Jacques Mesrine L'istinto Di Morte

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“ Nelle mani dello Stato la forza si chiama diritto, nelle mani dell’individuo si chiama delitto. ” Max Stirner

Jacques Mesrine L'ISTINTO DI MORTE

NOCOPYRIGHT.

Titolo originale: Jacques Mesrine: "L'Istinct de mort". Ed. Ivréa, Paris, 1995. Traduzione di Roberto Moretto, con la collaborazione di Andrea Chersi, Isabella de Caria, Striknine, Paola Marangon.

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Ribelle a scuola, discolo in famiglia, nella sua autobiografia di cui ora pubblichiamo la prima traduzione italiana, scritta in carcere e pubblicata nel 1977, Mesrine racconta come a 20 anni è stato spedito a fare la guerra in Algeria. Al suo rientro a casa, si rende conto di non essere adatto a inserirsi nel mondo del lavoro e decide intraprendere la vita del fuorilegge. La sua vita avventurosa contempla furti, rapine, incontri con prostitute, violenti liti con sfruttatori, assassinii, amori, figli: una vita intensa nel corso della quale è stato più volte arrestato ed è più volte evaso, anche da carceri di «massima

sicurezza», in Francia come in Canada. L'Istinto di morte ci svela questo personaggio che negli anni '70 è diventato per i mass media un «nemico pubblico numero 1», come venne definito in Francia, una primula rossa che la polizia aveva ordine di prendere vivo o morto, e per il «movimento» di quegli anni un simbolo della rivolta senza quartiere contro la società borghese e capitalista e la sua giustizia.

INDICE.

Introduzione (di Roberto Moretto). Presentazione (di Sabrina Mesrine).

L'ISTINTO DI MORTE.

Annessi: Intervista a Jacques Mesrine. Jacques Mesrine: note biografiche.

***

INTRODUZIONE.

La prima volta che ho sentito parlare di Mesrine è stato nel 1979; in via Sacchi, vicino alla stazione torinese di Porta Nuova, un giornalaio esponeva un "affiche" del periodico francese "Paris Match", la locandina segnalava un articolo su Jacques Mesrine, il «pericolo pubblico numero uno» che, recentemente evaso da un carcere speciale francese, conduceva una battaglia pubblica per la chiusura delle stesse carceri speciali e aveva appena sequestrato e «gambizzato» un giornalista di un quotidiano francese di estrema destra. Poco dopo Mesrine cadde in un agguato e venne trucidato alla Porta di Clignancourt: l'autovettura sulla quale viaggiava, con la sua compagna, a

un semaforo venne affiancata da un camion, il telone che lo ricopriva fu alzato e una decina di «teste di cuoio» aprì il fuoco ovviamente senza intimare alcuna resa... Mesrine venne crivellato da una ventina di pallottole - e probabilmente un colpo alla nuca ne assicurò la morte certa - e la sua ignara compagna (disarmata, al massimo una favoreggiatrice!) si buscò anche lei una mezza dozzina di pallottole... uscì dall'agguato rimettendoci "solo" un occhio e mezzo polmone (!). Lessi per la prima volta questa sua autobiografia durante gli anni che passai all'estero per sottrarmi ad alcuni mandati di cattura ispirati da sedicenti pentiti a dir poco allucinati. Ricordo vivamente come la lettura, pur con l'handicap del testo in francese (praticamente erano i primi testi francesi che leggevo in questa lingua dopo gli anni della scuola dell'obbligo), mi aveva catturato come pochi altri; praticamente passai due/tre giorni immerso nella lettura... inutile dire che trovai molte posizioni etiche di Mesrine perfettamente condivisibili. Curiosamente questa lettura ipnotica del testo la ritrovai (accentuata) la seconda volta che, a distanza di anni, rilessi il testo; ricordo che, essendo detenuto, avevo manifestato ai compagni «fuori» la volontà di tradurre questa autobiografia, qualora fossero riusciti a recuperarla. Anche qui lo lessi in un sol fiato: mi consegnarono le fotocopie con la posta di mezzogiorno e finii la lettura alle 4-5 del mattino... fortunatamente ero in una cella singola e quindi non diedi fastidio a nessuno. Penso che il "fil rouge" che unisce sia la vita di Mesrine raccontataci nell'autobiografia, sia i 18 mesi di libertà (e di vita) sia costituito dalla categoria dell'amicizia, di un'amicizia che va - letteralmente - fino alla morte. Questo è stato il mito fondante dell'agire politico (nel senso esistenziale, di prassi di vita) di una generazione; con le radici affondate nel mito amicale di Eurialo e Niso, si passa dall'epopea gruppale de "Il mucchio selvaggio" per approdare alla prassi di un Mesrine o dei «banditi metropolitani», così efficacemente descritti da Quadrelli, per arrivare (nel '77 e dopo) ai gruppi informali di proletari organizzati in strutture (reti amicali) armate libertarie. Come ben sintetizzò Corrado Alunni, l'imperativo era "prendere i soldi, portare a casa tutti". Come vedrete, l'autobiografia scritta durante l'ultima carcerazione di Jacques necessariamente non può narrare né l'ultima evasione né le sue ultime imprese. Già l'evasione era stata spettacolare: l'8 maggio 1978 (con François Besse e Carman Rives) era nella sala colloqui della Santé con i suoi avvocati, quando, da un pannello mobile del soffitto, estrasse 2 o 3 pistole e alcune bombolette di gas C.S.; sequestrarono quindi le guardie e guadagnarono la libertà... tranne lo sfortunato Rives, che cadde dalla fune sospesa tesa per superare il muro di cinta e morì sul colpo. All'epoca i malpensanti dissero

che le armi in realtà le aveva portate l'avvocatessa di Jacques, la quale fu persino inizialmente inquisita (e successivamente prosciolta) da questa accusa. La successiva latitanza è forse il periodo più «politico» dell'agire di Mesrine... anche se lui probabilmente non l'avrebbe definito così, ma solo come una semplice continuazione del rapporto di forte solidarietà che lo legava a tutti i prigionieri. Iniziava la sua campagna per la chiusura dei Q.H.S. (Quartier de Haute Sécurité, le carceri speciali francesi). Oltre a qualche necessaria rapina di autofinanziamento - la più spettacolare e «movimentata» fu quella al Casinò di Deauville - rilasciò una clamorosa intervista, comparsa anche in Québec, in cui denunciava le scandalose condizioni di vita nei Q.H.S. E' di questo periodo il tentativo (mancato) di sequestrare il presidente della Corte d'Assise parigina, giudice Petit: riescono a penetrare nel suo domicilio, ma il giudice, sfortunatamente, è assente. Ha miglior esito invece il rapimento, a scopo estorsivo, del miliardario Henri Lelièvre che fruttò 1 milione di franchi dell'epoca, attualizzato a poco meno di 1 milione di euro odierni. La caccia al Nemico Pubblico N. 1 diventa isterica, al punto di giungere a creare un'apposita sezione repressiva, una «unità anti-Mesrine». L'ultima sensazionale impresa è del 10 settembre: regola i conti gambizzando - dopo averlo sequestrato - Jacques Tillier, un giornalista di estrema destra che dalle colonne di "Minute" lo aveva calunniato. Poco dopo, il 2 novembre 1979 (macabra casualità), va incontro al suo destino alla Porta di Clignancourt. A mo' di appendice, può essere utile spendere due parole sul «caso Lebovici». Gérard Lebovici era un editore e produttore della "gauche" radicale francese; pubblicò, come edizioni Champ Libre, praticamente tutti i testi di Guy Debord e pubblicò anche "L'instinct de mort"; dopo la morte di Mesrine produsse anche l'unico film serio (e autorizzato anche dalla figlia Sabrina) su di lui. Nel 1984 lo ritrovarono al volante della sua Renault 30 T.X. in un garage vicino a Place de l'Etoile con 4 pallottole 22 long rifle nella nuca... un'esecuzione da professionisti che puzzava tanto di servizi.

Roberto M., marzo 2006

***

Mio padre ha scritto questa autobiografia nel 1976. A quel tempo, lo vedevo ogni settimana al parlatorio della prigione di Fleury-Mérogis. Per lui, "L'Istinto di Morte" era una requisitoria e non una difesa a proprio favore. Tuttavia questo libro è stato proibito. Tuttavia i suoi diritti d'autore sono stati sequestrati. Le Editions Jean-Claude Lattès che hanno distribuito questo romanzo non si sono battute contro queste censure. Il 2 novembre 1979, lo Stato ha assassinato mio padre. Egli ha consegnato i suoi amori e i suoi odi senza compiacimento, liberamente, in questo documento. Quattro anni dopo, le Editions Champ Libre danno la possibilità a "L'Istinto di morte" di ritrovare la sua libertà.

SABRINA M. «A che serve piangere il sole, Le tue lacrime t'impediranno di vedere le stelle.»

***

L'ISTINTO DI MORTE.

a Janou... la Moglie a Geneviève Aiche... il Padrone a Manine Malinbaum... la Speranza a Francine... l'Amica a Lizon Joyce Manine... il Coraggio e a te, l'Amico che ti riconoscerà

Signore, proteggimi dai miei amici... ai miei nemici ci penso io.

Parigi, 16 dicembre 1975.

Reclusorio della Santé. La notte ha steso il suo velo sulle sofferenze del mondo carcerario. Fa freddo, è inverno. Le luci si sono spente. L'ombra delle sbarre si riflette sui muri sbiaditi delle celle quasi a imprigionare l'unica evasione rappresentata dal sogno. Ogni cella nella sua oscurità racchiude una storia, un dramma, un dolore, un uomo e la sua solitudine, che la notte placherà o renderà ancor più pesante. Tino, il piccolo truffatore, inizia la sua ultima notte giurando a se stesso di

non ritornare più. Domani sarà libero, o almeno lo crede! Il secondino al portone gli dirà ironicamente: «Alla prossima!». L'ha già visto ritornare sei volte. E' un cliente abituale; come tanti altri che vengono ributtati sulla strada, senza lavoro, senza grana, senza casa, senza speranza di riuscire a tirarsene fuori un giorno e che non hanno come futuro che la prigione a vita pagata a mesate. I muri spessi della sua cella non gli permettono di sentire i singhiozzi e gli insulti che lancia il suo vicino. «Puttana... maledetta puttana!». Una foto di donna per terra. La lettera che ha ricevuto stasera gli comunica che la sua donna l'ha lasciato. Soltanto ieri, in una lettera precedente, lei gli parlava d'amore. Lui l'ha confrontata al suo certificato di cornificazione e vomita il suo rancore. Le luci si sono spente su questa constatazione. Forse soffre davvero per il suo amore tradito, se non per il suo orgoglio. Un cornuto libero, può essere divertente; un cornuto in gabbia, è sempre un dramma. Può piangere, nessuno lo guarda; forse si piange addosso. «Dopo tutto quello che ho fatto per lei, farmi questo.... puttana!». Sa di essere in malafede. La sua donna, lui l'ha amata tra due squallidi furti. Ad ogni sbronza l'ha accarezzata a colpi di ciabatta per dimostrarle di essere un duro! L'ha infarcita di promesse sulle sue ricchezze future e illusorie. Per due volte lei lo ha aspettato, nella speranza di vederlo cambiare. Poi, stanca dei parlatori senza vita, gli ha scritto che non ce la faceva più; stavolta ha incontrato un tipo a posto e vuole rifarsi una vita. Domani, lui s'inventerà una storia per i ragazzi dell'aria. Si farà bello, giocherà al duro. Intanto, piange come un bambino. I muri sono abituati a questo genere di confidenze. Sono la carta assorbente di quasi un secolo di sofferenze. La cella vicina rinchiude un bel tipo. Claude. Un rapinatore. Sono sei anni che aspetta i suoi processi. Ha tentato senza successo diverse evasioni; non si evade dalla Santé, ha voluto accertarsene. Non dorme ancora. Come ogni sera, rivive una parte delle sue storie, prepara la sua difesa. Si fa avvocato, sorride delle belle parole che ha intenzione di dire in risposta all'osservazione che il procuratore non mancherà di fargli. Ha sempre rubato; è un professionista. Anche la sua donna lo ha lasciato, tre anni fa; senza storie... tutto regolare. Non si aspetta il proprio uomo per vent'anni. Lui l'ha capito e le ha reso la libertà per mantenere intatti i suoi ricordi. Addio e buona fortuna.... nient'altro. Il suo vicino di cella si masturba. Stasera, si fa tutte le ragazze che ha contemplato su "Playboy" prima che spegnessero le luci. Il suo membro è la sua ragione sociale. Fa il magnaccia; il pane della coscia, la sua specialità. Ha tre donne sul marciapiede. L'amore, non sa cos'è. Le tre sperano di sistemarsi nel bar che ha promesso loro a fine carriera. Ci sono buone probabilità che il giorno in cui non saranno più appetibili le mollerà. Le sue promesse sono come le sue idee sull'amore. Il suo unico colpo di fulmine è stato per Molière il giorno in cui, con gran stupore, lo ha visto stampato sui biglietti da cinquanta. Per il momento, le sue cinque dita, come le sue

cinque donne, gli strappano un mugolio di piacere. Sulla porta a fianco, un cartello: "Attenzione, possibile suicida. Da sorvegliare". Un tossico. Ha diciannove anni. Come unica cura di disintossicazione, il giudice gli ha offerto una cella di otto metri quadri. Lontano dai suoi paradisi artificiali, vive in un incubo. Ha già tentato di impiccarsi; gli manca la roba; gli manca l'amore e la comprensione. Un tossico è un bambino che urla aiuto; non si mettono i bambini in galera, non ne capirebbero il perché. Stavolta, non ha fallito. Il suo corpo, in un ultimo sussulto, dice addio alla mangiatrice di uomini. Il magnaccia si è appena fatto una sega, vicino a lui l'altro crepa. Hanno forse goduto insieme, con l'unica differenza che la morte è un'amante fedele che non abbandona i suoi amanti. Fra poco, durante il giro di mezzanotte, la guardia lancerà un «porc...» di riprovazione, poi correrà ad avvisare i suoi capi. Di notte lui non ha la chiave delle celle, per sicurezza. Quanti minuti si perderanno? Stavolta è troppo tardi, come tante altre volte. La sicurezza viene prima della vita di un detenuto. Ma si può impedire a un uomo di uccidersi? No. Perciò il regolamento non cambierà. Domani, la cella sarà vuota, impersonale, nessuna traccia del dramma notturno. Avrà risputato il piccolo tossico. Il carcere uccide i deboli e, anche se non li distrugge tutti, li segna per sempre con il suo marchio. La Santé si addormenta. Nelle altre celle, gli uomini sperano, piangono, se ne fottono, russano, rimpiangono, si masturbano, sognano, sopravvivono non potendo vivere. Cella di massima sicurezza. Un carcere nel carcere. Un unico detenuto sta nella cella 7. E' isolato dagli altri per motivi di sicurezza. Il corpo al caldo sotto le coperte, l'uomo è sdraiato sulla schiena, le mani dietro la testa. Guarda fisso il soffitto. Gli piace la notte. Non spera più niente. Ha trentanove anni e aspetta l'ergastolo se non la morte. Fatalista o buon giocatore, sa che se lo merita e se ne frega. Anche lui ha commesso il suo primo reato; ma, uno dopo l'altro, ha salito tutti i gradini del crimine. Ha scelto di vivere fuorilegge per sfida, per il gusto del rischio o del denaro; forse per altri motivi che custodisce nel profondo del suo cuore. Certi uomini entrano nel mondo dei balordi come si entra in qualche ordine, così, per vocazione. Il crimine è anche il rifugio dei disadattati; è la soluzione facile e momentanea per risolvere certi problemi. Al momento del suo primo furto, non immaginava che sedici anni dopo sarebbe stato definito «nemico pubblico numero uno». Il suo fascicolo criminale è un romanzo giallo in cui le scene comiche, il sangue, la violenza, la latitanza e l'amicizia convivono naturalmente. Accusato di tre omicidi, di rapina, di tentati omicidi contro poliziotti, di tre evasioni, quest'uomo è pericoloso. Ma dietro a tutto ciò vi sono i motivi che hanno fatto di quest'uomo un kamikaze del crimine; vi sono le sue debolezze, i suoi amori e i suoi rimpianti.

Si ricorda le parole che un vecchio assassino suo amico gli diceva: «Lascia perdere, ragazzo, io ho rovinato la mia vita. Non fare come me». Aveva sorriso ai consigli di quel delinquente recidivo che aveva messo assieme più di vent'anni di galera. «Non mi prenderanno perché mi fermerò non appena avrò abbastanza denaro per aprire bottega.» Ma rubare diventa una droga. Non si ruba soltanto per il gusto del denaro; si ruba per il piacere del rischio. Ci si sente diversi dagli altri; si vive una vita diversa dagli altri. Fino al giorno in cui si spara la prima pallottola sull'ostacolo o semplicemente per regolare i propri conti. Così, si salta il fosso e non c'è possibilità di ritornare indietro. L'uomo sdraiato lo sa meglio di chiunque. Ha voluto vivere così, ha scelto deliberatamente di fare quel passo per essere costretto a non tornare indietro. Ha voluto non avere più niente da perdere sapendo che quella situazione lo avrebbe costretto ad avere tutto da guadagnare. La sua libertà non gli importava, l'aveva giocata, persa, rigiocata e ripersa. Si è suicidato socialmente, non per disprezzo verso la società, ma perché un giorno si è guardato intorno, ha preso in mano un'arma e ha creduto a torto che quella fosse la soluzione del suo problema. Oggi, steso sul suo letto, non ha rimpianti. Per orgoglio o per incoscienza? ...Sicuramente per entrambe le cose. Non cerca scuse. Preferisce affrontare il suo destino accettando di pagarne il prezzo. Tutto ebbe inizio il 28 dicembre 1936. Parigi illuminata aveva appena festeggiato il Natale. Monique, giovane figurinista, era sul punto di partorire; i capelli tagliati alla maschietta le davano un'aria sbarazzina da gattina. I suoi occhi color nocciola erano di una sensualità sconvolgente. Era felice. Tra qualche istante, avrebbe dato a colui che adorava il suo secondo figlio. Un figlio, ne era certa. Solo un maschio le poteva martellare la pancia in modo così doloroso. Non sapeva ancora quante sofferenze e delusioni le avrebbe portato quella nascita. Stava per mettere al mondo la morte che più avanti avrebbe colpito uomini che non erano ancora nati o altri già adulti. Pierre, al capezzale della moglie, più nervoso di lei, la guardava con apprensione e tenerezza, mentre asciugava le perle di sudore che ornavano la sua fronte febbricitante. - Soffri, angelo mio? - No, sto bene! Vedrai che bel bambino ti darò. Ti amo, lo sai, vero? Per tutta risposta, lui accarezzò con le labbra la bocca offerta da Monique, che non poté trattenere un grido di dolore.

- Stavolta lo sento arrivare, il diavoletto. La levatrice spinse via Pierre senza convenevoli. - Su, mi lasci lavorare senza fare quella faccia; andrà tutto bene. Il parto fu difficile. Monique gemeva, spingeva con tutte le forze per favorire la nascita. Fu così che vidi la luce, a testa in giù, dopo aver cacciato un urlo per annunciare la mia venuta su questa terra. Mio padre, con ammirazione, fissava i miei attributi maschili. Poi, rivolgendosi a Monique, con tono stupito e commosso: - Ma è un bambino! Mi senti, cara? Ho un figlio... Un figlio! - Grazie, mio Dio! - furono le parole di mia madre. Forse avrebbe fatto meglio a ringraziare il diavolo... I miei genitori, entrambi di origini modeste, disegnavano per una grande ditta di ricami di lusso. Lavorando allo stesso tavolo, il timido Pierre si era fatto coraggio e si era arrischiato in un bacio che Monique gli aveva restituito con voluttà. Erano sei mesi che aspettava che si decidesse! Poi il miracolo dell'amore li aveva portati ad amarsi, quindi a sposarsi. Mio padre era un bell'uomo, la sua somiglianza con Gary Cooper e i suoi occhi verdi lo rendevano affascinante. Come nido d'amore, avevano una camera con cucina che mia madre aveva reso abitabile decorandola in modo gradevole. Qui era nata mia sorella. Per arrotondare la paga di fine mese, entrambi lavoravano alla sera, arrotolando sigarette in gran quantità o copiando indirizzi su delle buste. Erano felici. La mia nascita li costrinse a traslocare. Fu così che feci i miei primi passi in un «bicamere con cucina e servizi» che non lasciarono mai più. I miei primi «papà... mamma» uscirono dalla mia bocca tra l'ammirazione della famiglia. Mio padre mi chiamava, la sua mano mi accarezzava i capelli riccioluti e teneramente mi diceva, abbracciandomi: - Vieni, gelosone mio. Ero al calduccio, mi sentivo protetto. I miei sogni infantili erano popolati di dolcezza.

Una mattina, dal mio letto, vidi che mia madre piangeva. Mio padre era davanti a lei, bevendosi le lacrime come per asciugare la sua pena. Ai suoi piedi c'era una valigia. Il mio sguardo incrociò il suo. Lui mi prese tra le braccia e mi strinse così forte da farmi male. - Tocca a te proteggere le mie due donne, ometto! - Furono le sue ultime parole. Mi rimise a letto e si diresse verso la porta. Mia madre tornò vicino a me; non piangeva più, ma le si leggeva negli occhi tutta la tristezza del mondo. Non rividi più mio padre. Ogni volta che chiedevo di lui, mia sorella mi diceva che era ammalato e che lo avrei rivisto presto. Questo vuoto mi spezzava il cuore e, nonostante l'affetto di mia madre, mi sentivo perso lontano da lui.

L'inverno fu molto più crudo. Mia madre ci aveva riuniti in cucina e vi aveva sistemato il suo letto. Vivevamo in quell'unica stanza, perché le altre non erano più riscaldate. Sentii la parola «guerra» per la prima volta dalla bocca di mia nonna. La parola «prigioniero» tornava spesso nella conversazione familiare. Poi, un giorno, senza capire bene gli avvenimenti, vidi riunirsi tutta la famiglia; vi erano soltanto donne e qualche valigia semivuota intorno a me. Mi fecero indossare abiti caldi e tutti lasciammo l'alloggio. Quelle vacanze impreviste mi divertivano. Le strade erano piene di gente ma gli adulti che mi circondavano avevano tutti uno sguardo dolorosamente triste. La Francia stava perdendo la guerra. Cominciava l'esodo, i tedeschi stavano per invadere Parigi. Ero troppo piccolo per capire il disorientamento provocato dalla gravita degli eventi. Come molti francesi, la mia famiglia fu trasportata attraverso la Francia libera. Il mio viaggio terminò in un paese della Vienne, a Château-Merle. Avevo dei cugini che erano contadini. La prima tazza di latte caldo mi fece dimenticare le notti passate sulle strade, con la pancia mezza vuota, il letto costituito dalla paglia di un fienile e come unico calore quello del corpo di mia madre. Qualche giorno dopo, salutai mia madre, costretta a tornare a Parigi, e mi rifugiai a piangere in un angolo della stalla per confidare le mie pene a un asinello. E passarono i mesi. Un giorno che chiesi di mio padre, mi spiegarono finalmente che era prigioniero in Germania. Ero diventato un vero contadinello. Mi svegliavo di buon mattino, con la pioggia o con il vento, e partivo per il pascolo con la mia mandria di mucche. Avevo un aspetto buffo, con la cappa nera e il cappuccio, i pantaloni stretti e gli zoccoli di legno. Con un bastone in mano, svolgevo il mio compito senza tante storie. Imparai a studiare gli animali, ad amarli. Avevo un cane per compagno. Avevamo insieme conversazioni serissime. Io gli parlavo di mio

padre, del mio dolore dì essere separato dai miei. Lui mi consolava con una slinguata sul volto; pareva piacergli il sapore salato delle mie lacrime. E poi tornammo a Parigi. Era cambiato tutto. Le strade erano piene di soldati tedeschi. Talvolta mamma ci lasciava da soli. Mia sorella mi dava da mangiare dicendomi che mamma doveva lavorare visto che papà non c'era più. Dormivamo tutti e tre nello stesso letto per avere più caldo. Passarono i mesi... Un giorno, in piena notte, fui svegliato dalle sirene. Suonarono alla nostra porta. Un uomo si precipitò da noi e disse a mia madre: - Presto, in cantina, c'è un bombardamento! Mamma gli disse che preferiva rimanere nel suo alloggio, che in ogni modo non sarebbe cambiato nulla se le bombe fossero cadute sulla nostra casa. Vi furono altri allarmi. Mia madre prese la decisione di riportarci dai nostri cugini in campagna, per maggiore sicurezza. Di ritorno in cascina, ripresi la mia attività di pastore di mucche. La vita era dura, ma mangiavo a sufficienza. Imparai a fare il burro, a fare il sanguinaccio facendo bollire il sangue del maiale in grandi marmitte di ghisa, a impastare il pane, a preparare il forno ad alta temperatura facendovi bruciare le fascine di ramoscelli. Feci la mietitura; i miei occhi guardavano con ammirazione la mietitrice che separava il grano dalle spighe. Ci fu la vendemmia in cui presi la mia prima sbornia. Passarono i mesi... Molto spesso, nelle conversazioni degli adulti, sentivo parlare di massacri, di morti, di sofferenze. E poi, un giorno, mio cugino arrivò come un pazzo nel campo in cui stavo trotterellando col mio cane. Mi prese per mano dicendomi: - Presto, piccolo mio, rientriamo! Arrivano i tedeschi. Effettivamente, un'ora dopo, la cascina fu invasa dai camion. Ne uscirono ovunque uomini armati. Avevano uno sguardo duro e cominciarono a strattonare mio cugino puntandogli una pistola nella schiena. Iniziarono a visitare tutte le stanze della casa. Un uomo che pareva il capo diede un ordine in una lingua che non capivo; poi, rivolgendosi a mia cugina, le disse in francese che i suoi uomini avevano fame e la obbligò a servire loro da mangiare. A questo scopo furono tirati fuori tutti i tavoli della cascina. Mia cugina era furibonda, ma si calmò quando mio cugino le fece capire che non doveva ribellarsi, per evitare rappresaglie. Io invece guardavo quegli uomini senza timore, non avevo più paura. Rivolgendomi a mia sorella, le dissi:

- Sono questi, i tedeschi? - Stai zitto, non dire così! Poi mi avvicinai a quello che avevo sentito parlare in francese. - Ehi, signore, sei tu che tieni prigioniero mio papà? Me lo restituirai? L'uomo mi guardò, i suoi occhi erano dolci; mi accarezzò i capelli come faceva mio padre. Mi prese sulle ginocchia e mi disse che me lo avrebbe restituito molto presto. Mi mostrò delle foto dei suoi bambini, mi parlò di loro nello stesso modo in cui mio padre parlava probabilmente di me nel suo campo di prigionia. Mia cugina, vedendomi sulle ginocchia del tedesco, arrivò come una furia e mi disse: - Scendi giù immediatamente! E lei, lasci tranquillo questo bambino! Il tedesco la guardò, contrariato, e mi rimise a terra. - Anch'io ho dei bambini, signora, e a noi tedeschi piacciono i bambini... - E' per questo che uccidete i loro padri! Questa fu la risposta di mia cugina, bianca per la collera. L'incidente si chiuse così. Ero un marmocchio. Non sapevo ancora che cos'era l'odio. L'avvenire mi avrebbe insegnato a coniugare il verbo odiare in tutte le sue forme. Dopo i tedeschi, ci furono le visite notturne di uomini armati. Non avevano uniforme. Con loro, mia cugina era tutta sorrisi. Mi costringevano ad andare a letto non appena arrivavano. Talvolta, ridiscendevo dalla mia camera, scalzo per non fare rumore. Li sorprendevo riuniti attorno al grande tavolo della cucina. Gli uomini mangiavano e bevevano con appetito. Mio cugino Hubert parlava più spesso degli altri, che parevano ascoltarlo con attenzione. Appresi poi che erano dei partigiani. Venivano ad approvvigionarsi in cascina sia di cibo che di informazioni. Poco per volta non mi fecero più salire in camera e imparai a conoscere meglio quegli uomini che lottavano perché mio padre mi fosse restituito prima. Mio cugino mi aveva preso da parte per spiegarmi che non dovevo mai riferire a nessuno quello che vedevo. Mi fece capire la gravità delle cose e il rischio per le nostre vite se si fosse risaputo. La cascina era isolata. Avevamo come unici vicini i genitori dei miei cugini,

che avevano anche loro un allevamento. Il mio cugino più vecchio era il sindaco del paese vicino, Savigny-Lévescault, che si trovava a due chilometri dalla cascina. Mi mandarono a scuola là. Non vi imparai molto perché frequentavo in modo molto irregolare, dato che i lavori della cascina richiedevano la mia presenza. Con i miei amichetti giocavamo alla guerra. Ci eravamo fabbricati delle mitragliette di legno. Mille volte si cadeva morti, mille volte si riprendeva il combattimento. Le ragazze partecipavano ai nostri giochi; curavano le nostre ferite immaginarie fasciandoci coi nostri fazzoletti lerci. Imparai ad amare quelle armi di legno; passione che non mi lasciò più. E poi, un giorno, si udirono delle esplosioni. Mio cugino ci fece salire su una torre che sovrastava la cascina. Da lì, assistemmo a un vero combattimento in piena regola. Dalla nostra postazione si scorgevano uomini che correvano. Raffiche di pallottole facevano volare in mille pezzi le finestre della casa. Alcuni uomini in distanza sparavano su altri uomini. I tedeschi abbandonavano Poitiers. In seguito allo sbarco in Normandia, per loro era la disfatta. Sulla via del ripiegamento, gruppi di resistenti gli tendevano imboscate. Come quella che gli tesero sulla strada della cascina. I tedeschi erano molto numerosi; pochi di loro si fermarono per sparare. Il convoglio infatti non si fermò. Poi gli spari cessarono; una decina di soldati tedeschi entrarono nella cascina per fare razzia. Eravamo nascosti e mio cugino ci ordinò di non muoverci e di restare in silenzio. Poi i soldati scomparvero, le braccia cariche di vettovaglie. Aspettammo un'ora buona prima di uscire dal nostro nascondiglio, il tempo di essere certi che ogni pericolo fosse passato. Non appena ritornati sull'aia della cascina, un uomo, con il volto coperto di sangue e un mitra in mano, s'avvicinò a mio cugino. Lo riconobbi subito; faceva parte di coloro che ero abituato a vedere durante le riunioni notturne. - Tutti i miei amici sono morti! Mi puoi nascondere, Hubert? Avremmo dovuto essere in trenta a sferrare l'attacco, ci siamo ritrovati soltanto in sette al momento dell'azione. Che massacro, vecchio mio... Merda! E sono pure ferito. Mio cugino gli fece segno di seguirlo e l'uomo scomparve dalla mia vista. Sarebbe poi stato ammazzato quindici giorni dopo in un altro attacco nei pressi di Saint-Julien-L'Ars. Con mia sorella, ci divertimmo a raccogliere i bossoli rimasti sul sentiero che portava alla stradina. All'improvviso, scorgemmo un corpo sdraiato nel fosso; come un fantoccio disarticolato, con la testa che pendeva da un lato. Gli usciva sangue dalla bocca. Fu il mio primo contatto con la morte e non mi spaventò. Chiamai mio cugino. I miei occhi, come affascinati, ritornarono sul corpo dell'uomo morto e non se ne staccarono più. Mio cugino arrivò e

mi ordinò di sparire. Seppi che erano stati ritrovati diversi corpi e che mio cugino il sindaco si era occupato di dar loro una degna sepoltura. Qualche giorno dopo, l'aia della cascina fu invasa dalle auto dei resistenti. Per la prima volta, li vedevo in pieno giorno. Avevano la barba lunga e i loro visi stanchi facevano paura a vedersi. Alcune donne col cranio rasato erano in piedi in mezzo a tutti quegli uomini che le insultavano. Non capivo. Ero turbato davanti a quelle donne in lacrime. Gli uomini versavano loro del vino sulla testa trattandole da... puttane dei crucchi, carogne, cagne. Una di loro aveva il viso segnato dalle botte e aveva una croce uncinata dipinta in fronte. Non diceva niente, ma piangeva. Uno dei partigiani si accorse che il mio sguardo la fissava. Era già venuto in cascina, ma faticai a riconoscerlo; era terrificante, vomitava il suo odio. Si rivolse a me: - Ehi, parigino, vuoi vederla nuda, questa troia? La sua mano si posò sul colletto del vestito e lo tirò con brutalità, strappando la stoffa e lasciando apparire i seni. Incoraggiato dalle risa dei compagni, si accanì sui brandelli di stoffa e si mise ad accarezzare la ragazza che si dimenava, insultandola. - Se andava bene per i tedeschi, va bene anche per noi, maledetta vacca! Non è vero, ragazzi? Si avventarono tutti su di lei. Lei cadde in fondo al camion. Uno degli uomini alzò il calcio del suo fucile e la colpì urlandole degli insulti. Quella non si rialzò. Ero lì, fissavo quello spettacolo. Avevo scoperto per la prima volta la nudità di una donna. Nonostante la mia giovane età, la cosa mi aveva sconvolto. Non capivo quell'odio, quell'accanimento a far soffrire una donna. Mio cugino si accorse della mia presenza e mi ordinò di rientrare in casa. Non aveva un'aria soddisfatta per quanto accadeva e si rivolse ad uno dei capi dei partigiani che diede ai suoi uomini l'ordine di partire. I camion lasciarono la cascina tra urla e risa. Andai alla finestra per vedere la donna, con la speranza che si rialzasse. No, niente! Forse l'avevano uccisa. Non ne seppi mai più nulla. Vi furono molte altre visite. E poi, un giorno, mia madre venne a cercarci. Seppi da lei che la guerra sarebbe presto finita e che potevamo ritornare a Parigi con lei. La mia prima frase fu:

