L’invidia degli dei. Di Roberto Vassallo
I Era una calda mattina d’estate, il sole spendeva alto nel cielo e l’afa cominciava a farsi sentire, era quell’ora in cui la canicola (complice) faceva avvicinare sia gli umani che gli dei all’unico corso d’acqua, che sorgendo dalle profondità dell’Ade dopo un tortuoso passaggio usciva quindi allo scoperto nel mondo degli uomini, unendoli così agli stessi dei. Il Lete dunque, il fiume dell’oblio, dove si narra il mito di Er disceso nell'oltretomba per conoscere i misteri della reincarnazione delle anime. Costui era un soldato morto in battaglia e resuscitato grazie proprio a quell’acqua per descrivere agli uomini l'Aldilà. Orbene, l’acqua del fiume nella sua folle corsa vero il mare, forma in un certo punto come un falso pendio, una pozza, dove gli uomini la usano per abbeverarsi e gli dei superbi per potersi specchiare. Diana soleva sostare sulle rive di quello specchio d’acqua, la vergine dopo le sue estenuanti battute di caccia era solita bagnarsi e rinfrescarsi in quelle dolci e fresche acque, attenuando così la calura. Certo che vedere un simile spettacolo per gli umani (ma non so se dire se fortunati o sfortunati e il perché lo saprete presto se seguirete a leggere ), che avevano la dabbenaggine di sostare a curiosare, non era cosa da tutti i giorni, ammirare le bellezze discinte di una dea. Sulle prime la divinità pareva perfino provarne piacere, suscitare così tanta ammirazione e desiderio in quella schiera di mortali ansimanti, era come un gioco, sia da una parte che dall’altra. Ogni gesto della dea sembrava calcolato, ogni sua movenza comunque sublime, anche gli respiri che impunemente sfuggivano dalle sue labbra avevano un qualche cosa di magico e divino. Il gioco poteva continuare per ore sotto la calura estiva, tanto che gli umani non sembravano neanche accorgersene tanto erano presi dall’oblio di quella visione e poi come spesso succede, il gesto sconsiderato di uno scellerato metteva fine ai giochi con la più crudele delle sue conclusioni. Vie era sempre un tale, che non accontentandosi della sola visione tentava un approccio più diretto ormai in preda alla passione più sfrenata, ed era proprio quell’avvicinarsi troppo che mandava la divinità su tutte le furie, che così sentendosi troppo presa ai desideri umani, fulminava tutto d’intorno e coloro che erano oggetto della sua furia non avevano scampo, rimanevano sul posto come erba seccata, così tanto vicino all’acqua da poterla toccare, ma troppo distante per poterla bere, il loro supplizio era la sete eterna, il desiderio che non si può appagare, qualcosa che brucia più del fuoco, la passione amorosa che rende così simili gli dei ai semplici umani. Ma quel giorno non era una un uomo a sostare sulle rive del fiume, anzi un profumo di dolci fiori aleggiava nell’aria già arsa dalla canicola estiva. Antimea poteva sembrare una ragazza tra le tante, una che passavano vicino al fiume ogni giorno, sicuramente era la più sfacciata, perché pur sapendo che in quelle acque la dea Diana amava sostare e non resistendo ad una così forte calura, si era avvicinata proprio a quella pozza, così ingenuamente e maliziosamente come solo una giovane donna sa fare. Si era disfatta dei suoi vestiti leggeri e si era immersa dolcemente in quelle acque fresche ad invitanti; che piacevole sollievo il sentirsi accarezzare il corpo in un massaggio lieve, che gradevole sensazione ascoltare il mormorio delle bollicine che saltavano fuori dall’acqua e lo sciacquio che provocavano i suoi esili movimenti, che amabile abbraccio tenero e dolce, che ebbrezza sentire leggiadri i lunghi capelli corvini volteggiare attorno a lei, come leggiadre libellule. Perché tutto questo doveva essere goduto di una persona sola, anche se dea? Pensò Antimea e poi aggiunse; Diana non si seccherà più di tanto se anche io mi rinfresco un poco, sono sicura che capirà e che alla fine prevarranno i buoni sentimenti, a che scopo essere un dio se non puoi fare del bene? Mentre pensava a tutto ciò la giovane donna si era già immersa in quelle acque invitanti, tanto da non accorgersi che si era un po’ troppo avvicinata alla dea quando l’adolescente creatura involontariamente s’immerse con un tuffo schizzando di spruzzi d’acqua la divinità. “Piccola creatura impudente !” esplose di botto la dea, poi aggiunse; “come ti permetti ? non sai cosa stai rischiando con quel tuo modo tanto sfacciato, se solo volessi ti potrei trasformare in un pesce…”, ma la dea non ha il tempo di finire la frase, che la giovane Antimea riemersa dalle acque appare alla divinità in tutta la sua sfolgorante bellezza, nuda e bagnata con il sole che filtra a mala
