritto più di 500 colonne sonore, avrà risposto a un migliaio di interviste, ognuna delle quali conteneva una decina di domande, cioè diecimila risposte, vuoi vedere che si sarà stancato di rispondere proprio quando tocca a me?), Ennio-il-Genio viene in tuo soccorso e accetta l’intervista. E scopri che non è così schivo come vuol far sembrare e che, come tutti gli Scorpioni, sotto un’apparente riservatezza cova il fuoco della passione. Quella per la musica prima di tutto, e poi l’amore per il cinema, l’arte, la moglie Maria, (...)

Compositore di brani indimenticabili come Trains And Boats And Planes, Walk On By, I’ll Never Fall In Love Again, Are You There With Another Girl, What The World Needs Now Is Love, I Say A Little Prayer, Raindrops Keep Falling On My Head e centinaia di altre perle musicali, Burt Bacharach non smette mai di emozionarci senza mai ripetersi regalandoci colonne sonore traboccanti di passione. Nonostante i suoi oltre cinquant’anni di carriera (in cui ha collezionato 3 Oscar e 6 Grammy), (...)

Non ci sarà giorno che passerà senza che io, in cuor mio, non ringrazi il maestro Miguel Martinez per avermi fatto ascoltare - parlo a nome di tutta l’umanità e non mi preoccupo delle conseguenze - questa Cantatina 22 luglio 1832 in cui ritrovo Amore e Imene, e il primo lo guardo in faccia mentre vedo questo spagnolo, che è ormai un romano, parlare del manoscritto dei conti Catanzano che è nelle sue mani; la seconda resta un’estasiante rottura da quello che era ieri (vivevo anche senza Rossini) e quello che è oggi (esattamente come perdere la verginità). Oggi, infatti, io - che sono l’umanità - ho Rossini nel cuore e lui, Martinez, lo ha nelle mani. (...)

 CONTINUA NELLA PAGINA SOUNDTRACKING

 CONTINUA NELLA PAGINA JAZZ&BLUES

 CONTINUA NELLA PAGINA CLASSICA-MENTE

di Roberta Mastruzzi

Ppop&rock OPCK

PAOLO CONTE

J AZZ & blues

LIZA MINNELLI

Direttore ROMINA CIUFFA Direttore Responsabile SALVATORE MASTRUZZI Redazione Romina CIUFFA [email protected] Flavio FABBRI [email protected] Rossella GAUDENZI [email protected] Valentina GIOSA [email protected] Roberta MASTRUZZI [email protected] Corinna NICOLINI [email protected]

Progetto grafico Romina CIUFFA Impaginazione Cristina MILITELLO Logo Caterina MONTI

Redazione Via del Boschetto, 106 - 00184 Roma Tel 06.4544.3086 Fax 06.4544.3184 Mail [email protected] Marketing e Pubblicità Mail [email protected] Tipografia Ferpenta Editore Srl Via Tiburtina Valeria km 18,300 - Roma Contributi Elisa Angelini, Lorenzo Bertini Nicola Cirillo, Cristina D’Eramo Alessandra Fabretti, Gianluca Gentile Paolo Romano, Eugenio Vicedomini

Anno II n. 7 Autunno 2008 Registrazione presso il Tribunale di Roma n. 349 del 20 luglio 2007

STEFANO MASTRUZZI EDITORE

Ppop&rock OPCK

CLAUDIO BAGLIONI

FEED back

ENZO PIETROPAOLI

CONSERVATOPI È molto probabile che la scure della Ministero dell’Istruzione si abbatterà prossimamente sui Conservatori, e noi appoggeremo finalmente un’iniziativa governativa: ad oggi, l’arretratezza del sistema di istruzione musicale statale è imbarazzante, un disagio che riguarda sia il profilo organizzativo e strutturale, sia la preparazione di certi docenti, assunti con il tipico contratto indeterminato italiano «non so come ho fatto ad entrare, ma in ogni caso ci rimango». Il discorso è molto lungo e articolato e lo svolgerò a più riprese su queste colonne, cominciando da un’analisi del sistema attuale comparato ai migliori sistemi europei e statunitensi. Dopo decenni, con il tentativo ancora in atto di introdurre la laurea in musica - non musicologia, che c’era già, ma quella di musicista vero e proprio, il vecchio strimpellatore per capirci - trasformando i Conservatori in Università, si è compiuto un passo in avanti nel tentativo di elevare la considerazione verso questa categoria, per antonomasia ricca di venditori di fumo. Chiaramente lo si è fatto all’italiana, guai a verificare se gli stessi docenti di Conservatorio che prima insegnavano nei corsi di diploma avessero preparazione e titoli adeguati a diventare docenti di rango universitario. Quindi, tutti nel calderone. Non cambia la sostanza, perché i docenti sono gli stessi, nel bene e nel male soprattutto; cambia solo la dicitura sul pezzo di carta: non più diploma di musica, ma «laurea». Ed ecco subito che tutti i vecchi diplomati (me compreso) potrebbero trasformare il proprio diploma in una laurea: come? Frequentando altri due anni, certamente con gli stessi docenti con cui si erano diplomati dopo 10 anni di studio. Cosa mai avrà da

insegnare quel docente ad un allievo cui ha impartito lezioni per dieci anni per trasformarlo ora da diplomato in un laureato? E soprattutto, perché non gliel’ha insegnato prima durante quei dieci anni? Non aveva tempo? La verità, che piaccia a destra o a sinistra, è che in Italia al momento non esiste un omologo privato del Conservatorio che possa fare sana concorrenza e contribuire a superare le tipiche inerzie che frenano lo sviluppo di qualsiasi ente che si trovi, come i Conservatori, ad operare in regime di monopolio; in sostanza, l’unico titolato a rilasciare un titolo avente valore legale non ha alcun interesse a verificare che il proprio sistema di formazione funzioni. E alla fine sforna tanti titolati e pochi(ssimi) professionisti. Il Saint Louis, ad esempio, che è frequentata da oltre 1.500 allievi, è una scuola che non rilascia al momento titoli equipollenti, ma che curiosamente forma e sforna musicisti di livello; una scuola di musica moderna che sta seguendo per prima un percorso di riconoscimento universitario e ciò infastidisce molte illustri personalità del settore. Anche se ritengo che la soluzione più rapida ed efficace, peraltro già adottata da molti Paesi europei, sia quella di togliere valore legale a qualunque titolo universitario. In tal modo, l’allievo potrà scegliere l’ateneo o la scuola dove formarsi in base alle concrete possibilità didattiche che questa offre, al numero di professionisti che sforna ogni anno, ai docenti qualificati che vi lavorano e non in base alla carta filigranata del diploma rilasciato. E molta gente che oggi vive sulle nostre spalle dovrà cercarsi un lavoro, finalmente.

Stefano Mastruzz i

J AZZ & blues a cura di ROSSELLA GAUDENZI

Music In  Autunno 2008

CHAT NOIR Luca, Michele, Giuliano: chiamali gatti neri. Che attraverseranno la strada

LIZA MINNELLI Voglio svegliarmi nella città che non dorme mai. Oggi mi sveglio a Roma

LE SETTE VITE DEGLI CHAT NOIR Fa venire la pelle d’oca anche a me. Che sia solo l’idea di fermare una delle loro vite mentre le altre sei impazzano

Il

ricordo dolce che si è fissato in maniera indelebile nella mente di Giuliano fa venire la pelle d’oca anche a me - ed abbiamo appena commentato un sole settembrino incredibilmente caldo, goduto dalla terrazza di un hotel nel centro di Roma: nel momento in cui gli chiedo di «regalarmi una fotografia», un’istantanea, un ricordo del suo gruppo, gli Chat Noir, Giuliano Ferrari, batterista del trio, rievoca il momento dell’arrivo del pacco del disco Découpage, prodotto dalla Universal. In un momento di frenesia, di forte lavoro, di nervosismi, i tre musicisti si trovano a scartare il «loro disco» e tutto si scioglie magicamente, in una cena a base di vini e formaggi e come sottofondo, ripetutamente, la loro creazione. Non senza difficoltà, storcendo un po’ la bocca, così riesce a definire i tre musicisti: Luca è la mente, Michele l’anima, Giuliano il cuore. Per quanto la creatività sia ben distribuita tra loro e renda giustizia definire collettive le loro composizioni.

Universal Music si accorge di te e produrrà Découpage (2007) e Difficult To See You (uscito il 22 settembre e presentato il 29 settembre all’Auditorium Parco della Musica). Accadeva dell’altro nel frattempo, perché la vostra storia è fatta anche di cinema… Il disco è stato spedito anche ad alcuni registi, tra cui Cristina Comencini, che girava all’epoca La Bestia nel Cuore; le è piaciuto, ha scelto e utilizzato Noir 451 tratto da Adoration che è entrato a far parte della colonna sonora. Il film è stato candidato agli Oscar, quindi per noi c’è stato un ritorno importante. Per il film successivo, Bianco e Nero, abbiamo composto tre inediti: Conversation in Blue, Talkin’ Slowly, You can Teach. Poi c’è stata la collaborazione con Francesca Comencini per un meraviglioso documentario sul lavoro in fabbrica, fatto con immagini di repertorio strepitose dagli anni ‘50 ad oggi. La nostra cover di Via del Campo è stata molto convincente.

BURT BACARACH «Non voglio un disco ricco di pezzi facili da mandare in radio»: ed esce At This Time.

VERA DIVA VERA LIZA Incarna la New York che fu, sognante e sensuale, fatta di lustrini e paillettes, tendoni da palcoscenico, rossetto rosso e giarrettiere. We wanna be a part of it. Dell’unica, vera figlia del mago di Oz. rue Diva. A ben riflettere, difficilmente si troverebbe una migliore definizione per Liza Minnelli. Diva vera, e tra le poche in circolazione oggigiorno. Solo per il fatto di incarnare la New York che fu, sognante e sensuale, fatta di lustrini e paillettes, di tendoni da palcoscenico, rossetto rosso e giarrettiere. Diva vera per essere nata e cresciuta tra star, da buona figlia d’arte: l’indimenticabile Judy Garland - incantevole Dorothy del mago di Oz - era una mamma celebre ad Hollywood, cantante di successo, tanto quanto il padre, lo stimato regista cinematografico Vincente Minnelli. I primi passi si muovono non sulla strada ma sul palcoscenico: confondere vita e finzione è inevitabile. Danza, recitazione e canto sono vita reale quanto la scuola ed i giochi con gli altri bambini. Quasi sembra segnato il destino della piccola Liza che darà il meglio di sé in scena, nello specifico nel musical, ma una volta deposti i costumi dovrà fare i conti con rapporti personali complessi, storie sentimentali turbolente. Non a caso, il titolo di uno dei suoi maggiori successi è Life is a cabaret. All’età di 16 anni prende parte a New York allo spettacolo di successo Best Foot Forward: è la gavetta necessaria al grande salto che avverrà nel 1964, con l’esibizione accanto alla madre al concerto del London Palladium. Vince nel ‘65 un Tony Award, nel 1967 debutta al cinema e nel ‘69 viene già nominata all’Oscar. La consacrazione è legata al musical Cabaret (1972) e questa volta l’Oscar la premia meritatamente. Di nuovo alla ribalta nel ‘76 nel musical New York, New York di Martin Scorsese, nel quale interpreta una cantante di jazz innamorata perdutamente di uno scorbutico Robert De Niro che veste i panni del musicista. Tutto ciò inframmezzato da duetti con Frank Sinatra, che la portano in giro per il mondo. E accompagnato da alcool, droghe, amori, divorzi. Dopo quindici anni di assenza la Diva torna in Italia. Tra ottobre e novembre toccherà con il suo tour Roma, Torino, Firenze, Bari, Milano. Auditorium Parco della Musica di Roma, 29 ottobre. Rossella Gaudenzi

T

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di Valentina Giosa

WHAT BACHARACH NEEDS L’avventura degli Chat Noir è quella di tre musicisti colti, sobri e raffinati nati nel 1979: Michele Cavallari, Luca Fogagnolo e Giuliano Ferrari, rispettivamente pianista, contrabbassista e batterista di un trio jazz nato nel 2002 che con questa formazione prosegue, intraprende le sue scalate, fa le sue scommesse. Direi che siamo Chat Noir quasi dal primo momento. L’antefatto è che Luca e Michele, amici dai tempi del liceo, musicisti e appassionati di jazz, in duo si dedicano agli studi del piano e del contrabbasso. Presto nasce l’esigenza della batteria e mi unisco a loro: è un sodalizio di amicizia innanzitutto, di condivisione di passioni senza particolari aspettative. Si inizia pian piano a comporre; con lo studio assiduo degli standards si diviene più solidi, tanto da potersi avvicinare alle composizioni moderne. E si osa. Ci siamo inoltrati in generi diversi, senza perdere mai la bussola. Il nome nasce per un’illuminazione casuale, dopo pochi tentativi di ricerca. Ad agosto del 2002 esce il coinvolgente disco del suonatore di liuto tunisino Anour Brahem, accompagnato da piano e fisarmonica, dal titolo Le Pas du Chat Noir. Quel disco lo abbiamo consumato; inoltre la suggestione ulteriore proviene dall’ormai famosa locandina del café francese di Toulouse Lautrec. Siamo gli Chat Noir. Si ironizza sul numero di vite dei gatti, chiedo quante vite il trio abbia perso o guadagnato; Giuliano ribatte che si potrebbe procedere a ritroso, partendo da zero ed arrivando a sette. Un percorso fatto di tante componenti, positive e negative: fatica molta, ostinazione moltissima. Mi sento di dare questo consiglio: i dischi vanno spediti a decine, centinaia di copie. Su cento spedizioni, si riceveranno a dir tanto dieci risposte, e su dieci nove sono perdite di tempo. Ne resta una buona. È così facendo che si possono ricevere critiche costruttive, e in questo modo siamo arrivati all’etichetta Splasc(h) Records che ha prodotto il primo disco, Adoration (2006). Si riparte, stavolta con un biglietto da visita in tasca, con una consapevolezza di sé maggiore, con determinate recensioni all’attivo e l’attenzione di determinati giornalisti su di te. C’è il salto di qualità nel momento in cui la

Come definiresti, oggi, il vostro stile? Potremmo sì definirci un trio jazz, ma non classico, soprattutto dal punto di vista della struttura dei brani. Sono composizioni dalla struttura della canzone rock, con il tema sviluppato in più parti, echi derivanti dalla nostra passione per la scuola del Nord Europa, norvegese; in più ci siamo alimentati di Beatles e Pink Floyd. Quindi laddove è necessaria una ritmica più rockeggiante, ammettiamo senza difficoltà di esserci allontanati dal jazz. In noi c’è il Miles Davis dei dischi degli anni ‘60, di quegli esempi di ricerca di un nuovo linguaggio jazzistico. In studio di registrazione si procede alla maniera tradizionale, registrando insieme gli strumenti principali. In più c’è la post-produzione: Luca usa il theremin - strumento analogico - più effetti sul contrabbasso, Michele il lap con cui produce effetti che creano atmosfera ed interagiscono con il sound e in più fa un uso del pianoforte filtrato (delay e distorsori). Io utilizzo percussioni elettroniche che rendono particolari suoni, come tappeto sonoro o piccoli interventi elettronici. La vostra musica sembra la risultante di componenti artistiche diverse: quali sono le vostre ispirazioni? Viviamo di stimoli non solo musicali; molto scaturisce dai film e numerose sono le influenze narrative. Ad esempio Trilogy, brano inserito in Découpage, è nato dalla Trilogia di New York di Paul Auster, al quale lo abbiamo peraltro spedito… Elefante, analizzando sempre lo stesso disco, è nato innanzitutto dalla «sensazione» procurata dall’immagine di un elefante in un negozio di cocci. Passando a Difficult to See You il brano Rovine Circolari si rifà all’omonimo racconto di Borges; To Build a Fire ad un racconto inusuale, surreale ed inquietante di Jack London. La nostra chiacchierata volge al termine e rimane in me la fissazione di ricapitolare: tre dischi, più tre collaborazioni cinematografiche, più una presentazione da capogiro con il marchio Auditorium Parco della Musica. Non potevo scegliere momento migliore per questa intervista. Gli Chat Noir hanno davvero guadagnato sette vite. Rossella Gaudenzi

(...) con l’uscita di At this Time, è riuscito a tirar fuori forse uno dei suoi migliori lavori confermandoci ancora una volta che «la classe non è acqua». Nato a Kansas City nel 1928, Bacharach negli anni 50 e 60 è stato pianista, arrangiatore e leader della band che accompagnava in tour Marlene Dietrich. Nel 1959, ancora semi-sconosciuto come autore di canzoni, ha conseguito il successo con Heavenly e Faithfully, eseguite da Johnny Mathis, che hanno vinto entrambe il disco d’oro. È iniziata così la sua fortunata collaborazione con Hal David con cui ha scritto gran parte del suo intramontabile repertorio che unisce il gusto raffinato per la melodia e la semplicità diretta e immediata del pop ad influenze jazz ed echi soul chiaramente individuabili nelle vocalist che Bacharach ha scelto con il tempo per i suoi brani, prima fra tutte la straordinaria Dionne Warwick (ben 21 pezzi sono stati scritti soltanto per lei). Ha collaborato inoltre con Beatles, Elvis Costello, Tom Jones, Aretha Franklin, B.J. Thomas, Dusty Springfield, Drifters e innumerevoli sono gli artisti che ancora oggi eseguono e riarrangiano i suoi brani. «Questo disco inaugura per me un nuovo genere», spiega l’artista durante la promozione di At this Time. «Rob Stringer (proprietario di SonyBMG e il primo a legarlo alla casa discografica) mi ha chiesto di realizzare un album cercando di espormi a qualche rischio in più. Mi ha detto ‘Non voglio

un disco ricco di pezzi facili da mandare in radio. Anche se scrivi canzoni splendide finirai comunque per restare deluso perché la gente dirà che non sono belle come quelle del passato’. Perciò mi sono impegnato in un progetto completamente nuovo». Realizzato grazie alla collaborazione con autorevoli artisti quali il re dell’hip-hop Dr. Dre, Denaun Porter e Prinz Board dei Black Eyed Peas, il disco include vere e proprie mini-opere della durata di 7 minuti con arrangiamenti ricercati e messaggi politici piuttosto espliciti. Rufus Wainwright e Elvis Costello gli ospiti d’onore che prendono parte rispettivamente ai brani Go Ask Shakespeare e Who Are These People?. Nato dopo anni di silenzio, At This Time è il suo primo album dal contenuto dichiaratamente politico. «Odio quello che sta succedendo nel mondo», confessa Bacharach. «Voglio provare a raccontare quello che penso. Dobbiamo porre fine alla violenza perché ne stiamo perdendo il controllo. Ho due bambini piccoli e uno di 19 anni, mi chiedo che ne sarà del loro futuro». In un mondo dominato dall’onnipotenza dell’apparenza, è senza dubbio rassicurante vedere che esistono ancora artisti che utilizzano la musica come puro messaggio e non come semplice esibizione o virtuose dimostrazioni di bravura, ma d’altronde musicisti talentuosi e «ricchi» come lui forse ce ne sono un po’ pochi in circolazione. E nelle sue parole sembra quasi di riascoltare le note di What the world needs now is love. 28/10 ORE 21 AUDITORIUM DELLA CONCILIAZIONE Via della Conciliazione, 4 - Roma

J AZZ & blues

Music In  Autunno 2008

FRANK GAMBALE Ogni quanti giorni cambi corde? Usi la corda di sol di dimensione pari al mi cantino visto che il tuo bending lo effettui quasi sempre sul si? E poi e poi?