- E papà, lo rivedrò... ritorna? - Sì caro, tornerà prestissimo; te lo prometto. Ritornati a Parigi, fui mandato a scuola. Ero rimasto parecchio indietro, come molti ragazzi a quei tempi. E poi, la scuola non mi piaceva, mi ero troppo abituato alla libertà della campagna. Non sognavo altro che combattimenti immaginari. Avevo un amico con cui giocavo alla guerra. Andavamo in riva alla Senna e combattevamo con le fionde. I miei compiti andavano a rilento perché non aprivo quasi mai i libri per studiare. Mia madre tornava a casa stanca per il lavoro e non aveva tempo per controllare se erano stati fatti. Quando me lo chiedeva, le rispondevo: - Sì mamma, ho finito. Si accontentava di quella risposta. Come un'erba cattiva, imparai i vizi della strada. Vi ritrovavo gli amici che come me sognavano soltanto di fare la guerra. Un giorno, di ritorno da scuola, il mio sguardo cadde come per abitudine sul balcone di casa nostra. Mamma mi faceva dei gesti. Al suo fianco c'era un uomo, con la mano destra sulla sua spalla. Quell'uomo, senza riconoscerlo veramente, mi era familiare. Lo avevo aspettato, avevo sperato nel suo ritorno, per sei anni. Mi misi a correre come un pazzo. Il cuore mi faceva male per la felicità. Un grido mi uscì di bocca: - Oh! Papà... papà! Senza fiato per i due piani che avevo fatto saltando i gradini, mi fermai di colpo davanti alla nostra porta. Lui stava là, a braccia aperte, il suo viso e il corpo erano smagriti. Nel suo sguardo si leggeva una grande stanchezza. Mi sollevò, posai la testa sulla sua spalla e scoppiai in singhiozzi. - Non piangere più, piccolo mio, sono ritornato; non ti lascerò mai più. La vita riprese il suo ritmo normale. Mio padre impiegò un anno a rimettersi in salute. Fu ricoverato varie volte in ospedale prima di potere riprendere a lavorare. Era coraggioso e ricominciò pian pianino il suo commercio di ricami che aveva creato poco prima della guerra. Passarono gli anni. La presenza di mio padre, se mi aveva colmato di gioia,

non cambiò il mio modo di studiare. Mi avevano messo in un'altra scuola. Invano. Troppo occupato dai suoi affari, mio padre non controllava mai i miei quaderni, così come non si preoccupava di sapere se avevo studiato. I miei mi volevano bene, ma vivevano in disparte da me. Nella mia strada, avevamo formato una banda. Ero proprio fiero di esserne il capo. Combattevamo contro la banda di una via vicina battaglie piuttosto violente per dei ragazzini della nostra età. Mi capitava di tornare a casa con le labbra scorticate o l'occhio gonfio. Papà pareva contento che non mi lamentassi mai. Anzi, sembrava soddisfatto di vedere che ero capace di battermi e difendermi. Nella mia banda, c'era una ragazzina carina soprannominata «la Pulce». Qualche volta, ci nascondevamo in cantina. Giocavamo a fare i grandi offrendoci le labbra in baci inesperti ma pieni di tenerezza. Avevamo i nostri segreti e un sacro terrore di farci sorprendere dai nostri genitori. Scoprivamo le nostre differenze con timidezza e divertimento. Gli amori dei bambini sono sempre puliti. Non avevamo nessuno a cui confidare quei primi desideri. Avevamo un po' vergogna di quei giochi. Io avevo dodici anni, lei undici. Parlavamo dei grandi, dei nostri genitori, con molta severità. Eravamo sempre d'accordo nel dire che non ci capivano. Con «la Pulce» facevo progetti di viaggi. Beninteso, ci eravamo promessi di non lasciarci mai. Avevamo suggellato questa promessa facendoci l'un l'altro un dono. Sarei presto stato separato da lei e nessuno si rendeva conto del vuoto che questo avrebbe provocato in me. L'iniziale gioia provocata dal ritorno di mio padre si era affievolita. Lo avevo immaginato come un fratello maggiore a cui poter dire tutto e con cui potere condividere i miei giochi. Troppo preso dal suo lavoro, mi rifiutava, senza saperlo, ciò che più mi mancava: la sua «presenza». Mi voleva bene, lo sapevo, ma mi lasciava crescere senza vedere né correggere i miei difetti. Gli rimproveravo un po' questa mancanza di interesse. Avrei voluto che mi interrogasse a lungo su quel che avevo fatto nelle mie giornate, che mi facesse ripetere le lezioni e mi sgridasse per non averle imparate. No, niente di tutto ciò accadde. Lui era lì, ma viveva come ai margini della mia vita. Ma le cose parvero cambiare. Dal suo ritorno e a furia di lavorare, era riuscito a migliorare i risultati della sua attività... Ed è con orgoglio che presi posto nella nostra prima auto. Beh, non era nuova, ma una buona occasione. I miei genitori avevano preso la patente insieme. Mia madre l'aveva ottenuta al primo tentativo. Papà aveva dovuto provarci due volte. Lo avevo preso in giro, assieme al sorriso ironico di mia madre. Dentro di me ero offeso per lo scacco di mio padre. Per me, lui era invincibile. Quell'auto ci permise di fare lunghe gite nei boschi nei fine settimana. Mi sentii più vicino a mio padre, perché facevamo lunghe passeggiate; facevamo tutto insieme, andavamo a pesca, la sua passione. Quei week-

end risultavano piuttosto cari in spese d'albergo. Mio padre decise di comprare una vecchia cascina, il più possibile vicina a un fiume. Incaricò mia madre di scovare qualcosa di bello. Lei ci riuscì in meno di un mese. La casa era in uno stato pietoso, ma aveva stile, con le sue travi a vista e il tetto di vecchie tegole di terracotta. La prima volta che ci andammo, dovemmo strappare le erbacce per aprire la porta d'ingresso. I vetri delle finestre erano rotti, i muri rovinati, ma subito mi piacque molto. La immaginavo una volta rimessa a posto, e soprattutto vi vedevo il luogo in cui sarei stato vicino a mio padre nei fine settimana. Trascorremmo i sabati e le domeniche a pulire, dipingere, tagliare le erbacce, decorare la nostra casa che cominciava ad assumere un bell'aspetto. Da parte mia, avevo fatto grande amicizia con una ragazza della cascina accanto. Era affascinante con i suoi occhi azzurri e i capelli rossi. Si chiamava Raymonde e ogni volta che la incontravo e i nostri sguardi si incrociavano mi sentivo arrossire fino alla punta delle orecchie. Aveva diciotto anni e io, che ero soltanto un ragazzino, in segreto ne ero un po' innamorato. Andavo molto spesso nella cascina di suo padre. Possedeva fucili da caccia e una carabina che mi imprestò perché imparassi a sparare. Ero molto portato e facevo centro quasi a ogni colpo. Divenne un'abitudine. Ogni domenica, avevo la mia parte di colpi da sparare. Mi divertivo a far saltare le lattine della birra e la mia mira sorprendeva molti. Ero molto orgoglioso di mostrare la mia abilità. Talvolta partivo da solo nel bosco, con la carabina. Sparavo sui rami, giocavo alla guerra, osservando, ascoltando i rumori degli animali disturbati dalla mia presenza. Camminavo per ore, la pioggia non mi dava fastidio. Mi piaceva quel contatto con la natura, mi piaceva quella solitudine. Un giorno, mentre vagabondavo nel nostro giardino con la carabina in mano, il canto di una cincia attirò la mia attenzione. Era là... inoffensiva e bella nella sua livrea di piume grigio-azzurre. Mi guardava con i suoi occhietti vivi. Quando mi avvicinai, non volò via. Gli animali erano miei amici. Lo sapeva? La osservai a mia volta emettendo piccoli fischi a cui essa rispose. Ero a tre metri. Perché mai feci il gesto di puntarle contro la mia arma? Non si preoccupò neppure della mia reazione. La vedevo nel mirino. Continuava a cantare. Il mio dito premette il grilletto con un gesto abituale. La detonazione mi fece sobbalzare perché credevo che l'arma fosse scarica. Cessato il canto... il silenzio. Giaceva ai piedi dell'albero, sanguinante, con il petto squarciato dal piombo. Provai una sensazione di vuoto totale. Che cosa avevo fatto? L'avevo uccisa. Non era possibile. Presi il suo corpicino caldo in mano. Una macchia rossa si disegnò sulla mia pelle come per marchiarmi del mio crimine. Mi misi a singhiozzare con degli «oh, no!»... Le mie lacrime cadevano sulle sue piume come per impregnarle del mio dispiacere e ridarle vita. Mi ci vollero dieci minuti buoni per calmarmi. La mia carabina giaceva a terra come un oggetto vergognoso. Mi odiavo per il mio gesto. Parlavo alla mia cincia morta. Avevo appena scoperto che

un'arma uccideva; non avevo mai sparato a un animale. Mi piacevano troppo per farlo. Il mio gesto era stato accidentale, ma non me lo perdonavo. Avrei dato la vita perché quella cincia potesse rivivere e il suo canto mi concedesse il suo perdono. Con gesto infantile le scavai una piccola tomba. Fu sicuramente il più bel funerale che ebbe un uccellino. Avevo avvolto il suo corpo con petali di rose e circondato di fiori selvatici il tumulo formato dalla terra che la ricopriva. Una piccola croce fatta di ramoscelli indicava come nei cimiteri che lì... si era spenta una vita. Per quanto strano possa parere, nel corso della mia vita ripensai sempre con una certa tristezza al mio gesto. Quella cincia era forse quello che di buono c'era in me e che avevo ucciso. In ogni caso, mai più in vita mia ho sparato ancora a un uccello. Quando mia madre mi vide tornare a casa, non capì perché provassi un tale dolore. Mi vergognavo troppo del mio gesto per parlargliene. Per diverse settimane, andai in pellegrinaggio in fondo al giardino. Il dio delle cince ricevette sicuramente il mio messaggio, perché altre cince, con il loro canto, vennero a comunicarmi il suo perdono. Durante la settimana mi capitava di andare a passare una serata dalla nonna paterna. Le volevo bene. Il suo viso pieno di rughe era bello perché nobilitato dall'età. I suoi capelli argentati raccolti in chignon le conferivano classe. Mi confidavo con lei. Ma poiché idolatrava mio padre, mi criticava sempre per il mio comportamento nei confronti dei miei genitori. Poi passarono i mesi. Di fronte al disastro dei miei studi, mio padre decise di mandarmi in collegio. Lo presi per un abbandono. Si era scelto per me senza preoccuparsi dei miei bisogni affettivi. Quando lo annunciai alla «Pulce», lei si sciolse in lacrime; io, giocando a fare l'uomo, le risposi con un: «Non ti preoccupare, tornerò», molto teatrale. Era uno dei migliori collegi francesi. Quello di Juilly. Era tenuto da oratoriani. Ero molto indietro. Eppure non trovarono di meglio che mettermi in quinta moderna facendomi saltare una classe. Mancandomi le basi che gli altri allievi invece possedevano, feci subito fatica a seguire. Ero mediocre, tranne che nelle materie che mi interessavano, ossia matematica e geografia. Mi sfogavo poi sui campi sportivi. La disciplina era severa e la messa obbligatoria. Avevo fatto amicizia con diversi ragazzi. Di notte, nel dormitorio, aspettavamo che il sorvegliante terminasse il suo giro per uscire dal letto e riunirci in un grande armadio che serviva a riporre gli attrezzi per la pulizia. Fumavamo le nostre prime sigarette. Eravamo cinque; ci coprivamo la testa con cappucci fatti con pezzi di vecchie lenzuola. Avevamo formato un clan. Ognuno a turno saltava il muro alla sera per far provviste di sigarette e cherry-brandy nel piccolo bar del paese. Passavamo dal retro e la padrona con un sorriso complice ci consegnava quello che eravamo andati a cercare. Sapevamo che se ci avessero beccati, ci avrebbero subito espulsi. Ma poiché il nostro gruppetto era composto da giovani duri con un punto in comune: non far nulla in classe, ognuno di noi

disse agli altri che non gliene importava nulla di essere sbattuto fuori da quel maledetto collegio. Talvolta mia madre veniva a trovarmi alla domenica e mi portava con uno dei miei amici a mangiare nel nostro piccolo bar. Mai mio padre si scomodò a venire. Lo vedevo durante i permessi di fine mese. Qualche volta ero punito e costretto a restare in collegio. Avevo la rabbia nel cuore. Mi ribellavo spesso. Passarono così due anni. I miei voti erano catastrofici. Ero passato in quarta, ma nel luglio 1951, all'avvicinarsi delle vacanze, mi guardai bene dall'annunciare a mio padre che ero stato bocciato. Dovevamo andare in vacanza a Hossegor. Fu nella sala da pranzo dell'albergo che mia madre mi diede la notizia che già conoscevo: - Mi ha telefonato tuo padre. Ha ricevuto la tua pagella. Sei ventiseiesimo su trentadue e sei bocciato. Se lo avesse saputo, non saresti partito per le vacanze. Che cosa possiamo fare di te? - Me ne frego di essere bocciato, mi dovevate tenere, così imparate ad allontanarmi da voi... Non ho aspettato papà per sei anni per essere mandato in un collegio di preti. Un paio di schiaffi misero termine alla mia frase. Ero molto arrabbiato e mi rifugiai nella mia camera gridando di fronte a tutte le persone che mi guardavano: - Me ne frego... Me ne frego... Per diversi giorni, mia madre mi proibì di andare in spiaggia. Era la mia punizione. Nel corridoio dell'albergo, mi capitò di incrociare una magnifica ragazza. Aveva lunghi capelli neri che le accarezzavano le spalle. I nostri occhi s'incontrarono e la luce che vi brillò fu il suggello del mio primo amore di ragazzo. Si chiamava Christiane. Sembrava un tipo selvatico, i suoi occhi neri come il carbone mi sconvolgevano. Più grande di me, con i suoi diciassette anni, mi impressionava. Ero orgoglioso di portarla in spiaggia; l'ammiravo, bevevo le sue parole. Il nostro primo bacio ebbe luogo nella camera di mia madre. Avevo accostato le persiane perché l'oscurità mi aiutasse a nascondere la timidezza. Avevo una persona grande davanti a me e non volevo che scoprisse la mia inesperienza. Non era più esperta di me e la nostra storia ebbe la bellezza e la purezza della nostra età. Durò per tutto il tempo delle vacanze. Né mia madre né i suoi genitori sospettarono qualcosa. Con il mio temperino ci eravamo fatti un taglio al polso e avevamo mischiato il nostro sangue in pegno di fedeltà. L'avevo visto fare in un film. Alla sera, da solo nel mio letto, sognavo viaggi e avventure. Ne ero sempre l'eroe... Salvavo Christiane dai peggiori pericoli e finivamo sempre su un'isola deserta. La realtà ricuperò il suo primato con la fine delle vacanze. La nostra separazione ci fece male, perché lei abitava

molto lontano da Parigi e non ero sicuro di rivederla. Promettemmo di scriverci. Nessuno capì come mai Christiane pianse quando ci salutammo. Fu lei l'indiretta responsabile della mia prima fuga, un anno dopo.

Di ritorno a Parigi, mio padre neppure mi sgridò per la mia bocciatura. Mi disse semplicemente che non mi avrebbe rimesso in un collegio. Entrai quindi al liceo. Il risultato fu lo stesso. I miei voti erano sensibilmente migliori, ma facevo spesso a botte. Saltavo alcune lezioni per andare al cinema dell'angolo. Insomma, cominciavo a diventare «un duro». Qualche volta rubavo del denaro ai miei genitori per pagarmi le uscite, o inventavo l'iscrizione a un corso serale reclamando anche i soldi per pagarlo. I miei genitori non s'accorgevano su che strada mi stavo incamminando. Una sera dovevano uscire con degli amici per andare a sentir cantare Edith Piaf, e chiesi loro il permesso di andare al cinema con il mio migliore amico che aveva due anni più di me. Acconsentirono, senza sospettare che non avevo alcuna intenzione di vedere un film. Come persone grandi, il mio amico ed io avevamo deciso di andare a fare un giro a Pigalle. Bébert conosceva là una ragazza che batteva. Lui aveva già avuto rapporti sessuali con delle donne. Io invece ero rimasto agli scambi di carezze con ragazzine molto pure. Quando mi annunciò lo scopo della nostra uscita, fui subito d'accordo. Andavo per i sedici anni. - Hai già scopato una ragazza, eh, Jacky? Anziché deluderlo, risposi di sì. - Certo, che cosa credi, che sono vergine? E' carina, almeno, la tua amica? - Favolosa, lo vedrai; lavora in un bar. Le ho parlato di te, siamo d'accordo. Ci sta a salire con te. Ma dovrai pagarla. Hai soldi, almeno? - Certo che ne ho, guarda. Li ho fregati a mamma stamattina; ma non si è accorta di nulla. Molto fiero, tirai fuori di tasca qualche banconota. Decidemmo di andare a piedi, dopo che i miei mi ebbero detto di non rientrare troppo tardi. Lungo il percorso ci fermammo in diversi bar e bevemmo alcuni bicchieri di alcol. Ne avevo bisogno per farmi coraggio. In tasca avevo il tirapugni che mi aveva dato Bébert. Mi sentivo un vero uomo con quello in mano. Come i veri gangster che avevo visto al cinema. Ero certo che l'amica di Bébert mi avrebbe preso per un duro... La volevo impressionare per nascondere la mia fifa di ritrovarmi da solo in una camera

con lei. Non volevo che si rendesse conto che per me era la prima volta. Quando arrivammo a Pigalle, ero completamente ciucco. Quel mondo notturno mi affascinava. Tutte quelle luci che illuminavano i locali mi diedero alla testa... E pensare che lì vivevano i gangster, secondo quanto affermava Bébert che ci veniva spesso per rivendere nei locali le bottiglie di alcolici che rubava nei negozi o nelle cantine! Un portiere lanciò un saluto amichevole a Bébert. Lui squadrò un po' di più le spalle per dirmi con aria di superiorità: - Vedi, sono conosciuto, qui. - Di', Bébert, ne conosci di veri duri con rivoltella e tutto il resto? Sai che cosa voglio dire... - Certo che ne conosco! Chiederò più tardi al signor Paul di mostrartela, la sua. E' un duro, il signor Paul. Una sera l'ho visto dare una lezione a un tizio. Dovevi vedere come lo ha ridotto! Ascoltavo Bébert con ammirazione. Ero nel mondo dei sogni. Iniziai anch'io a squadrare un po' di più le spalle, quando Bébert mi fece segno, mostrandomi un bar, che eravamo arrivati. Entrammo. Il bar era illuminato con luci soffuse. C'erano delle ragazze al banco. Altre erano al tavolo dei clienti, uno dei quali aveva fatto scivolare la sua mano sotto la gonna di una bionda che ridacchiava e che mi guardò con un sorriso scanzonato a fior di labbra. Bébert lanciò un «Salve, ragazze!» che strozzò il mio «Buongiorno, signore e signori», quindi si diresse verso il fondo della sala dove un uomo sulla cinquantina conversava animatamente con due graziose brunette. - Buongiorno, signor Paul. Le presento il mio amico Jacky. - Salve, ragazzi. Venite qui da queste signore. Ah! Sei tu il famoso Jacky. Bébert non fa che parlare di te. Pare che ne facciate delle belle, voi due! La sua grossa mano strinse la mia fino a farmi male. Ma resistetti alla pressione. Poi ci presentò. Una delle ragazze si chiamava Carmen, l'altra Sarah. Sapevo che Sarah era l'amica di cui mi aveva parlato Bébert. Mi sentii arrossire quando, invece di stringermi la mano, mi disse: - Dai, diamoci un bacino. To', siediti vicino a me, e tu, Bébert, posa il culo vicino alla mia amica.

- Vi offro un bicchiere, ragazzi? - chiese il padrone. Ci fece servire del cognac. E io che ero già brillo!... Bébert spiegò che non avevamo molto tempo. Quanto a me, sigaretta in bocca, mi sforzavo di essere naturale di fronte a quella ragazza che mi aveva messo il braccio sulla spalla. Sentivo la sua mano accarezzarmi la nuca. - Quanti anni hai, Jacky? - chiese. Non avevo ancora sedici anni, ma risposi: - Presto diciotto, signora. La ragazza sorrise alla sua amica. - Non chiamarmi signora, dai. Chiamami Sarah. Poi, voltandosi verso il mio compagno: - E' carino, il tuo amico. E io che mi sforzavo di sembrare un duro! L'unica cosa che trovava da dire era che ero carino. Mi tolse la sigaretta di bocca e posò le sue labbra tiepide sulle mie. Le resi il bacio con ardore. Lei guardò Bébert, molto stupita. - Ehi, promette bene! Avevo messo in quel bacio tutta la mia giovane sapienza ed ero fiero del risultato. Il mio sguardo incrociò quello di Bébert come per dire: «Hai visto, amico mio?». Sarah si doveva essere resa conto che ero più giovane di quanto avevo dichiarato e aveva trovato quel complimento per farmi piacere. Abituata agli uomini, aveva capito che mi dovevo rilassare. Presi le sue labbra un'altra volta. Bébert ci interruppe. - Senti, Sarah, vai di sopra con il mio amico? Io vado con Carmen. - Va bene, andiamo! Salimmo al piano di sopra e ci ritrovammo in un corridoio in cui si trovavano diverse camere. Sarah si rivolse a Bébert: - Paghi tu?

- No, paga il mio amico per tutti e due. Tu darai a Carmen la sua parte. Ti va bene, pollastrella? - disse Bébert accarezzando il sedere di Carmen. - OK, va bene come dici tu. Ed entrambi sparimmo in una stanza. Sarah mi prese per mano. Accese soltanto una piccola lampada. - Spogliati, Jacky; io vado a lavarmi. Poi di fronte a me si tolse il vestito. Non indossava altro che uno slip, che fu levato allo stesso modo. Io stavo lì a guardarla. Il suo petto dal profilo perfetto mi fece pensare a quella donna che i partigiani avevano spogliato davanti a me. Il desiderio mi pervase e, aiutato dall'alcol, radunai tutto il mio coraggio. Mentre si lavava accovacciata sul bidet, avevo posato il mio tirapugni sul tavolino per impressionarla. Avevo indosso solo gli slip quando si voltò. Non mi ero mai sentito tanto idiota. I suoi occhi si posarono sull'arma. Nuovamente fece un sorriso ma non disse nulla. Accostò il suo corpo caldo al mio: - Lasciami fare. Non chiedevo di meglio. Fu dolce e attenta, senza far pesare la mia inesperienza. Mi aiutò a penetrarla e guidò i miei sensi. Molto velocemente presi il mio piacere. Poi, spingendomi di lato, mi baciò prima di lasciare il letto. - Ti è piaciuto, Jacky? Alla mia risposta affermativa, continuò: - Dimmi, quanti anni hai veramente? Al massimo sedici! I suoi occhi neri mi guardavano teneramente e non potei mentirle. Ora non me ne importava più. - Sì, ho quasi sedici anni; non cambia nulla, vero? - A parte le noie che potrei avere, hai ragione, non cambia nulla. Ma i tuoi ti lasciano uscire a quest'ora?

L'ora! Non ci pensavo più. Erano le due del mattino; dovevo rientrare a mezzanotte, alla fine del presunto film che eravamo andati a vedere. - Accidenti, devo scappare. - Non dimentichi nulla, caro? Sì, avevo dimenticato due cose: di pagarla, e il mio tirapugni. Tirai fuori i soldi e le diedi tutto, tenendomi soltanto gli spiccioli. - Va bene così? Posso tornare a trovarti? - Sì, perché no? Sulla porta, Bébert mi aspettava. Aveva finito anche lui. - Hai pagato Sarah? Gli risposi di sì. E, mostrandogli l'orologio: - Hai visto l'ora, dobbiamo scappare. La luce era accesa alla finestra di casa mia. Erano passate le tre del mattino. Non avevamo più abbastanza soldi per pagarci un taxi. Mi domandavo che bugia avrei potuto inventare per cavarmi dai guai. Mio padre e mia madre erano sull'uscio. L'unica cosa che ricevetti fu un bel paio di schiaffi prima di qualsiasi spiegazione. - Tuo padre era andato a vedere dove potevi essere. Il film è finito a mezzanotte... Dove sei stato? Avevo una voglia matta di rispondere che mi ero appena fatto una puttana, soltanto per vedere che faccia avrebbero fatto tutti e due. Ma, più prudente, iniziai una spiegazione confusa. Mio padre mi prese per il braccio dicendomi di andare a letto e che ne avremmo parlato l'indomani. Mi addormentai pensando a Sarah, al suo corpo. Quella scoperta del piacere sessuale era stata per me una compensazione dell'amore che avrei voluto dare dal punto di vista puramente sentimentale alle persone intorno a me. Sarah era stata dolce, il suo corpo mi aveva liberato dei piaceri solitari. Mi sentivo uomo. Mi aveva detto «caro». La mia inesperienza non poteva sapere che per lei tutti gli uomini erano suoi cari per il tempo di una scopata. Me ne innamorai ripensandoci. Solo quando l'alcol che avevo bevuto cominciò a torturare il mio stomaco e a fare del mio letto una nave in preda alla tempesta dimenticai momentaneamente il mio amore nascente a favore del lavabo

dove vomitai trippe e budella. Era giorno quando mia madre mi scosse per mandarmi a scuola. Non avevo una gran bella cera. Ero livido. - Hai visto la tua faccia? Mi domando dove sei potuto andare ieri sera con il tuo amico Bébert! Ehi! Sto parlando con te! - Se te lo dicessi non mi crederesti, dissi con un pallido sorriso ironico. - In ogni modo, è l'ultima volta che esci con quel cialtrone. Non voglio più rivederlo qui; hai capito bene? Le risposi un «sissignora» che significava «parla pure quanto vuoi». Mio padre non mi parlò più di quel ritardo. Avrei tanto voluto dirgli la verità! Chiedergli se alla mia età aveva avuto le stesse mie esperienze. Per lui ero un marmocchio. Era lontano dall'immaginare che la mia mente era tormentata e aveva bisogno di liberarsi di tutte le domande senza risposta che racchiudeva. Diventavo sempre più aggressivo. All'uscita da scuola, avevo rivisto Bébert e gli avevo spiegato che la mamma non voleva più che venisse da noi. Avevamo deciso insieme di far finta di non frequentarci più per far calmare la collera di mamma. Volevo rivedere Sarah. Gli dissi che volevo marinare la scuola perché mi portasse ancora una volta nel bar dove lavorava. La sua risposta mi sorprese: - Sei matto! Di giorno, non lavora, dorme. - Allora portami a casa sua. - No, sei pazzo? Farei imbestialire il suo protettore se arrivassi con te davanti alla sua porta. Dimmi un po', ti sarai mica innamorato di quella puttana, per caso? Ma sì, è innamorato questo fesso! - E allora, è un mio diritto, no? E' simpatica, quella ragazza. - Ascolta, Jacky, te lo devo dire, la seratina era per farti piacere. Ma la mia amica non la ripeterà. Perché se si facesse prendere con un ragazzino della tua età, la madama la sbatterebbe in galera. E allora, lascia perdere, va bene? Non cominciare questo cine... Sarah è una puttana. Il suo mestiere è farsi gli uomini. Non sa che farsene di tipi della nostra età. Se le vuoi bene, comincia a lasciarla in pace e non provare a tornare in quel bar senza di me, altrimenti ti spacco la faccia. Hai capito bene?

- D'accordo, non t'arrabbiare. Era tanto per parlare. Quel che mi aveva detto Bébert mi aveva chiarito le idee. Avrei rivisto Sarah, quattro anni dopo. Abbiamo riso di gusto quando le ho confidato i miei pensieri di quel tempo. Continuavo a non trovare il dialogo con i miei. Litigavo con mia madre per ogni banalità. A scuola, facevo sempre meno. La mia unica passione era il cinema. I film di gangster e i western occupavano il mio tempo e la mia mente. A casa, avevo due pistole giocattolo che non mi lasciavano mai. In strada, con gli amici, erano sempre liti e dimostrazioni di forza. Quella passione per le armi avrebbe assunto una grandissima importanza nel mio destino di criminale. Giovanissimo infatti, attraverso giochi insignificanti in apparenza, mi sono condizionato alla preparazione dei delitti che avrei commesso. Non ho fatto altro che ripetere nella realtà quello che mi ero abituato a fare per gioco. Con l'unica differenza che i miei giochi da adulto sono spesso finiti nel sangue. Ma questa è un'altra storia. Nel periodo delle feste di Natale, il direttore della mia scuola mi fece chiamare. - Mesrine, abbiamo deciso d'accordo con i suoi professori di non accoglierla più a scuola alla ripresa di gennaio. I suoi voti sono penosi e non concludiamo niente con lei. Continui così, mio giovane amico, e andrà difilato in una casa di correzione. Tenga, consegnerà lei stesso questa lettera ai suoi genitori. Ero quindi espulso ancora una volta. Per tutto il tragitto di ritorno a casa, mi domandai come avrei spiegato la faccenda ai miei. Ero sconcertato. Era una fortuna per me che il direttore avesse consegnato la lettera a me piuttosto che spedirla per posta. Mi dava il tempo di riflettere. Tornato a casa, mi comportai come se tutto fosse normale guardandomi bene dal consegnare la lettera di espulsione ai miei. Le feste trascorsero in famiglia. La mia nonna paterna, che adoravo, mi regalò una somma di denaro piuttosto grossa per Natale. Aveva venduto un terreno che le apparteneva e aveva deciso di dare a ciascuno di noi una parte proporzionata alla nostra età. Mi consigliò di depositarla in banca per il futuro. Fu in quel preciso momento che concepii l'idea di lasciare i miei genitori. Con quel denaro, potevo andare lontano, sfuggire ai miei tormenti, vivere l'avventura che sognavo e soprattutto non essere costretto ad affrontare la collera di mia madre quando avrebbe letto la lettera di espulsione. Per una settimana avevo parlato del mio progetto di fuga a Bébert. Gli avevo proposto di seguirmi. Lui aveva rifiutato, ma ci stava ad aiutarmi. Ricevevo abbastanza regolarmente notizie di Christiane, la bella selvaticona con cui avevo trascorso le vacanze a Hossegor. Mi accadeva di

ripensare a lei con una certa tenerezza. Fu quindi a lei che si rivolse il mio pensiero. Progettai di partire il mattino del rientro a scuola. Sarei andato da Christiane e le avrei chiesto di seguirmi. Saremmo andati a vivere tutti e due lontano dagli adulti su un'isola... sì, era una buona idea... un'isola deserta. Per diverse notti la mia mente fantasticò viaggi da sogno. Vivevamo, Christiane ed io, una vita da selvaggi, nutrendoci del pesce che prendevo con l'arpione, ci tuffavamo mezzi nudi nei laghetti della nostra isola. Sarebbe stato fantastico come nei film che avevo già visto su questo tema. Il mattino della mia fuga ero persuaso che tutto sarebbe andato come avevo immaginato. Durante la notte precedente al ritorno a scuola, preparai i bagagli. Avevo nascosto la mia valigia sotto il letto. Ero entrato in silenzio nella camera dei miei per ritirare dei soldi che mi appartenevano. Sempre in silenzio, avevo aperto il cassetto di un mobile del bagno in cui mio padre conservava il suo denaro. Il mio era in una busta a mio nome. Lo presi. Poi, ritenendo che per tentare la grande avventura non sarebbe stato sufficiente, ne presi un altro po' dai risparmi dei miei. Al loro posto misi un biglietto che diceva che più in là, quando avrei fatto fortuna, glieli avrei resi. Non era un furto, ma un prestito. La mia spiegazione si chiudeva con una timida parola di scuse. Una volta raccolto tutto, mi accorsi che erano già le cinque del mattino. Portai la mia valigia in cantina e tornai a coricarmi come se niente fosse. Al risveglio, finsi di prepararmi per andare a scuola dicendo a mia madre che dovevo partire un po' più presto. Bevvi il mio ultimo caffè in famiglia, con calma, con il mio segreto nel cuore. Fra poco sarei stato liberato da quel mondo di adulti che non mi capiva; stavo per vivere la mia vita. Presi la cartella e, dopo aver abbracciato i miei genitori e aver detto loro arrivederci a sera, varcai la porta. Non appena l'ebbi richiusa, posai la cartella sullo zerbino, con la lettera di espulsione e un'altra lettera in cui spiegavo ai miei genitori che non volevo più vivere così, che partivo per sempre; gli chiedevo scusa per il dolore che causavo, ma consigliavo loro di non preoccuparsi per me. Scesi velocemente in cantina a recuperare la valigia. E non appena ebbi superato l'angolo della strada, cominciai a correre. Un taxi mi portò in stazione. Da lì presi il treno per Béziers. Mio padre, quando uscì per andare a lavorare, inciampò in quanto avevo lasciato sull'uscio. Non capì perché non mi ero confidato con lui. Mai aveva immaginato che avrei potuto fare una fuga. Mia madre scoppiò in singhiozzi. Fecero venire Bébert che, fedele alla sua promessa, giurò di non essere al corrente di niente. Frugarono fra le mie cose. Nella cartella, mia madre scoprì una lettera di auguri di Natale indirizzata a Christiane. Non l'avevo imbucata. Ne concluse a ragione che quella dimenticanza era sicuramente dovuta al fatto che avevo intenzione di incontrarla. Io, nel frattempo, ero sistemato nel mio compartimento e mi lasciavo cullare dai movimenti del treno. Non avendo quasi dormito la notte precedente, mi addormentai. I miei genitori rifiutarono di avvisare immediatamente la polizia.

