La metropoli silente
di Anna Orsenigo e Roberto Vassallo
Prefazione: La Metropoli silente non è altro che il cimitero di Staglieno che per la sua vastità e paragonabile proprio a una grande città ma differenza dei grandi centri, questo posto ha una peculiarità, è l’unico luogo al mondo dove il tempo si è fermato. Come un’istantanea fotografica che ha immortalato la quotidianità nell’ultimo alito di vita. L’immensità del luogo rappresentata dal grande numero di bronzi e marmi, che “come veri e propri ritratti, in scultura, di gente comune, giovani e vecchi, bambini e nonni, mogli e madri, mariti e padri, sorelle e fratelli e nipoti, parlano sottovoce, narrano abitudini, consuetudini mai dimenticate, danno voce ai loro pensieri, ai loro gesti: pura poesia e struggente malinconia, attraverso le loro pose, viene spontaneo ammirarli, come se fossero davvero, un popolo, della non-vita o della vita che continua, nonostante la morte”, l’incuria in cui molti di questi “inerti corpi” versano, non devasta, anzi al contrario la polvere che il tempo ha versato copiosamente su questi marmi, ogni singolo granello è una testimonianza dell’immortalità, il tempo è solo un testimone e noi siamo proprio come quei granelli di polvere, destinati a restare sino a quando rimarrà di noi il ricordo. Qui inizia un viaggio, nel luogo più vivo che la genialità umana ha saputo erigere, l’occhio di Anna è il metro per misurare le nostre sensazioni. A volte la poesia non ha bisogno di parole, è un’immagine, un sentimento e la morte non è che la nostra compagna di tutta una vita, l’unica che non ci abbandonerà mai neanche alla fine. La morte non è che l’inizio di una nuova vita e quello che lasciamo indietro è scolpito sul nudo marmo, che durerà sino a quando durerà di noi il ricordo. Roberto Vassallo.
Freddo bacio. Immobile sospeso nel tempo, congelato dall’eternità persa nel nulla, gelido marmo, freddo bacio mai dato. Si proteggono le piccole labbra, lo slancio colmo d’amore si blocca, dinnanzi al volto che staglia il suo sguardo al vuoto. Invano la nonna pietrificata sorregge la piccola, inutilmente il suo gesto quasi materno giunge al suo esito. Negli occhi sono fissi ad un passato che non c’è più, antichi odori, persi nelle lugubri piogge autunnali, immobile, come immobile la morte contempla il morituro, nell’attesa che dall’alto giunga il permesso per estirpare con mani ferma una qualsiasi vita. Le nuvole sono violini, le cui corde suonate dal vento, lasciano inciso nel tempo, note, note di vita, che le acide piogge sciolgono col nero bitume. Quanti baci mai dati, sono fermi nel tempo nell’attesa, quanti sguardi fissano il nulla, quanti nostalgici canti riecheggiano nell’aria. Baciami ancora piccola cara,
che il tuo freddo bacio, ridesti in me freddo marmo il ricordo troppo lontano, d’essere stato un cristiano.
La canzone dell’inverno. Infuria l’inverno tra i rami secchi e nudi di alberi spogli, ballano come macabri burattini orde di note stonate che sbattendo sul freddo selciato ne incidono le vene cave. Scuote la gran cassa con grande fragore Krodo e il suo rimbombo cupo e tetro colora di grigio spessore nuvole cariche delle lacrime di Theros, rapita un dì e ora in balia ora del fato. Stende il suo pesante candido mantello Ceimon ammantando d’identico colore tutto d’intorno per ricordare ai figli dell’uomo che v’è un tempo per vivere, uno per ricordare e uno per morire. Elios è stanco e timidamente appare, è stremato per le fatiche estive, pallido, lontano e alla fine del suo breve mostrarsi sparisce presto all’orizzonte. Non c’è più il calore nell’aria che scalda i sassi, né il pallido ozio degli stalloni marini, non s’asciugano i panni stesi al sole, né le lacrime del mare che carezzando la sabbia scrive antichi versi d’amore. Guardo inerme tra le fessure della pesante grata il lento decadere delle stagioni, la pioggia che bussa insistente sui vetri, il vento che garrisce e strappa con furia i panni stesi con cura ad asciugare. Guardo indifeso la sconfitta del giorno, ma tra tanto sconforto l’unica cosa chi mi rallegra e che dentro queste quattro piccole mura io al caldo osservo fuori, la bufera.
Canta la sua canzone, soffia forte dentro i corni ricurvi l’inverno, mentre scende sulla sua slitta di ghiaccio Bruma la signora del tempo. Una secca mano bussa ripetutamente alla porta di marmo, so che sei tu, ma io non posso farti entrare, ascolto il suo ripetuto bussare e l’esile figura che forse assomiglia a te, che ha il tuo profumo, il tuo profilo. Io non posso farti entrare, non ora. Ma un giorno spero non troppo lontano, quando la furia dell’invero cesserà di schiacciarti le membra, queste pesanti porte di marmo si apriranno e quando verrà quel momento, io sarò lì ad aspettarti, ti abbraccerò e ti bacerò sulle tue fredde labbra e il nostro amore non avrà più fine.