JIMI HENDRIX FESTIVAL Un selvaggio della chitarra, il primo ad usare distorsioni in forma di fuzz, a sfruttare il pedale wah wah e a conferire dignità melodica al feedback, oggi compirebbe 66 anni

È

SOLO GAMBALE

Frank Gambale - guitar hero trasversale e musicista talentuoso - è stato scritto tutto e il contrario di tutto; molti i detrattori di una tecnica esacerbata a tutto danno della musica e molti (forse i più) coloro che seguono la carriera di questo fantasista delle sei corde. Certo è che un suo concerto non può passare inosservato e sotto silenzio, e per questo nella sua recente data romana all’Auditorium Parco della Musica ci si è trovati di fronte a un protagonista importante della musica contemporanea, in grado di suonare rock, jazz, fusion o classica (sì, classica...) con la stessa intensità e con un mood di volta in volta adeguato allo spirito del genere di riferimento. Né d’altro canto Chick Corea, tanto per dire una delle centinaia di collaborazioni prestigiose di Frank Gambale, l’avrebbe voluto al fianco nella sua Elektrik Band per tanti anni se non vi avesse riconosciuto un talento davvero fuori dall’ordinario. In più, credo, la sorpresa di ascoltarlo con una formazione tutta acustica (Otmaro Ruiz al piano, Alain Caron alla chitarra acustica) con la quale ha presentato il suo ultimo lavoro Natural High, una delle piccole perle discografiche dell’anno alle spalle e del quale si è parlato troppo poco. L’album e il tour di promozione comprendono una elegante rivisitazione di standard riarrangiati e pertanto ironicamente ri-titolati da Have you met Tom Jones a You are all the things; in particolare quest’ultima rilettura è una delle più convincenti che da tempo si ascoltassero, dall’inversione del tema ad un’improvvisazione lucida, ispirata e armonicamente originalissima. Il tutto supportato dalla tecnica che, al di là di tutto, Gambale sfoggia sul suo strumento che tiranneggia in modo illuminato e che recentemente sempre di più riesce a piegare ad esigenze espressive convincenti. Lontano da un virtuosismo che alle volte - è vero - è risultato fine a se stesso e privo di comunicatività, Gambale è oggi un chitarrista, compositore ed arrangiatore maturo. Per l’angolo dell’aneddotica, in un recente seminario svolto a Perugia mi trovavo in mezzo a tanti altri più o meno giovani aspiranti chitarristi, tutti protesi a rubare briciole di mestiere a Gambale, persona nota per il tratto umile, mite e sorprendentemente garbata nei modi. E lì, dopo i primi minuti di imbarazzo che sempre prelude a questo genere di seminari, si è trovato subissato dalle domande più bizzarre: ogni quanti giorni cambi corde? Usi la corda di sol di dimensione pari al mi cantino visto che il tuo bending lo effettui quasi sempre sul si (sic)? E poi ancora pickup, effetti, modulatori, pedali, rack, pickup, plettri, ponti, truss rod, insomma il tutto trasformatosi in un sequel di ingegneria del suono e meccanica applicata. Dopo aver risposto pazientemente a tutto, lui allarga il viso in un sorriso luminoso e dice: «Hey guys, it’s just music, play it!». Ragazzi, è solo musica. Paolo Romano

DI

HENDRIX DRITTO

IN FACCIA

P

er festeggiare una delle leggende della storia della musica che il 27 novembre avrebbe compiuto 66 anni, tutti a Stazione Birra per la IV edizione del Festival Jimi Hendrix! Il 27 e il 28 novembre, dopo selezioni musicali e videolive dedicati al musicista di Seattle, «James Marshall» Hendrix, saliranno sul palco alcuni fra i migliori chitarristi hendrixiani. Prima Tm Stevens, bassista e cantante (la cui voce viene spesso paragonata a James Brown) che vanta collaborazioni con Steve Vai, Cindy Lauper, Little Steven, Tina Turner e Billy Joel, Pretenders, Joe Cocker ma anche Miles Davis, Mahavishu e John McLaughlin durante i suoi esordi jazz. È qui con un sound heavy metal funk contaminato da elementi percussivi, afro e reggae. Quindi, Vinnie Moore: uno dei pochi chitarristi ad adottare il cosiddetto stile «neoclassico» traendo ispirazione da Yngwie Malmsteen, senza limitarsi però ad emularlo ma introducendo nel genere uno stile del tutto personale che lo rende uno dei più grandi shredder (guitar hero «veloci») di tutti i tempi. Poi Ulrich Roth, in arte Uli Jon Roth, da molti considerato l’erede più diretto di Hendrix: famoso per il suo passato insieme agli Scorpions (il live Tokyo Tapes ha venduto un milione di copie), che ha abbandonato nel 1978 per fondare gli Electric Sun. Un’intera serata, quella di mercoledì, è invece dedicata a uno dei musicisti più rappresentativi e carismatici del blues mondiale, capace di innovarne il linguaggio e di contaminarlo con i generi più moderni: Popa Chubby. Il rock sanguigno, la voce sporca e grintosa e una Fender Stratocaster affilata e swingante hanno fatto di Popa Chubby un punto di riferimento fra i chitarristi di ultima generazione. La sua alchimia musicale si è evoluta durante i suoi primi cinque album raggiungendo la sua massima potenzialità con Brooklyn Basement Blues, che abbraccia blues, soul, rhythm’n blues, rock, jazz, funk e rap e riflette l’atmosfera multietnica del blues tipica di New York. Ha detto: «Il blues a New York è una cruda musica urbana che ti colpisce direttamente in faccia. È la personificazione dell’onestà e della realtà, che non mente e non ha pretese». Valentina Giosa

Tm Stevens, Vinnie Moore, Uli Jon Roth, Popa Chubby: sono tutti insieme a festeggiare il 66esimo compleanno di un Foxy-man

PALCO APERTO AL CHARITY CAFÈ Nel cuore del Rione Monti il Charity Cafè, punto di riferimento per gli appassionati del jazz che gira a Roma festeggia, con la stagione 2008-2009, otto anni di musica live. L’iniziativa Palco Aperto & SLMC riveste particolare rilievo: due martedì al mese è Palco Aperto per i giovani talenti del Saint Louis College of Music. La nuova collaborazione prevede inoltre degli appuntamenti mensili con i «big» del Saint Louis Management - Italian Jazz e Beyond - tra cui: Paolo Recchia, Chat Noir, Susanna Stivali, Claudio Filippini. La programmazione, da settembre a maggio, prevede più spazio alle voci femminili ogni mercoledì sera, jam session il giovedì, appuntamento fisso per molti musicisti della capitale che si esibiscono in tributi ai grandi del jazz improvvisando su standards e originals; concerti il venerdì e il sabato. Inoltre rassegne tematiche dedicate agli strumenti tipici e più cari del jazz e progetti dedicati a musicisti che hanno fatto la storia della musica. Tra le novità della stagione: la Sala da tè, l’Aperitivo, il Palco Aperto tutti i pomeriggi per suonare e blues due volte al mese per risalire alle origini del jazz. (RG)

PO PCK pop&rock a cura di CORINNA NICOLINI

Music In  Autunno 2008

MARCO CONIDI Aveva aper- CLAUDIO BAGLIONI to una porta del cielo anni fa e Un gancio in mezzo al cielo oggi ha fatto un miracolo e tutta la strada che ha fatto.

ELIO E LE STORIE TESE Esiste da sempre un paese pro-Elio. Esiste un paese pronto alla contaminazione. Esiste un’Italia che non ha voglia di piangere.

MARCO CONIDI GIGANTE BUONO

Ti da di sé la voglia che non muore, le sue parole nuove, valigie e una vacanza, l’estate in una stanza, un vecchio carnevale, lo sguardo suo animale, le storie che sapeva, i giorni in cui credeva. Il buio delle chiese, la spesa in un mercato, la chiave in un portone, un fiore ed un guantone. a cura di Corinna Nicolini dischi all’attivo, quasi venti anni di carriera alle spalle e un fan club di «angeli» che lo segue da sempre. Se lo incontri per strada non farti intimidire dalla sua altezza, dal suo sguardo spesso cupo e dai tatuaggi che gli vestono le braccia. Marco Conidi è un irrimediabile romantico, forse ferito, a tratti impaurito, di certo riservato. Miracoli non se ne fanno è il titolo del suo ultimo lavoro: ancora una volta ha scelto di fondere un’anima rock al suo cuore morbido, e questa volta lo ha raccontato anche a Music In.

7

Hai baciato i marciapiedi scambiandoli per stelle. Qual è il tuo angolo di cielo sulla terra, il posto in cui ti rifugi? Nonostante questo lavoro mi conceda il lusso di girare l’Italia e mi permetta quindi di sentirmi familiari i portici di Bologna, le nebbie padane, i vicoli di Napoli, le distese della Puglia, lo sterrato siciliano e i bar di Milano, nonostante questi posti restino indelebili nella mia mente e nella mia scrittura, sono fondamentalmente un animale stanziale, quindi certi colori di Roma, certi profumi del mio quartiere, rimangono il punto di eterno ritorno al quale non manco. La familiarità di certi volti sono il mio rifugio, mi piace andare in un bar e vedere che sanno cosa prendo, ho bisogno di respirare storie, vite, piccole e grandi sconfitte e piccole grandi vittorie di storie popolari. Hai una foto in tasca dove sembri migliore e un sorriso da parte per sembrare un attore. L’impegno costante per non deludere il tuo

pubblico ti porta a migliorarti o ti schiaccia? Il bisogno di migliorami lo sento soprattutto nei confronti di me stesso. Non riesco a trovarmi interessante riproponendo gli schemi che ho già adottato precedentemente e credo che il mio stile si nutra anche di questo. Alcuni miei colleghi riescono a costruire carriere grandiose riproponendo sempre le stesse formule che li hanno resi famosi, forse riescono a trovare sempre nuove energie nello stesso recinto. Io non sono così e appena scrivo qualcosa che mi sembra di aver già scritto ne perdo interesse. Le tue canzoni sembrano album di fotografie. Sono immagini di vite reali o sono la tua fantasia? Ho sempre scritto per immagini ed ho sempre amato che il sapore di certe storie, di certi temi uscissero fuori dalla descrizione di un’immagine. Ma so scrivere solo di quello che conosco, che ho vissuto in prima persona o che al massimo ho visto molto da vicino. Non è un caso che la mia vita sia stata costantemente inquieta, è un dazio che ho pagato involontariamente, e forse tutta la sincerità che mi riconoscono nasce da questa fusione tra ciò che sono e ciò che scrivo e canto. Qual’è la parte della tua vita che assomiglia di più ai tuoi sogni e quale quella più lontana? I miei sogni sono riuscito a trasportarli nella mia vita professionale. Quando scrivo o mi esibisco trovo un senso ad ogni cosa. Durante il giorno spesso mi sento a disagio e fuori posto, ma quando salgo sul palco, con i miei amici musicisti accanto, tutto cambia.

La parte della mia vita più lontana dai miei sogni è quella sentimentale: senza amore perdiamo il meglio di noi stessi e vedermi senza impronte importanti mi addolora. Ho avuto qualche amore e uno che mi ha cambiato gli occhi. Non so se avrò la fortuna di innamorarmi ancora ma mi piacerebbe più di ogni altra cosa. I tatuaggi sulla tua pelle sono: velleità, il segno di momenti importanti o i pensieri che non sei riuscito a zittire? Sono quanto di più lontano ci sia dalle velleità. Alcuni sono addirittura mal fatti, imperfetti, distanti tra loro decenni, ma ci sono impressi i miei momenti, le mie grida, le mie voglie, sono impresse le mie sconfitte e la inesauribile voglia di riscatto. Cosa ha di diverso questo tour dagli altri? Ogni nostro tour è diverso in tutto: dagli arrangiamenti alla formula con la quale ci presentiamo. Ma il segreto dei nostri live sta nelle loro meravigliose imperfezioni. Chi viene a vederci sa che a un certo punto succede qualcosa che rende unica e magica l’atmosfera.

QUESTO PICCOLO GRANDE BAGLIONI È salito su un autobus e si è esibito, ha preso una camionetta gialla ed è andato in tour nella periferia di Roma. Questo ragazzo di Centocelle è ancora nostro.

C

antava «strada facendo troverai un gancio in mezzo al cielo», e lui il suo gancio l’ha trovato, ci si è attaccato ed è riuscito ad arrivare in alto, lì, da dove non si scende più. Ancora oggi Claudio Baglioni raccoglie sotto il palco migliaia di persone ed è dai loro cori che si capisce quanto sia ancora vivo. Eppure sono passati più di trent’anni dal giorno in cui l’RCA decise di scommettere su di lui, su quel ragazzo di Centocelle che gli amici chiamavano «Agonia» per via di quei maglioni scuri a collo alto e di quei suoi occhiali spessi, dal giorno in cui quel

bravo ragazzo uscì dalla sua stanza con quella che poi sarà proclamata a San Remo «canzone italiana del secolo»: Questo Piccolo Grande Amore. Nel ricordarla scorre davanti agli occhi il nostro passato: un disco di vinile o il nastro di una musicassetta consumati mentre intorno ad un falò cantavamo a squarciagola quel dolce-amaro ritornello. Impossibile lasciarlo fuori dal cuore: è così che Baglioni è diventato il cantautore dei

buoni sentimenti e la sua carriera un’autostrada che lo ha portato lontano. Ha corso, è cresciuto sotto i riflettori di palchi montati sugli stadi più emozionanti e, commosso da struggenti storie d’amore, è diventato un uomo e ha iniziato ad esprimere le sue riflessioni mature. C’è stato anche un tempo in cui si è dovuto fermare. Quando al concerto-evento di Amnesty International del 1988, il pubblico lo accolse con fischi e insulti non ritenendolo adatto all’evento, quando anche la donna che aveva sposato e che gli era sempre stata accanto si allontanò, quando un brutto incidente lo ferì alle mani e alla lingua, incassò i colpi, tutti insieme, e se ne restò a casa sua, se ne andò a lavarsi i panni, lontano dal suo pubblico che lo aveva lanciato per strada alla massima velocità e ad un tratto lo aveva lasciato schiantare. Ma il silenzio scuote più di un fragoroso applauso. Così quando torna è profondamente rinnovato: i suoi versi sono diventati giochi di parole e la musica si è accesa di ritmi diversi. Era forse già nato il Claudio di oggi. Alcuni tratti di strada li ha divisi con colleghi di fama internazionale come Youssou N’Dour, Didier Lockwood e Louis Bacalov; i suoi tour sono stati originali e curiosi. Nel 1991, per Oltre salì su un camion giallo assieme alla sua band improvvisando un concer-

to on the road nella periferia di Roma, e prima di partite per il tour Da me a te salì sull’autobus 51 e si esibì in un live davanti a poche decine di passeggeri stupefatti; Viaggiatore sulla coda del tempo venne presentato sugli hangar di quattro aeroporti italiani. Nel 1985 il suo concerto al Flaminio di Roma fu il primo ad essere trasmesso in diretta tv, e qualche anno più tardi, sempre lì, Claudio decise di spostare il palco al centro dello stadio per un evento che una rivista inglese definì «miglior concerto dell’anno nel mondo». Oggi ci stupisce ancora in un’impresa completamente nuova che lo mette alla prova come artista a tutto tondo. Parole da ascoltare e da leggere, immagini suggerite e rappresentate, suoni di voci e di note. Questi gli ingredienti dello spettacolo che si terrà al Gran Teatro di Roma dal 26 novembre al 6 dicembre. Q.P.G.A. è un film, un album, un libro, un concerto. Fondamentalmente una storia degli anni 70 raccontata per l’invidia di chi non li ha mai visti e per la nostalgia di chi li ha vissuti. Ora che i falò sono vietati dalle delibere comunali, lui resta aggrappato al suo gancio in mezzo al cielo. E da quaggiù qualcuno di noi con l’ accendino in alto riesce ancora a commuoversi nel ricordo di un amore che asciugava il mare. Corinna Nicolini

LA TERRA DEGLI ELIIIHCAC IED ARRET AL l’ha detto che la musica seria non possa far ridere? Ci abbiamo messo solo vent’anni per capire che Elio e le Storie Tese sono un vero e proprio gruppo musicale. Mentre i critici di settore digerivano mollica su mollica un cibo a loro sconosciuto i ragazzi già cantavano a squarciagola Cara ti amo e Urna. Mentre i discografici cercavano di capire perché «questi imbecilli» riuscissero a vendere sottobanco migliaia di dischi autoprodotti i furbacchioni della Gialappa’s se li portavano su Italia Uno a Mai dire Gol. Abbiamo solo dovuto aspettare che dai primi bootleg spacciati dagli adolescenti, gli Elii arrivassero al palco dell’Ariston per riconoscere che non si trattava di musicisti improvvisati. E se Baudo concede un minuto e mezzo per mettere in vetrina il proprio pezzo basta raddoppiare il bpm per farcelo entrare tutto e, vabbè, per passare alla storia. E se dà loro l’occasione di esibirsi fuori concorso, basta indossare costumi settecenteschi per poter intonare a

chi

corde vocali tese l’aria di Figa-ro, allungando la a e facendo una bella pausa prima di finire la parola, lasciando al puro caso ogni eventuale riferimento. La verità è che, nonostante tutto, esiste da sempre un paese pro-Elio. Esiste un paese pronto alla contaminazione. Esiste un’Italia che non ha voglia di piangere davanti a tutto ciò che da sempre affligge la sua mente, le sue tasche, e gli impedisce di spiccare il volo. Perché preferisce riderci su. Esiste un paese che inorridisce quando gli Elii vengono censurati al Primo Maggio in Rai perché la loro versione di Ti amo sui politici è troppo corrosiva. «Come Jim Morrison», gridava in quell’occasione il sopraccigliato Elio. «Come sempre», pensavamo noi. Perché non resistiamo all’irriverenza, è vero, ma solo da quando ci hanno convinti che è l’unico mezzo per attirare l’attenzione. Abbiamo ancora voglia di ridere nella terra dei cachi. Corinna Nicolini

PO PCK pop&rock

Music In  Autunno 2008

TRACY CHAPMAN Talking about the revolution lei l’ha fatta, la rivoluzione.

TRACY

LA BURBERA «Ci

sono persone che stanno nel mondo della musica solo perché vogliono diventare famose, mentre ce ne sono altre che vogliono semplicemente fare musica: ecco, io appartengo a questa seconda categoria.» Molti sostengono che Tracy Chapman sia una persona introversa, dal carattere chiuso e spesso burbero, atteggiamento che l’avrebbe tenuta sempre lontana dai riflettori dei mass media. Probabilmente, dopo gli 8 milioni di copie vendute del primo album omonimo (1988), nessuno si sarebbe aspettato che la cantautrice di Cleveland, allora poco più che ventenne, avrebbe percorso la sua strada prediligendo esclusivamente la propria musica. La voce ruvida e profonda, la fusione tra blues, gospel, soul, r&b, jazz fusion e la sensibilità per i duri temi sociali trattati le hanno fatto guadagnare, oltre che vari premi e riconoscimenti, la definizione di una delle più intense e raffinate cantautrici folk afroamericane viventi.

PAOLO CONTE Beviti ‘sto cielo azzurro e alto che sembra di smalto e corre con noi

JOAN AS POLICEWOMAN Non voglio più creare nulla urlando come facevo da ragazzina quando credevo che il punk era dire e fare tutto ciò che mi pareva

VIA

CON LUI

Entra e fatti un bagno caldo. Intanto, lui scrive per te la più romantica pagina della storia della musica italiana. Ora puoi asciugarti

di Gianluca Gentile

apita a tutti, per forza di cose, di essere spettatori della propria vita. Ma essere spettatori, interpreti e testimoni di vite, sogni, speranze, ambizioni, delusioni che evolvono col mutare dei tempi non è da tutti. Descrivere con linguaggio del tutto originale, ricco di significative trame testuali e poetiche, tipi, luoghi, situazioni, storie, atmosfere dell’immaginario del nostro tempo è prerogativa assoluta di un grande artista quale è Paolo Conte. Il suo apporto in campo musicale costituisce sicuramente una delle esperienze cardinali della canzone italiana e il peso culturale della sua figura è rimarcato dai numerosi premi e onorificenze ricevuti nel corso della carriera. Nato da una famiglia di legali appassionati di musica, fin da ragazzino imparerà il rispetto per le diverse culture e per il proprio luogo d’origine, tramite due grandi passioni: il jazz americano e le arti figurative. E una volta conseguita quella laurea in legge che gli spettava, inizia a vivere le prime esperienze in campo musicale nel segno del jazz con il Paul Conte Quartet, dando sfogo a quella irrefrenabile passione per la canzone italiana, napoletana e per la chanson francese. Ad un tratto sembra che il destino gli assegni il compito di scrivere alcune tra le più romantiche e ampie pagine della storia della musica italiana. Inizia - prima insieme al fratello Giorgio e poi da solo - a scrivere canzoni, sulla scia di suggestioni assorbite dalla vita, dal cinema, dalla letteratura e dall’arte. Restando dietro le quinte sforna, uno dopo l’altro, tutti i più grandi successi dell’epoca: La coppia più bella del mondo e Azzurro (Adriano Celentano), Insieme a te non ci sto più (Caterina Caselli), Tripoli ‘69 (Patty Pravo), Messico e nuvole (Enzo Jannacci), Genova per noi, Onda su onda (Bruno Lauzi) e molte altre. Più tardi l’avvocato astigiano inizia ad uscire dall’ombra e, oltre che autore di testi e musica, diventa esecutore ed arrangiatore dei brani, nei quali una voce casuale e come distrat-

C

ta tratteggia piccole storie private o quasi. Finalmente, con Un gelato al limon (1979) e Paris Milonga (1981), Paolo Conte viene consacrato al grande pubblico, prima italiano e poi francese. I suoi concerti, registrati nei due dischi Concerti e Paolo Conte Live, regalano emozioni e registrano una serie infinita di sold out in Italia e all’estero. Un posto singolare nella sua discografia è occupato da Parole d’amore scritte a macchina (1990), che racconta episodi decisamente atipici rispetto al corpus del suo repertorio. Con questo disco e il successivo Novecento (1992), Conte si dedica maggiormente a una sua personalità più intima, alle emozioni spicciole, assestando la propria poetica su narrazioni e confessioni del proprio io sognante. Il 1995 ci regala forse il suo disco più maturo di sempre, Una faccia in prestito, che raccoglie gli elementi tipici della canzone alla Paolo Conte: la grazia plebea della musica e il gusto per il pastiche fra epoche e stili diversi. Dopo aver fatto sognare il suo pubblico, un successo ormai indiscusso gli regala la possibilità di realizzare il progetto più ambizioso della sua vita: quello di vedere inscenato il proprio musical Razmataz. Ambientato nella Parigi degli anni 20, nel periodo e nel luogo che Conte vede come il fermento culturale di tutte le avanguardie del Ventesimo secolo, la storia narra l’incontro tra la vecchia Europa e la nuova musica nera e la scena è illuminata dai circa 1800 bozzetti e disegni di straordinaria efficacia che testimoniano il grande eclettismo dell’artista. Oggi l’avvocato con il vizio del jazz torna con un nuovo album in uscita, Psiche, e una nuova serie di concerti. Il suo pianoforte e la sua voce roca, profonda, sferzante e anti retorica torneranno al Teatro Sistina di Roma in una sei giorni (dal 18 al 23 novembre) da non perdere per poter continuare a vivere e a sognare tra passioni sfrenate e malinconie di memorie passate; tutto sulle ali della musica di Paolo Conte.