Telefonarono ai genitori di Christiane, spiegarono loro la mia fuga e l'eventualità del mio arrivo. Chiesero loro di accogliermi come se niente fosse e di telefonare se fossi arrivato a casa loro. Il treno arrivò a Béziers in serata. Mi recai all'albergo della Stazione e presi una camera. Sulla mia scheda scrissi «studente» e risposi al padrone dell'albergo che i miei genitori mi avrebbero raggiunto fra due giorni, che avrebbe dovuto perciò tenere per loro una camera. La mia spiegazione parve soddisfarlo. Dopo aver cenato nel ristorante, decisi di andare a dormire e di rinviare all'indomani la mia visita a Christiane. Solo nella mia camera senza vita, ebbi un momento di profonda tristezza pensando ai miei. Gli volevo bene. Anche loro mi volevano un bene dell'anima, lo sapevo. Non avevamo mai potuto instaurare un clima di fiducia, ecco tutto. Si stavano probabilmente preoccupando. Mi addormentai, con le lacrime agli occhi, piangendo sulla mia infelicità, rimpiangendo già di aver lasciato casa mia. Fui risvegliato dai rumori della strada. Era giorno. Dopo essermi lavato e aver fatto colazione, lasciai l'albergo. Acquistai una bella cesta di rose rosse da offrire alla mamma di Christiane. I suoi genitori erano gioiellieri. Avevo apprezzato la loro gentilezza nel corso delle vacanze. Non li avevo mai sentiti alzare la voce rivolgendosi ai loro figli. Respiravano la gioia di vivere, quella stessa gioia che risplendeva sul viso della mia selvaticona. Fui enormemente stupito, arrivando all'indirizzo indicato, di trovarmi di fronte a un'enorme gioielleria su più piani. La semplicità che avevano dimostrato non poteva lasciar immaginare l'entità della loro ricchezza. Timidamente varcai la porta del negozio. Non appena la madre di Christiane mi scorse, si precipitò verso di me, con il sorriso sulle labbra, e la dolcezza che lessi nel suo sguardo mi scaldò il cuore. Ero quindi benvenuto. Mi abbracciò; da parte mia, inventai una spiegazione della mia visita. Le offrii le mie rose. Sentivo la sua emozione. Non potevo immaginare che, conoscendo la verità sulla mia fuga, il mio gesto aveva ancora più importanza ai suoi occhi. Mi disse che Chris stava per tornare e che restavo a pranzo con loro. Lei arrivò verso mezzogiorno. Come era cambiata! Più nulla della selvaticona dei miei sogni, ma una bellissima ragazza molto rigida nella sua divisa da collegio. Ne rimasi sconcertato. Ci abbracciammo da bravi ragazzi in presenza di sua madre. Ma credo che anche se fossimo stati soli non avrei osato posare le mie labbra sulle sue come ai tempi della nostra storia delle vacanze. Non la riconoscevo più. Parlammo del più e del meno. Finalmente capii la follia del mio progetto. La mia immaginazione mi aveva fatto creare dei personaggi come avrei voluto che fossero; la realtà me li mostrava come erano in realtà. Dopo il pranzo, andammo in salotto ad ascoltare musica. Poi la conversazione si spostò sui miei studi, sui miei genitori. Restai sul vago. Li trovavo tutti troppo gentili. Mi davano l'impressione che stessero parlando a un malato grave. Mi spiegarono che talvolta i ragazzi si sentono trascurati dai genitori troppo occupati a

guadagnarsi da vivere per la famiglia. Mi chiedevo dove volessero andare a parare. Poi, d'improvviso, squillò il telefono. La madre di Chris andò a rispondere; il suo sguardo incrociò il mio come per cercare la reazione che le sue parole avrebbero scatenato. - Sì, è qui. Va tutto bene, non vi preoccupate. Glielo passo. Mi tese la cornetta. - E' per te, Jacky. - Per me? - dissi stupito. - Sì, è tua madre che chiede se le tue vacanze stanno andando bene; ti vuole parlare; ascoltala, ragazzo mio. Persi tutto il mio colore. Non era possibile. Con tutta la fatica che avevo fatto per fuggire, mi avevano già ritrovato. Presi la cornetta e pronunciai un timido: - Pronto, mamma... Mia madre fu molto gentile. Mi spiegò la gravità del mio gesto, il dolore e la preoccupazione che la mia partenza avevano provocato. Mi disse che mio padre mi aveva perdonato ma che ora dovevo tornare a casa. Che saremmo ripartiti su nuove basi. Che dovevo assolutamente aver fiducia in loro. Ascoltavo, con le lacrime agli occhi, pieno di speranza e di rimorsi. Ero troppo giovane per nascondere il mio dolore. Terminata la conversazione, la madre di Chris mi spiegò che fin dall'inizio conosceva la verità. Mi tirarono su di morale. Chris mi chiese con dolcezza perché lo avevo fatto. Quando le dissi: «Per te», mi spiegò il lato infantile del mio gesto. Non rise di me quando le parlai del mio progetto riguardo all'isola deserta. Mi riportò alla realtà dell'esistenza. La sera, mi riaccompagnarono al treno dopo essere passati a prendere le mie valigie in albergo. Non avevo amoreggiato neanche un momento con la mia selvaticona. Ci salutammo con la mano quando il treno si mise in movimento. Non la rividi mai più.

Arrivai a Parigi tutto pentito. I miei genitori mi aspettavano al binario. Non appena li vidi, mi gettai fra le loro braccia. Mio padre mi fece girare e mi diede un leggero calcio nel didietro, dicendomi, conciliante: - E' quello che ti meriti. Dai, avventuriero, a casa!

Una volta rientrati, ci fu una lunga spiegazione. Che fare di me? La mia irrequietezza non facilitava le cose. Fu deciso per una scuola di recupero specializzata in elettronica: poteva portare a un posto di marconista nella marina mercantile. Avrei accettato qualsiasi cosa. All'inizio, poteva sembrare che io stessi risalendo la china. Imparai l'alfabeto Morse, avevo dei voti accettabili, e poi tutto ricominciò: le bugie ai miei, i litigi, le riconciliazioni, la scuola saltata per andare al cinema o più semplicemente per andare con un'amichetta. I miei genitori mi lasciavano sempre più libero, pensando di risolvere il mio problema con quella nonsorveglianza, mi autorizzarono a installare nella cantina di loro proprietà un piccolo mondo tutto mio dove avrei dovuto invitare amici e amiche ad ascoltare musica. In realtà, ne avevo fatto una vera e propria bisca dove si ballava, si giocava e si scopava. Queste riunioni avvenivano in assenza dei miei genitori che non le avrebbero mai accettate se avessero saputo quello che accadeva. D'estate mi era impossibile far funzionare la cantina perché loro erano presenti ogni fine settimana. Ma l'inverno mi permetteva di ritrovare tutta la banda. Ognuno di noi era tenuto a portare o alcolici o cibo o sigarette. Eravamo tutti più o meno senza soldi; perciò, quello che non riuscivamo a comperare, lo rubavamo senza pensare di fare gran danno. Quell'atmosfera di cantina piena di fumo mi piaceva. Ci capitava a volte di litigare in seguito a una discussione a proposito di una ragazza o per un eccesso di alcol. Talvolta andavamo in città a rubare qualche auto, guidavamo come pazzi, moltiplicando i rischi per il semplice piacere di far colpo sulle nostre amichette. Con quel ritmo, la mia salute subiva un bel colpo, e anche gli studi. Mio padre fu convocato dal direttore della scuola tecnica. Parve molto sorpreso di apprendere che saltavo molto spesso le lezioni. Lo fu ancora di più quando gli presentarono i miei voti che non corrispondevano affatto a quelli che aveva firmato da un anno a questa parte. Si scoprì subito che avevo due libretti: uno compilato dagli amici e che presentavo a mio padre ogni mese e un altro, quello vero, che avevo sempre firmato da me imitando la sua firma. Mio padre mi schiaffeggiò davanti al direttore dicendomi: - Disgraziato! Adesso falsifichi la mia firma! Ancora una volta, mi misero alla porta. Mio padre decise di mandarmi a lavorare, non vedendo altre soluzioni. Mi fecero entrare in una delle maggiori ditte di tessuti di lusso di Parigi. Ero magazziniere. Tra le sete e i cartoni polverosi, imparai a misurare, tagliare, piegare le ordinazioni. Guardavo gli anziani con i volti segnati dalla monotonia del loro lavoro. Giurai a me stesso di non durare molto in quel genere di vita spenta e senza sorprese. Non volevo diventare come loro.

Talvolta ricevevamo la visita di un'attrice famosa, che veniva a scegliere da sé il suo tessuto, accompagnata dalla sua sarta. Fu così che vidi la magnifica Zsa-Zsa Gabor. Tutta la direzione la riveriva. Fu la mia prima lezione: se vivi nell'ombra, non ti avvicinerai mai al sole. Non correvo il rischio di essere notato, nell'angolino con il mio grembiale grigio! Un giorno, mi chiesero di andare a consegnare un pacco all'hotel Ritz che era a soli cento metri dal negozio. Quando mi dissero che era per Audrey Hepburn, il mio cuore si infiammò. Come tutti i ragazzi della mia età, me ne ero innamorato quando avevo visto per l'ennesima volta il suo film "Vacanze romane". Mi fecero salire dalle scale di servizio e, con mia grande delusione, non potei consegnare io stesso il pacco. Fu la mia seconda lezione: non bisogna prendere le scale di servizio. Talvolta mi presentavo al lavoro con dieci minuti di ritardo. Il vice direttore mi aspettava davanti alla porta, guardava l'orologio, sempre con la solita osservazione sulla bocca: - Ebbene! che scusa ha oggi? La sveglia che non ha suonato o un guasto del metrò? Avevo una gran voglia di mandarlo a quel paese e di rispondere che il fatto di tagliare la mia stoffa con dieci minuti di ritardo non avrebbe cambiato la faccia del mondo. Ogni volta mi faceva entrare nel suo ufficio e perdeva una buona mezz'ora a spiegarmi i benefici della puntualità in un'azienda. Da parte mia, gli rispondevo che spesso facevo degli straordinari che raramente mi venivano pagati. Imparai così una terza cosa: chi si trova in basso nella scala è nato per farsi rimproverare per tutta la vita. Dopo un anno di questo trattamento, quello che doveva accadere accadde. Un giorno, egli diede un ordine a un vecchio impiegato del mio laboratorio, il quale rifiutò di eseguirlo; si rivolse a un altro che rifiutò anch'egli. Annunciò loro che erano entrambi licenziati e si rivolse a me dicendomi di fare quello che gli altri si erano rifiutati di fare. Per solidarietà con i miei due colleghi, gli risposi: - A me non c'è bisogno che mi licenzi. Me ne vado, ne ho fin sopra i capelli delle stoffe, della polvere e della tua faccia. Restò sgomento per la mia audacia e me ne andai accompagnato dal sorriso degli altri impiegati. Mio padre, che era amico del padrone, cercò di farmi ritornare sulla mia decisione. Gli dissi che non se ne parlava neanche e che avrei trovato un altro lavoro. All'epoca, avevo poco più di diciotto anni. Uscivo liberamente. Al sabato sera andavo talvolta a ballare alla Città universitaria. Vi erano diversi

padiglioni a seconda della nazionalità. Fu in quello della Martinica che per la prima volta vidi lei. Ballava un "bop", felina e agile come una liana. Alcuni studenti la circondavano e ritmavano la sua danza battendo le mani. Sapeva di essere bella e che tutti quelli che l'attorniavano la desideravano. La sua pelle era nera, ma i suoi lineamenti lasciavano percepire un che di meticcio. Terminato il ballo, i nostri sguardi si incrociarono e, senza altri preamboli, avanzò verso di me sotto gli occhi stupiti dei suoi ammiratori. - Mi offri da bere? Ho sete. Ero stupito e senza fiato. Non ci conoscevamo. Non l'avevo mai vista prima di quel ballo; e lei, senza falsi pudori, si era rivolta a me come a un vecchio amico. - Perché no! La sua mano prese la mia e mi trascinò verso il bar. - Vieni spesso qui? - mi chiese. - No, raramente. Sai, io non sono uno studente! Lavoro. - Ah! ecco. Probabilmente ti chiederai perché ti ho chiamato. Sono stufa del mio ballerino; se torna, gli dirò che sto con te... Non ti dispiace? - No, tutt'altro! Balli veramente bene. - E tu, sai ballare? - Sì, so ballare! Se vuoi... dopo! - Sì, va bene. Mi chiedevo se aveva ben capito che cosa volevo esattamente. I riflessi dei suoi grandi occhi neri erano di per sé una promessa di molti sì. Ballammo tutta la notte. Il suo corpo sodo si incollava al mio nei lenti. Mi faceva impazzire. Le nostre labbra si erano sfiorate a più riprese in una carezza furtiva. Mi faceva male il basso ventre. Mi eccitava e lo sapeva. Non avevo mai desiderato una ragazza quanto quella. Molto era dovuto al suo fascino esotico. Non avevo mai fatto l'amore con una ragazza di colore.

Senza altre formalità oltre l'invito al primo bicchiere che mi aveva chiesto di offrirle, mi propose di andar via. Non ebbi la curiosità di chiederle per andare dove. Uscimmo. Subito, senza problemi, mi offrì le sue labbra. Poi mi disse: - Non posso portarti a casa mia. Ho dei fratelli e non gli farebbe piacere. Tu ce l'hai una camera? Le spiegai che vivevo con i miei. Decidemmo di andare in albergo. Facemmo l'amore per tutto il resto della notte. Ero abituato alle ragazze prese velocemente sul sedile di una macchina o in un angolo oscuro della mia cantina. Mi ritrovavo fra le braccia una ragazza esperta a cui piaceva darsi a patto di ricevere il piacere che le era dovuto. Al mattino, sfinito e soddisfatto, ero certo di aver preso e dato più che in tutto il resto della mia giovane vita. Durante la colazione, le dissi: - Ti succede spesso di conquistare un ragazzo in questo modo? - No, ma mi sei piaciuto, allora perché nascondertelo? Ti spiace? - No di certo, ma è la prima volta che mi faccio conquistare. - Quanti anni hai, Jacques? - Un po' più di diciotto - dissi senza mentire. - E tu? - Io, ventitré. - Ti sei fatta un minorenne! - le dissi scherzando. Le sue labbra accarezzarono la mia bocca per farmi tacere e mi trascinò ancora una volta in un valzer di cui solo le lenzuola furono testimoni. A mezzogiorno, al momento di lasciarci, le chiesi se ci saremmo rivisti. - Se vuoi, puoi sempre telefonarmi. Tutti i sabati vado a ballare nello stesso padiglione di ieri sera. - Tra l'altro, non so neppure come ti chiami...?

- Lydia o più semplicemente Sica... per i miei amici. Su un ultimo bacio, mi fece un piccolo saluto e la vidi partire dimenando il sedere.

Lavoravo in una compagnia di distribuzione di giornali studenteschi. Facevo lo strillone per riviste di scarso interesse, che avevano come unico scopo quello di farmi guadagnare una notevole percentuale. Le cose andavano bene; guadagnavo molto più che con i tessuti. Inoltre, c'era il vantaggio che ero molto libero. Rividi quindi Lydia prima di sabato. Dormimmo ancora insieme. Parlammo di lei, dei suoi studi per diventare capo-chimico, dei suoi genitori che avevano un'ottima posizione a Dakar. Poi, senza preavviso, mi confidò: - Sai, Jacques, quando abbiamo fatto l'amore ero già incinta di un mese. Non di te, è ovvio. Ma voglio che tu lo sappia se continuiamo a frequentarci regolarmente. Per me è una catastrofe, soprattutto se i miei venissero a saperlo. Devo assolutamente abortire. Non conosci un medico, per caso? - Ma, io non conosco nessuno per queste faccende. Dunque, sei incinta! Perché ti preoccupi, non devi far altro che sposare il tipo che te l'ha fatto. Forse non sai neppure chi è, - dissi con ironia. - Mi hai preso per una puttana, perché sono andata a letto subito con te? Era furibonda. - Ma no, non dire scemenze! Comunque, ti ringrazio di avermelo detto. Avresti potuto ingannarmi e farmi poi credere che è mio. Ti aiuterò... Insomma, farò quello che posso. Nel mese successivo, la rividi con molta regolarità. Lydia aveva tentato di abortire mandando giù una gran quantità di chinino. Senza risultato. Cominciavo ad amarla. Lei faceva di tutto per questo. Mi aveva presentato ai suoi fratelli che mi avevano adottato. Una sera, andammo a cena dal suo padrino. Il discorso cadde sul suo stato. Avevo bevuto più del dovuto. Lydia scoppiò in pianto. Il suo padrino la consolò come poté. - Non ti rendi conto! Se papà viene a sapere che sono incinta, mai mi

lascerà tornare a casa. Dio mio, come farò a uscire da questo guaio! L'ascoltavo con un'idea pazza in testa. Ero forse un piccolo duro, ma avevo un'anima da san bernardo, sempre pronto a volare in aiuto della vedova e dell'orfano. Non seppi mai perché presi la decisione senza pensare che le mie giovani spalle non erano abbastanza solide per reggerla, ma mi sentii dire: - Ascolta, Lydia, c'è una soluzione. Se ti sposo, tuo padre non potrà rimproverarti nulla. Entrambi mi guardarono sorpresi. Fu il suo padrino a rispondere per primo: - Faresti questo, Jacques? - Perché no! L'amo. E' un po' come se adottassi il suo bambino. Soltanto che non è ancora nato. Farò quindi credere ai miei che è mio. So che i miei genitori saranno fin troppo contenti di vedermi andare via di casa. Lydia mi si avvicinò e, a mo' di consenso, posò le sue labbra sulle mie. Aveva troppa paura che cambiassi idea. Per lei, era la soluzione-miracolo. Io, nella mia testa da cavaliere, non immaginavo neppure l'idiozia che stavo per fare. Vedevo una cosa sola: se mi sposavo mi sarei ritrovato legalmente maggiorenne. Avrei potuto fare quello che volevo senza doverne rendere conto ai miei. E poi Lydia era bella, mi lusingava poter essere il solo a possederla; era per lo meno l'idea che mi facevo del matrimonio. Presero molto bene la cosa. L'onore prima di tutto. - Hai messo incinta una ragazza, è normale che la sposi - mi disse mio padre. Il colore non cambiava niente, per loro. Furono conquistati da lei al primo incontro. Appariva come una ragazza di buona famiglia nel suo bel completino. Vedevano in lei la studentessa seria che forse avrebbe riportato il loro figlio sulla buona strada. Da parte mia, facevo di tutto perché avessero di lei una buona impressione... Quasi dicevo che l'avevo avuta vergine. Dissi di conoscerla da diversi mesi. Sapevo che mia madre non avrebbe mancato di fare il calcolo riguardo al bambino che aspettava. Se avessi confidato il mio segreto a un adulto, mi avrebbe aperto gli occhi e riportato alla realtà. L'unica cosa che mio padre trovò da dire era che il mio gesto era nobile. Un ragazzino di diciotto anni e mezzo completamente disorientato, senza lavoro stabile, che pensa solo a divertirsi e vuole sposare una donna incinta di un altro... Nobile! Se mi avesse detto che ero troppo giovane per una simile responsabilità, forse tutta la mia vita sarebbe

stata diversa. Non fu il caso... Ecco perché il «cavaliere Fesso» sposò «Santa Puttana» per il meglio e soprattutto per il peggio. Una volta sposati, ci sistemammo in una semplice stanza. Un fornello ad alcol posato su un tavolo era il nostro angolo cottura. Lydia era pigra quanto me. Seguiva i suoi studi solo episodicamente, il suo stato era un'ottima scusa per non fare niente. Da parte mia, lavoravo soltanto un giorno su due. Il resto del tempo facevo l'amore come un giovane stallone che vuole approfittare al massimo della puledra di cui ha l'esclusiva. Passavamo intere giornate a letto. La sera, la passavamo nei caffè del Quartiere Latino. A volte bevevo un po' troppo e diventavo aggressivo. Mi rendevo conto che ero stato uno stupido a sposarmi. Lydia saltava le lezioni senza che io lo sapessi. Credevo che per gratitudine mi sarebbe stata fedele. In realtà, se la faceva con vecchi amanti o nuove conquiste. Quando la sorprendevo in flagrante, inventava una storia e io ci cascavo. Ero di una gelosia malata e il suo atteggiamento non faceva altro che esasperarla. Da parte mia, vedendo arrotondarsi il suo corpo, mi feci anch'io qualche amante di passaggio. Mi capitava di non tornare a casa la notte ed era lei a farmi scenate a non finire. La nostra unione si rivelava un fallimento totale. Il piccolo venne al mondo. Alla sua nascita capii che avevo le spalle un po' deboli per una simile responsabilità. Decidemmo di affidare il bimbo a mia madre, che da parte sua era fin troppo felice di fare la nonna. Il piccolo era molto bello. Non potei impedirmi di sorridere quando mia madre mi disse che mi somigliava. Avevo sempre avuto una passione per i bambini, mi fu quindi molto facile volergli bene sinceramente. Ma il fatto di sapere che non era mio figlio mi tormentava. Avevo davanti agli occhi il prodotto dell'uomo che aveva goduto del corpo di Lydia. Nel corpo di sua madre questo mi era indifferente, ma così la mia gelosia cresceva sempre più. Per un anno la nostra vita fu fatta di litigi e riconciliazioni a letto. La cosa più comica era che lei mi chiedeva di fare attenzione a non metterla incinta. Erano perciò spermatozoi frustrati che le eiaculavo sul basso ventre. Accettavo di malavoglia questo obbligo; ero decisamente stufo di ingravidare il mio fazzoletto. Poi, un giorno, il litigio degenerò. Per la prima volta in vita mia, picchiai una donna. Andai giù piuttosto deciso, dicendole che non poteva andare avanti così. Me ne andai sbattendo la porta. Per tre notti, non tornai a casa. Una sera, in un bar, riconobbi Sarah, la puttanella che mi aveva insegnato i primi gesti dell'amore. Fu molto sorpresa quando mi rivolsi a lei, chiamandola per nome. - Buongiorno, Sarah. - Mi conosci? Aspetta un po'... No, non ricordo. Mi offri qualcosa? - Certo. Ti farà sorridere, ma io non ti ho dimenticato. Sono un amico di Bébert, siamo venuti una sera, quattro anni fa, all'Honda Bar. Ero salito con te... Non ho dimenticato... Quel giorno, ti sei fatto un verginello - le dissi

con il mio più bel sorriso. - Non dirmi che quel ragazzino con il tirapugni sei tu. Caspita, sei cambiato. Sei bello, ora. Certo che mi ricordo, abbiamo riso tanto con la mia amica Carmen quando le ho raccontato la scena. Non t'arrabbiare, ma eri piuttosto buffo! Se vuoi, sono libera questa sera... - Vedremo... Guardi il mio anello? Eh, sì, sono sposato... per così dire... Bevemmo alcuni bicchieri. Con l'aiuto dell'alcol, mi confidai a Sarah, che mi ascoltava e mi compativa. - Ma sei completamente idiota ad aver sposato quella tizia! E' mai possibile, alla tua età, Jacques! Ti rovinerai la vita, con quella negretta. - Perché, sei razzista? - Ma mi dici che l'hai sposata per la sua bellezza. Se si dovessero sposare tutte le ragazze che hanno un bel culo, noi puttane saremmo disoccupate. Mi fece sorridere e ne fu felice. - Sai cosa faremo? Sali con me, passiamo la notte insieme... No, gratis! In ricordo del mio verginello. D'accordo? - Certo che sono d'accordo! Quella notte mi fece scordare le mie preoccupazioni e mi dimostrò che vicino a una puttanella trovavo più ricchezza di cuore che vicino alla mia stessa moglie. Sarah mi diede dei consigli, mi spiegò lo stato d'animo di alcune donne, mi fece approfittare della sua grande esperienza della vita. Al mattino, avevamo fatto più che l'amore. Eravamo diventati veri amici, perché da parte sua si era lasciata andare alle confidenze e sapevo che era stata sincera. Mi propose di andare a trovarla ogni tanto se avevo problemi con Lydia. E' quello che feci fino alla mia partenza per l'esercito. Avevo vent'anni. La guerra d'Algeria era al culmine. Accolsi la chiamata alle armi con sollievo. Non potevo più sopportare Lydia. Avevo intenzione di chiedere il divorzio. La vita insieme non era più sostenibile. Avevo sicuramente tante colpe quante lei, ma non volevo riconoscerlo. Ci facevamo reciproci rimproveri e molto spesso concludevo la discussione con un paio di schiaffi. Nonostante tutto, lei non voleva saperne di separazione. Il giorno della mia partenza, mi giurò fra le lacrime che mi sarebbe stata fedele per tutta la mia assenza e che con il tempo tutto poteva tornare a

posto. Non la contraddissi neppure. Non l'amavo più e quello che avrebbe fatto durante la mia assenza mi lasciava totalmente indifferente. Che lei lo accettasse o meno, avrei chiesto il divorzio. Mi aspettavo molto dal servizio militare. Sapevo che la disciplina vi regnava assoluta e che avevo interesse a cambiare il mio carattere se non volevo avere guai seri. Fui assegnato a una compagnia logistica e decisi di seguire il corso per diventare sottufficiale. Ma per tutto quel periodo continuai a rispondere ai miei superiori con un tono che mi fruttò a più riprese dei soggiorni nella prigione del campo. Decisi di fare domanda per partire per l'Algeria. Il comandante della mia compagnia fu d'accordo. - Laggiù, avrà l'occasione di dare prova delle sue capacità. Ho notato che le piacciono le armi! Stia attento, ragazzo mio, la guerra non è un gioco! Buona fortuna e cerchi di comportarsi bene. Penso sinceramente che lei sia un tipo coraggioso, ma la sua rivolta interiore fa di lei un uomo aggressivo. Il combattimento cambierà tutto questo, può starne certo. E' nel sangue e nel fango che si conosce il proprio vero carattere di militare e di uomo. Prima della partenza, rividi per un'ultima volta Lydia. Fu realmente l'ultima, perché il mio divorzio fu pronunciato un anno dopo. Tentò di scrivermi, ma non lessi mai le sue lettere. Per me, non era mai esistita. Il piccolo fu affidato ai nonni materni e scomparve dalla mia memoria come se non fosse mai nato. In Algeria, non vi era un vero clima di guerra, ma piuttosto di insicurezza, provocato dagli attentati terroristici del F.L.N. Certo, vi erano talvolta degli scontri sanguinosi scatenati da gruppi organizzati e bene armati. Ma militarmente eravamo superiori per numero e mezzi materiali. Lottavamo per conservare quella terra alla Francia. Quelli che chiamavamo ribelli lottavano per ottenere la loro indipendenza e riconquistare ciò che i miei antenati avevano preso loro un secolo prima. Stavo per partecipare a una guerra assurda con la certezza che non sono mai coloro che la scatenano a farla. Non facevo politica e il problema algerino mi era in parte sconosciuto. In quella guerra vedevo soltanto un campo d'azione per il mio gusto del rischio e dell'avventura. L'addestramento alla battaglia, le marce forzate, il tiro con le armi automatiche rispondevano bene al mio carattere. Mi sentivo bene nel mio ruolo. Non eravamo un'unità operativa. La nostra missione consisteva nel trasportare materiale da un luogo a un altro. Il rischio maggiore era di cadere in un'imboscata. Ma il comandante della nostra compagnia, cui piaceva la lotta, decise di creare due gruppi di combattimento. Fui subito volontario. Nella mia compagnia, avevo fatto amicizia con tre soldati. Nel corso di quei due anni, diventammo inseparabili. C'era Herard il lionese, sempre pronto alla rissa, giocatore di poker e buon bevitore; Charlie, detto

il bel Charles, come lo chiamavano le sue amichette, e Dédé denti bianchi con la sua faccia da playboy e il sorriso da pubblicità del dentifricio. Il nostro campo distava quaranta chilometri dalla città di Annaba, che si trova in riva al mare e molto vicino al confine tunisino. Ce la passavamo bene durante i permessi. Condividevamo tutto, chi se la prendeva con uno di noi aveva a che fare con tutta la banda. Come i tre moschettieri, eravamo quattro; e anche a noi piacevano il buon vino, le ragazze e la gazzarra. Questo ci valse varie volte dei guai con la polizia militare. Il comandante della nostra compagnia era un tipo eccezionale, lo stimavamo per la sua rettitudine. Era molto vicino ai suoi uomini che dirigeva con fermezza ma senza ingiustizia. Per questo motivo non ebbe alcun problema quando chiese dei volontari. I miei tre amici fecero come me. Partecipammo quindi alle operazioni di combattimento, sempre inseparabili, con l'intento che nessuno di noi ci lasciasse la pelle. Pattugliamenti, imboscate, uscite in pieno giorno per rastrellamenti che mi insegnarono molto presto che la guerra non possedeva quella nobiltà dei soggetti dei film che avevo visto. Alla scuola della sofferenza, imparai a diventare un uomo. Feci la conoscenza della paura che si supera perché è necessario per se stessi e per gli altri. Appresi che un uomo piange la morte del suo amico e che il suo dolore lo spingerà a odiare il suo nemico al punto da uccidere per il semplice piacere di farlo. Appresi a non rispettare più la vita avendo visto troppo da vicino la morte. A poco a poco, mi indurii interiormente, il mio sorriso lasciò il posto a una smorfia. Il mio sguardo non era più lo stesso, vi era entrata una certa stanchezza. Di fronte a una esecuzione, restavo indifferente. Per più di un mese ero stato trasferito alla polizia militare di Annaba. In cantina, alcuni indagati vi subivano degli interrogatori. Vidi quegli uomini farsi torturare, urlare il loro odio per la Francia; alcuni preferivano crepare lì piuttosto che parlare. Avevo seppellito nel fondo del mio cuore qualsiasi sentimento umano. Diversi tizi che conoscevo avevano perso la vita in imboscate; odiavo gli algerini per questo unico motivo, un odio insensato che me li faceva mettere tutti in un solo calderone. Fu l'osservazione che mi fece un ragazzino che doveva aver otto anni mentre portavo via suo padre a farmi capire che è l'uniforme a cambiare l'uomo e a dargli il diritto legale di uccidere senza sanzione possibile. Fu durante un rastrellamento al lago Fedza. Con il mio piccolo gruppo avevamo scoperto due uomini e un bambino nascosti in un boschetto. Non avevano armi indosso, forse le avevano occultate. Altri gruppi erano attivi, sentivamo degli spari in lontananza. Avevamo legato agli uomini le mani dietro la schiena; solo il bambino restava libero nei movimenti. Ci fermammo a riposare. Fu a quel punto che il bambino si avvicinò a me con il suo sguardo perduto, gli occhi pieni di lacrime. Sentii la sua sofferenza in modo intenso, come se fossi al suo posto. - Di', signore, non ci farete del male, vero? Non porterai via il mio papà...

Non abbiamo fatto niente di male, noi. Di', perché ci fai questo? Quel ragazzino, con le sue parole, mi riportò nel tempo a quindici anni prima. Un'altra guerra, altri soldati, un altro ragazzino che chiedeva nel cortile di una cascina a un ufficiale tedesco di restituirgli suo padre. Provava quello che io avevo provato. Oggi, ero io il tedesco. La mia mano accarezzò i suoi capelli neri e ricci. Tirai fuori il mio pugnale da combattimento; lui fraintese le mie intenzioni e cacciò un urlo di paura soffocato dai singhiozzi. - Non avere paura, piccolo. Poi, avvicinandomi ai due uomini, mi misi a tagliare le corde che li legavano. Il sergente mi chiese che cosa stavo facendo. - Li libero, a che serve portarceli via? In fondo, non abbiamo niente contro di loro. Sai bene quanto me dove andranno a finire dopo. Noi non ce ne facciamo niente di questi due. Lo faccio per il ragazzino, non cercare di capire. Poi, voltandomi verso i miei compagni: - Qualcuno è contrario? I miei amici mi fecero segno che non gliene importava nulla. Ma il sergente avanzò verso di me. - Un momento! Non così in fretta. Questi due sono sospettati, dobbiamo consegnarli alle autorità militari. Non possiamo lasciarli andare. Gli lanciai uno sguardo di sfida. - Chi ce lo impedirà, tu? Sai benissimo quanto me che il fatto di consegnarli o meno non ha nessuna importanza visto che il Quartier Generale non sa nemmeno che li abbiamo in mano. Inoltre, cerca soltanto di impedirmelo dissi mettendo mano alla pistola. - Non soltanto se ne andranno, ma terrai chiuso il becco, sergente, perché vieni spesso con noi nelle operazioni... Sarebbe stupido che ti capitasse un incidente sulla via del ritorno. - Va bene, non te la prendere per questo Jacques, non pensavo male. Se vuoi che se ne vadano d'accordo, d'accordo. Rivolgendomi ai due arabi, che mi guardavano straniti: - Il sergente dice che siete liberi, allora fuori dai piedi con il ragazzino. Ma in quella direzione