pena tra gli alti cannicci e disegna sul giovane corpo della ragazza arabeschi luminosi, la sua pelle bianca come il latte, abbaglia di esuberante bellezza e i suoi capelli neri come il carbone, s’incendiavano di luce purpurea al riverbero del sole, mentre grondanti d’acqua le incorniciano il volto, io stesso la potevo scambiare per una dea tanto era bella, io tale e quale a un novello Paride avrei commesso la stessa blasfemia. C’è un momento in qui il divino e il terreno si mescolano, per l’assurdo gioco del fato, ed è che in quell’attimo che vidi riflessa nell’acqua un’immagine più bella del divino, solo per un attimo, ed è proprio in quell’istante in cui Eris (la discordia), getta con tutta la rabbia il suo seme. Contemplavo dunque in sacro silenzio quelle due maestose bellezze che parevano fronteggiarsi, l’una di fronte all’altra stavano nude e statuarie e solo i loro respiri avevano l’ardire di rompere il silenzio. Nessuna delle due pareva prendere l’iniziativa mentre anche il tempo rendendosi conto della grandezza del momento si era rispettosamente fermato. Voi semplici mortali non potete avere la cognizione di cosa significhi fermare il tempo, specialmente qui nel vostro amato mondo. Rare volte è concesso questo miracolo e quella era una delle poche. L’aria si raggela e d’incanto tutto si ferma; gli uccelli che fluttuano nel cielo, gli insetti che stanno per posarsi sui petali dei fiori, le gocce d’acqua che invece di cadere a terra si fermano nel mezzo, in uno spazio che non è più di nessuno. Attorno il gelo, ma così diverso da quello che porta con se Skadi, quando ammanta di bianco colore le vette dei monti, e quando il vento gelido del nord arriva suonando il suo lungo corno ricurvo. Quello era un gelo divino, un freddo intenso che ferma, anche lo scorrere del tempo. Solamente due creature parevano non accorgersi di tutto ciò che accadeva attorno, due sguardi uno in quello dell’altra, come se volessero indagare nell’io più profondo, come se desiderassero rapire i desideri più reconditi, due luci lampi divini e mentre succedeva questo, i loro respiri si facevano mano a mano più profondi stravolgendo quel confine labile che c’è tra il respirare e l’ansimare o gemere agli gli orecchi dei più smaliziati. Nel mentre si consumava quest’amplesso divino fatto di luce e suoni, ecco che una ninfa che era solita giacere in quelle acque seminascosta la cui bellezza non era apprezzata né dagli dei né dai mortali, ebbe un cattivo pensiero, un’idea di vendetta verso tutto il creato e che così volle attuarla. Prima di ciò è giusto che vi parli di questo piccolo essere non proprio amato dagli abitanti dei due mondi. La leggenda di Fthonos. (Invidia) Ftnosia non era bella come le ninfe dei laghi, non era piacevole come le naiadi dei fiumi i cui canti soavi facevano innamorare gli uomini che avevano la sventura di avvicinarsi a loro, anzi la sua voce era sgraziata e profonda a volte così bassa che lo stesso Pan ne aveva timore. Ftnosia non aveva i capelli lisci come le altre amadriadi né la pelle bianca e levigata profumata di primavera e a questa sventurata fanciulla il destino e gli dei le avevano anche riservato una diversa sorte. Molto tempo prima, quando ancora gli animali parlavano agli uomini; gli umani e gli dei andavano d’accordo vi era tra loro complicità tale, tanto che la cosa non piacque a Lucifero, il quale si infastidì così tanto di vedere tanta armonia nel mondo che volle andare dal Padre di tutte le cose per lamentarsi. “Padre” esordì il demone, poi aggiunse:-” Con tutto il rispetto, credo vi sia un motivo se esiste la terra di mezzo, ma sembra che tutti giù se ne siano scordati…”, dopo una pausa egli riprese :-“ Il mondo è stato creato poiché gli uomini scontassero le loro condanne, Tu stesso d’altronde lo hai stabilito…io invece vedo che v’è pace e regna equilibrio in quel mondo in cui tutto dovrebbe essere messo in discussione a causa loro, dov’è dunque la punizione se v’è solo assoluzione? Come si può espiare una colpa se non v’è condanna?” allora il Padre supremo disse al demone impertinente:-“ cosa proporresti tu?”