La
colpa
della
bellezza.
Vassallo
Roberto
Preambolo.
L’estate
timida
aveva
da
poco
fatto
capolino
lasciando
dietro
di
se
una
primavera
tarda
ad
arrivare,
già
le
cicale
avevano
preso
d’assalto
i
campi
incolti
portando
con
se
una
cappa
d’afa
pesante.
Il
cielo
terso
faceva
da
sfondo
ad
un
sole
orgoglioso
e
maestoso
capace
di
fermare
il
tempo
cosicché
tutto
diventasse
lento
e
grève.
Non
ancora
arsa
era
la
terra
né
secche
le
pozze,
ma
già
una
brezza
calda
leggera
vagava
senza
meta
oziando
the
i
rami
degli
alberi
in
fiore.
Leggeri
i
miei
passi
per
non
disturbare
quella
quiete
campestre,
profondo
il
respiro
per
godere
appieno
di
quell’aria
oziosa,
vagava
l’occhio
cercando
un
posto
dove
posarsi,
tanto
era
bello
lo
spettacolo
tutto
d’intorno
che
come
un
bimbo
curioso,
l’occhio
inseguiva
il
miraggio
della
perfezione.
Così
a
parer
mio
doveva
essere
il
mondo,
calmo
come
il
respiro
d’un
neonato,
bello
come
lo
sguardo
di
una
fanciulla
e
caldo
come
l’abbraccio
di
un’amante.
Vagando
per
i
poderi
scorgo
una
cascina
semi
abbandonata,
l’uscio
è
aperto
e
pare
invitarmi
ad
entrare,
io
indiscreto
come
un
gatto,
m’intrufolo
nella
magione
ed
ecco
che
un
soave
odore
di
mosto
mi
indica
il
cammino,
anche
se
dentro
la
luce
del
sole
v’entra
a
fatica,
senza
sforzo
alcuno,
mi
dirigo
verso
il
luogo
di
quell’inaspettata
fragranza.
Ed
ecco
in
tutta
la
sua
maestosità
il
mostro
che
superbo
già
m’inebria
della
sua
dolce
fragranza,
sarebbe
come
mentire
a
me
stesso
se
negassi
di
sentire
arsa
la
gola,
così
senza
pensarci
su
due
volte,
arraffo
la
prima
cosa
che
somiglia
ad
un
boccale
e
lo
immergo
più
volte
nel
nettare
divino,
meravigliandomi
che
la
sete
invece
di
calare
aumenta
con
l’aumentare
delle
bevute.
Forse
che
i
baci
di
mille
amanti
possano
essere
più
soavi
o
che
mille
carezze
lascive
possano
apparire
più
seducenti?
Fatto
sta’
che
la
sete
è
pacata
ma
ora
un
leggero
torpore
mi
appesantisce
gli
occhi,
esco
fuori
barcollando
come
un
ubriaco
e
cerco
un
posto
dove
potermi
riposare.
Così
sotto
qui
filari
d’uva
oramai
spogli
mi
accingo
a
coricarmi,
ma
neanche
ho
il
tempo
di
chiudere
gli
occhi
che
ecco
sento
un
gran
baccano,
tuoni
dal
cielo
e
crepitii
dalla
terra,
un
tumulto
come
se
fosse
scoppiata
la
rivoluzione,
così
anche
io
mi
decido
a
lasciare
il
provvisorio
giaciglio
a
seguire
la
provenienza
di
quei
rumori.
Più
mi
avvicinavo
più
quei
fragori
si
facevano
forti
e
chiari,
potevo
udire
chiaramente
una
voce
greve
come
rombo
di
tuono
e
tutt’intorno
un
vociare
furioso
come
la
pioggia
che
cade
pesante
sul
selciato.
Avevo
ancora
gli
occhi
come
impastati
dal
sonno
ma
potevo
vedere
ormai
non
troppo
distante
da
me
un
assembramento
di
molta
gente
che
strepitava,
che
spingeva,
urlava,
biascicava
improperi
indecenti
ma
all’indirizzo
di
chi?
Da
quella
distanza
non
potevo
veder
chi
era
bersaglio
di
tali
offese,
così
decisi
nonostante
la
mia
minuta
figura
di
farmi
spazio
per
conquistare
almeno
un
posto
decente
da
cui
potessi
rendermi
conto
di
che
si
trattava.
L’impresa
non
fu
delle
più
semplici,
dovetti
anche
io
ricorrere
a
mezzi
poco
ortodossi
per
potermi
fare
largo
in
mezzo
a
quella
marea
umana
vociante.
Tra
calci,
spinte
e
scossoni
alla
fine
anche
se
malconcio
conquisto
il
mio
sospirato
posto
tra
le
prime
fila.