- dissi, mostrando il nord - perché dall'altra parte scotta. Il più vecchio dei due mi fissò fiero. Leggevo nel suo sguardo tutta la sua gratitudine. Eppure mi disse una parola sola: - Perché? - Per me; via ora, e non pensare che ti spareremo alle spalle. Ti puoi fidare di me, sei libero. Si allontanarono; li seguii a lungo con il binocolo e scomparvero alla mia vista. Questa storia restò fra noi; perfino i miei amici non mi chiesero mai perché avevo fatto quel gesto. E tutto continuò come prima. Non fui né più eroico né più coraggioso degli altri. Feci solamente quello che dovevo fare nel momento in cui mi si chiedeva di farlo. Un giorno, il comandante mi fece una domanda: - Dimmi Mesrine, perché ti dai volontario per tutte le operazioni? - Potrei risponderle perché no! No, non è perché sono separato da mia moglie. Non cerco la morte per disperazione amorosa. E' da molto tempo che non conta più nulla per me. Ma ho sempre pensato che potevo affrontare il pericolo. Cerco forse di dimostrarlo a me stesso. Sono stato un cattivo figlio per i miei genitori, un pessimo allievo per i miei professori, un cattivo marito per mia moglie. Per una volta che faccio qualcosa di valido, non mi chieda il perché! Credo di farlo per me stesso. - Perché non fai carriera nell'esercito? - Lei sa come me che sono indisciplinato, non mi piace l'esercito. Quello che mi piace, è l'azione. Mi piace rischiare la pelle, le dà un certo valore. So che lei penserà che sono matto; ma il pericolo mi inebria. Controllare la propria paura per svolgere la propria missione, è forse questo, essere un uomo! So anche che mio padre, per la prima volta, è fiero di me. Questo semplice fatto vale tutti i rischi che ho corso. - Sai che ti ho proposto per una nomina e una decorazione al valor militare? - Ah, sì? Non lo sapevo. Ma non mi sono dato volontario per collezionare medaglie, lo sa, comandante. Presto riprenderò la vita civile, sinceramente ho paura di non riuscire più a riadattarmici. Sa che vado pazzo per le armi da fuoco. Per me è una passione, l'odore della polvere mi inebria, un'arma

in mano mi ha sempre dato una gradevole sensazione. Può anche sorridere, ma se sono diventato un bravo soldato non è per patriottismo, ma soltanto per il gusto dello scontro. Ho visto morire troppi uomini per credere a una causa giusta per cui sono morti. Quello che è grave per me è che ora la vita degli altri uomini, come la mia, non ha più importanza. - Non parlare così, ragazzo mio. Un uomo che muore, è una madre che piange, una donna che soffre e spesso un bambino che non rivedrà mai suo padre. Non perdere mai il rispetto della vita, ragazzo, perderesti te stesso. Lavora seriamente per il tuo ritorno alla vita civile. Se mantieni le stesse idee farai una brutta fine, stanne certo, è la strada diretta per il carcere. Non fare la tua guerra personale trovando delle scuse per farla. Stavo per rientrare finalmente in famiglia. Dal 1957 fino ad aprile 1959 ero ritornato solamente una volta in permesso. Avevo evitato di parlare di quello che facevo; per i miei genitori, stavo tranquillamente seduto in ufficio. Mai avevo detto loro che combattevo. Preferivo evitare loro questa preoccupazione. Ma il 10 aprile 1959, quando mio padre, che era venuto a prendermi alla stazione, vide le mie decorazioni, lessi la fierezza nel suo sguardo. - Ma sei decorato! - mi disse. - Sì, sei contento, papà? - Molto... Anche tua madre ne sarà fiera. Ti ho trovato un lavoro. Prima prenderai un po' di vacanze per riprenderti, e poi, al lavoro, e questa volta niente sciocchezze. Sei un uomo ora, lo hai dimostrato - disse guardando ancora una volta il mio petto. Non sapeva ancora che la mia vita criminale stava per cominciare per non smettere più. Fu per lui la sola e unica volta in cui poté essere fiero di me. Dopo ventotto mesi di guerra, ritrovai finalmente la mia città con le sue luci, il suo odore e i suoi rumori. L'esercito mi aveva trasformato. Fisicamente, avevo sviluppato i muscoli e il mio metro e ottanta per 80 chili mi dava una certa prestanza nei confronti delle donne. Dal punto di vista morale, la mia psiche aveva subito un duro colpo. La notte dormivo male, mi svegliavo di soprassalto. Ero diventato molto aggressivo e violento. Mi sentivo uno straniero a casa mia. Chi mi parlava della guerra d'Algeria mi faceva innervosire con le sue frasi fatte e le idee false sul problema. Faticavo a dimenticare quanto avevo visto, ma l'azione mi mancava. Avevo riportato una pistola automatica calibro 45, ricordo preso sul cadavere di un combattente dell'F.L.N. L'avevo fatta passare di nascosto. Molto spesso la tiravo fuori per pulirla, la contemplavo e mi passavano per la mente le più

folli idee. Poiché ero ritornato senza un soldo in tasca, fu mio padre a darmi di che partire in vacanza. Trascorsi diverse settimane in Costa Azzurra. Al ritorno, dovevo pensare a lavorare. Accettai, anche se non a cuor leggero, un posto da rappresentante in una ditta di pizzi di lusso. Dovevo far visita alle grandi sartorie per presentare la collezione. Quel mestiere era molto vicino a quello di mio padre. Mi sarebbe piaciuto lavorare con lui. Ma mi teneva alla larga dalla sua stessa ditta e come in passato mi faceva lavorare per gli altri. Ne provavo una certa amarezza e compresi che da quel lato nulla era cambiato. Non mi piaceva il mestiere che facevo. Non mi piaceva ricevere ordini dal mio padrone, in una parola non mi piacevano gli obblighi. Il clima fra lui e me era teso. La sua faccia rubiconda, le sue maniere ossequiose me lo rendevano antipatico. Avevo una folle voglia di assestargli un pugno sul muso. A più riprese ci furono discussioni. E' vero che sul lavoro non facevo molto, ma abbastanza per i soldi che mi davano, o perlomeno questo è quello che pensavo. La notte uscivo molto spesso. Avevo rivisto Sarah. Mi trovava cambiato. Più uomo. Ma anche più irritabile. Cambiavo amante con grande regolarità, non volendo legarmi a nessuna. Lasciavo da parte ogni sentimento, pensando soltanto al piacere che mi potevano dare. Eppure avevo incontrato una brava ragazza che non chiedeva altro che condividere la sua vita con me. Nel momento in cui mi aveva parlato di matrimonio, avevo rotto con lei. Avevo già fatto un'esperienza in quel campo e non avevo intenzione di ripetere la stessa idiozia. E poi, un giorno, cominciai a giocare alle corse di cavalli. Per mia disgrazia, mi capitò di vincere le mie prime scommesse. Ne presi quindi l'abitudine, la fortuna girò e molto spesso la mia paga era già spesa prima ancora di guadagnarla. Chiedevo prestiti ai miei colleghi. Venne il momento in cui facevo fatica a restituirli. Da quando ero tornato, vivevo con i miei. Spesso scoppiavano litigi con mia madre. Durante uno di questi, le mie parole nei suoi confronti le fecero male. Non avevo altra scelta che andarmene; è quello che feci. Non avevo quasi denaro in tasca, soltanto qualche vestito e la mia inseparabile pistola automatica. Il mio avvenire era tra i più bui. Ero depresso ma con una rabbia di vivere nel profondo di me stesso. Quella violenza interiore mi faceva immaginare soluzioni estreme per tirarmi fuori dalle mie misere condizioni di vita. Avevo preso l'abitudine di guardarmi intorno, di osservare coloro che sfioravo per strada, nel metrò, al ristorantino in cui pranzavo a mezzogiorno. Che cosa vedevo? Facce tristi, sguardi stanchi, individui consumati da un lavoro mal pagato, ma obbligati a farlo per sopravvivere, potendosi permettere soltanto il minimo indispensabile. Esseri condannati alla mediocrità perpetua; esseri simili fra loro nell'abbigliamento e nei problemi finanziari di fine mese. Esseri incapaci di soddisfare i loro minimi desideri, condannati a essere sognatori permanenti di fronte alle vetrine di lusso e alle agenzie di viaggio. Stomaci, clienti attirati dal piatto del giorno e

dal bicchiere di vino ordinario. Esseri che conoscono il loro avvenire, perché non ne hanno. Robot sfruttati e schedati, rispettosi delle leggi più per paura che per onestà morale. Dei sottomessi, dei vinti, degli schiavi della sveglia. Ne facevo parte per obbligo, ma mi sentivo estraneo a quella gente. Non accettavo. Non volevo che la mia vita fosse regolata in partenza o decisa da altri. Se alle sei del mattino avevo voglia di fare all'amore, volevo prendermi il tempo di farlo senza guardare l'orologio. Volevo vivere senza orari, ritenendo che la prima schiavitù dell'uomo è comparsa nel momento in cui si è messo a calcolare il tempo. Mi risuonavano in testa tutte le frasi abituali della vita corrente... Non ho il tempo di...! Arrivare in tempo...! Guadagnare tempo...! Perdere il proprio tempo...! Io volevo «avere il tempo di vivere» e l'unico modo per riuscirci era di non esserne schiavo. Ero conscio dell'irrazionalità della mia teoria, che era inapplicabile nella società. Ma che cos'era, poi, questa società, con i suoi bei principi e le sue leggi? A vent'anni, mi aveva mandato a fare la sua guerra in nome delle libertà, dimenticandosi solamente di dirmi che la mia azione intralciava quella degli altri. In nome di che cosa mi aveva dato il diritto di uccidere degli uomini che non conoscevo neppure e che in altre circostanze avrebbero potuto diventare miei amici? Questa società mi aveva usato come una pedina, approfittando della mia giovane età e della mia inesperienza. Aveva solamente creato un falso ideale in nome dell'«onore della patria»... Si era servita della mia violenza interiore e l'aveva sfruttata per fare di me un bravo soldato, un bravo assassino. Io la vedevo, questa società, indifferente alla morte dei ragazzi che si facevano uccidere in nome della patria. Quella si rimpinzava, ruttava, scopava e dormiva bella tranquilla. La sua guerra era lontana, se ne fregava fintanto che non ne avvertiva troppo le ripercussioni. Che un uomo muoia per difendere la sua patria dall'invasore, potevo ammetterlo, ma che un governo lasci crepare la sua gioventù per una guerra coloniale, pur essendo conscia dell'inutilità del sacrificio, questo non riuscivo ad accettarlo e il pensiero stesso mi era diventato insopportabile. La società mi aveva fatto fesso facendomi rischiare la pelle per una causa fasulla. Mi aveva restituito alla vita civile senza preoccuparsi delle conseguenze che questa guerra aveva lasciato nella mia psiche. L'avrei dunque attaccata per farle pagare il prezzo di quello che aveva distrutto in me. Sapevo che rifiutare le sue leggi, rifiutare di seguire il gregge, mi sarebbe prima o poi costato molto caro. Eppure, freddamente, conoscendo tutti i rischi che mi poteva dare una vita ai margini della società, accettai in anticipo di pagarne il prezzo. Mi suicidavo socialmente. La mia idea della felicità era forse falsa. Ignoravo il fatto che l'uomo che guadagna poco è felice di aver guadagnato quel poco con il suo lavoro; che non è necessario avere soldi per essere ricchi; che il fatto di non avere tempo rende ancora più interessante la vita quando si può assaporare un momento di pausa; che creare una famiglia e veder crescere i figli che si sono messi al mondo è la base di una vera e sana felicità; che l'eroismo sta proprio nell'affrontare la vita e i suoi problemi. Tutto questo non lo sentivo. Sapevo che con il mio lavoro sarei rimasto sempre un mediocre, un anonimo. Non credevo più

nell'amore perché ne avevo assaggiato il frutto troppo presto; lo avevo colto prima che fosse maturo e mi era restato il suo gusto amaro. Forse stavo cercando un buon numero di giustificazioni per motivare quello che stavo per fare. In realtà, ero un disadattato sociale, un po' fannullone, giocatore, bevitore, amante del rischio e delle ragazze, un essere attratto dalla vita notturna, dai bar loschi e dalle puttane. Volevo tutto, ma rifiutavo il lavoro come una malattia vergognosa. Per tutta la mia giovinezza ero stato condizionato dai film polizieschi che avevo visto. Sono sicuro che se a quell'epoca mi avessero chiesto: «Che cosa vuoi fare da grande?» avrei risposto: «Il bandito», così come altri avrebbero risposto il pompiere, l'avvocato o il dottore. Sì, a 23 anni stavo per fare del crimine una professione. Lo sapevo, perché lo avevo deciso. E fu sulla strada per andare dai miei amici che la decisione mi parve irremovibile. Quella determinazione mi avrebbe portato in alto e avrebbe fatto di me il «pericolo pubblico numero uno» di due paesi: Francia e Canada. Sarei diventato un killer. Uno di quei criminali efferati che uccidono a sangue freddo un essere in carne e ossa, senza provare il minimo senso di colpa. Avrei ucciso per ragioni d'onore, d'interesse o, più semplicemente, per difendere la mia vita. E, anche se la mia arma non ha mai ucciso un innocente, avevo forse il diritto di decidere chi doveva vivere o morire? L'unico crimine che non mi sono mai perdonato è quello dell'uccellino dai riflessi blu, che avevo abbattuto nel nostro giardino a tredici anni. Perché lo avevo ucciso per stupidità, lui che non aveva altra colpa che di cullarmi con il suo canto. E' il solo rimorso che io abbia mai conosciuto, per quanto abominevole ciò possa sembrare.

Salendo le scale che mi portavano alla stanza dei miei amici, ero ben lontano dall'immaginare dove mi avrebbe condotto la mia prima impresa. Se l'avessi saputo avrei fatto dietrofront per salvarmi da me stesso? Onestamente non lo credo. Non avevo le doti morali per ammettere il mio errore. Non potevo barare con me stesso, mi conoscevo; la sola cosa che ignoravo erano i miei limiti. L'avvenire mi avrebbe provato che non ne avevo. La porta si aprì al suono del campanello. - Salve, artisti! - dissi. - Oh! Jacques! Qual buon vento ti porta? - Ho fatto le valigie da casa dei miei. Ne avevo le palle piene. Vengo a

vivere da voi, se mi fate posto. - Certo che sì! Qui sei a casa tua. Fu davanti a una bottiglia di cognac che Paul, Jean-Pierre e io passammo buona parte della notte a sputare sulla società, rifare il mondo e tutto il resto. Spiegai loro che per me con il lavoro era finita, che io saltavo il fosso. Paul era disoccupato. Era d'accordo a seguirmi, non avendo più senso morale di me. Non fu difficile da convincere. In più, mi avrebbe seguito all'inferno se glielo avessi chiesto. Jean-Pierre invece era recalcitrante: - Sai, io non ce la faccio, avrei troppa paura di farmi prendere. Ma voi due fate quel che volete. Tu qui sei a casa tua, fino a che non mi chiedi di nascondere tre cadaveri sotto il letto. Guardai bene Paul negli occhi. - Allora, tu ci stai? Bene, viva la malavita, allora! Cominciamo domani pomeriggio, se vuoi. Sono al verde e non vedo l'ora di riempirmi le tasche. - D'accordo! Ne ho bisogno quanto te. Ma una cosa, Jacques, niente armi sul lavoro, è la mia unica condizione. - E anche il mio parere. Non c'è bisogno di una pistola per svuotare un appartamento. Su questa decisione andammo a dormire. Fui svegliato da Jean-Pierre che andava al lavoro. Mi propose un caffè. - Non pensi sia stupido andare a lavorare per guadagnare una miseria? Non hai cambiato idea? - gli chiesi. - No, vecchio mio. Tu sei libero di seguire la tua strada, ma io non ti seguo. E poi, chi vi porterà i pacchi quando sarete in prigione? - disse sorridendo. Con Paul comprammo due grimaldelli e un grosso cacciavite. Mangiammo in una trattoria esagerando un po' con l'alcol, forse per rilassarci. Il primo furto con scasso è un po' come la prima donna, si sa cosa fare, ma non si sa se lo si farà bene. Avevamo deciso di colpire a caso, scegliendo i quartieri «bene» di Parigi. Eravamo vestiti con molta eleganza e niente nel nostro aspetto poteva lasciare sospettare le nostre intenzioni. Avevo spinto la messinscena fino a comperare, da un fioraio, un enorme mazzo di fiori. Se ci avessero sorpreso

sulle scale di un palazzo, avremmo potuto facilmente far credere di avere un buon motivo per trovarci lì. Consideravamo i portinai come i nostri principali nemici. Avevo diversi indirizzi e i relativi numeri di telefono. Se nessuno rispondeva alla mia telefonata, era sufficiente salire, trovare la porta e far saltare la serratura. La nostra scelta cadde su un macellaio. Non poteva essere contemporaneamente a casa e in negozio. Nessuno rispose al telefono. Ci dirigemmo verso il palazzo, passammo senza difficoltà davanti alla portinaia. Non ci vide neanche salire. Paul ed io eravamo rilassati; per il momento non avevamo paura. - Senti, nasconditi; vado a bussare a qualcuno a caso per sapere a che piano abita il nostro cliente. Mi rispose una vecchia. Ma sì, certo, avevo sbagliato piano! Il signor Morel, il macellaio, stava al quarto, la porta a sinistra. Dopo essermi scusato e aver ringraziato, con quell'informazione raggiunsi con Paul il quarto piano. L'orecchio incollato alla porta, non udii alcun rumore. Il pianerottolo aveva due porte. Decidemmo di suonare a quella di fronte al macellaio. Ci sentivamo incapaci di scassinare una porta se i vicini erano in casa. Nessuna risposta. Lo stesso per il macellaio. Niente, il silenzio più completo. - Andiamo, ragazzo, al lavoro, passami il grimaldello! La porta, grazie alla pressione esercitata, non resistette a lungo. Ma il rumore che fece aprendosi sembrò dover svegliare l'intero stabile. Dopo un istante d'attesa in cui il nostro cuore batté all'impazzata, non registrammo alcuna reazione dai piani vicini. Entrando nell'appartamento capimmo che, per il nostro primo colpo, avevamo mirato in alto. Il caso aveva giocato a nostro favore. Esaltati dal nostro successo, frugammo e svuotammo tutte le stanze senza alcuna precauzione per il rumore che facevamo. Non avevo potuto trattenere un «merda!» di sorpresa scoprendo diverse mazzette di banconote e dei gioielli di valore nel cassetto del comodino di una delle camere. Paul, da parte sua, aveva fatto man bassa di diversi oggetti che aveva ammassato in una valigia trovata sul posto. Eravamo rimasti una buona mezz'ora a controllare tutto. Non potevamo portare via ogni cosa. - Bene, andiamocene! Il raccolto è stato buono! Tu scendi per primo con la valigia e il mazzo di fiori. Io ti seguo di qualche passo. Se la custode ti ferma, rispondi che eri venuto a trovare tuo cugino il macellaio e che ritornerai più tardi, visto che non c'è nessuno. Ti prenderà per qualcuno

della famiglia. - Pensa se mi chiede di lasciare lì la valigia! - disse Paul ridendo. - Su, ragazzo, andiamo. Tutto andò perfettamente. Ritornati a casa, facemmo l'inventario del bottino. Per essere un colpo di prova, la fortuna ci aveva arriso. Avevamo preso più di due milioni di vecchi franchi (4000 dollari), oltre a gioielli, diverse monete d'oro e alcune statuette, senza contare vari soprammobili di cui ignoravamo il valore. Paul, con gli occhi brillanti di soddisfazione, non poté trattenere la sua gioia. - Guarda quanti soldi! Ti rendi conto che ce n'è più di quanto potrei guadagnare in tre anni di lavoro? - E ci sono voluti trenta minuti perché tutto fosse nostro - dissi. - Vedi che avevo ragione. Questa è la soluzione. Basta osare. Noi abbiamo osato e siamo stati ricompensati. Bene, facciamo le parti. Per i gioielli e le cianfrusaglie cercheremo un ricettatore. Venuta la sera, Jean-Pierre fu il primo a rimpiangere di non averci seguiti. Decidemmo di festeggiare il nostro successo e ci dirigemmo verso un buon ristorante. Mentre i miei amici finivano di cenare, con un bicchiere di cognac Napoléon in una mano e un sigaro presidenziale nell'altra, telefonai a Sarah. - Pronto, sei tu, bellezza? - Chi parla? - Chi vuoi che sia... Il tuo eroe, bambina bella - dissi scoppiando a ridere. Stasera offro io e tu non lavori! Arrivo con due amici. Fa' mettere lo champagne al fresco. - Jacques, caro... Ma che hai? Hai bevuto? - Sì, tesoro! Festeggio il mio compleanno e mi ubriacherò in tua compagnia... e dopo ti farò subire l'ultimo oltraggio... - Sì, senza dubbio sei pazzo, caro mio! E poi non è il tuo compleanno.

- Sì, cara! Oggi compio un giorno, perché sono nato oggi e... - Sei completamente sbronzo. Va bene, vieni al bar, ti aspetto. Andammo tutti e tre. Le ragazze ci accolsero allegramente e si accaparrarono i miei due amici; Sarah si sedette con me a un tavolo un po' in disparte. Ordinai lo champagne per noi due. I miei amici avevano fatto la stessa cosa al bar e sembrava si divertissero. Sarah mi guardava stupita; sapeva che non avevo i mezzi per permettermi dei lussi, mi aveva sempre visto al verde. - Hai vinto la lotteria o hai ricevuto un'eredità? - ironizzò. - Molto meglio, piccola. Sono andato a cercarlo, il primo premio. Sul momento fece finta di non capire, poi scosse la testa con un'aria maliziosa e un mezzo sorriso sulle labbra. - Non hai mica fatto quel che penso? Poi, guardandomi: - Ma sì, l'hai fatto davvero! - Eh sì, tesoro. Ho svaligiato il mio primo appartamento borghese e mi è piaciuto. Stasera passiamo la notte insieme... Sarai il mio riposo del guerriero - dissi scoppiando a ridere. I miei amici, da parte loro, sembravano divertirsi. Con un cenno li invitai a raggiungerci. Le presentazioni furono inutili, le due ragazze mi conoscevano perché mi avevano già visto con Sarah. Passammo tre ore buone a bere, con grande soddisfazione del padrone che, malgrado tutto, cominciava a preoccuparsi per il conto. Gli tornò il sorriso quando mi vide pagare senza battere ciglio. Sarah ed io lasciammo il bar. Arrivati nella nostra camera d'albergo, mi saltò al collo; le sue labbra si unirono alle mie in un bacio focoso che non le conoscevo. - Grazie caro, per aver pensato a me la tua prima serata da canaglia. Conto dunque qualcosa per te? - Ti voglio bene e tu sei sempre stata gentile con me. E poi questa sera era

importante averti con me, tutto qui. Facemmo l'amore e Sarah, che era di tutti, fu realmente mia quella notte. Sentivo che mi si era data come una donna innamorata e non come una puttana. Con il corpo sudato e placato, la testa sulla mia spalla, mi disse: - Sai che ti amo, caro? E' straordinario: sette anni fa, un pivello che voleva fare il duro si offriva la sua prima puttana e oggi la stessa persona, diventata un uomo e un vero duro, è ancora nel mio letto... Perché, Jacques? - Non sono nel tuo letto, bella, sei tu che sei nel mio - le dissi rivolgendole un sorriso canzonatorio. - Non scherzare, ascoltami! Tu sai che il mio uomo è in prigione da due anni. Tra me e lui non funzionava più molto bene, ma lo aiuto mandandogli dei vaglia. Se vuoi, posso essere libera. Pagherò il mio riscatto e lavorerò per te. Non avrai bisogno di rischiare per procurarti dei soldi, io guadagno bene. Vieni a vivere con me, tesoro. Non voglio che tu finisca in galera ed è ciò che succederà se continui. Il suo invito mi colpì come un insulto. - Per chi mi hai preso? Per un magnaccia? Tu ti faresti scopare e io dovrei solo tendere la mano per incassare i soldi che guadagni col culo? Non vivo all'ospizio, Sarah. Ti voglio bene, lo sai. Tu sei mia amica. Ma mai accetterei denaro da una donna. Puoi ridere se vuoi, ma sono abbastanza grande per procurarmi i soldi senza l'aiuto di nessuno. Gli sfruttatori mi fanno vomitare... Non me ne parlare mai più, perché per me tu sei un'amica, una compagna. Mi piace fare l'amore con te. Me ne fotto del tuo lavoro, nella misura in cui tu hai la tua vita e io la mia. Ti voglio bene, ma non è certo amore e tu lo sai. Lei aveva le lacrime agli occhi e ciò mi rattristava. - Non piangere, piccola; sono sincero, non me lo rimproverare. Se vuoi andiamo qualche giorno sulla Costa Azzurra, ma per il resto lascia da parte i tuoi progetti, OK? Si rimangiò le sue lacrime. - Hai ragione. Sono una stupida. Scusami, non volevo farti arrabbiare. Mi perdoni?

- Non c'è niente da perdonare, Sarah. Stiamo bene così, niente deve cambiare. Ho intenzione di fare molti soldi e se un giorno dovrò finire in prigione me ne fotto. Dai, vieni ... dimentichiamo tutto. Lei mi si strinse contro. Sotto l'apparenza della donna sicura di sé, la sentivo fragile. Ci gettammo in un turbine di piacere fino al mattino. Passammo qualche giorno in riva al mare. L'avevo portata al casinò e vi avevo perso una grossa somma di denaro, ma poco importava. Da quel giorno, i problemi di soldi non avevano più alcuna importanza. Di ritorno a Parigi, mi ringraziò di tutto e se ne andò dicendomi tristemente: «A presto, tesoro.» Ognuno doveva seguire la sua strada e lei lo sapeva bene. I nostri percorsi si potevano incrociare, ma era impossibile procedere insieme.

Rientrato a casa, Paul fu felice di rivedermi. - Allora, te la passi bene. Forse dovremmo pensare al lavoro, che ne dici? - Cosa credi! Non penso ad altro. E poi, i soldi finiscono in fretta. In questi giorni ci rimettiamo al lavoro, d'accordo? Lui approvò. Per più di sei mesi rastrellammo gli appartamenti parigini, scassinando le porte in una maniera così naturale che eravamo arrivati a non prendere più nessuna precauzione. Ci eravamo comprati del buon materiale, perché prevedevamo di salire nella gerarchia attaccando delle casseforti. Durante le nostre spedizioni, avevamo raccolto un buon numero di gioielli e oggetti vari. Il nostro appartamento assomigliava alla grotta di Ali Babà. Avevamo trovato diverse armi da fuoco, dalle pistole ai fucili da caccia. Avevo affittato un bell'appartamento dove vivevo solo. Non avevo comprato un'auto, preferivo affittarla. Ero convinto che la mia agiatezza sarebbe stata una rivincita nei confronti dei miei genitori. Al volante di una superba Impala e in galante compagnia, mio padre mi vide arrivare una domenica nella sua casa di campagna. Ne fu sorpreso, perché da più di sei mesi non avevano mie notizie. Non parlammo del nostro ultimo litigio. Ma, per nulla impressionato dal mio aspetto da nuovo ricco, mi prese da parte per parlarmi. - Vedo che gli affari ti vanno bene. Non è necessario che mi spieghi. Ho capito. Non era certo il caso di metterlo al corrente, per cui mi accontentai di

rassicurarlo: - Ma no, papà, non hai capito. Ciò che faccio non è molto legale. Traffico un po' con la Svizzera, nulla di grave, ma rende. - Ah! Bene - disse sollevato - credevo che... perché da te mi aspetto di tutto. - Eh, non devi mica credere... Faccio soldi, ma senza fare niente di male. OK? Forse mi credette, forse preferì far finta di credermi, per non essere obbligato a proibirmi di entrare in casa sua, cosa che avrebbe fatto se avesse conosciuto la mia vera attività. Lasciandolo mi sentii bene. Mi consideravo un tipo importante. In fin dei conti non ero che un piccolo ladro d'appartamenti che aveva avuto fortuna. Questa rischiava di finire, ma per il momento, con le tasche piene di soldi e due graziose ragazze al mio fianco, mi sentivo un po' come Al Capone. Non avrei tardato ad affrontare le dure regole del gioco; la mia reazione sarebbe stata violenta e senza pietà. Credevo alla parola data, all'amicizia assoluta, a certi principi, all'onore della malavita. La realtà era un'altra: ero alla scuola del vizio, dell'imbroglio e delle carognate. Per diventare vecchi bisogna colpire per primi. Questa regola sarebbe divenuta la mia e avrebbe fatto di me un uomo dalle reazioni imprevedibili. Non vedevo Sarah da molto tempo. Frequentavo un piccolo bar di balordi in Rue Montagne-Sainte-Geneviève. Vi passavo le notti a giocare a poker, le partite erano accanite. Avevo preso l'abitudine di uscire armato della mia calibro 45. Presso le donne che frequentavano il bar cominciavo ad avere un certo prestigio. Alcune erano studentesse squattrinate che si offrivano per un cappuccino o molto più semplicemente per un letto caldo e un po' d'affetto. In quel locale losco e fumoso mi sentivo nel mio ambiente naturale. Incontrai dei tipi che come me erano del giro. Con alcuni feci anche dei colpi. Eravamo diventati una banda di una decina di individui capaci di darsi una mano se ce n'era bisogno. Avevo come amico un vecchio pregiudicato che aveva passato in prigione buona parte della sua vita. Gli parlavo sempre con una certa deferenza. Da Jacques, ero diventato «signor Jacques», e questa sfumatura mi lusingava un po'. La padrona del bar, una ex tenutaria di bordello, mi parlava sempre con un certo rispetto nella voce. In diverse occasioni ero intervenuto nelle risse per difendere i suoi interessi. Me ne era riconoscente. Il suo letto mi era sicuramente aperto, perché viveva sola. Ma, anche mezzo sbronzo, ero sempre rimasto abbastanza cosciente da non fare da coperta a quei 110 chili di grasso vischioso. Vistosamente truccata, laida nel suo incedere da pachiderma, mi ero divertito a immaginarla stesa sul dorso, le gambe aperte, con i seni flaccidi

ed enormi che pendevano di lato come bandiere a mezz'asta. Anche affamato, mi ci sarebbe voluto un grande appetito per farmi un tale pasto. Invece certe ragazzine non esitavano a dividerne il letto in cambio di qualche banconota. Per contro aveva il cuore grande come una casa. Tutti le volevano molto bene. Guai se qualcuno le avesse fatto il minimo torto. Chi aveva cercato di crearle problemi, aveva sempre dovuto fare i conti con me, sicché per «mamma Lulù» io ero sacro. Una sera decisi di fare una visitina a Sarah. Quel gesto avrebbe avuto conseguenze molto gravi per me. Sarebbe stato alla base del mio primo regolamento di conti. Avrei scoperto di avere un naturale istinto da killer. Vivendo in una giungla, mi sarei comportato da belva. Non sapevo ancora di essere capace di certe cose, eppure mi comportai come un vero professionista. Fui molto sorpreso d'apprendere che Sarah non lavorava più nel bar dove avevo l'abitudine d'incontrarla. Ne fui contrariato. E' vero che era molto che non le telefonavo. Le sue amiche m'indicarono il suo recapito. Suzon, che era l'amica del cuore di Sarah, mi disse solamente di fare attenzione. Quando le chiesi perché avrei dovuto fare attenzione, non rispose. Capii che il suo magnaccia doveva essere uscito di prigione. Forse era al corrente della mia storia con Sarah. Poco importava la sua reazione. Se non era contento, avevo intenzione d'affrontarlo. Fu dunque con rabbia che entrai nel bar. Paul era con me, ma non era armato. Non ero ancora riuscito a fargli accettare che le armi, nel nostro mestiere, erano una cosa normale. Entrammo. Le luci erano soffuse, all'interno una decina di tavoli intorno a una minuscola pista da ballo. C'era poca gente. Qualche ragazza appoggiata al bancone, ma non vidi Sarah. Mi rivolsi al barista: - Salve! Sarah c'è? - Non al momento, signore. Sta lavorando, ma non tarderà. Volete bere qualcosa, mentre l'aspettate? Paul e io ordinammo due whisky. Tre uomini erano seduti a un tavolo in fondo alla sala. Sentendo pronunciare il nome di Sarah, uno di loro aveva chiamato una delle ragazze che era andata discretamente a parlargli. L'uomo era sulla quarantina, ben vestito, abbronzato. Non gli avevo fatto particolarmente caso. Fece segno alla ragazza di raggiungerci al bancone. Lei mi si avvicinò. - Buonasera, ragazzi. Mi chiamo Cathy, mi offrite un bicchiere, carini? La ragazza non mi piaceva. Era volgare e priva di classe; ci aveva abbordati

come se fossimo dei puttanieri. Non so perché le risposi duramente. Forse ero contrariato per non aver saputo che Sarah aveva cambiato locale, o più semplicemente perché non c'era. - No! Aspetto qualcuno. - Può darsi che il tuo amico voglia offrirmelo lui un bicchiere. - Vattene. Non vedi che anche per lui è no? Furiosa di essere stata respinta, si girò verso il barista: - Sono proprio stronzi, 'sti tipi! La mia mano partì fulminea. Uno schiaffone la fece barcollare. Sorpresa e sbalordita dalla mia reazione, rimase senza parole. Per contro uno dei tre uomini si era alzato e mi si avvicinava. Era il quarantenne. Puzzava di magnaccia. Mi accorsi che era arabo. Mi disse con tono acceso: - Ehi! Qui non fai così. Minaccioso, s'avvicinò un po' troppo. Mal gliene incolse. Con un gesto rapido avevo sfoderato la mia calibro 45 e l'avevo colpito in faccia con il calcio dell'arma. Crollò sanguinante ai miei piedi. I suoi amici fecero il gesto d'intervenire. Puntai l'arma nella loro direzione, con aria cattiva. - Il gioco è finito. Se uno di voi alza il culo, o prova solo a muovere un dito, gli sparo. Forza! Tutti con le mani sul tavolo e niente scherzi, se no tiro nel mucchio. Ero scatenato. Paul aveva fatto segno al barista di non muoversi. Le ragazze mi guardavano senza ben capire che cosa succedesse. Dovevo avere un'aria terribile, perché nessuno osava muoversi. Lo sfruttatore era sempre a terra, con la camicia rossa di sangue, che gli colava da un'ampia ferita allo zigomo sinistro. Neppure lui osava muoversi. Si chiedeva che cosa avesse potuto scatenare una simile reazione da parte mia. Nei suoi occhi leggevo la paura. La mia calibro 45 con il buco nero della sua canna pronta a sputare morte era un solido argomento. Provavo un malsano piacere a sentire la sua paura. E fu con voce dura che gli chiesi: - Allora, topo di fogna, ne vuoi ancora? In quel momento, la porta del bar s'apri. Sarah vide Paul, poi me, infine tutta la scena. Lanciò un grido, che era una preghiera soffocata

dall'emozione. - Jacques! No, questo no! Forse pensava che stessi per sparare nel mucchio. Si avvicinò e vide l'uomo a terra. - Ah! Non posso crederci! Da parte mia, non avevo allentato l'attenzione. Mi sentivo in piena forma. Un vero combattente sul ring. Lei si girò verso di me con aria furiosa. Non l'avevo mai vista così. - Tu sei pazzo. Guarda cosa hai fatto... Oh! Dio mio, ma... Le risposi ironico: - Salve, bambina. Vedi, sto mangiando un pappone: è al sangue! L'uomo a terra tentò di rialzarsi. - Tu, topo di fogna, non ti muovere... Sarah, scandalizzata, esplose in una collera verbale: - Ma è Ahmed! Hai colpito il mio Ahmed... Guarda cos'hai fatto! Cosa? Avevo sentito bene? Quel tipo a terra era il suo magnaccia. Un arabo sfruttatore della mia Sarah. E' vero che non le avevo mai posto la domanda. La rabbia che provavo doveva leggersi nei miei occhi, perché Sarah aveva l'aria terrorizzata. Avevo una voglia pazza di usarlo come bersaglio. - Vuoi dire che questo mucchio di merda è il tuo esattore? E in più, dai la tua passerina a un topo di fogna... a un figlio di cagna araba. Mi fai schifo... I miei occhi lanciavano lampi d'odio. Lessi la paura in quelli di Sarah. Timidamente, mi disse: - Ti supplico, Jacques, vattene, lascialo stare. - Sì, me ne vado; e voi, banda di finocchi, se fate un solo gesto v'ammazzo.