NON VOGLIO COMUNICARE

URLANDO

Durante la sua quasi ventennale carriera mai sono stati stravolti lo stile e i racconti descritti, molti dei quali dipingono un vivido quadro di povertà (morale ed economica) della società americana nei confronti della gente di colore. Di certo il presunto carattere schivo non le ha impedito di farsi portabandiera di tutti gli artisti socialmente impegnati, tanto da cantare al Tour Human Rights di Amnesty International e al Nelson Mandela Freedomfest, tra il 1988 e il 1989, nonché al concerto-tributo a Bob Marley nel 2000. E proprio gli stessi valori in cui ha sempre creduto le hanno permesso di rinunciare alla partecipazione al Live 8 del 2005 organizzato da Bob Geldof. «Ci sono molte ragioni per cui questo evento è sembrato, ai miei occhi, propaganda. Per esempio, gli artisti africani sono stati in qualche modo estromessi. Non si può parlare dell’Africa senza sentire la voce degli africani». IL SUO OTTAVO ALBUM IN USCITA IL 10 NOVEMBRE.

Torna la newyorkese Joan As Policewoman «per sopravvivere»

a

due anni da Real Life, la «poliziotta» torna con To Survive, album intimista e ricercato, frutto di un periodo di riflessione e cambiamento. «Non voglio più comunicare urlando», dice Joan Wasser riferendosi ai suoi esordi punk-rock. «Il mondo è già troppo pieno di violenza». La newyorkese Joan as Policewoman, multistrumentista e collaboratrice, tra gli altri, di Nick Cave, Rufus Wainwright, Antony and the Johnson e Jeff Buckley (nonché sua ex compagna), ci racconta com’è nato il suo ultimo album, ricco di sfumature soul, folk, elettronica e musica classica.

JOAN AS POLICEWOMAN

Cosa ascoltava Joan Wasser da bambina? Judy Garland e «Free to be you and me»! E adesso? Tanti, da Marvin Gaye a Radiohead, da The Knife a Dolly Parton, da Devo a Elbow, Sly and the Family

a cura di Valentina Giosa Stone, Elliott Smith, Astor Piazzolla, Nina Simone, Joni Mitchell, Billie Holiday, Siouxsie and The Banshees, The Pixies. All’epoca del tuo primo album usavi lo slogan «Beauty is the new punk rock» che ancora possiamo trovare sulla tua pagina Myspace. Cosa intendevi dire esattamente? Volevo rivisitare l’idea del punk rock. Credo che in fondo musica punk, soul e rock siano molto simili tra loro. Sono tutte espressioni di emozioni molto naturali, «schiette», e utilizzano una modalità molto semplice e diretta di comunicare. Ci sono tante brutte cose oggi al mondo e non voglio più creare nulla «urlando» come facevo da ragazzina quando credevo che il punk era dire e fare tutto ciò che mi pareva senza nessuna conseguenza, ma trovare il modo di comunicare con quante più persone possibili realizzando le cose più belle di cui sono capace. Come mai hai scelto di realizzare il video di «Christobel» cercando gente sconosciuta su Myspace e non ti sei affidata ad un videomaker professionista? Non sono una video maker e so che ce ne sono tantissimi in giro su Myspace, così ho pensato di usare quella ricchezza infinita di talento e creatività. Ne è venuto fuori un video animato che mi ha fatto ridere moltissimo! Cosa pensi del ruolo della musica in quest’epoca «Myspace/Youtube»? Che è così piena di informazioni! Ma che, fin quando non ne diventi dipendente, è bello poter vedere i vecchi video di Steve Wonder o Neil Young. Perché hai scelto di chiamare il tuo ultimo cd «To survive»? Il titolo si riferisce al mio modo di sentire degli ultimi tempi, a livello personale ed universale, dovuto soprattutto alla perdita di mia madre che mi ha insegnato a fare i conti con la realtà. Ma con «To survive» ho voluto far riferimento anche alle condizioni della scoraggiante situazione politica che ci circonda. Mi auguro che la gente vincerà togliendo il potere dalle mani dei maniaci. Hai viaggiato molto durante i tuoi tour. Qual è il posto che ti piace di più? Roma ovviamente... e non sto mentendo!

EDGE and back a cura di VALENTINA GIOSA

Music In  Autunno 2008

UFOMAMMUT Ufo perché psiche- THE CRANES Alison DARK TRANQUILITY delici come l’ignoto, Mammut perché Shaw è la Lolita del dream- Per un genere in declino, ci hanno il passato nella loro musica pop, noi negligenti peccatori vuole questa oscura pace

SUPERNATURALMENTE UFOMAMMUT

in

sieme a Lento e Morkobot, gli Ufomammut rappresentano uno dei pochi orgogli nazionali in ambito rock. La band di Urlo, Poia e Vita - progetto parallelo di Malleus, collettivo artistico conosciuto e apprezzato ormai in tutto il mondo che ha appena pubblicato il libro The Blood of the Mountain is the Hammer of God - sarà in tour a novembre in Europa e a maggio negli Stati Uniti. Abbiamo parlato con Vita, batterista dell’ipnotica e lisergica band piemontese.

Perché Ufomammut? Il nome Ufomammut è nato per caso. In realtà è diventata una sorta di leggenda: si racconta che «Ufomammut» sia stato scritto da Poia in una lettera a Urlo, ma neppure il creatore ricorda da dove sia saltato fuori. Questo nome è piaciuto così tanto che avevano pensato di utilizzarlo per «Malleus», progetto che era appena nato; poi, invece, è stato utilizzato per la band e credo che calzi proprio bene con la musica che proponiamo: Mammut si può abbinare al passato e noi abbiamo preso tanto dai vecchi gruppi (certamente non da quelli contemporanei), mentre Ufo rimanda all’ignoto, alla psichedelia. E credo sia perfetto. Come è nato il vostro progetto? Poia, Urlo ed io ci conosciamo dal ’95. Loro suonavano in una band che si chiamava «Judy Corda» ed era già molto all’avanguardia per l’epoca. Ci vedemmo per la prima volta una sera in cui si esibivano in un locale che frequentavo spesso. Quando è uscito il loro batterista, dopo circa un anno in cui ci eravam persi di vista, Urlo mi chiamò per farmi gli auguri di compleanno e ci incontrammo. Appena arrivato in sala prove, mi dissero: «Cosa fai lì in piedi, siediti alla batteria!». Così è iniziato Ufomammut. Il prossimo anno, il 6 febbraio, sarà il decimo anno degli Ufomammut... e il mio compleanno. Quali sono state le vostre influenze? Ci sono tre band che ci accomunano: Pink Floyd, Beatles (non il primo periodo, quello di «She loves You yeah yeah yeah» (canta), ma il periodo più acido) e i Black Sabbath. Forse anche i Blue Cheer. In generale la psichedelia e il primo hard rock della seconda metà degli anni 60. E lo Stoner Rock? Si, forse qualche influenza potrebbe anche essere arrivata da lì. I Kyuss sono grandiosi con queste chitarre cupe, con i riff che non sono mai macchinosi, sempre fluidi; poi ci sono gli Sleep e i Fu Manchu (i loro primi quattro dischi sono bellissimi). Poia e Urlo sono amanti dei Melvins. Come trascorrono gli Ufi le loro giornate? Urlo e Poia, assieme a Lu, sono molto presi dal progetto Malleus e gran parte del loro tempo libero lo dedicano a Ufomammut. Io (ride) passo la vita alla giornata cercando di guadagnarmi da vivere: sono modellista orafo, ho fatto l’imbianchino, sto facendo il fonico. Mi piace variare.

Avete individuato altri Ufi nel nostro pianeta? Sinceramente, la musica contemporanea non mi entusiasma molto; mi piace più ricercare cose vecchie perché non finiscono mai. Mi piacciono molto i Morkobot dal vivo, che fanno parte della nostra famiglia. Sono innovativi, strani, hanno influenze di rock progressivo anni 70. Mi piacciono anche i Lento e, per come mischiano l’hard rock e le tastierine beat anni 60, i Monster Magnet. L’esperienza più «ufo» che avete vissuto? Nel 2001, durante un tour in Europa con i That’s All Folks, in una serata di neve suonammo in Francia in uno di quei bar anonimi tutti bianchi, dalle pareti spoglie, il bancone vuoto, il barman coi capelli grigi. Non c’era il palco e abbiamo suonato per qualche signore di mezza età che ci guardava. Anche il Roadburn di due anni fa ha costituito in modo diverso un’esperienza incredibile, poiché c’erano gruppi come Hawkwind, Orange Goblin, Solace, Ozric Tentacles e Leaf Hound. Siete molto amati all’estero: dov’è che vi sentite più a casa? Sicuramente in Belgio. Quando andiamo lì abbiamo sempre un buon seguito e le serate che ci organizzano gli amici di Orange Factory sono sempre molto sentite, sia da noi che dal pubblico. All’estero siamo più seguiti perché c’è più interesse per il rock, ma anche più organizzazione. I gruppi italiani fanno fatica oggi a venire fuori perché in Italia si è malati di «esterofilia», che è sempre stato un nostro grande difetto. Negli anni 70 molti gruppi facevano rock progressive, grandi band che nessuno conosce oggi. Tanto che, all’estero, è capitato che musicisti stranieri mi parlassero dei New Trolls o dei Pfm. Come è nata la collaborazione con i Lento? È nata tramite Myspace. I Lento avevano mandato i loro pezzi alla Supernaturalcat (n.d.r.: Supernaturalcat è un’etichetta e un centro divulgatore in cui le diverse attività di Malleus si riuniscono: dal poster, alle installazioni video, fino ad arrivare alla musica) e da lì è nata un’ amicizia, oltre al primo disco. Io li ho conosciuti dopo, nel corso di una pausa di riflessione degli Ufomammut. Loro avevano già registrato Supernatural Record One. Cinque mesi dopo abbiamo inciso altri pezzi nella nostra saletta con Urlo e Poia ai due bassi, io alla batteria e Lorenzo e Beppe dei Lento alle chitarre. Cosa farete nei prossimi mesi? Un tour a fine novembre ci porterà il 21 a Innsbruck, il 22 a Berlino, il 23 a Zittau (Germania), il 25 a Manchester, il 26 a Swansea (UK), il 27 a Londra, il 28 a Deventer (Olanda) e il 29 a Saint Niklaas (Belgio). A dicembre per l’uscita del libro dei Malleus stiamo lavorando con Ufo, Morkobot e Lento a delle serate «Supernaturalcat». Per ora è confermata Ravenna, al Bronson, il 19 dicembre. A febbraio dovremmo essere in Spagna e in Portogallo, ad aprile e maggio proveremo il Nord Europa e, speriamo presto, gli Stati Uniti.

CARILLON ELETTRONICO Niente paura: tornano la voce diafona di Miss Shaw, le cupe linee del basso, l’onnipotenza dell’elettronica usata come carillon o potente tappeto di suono.

C

ome fare a non innamorarsi della suadente voce della Lolita del dream-pop? Alison Shaw ti abbraccia dolcemente come fosse la madre dei sogni lasciandoti immergere nell’angolo più profondo della notte. Sussurra come una sirena ninna nanne languide che a volte ci incantano, altre ci inquietano un pò come l’ignoto, tanto impercettibile quanto maledettamente seducente. Ma la magia dei Cranes non è certo solo merito della voce diafana e trasognata di Miss Shaw. Le cupe linee del basso, l’onnipresenza dell’elettronica usata o come carillon o come potente tappeto di suono, l’utilizzo frequente di riverberi e effetti atmosferici, le dissonanze e i riff tipici dello shoegaze fanno della band ingelse un gruppo di culto, l’unico che è riuscito ad unire l’anima dell’art rock anni 80, l’industrial tipico di Swans e Young Gods e il dark sound di Joy Division, Dead Can Dance e Cocteau Twins.

a cura di Valentina Giosa

Forever, uscito nel 1993, consacra la band di Portsmouth come una delle più significative della scena indie britannica. Brani come Far Away, Cloudless, Rainbows, Jewel (che subirà vari remix da parte di Robert Smith dei Cure, di Jim Foetus e del responsabile della 4AD, Ivo Watts-Russell), Everywhere (con atmosfere dark stile Siouxsie), Golden, sono autentiche perle di ispirazione, tecnica, eleganza, ovattate parentesi sonore a volte glaciali e spettrali ma così meravigliosamente malinconiche. Impossibile non assuefarsi al mood etereo dei Cranes. Nel frattempo la band si fa notare anche nel Wish Tour dei Cure del 1994 dove suona come gruppo spalla. Esce Loved, il loro capolavoro nonché uno dei lavori più riusciti dell’intero movimento dream-pop. Costruito come concept-album attorno ai temi della solitudine e dell’angoscia esistenziale, il disco ospita ballate ricercate e raffinate avvolte da riverberi ossessivi e claustrofobici. Dopo quattro pubblicazioni meno fortunate e una lunga pausa la band ritorna nel 2004 con Particles And Waves, disco meno acclamato soprattutto per chi già ha apprezzato i dischi precedenti, che sembra voler ricercare uno stile più classicheggiante. Seguono ben quattro anni di silenzio, che allarmano i fans più affiatati convinti ormai che l’avventura Cranes si è spenta così. Niente paura. La band ha annunciato l’uscita di un nuovo album seguito da un lungo tour europeo. Si vocifera che sarà un lavoro più elettronico e sperimentale dei precedenti ma sempre coerente al clima onirico e distintivo della band. Valentina Giosa

TURISAS Calano i vichinghi

OSCURA TRANQUILLITÀ Si inizia nel 1989 con il sound thrash degli svedesi Septic Broiler che cambieranno subito nome in Dark Tranquillity già nel ‘90, avvicinandosi al melodic death. I primi successi arrivano con Anders Friden (In Flames) alla voce, ma lascerà la band nel 1993 spingendo il chitarrista Mikael Stanne ad assumere il ruolo di vocalist. Nel ’95 pubblicano il loro capolavoro The Gallery. Le strutture progressive dei pezzi, i riff intrecciati delle due chitarre e gli assoli melodici sono i tratti più caratteristici del genere. Con gli album successivi e con l’aggiunta di una tastiera, le strutture dei brani divengono più accurate, la voce pulita si alterna al tradizionale growl sempre più spesso, gli arrangiamenti si fanno più complessi, i testi più introspettivi e quasi filosofici.

Durante i 19 anni di attività i Dark Tranquillity hanno costantemente cercato di espandere il loro orizzonte musicale ma senza mai dimenticare il loro marchio di fabbrica: la melodia tipica della scuola di Gothenburg. Una certezza oggi, per un genere ormai in declino. 2/11 – Alpheus, Roma Gianluca Gentile

METAL VICHINGHI orda di vichinghi si riversa nella bruUn ’ ghiera brandendo le proprie armi e urlando «metal metal», e la battaglia ha inizio. È un attacco potente, energico, magico. Foreste misteriose e sacri cerchi di pietre fanno da sfondo alla potenza travolgente di guerrieri che combattono, urlano, danzano e trionfano a ritmo di musica, quella dal sapore vichingo e suggestivo dei Turisas, band symphonic folk metal fondata nel 1997 da Mathias Nygård e Jussi Wickströ, che prende nome da Iku-Turso, antico dio della guerra finlandese. Capace di far riversare giù dalle colline orde di barbari pronti ad uccidere con riffs di chitarra potentissimi, e nello stesso tempo di cullarli, farli sognare e ballare sulle dolci note del flauto e del violino: è il videoclip Battle Metal 2008, capolavoro

realizzato a seguito di un concorso in cui la band chiedeva ai propri fans di girare un video vestiti da vichinghi. Ecco l’appello di Warlord: «Negli ultimi anni abbiamo notato un numero sempre crescente di fan ai nostri show truccati, vestiti e decorati da guerra. La cosa ci piace molto, è ovvio che questi ragazzi ci mettono un sacco di tempo a prepararsi per lo show, e questo non è qualcosa che qualsiasi band riceve dai propri fan. Succede ovunque! E per questo vogliamo dare ai nostri fan l’opportunità di partecipare al nostro prossimo video». Esso fa parte del dvd A Finnish Sumer With Turisas, una raccolta di live, interviste e molto altro. I vichinghi sono, per definizione, esploratori e marinai, e il nuovo lavoro dei Turisas merita, di fatto, una spedizione. Se non un saccheggio. Cristina D’Eramo

Music In  Autunno 2008

SEBASTIEN TELLIER Nel mio album sentirete il canto di un cane, l’urlo di una donna, il rumore del crescere delle gambe, ma non la batteria... nessuna batteria

THE RESIDENTS Che si nascondono dietro giganteschi bulbi oculari

L’INSOSTENBILE LEGGEREZZA DI ESSERE SEBASTIEN TELLIER Lui stesso raccomanda: ascoltatemi a luce di candela

Un

tizio barbuto, un po’ sovrappeso, l’aria un po’ alla Demis Roussos, vestito come il Lennon del periodo bianco, che si palleggia il microfono da un’inquadratura all’altra: Sebastien Tellier, genialoide menestrello dell’elettropop francofona, tre dischi all’attivo tra il 2001 e oggi nonché un passaggio, con il brano Fantino, sull’Ost di Lost in Translation di Sofia Coppola, che li deve amare questi francesi dato che per il precedente Virgin Suicides si era affidata agli Air (e si è inventata pure una glamourous Maria Antonietta). Air e Daft Punk sono anche i due numi tutelari entro cui si muove Tellier, sempre con un’occhio alla tradizione chansonnier francese. Per la stessa etichetta degli Air, la Record Makers, produce il primo disco nel 2001, L’Incroyable Verité. Sebastien fa tutto da sé, suona pianoforte, chitarra, archi e basso. Atmosfere dilatate, spleen crepuscolare. Tra tutte spicca la dolente psichedelia di Universe, tra la beatlesiana Blue Jay Way e Felt Mountain di Goldfrapp. «Nel mio album sentirete il canto di un cane, l’urlo di una donna, il rumore del crescere delle gambe, ma non la batteria... nessuna batteria», precisa. La batteria compare invece nel secondo Politics del 2005 e a suonarla ci pensa Toni Allen dei Fela Kuti. L’album segna il cambio di

rotta di Tellier verso un eclettismo fatto di sonorità funky e disco, con il crescendo di La Ritournelle come leadtrack. Passano altri quattro album, inframezzati da collaborazioni (Mr. Oizo), riletture unplugged (Sessions, 2006), tour al fianco di calibri come Moby e Air, e approdiamo ai giorni nostri con Sexuality. L’eclettismo di Politics sapientemente amalgamato dalle mani di Guy-Manuel de Homem-Christo, la metà dei Daft Punk, Tellier surfa leggero e libero tra Serge Gainsbourg, erotismo e synth fine anni 70 (Sexual Sportwear: «Nelle mie fantasie sessuali, penso spesso a donne in abbigliamento sportivo. Preferisco abbassare degli shorts piuttosto che alzare delle gonne»). Qua e là riaffiora la mai sopita vena malinconica (il piano di L’ Amour et la violence), mentre France Television lo impacchetta e lo spedisce a Belgrado come alfiere francese per Eurovision 2008 (con relativa polemica in patria e per il testo in inglese di Divine). Arriva diciottesimo, addirittura dietro una boyband russa e un duo canoro azerbaijano, ma la sua Divine intanto seduce e scala le chart. Con leggerezza. L’insostenibile leggerezza dell’essere Sebastien Tellier. Lorenzo Bertini

RESIDENTI OCULARI Q

uando si parla dei Residents si pensa più a un gruppo performativo avant-garde che a una vera e propria band. Avulsi da qualsiasi contesto commerciale, il gruppo assume la connotazione di un gruppo fantasma avvolto da un’impenetrabile aura di oscurità e di mistero: niente volti, niente nomi, niente interviste. I componenti si nascondono dietro enormi maschere a forma di un gigantesco bulbo oculare. Esordiscono nel 1974 con l’album Meet the Residents (1974) con l’intento di risvegliare il rock dalla fase di stallo che stava attraversando. Alcuni dei suoi alfieri più rappresentativi (Brian Jones, Jimi Hendrix, Janis Joplin e Jim Morrison) erano caduti per sempre vittime sacrificali della grandezza del proprio mito. Da una parte vi era un senso di disillusione postWoodstock acuito ulteriormente dalle stragi della «famiglia Manson» e dai sanguinosi avvenimenti del concerto di Altmont del 1969. Dall’altra vi era l’incedere sempre più invadente e nauseabondo dei pomposi capricci scolastici di stampo «wakemaniano» e dei lustrini glam. Di fronte a simili orpelli musicali, i Residents rispondono destrutturandone i loro punti cardine. In netto anticipo rispetto ai gloriosi aneliti indipendentisti post punk, rivendicavano il non

essere musicisti, ma artisti tout court, come unica garanzia di libertà creativa. Ed ecco che, allo schema classico «strofa-ritornellostrofa» si sostituiscono collages di frammenti sonori, suoni campionati, ululati beefheartiani e rumori d’ogni sorta. Le partiture bizzarre diventano lo spunto per una rilettura ironicogrottesca della realtà circostante. Sospesi tra John Cage e Frank Zappa, non c’è stile musicale standard che non venga riletto, smantellato e dissacrato attraverso semplici trame e jingle ipnotici. Non c’è spazio per melodie accessibili, ma solo cocktails micidiali di rock, elettronica, noise, vaudeville, sperimentazione avant-garde ed elementi etnici. Tradotto in termini pittorici l’effetto potrebbe essere come quando si passi improvvisamente dal manierismo di Raffaello alla Pop Art di Andy Warhol. Difficile che si canticchino mai le loro canzoni sotto l’albero. Sicuramente saranno ricordati come coloro che, in continua sfida con le regole dei generi, hanno dato un decisivo impulso all’evoluzione musicale traghettando la psichedelica di fine anni 60 fino alle porte del post punk e della new wave ed anticipando la world music.