. “lascia Mio Signore, ch’io getti un piccolo seme, una goccia nel mare per fare si che gli uomini si ricordino che sono uomini e gli dei che sono dei”. Il silenzio dell’eterno Padre suonò alle orecchie di Lucifero come un assenso ed egli sparì tra le nubi cariche di pioggia e d’ora in avanti l’acqua delle nuvole non avrebbe più avuto lo stesso sapore. Eterea era una ninfa, che vagava nell’aria era poco più che una bambina quando Lucifero la prese e quando il frutto del loro amplesso nacque, Eterea sparì così come era venuta. Ftnosia crebbe senza madre né padre e per questa vergogna si nascose agli occhi degli altri. Schiva, non bella né intelligente, anzi piccola e
sgraziata, sembrava fare di tutto per rendersi ancora più antipatica, se le sue compagne cantavano i loro dolci versi, lei con la sua voce stridula e penetrante rompeva tutti gli incanti per non parlare del suo fisico minuto e così sgraziato e brutto, con quei suoi capelli crespi che usava più come reti da pesca che come vessilli d’amore. In breve tempo questa naiade si era conquistata una pessima fama e lei non faceva proprio nulla per migliorarla, anzi il culmine arrivò quando proprio in quella pozza d’acqua dove la dea Diana e la mortale Antimea stavano per consumare un amplesso divino. Ftnosia colma d’invidia (un sentimento fino allora mai provato né dagli umani, né dagli dei, né tanto meno dalle ninfe), s’impadronì del suo essere gracile e rosa dalla gelosia la giovane naiade si struggeva dal livore, già il suo corpo stava cambiando, la sua pelle bruna si stava coprendo di squame, le sue labbra per le troppe maldicenze si stavano mutando in un becco ricurvo, i seni penduli sembravano due inutili orpelli e le sue gracili gambe si stavano trasformando in zampe orrende, mentre la sua voce acuta si alterava in un gracchiare stridulo e nonostante tutto dal suo rostro contorto continuava a proferire blasfemie e maledizioni. Tra queste una si impressionò nell’aria prima che le sue ultime parole mutassero in bieco stridere…”sia l’invidia pascersi della vostra lascivia”. L’anatema non cadde invano anzi, ebbe subito effetto, di colpo la dea Diana quasi rendendosi conto di ciò che stava per compiere fece un passo indietro e Antimea per timore si nascose dietro gli alti cannicci. Per la vergogna la giovane divinità corse a coprirsi perché nessun umano prima di allora l’aveva vista nuda così da vicino. Poi tornando in se e rivestitasi in tutta fretta, sparì nella foresta per sempre, mentre la povera Antimea che non si era ancora resa conto di quello che era appena accaduto, venne avvicinata dalla trasformata Fthonos, che anche il nome aveva mutato, ora era invidia dalle nere ali che sbattendo provocano il gelo nei cuori, invidia dal gracchiare acido che causa astio nei sentimenti, dallo sguardo che provoca livore nei cuori. Maledisse gli umani così come maledisse gli dei, troppo deboli per potersi opporre. Sempre vi sarà astio e invidia tra dei e umani a causa tua Antimea, la tua bellezza sfidò quella degli dei, tu che facesti innamorare Diana. Il tuo amore sarà la tua condanna e sia dannata tutta la tua progenie, che la bellezza appassisca come un fiore nel deserto, che lo splendore si affievolisca con gli anni, che la grazia si muti in goffaggine col tempo, che tutto non rimanga che un ricordo e che questo svanisca presto. Anche se oramai non poteva più esprimere una parola ma solo gracchi sgradevoli Fthonos aveva pronunciato la sua ultima sentenza, d’ora in avanti non più con la parola ma solo con lo sguardo avrebbe offeso. Così fu. Da quel giorno iniziò l’invidia a rodere gli animi dei mortali e i sonni degli dei, tanto che un demone ebbe a dire che le figlie degli uomini sono più sensuali delle creature degli dei perché racchiudono in loro il meglio e il peggio, il bene e il male, la luce e il buio. Ma il Padre eterno colui che vede e sa tutto, volle mettere ordine ancora una volta in queste cose, così creò un amore così puro, così forte, così perfetto, da non poter essere prevaricato neanche dall’invidia, un amore che ancora adesso l’invidia si rode nelle profondità degli inferi. L’amore che Dio padre ha creato, quello che non conosce astio, è quello che serba per noi e che noi il più delle volte non sappiamo o non vogliamo ricambiare.