Un
uomo
grande
e
possente
stava
ritto
in
piedi,
la
sua
voce
profonda
come
il
tuono
pareva
scuotere
la
terra
tutt’intorno,
costui
dalla
folta
criniera
a
dalla
spessa
barba
bianca
teneva
per
mano
un
essere
bellissimo,
una
ragazza
di
tale
splendore
che
mai
i
miei
occhi
avevano
veduto.
Scosso
dal
suo
fascino
ed
incapace
di
fare
benché
qualsiasi
movimento,
rimasi
come
incantato
da
tale
avvenenza
che
solo
la
potenza
della
voce
dell’omone
con
la
candida
barba
mi
fece
ripiombare
nella
triste
realtà.
Un
attimo
solo
di
stropicciarmi
gli
occhi,
dal
ripulirmi
le
vesti,
che
non
feci
fatica
a
riconoscere
che
vi
avevo
davanti.
Chi
si
erigeva
in
tutta
la
sua
possanza
era
il
padre
di
tutti
gli
dei,
Zeus
in
persona
stava
dinanzi
a
me,
cercando
di
ammansire
una
folla
esagitata,
che
forse
proprio
per
rispetto
alla
divinità
non
avanzava
di
un
passo,
ma
chi
era
dunque
quell’essere
oggetto
pare
di
tanto
odio?
A
soddisfare
la
mia
curiosità
una
figura,
un
essere,
una
femmina
dai
capelli
che
parevano
aspidi
pronti
a
mordere,
dagli
occhi
iniettati
di
sangue,
pronti
a
schizzare,
dalle
dita
ossute
e
dalle
unghie
spuntate
pronte
per
graffiare,
dalle
labbra
secche
e
dalla
voce
acuta
e
stridula,
dalle
vesti
lacere
e
dalla
pelle
arida
come
le
pozze
del
deserto.
Costei
nell’impeto
della
sua
enfasi,
eruttava
dalla
sua
infernale
bocca
epiteti
che
a
malapena
si
potevano
capire,
quella
è
l’invidia
mi
sussurrò
quasi
con
timore
all’orecchio
una
piccola
donna
vicino
a
me,
allora
senza
perdere
tempo
le
chiesi
anche
chi
fossa
quell’essere
bersaglio
di
tanti
insulti,
è
la
bellezza
m’informò
la
mia
gentile
interlocutrice,
e
di
cosa
la
si
accusa
le
chiesi
prontamente,
la
risposta
la
diede
proprio
l’invidia
allorquando
le
sue
parole
si
fecero
più
chiare.
L’accusa.
(l’invidia).
Minuta
e
gracile,
livida
e
maldestra
tanto
piccola
da
sparire
al
primo
soffio
di
vento,
ma
così
potente
da
lacerare
un’esistenza,
l’invidia
tentò
di
prendere
la
parola,
ma
la
bellezza
dell’accusata
era
tale
che
il
solo
suo
splendore
aveva
il
potere
di
offuscare
anche
le
parole
che
l’invidia
vomitava
con
furore,
nessuno
l’ascoltava
e
questo
la
faceva
andare
ulteriormente
in
bestia,
vedevo
la
sua
rabbia
salire
cambiarle
fisonomia,
renderla
se
qualora
fosse
stato
possibile
ancor
più
brutta
e
odiosa,
ma
anche
ciò
non
destava
effetto
alcuno.
Quando
presa
da
una
vampata
di
eccesso
d’ira,
si
rivolge
al
grande
Giove
pregandolo
di
offuscare
la
sua
bellezza
almeno
per
un
momento.
Il
dio
essendo
sopra
le
parti
anche
se
malvolentieri
acconsentì
alla
richiesta
finalmente
l’invidia
prese
la
parola:
“nel
tuo
nome”
indicando
con
le
sue
dita
ricurve
la
giovane
donna
mira
di
tanto
furore,
“nel
tuo
nome
confessavo
quali
orrendi
peccati
l’uomo
commette,
quali
miseri
misfatti
si
compiono
nel
tuo
nome,
per
te
l’uomo
diventa
nulla,
abbietto,
misero,
per
te
si
annulla,
tutto
per
uno
sguardo,
un
sorriso
indecente,
ecco
cosa
è
la
bellezza
è
indecenza”.
Mentre
l’invidia
procedeva
questo
sproloquio,
potevo
vedere
il
suo
misero
essere
girare
attorno
alla
povera
vittima
come
un
avvoltoio
volteggia
sopra
la
carcassa
moribonda
della
sua
offerta.