Poi, guardando Ahmed che era sempre a terra: - Non ti preoccupare, piccolino, la signora giocherà all'infermiera. Il mio sguardo incrociò quello di Sarah, lei piangeva. Guardando tutt'intorno, gridai con voce dura: - Appuntamento quando volete e dove volete. Poi lasciai andare il mio piede destro in pieno sulla faccia di Ahmed che, sorpreso, non ebbe il tempo di parare il colpo. Questa volta era al tappeto per K.O. Sarah aveva appena lanciato un gridolino di dolore, senza reagire. Avevo ucciso qualcosa in lei. Paul ed io lasciammo il bar guadagnando l'uscita sul retro. Arrivati fuori, sparimmo nelle viuzze vicine per raggiungere la nostra vettura. Paul era molto contento della serata. - Non ci sei certo andato leggero. Mi domando cosa ti abbia preso! - Non so! Mi è venuto così, un riflesso, insomma! - Ebbene, vecchio mio, bisognerà fare attenzione, perché non finirà certo così. Hai visto la reazione di Sarah? Eppure le vuoi bene alla ragazzina! - Sì, ma capisci? Fa la puttana per un arabo! Non lo sapevo. Rientrati nel mio appartamento, Paul decise di passare la notte da me. Al mattino facemmo il punto della situazione. Da Ahmed mi potevo attendere una reazione violenta. Era obbligato a reagire, se non voleva perdere la faccia. Paul decise d'armarsi anche lui, perché eravamo in guerra. Riunii altri due amici, Guido il siciliano e Jacky, un ragazzo serio con il quale avevo già lavorato. Guido mi fece comprendere la gravità del mio gesto del giorno prima. Una sola soluzione era possibile: attaccare per primi. Tutti e due erano d'accordo a spalleggiarmi in caso di bisogno. - Il meglio che puoi fare è informarti sulle sue abitudini. Dopo lo beccheremo e regoleremo i conti. Ciò che puoi fare è chiamare Suzon, l'amica di Sarah. Così potremo sapere come stanno le cose, forse. Bisognò attendere la sera, perché avevo solo il numero del bar per contattarla. Verso le 22 riuscii a telefonarle. Mi disse che si era sparsa voce

della mia reazione della sera prima. Ci si domandava chi io fossi. Quanto ad Ahmed, dovevo fare attenzione: era un duro, ma aveva pochi amici, visto che in affari non era dei più regolari. Sì, mi cercava e aveva giurato di farmi la pelle. Quando le chiesi di Sarah, la sua voce si spezzò. Sì, l'aveva vista. Ma... - Ma cosa, Suzon? - Ascolta, Jacques. Ahmed si è vendicato su di lei. Credeva che lei conoscesse il tuo indirizzo. Allora l'ha colpita... e colpita ancora! E' in uno stato pietoso. Se tu la vedessi, è terribile... L'ha segnata dappertutto. - Voglio vederla, Suzon! Bisogna che la veda, te ne supplico, vedi di organizzarmi la cosa. Bisogna che le spieghi di ieri sera. Suzon mi promise di fare il necessario e di prendere tutte le precauzioni del caso. Informazioni su Ahmed? Sì, me ne avrebbe date. Non le era mai piaciuto, quel tipo. L'indomani, verso le dieci del mattino, nell'alloggio di un'amica di Suzon, rividi Sarah. Avevamo preso le nostre precauzioni, non avendo voglia di cadere in un'imboscata, e ciò nonostante la fiducia che riponevo in Suzon. Guido e Paul erano con me. Tutti e tre eravamo armati. Lo spettacolo che vidi era sconvolgente. Sarah aveva il viso tumefatto, le labbra spaccate e gonfie e gli occhi erano nello stesso stato. Si gettò piangendo tra le mie braccia. La rabbia che mi aveva invaso il cuore davanti al massacro che il suo viso aveva subito era mortifera. Non avevo mai visto una donna in quello stato. Avrei avuto la pelle di quel porco di Ahmed. Ma lo volevo prendere vivo, per fargli pagare tutto prima di ucciderlo. Sarah mi spiegò tutto: la sua finta collera verso di me e Ahmed scatenato e furioso che si vendica su di lei per lavare l'affronto subìto in pubblico. - Ha giurato di farti la pelle, Jacques. Fai attenzione, è una schifezza d'uomo e ha già ucciso. Un sorriso si formò sulle mie labbra. Io non dovevo giurare niente, perché ero certo di prenderlo per primo. Stabilimmo di portare Sarah a casa di amici. Poi avremmo deciso che cosa fare. - Che farai? - mi chiese timidamente. - L'unica cosa che c'è da fare! Scusami per ieri, non avevo il diritto di

giudicarti. Una volta regolata la questione, non ci vedremo più, Sarah. Ci salutiamo qui, è meglio per tutti e due, perché gli sbirri rischiano di metterci il naso il giorno che Ahmed raggiungerà l'inferno dei papponi. Lei non rispose, ma si rannicchiò tra le mie braccia. Sapeva che uno dei due sarebbe morto. Dalla sua reazione si capiva che sperava fosse Ahmed. Il viso mi si era indurito, i miei lineamenti erano scavati dall'odio che albergavo. La mia mano le accarezzò i capelli, la stessa mano che avrebbe ucciso colui che aveva osato massacrare il bel viso della mia puttanella. Progettavo freddamente quell'omicidio, senza alcuna emozione, ben sapendo che mi sarebbe potuto costare l'ergastolo, se non addirittura la morte, se mi avessero preso. - Sistemerò tutto per te. Non temere. Quel figlio di cane non alzerà mai più le mani su di te, farò quel che serve. Di ritorno a casa, ci mettemmo d'accordo con Guido sul piano che avevo in mente. Non volevo lasciare alcuna traccia della morte di Ahmed. Ci dirigemmo quindi verso la proprietà dei miei genitori. Durante la settimana non c'era nessuno. Sapevo dov'erano le chiavi. Una volta arrivati sul posto, presi un piccone e una pala e anche una decina di sacchi di iuta che erano nel magazzino delle patate. Con tutto il materiale ci avviammo verso il bosco, che si trovava proprio dietro la proprietà dei miei. Ci avevo passeggiato a lungo da ragazzo e ne conoscevo gli angoli più reconditi e in autunno era frequentato solo da qualche cacciatore. Con tutto il materiale arrivammo al luogo che avevo scelto per scavare una fossa destinata ad Ahmed. Guido mi osservava sorridendo: - Il meno che si possa dire è che sei previdente. Asportai lo strato superficiale del terreno e lo riposi in un sacco. Poi misi in un altro sacco il primo strato di terra, spesso una trentina di centimetri. Ci volle una buona ora per scavare una fossa che mi arrivasse alla cintola; quasi tutti i sacchi erano pieni. Avevo intenzione di portarmi via gli ultimi due, che corrispondevano al volume del corpo di Ahmed. Dopo averlo seppellito non volevo lasciare alcuna traccia; per questo avevo preso le precauzioni con i diversi strati di terra, che intendevo rimettere nell'ordine preciso per evitare che si notasse la differenza di colore. Dopo il mio passaggio la natura sarebbe rimasta intatta, con l'aggiunta di uno stronzo a concimare le radici degli arbusti. Dopo aver tagliato qualche ramo un po' più distante, misi i sacchi di terra nella fossa. Ricoprii il tutto con i rami. Non si vedeva assolutamente niente. Riprendemmo la strada per Parigi. I due sacchi di terra in più erano stati svuotati in un fossato lungo la

strada, molto lontano dal luogo dove avevo scavato. Guido non si trattenne dal dire: - In caso di guai non potrai certo sostenere che non c'è stata premeditazione! La sua grassa risata risuonò nell'auto. Guido era un vero duro. Molto più vecchio di me, non era certo al suo primo cadavere. Ci sarebbe voluto ben altro per commuoverlo. Arrivammo a Parigi verso le otto di sera. Paul ci accolse con aria soddisfatta: - Ho le informazioni che volevamo su Ahmed: marca dell'automobile, bar che frequenta regolarmente. Ho anche il nome e gli indirizzi dei suoi amici dell'altra sera. Niente di preoccupante. L'unico coriaceo, secondo alcuni, è Ahmed. Hai preso una decisione al riguardo? Il mio sguardo incrociò quello di Guido: - Gli ho anche preparato il letto! Non mi resta che rimboccargli le coperte. Paul mi guardò, sospettoso e un po' spaventato. - Ehi! Non vorrai mica... - Sì, lo ucciderò. Soprattutto per quello che ha fatto a Sarah. In ogni modo ti tengo fuori dalla storia. Non ho intenzione di coinvolgerti in un omicidio. Non abbiamo bisogno di te. Me la caverò con Guido. - Ma voglio aiutarti a incastrarlo, poi mi tiro fuori. - OK, ragazzo, se ci tieni; ci sarai d'aiuto. Verso mezzanotte partimmo per la caccia. Fu un gioco da ragazzi. Ahmed era proprio nel bar indicato. Guido entrò e individuò il tipo che gli avevo descritto. Siccome portava una benda sul viso non ebbe alcun dubbio. Prese qualcosa da bere, poi uscì e ci raggiunse. - Sì, è dentro che discute con un tipo che sembra essere il padrone del bar. Non sembra stare molto in guardia, ha appena sollevato la testa al mio

ingresso. Che facciamo se escono insieme? - Li seguiamo. Voglio Ahmed solo e vivo. Degli altri me ne fotto. Bisogna assolutamente che sia solo quando lo intercettiamo. Non dovemmo attendere a lungo. Ahmed uscì solo, senza molte precauzioni. Può darsi che, a quarant'anni, si sentisse al riparo da un giovane delinquente come me; o forse, accecato dalla sete di vendetta, aveva dimenticato che per mancanza di prudenza il cacciatore può diventare preda. Al momento di salire in macchina, si guardò rapidamente attorno. Dovette essere soddisfatto, perché partì tranquillamente. Da parte mia, avevo il cuore stretto in una morsa d'odio e dovetti trattenermi dal correre verso la sua macchina e scaricargli il revolver nel ventre. Lo seguimmo. Avevamo due auto. Io ero con Paul, Guido con Jacky. Ci eravamo messi d'accordo sul modo di agire. Se avesse imboccato una strada poco frequentata lo avremmo bloccato. Altrimenti avremmo atteso che tornasse a casa. La macchina guidata da Jacky lo seguiva. Io mi tenevo a una trentina di metri di distanza. Prese la direzione di Place Clichy; poi, dopo diverse manovre, s'infilò in una stradina. Paul, a un mio cenno, diede un colpo di fari a Jacky. Ciò voleva dire «adesso, chiudilo». Tutto accadde in pochi secondi. Sorpreso dalla macchina che lo aveva superato e gli bloccava il passaggio, Ahmed non si era neanche girato. Balzai fuori dalla macchina. Quando voltò la testa e capì, vide una 45 puntata su di lui. Aprii la sua portiera. Era livido. - Salve, pappone! Fa il bravo, piccolino... Dobbiamo solo parlare, quindi non fare movimenti bruschi. Guido mi aveva raggiunto ed era già salito sulla macchina, piazzandosi sul sedile posteriore. Anche lui aveva l'arma in mano. Mi rivolsi ad Ahmed: - Spostati, prendo io il volante. E ti do un consiglio: sta tranquillo. Non ti vogliamo fare del male. Si tratta di Sarah. Voglio risolvere la faccenda con te. Andrà tutto bene, se non fai lo stupido. Sapevo che l'unica cosa che non bisogna mai dire a un uomo braccato è che si ha intenzione di ucciderlo, perché a quel punto rischierà il tutto per tutto. Lasciandogli una speranza, si neutralizza il suo istinto di autodifesa. A meno che non si abbia a che fare con un vero professionista. Ahmed non lo era. - Che cosa vuoi da me? Non ho fatto niente! Dove vuoi portarmi? - mi disse. - Dove deciderò che devi andare. Siamo noi a tenere le redini, non credi? Il mio amico ti ammanetterà dietro la schiena e ti perquisirà. Una volta

arrivati ti libero. Ma se fai l'eroe t'uccido; sarebbe stupido visto che voglio sistemare le cose con te. Non voglio darti alcuna possibilità prima di trovare un accordo, perché so che sei coriaceo e vendicativo. La mia osservazione mi fece sorridere, perché quanto a rancore si sarebbe presto reso conto del mio. Ci lasciò fare. Mi aveva creduto o era così vigliacco da andare al macello senza reagire? Ahmed si era sporto in avanti. Guido gli aveva messo le manette e tolto la pistola 7,65 che portava alla cintura. L'arma non aveva neanche la pallottola in canna e questa negligenza mi fece capire che in fin dei conti avevo a che fare con un incapace, buono solo a massacrare una donna e a prenderle il denaro con la forza. Tutto si era svolto molto rapidamente. I miei amici rimasti nelle altre macchine mi fecero segno che la situazione era tranquilla. Nessuno aveva assistito alla scena. Non sarebbe cambiato niente, i nostri numeri di targa erano contraffatti. Partimmo in direzione dell'autostrada, io in mezzo alle altre due vetture. Avevo abbastanza benzina per percorrere i cento chilometri che ci separavano dalla proprietà. Ahmed cominciava a preoccuparsi. Con voce calma e rassicurante gli dissi: - Ascolta, ieri ho avuto torto. Ma io amo Sarah e sono disposto a riscattarla perché sia libera. Adesso andiamo da amici miei. Se sei d'accordo faranno da mediatori. - Allora perché mi tieni ammanettato? - Te l'ho detto. Non voglio correre rischi con te. Dentro di me ridevo da solo; era così ingenuo da credere che questo viaggio avesse un biglietto di ritorno? Volevo vedere fino a che punto era capace di arrivare. Certo non gli mancava la faccia tosta, perché mi chiese: - Quanto vorresti pagare? - Quel che deciderai - gli dissi. - Sai, Sarah rende bene; mi dispiace separarmene, è un'ottima fonte di guadagno e ci vogliamo bene. Morivo dalla voglia di prenderlo a pugni in faccia. Ma sapevo di dover

mantenere la calma e aspettare. - Farai tu il prezzo, Ahmed. Mi fido di te. - Se sei disposto a pagare, se ne può discutere. Stanno lontano i tuoi amici? - Un centinaio di chilometri. Ma non ti preoccupare; guarda, qui è tranquillo, se ti avessi voluto ammazzare, l'avrei fatto qui, perciò rilassati, ragazzo mio. Quando avrai i tuoi soldi, riprenderai la tua macchina e dimenticheremo questa storia. Parve credermi. - A proposito, come sta Sarah? Lo sentii esitare. - Bene, bene ... sta bene. Pensai: «Pezzo di merda, anche tu starai bene, fra poco!». Guido gli offrì una sigaretta e gliela accese. Ora ero certo che lui pensasse di cavarsela. Arrivammo in meno di un'ora. Visto che la proprietà era isolata, non c'era pericolo di disturbare i vicini. Aprii il cancello e le tre vetture entrarono. La faccia di Ahmed cambiò espressione. Aveva notato che non c'erano luci alle finestre. Con una voce angosciata disse: - Ma qui non c'è nessuno e... - Sì, idiota, ci siamo noi. Avanti, scendi, dobbiamo parlare seriamente della piccola e di quel che le hai fatto. Nel suo sguardo si leggeva la paura. Guido aveva impugnato l'arma e con violenza buttò fuori Ahmed dalla macchina. Entrammo in casa. Offrii da bere ai miei amici. Poi Paul e Jacky si prepararono a partire. Non volevano partecipare al seguito; eravamo d'accordo così. Mi lasciarono una macchina. Jacky prese quella di Ahmed per andare a buttarla in uno stagno che gli avevo indicato e che conosceva perché ci eravamo andati a pescare insieme. Sarebbe tornato con Paul e l'altra macchina una volta finito il lavoro. Quando furono ripartiti, chiusi tutte le porte e accesi la radio. Mentre guardavo la faccia stravolta di Ahmed avevo un sorriso crudele sulle labbra.

Sarebbe morto, ma prima avrebbe cantato. Fissandolo, gli dissi: - Ho visto Sarah. La pagherai cara, pezzo di merda. Avrebbe voluto rispondermi, ma ricevette un pugno in piena bocca e vacillò sulle gambe prima di cadere a terra. Guido aveva tirato fuori dalla tasca una corda e un manganello. Gli tirò un violento colpo in testa, ma dovette colpirlo altre due volte per fargli perdere conoscenza. Il sangue era colato sul pavimento. - Sporcherà - mi disse. - Lascia stare, puliremo dopo - dissi, sorridendo perfidamente. Spogliamolo. Quando si risvegliò, Ahmed era completamente nudo. Vestiti, documenti, ori, tutto era sul tavolo. Le manette erano state sostituite con la corda. Anche i piedi erano legati. Il freddo delle mattonelle lo faceva rabbrividire. Era irriconoscibile. Il panico si era impadronito di lui. Quel mucchio di letame aveva sfigurato Sarah e, in quel momento, aveva l'aspetto di un cane bastonato. Ero venuto con l'intenzione di torturarlo; adesso avevo un solo desiderio: fargli la pelle e andare a dormire. Guido lo fece alzare e lo osservò con aria divertita. - Come sei carino, così conciato! Gli diede due colpi di manganello nelle costole. Ahmed lanciò un grido di dolore. - Sei più duro con le donne, eh, schifoso? Ahmed non rispose. Gemeva come un animale ferito. Guido mi disse: - Se vuoi divertirti è tutto tuo. Guardai Ahmed, poi Guido. - Andiamo, portiamolo via. Non ho tempo da perdere con questa checca. Liberagli i piedi e mettiamoci in marcia.

Risalimmo il crinale che portava al bosco. Avevo portato la pila e il mio coltello a scatto italiano, che mi aveva accompagnato durante tutta la guerra d'Algeria: la lama misurava quindici centimetri e, con entrambi i lati taglienti come un rasoio, era un'arma temibile. Guido aveva preso una pala e aveva imbavagliato Ahmed. Lui non reagiva, come una pecora che va al macello; sapeva bene che niente poteva cambiare il suo destino. Impiegammo dieci minuti buoni a raggiungere la fossa che avevo scavato. Guido non smetteva di chiedermi: - Sei sicuro che sia per di qua? Conoscevo tutti gli angoli del bosco e mi ci sarei orientato anche a occhi chiusi. Arrivati al luogo prescelto, senza avvertirlo, colpii nello stomaco Ahmed, che crollò con un tonfo sordo sulla terra ricoperta di foglie. Gemeva ininterrottamente sotto il bavaglio. Guido liberò la fossa e legò di nuovo i piedi di Ahmed. La mia fredda determinazione era commisurata all'odio che provavo per quella carogna che aveva massacrato Sarah. Lo feci alzare; poi, dirigendo il fascio di luce della torcia sulla fossa, gli dissi: - Il tuo letto, mucchio di letame. Il tuo viaggio finisce qui. Ma prima ascolta! E' Sarah che mi ha dato le informazioni per trovarti! Sì, l'ho vista, è per questo motivo che ti ucciderò con il coltello. Sentirai la morte penetrarti piano piano. Voglio che tu la senta arrivare. Le pallottole in testa sono per gli uomini. Voglio che tu senta la morte prenderti. Non sei altro che un cane bastardo, e per giunta vigliacco. Grugnì sotto il bavaglio. Il mio pugno lo colpì al plesso solare. Crollò ai miei piedi. Porsi la torcia a Guido. - Illuminagli quella maledetta faccia da topo, voglio vederlo crepare. Poi, tirando fuori la mia daga, tolsi la sicura. Scattò come la lama della ghigliottina, prezzo che avrei pagato se un giorno mi fossi fatto beccare. Ma me ne sbattevo altamente. Niente era importante, se non Sarah e la mia vendetta. Guido illuminò il volto di Ahmed. La lama d'acciaio penetrò sotto il ginocchio destro. Sussultò e un grido gli sfuggì di bocca nonostante il bavaglio. - Per Sarah - gli dissi. Guido gli aveva messo il piede sul collo, per impedirgli di muoversi. La mia lama lo colpì all'altezza del fegato; la vidi penetrare lentamente e un sussulto del suo corpo la fece affondare fino all'elsa. Il colpo non l'aveva

ucciso, perché si contorceva dal dolore. Guido mi fece un cenno. - Finiscila con questo macello, Jacques, basta così. Non provavo niente, né emozione né pietà. Per la seconda volta, affondai la lama con violenza. Il suo corpo ebbe ancora qualche spasmo nervoso. Forse era morto, oppure in agonia; non m'importava! Mi alzai in piedi. Guido mi illuminò il viso con la lampada e mi disse: - Non ho mai visto un tipo come te, amico, e dire che ne ho visti! Feci scivolare il corpo di Ahmed nella fossa. - Addio, porco - furono le mie ultime parole: la sua orazione funebre. Riempimmo la fossa prendendo tutte le precauzioni per rimettere gli strati di terra nell'ordine in cui li avevo tolti. Dopo aver spianato la superficie, presi l'ultimo sacco di foglie e rametti e lo sparsi in modo da non lasciare traccia del nostro passaggio. Raccolto il materiale, feci segno a Guido che potevamo partire. - Andiamo, fratellone. Questo lo distruggeremo domani. Adesso una bella doccia, facciamo le pulizie e a letto. Domattina verrò a fare un giro per vedere che non si noti niente. Dormiamo nella casa come previsto. Poi, voltandomi verso il luogo dove Ahmed era sotterrato, sputai in quella direzione dicendo: - Il riscatto è pagato, porco! Di ritorno a casa, controllammo scarpe e vestiti per togliere tutte le tracce sospette. Feci un mucchio delle cose di Ahmed e dei suoi documenti; avevo intenzione di bruciare tutto all'indomani assieme ai sacchi di tela e di buttare tutto nel fiume, con il mio coltello, i gioielli di Ahmed e le sue chiavi di casa. Al mattino feci un rapido giro nel bosco; tutto era perfetto, a parte alcuni arbusti tagliati rimasti vicino alla fossa. Li presi e li sparsi un po' più lontano. La natura aveva ripreso il suo corso. Sotto terra marciva un porco. Sugli alberi gli uccelli cantavano la loro gioia di vivere liberi, indifferenti alle crudeltà di cui solo gli uomini sono capaci. Il mio crimine poteva sembrare orribile all'uomo della strada. Invece rientrava appieno nelle leggi della mala. Per gli uomini una pallottola in testa. Per le carogne come Ahmed...

una morte da carogna. Non provavo né rimorso né soddisfazione. Avevo scoperto in me un'anima da killer, che escludeva qualsiasi sentimento o pietà per i miei nemici. Eppure rispettavo la vita, ma solo quella delle persone che vivevano fuori dal mio ambiente. L'uomo della strada non rischiava niente con me; eravamo in due mondi totalmente differenti. Le sue leggi non erano le mie e non avevano alcun peso su di me. Non avevo paura né della prigione né della condanna a morte. Quando tutto fu finito, riprendemmo la strada per Parigi. Qualche ora più tardi telefonai a Sarah. - Ascolta, piccina. E' tutto finito, sei libera. Non mi hai mai conosciuto, salvo che come cliente. Mettiti in sesto e cambia aria. Non credo che ci rivedremo; buona fortuna e dimentica tutto. - Ma, Jacques... io voglio... - No, Sarah, non possiamo farci niente. Ti abbraccio. Non ebbe il tempo di rispondermi. Avevo riattaccato. Sarah fu portata a Bordeaux. Non la rividi mai più. Era stata il motivo del mio primo omicidio. Forse l'avevo usato come pretesto per superare il punto di non ritorno. I giorni passarono e io ripresi le mie attività come se nulla fosse. La scomparsa di Ahmed non aveva certo incoraggiato i suoi amici o i suoi presunti compari a dar seguito alla questione. Mi fecero sapere che volevano chiuderla lì. Compresi così che solo la violenza detta legge nel mio ambiente. Per tutta la vita questa lezione mi aiutò a mantenere il vantaggio nelle situazioni difficili. Venne il periodo delle vacanze e decidemmo di partire per la Spagna, dove il turismo cominciava appena, in quell'anno 1960. Il turista dalle tasche piene era un re. In più eravamo certi di trovare un po' di sole. Arrivati sulla Costa Brava, facemmo festa tutte le sere. Non mancavano certo le ragazze e noi ne approfittammo al massimo. Ma le donne spagnole erano scontrose, frenate da secoli di pregiudizi. Una sera andammo tutti e tre in un nuovo locale. L'orchestra suonava jazz e rock'n'roll. Avevamo già bevuto qualche bicchiere; io ero un buon ballerino e sicuro di me invitai una giovane spagnola molto tipica. La sua bellezza mi aveva colpito fin da quando ero entrato. I suoi grandi occhi neri le ornavano il viso come due pietre d'ossidiana, i capelli le ricadevano fino alle anche rendendola ancora più sensuale. Al mio invito rispose con un rifiuto. Forse non sapeva ballare il rock, o era accompagnata? Per nulla offeso scelsi un'altra dama. Poi si arrivò alla gara di rock'n'roll in un ambiente fumoso, al ritmo di chi batteva il tempo con le mani. Mi cercai una buona partner. Vidi

una graziosa ragazza seduta al bar che, dal modo in cui gesticolava, pareva saper ballare. Avvicinandomi capii che era sposata. Dopo aver chiesto al marito il permesso di partecipare alla gara con lei, prendemmo posto sulla pista. Danzava meravigliosamente, lasciandosi condurre senza esitazioni. Conosceva il rock e il suo ritmo. Senza difficoltà arrivammo in finale. Ero scatenato. Avevamo come avversari una coppia di tedeschi. Abituato com'ero alle cantine di Saint-Germain-des-Prés ero certo di vincere la gara e sotto uno scroscio di applausi fummo dichiarati vincitori. Invitai la coppia e i tedeschi al nostro tavolo e bevemmo lo champagne avuto in premio. Ne feci portare altre due bottiglie. In quel momento, il mio sguardo si spostò in direzione della mia bella spagnola. Lei ricambiò il sorriso. Ma certo, entrando ero un tipo qualunque! Adesso ero un vincitore, lei era come le altre donne. Non avevo intenzione di ricevere un altro rifiuto e, per proporle di ballare il lento che l'orchestra ora suonava, le feci un cenno da lontano. Lei si alzò. Non riuscii a trattenere un sorriso di soddisfazione. Avanzando verso di lei, le presi la mano per condurla in pista. Questo semplice contatto mi turbò. Io non parlavo che qualche parola di spagnolo e lei neanche una di francese. Questo mutismo ne accentuava il fascino. Niente parole, solo il linguaggio dei corpi! Passammo tutta la sera allacciati sulla pista di ballo. Ma, ogni volta che le mie labbra cercavano le sue, dalla sua bocca ridente usciva un «no, no, no». L'unica cosa che riuscii a capire di lei era il suo nome: Soledad. Non ne potevo più di sentire il suo corpo sodo giocare sotto le mie dita e senza molte speranze le feci capire che volevo prendere un po' d'aria. Fui sorpreso di sentirla accettare. La mia macchina era davanti alla porta. Lei vi salì in maniera naturale. Mi si riaccese la speranza. Non era dunque così inibita come voleva far credere. Con i miei amici facevamo campeggio libero e avevamo una tenda immensa con tutti i comfort immaginabili. Era in una pineta affacciata sul mare. La condussi fino all'imbocco della stradina e fermai la macchina. Le sorrisi e, prendendole la mano, le dissi: «Vieni». Lei mi sussurrò qualcosa che non compresi e, per farla tacere, le baciai le labbra. Mi restituì il bacio con foga... Sicuramente avevo risposto alla sua frase! Giunti all'accampamento, contemplò l'insieme e si stupì degli agi di cui godevamo in mezzo alla natura. La vista era magnifica, eravamo a strapiombo sul mare e l'odore dei pini rendeva l'atmosfera inebriante. La natura stessa si rendeva complice. Misi un disco nel mangiadischi portatile e le offrii da bere. La presi fra le braccia e lei vi si rannicchiò teneramente. Danzammo con le labbra saldate. La nostra danza era un invito all'amore e lei non poteva certo equivocare il desiderio che suscitava in me. Aprii lo scomparto che fungeva da camera da letto e la trascinai all'interno. Ebbe un piccolo tentennamento, ma poi si decise a entrare. Sapendo che non mi capiva, mi divertii a dire un mucchio di bestialità, ma sempre con un bel sorriso sulle labbra. Stesa vicino a me, si lasciò accarezzare, ma appena la

mia mano raggiunse l'elastico delle sue mutandine ricominciò il suo famoso «no, no», che io neutralizzai con un «sì, sì, bella mia». Non capivo il suo atteggiamento. Mi aveva seguito e adesso faceva resistenza. Quando riprendevo le sue labbra tra le mie, tornava a essere una gattina. Mi ci volle molto tempo per convincerla; a forza di carezze, la sua eccitazione arrivò al parossismo e mi si offrì. Eravamo coricati sulle coperte, gettate disordinatamente a terra. Quando la penetrai, gemette. La sentivo molto stretta. Questa ragazza era vergine! La presi con grande delicatezza. Dolcemente mi sentivo vivere in lei. Sapevo troppo bene che cosa può significare «la prima volta» per comportarmi come un bruto. E poi, il contatto con la sua pelle era di per sé un poema, nato per coniugare il verbo amare. Soddisfatto, con il corpo svuotato dal desiderio, mi sdraiai sulla schiena; lei si rannicchiò contro di me, offrendomi la bocca, come se volesse impedirmi di parlare; sentivo che le lacrime le inondavano il viso. Teneramente le presi il viso tra le mani e le baciai le palpebre. Mi guardò in una maniera che mi sconvolse. Dalla mia bocca uscì la parola «grazie». Era un grazie che mi sgorgava dal cuore. Lei ne comprese appieno il significato, perché sorrise dicendomi: «"Te quiero franchouti".» Presi diverse coperte per conservare il calore che ci univa. Il fatto che questa ragazza mi si fosse donata mi turbava. All'inizio, l'avevo presa per una di quelle ragazze facili, sempre pronte ad aprire le gambe. Nell'ambiente che frequentavo ci ero abituato. Ma ora non ci capivo più niente, perché colei che dormiva teneramente al mio fianco aveva meno di ventitré anni e ben altri uomini avrebbero dovuto corteggiarla e cercare di averla. Perché io e così in fretta? Non ero né più bello né più brutto di un altro. Le donne hanno questo d'insondabile: possono resistere a lungo a un uomo che frequentano, per poi donarsi a uno sconosciuto, quattro ore dopo averlo incontrato. In ogni caso, ero felice di ciò che mi aveva offerto. Lei era bella ed ero molto contento di essere stato il primo! Fummo svegliati dal fragore di risate. I miei amici, ubriachi, tornavano a dormire. Paul ci illuminò con la torcia. - Ollallà! Il signore si è procurato uno scaldaletto! Spero ci sia un posticino per gli amici, perché vorrei assaggiarne anch'io. Poi, chiamando Jean-Pierre: - Ehi, J.P. porta qui la tua carcassa! Era completamente sbronzo. Da parte mia ero furioso, perché la mia bella spagnola sembrava spaventata. Se fosse stata una ragazza qualunque, gliela avrei lasciata senza rimpianti perché si sollazzassero il basso ventre.

Non sarebbe certo stata la prima volta che ci dividevamo una ragazza. Ma interpretai la proposta come un insulto e gli dissi: - Non se ne parla proprio, fratellino, sgombera! E spegni 'sta maledetta torcia. La riaccompagno a casa. Non sembrava per niente contento e mi rispose: - Il signore cade nel coniugale, forse? Poi, avvicinando la mano alle coperte, fece il gesto di tirarle via per scoprire la nudità di Soledad. Questa volta gli risposi brutalmente: - Lascia stare! E, siccome proseguiva nel suo gesto, terminai la discussione con un pugno in piena faccia. Cadde all'ingresso della tenda con la bocca sanguinante. Mi lanciò uno sguardo stupito. In un attimo gli era passata la sbronza. - Sei impazzito o cosa? Mi dispiaceva per il mio gesto. Eravamo amici e gli tesi la mano per aiutarlo a rialzarsi, dicendogli: - Era vergine, non capisci? - Merda, non ne sapevo niente! E comunque non è certo un buon motivo per colpirmi in faccia. Poi, di colpo, scoppiò a ridere indicandomi con il dito. - Ehi! Lancillotto... Ti sei dimenticato l'armatura ma, senza offesa, la tua lancia è ben in resta. Inoltre mostri il culo alla signorina ex-vergine... non è molto cavalleresco. Era vero, ero nudo come un verme. Girandomi, vidi che Soledad sorrideva. Tutti insieme scoppiammo a ridere. Fu in quel momento che arrivò Jacky. Si reggeva appena sulle gambe e ci guardò con lo sguardo annebbiato. Con voce incerta mi disse: - Cosa succede qui? Ho sbagliato strada e sono cascato qualche metro più giù.

Poi, guardando Soledad, fece un piccolo gesto con la mano: - Buongiorno a te! Paul, molto cerimonioso, in tono beffardo si affrettò a dire: - Attento. Riserva di caccia. Questo stronzo mi ha dato un cazzotto solo per aver osato sfiorare con gli occhi la sua colombella. Per cui non dirgli che te la vuoi scopare... rischi di lasciarci i denti. Jacky rispose con una voce strascicata: - In ogni modo... sono sbronzo... non mi si rizza neanche. Quindi puoi tenertela la tua bambola. Mi ero messo gli slip e avevo lasciato Soledad a rivestirsi. Mi ero allontanato con i miei amici. Ci eravamo bevuti a garganella una bottiglia di porto ciascuno quando lei ci raggiunse. Le porsi un bicchiere. Sapevo che non mi capiva, ma le dissi: - Sai, i miei amici sono tipi in gamba... non volergliene. Si sedette vicino e mi fece segno di aver capito. Esibì il migliore dei suoi sorrisi. Paul non poté fare a meno di dire: - Guardala! E toccato al più brutto dei tre riempire il suo pozzo d'amore... non c'è giustizia, signori miei. Domani mi ritiro in convento... Poi scoppiò in una grassa risata e si consolò con la sua bottiglia di porto. Il giorno stava sorgendo. La riaccompagnai. Mi spiegò che lavorava in un ristorante come cameriera; o almeno fu ciò che capii, perché mi mostrò l'insegna del locale dove l'avevo lasciata, accompagnando le parole con gesti esplicativi. Decidemmo di rivederci. Per tutte le vacanze, fu per me un'amante molto abile nei giochi d'amore, ma possessiva e gelosa a non finire. Era una ragazza in gamba, sempre allegra e sorridente. Mi cantava delle canzoni d'amore nella sua lingua. Cominciavo ad amarla. Da parte loro, i miei amici l'avevano adottata. Avevo fatto molti progressi con lo spagnolo e potevamo conversare insieme. Il giorno della partenza per lei fu un dramma, feci fatica a farle accettare che dovevo rientrare nel mio paese. Non avevo alcuna intenzione di portarla con me. Tenevo troppo alla mia

libertà. Le lasciai il mio indirizzo, spiegandole che questa separazione sarebbe stata un buon test per verificare i sentimenti che provavamo l'uno per l'altra. Non mi rendevo conto che le stavo spezzando il cuore. Mi si era donata e io partivo con poche speranze di rivederla. Quando le nostre due auto partirono, Soledad piangeva. Avevo una voglia pazza di dirle: «Vieni», ma non potevo offrirle niente, se non una vita emarginata che non avrebbe certamente accettato. Diventò una sagoma indistinta nello specchietto retrovisore. Scomparve in una nube di polvere. Di ritorno a Parigi, riprendemmo le nostre attività. Dopo aver svaligiato un appartamento dei quartieri alti, proprio nel momento di lasciarlo, ci ritrovammo faccia a faccia con i proprietari. Imperturbabile, dissi: - Voi siete i proprietari? La custode vi ha avvisati, almeno? - No... ma che cosa?... Ma voi chi siete? - Ispettore Moreau. Siete stati derubati, venite a vedere il lavoro di quei maiali. Poi, rivolgendomi a Paul: - Vada a chiamare la custode, voglio interrogarla immediatamente e dica alla prefettura di mandare la Scientifica. Paul ebbe difficoltà a rimanere serio mentre si dirigeva verso le scale. Feci segno ai proprietari di entrare. - Dopo di voi, signore e signori. Soprattutto non toccate niente, prenderemo le impronte. Li seguii nell'appartamento. Davanti al caos indescrivibile che vi regnava, la donna sospirò: - Oh! Mio Dio! Le dissi: - E non è ancora niente! Vada a vedere nella camera da letto, potrà constatare i danni. I due andarono in quella direzione. Ne approfittai per svignarmela all'inglese. Ero già in fondo alle scale quando una voce mi chiamò dal quarto

piano. - Ispettore, ispettore! Alzai la testa e risposi: - Arrivo, arrivo. Vado a prendere del materiale, non toccate niente. Sparii in strada dove Paul mi aspettava con il sacco nero contenente il bottino. Scoppiammo a ridere. - Quei coglioni rischiano di aspettare parecchio! - dissi. Nei giorni successivi ricevetti una lunga lettera dalla mia spagnola. Era la quinta dal mio ritorno. Mi supplicava d'autorizzarla a raggiungermi a Parigi. Mi era mancata e non potevo negare che ne ero innamorato. Le diedi dunque una risposta affermativa. E fu così che dieci giorni più tardi andai a prenderla in stazione. Era sempre bellissima e mi si gettò tra le braccia. Bevvi dalle sue labbra come un assetato, lei era la mia oasi d'amore, per me - che vivevo in acque torbide - rappresentava una fonte d'acqua limpida. Nessuna donna mi aveva mai guardato in quel modo. Aveva lo sguardo del sole, che io ignoravo poiché vivevo solo di notte. Arrivati al mio appartamento, ne fece il giro come una proprietaria. Era ben arredato e lei ne fu sorpresa. Dopo essersi rinfrescata, riapparve nel mio accappatoio rosso. La sua pelle vellutata mi suscitava fantasie da stupro. Non potei impedire alle mie mani di andare alla ricerca del suo corpo. Le avevo preparato un pranzo che mandammo giù in fretta e furia. Ci avviammo verso la camera da letto, dove le dissi con ironia che saremmo andati a riposare. Il suo corpo infuocato mi trascinò in una danza d'amore. Le mie labbra rifecero conoscenza con la sua pelle. Amavo il suo odore di donna, che non assomigliava a nessun altro; vivevamo l'amore in una maniera totale. Lei mi si dette con furore. Poiché ero stato il primo, mi sentivo lo scultore del suo corpo e trasformavo il mio piacere nel suo piacere. Scoprivo che l'amore era il totale dono di sé per il piacere dell'altro. Placato il nostro desiderio, mi guardò con tristezza. Sembrava imbarazzata a parlare. - Tesoro! Che succede? Timidamente, come una bambina colta in fallo, mi rispose nella sua lingua, che ormai capivo perfettamente.