Angeli. Nell’iconografia classica gli angeli sono bellissimi, che brillano di luce divina, maestosi e terribili. Qui sulla terra, luogo deturpato dalla mano dell’uomo, essi si vestono degli abiti umani, e spesso assumono tratti ben diversi da come sono in realtà. Sempre d’angeli si tratta. I miei angeli non sono bellissimi, ma sono agli occhi di chi li sa appezzare, delle creature incantevoli. I miei angeli, sono deformi, sobbarcati dall’enorme quantità d’amore, cui sono costretti a sopportarne il peso. I miei angeli non vedono, così non fanno differenza tra il genere umano. I miei angeli, non sentono, perché sono tutte uguali le urla di dolore. I miei angeli non sanno esprimersi, perché il loro comunicare si traduce con una sola parola.
I miei angeli, guardano tristi da una finestra di un orfanotrofio, i miei angeli, hanno le mani imbrattate dal sangue di chi soffre, i miei aneli non hanno nome, non hanno volto, né casa, né posto dove andare. I miei angeli, sono seduti ai margini di una strada, sulle panchine di un ospizio, sono silenziosi, danno di matto, non si proclamano innocenti, e soffrono in silenzio. I miei angeli hanno mille volti, tutti uguali, spesso piangono, nessuno li consola. I miei angeli hanno la faccia sporca, i miei angeli non chiedono mai, e hanno tutti lo stesso sguardo, quello dell’amore.
Ombre. L'ombra del dolore è il sole che smorza i suoi raggi, mentre s'infrangono come in un caleidoscopio nelle nostre lacrime, che scendono grèvi e calde percorrendo i solchi pallidi della pelle, scavando le rughe dei nostri sentimenti. Impassibile e sorda ai lamenti la morte immobile si delizia al suono della nostra disperazione, come cantico lieve s'elevano al cielo meste preghiere, l'anima si quieta mentre attorno s'anima il silenzio. Anche il vento ha un'anima pia, egli ci accarezza i crani e ci asciuga le lacrime, mentre il tempo rallenta la sua folle corsa quasi con dovuto rispetto, dinnanzi all'eterno silenzio. Per chi è due piedi sotto terra, nulla ha più valore, il tempo s'è fermato a ieri, aliti di brezza leggera svegliano le foglie annoiate di lugubri cipressi. Tornando a casa mi pervade l'angoscia che come maligno virus, m'incatena a questo mondo
e mentre l'ombra incide di scuro colore il già nero asfalto, fa ricordare a chi per un attimo se ne fosse dimenticato, che qui siamo solo degli ospiti, destinati ad andarsene quando anche per noi caleranno le etrne ombre della sera.
Ti darò una dolce morte. Ti darò una dolce morte e dalle tue labbra nascerà un fiore, ti dipingerò con i caldi colori della primavera e dalle tua secche labbra sgorgherà amore. Le parole hanno il potere di dare la vita a chi vita non ha più, ma le parole possono uccidere anche più di un coltello affilato, le parole ti innalzano e ti fanno sprofondare giù negli abissi profondi, ti condannano o ti assolvono, ti imprigionano o ti liberano. Ti darò una dolce morte e dalle tue labbra nascerà un fiore, fiore di maggio, fiore d'amore. Dimentica ciò che è stato e ciò che sarà, io ti darò una morte dolce e una migliore vita e tu sarai finalmente libera di essere quello che hai sempre desiderato. Lasciati morire per mia mano, io sarò il tuo peccato e tu il fiore che ne nascerà. Si io ti darò una dolce morte, e dalle tue labbra nascerà un fiore, fiore di maggio, fiore d'amore,e tra i suoi rossi petali inciderò il mio nome, cosicché tu non lo possa più scordare.