La
sua
voce
diventava
simile
al
gracidio
stridulo
di
una
gracula,
chiunque
poteva
udirla
anche
a
chilometri
di
distanza,
poi
come
in
una
macabra
danza,
si
avvicinava
quasi
con
timore
alla
bellezza
tentando
come
fa
un
corvo
affamati
do
beccare
un
seme
lasciato
cadere
nel
terreno
incolto.
Avanti
e
indietro
come
fanno
in
battaglia
i
soldati,
un
affondo
e
una
ritirata
ma
la
vittima
è
aimè
disarmata
e
la
vittoria
sembrerebbe
troppo
facile
se
non
fosse
l’invidia
a
condurre
il
gioco.
Più
volte
si
avvicina,
più
volte
la
schernisce,
ma
i
suoi
argomenti
sono
troppo
vaghi,
e
non
c’è
confronto
tra
le
due
contendenti.
L’invidia
sembra
rendersene
conto
e
dopo
un
breve
momento
di
riflessione
torna
all’attacco:
”
Avanti
donne”
questa
volta
sembra
più
decisa
che
mai,
e
chiede
l’aiuto
di
quelle
donne
che
per
scherzo
del
fato
o
chissà
per
quale
altre
ragioni
ora
si
vedono
assimilate
all’invidia
in
un
oscuro
destino.
L’invidia
sa
sicuramente
il
fatto
suo
e
in
questo
caso
apostrofando
una
moltitudine
di
vecchie
megere,
le
incita
con
l’arma
a
lei
più
cara
l’ira.
“orbene,
cosa
passa
tra
voi
e
lei,
tra
voi
defraudate
del
bene
più
caro
che
è
la
gioventù,
violentante
nell’intimo
più
profondo
del
vostro
essere,
femmine
secche,
donne
senza
più
voglie.
Il
vostro
male
è
qui
davanti
a
voi,
lo
scempio
delle
vostre
notti
è
dinnanzi
ai
vostri
occhi,
in
attesa
della
condanna.
E’
lei
con
le
sue
subdole
armi,
che
vi
ha
asciugato
l’amore
dei
vostri
uomini,
ridotti
ora
a
meri
maschi
imploranti.
Lei
vi
ha
reso
impotenti,
così
come
ha
reso
inetti
i
vostri
uomini.
Guardatela!
In
quell’istante
un
raggio
di
sole
più
fulgido
degli
altri
illuminò
di
una
luce
irreale
la
“bellezza”
facendola
apparire
come
un
miraggio
divino,
difficile
da
descrivere
anche
per
il
più
grande
dei
poeti.
Il
suo
copro
madido
di
sudore
scintillava
sotto
quel
raggio
malandrino
di
sole,
rendendo
ciechi
i
superbi
e
muti
i
lussuriosi.
E’
così
dunque
la
bellezza
in
tutto
il
suo
splendore,
un
raggio
di
luce
che
uccide
e
rigenera,
dunque
è
così
la
bellezza
nella
sua
nudità,
un
sogno
lungo
un
respiro.
L’invidia
ferita
se
fosse
ancora
possibile
nel
suo
orgoglio,
non
si
da
pace
e
continua
in
quello
che
sta’
diventando
un
turpiloquio.
La
rabbia
che
ha
in
corpo
invece
di
consumarla
la
ritempra,
come
se
nuova
linfa
venisse
pompata
da
oscure
forze
nelle
sue
secche
viscere,
dandole
così
forza
e
vigore.
“lei
è
la
causa
dei
peccati
del
mondo,
per
lei
l’uomo
ha
tradito
il
suo
creatore,
per
l’effimero
desiderio
l’uomo
ha
precipitato
la
sua
progenie
nel
baratro”.
Oramai
in
preda
agli
spasmi
l’invidia
non
proferisce
più,
urla,
inveisce,
sputa
verdastre
e
spesse
sentenze,
che
bucano
il
terreno
corrodendolo
quando
cadono
al
suolo.
Non
cammina
più
striscia,
come
una
serpe,
i
suoi
capelli
stopposi
si
trasformano
vivi,
come
aspidi
affamate.
Medusa
ora
avrebbe
paura
di
lei
e
fuggirebbe
se
solo
non
le
avessero
mozzato
la
testa,
quell’essere
che
ora
si
agita
come
un
ossesso
non
sembra
avere
più
nulla
di
umano,
verde
dalla
rabbia
esplode
e
le
sue
viscere
corrosive
precipitano
sugli
occhi
di
quelle
megere
che
fino
a
poco
prima
inveivano
e
imprecavano
contro
una
vittima
predestinata,
ed
ora
ceche
e
mute
piangono
del
loro triste destino.