- Sono ammalata, Jacques. A Tossa del Mar mi hai trasmesso una malattia. Sicuramente non avevo ben compreso, perché non sapevo di avere alcuna malattia nascosta. - Una malattia! Vuoi scherzare? - No, Jacques, sono ammalata... aspetto un bambino da te. - Vuoi dire che sei incinta? Mi fece un timido sì spaventato con la testa, spiando le mie reazioni. Non capì perché le presi le labbra. Quella novità cambiava molte cose. L'amavo per il bambino che mi avrebbe dato. La mia gioia la sorprese. - Non sei arrabbiato? - Arrabbiato! Vuoi scherzare, sono felice, sì, felice... ma almeno avresti potuto scrivermelo! Dimmi, se non ti avessi lasciato venire a Parigi, che cosa avresti deciso? - Lo avrei allevato da sola. Se tu immaginassi che paura avevo di essere respinta... o che tu dubitassi di me! - Ehi! E' mio figlio che è dentro di te, di questo sono sicuro! - Perché dici questo? - Niente, niente, è un'altra storia, un giorno ti spiegherò. Decidemmo di vivere insieme. Fu delusa quando le feci capire che per il momento non intendevo sposarla e che ero divorziato, il che ci impediva di sposarci in chiesa. Ne fu addolorata perché, nel suo paese, la religione era molto importante. Fu in quel momento che capii che Soledad non sapeva niente di me. Pensava fossi un tipo perbene ed era molto lontana dall'immaginare che vivevo di furti. Non avevo alcuna intenzione di cambiare modo di vivere. Volevo essere libero nei miei movimenti. Potevo andare bene come amante, ma sapevo che sarei stato un pessimo marito. Non ero certo fedele, ero violento e molto indipendente. Inoltre, sapevo che la sua gelosia e la sua rettitudine le avrebbero precluso l'accesso al mio ambiente. Non avevo intenzione di metterla al corrente delle mie attività, benché certe donne siano più salde di certi uomini di fronte all'azione e alle difficoltà. Lei

sarebbe stata la madre di mio figlio. Non si poteva far vivere un fiore selvatico sul letamaio che era il mio ambiente. Decisi quindi di non dirle nulla, per il momento. Vivevamo insieme da più di un mese. I miei amici l'avevano adottata, ma mantenevano un certo distacco. Le avevo fatto girare tutta Parigi. Le mie conoscenze non sembravano piacerle, soprattutto quando entravo in un bar e le mie amiche mi saltavano al collo e mi abbracciavano. Mi faceva delle scenate terribili. Presi quindi l'abitudine di non portarla più con me. Certe sere la lasciavo da sola e non rientravo fino al mattino, spesso dopo aver bevuto troppo alcol. L'amavo, ma mi rifiutavo di sacrificarle la mia indipendenza. Lei rappresentava la mia possibilità di uscire dal giro, ma non la vedevo o mi rifiutavo di vederla. Cominciò a farmi domande sul mio lavoro, trovando strani i miei orari. Aveva notato le mie armi. In più la tradivo con alcune ragazze di passaggio, senza importanza per me. Questo mi costava una serie di: «Perché fai questo? Perché fai quello? Da dove arrivi? Ancora con una delle tue troiette?» il che mi innervosiva. Una sera avevo bevuto un po' e la schiaffeggiai. Ne fu scioccata. Nella rabbia, mescolavo il gergo allo spagnolo e le dicevo: - Mi hai rotto con le tue domande. Se sei così stupida da non aver capito, non capirai mai. I soldi vado a prendermeli, capisci... Sono un ladro di professione, ecco! Falcio il grano dei borghesi. Mi piacciono le puttane, i bar e vaffanculo! Ero odioso, ma non me ne rendevo conto. Lei mi guardava addolorata. Con voce straziata mi rispose: - No! Jacques! Non è vero. Non sei un ladro... lo dici per ferirmi. Il mio mutismo era una risposta sufficiente. - Cosa farò, io? ... e il nostro bambino, credi che abbia bisogno di un ladro per padre? ... ma ti rendi conto? Si nascose la testa fra le mani. Io, invece di essere tenero e consolarla, fui durissimo: - E allora? E' un mestiere come un altro! Eppure spendi bene la grana che ti do. I tuoi vestiti non sono poi così male, e sono sempre pagati con soldi rubati. Tutto ciò che c'è qui proviene dai furti.

Pronunciò una frase che mi fece trasalire: - No, tuo figlio è frutto dell'amore, e lì dov'è tu non lo potrai rubare! La mia era una rabbia omicida, ma di fronte al suo turbamento la tirai verso di me e la strinsi fra le braccia. - Non dire mai più una cosa simile, ragazzina. Mio figlio, non ho bisogno di rubarlo... E' mio. Pianse sulla mia spalla come mille altre volte. Ci furono molte altre scenate, ma, stanca di tentare di cambiarmi, accettò l'inevitabile. Le sue forme cominciavano ad arrotondarsi. Mi divertivo ad appoggiarle l'orecchio sul ventre per sentir vivere il mio bambino. Avrei anche voluto cambiare, ma ero troppo impegnato nel crimine per fare marcia indietro e poi mi crogiolavo in quel mondo notturno e losco. In realtà non avevo la volontà di cambiare. Inoltre, avevo preso la cattiva abitudine del gioco e lasciavo buona parte del mio denaro guadagnato in fretta sui tappeti verdi dei circoli privati e dei casinò. Le mie debolezze erano come una droga della quale non avevo la volontà di liberarmi. Rifiutandomi di vedere la realtà della vita, m'inoltravo nel crimine e ne facevo una cosa naturale, diventavo sempre più duro, incosciente del male che facevo a me stesso. Diventavo un professionista e coloro che mi stavano intorno mi trattavano come tale, temendo le mie reazioni, perché nei momenti di collera ero estremamente violento. Persino mamma Lulù cominciò a temermi, dal giorno in cui mi vide conciare in malo modo la faccia di un suo cliente in seguito a una stupida discussione. Con Guido avevamo organizzato una spedizione in rue d'Isly. C'erano due casseforti da aprire nella casa di un consulente finanziario. Volevamo approfittare del weekend per fare il colpo. La porta da aprire si trovava al primo piano e aveva lucchetti e serrature d'ogni tipo. Ma una finestra dell'appartamento dava sulle scale. Era sufficiente una piccola scalata per arrivarci e rompere un vetro che non aveva alcun sistema d'allarme. Cominciammo a lavorare intorno alle ventidue, perché prima la strada era molto trafficata. Dopo aver aperto la finestra del pianerottolo, mi arrampicai per raggiungere quella dell'appartamento. Due colpi di diamante sul vetro, una gomitata, un rumore di vetri infranti e il passaggio era libero. I miei due amici mi raggiunsero. Al piano terra si sentiva il rumore di stoviglie provenire da un ristorante che stava per chiudere. Il fascio della torcia illuminava stanza dopo stanza. C'erano due casseforti. Una era di medie dimensioni, ma l'altra era enorme e non vedevo come avremmo potuto aprirla. Prima di metterci al lavoro decidemmo di ispezionare tutti gli uffici e controllare se fossero presenti sistemi di allarme.

Paul era scoraggiato. - Hai visto che bestione? Non lo apriremo mai! - Cominciamo da quella piccola. Poi vedremo. Come attrezzi avevamo solo un trapano elettrico, delle punte, alcuni scalpelli e una mazza con una serie di grimaldelli. Avevamo portato una radio a transistor per coprire il rumore di metallo con il suono della musica. Dopo trenta minuti di lavoro, tutto procedeva per il meglio, ma poi scoppiò il casino, il trapano si bloccò con un ultimo rantolo asmatico. Paul mi guardò disperato. Guido invece non perse la calma. Prese la parola: - Sei sicuro che non ci sia niente da fare? - Sì... bisognerebbe trovarne un altro della stessa potenza, altrimenti il colpo fallisce e con i soldi che ci sono in questa cassa... non possiamo certo lasciar perdere. Conosco un magazzino di ferramenta sul boulevard Ornano, vicino a casa mia. Paul verrà con me, lo svaligeremo; torneremo con quel che occorre. La cosa migliore è che tu ci aspetti qui. In piena notte, rompemmo la porta a vetri del ferramenta, per poter infilare la mano e aprire il chiavistello. Paul era nervoso perché il rumore che avevamo fatto era in grado di svegliare l'intero edificio. La porta dava sul corso e la varcai con la massima naturalezza. - Ma sei pazzo o cosa? Ci faremo prendere, con le tue idiozie! - Sta' zitto e controlla la strada mentre recupero quel che ci serve. In poco tempo avevo riempito la sacca con tre trapani. Ne avevo anche approfittato per svuotare la cassa, che conteneva solo poco denaro. Paul mi fece trasalire. - Gli sbirri! Mi precipitai vicino alla vetrina per vedere all'esterno. In effetti c'erano due motociclisti della polizia che percorrevano il corso molto lentamente, controllando i due lati della strada. Mi augurai che non notassero il vetro rotto. Paul guardò la mia mano che impugnava la calibro 45.

- Ma sei armato... eppure avevi detto... - Sta' zitto, non è il momento. - Non vorrai sparare... eh... - Sta' calmo, se ne vanno. Sei un po' nervoso stasera! Non ti ho mai visto in questo stato. - Non è colpa mia se oggi me la faccio sotto. Ma questo non m'impedisce di essere qui. - Andiamo, sgombriamo il campo. Rapidamente fummo di ritorno. Non avevo ancora allentato la tensione e neanche Paul. Guido, sentendo battere sulla finestra, disse: - Siete voi? Scorgendomi, non riuscì a trattenere un sorriso di soddisfazione. - Figlio di puttana, ce l'hai fatta! - Eh sì! Paul si affrettò a dire: - Per poco ci beccavano... Oltretutto Jacques è armato. Guido lo guardò ed estrasse la 38 special dalla cintura. - Anch'io lo sono. Non penserai che esca nudo di notte! Non ti abbiamo detto niente perché ci avresti letto tutto il codice penale... e di sicuro non ho l'età per farmi vent'anni e comunque ero d'accordo con Jacques. Paul non insistette, poiché non era certo il luogo per intavolare una discussione. Cambiò argomento. - C'è un problema! E' troppo tardi per continuare senza svegliare tutti. Dobbiamo attendere domani mattina. E' meglio riposarci. Ho trovato da bere, ma sarebbe meglio evitare, potrebbe essere una bottiglia drogata. Sono scherzi che capitano. Quindi ci accontenteremo dell'acqua.

La notte passò in fretta. Ci eravamo piazzati tranquillamente nel salotto. La porta era intatta quindi non c'era rischio di essere scoperti. Al mattino fummo risvegliati dal rumore delle cucine al pianterreno. - Andiamo - dissi. Ci volle un'oretta per aprire la cassaforte. Quando riuscii ad aprire lo sportello, un sorriso vittorioso mi si disegnò sulle labbra. Lo spettacolo era gradevole alla vista. C'erano diverse mazzette di banconote, un lingotto di platino e titoli al portatore. C'era anche un mazzo di chiavi. - Vuoi scommettere che ci sono le chiavi dell'altra cassaforte? Guarda, possono essere solo queste due - dissi a Guido. Andammo nell'altra stanza, era così e con grande facilità aprii l'altra cassaforte: con le chiavi. Fummo un po' dispiaciuti perché c'erano soltanto titoli negoziabili, il che non era male, ma non c'era denaro. Mettemmo il tutto, assieme al nostro materiale, in due sacche da viaggio e rifacemmo il percorso dell'andata, scomparendo indisturbati. Tornati a casa, constatammo che il bottino era considerevole: titoli, denaro e platino per più di trentacinque milioni (di vecchi franchi) cioè circa 70000 dollari. Guido prese la parola: - Per i titoli, nessun problema, conosco una persona seria in Svizzera. Ci perderemo molto, ma ci rimarrà comunque un bel gruzzolo.

Soledad assumeva una forma sempre più arrotondata. Mi succedeva di lavorare a un colpo anche da solo. Lo facevo di giorno. Avevo preso l'abitudine di mettere il mio materiale in una valigetta nera. Avevo anche un camice bianco, un paio di forbici, un pettine da parrucchiere e dei capelli tagliati in una busta. Questa precauzione mi salvò un giorno che fui lì lì per farmi prendere dalla polizia. Avevo scassinato una porta senza problemi, come sempre. Ero all'interno dell'appartamento e avevo cominciato a frugare, quando udii la sirena della polizia. Per istinto gettai uno sguardo dalla finestra. Il mio cuore si fermò. Una donna puntava il dito nella direzione dell'appartamento in cui mi trovavo. Gli sbirri si precipitavano nello stabile. Non ero armato. Impossibile per me ridiscendere per lo scalone principale. Prendevo sempre la precauzione di verificare la scala di servizio prima di effettuare le mie incursioni. Fu dunque senza difficoltà che potei raggiungerla. Non potevo scendere, l'unica soluzione era di arrivare all'ultimo piano e trovare un lucernaio per uscire sul tetto. Arrivato di sopra, niente abbaino, ma una porta con su scritto «W.C.»; dal buco della

serratura, scorsi una finestrella. Senza esitare, sfondai la porta. Sapevo che i poliziotti, che erano in pochi, stavano sicuramente chiedendosi se entrare o meno nell'appartamento, considerato il rischio di trovarsi faccia a faccia con un uomo armato. Avrebbero sicuramente chiesto rinforzi. Riuscii a passare dalla finestra. Dopo essermi arrampicato, mi ritrovai sul tetto. In strada intesi una grande agitazione; dov'ero non potevano vedermi. Molto rapidamente superai diversi tetti. Oramai ero a più di tre palazzi dal punto di partenza. Scorsi un lucernaio che dava su una soffitta. Dal vetro vidi che il locale era vuoto. Con un colpo del gomito ruppi il vetro, aprii gli infissi ed entrai nella stanza. Aprii la mia valigetta e m'infilai il camice bianco. Mi misi il pettine e le forbici nel taschino. Presi dalla busta i capelli tagliati e li sparsi sulle maniche del camice. Era impensabile salvare il materiale o la valigetta. Li feci scivolare sotto il letto assieme ai guanti. Poi, accesomi una sigaretta, aprii la porta facendo ben attenzione a non lasciare impronte. Scesi tranquillamente le scale. Il mio cuore batteva all'impazzata, ma ero sicuro di me. Non mi si poteva certo leggere in faccia che la polizia dava la caccia proprio a me. Arrivato sotto mi accorsi che diverse volanti avevano raggiunto la prima casa. Era pieno di teste che guardavano in su e i commenti si sprecavano. Una volta in strada, assunsi un atteggiamento molto naturale e come tutti rivolsi lo sguardo verso l'alto. Con un colpo d'occhio vidi che ero a più di trenta metri dal palazzo dove mi cercavano. Ma vidi anche che la strada era chiusa sui due lati da poliziotti che fermavano chiunque volesse uscire dal perimetro. Mi avviai verso i poliziotti. Era sufficiente mantenere la calma. Arrivato alla loro altezza, dissi in tono pacato: - Che succede? Un incendio? Il poliziotto non sorrideva affatto e mi rispose secco: - Abita qui? - Sì, sono il parrucchiere del negozio a fianco. I miei clienti mi aspettano. Non mi mancava certo la faccia tosta. Non sapevo neanche se c'era un negozio da parrucchiere in quella strada. E non lo sapeva neanche lui. - OK! Può passare. Non me lo feci dire due volte. Dopo aver percorso una buona quarantina di metri, m'inoltrai in un'altra stradina. Più lontano, mi tolsi il camice e ne feci un involto da buttare. Presi un taxi e lungo il percorso che mi riportava a casa non potei trattenere un sorriso. L'avevo scampata bella. Quando

raccontai la storia ai miei amici, fecero tutti la stessa osservazione: - Quanto sono stupidi gli sbirri in uniforme! Io, invece, pensavo di avere avuto molta fortuna a non perdere il sangue freddo.

Realizzammo molti altri colpi più o meno redditizi. Una sera Guido venne a trovarmi. A Soledad era simpatico, ma lo invitò a fermarsi a cena con uno sguardo preoccupato. Temeva un'altra uscita notturna e non le piaceva vedermi uscire. Guido aveva l'aria triste e con voce stanca mi disse: - Ho un problema serio e ho bisogno di te! Soledad sapeva di non poter intervenire nella nostra conversazione. Se ne andò in camera. Guido proseguì: - Mio cugino è stato ammazzato in Italia da una banda rivale. Bisogna che vada a Milano. Tocca a me regolare i conti. Sappiamo chi è stato e avrò sul posto tutte le informazioni. Ho bisogno di un autista. Ma soprattutto di un amico. - Sai che puoi sempre contare su di me, quindi spiegati. Vuoi che partiamo subito in macchina? - Sì, preferirei, e portiamoci il materiale, perché non sappiamo che cosa può succedere. In teoria dovrebbero fornirci tutto, ma preferisco essere previdente. Chiamai Soledad con il suo diminutivo: - Sole, preparami la valigia, sto via qualche giorno. Arrivò con le lacrime agli occhi e, indicando la pancia, mi disse con tristezza: - E lui? Conta qualcosa? Che ne sarà se finisci in prigione o se ti fai ammazzare? E io, che cosa sono per te? Non partire, caro, ti prego... ho paura per te. Sì, ho sentito tutto... dai, picchiami se vuoi, ma io ti amo e

non voglio perderti. Se mi ami pensa a noi e resta qui, per pietà. Guido aveva lasciato la stanza per non partecipare alla discussione. Con gli amici, i veri amici, aveva molto tatto. Non ero arrabbiato con Sole, ma non volevo ammettere che aveva ragione. Il suo dolore mi faceva male. - Fammi la valigia, te ne prego, non mi fare arrabbiare. - Se mi ami, non partire. Te ne prego... te ne prego! La presi tra le braccia accarezzandole i capelli. - Sole, tu sei il bene, io sono il male. Non posso fare diversamente e nella mia vita sarà sempre così. Per i miei amici sarò sempre libero e pronto a partire. Non potrai cambiarmi, ragazzina, e neanche lui, le dissi accarezzandole la pancia. Siete arrivati tutti e due con un anno di ritardo. Non mischiare il nostro amore e i miei obblighi verso gli amici. Andiamo, non ti preoccupare, non mi succederà niente. Dopo aver preso le armi di cui avevamo bisogno, ci dirigemmo verso il Principato di Monaco. Superammo il confine senza difficoltà. Dovevamo passare da Genova per vedere degli amici di Guido e raccogliere informazioni. Arrivati sul posto, mi presentò due tipi che avevano delle facce da assassini cinematografici, con tanto di passaporto per Sing Sing. Andammo a dormire da loro, perché il viaggio ci aveva spossati. Al mattino facemmo una riunione. Guido e i suoi amici parlavano italiano. Io capivo molto poco di quella lingua. Ma i riflessi degli occhi e i gesti bruschi dimostravano la durezza dei progetti che venivano esposti. Quando posarono sulla tavola diverse foto e una in particolare passò di mano in mano, capii che gli amici di Guido non erano dei dilettanti. Mi mostrarono la preda. Guido mi spiegò: - Guarda! Uno solo di questi m'interessa... quello lì. Gli altri potrebbero essere con lui, perché sono suoi amici... se possiamo evitarli meglio... altrimenti, peggio per loro. E' questo figlio di cagna che ha ucciso mio cugino... E' lui che voglio. E' tutto sul tavolo, indirizzi, rifugi, foto, targhe di automobili, eccetera. Non resta che andarlo a prendere. Ci danno una macchina con targa italiana. La tua lasciala qui, i miei amici la useranno per prepararci un alibi in caso di necessità. Ho spiegato loro chi sei. Sono felici di conoscerti, anche se non sei siciliano come noi. Ci aspettano a Milano; c'è un alloggio a disposizione, perché forse ci vorrà qualche giorno per trovare quel cane. Sicuramente sta a Milano. Ti avviso, questo tipo non è «Ahmed il porco», è un duro e un assassino. Non sarà una passeggiata. Lo stendiamo

appena lo vediamo. I miei amici ci forniscono le armi. Quindi puoi lasciare qui le tue. Avrai solo l'imbarazzo della scelta. In questo lavoro potrai solo spalleggiarmi. Sono io che devo ucciderlo... non dimenticarlo mai, non me lo perdonerebbero. Partimmo per Milano. Avevo scelto due automatiche calibro 45. Guido aveva preso una lupara e una 38 special. Arrivati sul posto fummo accolti calorosamente. Sentivo che la mia presenza creava un certo disagio. Alla sera ci raggiunse un uomo di una certa età. Parlammo in francese. Mi ringraziò d'essere venuto e mi disse: - Guido dice che sei più di un amico, sei come un fratello per lui. Sii dunque il benvenuto a Milano, non sei più uno straniero. Quell'uomo m'impressionava, imponeva rispetto. La sua calma apparente lasciava percepire una durezza che doveva essere senza appello. Parlando dell'uomo che Guido doveva far fuori, diceva sempre: «il traditore deve pagare». Nei suoi occhi brillava una strana luce. Ci si aspettava di sentirlo canticchiare una marcia funebre; evidentemente le musiche funebri avevano sostituito i canti di Natale dell'infanzia, fin dall'età in cui aveva ricevuto la prima arma. Prima di andar via si avvicinò a Guido. Gli baciò la fronte, il petto e le spalle, dicendogli: - Ti do la vita del traditore. Amen. Quello strano cerimoniale era impressionante. Guido aveva l'aria di un ragazzino che riceve la benedizione del padre. Lasciammo tutti la stanza. Quando la porta si richiuse su quello strano personaggio, Guido si voltò verso di me dicendo: - La caccia comincia stasera. Sapeva dove andare e conosceva perfettamente Milano. Io guidavo. Lui aveva il suo fucile a canne mozze sulle ginocchia, con la bocca pronta a sputare i diciotto pallettoni che alimentavano le due canne segate. Ci aveva posato sopra un giornale per nasconderlo. Io mi ero sistemato le due 45 ai fianchi. Restammo appostati in varie zone. Passammo la notte in una ricerca continua. Guido telefonava a destra e a manca. Niente, nessun risultato. Cominciavo a essere stanco. Poco prima dell'alba arrivò la dritta. - Questa volta ci siamo, so dov'è. Ci siamo passati poco fa. E' un locale, lo beccheremo all'uscita.

Ci appostammo di nuovo. Albeggiava. Eravamo scesi dalla macchina lasciando il motore acceso. Guido mi spiegò il suo piano di battaglia e la protezione che dovevo dargli. Mi mostrò un'altra volta la foto dell'uomo e dei suoi amici. - Vedi il parcheggio? Mi vado a piazzare in quella nicchia di fianco all'uscita. Appena esce e si dirige verso di me, dai un colpo di clacson per attirare la sua attenzione. Me lo troverò di fianco. Quando avrò sparato, se non ci sono reazioni tu ti metti al volante, ma fallo solo se sei certo che non ci sia nessuno che possa spararmi addosso, perché l'impresa è molto seria, non dimenticarlo. Avevo capito perfettamente il suo piano. Raggiunse con discrezione il posto prestabilito. Diverse persone uscirono dal locale. Ogni volta provavo un tuffo al cuore e la mano stringeva un po' più forte il calcio della calibro 45. Ma nessuno assomigliava al nostro uomo. Quell'attesa, assieme alla stanchezza, metteva i nervi a dura prova. Poi un uomo uscì da solo. Si guardò attorno e si diresse verso il parcheggio. Non assomigliava a nessun soggetto delle foto che avevo visto. Guido era talmente ben nascosto che non lo vedevo neanch'io. L'uomo tornò davanti all'uscita del locale, ma alla guida di una auto nera. Tutto accadde molto velocemente. Due uomini uscirono e riconobbi quello della foto. Stavano per salire in macchina e la mia mano si posò sul clacson. Non ebbi neanche il tempo di vedere i due uomini guardare verso di me che udii due spari. Guido correva a gambe levate verso di me. L'uomo al volante si era catapultato fuori e si riparava dietro un'auto ferma, mentre io aprivo il fuoco nella sua direzione. Guido raggiunse la nostra auto. Rapidamente mi misi al volante. - Forza, andiamocene! Sporse la mano destra, armata della 38 special, dal finestrino aperto. Partii facendo fischiare le ruote. Nello stesso istante un uomo armato ci sbarrò la strada sparando verso di noi. Sentii il rumore degli spari, ma il parabrezza non s'infranse. Guido, da parte sua, svuotò il caricatore. Poi, passati oltre il tiratore, sentii un bruciore all'interno della coscia destra; ma pensavo solo a guardare avanti. Guido esultava: - Ben fatto, bravo! Ben fatto! - L'hai preso? - Oh, sì! Senza dubbio, gli ho servito due scariche di piombo nella trippa,

non si rialzerà. Non so se ho preso anche i suoi amici, ma tu hai visto che non erano certo dei dilettanti. Adesso rientriamo. Lascerai l'auto nel garage. Per noi il lavoro è finito. Ci riporteranno a Genova. Buon Dio! Mi sento meglio. - Ehi! Vecchio mio, penso di essermi beccato una pallottola. Sento qualcosa di caldo che mi cola nelle scarpe. Poi mi tastai la gamba e mi accorsi che il guanto aveva assunto un colore rossastro. - Merda - disse Guido - ti fa male? - No, ho solo la gamba anchilosata... non aver paura, posso guidare, non sverrò. I tuoi amici avranno bene un dottore? - Sì, nessun problema, ma che sfortuna che ti abbiano beccato. - E nessuna medaglia all'orizzonte! Ci vorrebbe la mutua della mala... - dissi ridendo. - E ti diverti pure! - Che ci vuoi fare, doveva pur succedere prima o poi e in questo caso mi considero fortunato. Tornati a casa, Guido fece diverse telefonate. Intanto io mi esaminai la ferita. La pallottola era penetrata due centimetri nella coscia, ma non profondamente, perché la carrozzeria aveva attutito l'urto. Non sentivo dolore. In meno di un'ora arrivò il medico. Le armi e l'auto usate per l'attacco erano già scomparse, portate via dagli amici di Guido. Lui sembrava dispiaciuto di vedermi ferito. Eravamo amici per la vita e per la morte, e io capivo la sua tristezza; mi considerava come un fratello. - Dai... non fare quella faccia, è solo un graffio. Il dottore decise di estrarre la pallottola sul posto. Un'iniezione e un paio di pinze furono sufficienti per toglierla senza farmi soffrire. Non volevo certo tenermela per ricordo. Era una prova troppo evidente della nostra azione del mattino. Il medico mi fece un'antitetanica e mi diede qualche pastiglia di penicillina. Mi sentivo in piena forma e mi rimisi a camminare zoppicando solo un po'.

Suonò il telefono. Guido parlò a lungo. Riappese e si girò verso di me, con un sorriso di soddisfazione sulle labbra. - E' tutto OK. Il mio cliente ha avuto il saldo... degli altri nessuna notizia. I nostri amici verranno a prenderci per riportarci a Genova. Grazie dell'aiuto. Non lo dimenticherò. - Lascia stare! E' normale. - Non hai fatto domande, non mi hai nemmeno chiesto perché dovevo farlo personalmente. - Non ho bisogno di sapere perché. Sei mio amico e io sarò sempre disposto ad aiutarti senza bisogno di spiegazioni; è molto semplice. Soprattutto, mi raccomando, non una parola con Soledad. Se mi chiede qualcosa la manderò a quel paese. Tornammo a Genova senza difficoltà. Vi passammo la notte e al mattino riprendemmo il viaggio di ritorno verso la Francia. Potevo guidare senza problemi, la ferita non mi faceva male. Avevamo comprato diversi regali, i classici souvenir per turisti. Ci potevano tornare utili in caso di difficoltà alla frontiera. Ma tutto andò bene. Giunti a Nizza, mandai un telegramma alla mia donna: Tutto bene... Sei bella e ti amo. Sapevo che quella carezza di carta l'avrebbe tranquillizzata. Ci prendemmo un giorno di riposo, poi ripartimmo verso Parigi. Quando arrivai a casa, il viso di Sole testimoniava le lunghe notti insonni che aveva passato ad aspettarmi. Si precipitò tra le mie braccia e mi strinse con tutta la sua forza, offrendomi le labbra che sapevano di sale, tante erano le lacrime che le bagnavano il viso. Dentro di me mi davo del porco, ma sapevo che non sarebbe stato questo a farmi cambiare il mio modo di vivere. Quando ci coricammo, si accorse della benda che mi fasciava la coscia. Mi guardò preoccupata. Stavo per dirle qualcosa, ma ebbe un gesto inatteso, mi posò due dita sulle labbra come per proibirmi di parlare. Non mi fece domande e ne fui soddisfatto, perché l'amavo appassionatamente, ma non potevo offrirle alcun equilibrio. Sperava di vedermi cambiare e contava sulla nascita del nostro bimbo. Era prossima al parto e constatò con gioia che le rimanevo più spesso vicino. Desideravo quella nascita. Aspettavo che mi portasse qualcosa di nuovo. Ma niente faceva presagire un cambiamento nel mio stile di vita. Giocavo sempre di più e perdevo enormi somme di denaro. Quel vizio era diventato come una droga, mi dava un insano piacere. Il tappeto verde, il baccarà, l'ambiente teso dei giocatori che aspettano la carta buona, era tutto radicato in me come un cancro distruttore. Vi passavo le giornate e, sovente, anche le notti. Avevo perso ogni nozione del valore del denaro, che dilapidavo senza misura, certo che, con la mia professione, non mi sarebbe mai mancato. Guido mi aveva fatto alcune

rimostranze al riguardo, perché non amava il gioco. Ma io facevo sempre di testa mia e gli feci notare che era il mio denaro quello che perdevo e non il suo. Non volendo creare dissapori fra noi, finì per non dirmi più niente.

La mattina del 7 giugno 1961 Soledad ebbe le prime doglie. La portai in clinica. Un'ora dopo era in sala parto. Avevo chiesto al dottore d'autorizzarmi ad assistere alla nascita di mio figlio. Accettò. Soledad soffriva molto, ma i suoi occhi non mi lasciavano. Mi sentiva vicino, il mio sguardo le dava forza per spingere e aiutarsi a far uscire il bimbo. Alla fine nacque. Vidi uscire una piccola testa bruna, poi il corpo. Guardavo quello spettacolo con meraviglia. Era una bambina e ne ero felice, perché non avevo nessuna preferenza rispetto al sesso del mio primo figlio. Guardai il suo corpicino umido e grinzoso; lanciò uno strillo per dimostrarmi che era ben viva. Il mio viso s'illuminò di gioia e di fierezza. La immaginavo già all'età dei primi passi, con i suoi lunghi capelli di bambolina bruna e le prime parole non potevano essere che un timido e dolce «papà». Sarebbe stata la mia principessina. Per il momento il suo corpicino gesticolava nelle mani dell'ostetrico. Non potei trattenermi dal dire: - Che bello, eh, dottore? - Sì, è bello dare la vita! Ci prendemmo cura di Sole. Il suo viso era riposato. Teneramente le presi la mano e posai un bacio sulle sue labbra febbricitanti. - Sei felice? - Più che felice! Nostra figlia è magnifica! Vedrai come staremo bene tutti e tre. Il suo sguardo lasciava trasparire la stanchezza. Aggiunse con tristezza: - Credi sinceramente che sia possibile? Capii l'allusione. Sempre quel continuo rimprovero riguardo alla mia attività. Le risposi, quasi con cattiveria: - Perché no? - Sì... perché no!

La portarono nella sua stanza. Mi fece un'ultima supplica: - Non fare niente finché sono qua, se ti succedesse qualcosa ne morirei. Promettimelo. - Non ho niente da promettere, quindi non preoccuparti. A domani. Non mi rispose. Sulla strada del ritorno, mi venne voglia di tornare alla clinica e farle le promesse più folli. Poi, per orgoglio, decisi di raggiungere i miei amici da mamma Lulù e festeggiare degnamente la nascita della mia piccina. Fu una festa scatenata. Lo champagne scorreva a fiumi. Durante la serata diverse ragazze vennero al nostro tavolo. Corteggiai le mie due vicine e non ebbi un solo pensiero per la mia donna, anche se le volevo un gran bene. Verso mezzanotte dissi a Paul: - Su, andiamo a finire la festa da me. Paul mi guardò stupito. - Con le ragazze? - fece lui, sorpreso. - Certo, con le ragazze. Fu così che mezzo ubriaco mi ritrovai con due magnifiche femmine nel mio letto. Feci l'amore con tutt'e due. Paul, da parte sua, si appartò con una biondina nella camera degli ospiti. Bussò alla mia porta ed entrò senza attendere la mia risposta. Era nudo, una bottiglia di champagne in una mano, una coppa nell'altra. Mi guardò e mi disse con una voce che l'ebbrezza rendeva comica: - E oltretutto te ne fai due!... Vuoi che ti dica una cosa? ... Sei un porco. La tua donna ha appena partorito e tu ti porti due troie in casa, e oltretutto te le scopi nel letto matrimoniale! Con gesto teatrale depose la bottiglia nella culla bianca che troneggiava in mezzo alla stanza e si mise a cullarla. Fece finta di rivolgersi a un immaginario neonato e, cantilenando, disse: - Tuo padre è un porco... un maledetto porco... siamo tutti dei porci.