DIE! DIE! DIE! Energia post-punk anni 80 e frenesia post-core degli anni 90 da uno scantinato qualunque a Chicago

EDGE and back

TORNO POVERA E BURLESQUE Le follie dei poveri. Torniamo a quando non avevamo una lira, fumavamo cicche e ci piaceva guardare queste donnacce nei loro sketch. Bei tempi. Che il vintage fosse di moda in questi ultimi tempi non è certo una novità. Lo stile retrò di Amy Winehouse, che fra un «capriccio» e l’altro ha conquistato un po’ tutti, il grande successo della Vintage Fashion (sono uscite addirittura delle guide per potersi districare fra gli ormai innumerevoli negozi che ne sono nati), il grande boom del jazz, ormai lontano dall’essere un genere di nicchia e degli spettacoli di cabaret anni 20 (vedi Berlino, dove numerosi e frequentatissimi sono persino i saloons specializzati in acconciature dell’epoca), fanno del vintage una vera e propria mania. Forse per mancanza di estro e nuovi talenti, o forse per la pigrizia che ormai ci appartiene da quando siamo caduti nella rete (è proprio il caso di dirlo), ormai dominati dallo stra-uso dei computer e dei nuovi media, continuiamo a guardarci indietro ed appropriarci, spesso anche male, di pezzi dal caleidoscopico puzzle del passato. L’ultima «tentazione» (e anche qui la parola mi sembra appropriata) è quella del burlesque, spettacolo parodistico nato nella seconda metà dell’Ottocento nell’Inghilterra vittoriana ed importato successivamente negli Stati Uniti, dove riscuote grande successo soprattutto fra gli strati di società meno abbienti (viene infatti anche chiamato: the poor man’s follies, le «foliès» dei poveri). Il burlesque si era fatto strada grazie allo scalpore creatosi attorno alla compagnia delle British Blondes di Lydia Thompson, a Little Egypt e alle produzioni dei fratelli Minsky. Consisteva in uno spettacolo variopinto di danza, canto, illusionismo, sketch comici e «anche» striptease (termine che in realtà è stato coniato negli anni 50). Con il tempo, come spesso accade quando si segue una moda solo perché è moda e non per-

ché si sceglie uno stile, lo show ha perso vari pezzi di «quel puzzle» finendo per essere «solo» uno spogliarello, che per fortuna ha però mantenute inalterate le sue caratteristiche di ironia e provocazione (striptease è infatti la crasi di due verbi inglesi: to strip, spogliare; to tease, stuzzicare, provocare). Non è il caso di Miss Dirty Martini, Julie Atlas Muz, Pontani Sisters, Cecilia Bravo e Dita Von Teese che sono riuscite a portare avanti la tradizione con grande maestria e spiccato talento, divenendo le Dixie Evans, Gipsy Rose Lee, Tempest Storm, Blaze Starr, Ann Corio dei nostri tempi. Il burlesque ha con il tempo ispirato, insieme al cabaret tedesco e al vaudeville, la nuova corrente chiamata dark cabaret, influenzata oltre che dall’estetica dei tre generi teatrali, anche da folk, punk, death rock, gothic rock e darkwave, e dal genere cinematografico noir. Due appuntamenti imperdibili il 14 e il 15 novembre alle ore 22 per tutti gli amanti del genere e per i più curiosi. Il Micca Club, primo locale a Roma a proporre le originali esibizioni di burlesque nel corso delle serate musicali, porterà sul palco in occasione della terza edizione del Roma Burlesque Festival Missy Malone, Lily White, Fancy Chance, The Bee’s Knees, Miss Beeby Rose e il Micca Burlesque Combo. La serata sarà presentata da Greg (Claudio Gregori) e, direttamente da Parigi, dalla cantante ballerina Lady Flo. Valentina Giosa

Eugenio Vicedomini

D I E ! Tre

D I E !

D I E !

ragazzini neozelandesi: Andrew Wilson, Michael Prain e Lachlan Anderson. Look dal sapore indie-neo punk e tanta vitalità e freschezza. Sono i Die! Die! Die!, nati circa due anni fa a Chicago in un seminterrato qualsiasi e già conosciuti e apprezzati in tutto il mondo tanto che il loro ultimo lavoro vede alla consolle uno dei più grandi della produzione rock-alternativa degli ultimi anni, Steve Albini (Nirvana, Pixies, PJ Harvey). Promises, Promises, uscito per la californiana S.a.f. Records, è un concentrato di energia post-punk anni ‘80 e frenesia post-core degli anni ‘90. Niente pause a separare un pezzo dall’altro: si tratta di una corsa irrefrenabile dove spiccano l’ ossessiva e martellante Death To The Last Romantic, la sconvolgente A.T.T.I.T.U.D., dove allo spelling urlato si alternano strofe dominate da un’impeccabile padronanza della melodia, fino alla violenta Throw a Fit e alla più introspettiva Blue Skies. Un mix di voci androgine e nervose, bassi pulsanti, chitarre incisive, ritmiche ossessive (così come la loro ossessione per la ripetizione dei nomi…) che grazie alle lezioni di autentici maestri come Joy Division, Wire, Pixies e Black Flag coinvolge e diverte. I Die! Die! Die! sono qui a riconfermare che la nuova generazione neo post punk, che unisce la venerazione per gli anni 80 a ricordi noise rock e hardcore, non è ancora passata. (Valentina Giosa)

MUSICALL a cura di ROMINA CIUFFA

L’ALTRO LATO DEL LETTO Una commedia musicale che, dalla Spagna, travolge Simone Alessandrini e noi

Music In  Autunno 2008

DI’ A MIA FIGLIA CHE VADO IN VACANZA Grazia Di Michele, da cantautrice ad attrice

MAMMA MIA! Meryl Streep porta sul grande schermo il musical più acclamato di Broadway, insieme ai pezzi degli Abba

A LETTO CON SIMONE a cura di Romina Ciuffa

chi

dorme dall’altra parte del nostro letto? A volte non diamolo per scontato, perché c’è tutto un mondo da scoprire spostandosi solo un po’ più in là. Si rigira nel lettone, allora, Simone Alessandrini, che suona il sassofono nella trasposizione teatrale della commedia spagnola «El otro lado de la cama», degli spagnoli David Serrano e Robert Santiago, un tormentone in madrepatria, qui passato in cavalleria. Innegabile la genialità della versione originale, dove il ritmo serrato delle vicende dei quattro protagonisti viene battutto da una colonna sonora perfetta, spensierata, forte e immediata. La storia, un classico intricato della commedia spagnola: la fidanzata lo tradisce con il suo migliore amico e la fidanzata del suo migliore amico diventa la sua amante, in un turbinio di coppie, etero e omosessuali, che nascono e scoppiano nel giro di pochi minuti. Nell’altro lato del letto della Sala Umberto, con traduzione, adattamento e regia di Marioletta Bideri e Stefano Messina, ci sono Vittoria Belvedere, Michele La Ginestra e Augusto Fornari ad esprimere, con parole e musica, il proprio punto di vista. Lui, Simone Alessandrini, è là sopra. Classe 83, inizia lo studio del sassofono all’età di dieci

anni. Ha suonato colonne sonore inedite per vari spettacoli teatrali: Storie…di Musica e A spasso con la musica di Daniela Remiddi. Oggi approfondisce la ricerca e lo studio del jazz presso il Saint Louis College of Music, ed è su questo palco. El otro lado de la cama è un film che in Spagna ha riscosso un grande successo perché ha saputo mescolare la musica al film senza cadere nelle vecchie critiche sul genere. In Italia è invece passato in cavalleria come un film da videocassetta per pochi amatori: anche perché esso fa un tutt’uno con i testi delle canzoni, che sono in spagnolo. Nella vostra commedia in che modo le canzoni si amalgano con la storia? Logicamente la trasposizione da un film a una commedia teatrale richiede un totale cambiamento dei tempi recitativi e non solo: in questo caso lo spettacolo, essendo straniero, è stato «italianizzato» nei testi in modo da renderlo più diretto e divertente possibile. Si tratta di uno spettacolo dinamico dai ritmi molto serrati, e si passa nella maniera più naturale dalla scena recitata alla parte musicale. Come nel film, il personaggio continua il suo discorso attraverso la musica non creando divario tra i momenti. Qual è il tuo ruolo nello spettacolo? Sono il sassofonista della band dello spettacolo, un sestetto che accompagna i personaggi nelle loro performance canore. Ovviamente tutti i brani sono eseguiti dal vivo. Chi sono i tuoi compagni di viaggio? Ippolito Pingitore alle percussioni, e i «Kandelabrum», felice realtà del rock pontino: Marco Trapanese alla chitarra, Stefano Milani alle tastiere, Stefano Valenti alla batteria e Giacomo Valenti al basso. La particolarità di questo spettacolo è che i musicisti si trovano sul palco assieme agli attori e con un gioco di luci appaiono nei momenti musicali. Simone, tu chi sei? Sono un musicista di Roma, ho iniziato a suonare il sax all’età di 10 anni e da allora mi sono trovato in varie e differenti esperienze musicali: classica, contemporanea, jazz, rock, world music fino ad approdare nel mondo del teatro grazie a Pino Cangialosi, mio ex insegnante di musica d’insieme al Conservatorio «Ottorino Respighi»

di Latina dove mi sono diplomato, con il quale lavoro in vari progetti da qualche anno. Faccio parte della Libera Orchestra di cui lui è il direttore: un organico di circa 20 elementi che passa con molta disinvoltura dalla musica barocca a Duke Ellington fino ad arrivare ai Led Zeppelin, collaborando con molti musicisti ed attori di fama nazionale come Tosca, Pino Ingrosso, Paola Minaccioni, Marzouk Mejiri etc. È lui l’autore delle musiche di questo spettacolo, in cui mi ha coinvolto. Che futuro ha in Italia, per te, un cd prodotto nell’ambito di una commedia teatrale? Purtroppo il teatro in Italia non sta attraversando un bel periodo: con il passare degli anni è frequentato sempre meno, ma credo che la pubblicazione del cd di un musical possa suscitare la curiosità della gente invogliandola a vedere lo spettacolo dal vivo. Si tratta di pezzi che possono essere ascoltati «a se stante» ovvero di qualcosa che non può prescindere dalla teatralità dello spettacolo? Perché ovviamente, nel secondo caso, il cd sarà più un esperimento che una raccolta di brani. In ogni musical ci sono sempre stati brani che hanno avuto un seguito a sé, molti di questi hanno fatto il proprio cammino negli anni quasi svincolandosi totalmente. Mi viene in mente la famosa «Over the rainbow» tratta dal Mago di Oz, della quale molta gente non conosce la provenienza. Che genere di musica troviamo ne «L’altro lato del letto»? Fondamentalmente musica pop, con influenze latino americane in alcuni brani; in altri swing, comunque melodie semplici e molto orecchiabili. Per un musicista c’è differenza suonare in un musical rispetto ad un normale concerto? Sono due modi totalmente differenti di affrontare il brano da eseguire: in un concerto si è protagonisti assoluti, ci si prendono a volte molte libertà. Suonare in un musical anche se all’apparenza può sembrare più semplice, ha delle difficoltà: viene messa a dura prova la concentrazione perché, con tempi e pause da rispettare, tra un intervento e un altro può scendere la tensione e quindi si fa più fatica a «scaldarsi».

MAMMA MIA MERYL! S

e il tuo nome è Meryl Streep, hai alle spalle una brillante carriera nel mondo del cinema, hai vinto due premi Oscar e sei universalmente riconosciuta come una delle attrici più eleganti e raffinate, puoi permetterti di fare ciò che vuoi. Anche toglierti qualche sfizio, come quello di portare sul grande schermo il musical del momento, Mamma mia!, e interpretare la colonna sonora composta dall’intero repertorio degli Abba, il gruppo svedese che tra il ‘72 e l’82, conquistò la popolarità presso il nascente popolo della disco music, grazie a brani semplici e orecchiabili, come quello che dà il titolo al musical. Phyllida Lloyd e Catherine Johnson, rispettivamente regista e sceneggiatrice dello spettacolo - e ora anche del film tratto da esso - sembrano aver scoperto la ricetta giusta per il successo: Mamma mia!, grazie a una trama costruita intorno alle canzoni più famose degli Abba, ha imperversato sui palcoscenici di tutto il mondo, arrivando a incantare più di 30 milioni di spettatori entusiasti. Il tutto è avvenuto con il benestare degli stessi Bjorn Ulvaeus e Benny Anderson, vale a dire la metà maschile degli Abba, coloro che scrivevano testi e musica.

Sulla scia del successo delle rappresentazioni teatrali, le autrici del musical ora tentano la via del cinema, scegliendo come protagonista Meryl Streep, la quale accetta un ruolo per lei insolito. L’attrice ha tutte le carte in regola per interpretare un musical, avendo tra l’altro studiato canto da ragazza, ed inoltre è stata lei stessa affascinata come spettatrice in un teatro di Broadway dallo spettacolo, tanto da scrivere una lettera di complimenti come farebbe un’ammiratrice qualsiasi. Mamma Mia! è la storia di una madre single e di sua figlia, che alcuni giorni prima del suo matrimonio vuole scoprire chi è il padre che non ha mai conosciuto. La figlia spedisce un invito ai tre possibili candidati, perché il vero padre la accompagni all’altare e tutti e tre si presentano all’appuntamento. Sull’isola greca in cui gestisce un piccolo albergo, la madre si ritrova così a fare i conti con il passato, incontrando dopo vent’anni non solo i suoi vecchi amori ma anche le sue migliori amiche dell’epoca. Per la trasposizione cinematografica del musical non si è badato a spese. Nel cast infat-

g

razia Di Michele, cantautrice e musicoterapeuta, debutta in teatro nell’insolita veste di attrice. Lo spettacolo, che la vede coprotagonista insieme ad Alessandra Fallucchi, è risultato vincitore del premio Molière in Francia ed è stato tradotto in Italia col titolo Di’ a mia figlia che vado in vacanza. La cantautrice romana non è nuova sul palcoscenico teatrale: nel 2004, insieme con Maria Rosaria Omaggio, ha portato in tournée le canzoni di Italo Calvino in un recital che univa letteratura e musica, ma mentre in quel contesto si limitava a suonare e a interpretare i brani musicali, in questo caso per la prima volta dovrà affrontare una vera e propria prova d’attrice. Di’ a mia figlia che vado in vacanza è una storia ambientata in prigione: due detenute di diversa estrazione sociale dividono lo spazio esiguo di una cella. Entrambe portatrici di un segreto, col tempo vinceranno la reciproca diffidenza e impareranno a volersi bene, unite da una solidarietà che sa trasformare in comica anche la situazione più tragica. Lo spettacolo, scritto da Denise Chalem, scrittrice francese di tradizioni ebraiche, è diretto da Maddalena Fallucchi ed è prodotto dalla compagnia «Il carro dell’Orsa»; le musiche di scena e i brani musicali sono composti dalla stessa cantautrice. Grazia Di Michele, in oltre 30 anni di carriera attraverso le sue canzoni è riuscita a raccontare la fragilità e la forza delle donne: adesso proverà a farlo anche da attrice. (A Roma, al Teatro Due dal 17 ottobre al 16 novembre) Nicola Cirillo

ti, oltre a Meryl Streep, ci sono Pierce Brosnan e Colin Firth, anch’essi alle prese con ruoli ben distanti dall’Agente 007 e dal Mark Darcy di Bridget Jones. Le riprese sono ambientate in una splendida isola greca immaginaria: Kalokairi. Sembra di entrare in un paesaggio da favola, una di quelle classiche cartoline con distese di mare circondate da case bianche e blu. I buoni sentimenti sono al centro della storia: il rapporto madre-figlia, l’amicizia tra donne, vecchi amori che non si dimenticano e seconde occasioni da prendere al volo. La regia punta tutto sulla nostalgia - come poteva essere altrimenti per un musical che

PURIFICAZIONE HAIRSPRAY Il Teatro Sistina ha ospitato il musical Hairspray-Grasso... è bello! per la regia di Massimo Romeo Piparo, riproponendo il film-musical americano in una versione tutta italiana. Scritto da John Waters nel 1987, inizialmente fu un’esilarante commedia cinematografica nemmeno a farlo apposta senza canzoni, ma ben presto l’opera divenne un musical teatrale per poi ritornare al cinema, lo scorso anno, in un film di successo, grazie anche allo straordinario cast di attori, tra cui spicca, nel ruolo della simpatica cicciona ‘en travestì’, John Travolta. Nel cast di Piparo (Jesus Christ Superstar, Evita, Tommy, My Fair Lady, La Febbre del Sabato Sera, Lady Day e Alta Società) troviamo Stefano Masciarelli nei panni della triste Edna, che solo grazie alla figlia e al ballo riacquista fiducia in se stessa. Le musiche di Marc Shaiman arrangiate e dirette da Emanuele Friello (Cats, La Febbre del sabato Sera, Lady Day, Alta Società) rievocano i fasti e l’allegria del rock’n roll anni 60 con incursioni rhythm&blues e gospel su cui il coreografo americano Bill Goodson

GRAZIA VA IN PRIGIONE

invece di proporre brani originali si limita a far rivivere vecchie hit degli anni 70? - e se scommetti sulla nostalgia, sentimento sempre di moda che non tramonta mai, non puoi sbagliare. Sia per chi allora era ragazzo, sia per chi quegli anni li ha vissuti di riflesso, non c’è scampo: che lo vogliate o no le canzoni del gruppo svedese entrano in testa prima che voi possiate opporre resistenza e restano lì. Tanto vale ballarci su, come fa Donna, la protagonista, che coinvolge le sue amiche e tutta la popolazione femminile dell’isola in una danza collettiva sulle note di Dancing Queen. Il segreto di Mamma Mia! è quello di proporre con semplicità un tuffo nei ricordi e di far vivere allo spettatore una breve vacanza dalla quotidianità. Allora, staccate il cervello e seguite il ritmo. Soprattutto, non sentitevi in colpa se battete il tempo con il piede e il giorno dopo fischiettate The Winner Takes It All: in fondo, quella che avete visto sgolarsi e saltellare sullo schermo è pur sempre Meryl Streep. Roberta Mastruzzi

di Elisa Angelini

muove il suo chorus di 16 ballerini, in un equilibrio pop-jazz. Lo spettacolo, al limite tra il cartoon e la fiaba, racconta di un mondo assolutamente ideale dove la bellezza morale trionfa sulla caducità «del dover apparire a tutti i costi» e dove una ragazza «paffutella» riesce a farsi notare e a trionfare solo grazie alla sua simpatia e audacia, lottando contro la discriminazione e la diffidenza nei confronti del diverso in una società troppo attenta all’aspetto fisico. Centrale nel musical è il tema del razzismo e della diversità; su pregiudizi e preconcetti trionfa la capacità di essere se stessi ad ogni costo, sfidando i benpensanti e gli ipocriti. Insomma, vincono la solidarietà, il rispetto e la comprensione. Questo musical non si fa mancare proprio nulla: dalla colonna sonora rock’n roll (come non rimpiangere Grease?) ai costumi color pastello, alle acconciature laccate e, ciliegina sulla torta, l’atmosfera dei «mitici» anni 60. Ciò che stupisce veramente è che proprio dal mondo dello spettacolo emerge questo moralismo esasperato che continua a dirci «Dai! Non esistono diversità!». È la voglia di «purificarsi» dalle tante Veline e vallette, è la continua ricerca di quella bellezza che esula completamente dal corpo, ma che ha molto a che vedere con quello che una persona trasmette: il trionfo della personalità.