L’ultimo ballo. Come sei riluttante mia cara stasera, perché ti ostini a rifiutarti a me anche adesso che oramai sei mia. Lungi da me il ferirti, l’offenderti o il solo maltrattarti, io ti ho amata tutta una vita, ti sono stato accanto, ti ho seguita come un’umile ombra in ogni tuo passo. incerta ed impaurita mi sono coricata nel tuo letto ogni notte ed aspettando. ho contato il ritmo lento dei tuoi respiri. Più volte ho resistito al desiderio di baciarti. ma non era ancora giunto il momento, più volte ho dovuto fermare controvoglia la mia mano. ho allungato il tempo a te concesso solo perché ti amavo. ed ora ti ritrai da me, ora che è giunto l’attimo tanto atteso. dove la dolce musica dell’eterna notte rischiarata da meste candele, suoni la sua ultima canzone. Guarda i miei secchi piedi, che si librano agili in quest’ultimo tango. afferra la mia arida mano e lascia ch’io ti guidi tra i freddi marmi. e le immense piazze deserte della silente metropoli, le luci delle falene imprigioneranno il calore delle stelle. mentre sull’antico selciato mille passi riecheggiano con suono sinistro nel vuoto. Come sei scontrosa stasera, la tua pallida bellezza m’inebria, la tua ritrosità se può ancora di più m’infiamma di passione.
allunga il tuo piede gentile, abbracciamoci come consumati amanti, uniamoci nel vortice lascivo della danza. Ti amerò stanotte come mai sei stata amata. ti amerò fino a quando l’ultima nota si spegnerà. sopra l’ultimo alito esalato delle tue labbra tumide. Forse così non sei mai stata amata, amata sino a morirne.
Quando c’incontreremo ancora. Ti guardo per l’ultima volta e già mi chiedo. quando c’incontreremo ancora, immobile stai, come le mie frasi mai dette, che ancora aleggiano esitanti nell’aria. Vorrei augurarti un buon riposo, mentre la coperta ti cela gli occhi per l’ultima volta. ma le parole mi si strozzano in gola ancora. affogano nel pianto ed in quelle frasi che mai ho saputo dirti. quando c’incontreremo ancora per’chi possa finalmente sussurrarle. Mi maledirei ogni giorno della mia vita se ciò non potesse accadere. quante cose che avrei voluto fare e non ho fatto. quanti piccoli pensieri che avresti meritato e che sono rimasti tali. quante frasi d’amore si sono infrante tra i miei denti. quante carezze mi sono rimaste nelle tasche. e quante ne ho perse inutilmente strada facendo. Quanti baci si sono spenti nel sonno, quanto amore se ne andato col tempo. La vita è volata troppo presto e non mi ha lasciato. Il tempo di dirti ciò che avevo da dire. Ma sono io che pensando che tutto fosse eterno. mi sono perso nell’oceano infinito dell’accidia ed ora. non ho più tempo. Ti guardo ancora per l’ultima volta e già mi chiedo. quando c’incontreremo ancora, se mai c’incontreremo ancora.
Aggrappato alla vita. Dannato per l’eternità, così aggrappato alla vita da non accorgermi ch’essa non m’appartiene più, sceso nei meandri degli inferi laddove la pena non conosce confini, imprigionato quattro metri sott’erra implorante pietà, dannato per l’eternità. Ti bramo, ti cerco come il deserto anela all’acqua e sebbene solo una goccia di quel vitale nettare potrebbe bastarmi, io voglio il tutto, impossessarmi ancora di ciò che fu mio e che fu tolto mio malgrado, mi fu rimosso da quella giustizia divina ch’io rinnego ora come la rinnegai in vita. Ho smania di te, afflitto dalla voluttà che in amore mai ne fui ebbro, ha! Che bruci pure la mia anima all’inferno, che avvampi per l’eternità, se solo un attimo di vita scendesse ora in queste secche viscere e ridestasse questo mucchio d’ossa! Se ciò che rimane di me
è cibo per vermi e tarme, l’animo mio vaga inquieto tra le spoglie tombe e guarda con occhio invidioso quei teneri germogli che giocando si nascondono tra i grigi loculi. Ch’io sia dannato, e che lo sia per l’eternità se con Mefisto non scesi a scellerati patti, fa che io possa salire ancora e dissetarmi alla fonte della vita per un lungo attimo e che sazio ed ebbro alla fine torni sott’erra, a pascermi ed a rodermi del mio misero destino di putrida carogna.
Ti darò una dolce morte. (Parte seconda). Ti darò una dolce morte, perché non mi pace come ti hanno fatta morire i giornali, ti darò una dolce morte perché nei tuoi occhi scuri c’è ancora la luce di un sogno. Ti darò un’altra vita e riscriverò il tuo passato, ti colmerò d’amore e farò in modo di farti vivere in eterno. Ti darò una dolce morte, magari tra le braccia d’un amante e non tra quelle d’un assassino, nessuno violerà più il tuo nome, perché avrai un dolce morte. Avrai sempre vent’anni E mai il tuo ricordo scolorirà, tu fiore di primavera che mai appassirà, sogno d’estate che mai svanirà, musica dolce che mai si attenuerà, alito di vita che sempre soffierà, amore che sempre vivrà.
Ti darò una dolce morte, perché non mi piace come ti hanno fatta morire i giornali, ti darò una morte bella perché bella è il tuo nome, ti darò una morte dolce perché solo questo so fare, riscriverò la tua storia, che rimarrà sempre nella mia memoria.