Poi, serio: - Non avevamo il diritto di farlo a casa tua. Dì a queste ragazze di sgomberare il campo, se no lo faccio io. Mi era passata la sbronza e mi rendevo conto della laidezza del mio gesto, perché prima non avevo mai fatto salire delle ragazze in casa. Non me lo spiegavo neanche. Era uno strano modo di ringraziare mia moglie per avermi dato una bambina così graziosa! Ero senza morale e senza rispetto per colei che amavo. Mi permettevo di tutto. Paul aveva ragione... Gentilmente chiesi alle ragazze di rivestirsi e di andarsene, cosa che fecero senza protestare. Rimasti soli, Paul mi fece la ramanzina: - Non è mica bello quello che abbiamo fatto, e l'alcol non è certo una scusa. Questa è la casa di Sole e di tua figlia. Non è un bordello... A proposito, come la chiamerai, la piccola? - Sabrina - risposi. - Sì, è un bel nome. Adesso che hai una bimba, per noi cambia qualcosa? - No, niente, lo sai benissimo. - Allora non vedrai crescere tua figlia. - Perché dici così? - Perché presto o tardi ci ritroveremo in prigione e per molto tempo. - Lo so - dissi - ma è un rischio che devo correre. - Sì! Un rischio per lei di non conoscere mai il padre. In ogni caso è un problema tuo e tu sai quello che fai. Verso mezzogiorno se ne andò. Da parte mia feci sparire ogni traccia di presenza femminile. Nei cinque giorni che seguirono stetti molto tempo vicino a Soledad. Un modo come un altro per farmi perdonare quella serata. Lei era radiosa. Non ero mai stato così premuroso. Assistevo con ammirazione all'allattamento di

mia figlia. Era un bel quadretto e non mi stancavo di rimirarlo. Sì, ero innamorato della mia donna. La nostra intesa sessuale era perfetta. Allora perché cercare altre donne da scopare senza sentimento per il semplice piacere di averne una in più? Non sapevo spiegarmelo. Lo consideravo normale, senza pensare al male che poteva fare a Soledad se un giorno fosse venuta a saperlo. Mi dicevo che questo modo di vivere faceva parte del mio ambiente. Pistole, puttane, alcol, gioco, furti... Che bell'eredità preparavo per questa bambina! Soledad uscì dalla clinica e tornò nel nostro appartamento. Ero io a portare il fragile corpicino di Sabrina. Per lei sarei dovuto cambiare, ma ero troppo preso dal crimine per vedere questa soluzione.

La nascita di mia figlia mi riavvicinò molto ai miei genitori. Andavamo spesso a cena da loro. I rapporti con mia madre erano migliorati. Ma entrambi continuavano a ignorare le mie attività illegali. Mio padre non nascondeva la gioia di avere una nipotina. Volevano bene a Sole e credevano che la sua presenza mi avrebbe cambiato. Era vero che la nascita di mia figlia mi aveva un po' maturato, ma solo in apparenza; interiormente ero sempre lo stesso e continuavo a rubare. Su consiglio di Guido, avevo fatto un furto senza importanza fuori Parigi; infatti mi aveva detto che se mi avessero arrestato per qualcosa di grave a Parigi, avrei sempre potuto sperare di essere trasferito in provincia dove mi sarebbe stato più facile evadere. Il colpo fruttò poco, ma mi fu utile. Quel consiglio, sfruttato tredici anni più tardi, mi avrebbe permesso di portare a termine un'evasione a mano armata che fu a dir poco spettacolare. Ero stato più volte costretto ad andare all'estero per affari. Le proteste di Sole non cambiavano niente. Durante la settimana capitava di andare insieme in una casa di campagna che avevo affittato con i miei amici. La casa ci serviva come deposito per il nostro materiale. C'era una cantina molto spaziosa che avevo trasformato in poligono di tiro. A forza d'allenarmi ero diventato un tiratore istintivo molto in gamba. Con Sole facevamo lunghe passeggiate nel bosco e ci portavamo anche Sabrina. Amavo quella tranquillità e quell'odore di sottobosco. Finché eravamo soli, Sole era sorridente, ma quando uno dei miei amici ci raggiungeva diventava aggressiva e sgradevole, facendogli capire che rovinava la nostra serenità. Un giorno Paul e Jacky mi raggiunsero perché avevamo progettato un colpo nei dintorni. Sole era furiosa e, questa volta, dimenticando ogni prudenza, me lo dimostrò apertamente. Non aveva la mentalità del delinquente e non poteva capire la gravità delle sue parole. Al momento della mia partenza, mettendomisi davanti, arrivò a pronunciare minacce cariche di

conseguenze: - Questa volta, se parti, vado alla polizia! Mi chiesi se avevo inteso bene. Paul, vedendomi diventare livido di collera, mi gridò: - Jacques! Troppo tardi: colpii Sole due volte. Lei crollò ai miei piedi. Tirandola per i capelli, le feci salire le scale, sulla schiena, fino al primo piano. Ero scatenato, perché la sua minaccia davanti ai miei amici mi colpiva come un insulto e la sua gravità poteva mettere in gioco la nostra sicurezza. Quando estrassi l'arma Paul sbiancò. Jacky ci aveva raggiunto e restava silenzioso. Sole sanguinava dalla bocca e mi guardava, stupita di aver scatenato in me una tale violenza. Tenendola per i capelli, le rovesciai la testa e le misi la canna in bocca: - Ascolta, troia, se i miei amici me lo chiedono, ti abbatto sul posto. Paul e Jacky, ben lungi dall'esigere un tale castigo, cercarono di calmarmi; ma io ero ormai lanciato, con l'arma sempre puntata alla sua testa: - Se un giorno provi soltanto a pronunciare un'altra minaccia del genere, ti uccido. Dovrei farlo subito, ma garantisco il tuo silenzio di fronte ai miei amici ... Davanti a me puoi pronunciare tutto tranne la parola polizia. Mi fissò con gli occhi neri di odio, era aggressivamente bella, e disse: - E dai, uccidimi... Fallo, voglio morire, non voglio più vivere in questa maniera... Dai, spara se vuoi! - Paul era basito. Mi mise la mano sulla spalla: - Dobbiamo andare, non possiamo più aspettare. Lasciala, si calmerà da sola. Le diedi due schiaffi dicendole: - Se vuoi crepare, in bagno c'è tutto quel che ti serve... Fai pure... E buon viaggio... Ma vedi di non fallire. Poi, voltandole le spalle, la lasciai sola con la sua sofferenza e le sue

lacrime; sapevo che ero stato vicino ad ammazzarla. Jacky stimava molto Sole; quella scena gli aveva fatto male, perché sapeva che non avevo bluffato e che le mie minacce erano reali. - Vieni, andiamo e dimentica quello che ha detto, i suoi nervi hanno ceduto. Sai bene che non farebbe mai una cosa del genere. - Certo che lo so, ma mi ha fatto arrabbiare. Se fosse stato un uomo, l'avrei ucciso. - Ho proprio pensato che l'avresti fatto... Buon Dio, ho temuto per lei! Rimasi nervoso per l'intero tragitto. Non mi piaceva picchiare Sole, ma avevo completamente perso il controllo. Verso mezzanotte fummo di ritorno. Alcune circostanze impreviste avevano reso inattuabile il nostro progetto e dovemmo rimandarlo. Le luci di casa erano accese. La porta era aperta. Salii subito nella mia stanza. La culla di Sabrina era vuota. Provai un tuffo al cuore e andai a controllare al primo piano. Arrivato in bagno, vidi il corpo di Sole steso a terra, con vari tubetti di pastiglie vuoti sparsi intorno a lei. Era incosciente ma respirava. Sullo specchio, scritto con il rossetto, un grande TI AMO. Ero preoccupato soprattutto per mia figlia. Chiamai i miei amici: - Salite, svelti, ha fatto una sciocchezza e non trovo la piccola. Paul e Jacky bestemmiarono vedendo il corpo di Sole. Io scesi a cercare la bimba. Sotto il tavolo della sala da pranzo scorsi il lettino da viaggio in tela che usavamo per trasportare in auto Sabrina. La bambina era lì e dormiva beata. La presi subito in braccio e le annusai la bocca per cercarvi un odore di medicinali. Niente, tutto normale. Sabrina mi guardò con i suoi occhietti rotondi e mi fece una smorfia che voleva essere un sorriso. La baciai diverse volte sulla fronte e la rimisi al caldo nel lettino. Sinceramente avevo avuto paura che Sole avesse trascinato mia figlia nel suo stupido gesto. Credo che se ciò fosse successo l'avrei finita sul posto. Perché per me Sabrina era il bene più prezioso. Era ciò che avevo di puro e di bello. Incarnava il mio contrario. Jacky restò con mia figlia. Paul e io portammo Sole in una clinica della città. Arrivati sul posto e dopo una breve spiegazione, fu condotta in una stanza per la lavanda gastrica. Il dottore ritornò per dirmi: - Niente di grave, se la caverà. Ma i segni che ha sul corpo richiedono una

spiegazione e... Non gli lasciai il tempo di finire la frase: - Sono stato io dottore, abbiamo litigato e l'ho colpita; non ne sono fiero, ma è troppo tardi per rimpiangerlo. Mi promise di lasciar cadere la questione e la mazzetta di banconote che gli tesi mise rapidamente a tacere la sua coscienza. - Datele la camera migliore. Tornerò domattina a vederla. Non fatela uscire per nessun motivo. Al mattino andai da lei. Mi faceva un po' pena, ma le mie prime parole furono dure: - Complimenti! Tenti di ucciderti e lasci sola la bambina. Se per caso l'altra sera mi avessero arrestato, nessuno avrebbe saputo che Sabrina era in quella casa isolata con il cadavere della madre al primo piano. Credo che il tuo tentativo avesse il solo scopo di spaventarmi, perché il medico mi ha assicurato che quel che hai ingoiato non era poi così tossico. Se avessi usato una delle mie pistole non avresti fallito. Non ci sarà una prossima volta, sta' certa. Non mi piace la commedia del finto suicidio. - E Sabrina? - mi chiese, con gli occhi sul lenzuolo. - L'ho affidata a una persona seria. La rivedrai solo quando avrai abbandonato le tue idee suicide. Resterai qui qualche giorno. Ero in piedi vicino a lei e mi trattenevo dallo stringerla tra le braccia. In fondo non ero cattivo, ma orgoglioso e molto violento. Fece il gesto giusto. Posò la mano febbricitante sulla mia e, con una voce che era un grido d'aiuto, mi disse: - Perché siamo condannati a farci soffrire l'uno con l'altra?... Perché continuo ad amarti? Non mi lasciare qui. Per favore, portami via e cerca di capirmi... I miei nervi hanno ceduto. Certe volte sei così gentile e delicato! Ma quando sei con i tuoi amici io passo in secondo piano e tu non sei più lo stesso. Jacques, ho la sfortuna di amarti. Mi ero seduto sul letto e la lasciai piangere, con la testa appoggiata all'incavo della mia spalla. Mi faceva male, perché sentivo la sua sofferenza. Le presi dolcemente la testa tra le mani. Volevo calmarla e tre minuti prima

ero venuto per sgridarla. - D'accordo, piccola, ti porto con me; sai cosa facciamo? Mi rispose con un timido «no» soffocato dai singhiozzi. - Ci sposiamo, se accetti di prendere per marito un bruto come me. Lo hai sempre desiderato e lo faremo. I suoi occhi sembravano fontane. - Dici davvero?... Non lo dici per farmi piacere?... Oh! Sì, voglio sposarti! Quando entrò il medico ci trovò con le labbra unite in un bacio appassionato. - Oh! Pardon. Poi, vedendoci sorridere: - Preferisco vederla così, signorina. - Posso portarla con me, dottore? C'è qualche controindicazione? - No, non ce n'è. Ma voglio parlarle un momento in privato, prima che ve ne andiate. Mi disse che Sole era molto depressa e che dovevo essere molto calmo con lei per aiutarla a risalire la china. Gli promisi di fare il necessario. Per diversi giorni vivemmo un amore perfetto. Avevo chiesto ai miei amici di non venire. Feci tornare a casa Sabrina. Richiedemmo i documenti necessari per sposarci. Siccome lei era spagnola, c'erano alcune complicazioni burocratiche e per superarle ci volle un po' di tempo. Sole non pensava che a quel giorno. Se mi capitava di uscire di notte per andare a raggiungere i miei amici, lei non mi diceva niente. Una sera, dopo una rissa, ero rientrato con del sangue sui vestiti. Non una parola. Credevo di sognare. Sarebbe finalmente diventata la donna di un bandito che evita di fare domande, sapendo che sarebbero rimaste senza risposta? No, si sforzava solo di non dire niente. Ma la sua sofferenza e la sua gelosia erano le stesse. Non si sarebbe mai potuta adattare al mio modo di vivere. Era troppo possessiva per accettare di dividermi con i miei amici, con il mio giro, con qualunque

cosa. I miei genitori erano felici di vedermi risposare. Speravano che il mio comportamento si sarebbe stabilizzato. Facemmo un piacevole viaggio di nozze in montagna. Poi ricominciai la mia attività di ladro, nonostante le proteste di Sole.

Andavo spesso da mamma Lulù. Il suo bar ci serviva da punto di ritrovo. Vedendo la mia fede, con aria interrogativa mi disse: - La piccola spagnola? Alla mia risposta affermativa, scosse la testa. - Non è fatta per te, è troppo per bene e troppo debole per un tipo come te. Tu ami troppo la libertà... Ti ci voleva una donna come me... Poi, sorridendo, le mani cariche di gioielli falsi e vistosi appoggiate ai fianchi enormi: - Eh, se fossi venuto quarant'anni fa. Ero una bella donna, sai... Guarda che ne è rimasto! - Ehi, Lulù, nessun rimpianto... Sai che per noi sei sempre la più bella. Poi, sornione: - Hai giusto qualche chiletto di troppo, ma non tanti! A lei piaceva che la prendessi in giro sul suo peso e non se ne faceva certo un complesso. Una sera alcuni tipi di passaggio, pieni d'alcol, osarono insultarla. Ne seguì una terribile rissa e finì a coltellate. Paul si ritrovò con un braccio rotto dal lancio di uno sgabello e io con un taglio all'avambraccio. Quando arrivò la polizia eravamo già lontani. Ma uno degli avventori era rimasto a terra, vivo, ma con una brutta ferita al basso ventre. Decisi di tenermi per un po' alla larga da mamma Lulù. Con i miei amici facevamo una bella squadra e, da più di un anno, tutto funzionava alla perfezione. Trafficavo un po' con degli orologi d'oro svizzeri.

Avevo avuto per le mani anche dei dollari falsi che arrivavano dal Messico, ma non erano perfetti e non volevo impegnarmi più di tanto. A poco a poco cominciavo a essere rispettato nei luoghi dove mi presentavo perché non passavo certo per un tipo tenero. Diverse volte ero intervenuto in favore di amici o nuove conoscenze con cui volevo entrare in affari. Di notte avevo preso l'abitudine di muovermi sempre con la calibro 45. Guido era partito per un viaggio nel suo paese natale, in Sicilia. Con Jacky rapinai le buste paga di uno studio di progettazione, senza usare le armi. Ci eravamo limitati a tramortire il contabile sulle scale mentre saliva per consegnare il denaro al capo del personale. Il colpo era riuscito perfettamente, ma mi ero stupito nel vedere il contabile difendersi con grande tenacia. In seguito capii perché non voleva mollare il portadocumenti con il denaro. La polizia, certa che la dritta venisse da qualche impiegato, condusse un'inchiesta completa su molti dipendenti, tra cui il contabile vittima della nostra aggressione. Si scoprì che era proprietario di diversi appartamenti. Dopo aver verificato la sua contabilità, risultò che da più di quindici anni truffava lo studio. Fu arrestato e pestato dalla polizia, convinta che fosse stato lui a orchestrare la sua stessa aggressione. Noi sapevamo bene che non c'entrava niente. Ci dispiacque che la nostra rapina avesse messo fine alla sua carriera di truffatore. Capimmo meglio anche il suo accanimento nel difendersi. Sapeva che avrebbero fatto dei controlli e che sarebbe stato il primo sospettato. Questa storia ci ha sempre fatto sorridere: il padrone della società avrebbe dovuto benedire la nostra idea di aggredire il contabile: gli era costato sicuramente meno di quindici anni di appropriazioni indebite. Arrivò Natale, era il 1961. Per Sabrina facemmo una festa in famiglia. Avevo preso gusto ad addobbare il suo primo albero di Natale. Aveva poco più di sei mesi e io ne ero innamorato pazzo. Mi divertivo a fare il pagliaccio per strapparle un sorriso. Rimanevo ammirato quando le sue piccole dita stringevano con forza il mio indice o quando un rutto sonoro annunciava la fine del suo pasto. Sole mi guardava ed era felice di vedere la mia gioia di padre. Litigavamo meno, ma il suo atteggiamento nei confronti dei miei amici era sempre più ostile. Siccome era vicina la fine dell'anno, le avevo chiesto che regalo volesse. - Ho un solo desiderio e tu sai bene qual è - mi aveva risposto. Sì, sapevo quel che voleva e questo non potevo darglielo, non ci pensavo nemmeno. Un mattino, Paul venne a cercarmi. Sole mi chiese di non andare, dicendomi che sentiva che mi sarebbe successo qualcosa. Risposi alla sua angoscia con un sorriso e uscii dicendole: «a stasera». Paul mi fece incontrare alcune persone che frequentava al di fuori del nostro giro. Le conoscevo appena. Con loro aveva progettato un colpo in banca.

Con il braccio rotto gli era impossibile partecipare e mi aveva chiesto di prendere il suo posto. La cosa non mi entusiasmava, ma avevo acconsentito per fargli un favore. Giravo con l'auto di mio padre, perché mi aveva chiesto di trovargli un acquirente. Uno dei miei nuovi complici ebbe la cattiva idea di dirmi che avremmo potuto utilizzarla mascherando semplicemente la targa con del fango. Ciò presentava il vantaggio, una volta fatto il colpo, di essere insospettabili data la rispettabilità di mio padre. Non ero affatto d'accordo. Mi andava bene di usarla per il cambio d'auto, ma non per l'assalto. Ci mettemmo d'accordo per rubare una vettura nella città vicina a quella della banca e utilizzare la mia dopo il colpo. Mantenemmo l'idea di camuffare le targhe con il fango perché era buona. Uno degli amici di Paul non mi piaceva; con la sua faccia da spaccone non m'ispirava alcuna fiducia. Mi disse che avrebbe guidato lui e che si sarebbe occupato di rubare la macchina. Mi spiegò nei particolari il piano di assalto alla banca e le posizioni che avremmo occupato. Era una Cassa di risparmio in una città di provincia, Le Neubourg. Questa città si trovava a una ventina di chilometri dalla proprietà dei miei genitori. Pensai che avremmo potuto sfruttarla per passarci la notte dopo il colpo. Decidemmo di agire appena prima della chiusura. Ci recammo quindi alla proprietà dei miei. Sul posto, mettemmo tutto in ordine e controllammo le armi. Un'ora prima della partenza, quello che doveva rubare la macchina andò nella cittadina vicina per trovarne una. La notte scese molto presto, perché era inverno. Quando lo vidi tornare a piedi e senz'auto, non potei fare a meno di dire: - E allora, la carretta? - Non sono riuscito a prenderla. Ho anche rischiato di farmi beccare mentre ne forzavo una. Nel parcheggio c'era troppa gente. - Stai scherzando? Con quale macchina faremo il colpo? - Possiamo prendere la tua, la camufferemo... Vedrai, non ci sarà nessun problema. Ero arrabbiatissimo, avevo voglia di mandare tutti al diavolo e tornare a casa. Poi pensai a Paul e, tutto sommato, non era un gran rischio. Decidemmo solo di parcheggiare l'auto un po' più lontano dalla banca. Giunti sul posto, avremmo dovuto separarci e raggiungerla a piedi, mentre l'autista si posizionava nella piazza della chiesa. Partimmo. Arrivammo come previsto e ci separammo. Nei pressi della banca, vidi la nostra macchina parcheggiata, ma nessuno era al volante né vicino. In compenso, alcuni gendarmi pattugliavano a piedi la zona. I miei

due complici non c'erano più. Cominciavo a inquietarmi, perché niente andava come previsto e i poliziotti sembravano cercare qualcuno. Quando vidi che chiedevano i documenti ai passanti, decisi velocemente di entrare in un grande magazzino. Con le borse della spesa, potevo lasciar credere che abitassi nella cittadina ed evitare così d'attirare l'attenzione. Comprai della frutta e del pane, poi uscii. I poliziotti erano ancora più numerosi e ne vidi uno che girava attorno alla mia macchina e guardava le targhe. All'orizzonte non vedevo nessuno dei miei complici. Mi avviai per una stradina un po' in ombra e feci scivolare la pistola nel sacchetto della frutta. In quel momento, una voce mi chiamò: - Ehi! Lei, laggiù, venga un po' qui. Erano due gendarmi. Con grande naturalezza andai loro incontro. Avevo l'aria diffidente, ma non aggressiva. - Ha i documenti? - Certo, vuole vederli? - No, ma ci segua per un controllo. Ero sicuro di me e, seguendoli, approfittai del fatto che camminavano davanti per liberarmi del sacchetto della frutta lasciandolo cadere in un canale di scolo. Sarei potuto scappare, ma non avevo niente da nascondere e preferivo rischiare un controllo, ora che mi ero sbarazzato dell'arma. Un furgone della gendarmeria era parcheggiato sulla piazza. Mi ci fecero salire. Ebbi la brutta sorpresa di vedervi uno dei miei complici. Feci finta di non conoscerlo. Arrivati alla gendarmeria, mi chiesero di vuotare le tasche. Tutti i miei documenti furono messi sul tavolo, compreso il libretto di circolazione dell'auto. Senza alcuna spiegazione mi dissero d'aspettare in una stanzetta. Di fronte alle mie proteste mi dissero di chiudere il becco, cosa che non faceva presagire niente di buono. Venti minuti dopo, quattro gendarmi furiosi e nervosi si precipitarono su di me e mi ammanettarono dietro la schiena. Mi portarono nell'ufficio del loro capo. Uno di loro mi puntò la mitraglietta al fianco e m'insultò con rabbia. Capii che stava perdendo il controllo. Mi chiedevo che cosa avesse provocato questo cambiamento. Non avrei tardato molto a scoprirlo. La mia auto era stata ritrovata e le targhe sporche di fango erano state confrontate con il mio libretto di circolazione. Avevano perquisito il veicolo. I miei due complici, non contenti d'aver abbandonato l'auto, vi avevano lasciato dentro le armi e due maschere. Compresi subito che mi trovavo in un bel guaio e che avrei faticato a uscirne. Dovevo preparare una

spiegazione, perché il capo dei gendarmi s'era alzato ed era fuori di sé. Mi trattava da bandito, da assassino. Mi aveva preso per il bavero della giacca e mi scuoteva per far cadere come frutti maturi le mie confessioni. Da parte mia facevo l'innocente e preferivo tacere, perché rispondere a un esagitato in mezzo a un gruppo di esagitati era come pregarli di picchiarmi. L'avevo già messo in conto: avevo intenzione di non dire niente, anche se l'avrei pagata cara, per colpa di quei due porci che avevano lasciato le loro armi prima di scappare, ben sapendo che con la loro vigliaccheria mi avrebbero lasciato nella merda. Non ebbi il tempo di pensarci a lungo, la porta si aprì. Sentii uno dei poliziotti dire trionfalmente: - Li abbiamo presi. Vidi i miei due complici ammanettati e scortati passarmi davanti. Non ci capivo più niente. Eravamo stati arrestati tutti e quattro senza difficoltà. Pensai subito che ero stato invitato a partecipare a un colpo organizzato dagli sbirri. Non vedevo altra possibilità. La spiegazione era più semplice. Un poliziotto in borghese aveva seguito la nostra auto due chilometri prima dell'ingresso in città. Aveva notato che le targhe erano sporche e illeggibili. Il fatto che quattro uomini occupassero il veicolo gli era sembrato sospetto e lo aveva indotto a pensare che la macchina fosse rubata. Ci aveva visto scendere, separarci e si era accorto che la macchina veniva parcheggiata non lontano dalla banca. La sua perspicacia aveva fatto il resto. Avvertiti i colleghi che pattugliavano la città, aveva dato l'allarme generale. Uno dei miei complici, vedendo quello spiegamento di forze, aveva raggiunto l'autista e, invece di andarsene con la mia macchina e di buttare le armi in campagna, l'avevano abbandonata sul posto con dentro il loro arsenale e se n'erano andati a piedi lungo la strada, facendosi arrestare mentre chiedevano un passaggio a una macchina piena di sbirri. Nella gendarmeria l'agitazione era al massimo. Tutti parlavano contemporaneamente. Io speravo solo che nessuno dei miei complici parlasse, se no eravamo belli e pronti per quindici anni di galera. Se ce n'era bisogno, ero pronto ad accollarmi le armi, per evitare che gli altri fossero coinvolti. Non era certo il momento dei rimproveri, bisognava prepararsi una solida difesa. Con lo sguardo feci loro capire, meglio che potevo, che dovevano tenere la bocca chiusa e lasciarmi fare. Ci separarono. Ero il più giovane, quindi l'interrogatorio cominciò da me. Questa volta era un comandante della gendarmeria a farmi le domande; né aggressivo né violento, provava il metodo amichevole. - Conosce i tre uomini che sono stati arrestati con lei? Voglio avvertirla che uno dei miei uomini vi ha visto insieme nella macchina, che mi pare appartenga a suo padre. Quest'affare può costarvi caro, perché le maschere

confermano che volevate fare una rapina. - Comandante, non ho intenzione di risponderle e non so di quali uomini stia parlando. - Ma la macchina è quella di suo padre! Abbiamo controllato. Gli ho anche parlato al telefono. Mi ha detto che l'aveva incaricata di venderla. Allora, sempre niente da dire? - Niente, voglio solo telefonare a un avvocato. Non ebbi il tempo di terminare la frase che ricevetti un pugno dietro la testa che mi catapultò in avanti. Siccome avevo le manette sulla schiena, caddi disteso sulla scrivania del comandante. Mi rimisero al mio posto, tirandomi per i capelli. La botta mi aveva colto di sorpresa e faceva molto male; schiumavo di rabbia. - Banda di bastardi, se pensate che questo cambi le cose! Andate a farvi fottere, figli di cagna. Quello che mi aveva colpito stava per rifarlo, ma il suo comandante lo fermò con un ordine secco: - Riportatelo in cella e fate venire gli altri. Può darsi che siano più chiacchieroni. Mi vennero a prendere in piena notte e fui portato a Louviers, dove si trovava la proprietà dei miei genitori. Cominciai a preoccuparmi. Speriamo che nessuno degli altri tre abbia parlato, pensavo. Mi lasciarono tutta la notte in una cella umida e senza cibo. Avevo mal di testa. E dire che se i miei complici non avessero lasciato le loro armi nell'auto non sarebbe successo niente, perché i documenti della macchina erano in regola e il fatto di avere del fango sulla targa non era certo un delitto. Farsi prendere in quella maniera era troppo stupido! E ciò che l'avvenire mi riservava di certo non mi rincuorava. Mi misi a pensare a Sole che mi aspettava. L'avevano avvertita del mio arresto? Questa volta non mi avrebbe visto ritornare. Ero dispiaciuto per lei. La mia situazione mi fece comprendere che saremmo stati separati per molto tempo e il pensiero mi addolorava profondamente. Nel buio della cella, mi sentii dire: «Perdonami, tesoro, per il male che ti faccio, avevi ragione. Questa volta è finita». Speriamo che non l'arrestino, pensavo, che non credano che sia al corrente delle mie attività! Per tutta la notte mi torturai mentalmente pensando alla mia donna. Troppe domande restavano senza risposta. Capivo quanto mi sarebbe mancata. L'umidità della coperta mi fece sentire ancora più solo e mi misi a pensare al corpo caldo di Sole, alle sue carezze amorose, a tutto ciò da cui sarei stato

separato per colpa mia. Mi ero fatto catturare come un imbecille e me la prendevo con Paul per avermi presentato simili soci. Al mattino, dovetti subire un altro interrogatorio. Davanti al mio silenzio il comandante della gendarmeria m'informò che avrebbero perquisito la proprietà dei miei genitori e che dovevo essere presente. Mi mostrò anche la pistola che avevo buttato nel canale di scolo. - Abbiamo trovato quest'arma nel luogo in cui i miei uomini l'hanno arrestata. La dice lunga sui suoi progetti: aveva il colpo in canna. O vuol dirmi che non è sua? Non gli risposi neanche. Diede l'ordine di partenza. Mi fecero salire in macchina con solo due gendarmi di scorta, oltre a lui. Arrivati sul posto, il comandante fece parcheggiare l'auto sulla strada che costeggiava la tenuta dei miei e vi entrò con me, accompagnato da un solo gendarme. Decisi immediatamente di tentare la fortuna se se ne fosse presentata l'occasione. Commise l'errore di farmi togliere le manette. Mi mostravo sottomesso e remissivo, per guadagnarmi la loro fiducia. In realtà avevo i nervi tesi. Dopo aver rapidamente perquisito il pianterreno, mi ordinò di salire al primo piano. Vidi subito che la chiave della porta di camera mia era nella serratura dal lato del corridoio. Un'idea folle mi passò per la testa. Dovevo tentare la sorte. - Comandante, tanto so che le troverete, allora tanto vale che ve lo dica subito; ho delle armi nell'armadio della mia stanza. Un sorriso vittorioso gli si dipinse sulle labbra. - Allora, alla fine vuole essere ragionevole? - Credo sia meglio per me, venite, è di qua. Entrarono nella stanza. L'armadio era in fondo alla camera. Il comandante lo aprì. Effettivamente scorse subito una carabina. Il suo collega si sporse per guardare da sopra la sua spalla. - Sotto le scatole di cartone ci sono due pistole, attento, comandante, sono cariche. - (Il che era totalmente falso, visto che non avevo nascosto nulla là dentro.) S'inginocchiò e cominciò a frugare. Silenziosamente ero arretrato, poi, di colpo, vedendoli assorti a cercare, balzai oltre la porta e la chiusi con

violenza, girando la chiave nella serratura. Mi precipitai giù per le scale a tutta velocità, saltando i gradini a tre a tre per andare più veloce. Non ebbi neanche il tempo di sentirli gridare di rabbia. Il gendarme che era fuori ad aspettare si precipitò, arma in pugno, verso la porta principale. Io, invece, ero uscito dalla porta sul retro. La proprietà era circondata da un alto muro che io scavalcai saltando dall'altro lato. Caddi male e presi una storta. Provai un forte dolore, ma continuai la mia folle corsa. Vedendo l'auto dei gendarmi vuota, la raggiunsi con la speranza di poterla usare per la fuga. Le chiavi però non erano nel quadro. Non avevo un minuto da perdere, corsi in direzione dei campi sperando di arrivare al bosco. Dopo aver percorso duecento metri, il piede cedette e caddi lungo disteso. Con la faccia a terra, ansimavo, ero senza respiro. Quando mi rialzai, sentii un rumore di motore e delle portiere che sbattevano. Trascinavo la gamba, ma procedetti lo stesso. Mi voltai e vidi che i tre gendarmi erano a meno di sessanta metri. Ero zuppo di sudore, sfinito, il piede mi procurava un dolore atroce. Sentii la voce del comandante che mi ordinava: - Fermati! Non costringermi a ucciderti! Fermati, per Dio! Non potevo più correre, ma continuavo ad avanzare in direzione del bosco. Tre spari ruppero il silenzio e le pallottole mi fischiarono vicino alle orecchie. Questa volta terminai la corsa. I tre gendarmi mi avevano raggiunto e ansimavano come buoi. Mi aspettavo di essere picchiato. Ma, al contrario, fu il comandante a prendere la parola, senza cattiveria, dopo avermi fatto rimettere le manette: - Ma sei pazzo o cosa? Perché l'hai fatto? Avrei potuto ucciderti. - Non ho voglia di finire in galera - dissi, non avendo trovato altri argomenti. - Eppure è lì che andrai e per molto tempo! Fui riportato alla gendarmeria senza subire alcuna violenza. Ma quando lo sbirro che mi aveva pestato il giorno prima mi vide, non riuscì a trattenere la rabbia. - Se ci fossi stato io, bastardo, le pallottole le avresti prese in testa, non in aria!

Mi invase la collera: - Ma vai a farti fottere una buona volta, cane maledetto! Pensai che sarebbe soffocato lì per lì. Paonazzo, schiumante di rabbia, gli occhi fuori dalle orbite, non si controllava più. - Cosa? Tu osi dirmi questo, maiale! Il suo pugno partì in direzione della mia faccia, ma finì contro le manette. Da parte mia, dimenticando il piede ferito, provai a dargli un calcio nel basso ventre; ma, appoggiandomi sulla gamba sinistra, per il dolore persi l'equilibrio. Ebbi solo il tempo di vedere gli altri gendarmi che trattenevano il forsennato, evitandomi un brutto pestaggio, perché non ero né nella posizione né nelle condizioni fisiche di battermi. Arrivò il comandante, allertato da tutto quel casino: dopo aver visto la scena, diede degli ordini secchi e mi fece portare in un'altra stanza. In serata fui portato davanti al giudice istruttore. Di fronte al mio rifiuto di rispondere, senza la presenza del mio avvocato e dopo aver sentito la mia spiegazione sul tentativo di evasione, m'informò che ero in custodia cautelare. Ai miei complici toccò la stessa sorte.