BALLET

Music In  Autunno 2008

SANTASANGRE Non cadere nella tentazione di definire i Santasangre una compagnia di danza. Troppo facile.

FETHON MIOZZI È un coreografo romano a insegnare Danza Classica nello storico istituto Agrippina Vaganova di San Pietroburgo.

BHARATA NATYAM Purificare il genere umano

a cura di ROSSELLA GAUDENZI

SANTASANGRE: L’APOCALISSE Con l’aumento di un grado della temperatura atmosferica il mare sommergerebbe una parte del Golfo del Bengala, con quattro Venezia e Saint Tropez, con sei sarebbe desertificazione. I Santasangre reagiscono così. on cadere nella tentazione di definire i Santasangre una compagnia di danza. Sta infatti avvenendo di recente, e con una certa frequenza, che li si contatti, cerchi e intervisti partendo dal presupposto fuorviante che essi siano sostanzialmente un gruppo di danza. Così non è. Diana Arbib, Luca Brinchi, Maria Carmela Milano, Dario Salvagnini, Pasquale Tricoci e Roberta Zanardo stanno tracciando un percorso che indaga le tensioni e le possibili vie di fuga del corpo. Si decide di lavorare sul corpo e si prende una direzione al fine di arrivare ad una riscrittura: c’è una ricerca, che porterà a formalizzare dei gesti, e questi gesti verranno ripetuti. Questo sarà il punto di arrivo, che non si riusciva neppure a intravedere, al momento della partenza. Lo spettacolo Seigradi. Concerto per voce e musiche sintetiche fa l’apparizione sulle scene nel dicembre 2007 per la festa di chiusura del RomaeuropaFestival: si tratta della prima tappa del lavoro, venti minuti ben confezionati, dalla struttura autonoma. È un progetto prezioso, che può crescere, e del quale il suddetto festival si fa produttore. L’estate ha visto i Santasangre portare il

N

secondo studio dello spettacolo in tutta Italia, dal nord al sud, e a Groningen, in Olanda, al Noorderzone Festival. Quindi, al Palladium di Roma uno spettacolo di circa 50 minuti. Sulla scena Roberta, sola e avvolta da un tridimensionale apparato scenotecnico e video che utilizza l’ologramma a riflessione. La proiezione non ha nessun piano su cui appoggiarsi. Si agisce dall’interno, ci si muove entro una figura evanescente che permette di entrare ed uscire. Il tutto, per affrontare con la trilogia Studi per un teatro apocalittico l’Apocalisse nel senso del termine scisso dalla religione, quello legato al concetto di «rivelazione». Dopo aver squarciato il velo su un futuro politico e sociale con gli spettacoli 84/06 (ispirato a George Orwell) e Spettacolo sintetico per la stabilità sociale irrompe il tema dell’emergenza climatica. Se la temperatura della Terra si alzasse di sei gradi, saremmo destinati senza speranza all’estinzione. Nessun lavoro didascalico, ma un forte interesse nel lanciare l’allarme e scatenare la riflessione; Seigradi. Concerto per voce e musiche sintetiche si pone l’obiettivo di rivelare un possibile futuro prossimo. In scena la

ricerca sul ciclo vitale dell’acqua, affidata ad un surreale minimalismo, giochi di voci e di effetti ad accompagnare immagini che vanno dall’abbondanza alla desertificazione. Sola sul palco, sempre di spalle e in posizione centrale (limiti spaziali serrati che sono stati di grande stimolo nello svilupparsi del progetto: il risultato è uno spettacolo del tutto strutturato), Roberta Zanardo sarà corpo, voce ed anima dei Santasangre. Centro di uno spettacolo di teatro-danza sperimentale e, per cinquanta minuti, centro del nostro mondo. Cinquanta efficaci minuti per ricordarci che respiriamo e sospiriamo tutti sotto lo stesso cielo. Rossella Gaudenzi

ITALIAN BALLET IN FUGA FETHON MIOZZI all’algida San Pietroburgo arriva finalmente la conferma. Dopo il vociferare che per tutta l’estate ha solleticato la curiosità e le riflessioni di coreografi, ballerini e appassionati di danza nostrani, oggi la notizia è certa: il coreografo romano Fethon Miozzi (di madre greca e padre italiano), definito dalla critica internazionale «il più bel talento della sua generazione», ha ottenuto la cattedra di Danza Classica presso lo storico istituto coreografico Agrippina Vaganova di San Pietroburgo, diretto da Altynaj Asylmuratova. Accademia presso la quale, con una borsa di studio tra le mani, dopo essersi diplomato nel ‘90 a Roma, ha portato a compimento i propri studi, potendo confrontarsi con maestri del calibro di K. Seergheev, N. Dudinskaia, V. Semionov, M. Daukaev, T. Fesenko, L. Kovaliova, N. Pavlova, M. Vazhiev. Trattasi stavolta di Italian Ballet in fuga; il riconoscimento presti-

gioso va ad un’arte antichissima e proviene dalla severa e accademica Russia, patria indiscussa del balletto classico. Il ballerino dalle morbide linee e dal salto leggero è prepotentemente presente da tempo nei teatri di San Pietroburgo; unico italiano a calcare le scene dal Teatro Marijinski ed unico italiano a ricevere un’approvazione totale, da parte degli addetti ai lavori e da parte di un pubblico che non perdona, tanto è preparato ed appassionato. Nessuna traccia di questo talento su due grandi vetrine che quotidianamente catturano il nostro tempo: Youtube e Myspace. Un peccato per chi avrebbe voluto ammirarne la maestria per la prima volta, ma va accettato come dato di fatto il punto di vista di molti artisti, che spesso sfuggono al grande pubblico per rimanere protetti, al sicuro, nella loro nicchia. Rossella Gaudenzi

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Fl a me nQueVive P I N T U RAS L’OMAGGIO DEL FLAMENCO A PABLO PICASSO flamenco come celebrazione dell’arte geniale e folle di Pablo Picasso: questa l’ultima scelta artistica della compagnia italo-spagnola FlamenQueVive, in cartellone al Teatro Italia di Roma dal 28 al 30 novembre. Ritmi di danza flamenca ad interpretare quelle Pinturas dal forte impatto che il maestro andaluso ha consacrato all’eternità.

IL

Un linguaggio che per sua natura oscilla tra allegria e dramma, tra passione struggente, sfrenata e manifestazione della sensualità lenta, serpeggiante. A tinte forti, si narrano il mondo e la vita del pittore, con il supporto di luci, proiezioni e colori. Fusione di arti, per uno spettacolo che vuole esplodere come un’esaltazione della vita. AL TEATRO ITALIA, VIA BARI, 18 - ROMA - TEL. 06 44239286

ESPRESSIONE-MELODIA-RITMO

BHA-RA-TA

legante, sofisticata, emozionante, tanto complessa quanto affascinante, Bharata Natyam è una delle più antiche forme di teatro-danza indiano. Fu creata - si crede - da Brahma per purificare e sensibilizzare il genere umano, portare pace e bellezza al mondo. Nasce nel sud dell’India, nel Tami Nadu, come preghiera danzata, per essere eseguita nelle principali festività religiose all’interno dei templi ed è giunta nei palcoscenici di tutto il mondo solo nel ‘900. La struttura coreografica è composta da tre momenti fondamentali, Nritta, Nritya e Abhinaya, che caratterizzano i due aspetti tipici del Bharata Natyam, una forma astratta di danza pura, basata su ritmi scanditi dal battito potente dei piedi a terra che disegnano radiose successioni di forme geometriche con saltelli veloci e graziosi movimenti delle articolazioni e una parte recitata. Nritta, la danza astratta, comprende Karana, la posizione e il movimento del corpo e Adavu, la posizione dei piedi in riferimento al suolo, che insieme danno vita a movimenti eterei e superbe pose scultoree. Nritya e Abhinaya fanno invece riferimento al racconto di episodi della mitologia indiana attraverso le Mudra (movimenti delle dita delle mani utilizzati come alfabeto narrativo) e il linguaggio emozionale dell’espressione del volto con gli occhi, le sopracciglia, la bocca. Amore, Umore, Compassione, Collera, Coraggio, Paura, Rifiuto, Sorpresa, Pace d’Animo sono i Nava Rasa, i sentimenti base contemplati nella tradizione dell’India e che nel Bharata Natyam vengono magnificamente narrati. Un inno alla bellezza e all’armonia fisica e spirituale dove mito, rito e arte, espressione (Bha), melodia (Ra) e ritmo (Ta), si fondono armonicamente in uno spettacolo che costitusce una vera e propria «esperienza spirituale» per il pubblico, che si troverà immerso in un’ affascinante dimensione fuori dal tempo e fuori dal comune.

E

JOHANNA DEVI Come una superba scultura vivente, con energia, forza e precisione nel ritmo e un’ ineguagliabile grazia, delicatezza ed eleganza nei movimenti accompagnati da una recitazione carismatica, Johanna Devi disegna con la sua danza antica, armonici e incredibili scenari che sembrano racchiudere secoli e secoli di vita. Perché hai scelto questa insolita e affascinante forma di danza, Bharata Natyam? Amo da sempre le storie dell’antica India, e durante il mio viaggio in India ho imparato molto della cultura e dei simboli della tradizione indiana. La cosa che mi piace è che il Bharata Natyam unisce tecnica e ritmi complessi ad un aspetto narrativo e per me è essenziale trasmettere un messaggio al pubblico. La mitologia indiana è così ricca di significati e di insegnamenti per la vita e tradurre questo in danza è stupefacente, regala sempre qualcosa di molto speciale sia all’esecutore che al pubblico. Due parole per descrivere Bharata Natyam… Geometrico, equilibrato, ritmico, lirico, intenso. Come definiresti il tuo stile? Vario. Ho studiato con diversi insegnanti di Kalakshetra: con Rajyahsree Ramesh da cui ho appreso lo stile «Pandanallur», e con Lata Pada, che mi ha insegnato lo stile «Tanjavur». Quando mi occupo di coreografia mi piace molto combinare elementi di Bharata Natyam e la tecnica contemporanea e questo è

molto interessante per esplorare la forza creativa di ogni singolo genere e linguaggio. Qual è il tuo prossimo progetto? Una coreografia a cui sto lavorando insieme a due grandi musicisti, Kilian Herold (clarinetto) e Alpesh Moharir (tabla) e ad un’altra straordinaria artista, Nicole Wendel. Sarà una produzione multi-sensoriale che unirà elementi della musica, della danza e dell’arte dell’est e dell’ovest. Sono molto entusiasta di questo progetto. Qual è il tuo suggerimento per le persone che vogliono imparare il Bharata Natyam? Avere tanta pazienza e resistenza. È una tecnica molto difficile che richiede anni di dedizione e pratica ma - una volta superata la prima fase e capito le posizioni, il ritmo e i passi base - avrai solo da divertirti. Valentina Giosa

CLASSICA MENTE a cura di FLAVIO FABBRI

MIGUEL MARTINEZ Cantatina 22 luglio 1832 Riporta in vita Rossini come da una marea basca

Music In  Autunno 2008

ARTE Domenica Regazzoni Un modo diverso di ascoltare musica: scolpirla.

GIOACCHINO ROSSINI La sua Cenerentola la guarderemo in estate mentre cuciniamo.

UNA CANTATINA TRA ROSSINI E MARTINEZ Il Maestro Miguel Martinez scopre una Cantatina di Gioacchino Rossini e ce la consegna come la marea della sua città, San Sebastiàn, ogni mattina riporta nuovi oggetti, con ardore. È la storia di Amore e Imene: e Amore lo guardo in faccia mentre questo spagnolo - che ormai è un romano - mi parla del manoscritto dei conti Catanzano. Imene, invece, resta un’estasiante rottura da quello che era ieri (vivevo anche senza Rossini) e quello che è oggi. Come perdere la verginità.  CONTINUA DALLA PRIMA PAGINA

(...)

Un pianista grande, anche lui come il suo predecessore; in comune - oltre a questo - il fatto di essere vissuti entrambi a cavallo di due secoli (Rossini, 1792-1868) e di esser stati adottati da uno Stato limitrofo al proprio, la Francia parigina per il Cigno di Pesaro, l’Italia per questo nostalgico maestro di San Sebastiàn. Poi, la mente corre proprio all’alta marea che di notte invade la città basca, all’oceano che ogni sera bagna e ricopre le spiagge, all’idea che Martinez conosce bene - che vi sia un mondo intero nascosto lì sotto, che attende solo la luce del giorno per emergere.

di ROMINA CIUFFA Ecco, dalla marea, la Cantatina 22 luglio 1832. L’ha scoperta e la tiene a casa, l’originale con la firma autografa di Gioacchino Rossini (che è sua lo hanno detto i periti: radiografia, raggi ultravioletti, ialografia, pinacografia, macrofotografia, esami al radar, esami grafostilistici-calligrafici, confronto grafologico lettera per lettera, numero per numero, con Il viaggio a Reims e Il Barbiere di Siviglia). Cinquantasette pagine di foglio rettangolare, inclusa la copertina e l’ultima, bianca. Dodici pentagrammi per foglio, la pagina del titolo sporca e macchiata (e macchie anche altrove). Tre voci soliste: Amor

SCOLPIRE LA MUSICA Un modo diverso di «vedere» la musica: scolpendola. Una liuteria onirica, i violini e i quartetti di Ysaye, Wienawski e Debussy, le opere di Domenica Regazzoni.

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he la musica sia arte con la ‘A’ maiuscola non ci sono dubbi. Il problema è stabilire il confine, se esiste, con le altre discipline. La mostra di Domenica Regazzoni ci chiarisce subito le idee, materializzando un luogo concettuale e fisico su cui riflettere: Scolpire la musica. Lo scenario è dato dal Museo Internazionale e Biblioteca della Musica di Bologna, dove l’artista propone, fino al 9 novembre, un modo diverso di ‘vedere’ la musica, semplicemente scolpendola, rendendola visibile. Ecco quindi che il confine artistico, nella sua percezione, viene già attraversato in tre dei cinque sensi: vedere, sentire e toccare. L’esposizione propone opere pittoriche, scultoree e incisioni di Domenica Regazzoni realizzate tra il 2007 e il 2008 sul tema della liuteria trattato attraverso materiali eterogenei, quali tavole in legno rielaborate, tele, carte, legni e bronzi. Un mondo sospeso tra i ricordi d’infanzia legati al padre, grande maestro liutaio, erede di predecessori quali Stradivari e Amati, e la forza plasmatrice della fantasia e della memoria, in una ricostruzione affettiva e simbolica celebrata dall’artista in chiave contemporanea. Un filmato, realizzato da Fabio Olmi, racconta il liutaio Dante Regazzoni all’interno del proprio studio proprio mentre lavora alla realizzazione dei violini. In questa liuteria onirica troviamo sculture giganti dall’impatto puro ed elegante, di grandi dimensioni (quasi 2 metri di altezza) in legno di acero, abete e palissandro. D’intenso valore e significato sono anche gli assemblages e i collages e le tavolette polimateriche, suggestive e poetiche, realizzate su supporti che richiamano sia il mondo dell’arte, come la tela e i colori, sia quello della musica, come le corde di violino. Una musica per violino solo o per quartetto con musiche di Ysaye, Wieniawski e Debussy fa da colonna sonora e accompagna i visitatori attraverso il percorso espositivo. Gillo Dorfles, pittore, critico e filosofo, parla di Domenica Regazzoni come di un’artista che ha saputo dar vita a raffinati collages polimaterici, a minute ma sensibili interpretazioni degli haiku nipponici, che ha voluto a bella posta limitare la sua opera esclusivamente a tutto quanto poteva ricordare e celebrare il lavoro paterno: la sua capacità artigianale, il suo incredibile «orecchio» musicale, evidenziando in questo modo - sia pur metaforicamente - quel connubio così spesso tentato e quasi sempre fallito tra le due arti, quella visiva e quella sonora. (Flavio Fabbri)

coniugale-soprano, Euterpe-contralto, Apollotenore, con un’aria per baritono più coro maschile (tenore I, tenore II e basso) e accompagnamento di pianoforte. Testo in italiano, e cancellature e modifiche ad indicare che si tratta di un’opera in costruzione. Martinez l’ha chiamata Cantatina dell’Amor coniugale: è, infatti, un epitalamio che celebra la felicità del giorno delle nozze, probabilmente quello di un amico del Rossini. Due ipotesi sulla destinazione: la prima (più illuminista), secondo cui l’avrebbe scritta durante le lunghe vacanze con la famiglia Aguado nel sud-ovest della Francia, tra Bayonne e Tolosa, lontani da una Parigi colpita dall’epidemia di colera del 1832 - data che corrisponde a quella indicata nel titolo (peraltro autodenigratorio, «cantatina» in luogo di «cantata», proprio nello stile del Pesarese). Solo poco tempo prima, nel 1827, Rossini aveva già composto una Cantata per il battesimo del figlio del marchese Alessandro Maria Aguado, banchiere amico e amministratore delle sue risorse finanziarie. La seconda ipotesi, più romantica: nel 1832 Madame Olimpe Pellisier aveva assistito l’artista in occasione di una malattia neuro-vegetativa che lo aveva colpito. Il maestro la sposerà nel 1846. Martinez non esclude potesse essere Olimpia colei che «emula i Numi in cielo», madreamante-amante-sposa che i Numi innamorò. L’intento è silenzioso, ma sopravvive fino ad oggi. Di proprietà del conte Vittorio Catanzano, il manoscritto è messo all’asta dal nipote - in un momento di bisogno - nel 1979 alla Christie’s di Londra e, invenduto, torna a Roma. Dove si trova il maestro Miguel Martinez. Musicologo, insegnante di Educazione musicale e Pianoforte in istituti privati, nei Conservatori di Latina, L’Aquila e Santa Cecilia di Roma, direttore d’orchestra e sensibilissimo compositore, lui che è anche un amante di Rossini sposa la causa, svolge un’accurata revisione, elaborazione ed orchestrazione dell’opera che gli viene affidata dal conte e che oggi porta il suo copyright (1985) anche per le leggi di Washington, D.C., e si batte. Contro i mulini a vento proprio come il suo paesano Don Chisciotte - la miscredenza, l’invidia, la malafede, le posizioni di principio degli «esperti» - fino a portarla, il 10 maggio 2003, in prima mondiale alla serata inaugurale dell’Hampstead & Highgate Festival in Inghilterra. Il plauso della critica: a questo punto non servono quasi più le perizie, perché que-

st’operetta sull’amore ci serve. Vogliamo sapere che proviene proprio da lui, l’autore della Gazza Ladra e del Barbiere di Siviglia, un ipocondriaco, umorale, collerico, pigro e depresso, come noi. Poi, come noi, un amante delle donne, della buona cucina e del vino, tanto da esser famoso per le sue ricette e per i valzerotti sul burro, sulle acciughe, sui cetriolini e sull’olio di ricino. Rossini, mezzo illuminista mezzo romantico per questo forse sempre in crisi, eterna la lotta tra il senso dei suoi testi e l’emotività delle note - aveva detto: «Datemi una nota della lavandaia e la metterò in musica»; nel suo profilo illuministico, si auto-plagiava utilizzando proprie composizioni (i centoni) nelle nuove opere, mentre il romantico regalava operette alle alunne, agli amici, alle amanti, e scriveva péchés de vigilesse («semplici, senili debolezze»). La prima opera all’età di 14 anni - un Demetrio e Polibio rappresentato solo nel 1812 - quando la passione per Mozart e Haydn lo consumano (tanto da meritarsi il soprannome di «tedeschino»), subito il teatro e la lirica e il loro precoce abbandono, la depressione, il ritiro nella campagna parigina di Passy e ancora comporre. La prima rappresentazione fu al Teatro Mosè di Venezia con La cambiale di matrimonio, l’ultima il Guglielmo Tell del 1829, a Parigi. Ma non finisce e continua a scrivere per gli intimi, per sé, un finto pigro: ed ecco il Duetto dei due gatti rinvenuto presso un antiquario napoletano, una Messa a voci d’uomo del 1808 riportata alla luce nel 1960, una Cantata, quella del voto filiale, emersa di recente. E la Cantatina. «Danze, ghirlande, cantici, / Amore e Imene a gara / nell’ombra del silenzio / Prepara alla beltà». Io l’ascolto solo perché Miguel Martinez l’ha voluta con tale intensità. Questa, per la mia umanità personale, è la prima mondiale della Cantatina, che Rossini sembra aver scritto solo per questo maestro basco. E me.

METTI ROSSINI IN CUCINA La «Cenerentola» rossiniana in diretta: quando la tv torna ad essere servizio pubblico a Rai ci riprova con La via della musica. Dopo la diretta romana della Tosca di Giacomo Puccini nel 1992 e della Traviata di Giuseppe Verdi da Parigi nel 2000, questa sarà la volta della Cenerentola di Gioacchino Rossini, il 20 e 21 giugno 2009, in mondovisione, con l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai diretta dal maestro Riccardo Chailly. Cenerentola, una favola in diretta, programma ideato e prodotto da Andrea Andermann in partnership con la Rai, propone tre appuntamenti per un totale di oltre due ore di diretta complessive. Un gradito ritorno per «La via della musica», che proseguirà poi col Rigoletto di Verdi. Un nuovo progetto culturale che vede la Rai in prima fila, sia in termini di sforzi

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economici che di competenze professionali, ben sottolineato dalle parole del presidente Claudio Petruccioli: «… La tv permette di offrire al grande pubblico il meglio del melodramma italiano attraverso linguaggi e formule narrative specifiche. Questo è il pregio maggiore dell’operazione, il motivo per cui la Rai la vuole e ci crede». I grandi eventi culturali tornano così in televisione, segno che il mezzo, grazie alle più moderne tecnologie di trasmissione in alta definizione, può ancora assolvere a un compito che in passato ha decisamente svolto al meglio, come servizio pubblico radiotelevisivo: portare la bellezza della cultura tra la gente, nelle case, a tutti, in Italia e nel mondo. Flavio Fabbri

CLASSICA MENTE

Music In  Autunno 2008

MUSICOFILIA Oliver Sacks Per Michael il sol minore è color ocra, il re minore ha il colore della selce, un color grafite, il fa minore è del colore della terra o della cenere. Rosy ha trascorso 43 anni - prima di svegliarsi - in un recinto musicale fatto delle 14 note del «Povero Rigoletto». E i malati della sindrome di Tourette suonano il tamburo in perfetta sincronia ritmica.

di Flavio Fabbri e Romina Ciuffa

rapporto che lega l’uomo alla musica è classificabile come unico e probabilmente assoluto. Un caso singolare tra le specie animali di catarsi psicofisica, che non ha davvero eguali nel mondo dei viventi. Se il corpo viene rapito dal ritmo con la danza, l’incredibile dinamica neurale della musica genera specifici nessi continui tra funzioni e disfunzioni del cervello. Nel suo ultimo lavoro, Musicofilia (Adelphi, 2008), Oliver Sacks esplora il mondo nebuloso e sconosciuto di patologie estreme e drammatiche, come l’autismo, il Parkinson, la demenza precoce, l’Alzheimer e le sindromi corticali, raccogliendo preziose testimonianze, spesso aldilà del semplice referto medico. Universi oscuri in cui, attraverso la musica, si trovano incredibili risposte e benefici al limite dell’inspiegabile. Allucinazioni sonore, amusia, disarmonia, epilessia musicogena: da quali inceppi, nella connessione a due vie fra sensi e cervello, sono causate? Come sempre l’indagine su ciò che è anomalo getta luce su fenomeni di segno opposto: l’orecchio assoluto, la memoria fonografica, l’intelligenza musicale e soprattutto l’amore per la musica. E Sacks non ci vede assolutamente nulla di miracoloso: la musica è qualcosa di innato nell’essere umano o, se si preferisce, di profondamente radicato nella specie. Fin dalla più tenera età. Siamo esseri musicali oltre che linguistici, tutti in grado di percepire le note, i timbri, gli

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intervalli, i contorni melodici, l’armonia e il ritmo di un’esecuzione. Riusciamo quasi istintivamente a interagire con tutto questo e a costruire mentalmente musica, facendo interagire diverse parti del cervello su diretta azione dell’organo uditivo e non solo. Così come la musica ci può calmare, eccitare o dare conforto, allo stesso modo può essere utile, se non insostituibile, a livello terapeutico per i casi sopra citati. Ad esempio, come si fa a «pensare» la musica? Neuroni. Oliver Sacks, celebre neurologo e scrittore già noto al pubblico per il best seller Risvegli del 1987 (da cui Penny Marshall ne trasse nel 1990 il film omonimo con Robert De Niro e Robin Williams), non ne ha dubbi: «... La musica fa così parte dell’umano che il suo utilizzo quotidiano ne banalizza l’importanza. Eppure, per tutti coloro che sono persi nelle oscurità dell’Alzheimer o di altre forme di demenza, essa può avere un potere superiore a qualsiasi altro strumento nel restituirli, seppure soltanto per poco, a se stessi e agli altri». Lo crede perché c’era: un giorno, a New York, davanti a una trentina di persone affette dalla sindrome di Tourette, in preda a tic contagiosi che si propagano ad onde. Lì, sopra un palco, un batterista. Che comincia a suonare. E loro a seguirlo con dei tamburi, in perfetta sincronia ritmica. Come? Un giorno, l’insigne compositore contemporaneo Michael Torke disse alla sua insegnante: «Mi piace proprio quel brano azzurro». E aggiunse: «Il brano in re maggiore... il re maggiore è azzurro». «Non per me», replicò l’insegnante. A cinque anni, Torke - che già componeva - dava per scontato che tutti vedessero dei colori in associazione alle tonalità musicali. Quando capì che ciò non era, la considerò come «una specie di cecità», poiché in lui questa sinestesia con le tonalità musicali è stata sempre presente, permettendogli di vedere colori precisi costantemente associati al suono della musica - scale, arpeggi, qualsiasi cosa. E il fatto di avere l’orecchio assoluto - spiega a Sacks rende per lui le tonalità musicali assolutamente distinte: il sol diesis minore ha un ‘aroma’ diverso dal sol minore; ogni tonalità e modo appaiono visivamente distinti e caratteristici come lo è il suono, e nessuno sforzo di volontà o immaginazione può modificarli. E cosa succede se, guardando l’azzurro, suona un re maggiore che è giallo? Vede verde? No, i colori sinestetici sono del tutto interiori e non si confondono mai. Per lui, sono rimasti gli stessi e coerenti per almeno 40 anni. Sacks definisce «strano» che la musica sia, in vario grado, nella testa di tutti noi, perfino in assenza di fonti esterne. A volte, la normale immaginazione musicale varca un limite e diventa «patologica», come quando «un particolare frammento di musica si ripete senza

sosta, a volte in modo esasperante, per giorni e giorni». Il classico «ce l’ho in mente e non se ne va». Ciò - e il fatto che tale musica possa essere «del tutto fuori luogo o banale, per nulla gradita o addirittura odiosa» - indica un processo coercitivo, che la musica sia «penetrata in una parte del cervello e l’abbia sequestrata costringendola a scaricare in modo autonomo e ripetitivo»: come può accadere nel caso dei tic o della crisi epilettica. È in questa accezione che la musica diviene esterna alla nostra fisicità, uno degli elementi in grado di disturbare il silenzio naturale del sangue che scorre (quella soglia di rumore, sempre presente, che è tollerata a livello percettivo da un corpo funzionale, adattabile, che altrimenti impazzirebbe e, per questo, elabora un sistema difensivo tale da non riuscire ad ascoltare se non lo stomaco affamato o il cuore che batte nelle orecchie, nelle vene, nel polso, e solo in determinate circostanze). Il silenzio è tutto. La musica, elemento di disturbo. Penetrante. Coercitivo. Inconfinabile. La trappola di un motivetto «orecchiabile», carcere per la mente, interferenza che a volte può divenire straziante, e liberarsene impossibile. «Mi misi a saltare su e giù - spiegava all’autore il suo amico Nick -. Contai fino a cento. Mi spruzzai dell’acqua in faccia. Cercai di parlare a me stesso ad alta voce, tappandomi le orecchie». È l’earworm, verme dell’orecchio utilizzato dalle campagne pubblicitarie. Ed è contagioso. «(...) Due giorni dopo, il narratore incontra un vecchio amico, un pastore, e inavvertitamente lo ‘infetta’ con il motivetto; il pastore, a sua volta, contagia senza volerlo tutta la congregazione». «In chi è affetto da certe condizioni neurologiche (spiega Sacks) i ‘tarli’ o i fenomeni associati - la ripetizione ecoica, automatica o compulsiva di note o parole - possono acquisire ulteriore forza. Rose R., una paziente del gruppo di parkinsoniani postencefalitici che ho descritto in Risvegli, mi raccontò di come nei suoi stati ‘congelati’ fosse spesso stata ‘confinata’, come diceva lei, in un ‘recinto musicale’: sette coppie di note (le quattordici note di Povero Rigoletto) che si ripetevano in modo irresistibile nella sua mente. Mi disse anche che esse formavano un ‘quadrilatero musicale’ lungo i cui quattro lati lei era costretta a camminare, mentalmente, all’infinito. Questo poteva andare avanti per ore di seguito, e di fatto fu proprio così, a intervalli, nell’arco dei quarantatre anni della sua malattia prima che fosse ‘risvegliata’ dalla L-dopa». Può darsi che esista un continuum tra il patologico e il normale, o non si spiegherebbero tarli improvvisi all’orecchio, irresistibili a livello neurologico. Ciò che mette paura è la stessa cosa che ci solleva: la musica costituisce un mostro meraviglioso che sa far lacrimare perché non va via, nel bene e nel male.

L’OPERA DEVE USCIRE DAI SUOI TEATRI IMMENSI Il Piccolo Lirico Teatro Flaiano, per il 150° anniversario di Giacomo Puccini, avvia un grande progetto «in piccolo»: rappresentare l’opera in teatri da camera, per più repliche e per tutti. Una cura dimagrante per riconquistare l’intimità egli ultimi anni molto si è parlato di rinascita dell’Opera lirica, in special modo di grandi incassi, di tutto esaurito e di strutture sold out estate-inverno, proprio perché non ci sono più le mezze stagioni. Eppure, nessuno si ferma a riflettere sul rapporto tra l’Opera lirica contemporanea e il suo pubblico: c’è comprensione reale? Quali sensazioni attraversano il pubblico più giovane? In che modo l’immenso patrimonio culturale lirico si tramanda alle nuove generazioni? Forse per rispondere a queste domande o forse solo per celebrare il 150esimo anniversario del grande compositore Giacomo Puccini, magari compiacendosi un poco delle lusinghe ricevute dai media di mezzo mondo, il celebre Piccolo Lirico Teatro Flaiano di Roma rilancia un modo diverso di fare Lirica. Da ottobre a tutto maggio 2009, saranno oltre 140 le repliche di un nuovo allestimento della Tosca e di Madama Butterfly, due importantissime opere pucciniane che rappresentano lo spirito e la filosofia di un progetto innovativo che si confronta inevitabilmente con molte convenzioni tipiche degli spettacoli operistici, come lo spazio, la durata e le modalità di rappresentazione. I punti cardine del progetto sono: 1) una durata

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variabile tra i 90 minuti (Tosca) e i 100 minuti (Madama Butterfly); 2) le rispettive strutture analizzate, rilette, scomposte e ricomposte, tanto da presentarsi come due spettacoli lirici dal linguaggio universale e facilmente fruibile; 3) partendo dalla tradizione squisitamente teatrale, nella tecnica costruttiva, nelle manualità, nei trucchi, la scenografia punta al simbolico, al primo piano dei protagonisti ravvicinati al loro pubblico come non accade in un grande teatro; 4) i costumi, appositamente creati per ogni artista che si avvicenda, pur rispettando la tradizione, sono frutto anch’essi di una suggestione densa di riferimenti, ma interpretata secondo una visione più moderna dell’intendere la bellezza e l’arte. Svincolarsi dai numeri del botteghino, vivere piccoli teatri ‘da camera’ in cui le opere vengono

presentate per più repliche, credere che la conoscenza e la crescita culturale si fondano anche sulla possibilità di ripetere l’esperienza. Tentativo coraggioso che punta sulle nuove tecnologie (scenografia virtuale, potenzialità metamorfiche del suono amplificato, nuove tecniche visive), dialogando con le sensibilità dell’oggi. Bisogna partire dal teatro come grande fucina di saperi artigianali, con la coscienza che ne esistono di nuovi, confidando che anche la tecnica aspetta solo di incontrare l’estetica. Coincide con la visione che il compianto Gian Carlo Menotti, fondatore del prezioso Festival dei Due Mondi di Spoleto, predisse già una decina di anni or sono: «… Questa prospettiva è attuale e segnerà una svolta nella storia delle rappresentazioni liriche. L’opera deve uscire dai suoi teatri immensi, dove un posto a sedere costa una fortuna, dove i giovani, abituati ai primi piani del cinema e della televisione, non riescono neanche a discernere i tratti dei cantanti, lontani come sono dal palcoscenico e dall’orchestra. L’opera deve fare una cura dimagrante, riconquistare l’intimità dei piccoli teatri». Flavio Fabbri

L’Inno alla vita dei Carmina Burana Tornano all’Accademia di Santa Cecilia i popolarissimi Carmina Burana, celeberrima composizione di Carl Orff del 1937, per un rinnovato inno alla vita e ai suoi piaceri terreni. Basati su testi profani del XIII secolo e scritti con un latino affogato in dialettali rime francesi e tedesche, soltanto nella prima metà dell’800 furono riportati alla luce da un convento benedettino in Baviera. Dal 29 novembre al 2 dicembre, di nuovo l’afflato vitalistico dei Carmina Burana nella Sala Santa Cecilia dell’Auditorium romano, in un’esecuzione per soli, coro e orchestra, ovviamente quelli dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, diretti da Rafael Frühbeck de Burgos, accompagnato dalle voci di Annick Massis (soprano), Lucas Meachem (baritono) e Celso Albelo (tenore). (Flavio Fabbri)

SOUND tracking a cura di ROBERTA MASTRUZZI

Music In  Autunno 2008

ENNIO MORRICONE L’intervista Dopo ogni premio, lui torna alla sua Trastevere assoluta

FESTA DEL CINEMA DI ROMA Bob Marley, Fabrizio De Andrè, Caetano Veloso da vedere

INTI ILLIMANI Raccontano dentro a un poncho le stragi di Pinochet e i cadaveri gettati in mare. E Daniele Silvestri ruba da loro.

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di Roberta Mastruzzi

WE ALL LOVE MORRICONE Le sue composizioni si staccano dai film e divengono musica assoluta, ma lui suonerebbe «I pini di Roma» di Ottorino Respighi per musicare la sua città

(...)

al suo fianco da più di 50 anni, la donna a cui ha dedicato il suo Oscar alla carriera e un’intera vita. E infine Roma, la sua città e quella casa a Trastevere in cui ritorna dopo ogni viaggio, dopo ogni concerto. Già, perché le sue composizioni scritte per il cinema sono diventate repertorio per i suoi concerti insieme a quella che lui definisce «musica assoluta». Anche se originariamente composte al servizio dell’idea di un regista o di una sceneggiatura, sono talmente radicate nell’immaginario collettivo da vivere di luce propria. Instancabile, ha affrontato negli ultimi mesi un tour che lo ha portato fino in Cile. Compositore prolifico come nessun altro, sta lavorando alle musiche dell’ultimo film di Giuseppe Tornatore. Una vena artistica inesauribile, che riesce sempre a trasformarsi e a non essere mai uguale a se stessa. Oltre 500 colonne sonore, qual è il segreto

per non ripetersi mai? Il segreto è quello di avere idee, non annoiarsi mai e poi cambiare sempre il tipo di film. Ma per chi vuole intraprendere questo mestiere il mio suggerimento è di non seguire questa strada perché è difficilissima. Sinceramente non la consiglio a nessuno perché è veramente dura. Parliamo del lungo sodalizio artistico con Giuseppe Tornatore, per il quale ha curato la musica di quasi tutti i suoi film, da Nuovo cinema paradiso all’ultimo, Baaria, di cui sono ancora in corso le riprese e per il quale ha già scritto la musica. È il suo metodo di lavoro abituale scrivere la musica prima che siano girate le scene? Ho scritto gran parte dei temi principali di Baaria ma non è tutto quello che dovrò fare: ci sarà ancora molto da completare. Il metodo ottimale per lavorare prima di tutto è che il regista lo voglia, altrimenti la musica si pensa, si scrive dopo e si applica ancora dopo.

SULLA LORO CATTIVA STRADA usica protagonista del Festiva Internazionale del Film di Roma che, giunta alla terza edizione, ha cambiato nome, presidente e sezioni: ora si chiama Festival Internazionale e Goffredo Bettini, storico braccio destro di Walter Veltroni, è stato sostituito alla Presidenza della Fondazione del cinema per Roma da Gian Luigi Rondi, storico e

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critico cinematografico, mentre i nomi delle sezioni sono stati italianizzati. In questa e d i z i o n e , Anteprima e Cinema 2008 presentano i film in concorso, L’altro cinema è dedicato al cinema indipendente e all’incontro con autori e registi, e Alice nella città lascia spazio ai film per ragazzi. Nella sezione Occhio sul

mondo i riflettori puntati sul Brasile, con una rassegna di dieci film in anteprima. Tra questi, Coraçao vagabundo, dedicato a Caetano Veloso. Il film, diretto da Fernando Grostein Andrade, segue il cantante brasiliano durante il tour per la presentazione del suo primo album interamente realizzato in lingua inglese. Il viaggio parte da San Paolo e arriva fino in Giappone, passando per il Carnegie Hall di New York. Un viaggio musicale impreziosito dalle affettuose testimonianze di amici dell’artista come Pedro Almodóvar, David Byrne e Michelangelo Antonioni. L’altro cinema ha presentato due documentari in anteprima con protagonisti d’eccezione: Bob Marley e Fabrizio De Andrè. Bob Marley: Exodus 77 è il film che Anthony Wall dedica all’artista giamaicano e all’album che segnò una piccola rivoluzione all’interno di un più grande movimento culturale che proprio nel 1977 conobbe la sua massima espressione. Mentre sulla scena musicale britannica irrompe il punk, Bob Marley è a Londra per registrare Exodus: l’album porta la musica reggae e la cultura rasta alla ribalta agli occhi del mondo e Bob Marley è il suo portavoce, rivelandosi tra l’altro un grande comunicatore. Le note di Exodus, che contiene alcuni brani storici come Jammin’, Three little birds, One Love e Waiting in vain, scorrono sulle immagini che rievocano gli avvenimenti spesso drammatici di un anno che segnò profondamente l’universo culturale. Effedià - Sulla mia cattiva strada è invece il documentario con cui la giornalista Teresa Marchesi rende omaggio a Fabrizio De Andrè. Il cantautore, scomparso dieci anni fa, rivive attraverso interviste e immagini fino ad ora mai viste, concesse dalla Fondazione che porta il suo nome e che ha voluto questo film. Un omaggio al cantautore che, come disse Nicola Piovani, «non è stato mai di moda. E infatti la moda, effimera per definizione, passa. Le canzoni di Fabrizio restano». (Roberta Mastruzzi)

Quindi se il regista preferisce così, anche io preferisco, perché trovo che i migliori risultati che io ho ottenuto sono stati quando ho avuto la possibilità di comporre prima la musica. Scorrendo l’elenco delle sue composizioni per il cinema e dei registi con cui ha lavorato, oltre a Brian De Palma, Warren Beatty e Roland Joffè, non appaiono nomi dello «star system hollywoodiano», eppure il suo lavoro è molto conosciuto e apprezzato negli Usa. È stata una sua scelta? No, non è stata una mia scelta precisa. Io non scelgo, se sono chiamato accetto o non accetto di comporre. Ho rifiutato molti film e quindi sarà capitato anche di averlo fatto per qualcuno di importante; ultimamente ho rifiutato anche De Palma perché non posso rispondere a tutto quello che mi si offre. Durante la cerimonia di consegna dell’Oscar alla carriera, ha ricordato tutti quei compositori che avrebbero meritato un Oscar ma non l’hanno mai vinto. A chi avrebbe assegnato questo premio? Non faccio nomi perché altrimenti ne dimenticherei tanti, e certamente sono molti i compositori che non hanno preso l’Oscar ma che l’avrebbero dovuto prendere. Un’opera cinematografica è una perfetta unione tra immagini, parole e musica. Qual è il film che l’ha emozionata di più? Un’opera cinematografica è una perfetta unione di immagini, parole, musica, rumori, effetti speciali, e tante altre componenti che fanno parte della colonna sonora. Sono più di uno i film che mi hanno commosso, 500 film ho fatto e la maggior parte di questi mi ha emozionato moltissimo. Devo farne uno con Giacomo Battiato, che giudico emozionantissimo, sulla strage razzista in Bosnia-Erzegovina da parte del generale Mladic. Sarà un film straordinario, ed anche un documentario. Battiato è un regista di grande impatto e di grande bravura. Oltre alla musica da film, ha scritto diverse composizioni, come le più recenti Voci dal

INTI-MI erano una volta sei ragazzi cileni con un poncho nero dalle frange bianche che attraversavano le Ande portando con sé i propri strumenti musicali: chitarre, percussioni, charangos, maracas e sikus. Erano alla ricerca di una musica capace di essere moderna e antica, così da diventare un linguaggio che potesse unire i popoli latinoamericani, storicamente oppressi da dittature e governi militari. La realtà superò i sogni ambiziosi dei ragazzi e il gruppo da loro formato diventò in tutto il mondo voce e simbolo della lotta per la libertà. I sei musicisti avevano nomi come Horacio, Jeorge, José, ma per il resto del mondo erano gli Inti-Illimani. La loro storia inizia nel 1967 e prosegue fino ai giorni nostri. Dove cantano le nuvole è il primo filmdocumentario che ripercorre il loro lungo cammino realizzato da Francesco Cordio e Paolo Pagnoncelli. Il tempo non ha scalfito la vitalità dei primi anni ma ha aggiunto alla loro carica rivoluzionaria una sfumatura più matura e riflessiva. L’innesto di nuovi musicisti dalla solida preparazione accademica (i fondatori del gruppo sono autodidatti) ha consentito di non rimanere ancorati alla vecchia immagine del passato ma di aprire nuove prospettive, nel pieno rispetto della filosofia del gruppo dove non esistono «primedonne» e dove si cerca un’estetica musicale per unire tradizione e progresso. La storia degli Inti-Illimani non può prescindere dagli avvenimenti che sconvolsero il Cile negli anni 70. I ricordi personali e il racconto storico si intrecciano: il golpe militare del 1973 e il lungo esilio del gruppo in Italia, la dittatura di Pinochet e le esecuzioni dei dissidenti allo stadio di Santiago, il referendum che decide il ritorno alla democrazia e il rientro in patria degli Inti-Illimani dopo quindici anni di assenza. Il momento più intenso del

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Silenzio e Sicilo ed altri frammenti, che lei definisce «musica assoluta». Può spiegarci questa definizione? La musica assoluta viene dalla necessità del compositore di esprimere le proprie idee musicali. La musica applicata è invece richiesta a un compositore per essere applicata a un film, a un lavoro teatrale, ad altre cose di spettacolo, e così non nasce da una personale necessità del compositore ma dalla necessità di un’altra opera in cui la musica è secondaria. Com’è nato il progetto We all love Morricone, il cd in cui artisti internazionali come Bruce Springsteen, Quincy Jones, Herbie Hancock, i Metallica, Roger Waters e altri interpretano le sue colonne sonore più famose? Io non avrei mai avuto la presunzione di realizzare questo progetto. Bisognerebbe allora chiederlo a chi ha avuto l’idea. Personalmente non posso far altro che ringraziarlo per la bella esperienza. Negli ultimi anni ha avuto un’intensa attività live e ha suonato davanti a platee internazionali, dal concerto all’Assemblea Generale dell’Onu al più recente tour in America Latina. Può raccontarci questa esperienza? Ero talmente preoccupato per il concerto alle Nazioni Unite perché avevo un coro americano con cui avevo provato pochissimo, anzi quasi per niente: solo lo stesso giorno del concerto. Posso quindi dire che questa esperienza è stata piena di preoccupazioni che si sono sciolte soltanto dopo la riuscita del concerto, quando la gente ha applaudito. Il suo nome è legato a Roma. Come immagina la colonna sonora della sua città? Non l’immagino con musica mia, ma certamente con la musica di un grande compositore come Ottorino Respighi che l’ha immaginata bene: ha composto infatti le «Feste Romane», «I pini di Roma» e le «Fontane di Roma». Bisogna ascoltare queste composizioni per capire cos’è Roma in musica.

film è il racconto dettagliato delle stragi di dissidenti compiuta dal governo Pinochet accompagnato dalle note malinconiche di Vino del mar: in mare finivano i cadaveri in modo che scomparissero senza lasciare traccia, desaparecidos per sempre. La storia viene raccontata attraverso le parole degli storici membri del gruppo, i fratelli Jeorge e Marcelo Coulon, Max Berré e Juan Flores Luza, e dei nuovi arrivi Daniel Cantillana, Manuel Merino, Christian Gonzalez e il percussionista cubano Efren Viera, passati da semplici ammiratori a parte integrante degli Inti-Illimani. Poi ci sono i

racconti di amici come Patricio Manns e Joan Jara (vedova di Victor Java, il musicista e regista assassinato nello stadio di Santiago pochi giorni dopo il colpo di stato del ‘73), le impressioni della gente comune e le riprese dal vivo di alcuni concerti in Italia e in Cile. Infine, la partecipazione di Daniele Silvestri, che confessa di aver «rubato» alcune note per usarle come base ritmica de Il mio nemico. Ma nella musica il concetto di proprietà è piuttosto labile. Il furto si trasforma in un omaggio e per finire in un concerto, in cui il cantautore romano esegue il suo brano accompagnato dalle chitarre degli IntiIllimani. Ed è sempre Silvestri a scrivere la prefazione del piccolo booklet che completa il dvd, con gli scatti fotografici dello stesso regista, Francesco Cordio, e i testi di Jeorge Coulon. (Roberta Mastruzzi)

Music In  Autunno 2008

YUSUF SHAHIN Anarchico, irruente, sornione, gentile. Il Fellini del mondo arabo che ha attaccato persino i fondamentalisti islamici

MICHAEL NYMAN IL PRIMO GIORNO D’INVERNO Potenza, istinto, pas- Giovanni Sollima Spasimo come atto d’amosione e dolore re per le tracce confuse dell’adolescenza

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CHAHINE: IL PENSIERO HA LE ALI NESSUNO PUÒ FERMARNE IL VOLO Senza di lui, il cinema del resto del mondo è già più povero: Yusuf Shahin, che ha raccontato Alessandria e il mondo arabo a noi Occidentali a scomparsa di Youssef Chahine il 28 luglio scorso ha lasciato tutti molto rammaricati. La reazione non poteva essere diversa, considerata l’enorme fama di cui questo grande artista godeva in tutto il mondo del cinema «che conta»: Cannes, Toronto, Locarno e altri ancora. Cineasta gentile, coraggioso, innovatore, con oltre 40 film alle spalle, ha saputo catturare per mezzo secolo l’attenzione del pubblico sia arabo che occidentale affascinando, intrigando e anche scandalizzando, ma sempre con la leggerezza e la sapienza che solo un grande maestro può avere. Chahine inizia la sua lunga carriera nel 1950 dopo gli studi alla Pasadena Playhouse di Los Angeles e poi la formazione in Italia al fianco di Gianni Vernuccio e Alvisi Orfanelli, che gli insegneranno l’arte del documentario e i segreti del neorealismo italiano. Il successo non tarda ad arrivare: Ibn Al-Nil (Figlio del Nilo, 1951), Siraa Fil-Wadi (The Blazing Sky, 1954) per il cui cast scrittura un ventiduenne e ancora sconosciuto Omar El-Sherif, e poi nel 1958 Bab AlHadid (Stazione Centrale), melodramma maturo, in cui veste i panni del protagonista. La performance di questo Chahine giovane e talentuoso ha spinto Marco Muller a dedicare alla pellicola una proiezione speciale all’interno della Mostra del Cinema di Venezia di quest’anno. Oltre a dipingere i colori della sua terra, a raccontarne le storie e a farne assaporare odori e sapori, Chahine è stato in grado di cogliere il mondo arabo nella sua stringente attualità, coi suoi pregi e i suoi difetti, attirando le critiche dei più conservatori e il plauso di un Occidente che ha saputo riconoscervi la dignità del nazionalista convinto e il coraggio di chi difende la libertà di espressione. Nel 1973 esce Al-Usfur (Il Passero), attacco diretto al governo egiziano per il disastroso epilogo della Guerra dei Sei Giorni contro

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Israele; cinque anni dopo arriva Iskandariya lih? (Alessandria perché?, Orso d’argento al Festival di Berlino), dove Youssef non esita a trattare il tema della bisessualità e dell’omosessualità con naturalezza disarmante. Nel 1994 Al-Muhajir (Il Viaggiatore) sarà l’inizio di una lunga battaglia legale aperta dalle Istituzioni islamiche d’Egitto, che bocciano come irriverente la sua rappresentazione del Profeta coranico Giuseppe. Ma il regista, che dall’inizio degli anni 70 lotta con una grave malattia, non si arrende, anzi sferra un altro attacco al rigurgito di conservatorismo e fondamentalismo islamico che caratterizza tutti i Paesi arabi di fine Novecento, dando alla luce un altro incredibile lavoro: AlMassir, (Il Destino), del 1997, che gli vale l’attenzione del Festival di Cannes e un premio speciale alla carriera. La trama, da alcuni giudicata troppo lunga e forzatamente drammatica, presenta un Averroè realista e sarcastico, persino divertente. Dopo infinite peripezie e persecuzioni di chi vuole bruciare i suoi libri e soffocare i suoi insegnamenti, il Pensatore getta sorridente l’ultimo suo scritto nel rogo infame: Il pensiero ha le ali, nessuno può arrestarne il volo. Ma la produzione di Chahine non toccò un solo genere: si lasciò rapire dal musical in stile Broadway, giocò con le star del suo tempo piegandole ai suoi ruoli per creare, attraverso i loro talenti, affreschi a volte aulici e a volte infimi della vita quotidiana, e fu il primo regista arabo a realizzare la propria biografia attraverso una tetralogia (Alessandria perché, 1978; La memoria, 1982; Alessandria ancora e sempre, 1990; Alessandria... New York, 2004) che gli ha donato l’appellativo di Fellini egiziano. Muller ha ragione a dichiarare: «Senza di lui, il cinema del resto del mondo è già più povero».

THE MIST Il new age racconta l’horror: Mark Isham, Lisa Gerrard e altre creature ratto da un racconto di Stephen King, The Mist si svolge quasi interamente in un supermercato dove gli abitanti di una piccola cittadina del Maine si sono riversati per far scorte di viveri dopo una tempesta. Improvvisamente, scende una nebbia fitta e misteriosa che li intrappolerà tra le mura del negozio e costringerà a fare i conti con le proprie paure e il proprio inconscio. Il regista Frank Darabont, autore de Le ali della libertà e Il miglio verde, qui è alle prese con il genere horror. Come in tutte le storie che hanno origine dall’immaginazione di Stephen King, l’orrore che si manifesta all’esterno non è altro che una proiezione dell’orrore che si cela all’interno dell’animo umano: nel caso di The Mist questo prende la forma del fanatismo religioso. La scelta di una colonna sonora di impronta decisamente new age creata da Mark Isham si rivela coraggiosa. Si respira un’atmosfera misteriosa e rarefatta, sembra quasi di poter toccare la nebbia e le creature che vivono in essa. Il finale è invece accompagnato da un brano dei Dead Can Dance: la voce di Lisa Gerrard che interpreta una nuova versione di The Host of Seraphim conduce dolcemente verso un inquietante finale. (Roberta Mastruzzi)

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DENTRO NYMAN otenza, passione, istinto, dolore»: così vede la musica Michael Nyman e così la percepisce il pubblico dell’Auditorium Parco della Musica che accoglie il Maestro del minimalismo, in una piovosa serata di metà settembre, per un’ora e mezzo di concerto interamente dedicata alla sua musica da film. Il compositore inglese si presenta con il suo gruppo, la Michael Nyman Band. Sul palco con lui ci sono un quartetto d’archi, una sezione fiati composta da tre sax, tromba, trombone e corno francese, basso elettrico e poi lui, il piano. Il viaggio nell’universo-Nyman tocca i suoi punti fondamentali: le colonne sonore scritte per i film di Peter Greenaway, Water Dances, il brano scritto per un cortometraggio in seguito reso celebre da Nanni Moretti ne La stanza del figlio (è il brano che ascolta ripetutamente mentre ricorda gli ultimi momenti passati con il figlio), le musiche di Wonderland e quelle di Gattaca. Il dono di Nyman è quello di riuscire a tenere uniti virtuosismo, ricerca stilistica e comunicazione con il pubblico. La sensazione è quella di assistere alla proiezione di una lunga sequenza di immagini cinematografiche, una proiezione tutta interiore. Il segreto della musica da film è questo: nasce, cresce e muore all’interno di una pellicola, ma allo stesso tempo si insinua nell’inconscio e diventa un tutt’uno con le immagini della propria vita. Chi l’ascolta non deve far altro che abbandonarsi alla musica e seguire il filo dei ricordi. E alla fine arriva immancabile la melodia di Lezioni di piano a toccare le corde più intime degli spettatori: il dramma di Ada, la protagonista del film di Jane Campion, rivive ancora una volta tra le dita del pianista, che guida il pubblico attraverso la struggente linea melodica in un’immersione nella potenza, nella passione, nell’istinto e nel dolore della musica. (RM)

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a cura di Alessandra Fabretti

CERTI FEMMINISTI Il chitarrista è sordo, il bassista non ha un braccio, il cantante è sessualmente represso, il batterista non sa suonare la batteria musicisti disadattati assoldano uno scrittore di successo come batterista per formare un gruppo e partecipare a un importante raduno. Così nascono i The Feminists, quartetto rock sui generis formato da un chitarrista sordo, un bassista senza braccio, un cantante sessualmente represso e un batterista che non sa suonare la batteria.

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SPASIMO SOLLIMA Dura è l’adolescenza, e incontrollabile come uno spasimo dipinge l’adolescenza col luogo comune del disadattamento, del corpo che cresce troppo in fretta e con l’incapacità della mente a fronteggiarne le sfide. Il film, opera prima di Mirko Locatelli, Il primo giorno d’inverno, (prodotto da Officina Film e in concorso nella sezione Orizzonti, 65esima Mostra del Cinema di Venezia), racconta appunto l’adolescenza come passaggio critico, indaga la solitudine in cui vive chi è un escluso come Valerio, incapace non solo di provare a salvarsi, ma anche di comunicare il suo dolore. Un film che nasce anche dalla volontà di restituire, alla nostra società sempre più smarrita, la tribale e machista presenza adolescenziale, basata sulla prepotenza e sulla sopraffazione, sul fare gruppo e sull’esclusione di chi sembra diverso. Ne cura la colonna sonora, edita dalla Casa Musicale Sonzogno di Milano, il compositore e violoncellista siciliano Giovanni Sollima col brano De Harmonia, per violoncello solo, primo movimento dell’ampio brano per ensemble, dal titolo decisamente emblematico: Spasimo. Forse il primo progetto internazionale di Sollima, nato nel 1995 su commissione del Comune e del Teatro Massimo di Palermo. Concetto difficile, che rimanda non solo a un’emozione ma anche a un moto corporeo, dettato da un malessere fisico profondo, non controllabile e per questo temuto. Un misto di passione e violenza, di equilibrio precario e caduta, proprio come la musica di Sollima, il suo violoncello struggente, sovrapposizione di suoni, anima e corpo: violino, flauto e viola. Linguaggi diversi, mai troppo lontani dalle percussioni, le tastiere e le chitarre, che il compositore fa inserire con estrema semplicità. Una struttura post-minimalista, nata da ibridazioni ossessive ed estremizzate, fino al rock, al jazz, alla musica mediterranea. Spasimo, quindi, come atto d’amore per quell’insieme di amarezza, tracce confuse e occasioni di sogno che è l’adolescenza, come bellezza di un dialogo tra corpi che crescono e strutture armoniche inusuali, diverse. Flavio Fabbri

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Il ritmo serrato, i personaggi folli, le immagini molto esplicite e violente ricordano Trainspotting e la citazione del film cult degli anni 90 da parte del regista Koen Mortier sembra essere del tutto intenzionale. Il regista belga definisce la propria opera prima «un esperimento musicale». In effetti, il film trae gran parte della carica esplosiva da un’energica colonna sonora, che dà ampio spazio a gruppi di matrice noise rock come i Lightning Bolt, gli Isis e i Mogwai. Il risultato è una storia estrema dal ritmo frenetico, irriverente e politicamente molto scorretta. Roberta Mastruzzi

BEY&further OND a cura di ROMINA CIUFFA

Music In  Autunno 2008

SIDDHARTA 7 Oz. Records Destino e carattere sono due nomi del medesimo concetto.

MUCCASSASSINA Marco Longo È il nuovo direttore artistico che decide cosa NORDGARDEN L’artista norvedobbiamo ballare il venerdì. Paura? gese suona in un garage a Firenze.

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di ROMINA CIUFFA

SIDDHARTA

DEFINIZIONE

DESTINO E CARATTERE Una label da 7 once è come un vinile da 12 pollici: gira fino alla fine del pezzo Siddharta è un nome protettivo, è per Herman Hesse un uomo che per tutta la vita si pone molte domande e non riesce mai a soddisfare la sua sete di sapere. Per noi romani Siddharta è un eclettico, molto simile a quello hessiano, un musicista e un punto di riferimento delle notti romane da anni, legali ed illegali. Non è indiano ma è nato in India, e di cognome fa Rumma. Lui, che suonava la batteria negli anni del liceo spaziando tra ska, rock e blues, all’inizio degli anni 90 si appassiona alla musica hip-hop ed elettronica, in quegli WHO anni rappresentata dagli esordi della scena trip-hop e dalla prima drum’n’bass, chiamata ancora jungle. Sono quei progetti musicali provenienti soprattutto dal Regno Unito che ne smuovono la coscienza musicale, portandolo ad organizzare party e rave sempre più grandi. Dalla d’n’b e dal breakbeat di quegli anni, si passa alla techno ed electro della metà degli anni 90 e, con l’arrivo del nuovo millennio, Siddharta sposa la causa minimalista della moderna techno, riuscendo a ritagliarsi spazi sempre più importanti nella club culture capitolina: ideatore e dj resident del Minima, appuntamento dedicato alla musica elettronica di stampo minimal-techno, quindi le mani insieme a Trentemoller, Martini Bros, Sleeparchive, Frank Martiniq, Oliver Koletzki, Alan Oldham, Dozzy, Alex Under, Robert Babicz aka Rob Acid, Undo e Vicknoise, Funk D’Void, Ivan Smagghe, Martin Landsky, Donnacha Costello, Reinhard Voigt, Jennifer Cardini, Barem e Dominik Eulberg; nei migliori club della capitale, in giro per l’Italia e all’estero, nei suoi set spazia tra minimal-techno, echi Detroit, qualche momento electro (quella old school) e tuffi nel passato tech & deep house. La svolta nella storia musicale di Siddharta è la nascita della 7 Oz. Records, fondata con l’amico dj-producer Mr. 7 OZ. RECORDS label Rovat. Nata all’inizio di questo 2008, la 7 Oz. Records si fa conoscere tra gli appassionati di musica elettronica, i clubber più giovani e gli addetti ai lavori. Il nome, che a prima vista appare così slegato da contenuti musicali, è semplicemente mutuato dal peso di un classico vinile a 12 pollici (in once, ovvero 180 grammi). È l’esigenza di portare avanti le proprie idee in un mercato ultimamente immobile e restio ad accogliere le spinte che provengono dal basso, a differenza di quello che è avvenuto nel cinema e nelle arti visive nell’ultimo decennio. Fare musica, producendola, per il gusto di suonare e di ascoltare. Poche parole per un concetto che non ha bisogno di complessi teoremi o altisonanti dichiarazioni d’intenti. Siddharta e Fabio Fioravanti aka Mr. Rovat danno vita a questo progetto, lontani dalla pressante classificazione in generi e sottogeneri, mode e tendenze e sporgendo l’orecchio al di fuori della finestra per catturare suoni e colori del mondo.

SIDDHARTA

CHI HA PAURA DI MARCO LONGO FORSE QUELLI CHE HANNO PAURA DELLA MUCCASSASSINA? ambia il direttore artistico del party numero uno in fatto di tendenza, Muccassassina. Come dire cambiano le sonorità dei quattro gironi dancing floors più famosi di Roma, quelli della trasgressione, che non temono i confini, che proiettano la pista in un luogo diverso, non Roma ma New York, Parigi, Berlino e Barcellona insieme. Posti in cui non vi sono limiti perché la musica unisce chiunque ama e chiunque si ami. Marco Longo, classe ’76, è un siciliano di Taormina, dunque non uno qualunque: pura magia taorminiana. A Roma è venuto nel 1996 per l’Accademia di Musica Jazz e Scienze della Comunicazione, mettendo in cantiere una tesi sulla gestione e l’organizzazione di eventi; quindi una borsa di studio tra Copenhagen e Londra e ancora danza, teatro, cinema, video, arte figurativa e musica sperimentale. Personalità poliedrica, sensibile alle tendenze in tutti gli ambiti che fungono da stimolo e ispirazione per la realizzazione di eventi, concerti, party che lo vedono nella veste di direttore artistico da circa 11 anni. Oggi Muccassassina è «sua». E noi dovremo ballare quello che dice lui, con chi dice lui, e come dice lui.

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Muccassassina, una definizione tutta tua. Muccassassina è come una riunione di condominio: una gabbia di matti che si riunisce a Roma ogni venerdì sera da diciotto anni. È un grande melting pot, un mix di gente, energie, immagini, età, culture differenti. Una ‘shakerata’ di spettacoli, performance e musica. Mettete insieme queste cose e avrete un’idea vaga di cos’è Muccassassina. Da questo momento è «tua»: che ne farai? Proverò a calibrare le spezie di questo bel calderone, cercando di proporre una ricetta nuova. Quali sono i sound del 2009? L’offerta sonora di quest’anno è molto variegata e si evolve di settimana in settimana con curiose contaminazioni, mescolando rock nordeuropeo, electroclash, funk anni 70, hip hop,

black, r’n’b, house, house-electro. Bisogna ricordare che Muccassassina ha come location la discoteca Qube, un club con 3 piani e 4 dancing floors… tanto per chiarire che non si tratterà di un juke box impazzito! Hai parlato altrove di voler mescolare circo, ghetti di New York e vecchi bordelli francesi: puoi spiegare tutti e tre e come entreranno nella tua notte? Per spiegarlo basta considerare la varietà del cast artistico di quest’anno. Cerchiamo di rivoluzionare il concetto di animazione, all’insegna delle contaminazioni artistiche: sui palchi di Muccassassina ci saranno spettacoli di burlesque, lap dance sia femminile che maschile, flip e acrobazie di breacker e ballerini/atleti professionisti. Mescolato e shakerato con attenzione. Per rendere il tutto ancora più caleidoscopico, settimana dopo settimana i party saranno dedicati a vari temi: suggestioni, epoche storiche e culture di volta in volta differenti prenderanno vita ogni venerdì sera sui palchi di Muccassassina, passando dai ritmi dei ghetti americani ai vampiri vittoriani, dai divi del vecchio cinema al rock in versione queer, dal glamour degli anni 80 al sudore dei ring di boxe. New York, Berlino, Parigi, Barcellona: quale? E perché? E cos’altro? È una scelta ardua. Artisticamente ammiro e trovo interessanti tutte queste città. Mi piace l’efficienza sul lavoro di N.Y., i sound che sono nati tra i grattacieli (l’house music, tanto per dirne uno). Berlino sta vivendo un’esplosione culturale non indifferente in questi ultimi anni, architettura, musica e le cosiddette arti alternative stanno trovando strade interessanti da osservare. Parigi è bella, le sue atmosfere sono magiche: è un cocktail insaporito con gusto da sonorità ricercate. Barcellona? Beh, è una bella città con il mare. E considerando le radici forti della mia sicilianità mi sono sempre sentito un po’ a casa lì. Barcellona è musicalmente piacevole anche se ultimamente si sentono maggiormente le situazioni commerciali e un po’ rumorose. Sarebbe insomma limitante per me dover scegliere solo una di queste meravigliose città. Chi ha paura della Muccassassina? Io no... e voi? Attenti a quello che rispondete! A CURA DI

ROMINA CIUFFA

È una label, ma anche una casa ideale in cui entrare per esprimere se stessi, dar vita a collaborazioni o solo portare idee e pensieri. Un’etichetta discografica che cerca di seguire l’esempio portato in epoca pop dalle factory, così attive nel periodo delle avanguardie artistiche negli anni 60. Poche definizioni, molta sostanza. Dare voce a chi PERCORSO sente la musica elettronica come un qualcosa di profondo ed istintivo, legato a diversi momenti ed istanze: il dancefloor, ma non solo. Techno e minimal forse, ma sempre apertura alla contaminazione. Digitale e non. Produrre, in fondo, significa prima di tutto ascoltare. Ad oggi 7 Oz. ha dato luce due EP; il RELEASE alla terzo è in uscita. L’esordio sul mercato discografico è stato affidato a Ready to Change, due tracce dai toni scuri ma dal beat incalzante, venate di un sottile peso paranoico e liberatorio allo stesso tempo, prodotte da Alexander Stone, jesino di nascita, bolognese per formazione, stabilmente a Berlino. La seconda, scaricabile unicamente dal web (Beatport, Juno Download etc.), racchiude le tracce di 4 giovanissimi talenti della nuova scena elettronica nostrana, conosciutisi presso la Sae di Milano. Nutek EP il titolo. Il sound è qui completamente dance-oriented. È alle stampe il terzo capitolo della storia 7 Oz.: No Rulez, contenente Without FUTURO di Skyboy e Ai Ai di Edoardo Pietrogrande, reinterpretazioni in chiave elettronica di due brani a loro modo celebri e celebrati. Seguiranno, nei prossimi quattro mesi, altre due release: l’esordio ufficiale su vinile del duo Siddharta e Mr. Rovat, riuniti sotto lo pseudonimo comune 7 Oz. e, ad inizio 2009, il ritorno di un’autentica icona della scena elettronica italiana, Lory D, in passato a fianco di artisti come Aphex Twin sulla prestigiosa label Rephlex. SCRIVEVA HESSE: DESTINO E CARATTERE SONO DUE NOMI DEL MEDESIMO CONCETTO. E POI, LA MAGGIOR PARTE DEGLI UOMINI SONO COME UNA FOGLIA SECCA, CHE SI LIBRA NELL’ARIA E SCENDE ONDEGGIANDO AL SUOLO. MA ALTRI, POCHI, SONO COME LE STELLE FISSE, CHE VANNO PER UN LORO CORSO PRECISO, E NON C’È VENTO CHE LI TOCCHI, HANNO IN SE STESSI LA LORO LEGGE E IL LORO CAMMINO.

SUONA IN UN GARAGE

e il giardino che deve ospitare il concerto è una palude. Norgarden è venuto apposta da Oslo a Siena, desideroso anche lui di fare il suo primo «house concert». Nessun compenso, solo un rimborso spese per il viaggio. Il cantautore norvegese, che con le sue ballate raffinate ha lasciato sfumare in suoni più brit-pop la sua indole folk e jazz, arriva un po’ in ritardo. È biondo e sorridente, ma per fronteggiare un temporale di fine estate non basta.

PIOVE

Deciso: il concerto si terrà al coperto, ma dove? C’è troppa gente per poter ospitare tutti nel salotto attiguo al giardino. Saremo già 60 e continuano ad arrivare americani, inglesi, italiani. Il sound check nel tunnel del garage convince l’artista: si farà qui. Si adatta la scenografia al nuovo set: un tappeto, una lampada, un tavolino. Sullo sfondo, invece degli alberi, uno scooter arancione. La luce della lampada è appena sufficiente a illuminare il performer. Nordgarden ha accettato di esibirsi per un concerto acustico di 45 minuti. Dopo i primi accordi il suono della sua chitarra invade il tunnel dei garage. Il «nuovo Elliot Smith» ripercorre i suoi successi e propone i nuovi brani dell’ultimo bellissimo cd «The path of love». Si crea uno strano feeling tra lui e il pubblico. La luce fioca, il silenzio con cui gli ascoltatori aspettano di sentirlo cantare, l’intensità delle liriche, melodie ampie ed avvolgenti: un rito religioso di cui Nordgarden è ministro. Suona per due ore, racconta aneddoti, coinvolge il pubblico. C’è spazio per una cover del «Suonatore Jones» di Fabrizio De Andrè: «… Se la gente sa che sai suonare, suonare ti tocca per tutta la vita e ti piace lasciarti ascoltare». Lascia il pubblico con questa confessione intima. Un vero fenomeno musicale, un artista maturo e convincente. E generoso. Succede anche questo, che un giorno uno dei cantautori più promettenti dell’ultima generazione, acclamato da pubblico e critica, ritorni a suonare in un garage. (Nicola Cirillo)

DONNE IN-CANTO Prima che Peter Gabriel nel 1982 lanciasse il suo Womad a Firenze c’era già Musica dei Popoli, un Festival che quest’anno celebra la sua 33° edizione con il titolo Donne InCanto, dedicato al potere emozionale della voce femminile. Otto concerti ottobrini presso l’Auditorium della Flog a Firenze e l’esibizione di alcune tra le migliori interpreti femminili delle musiche dal mondo, dalla cantaora La Macanita, protagonista della tradizione gitana di Jerez, a Parissa, la più acclamata cantante di musica tradizionale persiana, accompagnata da un ensemble di virtuosi strumentisti. Buon compleanno Rosa è dedicato a Rosa Balistreri,

celebre cantante popolare siciliana da tre acclamate folk singer italiane: Fausta Vetere, Lucilla Galeazzi e Clara Murtas. Quindi, la fadista Ana Moura, l’ex cantante dei Transglobal Underground Natacha Atlas, Susana Baca, esponente di punta della tradizione musicale afro-peruviana e la kurda Aynur con la sua ampia estensione vocale. Il 2 novembre, un doppio concerto: Saba, italo-etiope che mescola i ritmi della tradizione africana a percussioni dalle sonorità contemporanee, e Mor Karbasi, israeliana dalla voce incredibilmente versatile. Nicola Cirillo

Music In  Autunno 2008

ENZO PIETROPAOLI Nota di Basso Rendersene totalmente dipendenti

SYS2 QUARTET Element C’è Brooklyn al centro di Roma

BIORN Venere Muri potenti su synth ricercati come un esordio

VERVE Forth Ricomincio da 4

È questo un cd di mero contrabbasso. Dio ce ne scampi e liberi, prima reazione. E invece no: quest’ultima opera del nostro più grande contrabbassista la ascolterai centinaia di volte. Fosse un vinile lo rovineresti e graffieresti anche in cucina per l’uso maniacale che ne faresti. Non essere maniaco, Enzo Pietropaoli lo puoi ascoltare con tutta calma ogni qualvolta di calma avrai bisogno. Lui, per (non) saper (né) leggere (né) scrivere, aggiunge anche parti elettroniche con maestria, a volte fischietta e confonde voce con il suono del suo contrabbasso. Che definisce ostico. Precisamente: «tutta l’umanità che ho conosciuto, ma anche la solitudine, in una stanza, con lui, il contrabbasso, così ostico, così familiare». Introduce il suo cd: «A essere sincero, non sto male da solo, anzi… Ma non sono solo, non si è mai soli di fronte alla musica. In ogni nota c’è un po’ della mia vita, le luci, le tenebre, ogni differente sfumatura». Solo, dentro casa sua, perché è là che lo ha registrato: Recorded in Rome Enzo’s House. E se ti ricorda Dave Holland, ti stupirai - ora che sai che l’ha registrato a casa - di sentire come il suo suono sia ancora più pulito. Non solo Enzo Pietropaoli (la sua CB Minor Blues ad esempio, «take another cake» lo senti dire): rivisita, tra gli altri, la Mother Nature’s Son di Lennon-McCartney, l’Autumn Leaves di Joseph Kosma e la Little Wing di Jimi Hendrix, Il Vento di MogolBattisti e Moon River dello stesso Henry Mancini che scrisse La pantera rosa. Poi, osa. E pecca: contrabassa addirittura l’Anklange op. 7 n. 3 di Johannes Brahms. Noi affoghiamo nel suo peccato, più maniacali ancora, e prendiamo un’altra fetta di torta dalla cucina mentre lo impatacchiamo sbadati. ROMINA CIUFFA

SYS2 QUARTET - ELEMENT Qui non si tratta solo di un pianista, Emilio Merone, e di un chitarrista, Luca Nostro, che ci piacciono, il primo perché ha una sensibilità tastierale che s’infila nello sterno (come il Thanksgiving di George Winston, ma lui aggiunge il background jazz), il secondo perché è un filosofo della musica e, dunque, ne conosce il senso più latente (e ce lo spiega). Ma di due altri in formazione. Il batterista Antonio Sanchez, messicano, suona da quando aveva 5 anni e ha collaborato con musicisti del calibro di Pat Metheny (del suo trio è batterista) e Chick Corea; mentre del contrabbassista di Los Angeles Scott Colley si sono avvalsi la vocalist Carmen McRae e fuoriclasse come Jim Hall, Herbie Hancock, Andrew Hill, Michael Brecker, Joe Henderson. I quattro, oggi, registrano insieme nello studio Systems Two di Brooklyn, ed esce questo Element, quattro tracce di Merone e quattro di Nostro. Le si ascolta con riflessione e se ne avverte un pensiero latente che impedisce il mero mantenimento del sottofondo, perché monta un rischioso coinvolgimento auditivomentale: come peccassimo di trascuratezza, mancasse la concettualizzazione di un qualco-

J AZZ & blues

sa che non afferriamo, dovessimo a questo cd una stringa cosciente per suggellarne la mentalizzazione. Romina Ciuffa

BIORN - VENERE BEYOND &further

Quando un disco proviene dritto dal cuore e non da una chiacchierata a tavolino lo si percepisce subito. Ascoltando Venere, album d’esordio dei Biorn, non può certo sfuggire l’incredibile freschezza della musica di questi cinque ragazzi di Roma: Blaze (voce, chitarre, synth, suoni), Eddie (voce, basso, contrabasso), Manuele (chitarre, synth, pianoforte, fisarmonica), Aure (batteria, percussioni) e Jako (programming, laptop, synth, suoni). Ed è un mix realizzato a dovere, ispirato dal rock americano dell’ultima generazione post-grunge come Nickelback, Creed, Staind (vedi On Air, l’unico brano cantato in inglese del disco, oppure Spring e Siamo su una stella) e dal cantautorato rock italiano di stampo Subsonica, Negramaro, Afterhours (sin dalla

a cura di ROMINA CIUFFA

VERVE - FORTH

ENZO PIETROPAOLI - NOTA DI BASSO J AZZ & blues

GARBO Come il vetro Vorticosa inquietudine di voler morire giovane

FEED back

Attesa, trasporto, psichedelia, emozione. Quattro parole per descrivere l’album numero quattro dei Verve, e undici anni di attesa per la reunion della band britannica: dall’ultimo album collettivo, Urban Hymns, prima che Richard Ashcroft si inserisse in un anonimo percorso da solista pop spalleggiato dagli amici Ray Davies, Burt Bacharach, Paul Weller. L’attesa è valsa la pena. Primo, la durata dei brani: tutti al di sopra dei cinque minuti e mezzo, in tutto 64. Prolisso forse, ma

c’è materiale su cui riflettere. Secondo, un’introspettiva traccia di apertura, la fluida Sit and Wonder (solo questo, 7 visionari minuti). Terzo, la freschezza e orecchiabilità del singolo Love is Noise, il più criticato qui ma anche unico episodio di esperimento totalmente lunatico in un album che non trova ferma collocazione né nella psichedelia né nel melodico: il resto del disco è tutto un perdersi nel labirinto che Ashcroft e soci hanno saputo creare mescolando sapienti ballate, atmosfere lisergiche e ritmi trascinanti. Sì, ci sono tutti gli ingredienti per un piatto alla Verve. Ancorché criticato. Non un’ostentata originalità ma un rientro maturo che, oggi, imporrà loro di prendere una direzione. Lo dicono loro, sit and wonder: siedi, e pensa un attimo. Cristina D’Eramo

GARBO - COME IL VETRO Con garbo torna Garbo in un disco intenso e doloroso, sotto l’etichetta Discipline, che affascina al primo ascolto. È una voce calda e penetrante, è esigenza di vivere, tumulto di sentimenti. Suoni elettronici di bassa tensione sì, ma che riportano vorticosamente nel cuore dell’inquietudine metropolitana, mettendo a nudo la fragilità umana. Il disco più marcatamente cantautoriale del musicista milanese fa sentire sottesa l’urgenza di comunicare e, a tal fine, di servirsi di tutti i mezzi: musica, voce, liriche. E per fortuna i testi sono lon-

EDGE and back

tani dalla retorica imperante di certo cantautorato dominante. C’è il singolo di lancio Voglio morire giovane, che poi è un inno disperato alla vita, scritto dall’amico Tao, quasi un esorcismo della morte spirituale, affettiva; c’è Più avanti, che fa riaffiorare gli echi della new wave; c’è No, che rapisce con un ritmo intenso e basso martellante. Tra le 12 tracce trova posto anche una cover dei Ramones, Baby I love you, in una versione leggera e ironica: quasi uno sguardo dolce sul suo passato, visto col sorriso bonario della maturità. Nicola Cirillo

GAETANO DONIZETTI - LUCIA DI LAMMERMOOR Ancora una volta Lucia ed Edgardo dovranno dare prova del loro amore, attraverso l’eterno dramma di Lammermoor, che Gaetano Donizetti consegnò alle scene nel 1835. Un’opera intensa, melodica e struggente, tra melodramma romantico e ombre di verismo. La genovese Dynamics, casa discografica indipendente, pubblica una nuova incisione live della Lucia di Lammermoor, con l’inconfondibile e seducente voce di Mariella Devia, belcantista italiana che dà corpo e anima a Lucia. Soprano leggero dal colore intimo e maturo, Devia è proiettata verso una maturità che i suoi detrattori ancora contestano, ma che il Teatro Lirico di Cagliari consegna in modo distinto attraverso una registrazione senza equivoci e diretta da Gerard Korsten. Interpretazione al limite della sensualità, disciolta tra filati e mezze voci impalpabili, in acuti e colorature cristalline. Un canto palpi-

CLASSICA &opera

tante e malinconico che, intriso di realismo drammatico e di linguaggio al limite del verismo, deve, senza il reiterato straniamento della protagonista, esprimere paura e terrore. Come nella seconda parte della cavatina (Regnava nel silenzio) e come nella celebre Scena della pazzia. Recitativo arioso per una scrittura che evoca tutte le componenti del vocalismo d’agilità: gorgheggi in alta tessitura, volate e volatine, trilli, note ribattute, picchettati. Al fianco di Devia non possiamo che trovare l’Edgardo di Giuseppe Sabbatini, uno dei più raffinati e sensibili tenori dei nostri tempi, accompagnato in scena da Vladimir Stoyanov (Enrico Ashton), baritono di grande eleganza e pulizia vocale, con il seguito del cast composto da Carlo Colombara (Raimondo), Blagoj Nacoski (Arturo), Damiana Pinti (Alisa) ed Enrico Cossutta (Normanno). Flavio Fabbri

RETTORE - STRALUNATA

title-track Venere, ma anche Gocce di Umore, In silenzio). Le canzoni scorrono leggere e orecchiabili accompagnate da testi mai banali dove la voce, piacevole e perfettamente calzante con il mood dell’intero album, riporta a creazioni alla Chester Bennington dei Linkin Park e Scooter Ward dei Cold sia nel fraseggio che nel timbro. Belle le chitarre, che alternano muri potenti di suono a melodie accattivanti, supportate da una sezione ritmica incalzante e precisa. Fondamentale e ricercato l’uso dei synth che dà ai Biorn una marcia in più differenziandoli dalle rock-band tradizionali. Certamente un esordio eccellente di una band genuina e di qualità. Bravi. Valentina Giosa

Torna la regina, una reduce. Stralunata, il suo nuovo tour e la raccolta dei suoi successi, eccola, Donatella che non si è mai vergognata di nulla, che negli anni che furono ha rotto tutti gli schemi e resta, ancora oggi, una che a sentirla cantare ci si imbarazza. Anche perché non è perfetta e, ciononostante, si prende certi lussi e infila Madonna nel water e poi tira lo sciacquone, dà a Mina della lavandaia nel duetto con Giorgia, definisce Milva insopportabile e Carmen Consoli vittima di uno scivolone, Patti Pravo ridicola, Laura Pausini l’Orietta Berti del 2008. Il cobra non è un serpente, lo dice il serpente. Lei, che se Mina ha la voce di una lavandaia le passa i panni e glieli strizza, va comunque ascoltata perché parla chiaro, parla di maschi e di amore, fa ballare anche quando parla di suicidio e di lamette. La Rettore è un’amante da portare a letto la notte e non salutare la mattina, è una sigaretta da tirare con velocità e sensi di colpa ma poca consapevolezza, un gustoso boccone che solo a pochi è dato capire, quelli che sono un po’ anni 70 con quei suoni da luci psichedeliche in mezzo al salotto. Per chi è impulsi-

va, audace, indecente, sessuale, ironica e notturna 25 brani infila, uno dopo l’altro, la notte specialmente. Raccolta che è un must. Romina Ciuffa

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