Oltrepassando le alte mura del carcere di Evreux, il primo contatto mi raggelò il sangue. Tutto era freddo e ostile, anche lo sguardo delle guardie mi sembrò senza vita. Quando mi fecero mettere completamente nudo per la perquisizione corporale e il capo mi ordinò di abbassarmi in avanti, di presentargli il culo, di divaricare le gambe e tossire, ebbi voglia di protestare. Ma ero troppo stanco e capii subito che non avevo interesse a fare il riottoso. Quella storia della perquisizione corporale era molto umiliante e il mio orgoglio ne fu colpito profondamente. Credo che se fossi stato armato li avrei fatti mettere tutti nudi e avrei sparato nel mucchio per lavare l'offesa. Dal mattino non avevo ancora mangiato niente e mi diedero appena un pezzo di formaggio con un po' di pane. Il piede si era gonfiato e stava assumendo un brutto colore. Quando feci notare alla guardia che camminavo a malapena la risposta fu secca e impersonale: - Vedremo domani! Dopo avermi dato le lenzuola e due coperte mi portarono in un grande atrio. Vi regnava un silenzio di tomba. Vedere tutte quelle porte numerate, chiuse e allineate come gli scomparti di un obitorio, immaginare che dietro le porte degli uomini avevano come unico universo l'oppressione della cella e la

solitudine, sentire che qui l'uomo sopravviveva non potendo vivere, scoprire ciò che mi aspettava mi fece infine comprendere che cosa significa perdere la libertà. Ci fermammo. La guardia girò una chiave nella serratura. Entrai in quella che sarebbe stata la mia cella. Tre metri per due di freddo e umidità. Spesse mura mi circondavano e trasudavano infelicità, lacrime e sofferenza. Quando la porta si richiuse, mi fece l'effetto di una pietra tombale. Fra quelle mura ero certo che qualcosa di me sarebbe morto. Solo con il mio dolore, mi misi a pensare alla mia donna. Avrei forse perso il suo amore? Bisogna essere separati per capire l'importanza di stare insieme. No, non provavo alcun rimorso per le mie azioni. Il rimorso non è altro che uno spauracchio piantato dalla morale ai confini del male. Rimpiangere significa ammettere di avere sbagliato. Avevo riflettuto troppo sul mio modo di vivere per poter ammettere, adesso che ero prigioniero, il mio errore di giudizio. Quella fine era inevitabile; da più di due anni avevo fatto del furto un mestiere, avevo anche ucciso per regolare i miei conti e quelli dei miei amici, quindi oggi non era certo il momento dei rimpianti, ma quello di pagare. Non riuscii a dormire tutta la notte. Al mattino, la mia porta s'aprì per la distribuzione del caffè, che non era altro che acqua sporca senza gusto né odore. Alla luce del giorno la mia cella era sudicia con i muri slavati coperti di graffiti. Leggendo, appresi che «Pierrot ama Nina», che «Bébert è un finocchio», che «Canard ha passato sei mesi in questa cella», tanti insulsi messaggi lasciati lì da uomini che non avevano trovato altro confidente che quella parete. Dalla mia finestra intravidi il muro di cinta che mi separava dalla libertà. Il mio pensiero andò a Sole e Sabrina. Paul aveva avuto ragione a dirmi: «Non la vedrai crescere». Sapevo che, alla notizia del mio arresto, i miei amici si sarebbero preoccupati di procurarmi un avvocato attraverso mio padre, come eravamo rimasti d'accordo. Non potevo neanche appoggiare il piede per terra. Come unica cura, me lo fasciarono senza preoccuparsi di verificare se fosse slogato o fratturato. Ero disgustato nel constatare che, una volta rinchiuso, l'uomo detenuto viene considerato inesistente. Perde molto di più della sua libertà, perde il diritto di esprimersi. Vidi colui che doveva essere il mio avvocato. Mi comunicò che mio padre gli aveva chiesto di assumere la mia difesa. Insieme mettemmo in piedi il mio piano, che era molto semplice. Mi sarei assunto la responsabilità delle armi, sostenendo che gli altri non erano al corrente di ciò che trasportavo. Anche se questa affermazione era un po' semplicistica, poteva ridurre la mia imputazione a detenzione e porto d'armi proibite e far scarcerare coloro che per un giorno erano stati miei soci. Il mio avvocato

avrebbe voluto saperne di più. Con fermezza gli feci capire che doveva seguire le mie istruzioni ed essere un po' meno curioso. Passai tutta la settimana ad aspettare una lettera della mia donna. Mi chiedevo come aveva preso la cosa. Da parte mia, cominciavo ad accettare la situazione. Le guardie, che avevano appreso la mia storia dalla stampa locale, mi trattavano senza animosità. Mi ci volle più di un mese per ricevere la prima lettera. Sole mi esprimeva il suo dolore e i suoi rimproveri. Fingeva di essere sorpresa del mio arresto. Terminava promettendo di aspettarmi, cosa che mi procurò un sorriso amaro, perché non ero più padrone del mio destino né del tempo della mia assenza. La parola «fedeltà» mi lasciava perplesso, perché un'assenza troppo lunga non è certo compensata dalle carezze di carta delle lettere d'amore. Provavo un po' di gelosia nel sapere che Sole un giorno avrebbe potuto trovarsi tra le braccia di un altro. I miei sogni erano popolati da delitti passionali, nei quali la sorprendevo con l'uomo che aveva preso il mio posto, li ammazzavo tutti e due e, con le mani sporche di sangue, prendevo mia figlia dalla culla e fuggivo lungo un corridoio interminabile, dove le risa di Sole m'inseguivano come per prendermi in giro per il mio stupido gesto. Al mattino, mi svegliavo di malumore e per tutta la giornata questa ossessione mi faceva capire che cosa aveva provato Sole durante le mie prolungate assenze. Il nostro primo colloquio fu drammatico. Lei non fece altro che piangere e dire che mi amava. Era stata interrogata dalla polizia riguardo alle mie amicizie e conoscenze. Si era comportata perfettamente, fingendo la sorpresa più totale per le mie attività. Di fronte alla sua disperazione, fui molto duro. I miei sogni si sovrapponevano alla realtà del suo amore. La vedevo con altri occhi. - Non mi aspettare, rifatti una vita - furono le mie parole. Ma il mio cuore pensava: «Ti amo, aspettami». Anche in prigione, volevo restare padrone della situazione e conservare il mio ascendente su di lei. Dietro le sbarre che ci separavano, avevo voglia di gridarle il mio amore, di dirle che morivo dal dolore di essere separato da lei. Ma il mio orgoglio mi proibiva questa debolezza; la mia durezza mascherava la mia sofferenza. M'informò che sarebbe andata a vivere dai miei genitori. - Non credere d'ingannarmi - mi disse. - Nel fondo di te stesso tu soffri, lo so, lo sento. Forse ora capirai più facilmente i tormenti che provavo ad aspettarti durante quelle lunghe notti che passavi con i tuoi amici fuori casa. La guardia ci avvisò che il colloquio era finito. Quella brutale separazione mi

fece male. Avevo troppe cose da dirle, troppe spiegazioni da darle, non me ne lasciavano il tempo. Al momento di tornare in cella, sentii che i miei occhi si riempivano di lacrime. Non era sulla mia sorte che piangevo, ma sulla disperazione che avevo letto nello sguardo della mia donna. Mi ripresi in fretta e la guardia non si accorse di nulla. Doveva essere abituato a quel genere di spettacoli, ma non volevo offrirgli la vista dell'istante di debolezza che avevo avuto. Qualche giorno più tardi, mi trasferirono in una cella dove c'erano altri due detenuti. Non mi ci volle molto per capire che uno di loro era stato piazzato lì per raccogliere o provocare le mie confidenze. Non smetteva di farmi domande. Il suo gioco mi divertiva. A poco a poco mi lasciai volontariamente scappare alcune false informazioni, fingendomi un principiante ingenuo e imprudente. Per verificare la fondatezza delle mie supposizioni, mi misi a parlargli del furto di Beaumont-le-Roger. Gli spiegai tutto nei dettagli, facendogli credere che fosse stato il mio primo colpo. Il risultato non si fece attendere, perché sei giorni dopo un commissario venne a interrogarmi in proposito. Sapevo benissimo che non c'erano prove contro di me, ma ci tenevo a essere processato per quell'affare. Sapevo di rischiare poco. In caso di grossa condanna per le armi, mi sarebbe stato molto più facile evadere dal piccolo tribunale di Beaumont-le-Roger con l'aiuto dei miei amici. Non ebbi quindi alcuna difficoltà ad ammettere quel furto, che avevo compiuto da solo. Il commissario che m'interrogò ne fu sorpreso e pensò di avere a che fare con un ladruncolo senza grande personalità. Mi sarebbe piaciuto vedere la sua faccia se avesse conosciuto le mie prodezze. Con mia grande soddisfazione se ne andò convinto che fossi uno di quei teppistelli non molto pericolosi per la società, che si fanno prendere al loro primo colpo. Tornato in cella, lo spione mi guardò con la sua aria melliflua. - Allora? Niente di grave, spero. Il mio pugno partì e lo colpì al fegato. Crollò al suolo. Mi ero gettato su di lui, con gran stupore dell'altro compagno di cella che non capiva il mio scatto violento. Gli somministrai una serie di schiaffi da staccargli la testa. Con un sorriso cattivo gli dissi: - Ho saputo che cambierai cella, porco, allora fai in fretta e sparisci. Non mi chiese altro e, quando lasciai che si rialzasse, chiamò la guardia. Dopo quell'incidente lo cambiarono di cella e una guardia mi confermò che non mi ero sbagliato. Si trattava di uno spione. Andai all'istruttoria. Il giudice accettò le mie spiegazioni sulle armi:

- Sono tutte mie. Gli altri ignoravano ciò che trasportavo. Sì, ero io che guidavo. Il risultato non si fece attendere. Due dei miei coimputati furono scarcerati, un altro restò dentro perché al momento dell'arresto gli avevano trovato un coltello a serramanico. Ero contento del risultato, anche se i miei due soci di un giorno erano direttamente responsabili dei miei guai. I giorni passavano monotoni in una cella minuscola dove eravamo costretti a vivere in tre. Lo spione era stato sostituito da un ladro di motorini. C'era un solo letto. Me lo avevano lasciato e gli altri erano obbligati a coricarsi su un materasso o per terra. Non avevamo assolutamente niente da fare. Giocare a carte era proibito. Veniva solo distribuito qualche libro una volta alla settimana. Uscivamo un'ora al giorno in un cortiletto di cemento in cui stavamo in sei. Le nostre conversazioni erano prive d'interesse. Camminavamo su e giù come burattini, senza altro scopo se non aspettare il giorno dopo per rifare gli stessi gesti, lasciando trascorrere i giorni, i mesi, gli anni che ci separavano dall'apertura dei cancelli verso la tanto attesa libertà. Non si faceva niente per il nostro recupero sociale. Anche chi avesse sinceramente voluto reinserirsi non avrebbe potuto farlo. Il poco lavoro che veniva distribuito permetteva appena di pagarsi il pacchetto di sigarette quotidiano. I detenuti erano sfruttati con la benevola complicità della direzione. Chi era entrato senza soldi, usciva nelle stesse condizioni e non aveva altra alternativa se non commettere un altro delitto per poter vivere. Dal punto di vista psicologico, quel tipo di detenzione era distruttivo; nessun insegnante per chi avesse voluto imparare un mestiere, nessuna assistenza sociale e cure mediche pressoché inesistenti. La società ci ingabbiava e trasformava la nostra detenzione in un regolamento di conti più che in un debito da pagare con la speranza di uscire un giorno. La disciplina era dura e io avevo grosse difficoltà a trattenermi di fronte agli ordini stupidi che ci venivano impartiti. Avevo la fortuna di avere denaro, cosa che mi permetteva d'acquistare generi alimentari e quindi di migliorare la nostra vita quotidiana. Ne approfittavano anche i miei due compagni di cella. Sole veniva regolarmente a trovarmi. Ogni colloquio provocava reazioni differenti da parte mia. A volte ero tenero, a volte aggressivo e brutale nelle mie parole, non davo certo l'impressione d'aver cambiato carattere. I due tipi che avevo fatto liberare con la mia testimonianza mi ringraziavano del mio gesto. Non capivo il perché, visto che comportarsi bene e tenere la bocca chiusa era normale, piuttosto non lo era il contrario. I miei genitori avevano reagito bene. L'aiuto che davano a Sole mi toglieva molte preoccupazioni. Verso di me non avevano nessun rimprovero, ma molta comprensione. Mia madre veniva spesso a trovarmi e cercava di strapparmi la promessa che una volta uscito di prigione sarei ripartito su

nuove basi. Poiché non le rispondevo, mi diceva con tristezza: - Allora, non hai ancora capito, e a tua figlia non ci pensi? - Da qui dentro non voglio prometterti niente, mamma, preferisco decidere quando sarò fuori. Se ne andava delusa, ma sperava lo stesso in un mio cambiamento. Trovavo che i miei genitori fossero da ammirare per avermi teso la mano nel momento del bisogno. Non mi avevano voltato le spalle. Ciò mi offriva una possibilità di uscirne. Dovevo solo desiderarlo e soprattutto volerlo. Un mattino, il capo delle guardie mi convocò per propormi il posto di responsabile del lavoro in cella, perché l'incaricato precedente aveva tentato il suicidio. Si trattava di dividere e distribuire il lavoro e tenere la contabilità. Accettai. Quel lavoro cambiò la mia vita di detenuto: adesso vivevo in una grande stanza che serviva anche da deposito dei materiali. Dormivo lì, con altri tre compagni che mi aiutavano nel lavoro. Ciò mi permetteva di muovermi all'interno del carcere. Passavo messaggi da una cella all'altra, scegliendo bene i detenuti ai quali fare il favore. Trafficavo un po' con certe guardie, che mi rifornivano di alcolici, sigari e carne cruda in barba alla direzione. Siccome facevo il mio lavoro seriamente, mi lasciavano in pace. Dopo un colloquio movimentato in cui litigai con Sole, poco mancò che rompessi con lei. Ora si sentiva forte e poteva provocare la mia collera senza correre grandi rischi. Ero furioso e avevo lasciato la sala dei colloqui prima del tempo, dicendole: - Vai al diavolo. Neanche qui sarai tu a dirigere la mia vita! Poi le avevo voltato le spalle. Giunto nella stanza in cui vivevo presi tutte le sue foto e le strappai con rabbia. Quello sfogo era stupido e lo sapevo. Non si distrugge il passato distruggendo le immagini degli istanti di felicità vissuti. Per un mese non ricevetti lettere. Da parte mia feci lo stesso. Non ci furono neanche colloqui. La facilità con cui dimenticavo mi stupì. Non avendo più contatti con la mia donna, arrivai a non pensare più a lei. Appresi da mia madre che lei aveva avuto un esaurimento nervoso. Una sua timida lettera fu l'inizio di un riavvicinamento. Il suo messaggio d'amore rimise tutto a posto e il nostro rapporto riprese più forte che mai. Mi rimandò altre foto e, soprattutto, una di mia figlia. Stavo delle ore a contemplare la mia bimba. Per lei mi credevo capace di cambiare il mio modo di vivere. Mi sentivo in colpa per la mia assenza. L'avvocato m'informò che il processo per furto si sarebbe svolto prima del

processo per le armi. Ciò non giocava a mio favore, perché non era questo il motivo per cui mi ero accollato la responsabilità di quella faccenda. In tribunale fui condannato a un anno. Due mesi dopo ci fu il processo per le armi. Il palazzo di giustizia di provincia era poco sorvegliato, solo qualche poliziotto. Scendendo dal furgone, vidi con piacere che i miei amici erano là e questo mi confortò. Ammanettato mani e piedi, camminavo a piccoli passi. Paul si precipitò verso di me e amichevolmente mi abbracciò, dicendomi con voce soffocata: - Siamo tutti qui! Se vuoi, entriamo in azione. Non ebbe il tempo di dirmi di più, perché i gendarmi di scorta ci separarono, visibilmente sorpresi dal suo intervento. - Su, circolare! - E' mio cugino, brigadiere, non si arrabbi. L'incidente finì lì. L'avvocato mi aveva detto che non rischiavo più di un anno, visto che non avevo precedenti. Non valeva quindi la pena di rischiare. Non avevo visto Guido. In seguito seppi che era fuori ad aspettarmi al volante di una macchina veloce, con il bagagliaio pieno di armi. Il processo fu privo d'interesse. Una commedia senza stile, recitata da pessimi attori. La giustizia ha difficoltà a farsi prendere sul serio quando i fantocci che la dirigono sono senza talento. La mia condanna fu pronunciata: un anno e mezzo, il massimo della pena. Ottenni il cumulo con l'anno dell'altra condanna. Ritenevo di essermela cavata abbastanza bene e, considerato il poco tempo che mi restava da scontare, scacciai dalla mente ogni progetto di evasione. Il mio coimputato si prese sei mesi per il coltello. All'uscita, mentre salivo sul furgone, i miei amici mi fecero un segno di addio. Speravo soltanto una cosa: che quella simpatica imprudenza non avesse conseguenze per la loro sicurezza futura. I giorni e i mesi passarono. Mantenevo alto il morale, com'era nella mia natura ottimista. Sole mi propose di venire a colloquio con la bambina. Lo fece la settimana successiva. Vedere Sabrina dietro la grata, sentire il suo primo «papà» in quelle condizioni penose mi fece male. Era assolutamente proibito abbracciare i bambini. Ma la guardia presente al colloquio fece un

gesto umano. Andò a prendere mia figlia e me la mise tra le braccia. - Fate in fretta, perché se ci vedono avrò dei problemi. Sentire quel corpicino vivo, frutto del mio amore, mi sconvolse. Sabrina mi guardava con le due perle nere con cui scopriva il mondo. La sua manina si posò sulle mie labbra e, rivolta alla madre rimasta al di là della grata, disse con aria interrogativa: - Papà? Sole le rispose triste: - Sì, angelo mio, è il tuo papà. Abbracciandola teneramente, mi resi conto di ciò che avevo perso e di ciò che le facevo perdere: tutto l'amore e la tenerezza che provavo per lei erano imprigionati nel freddo di una cella, e solo per colpa mia. Penso che fu in quel momento che presi la decisione di cambiare vita una volta fuori di lì. Per mia figlia me ne sentivo capace. L'abbracciai teneramente e la resi alla guardia. - Grazie, ha fatto una gran cosa. - So che cosa si prova, Mesrine. Ho anch'io dei bambini, ma il regolamento! Arrivò la fine dell'anno. L'inverno rende il carcere ancora più duro. Le passeggiate in un cortile fangoso, la pioggia, il freddo, l'umidità delle celle si sommano alla depressione provocata dall'arrivo delle feste di Natale. Noi le passammo attorno a un albero natalizio che avevo fatto con del cartone colorato e decorato come potevo. Mi ero procurato una discreta quantità di alcolici che giovò al nostro morale. Il secondo giorno del nuovo anno mi trasferirono in un carcere vicino a Parigi: Fresnes. Mi fecero prendere il treno sotto buona scorta. Ero incatenato e ammanettato, la gente ci guardava come se fossimo bestie. Una vecchietta incrociò il mio sguardo e mi fece un sorriso benevolo che mi riscaldò il cuore. Altri viaggiatori, al contrario, ci guardavano con ostilità. Arrivati a Fresnes, fui rinchiuso undici giorni in una cella normalmente riservata a un solo detenuto. Invece, c'erano già altri cinque uomini, non rasati e ripugnanti, coricati per terra su materassi schifosi. Nella stanza c'era un odore di urina e di sporco da far vomitare. Il cibo era orribile, l'igiene inesistente. Eravamo tutti destinati a un altro carcere. Quel soggiorno forzato era temporaneo. Il fatto che la società accetti che si possa vivere in condizioni così penose mi indignava profondamente. Persino i cani

nei canili ricevevano un trattamento più umano. Cominciai a odiare questa società, alla quale riconoscevo il diritto di punire, ma non di umiliarmi in quanto uomo. Mi trasferirono poi al nuovo carcere, ad Orléans. Mi restavano da scontare meno di sei mesi. Mi avevano promesso uno sconto di pena o la libertà vigilata. Mi fecero scontare la condanna completa, senza sconti, diciotto mesi interi. Le promesse dell'amministrazione hanno il valore degli assegni a vuoto, per lo meno fu ciò che imparai e che mi sarebbe servito da lezione diversi anni dopo. A Orléans, conobbi un vecchio detenuto, nemico pubblico numero uno del 1946. Si chiamava Pierre Carot, rapinatore e assassino. Diventammo amici. Quando gli parlai della mia decisione di sistemarmi e trovare un lavoro sorrise. - Prima o poi ricomincerai - mi disse - perché sei della mia stessa pasta. Nella società non c'è posto per te. Come me, finirai la tua vita in galera, a meno che non ti ammazzino prima. Era in carcere da più di diciassette anni. Mi chiedevo come un uomo possa accettare una tale condanna, che a mio parere è peggio della morte. Come possono delle mani restare diciassette anni senza accarezzare il corpo caldo di una donna? Come possono degli occhi essere sottratti al fascino di un bosco autunnale o più semplicemente allo spettacolo di un bimbo che corre in un campo fiorito, non avendo altra vista per diciassette anni che i muri freddi di una cella? Come può l'udito rimanere diciassette anni senza sentire l'amore, il rumore della vita, o le grida gioiose del bambino che si precipita fra le braccia del padre? Come può un uomo accettare la vita se i suoi sensi sono morti? Diciassette anni in una cella equivale a uccidere tutto ciò che costituisce l'alibi che la società si crea obbligando un condannato a vivere. E' far patire a un uomo ciò che nessun animale sopporterebbe senza impazzire. E' costringerlo a crearsi un mondo immaginario per sopravvivere. Dentro di me sapevo che se un giorno mi fossi trovato in una situazione simile non l'avrei accettata, avrei preferito giocarmi la vita per ritrovare la libertà piuttosto che constatare, mese dopo mese, il mio degrado mentale e la mancanza di un futuro. Non sapevo ancora che sei anni più tardi la mia situazione sarebbe stata peggiore di quella di Carot. Sole mi disse che Paul e Jacky si erano fatti beccare. C'era stato un conflitto a fuoco con la polizia. Li avevano portati alla Santé. Li aspettavano lunghi anni di sofferenze. Faceva parte dei rischi del mestiere. Portandomi via due amici alla vigilia della mia liberazione, il destino voleva forse richiamarmi all'ordine ancora una volta? Una cosa era certa, quell'avvertimento mi fece riflettere.

Arrivò la vigilia della mia scarcerazione; era il luglio 1963. La notte d'attesa fu lunga, la passai a meditare. Avevo perso un anno e mezzo di vita. Quella detenzione aveva dato i suoi frutti. Avevo visto troppe persone condannate a lunghe pene per non prendere sul serio il mio avvenire. Sole mi aveva aspettato. Pensavo di uscire dalla mia situazione mettendomi seriamente a lavorare, o almeno di provarci. Mi sentivo capace di guadagnarmi onestamente da vivere; era sufficiente che lo volessi veramente. In fondo non ero cambiato e immaginavo le difficoltà che avrei dovuto superare. Per me non si trattava certo di rinnegare gli amici o il passato, ma di non rubare, non giocare, non frequentare più i bar equivoci e le mie amiche puttane. Non sapevo ancora se ci sarei riuscito, ma avevo un debito d'amore verso la mia donna e mia figlia, e soprattutto la ferma intenzione di godermi le gioie della famiglia. Quando si aprirono le pesanti porte della prigione su quel mattino assolato, tutte le mie sofferenze fisiche e morali scomparvero. Sole era lì ad aspettarmi e si gettò fra le mie braccia. Il nostro bacio durò un'eternità. Il sapore delle sue labbra aveva un gusto nuovo. La vedevo con altri occhi. Il carcere mi aveva fatto maturare, più che calmarmi, perché la mia violenza interiore era ancora maggiore di quando ci ero entrato. Fisicamente, avevo il viso pallido e gli occhi cerchiati per la mancanza di sole, si vedeva che uscivo di galera. I miei genitori m'aspettavano in macchina. Sorridevano. Dopo un abbraccio ci avviammo verso Parigi. Sabrina, vedendomi, si precipitò fra le mie braccia. Che bello essere liberi! Facemmo un viaggio in Spagna. Ciò mi permise di conoscere la famiglia di Sole, che ignorava tutto del mio passato. Di ritorno a Parigi, mio padre m'annunciò che aveva comprato un appartamento. Mi propose di andare ad abitarci, se avevo la ferma intenzione di ricominciare da capo. Mi ci sistemai con Sole e Sabrina. Dovevo trovare un lavoro. Avevo qualche nozione d'architettura; fu dunque in questo ramo che decisi d'orientarmi. In risposta a un annuncio, mi presentai in uno studio di architetti. Mi ricevette il titolare della ditta. Era un uomo giovane dallo sguardo franco; m'ispirò fiducia fin dal primo contatto. M'interrogò sulle mie conoscenze nel campo. Gli feci capire che ero intenzionato a imparare e che non avevo paura di cominciare con un salario minimo. - Il suo modo di presentarsi mi piace - disse. - Ha lavorato in qualche ditta in questi ultimi anni?

Avevo due soluzioni: mentirgli o giocarmela onestamente. Optai per la seconda soluzione. - Senta, non voglio nasconderglielo. Sono appena uscito di prigione per delle storie di armi e furto. Non ho nessuna referenza per la semplice ragione che la mia vita, dopo il servizio militare, è stata ai margini della legge. Ma voglio ricominciare da capo, la mia unica referenza è il mio desiderio d'essere onesto. Sta a lei decidere se il mio passato può costituire un ostacolo per il mio futuro. Mi sorrise, aspirando dalla pipa che stava fumando. - No, non è un ostacolo. Qui avrà una possibilità. La ringrazio per la franchezza. Non sono qui per giudicarla. Se vuole può cominciare domani. Lasciai l'ufficio pazzo di gioia. Credo che se quell'uomo mi avesse rifiutato il posto avrei ripreso quella sera stessa le mie attività. Di ritorno a casa, con un mazzo di rose in mano, fui accolto da una Sole radiosa. Sabrina, con passo trotterellante, si gettò fra le mie braccia. Molto cerimonioso, tesi i fiori a Sole annunciandole: - Bella signora, una buona notizia. Il suo ex galeotto preferito ha trovato lavoro. - E' vero, caro, non è uno scherzo? - Verissimo! E il mio capo sa che esco di prigione, perché gliel'ho detto. - Oh! Jacques! Se tu sapessi come sono felice e fiera di te! Oh! E' meraviglioso per tutti e tre. Finalmente vivremo una vita normale. C'era qualcosa che mi turbava interiormente. Io, che avevo fatto le mie guerre senza grande coscienza né morale, provavo una personale soddisfazione nell'essere capace di ricominciare una vita onesta. Di avere una vita senza sorprese né avventure, io, che avevo vissuto solo per questo. Sapevo che con il mio salario avrei dovuto imparare a rispettare il denaro e a non dilapidarlo al gioco. Quel vizio mi faceva paura. Sapevo che era pericoloso come una droga. Decisi quindi di farmi proibire l'ingresso in tutti i circoli e i casinò di Francia, come previsto dalla legge francese. La mia prima uscita per recarmi al lavoro fu per Sole un vero e proprio cerimoniale. Non le potevo fare regalo più bello. In lei l'angoscia aveva lasciato il posto alla serenità. L'amore aveva trionfato sul vizio. Non sapeva

che era la mia unica valvola di sicurezza e che il giorno in cui l'amore avesse perso la sua forza avrei preso una strada senza ritorno. Non ero onesto, ma mi sforzavo di esserlo, spinto unicamente dai miei sentimenti, ma tutto ciò lo ignoravo ancora. - Questa volta, so che stasera tornerai. Io, che non avevo avuto alcun problema davanti a un furto, una rapina a mano armata o un regolamento di conti, di colpo mi sentii a disagio. Stavo entrando in un mondo che non era il mio, come un lupo in un ovile. Come mi avrebbero accolto i miei colleghi, quale reazione avrei avuto se qualcuno di loro avesse fatto un'osservazione sul mio passato? La mia violenza mi faceva paura. Facevo bene a cambiare vita? Non stavo mentendo a me stesso? Ero veramente sincero? Arrivato al portone, ebbi voglia di fare dietrofront. Ma varcai la soglia. Un semplice passo può cambiare il destino di un uomo; questa volta stavo facendo quello giusto. I miei colleghi erano pochi. Il nostro lavoro richiedeva gusto artistico e conoscenze d'architettura. Il capo mi presentò e decise di farmi fare squadra con un ottimo specialista, incaricato di guidarmi. Nello studio regnava una buona intesa, dovuta alla cordialità del proprietario, che tutti chiamavano Boris. Il mio primo giorno di lavoro fu soddisfacente. Sapevo leggere i disegni e trasporli nelle tre dimensioni. Boris notò che non ero sprovvisto di gusto artistico. M'incoraggiò, congratulandosi per i miei inizi. Si comportava come un medico al capezzale del malato, che controlla il battito cardiaco, pronto a intervenire al minimo segno di debolezza. La giornata terminò. Tornare a casa con il metrò, come fan tutti, mi fece sorridere. Io, che avevo sempre considerato degli imbecilli quelli che lavoravano, li guardai con altri occhi. Nel rientrare a casa dopo una dura giornata di lavoro avevano l'aria piuttosto soddisfatta. Provavo lo stesso sentimento. Erano finiti i taxi e le macchine di lusso! Con quello che guadagnavo non avrei certo potuto pagarmeli. Ma oggi questo non aveva più importanza. Andavo a raggiungere colei che amavo. Sole mi aspettava come se fossi il figliol prodigo. Mi chiese dieci volte di raccontarle la mia giornata. Assaporava le mie parole. Non avrei potuto immaginare che una esperienza così banale potesse portare tanta gioia nei miei famigliari. Passò un mese. Presi la prima paga. Il proprietario vi aveva aggiunto un premio. Mi fece chiamare nel suo ufficio. - Sono molto soddisfatto del suo lavoro. Può essere fiero di sé. Continui a

far progressi e presto il suo salario sarà quello di un disegnatore professionista. Avevo fatto uno sforzo per la riuscita del mio lavoro, seguendo un corso per corrispondenza e già ne raccoglievo i frutti. Quella somma irrisoria, rispetto alle grosse cifre che avevo avuto per le mani in passato, era la prova palpabile del mio cambiamento di vita. L'avevo guadagnata con il mio lavoro ed ero contento di me. Sole accolse la notizia come un colpo di fortuna, lei che non aveva mai accettato a cuor leggero quello che rubavo. Il suo sguardo si adombrò quando le dissi: - Domani devo andare a trovare Guido. E' un mio amico e bisogna che gli parli. Non c'è nient'altro. Puoi fidarti. Rividi Guido, lui capì molto bene la mia posizione. Non dovevo assolutamente niente a nessuno; mi sentivo pienamente libero di seguire la strada che mi piaceva, senza doverne rendere conto. Guido dubitava delle mie buone intenzioni di riabilitarmi. Era certo che sarei ricaduto nel crimine, sapendo molto bene che, malgrado il mio cambiamento di vita, lui e gli amici potevano contare su di me in caso di problemi seri. Quando gli parlai di Jacky e di Paul, mi rispose che se ne stava occupando. Erano ancora in attesa del processo, ma i loro avvocati pensavano che ne sarebbero usciti meglio del previsto. Feci capire a Guido che per loro ero sempre disponibile. Prima di andarmene, mi disse: - Ah, senti, qui ci sono tutte le tue armi. Me le hanno portate dopo il tuo arresto. Ho anche la tua 45, cui eri tanto affezionato, la vuoi? - Puoi tenermela tu? Allo studio non ho bisogno di pistole. - D'accordo, te la conservo! Chissà, può darsi che fra poco verrai a chiedermela! - Ascolta. Ho detto che voglio provare a cambiare vita, non che rinnego il passato e gli amici. Perciò evita le battute del cavolo! E se un giorno dovessi riprenderle, sarà per un motivo serio e non esiterò, tu lo sai meglio di chiunque altro. Ci lasciammo senza altro proposito se non di rivederci. Sole fu felice di vedermi tornare presto. Sapevo che temeva che il semplice fatto di aver rivisto il mio migliore amico risvegliasse in me il gusto di ricominciare la mia vita da balordo. Passarono i mesi. Allo studio ero ben pagato, perché conoscevo sempre meglio il mio mestiere. Facevo degli sforzi enormi per riuscire. Certe volte,

se un progetto importante doveva essere terminato, mi fermavo al lavoro fino a tardi. Sole era sempre felice di vedermi rientrare al mattino presto, mezzo sfinito per aver passato più di trenta ore insonni a terminare un progetto urgente. A volte mi raggiungeva con Sabrina e tutte e due mi guardavano lavorare in silenzio. Era felice, finalmente vivevamo come aveva sempre desiderato. Certo, avevamo ancora delle discussioni, ma erano senza importanza e non oscuravano la nostra intesa. Il nostro appartamento era arredato con gusto. Avevo fatto tutto da solo e provavo una grande soddisfazione. Invitavo spesso i miei genitori. Mio padre sapeva che avevo abbandonato la malavita e adesso eravamo come due amici. La mancanza di comprensione che avevo provato durante l'infanzia aveva lasciato il posto a una complicità amichevole. Adoravo mio padre e lui mi ricambiava. Una sera, rientrando, fu Sabrina ad aprire la porta. La tavola della sala da pranzo era finemente apparecchiata e rischiarata solo da candele. Con la manina tiepida, Sabrina mi condusse verso la mia poltrona. Mi obbligò a sedermi, poi si sedette sulle mie ginocchia. Immaginavo che si preparasse una sorpresa, ma con Sabrina stetti al gioco: - Che cosa succede? Dov'è la mamma? Sabrina si mise un dito davanti alla bocca. Udii la mia musica preferita e Sole apparve; non potei impedirmi di scoppiare a ridere. Si era travestita da donna incinta, mettendosi un cuscino sulla pancia. In braccio aveva tutte le bambole di mia figlia come se fossero dei bambini, e al collo un cartello con su scritto «Ho avuto un aumento». Avanzò sorridente, ma, quando feci per abbracciarla, Sabrina mi tirò per i pantaloni per farmi capire che non dovevo dimenticarmi di lei. La portai alla nostra altezza e, stringendoli teneramente, baciai i miei due amori sotto lo sguardo condiscendente delle bambole, che entro breve avrebbero avuto compagnia, perché Sole aveva trovato un modo originale di annunciarmi che era incinta.

Lavoravo molto. La sera studiavo per il mio corso d'architettura. Guardavo all'avvenire con serenità. Qualche volta Guido veniva a cena, Sole lo accettava come un fatto inevitabile. Ne approfittava per darmi notizie di Paul e Jacky. Fu così che appresi che altri membri della nostra banda erano stati arrestati in Spagna. Guido non credeva al mio cambiamento. A volte ironizzava:

- Quanto tempo pensi di resistere? Non potei fare a meno di confessargli i miei pensieri. La mia vita passata mi mancava; a volte mi assaliva la voglia di avventura. Ma, d'altro canto, il mio nuovo genere di vita mi offriva altre soddisfazioni, benché le cose con Sole non funzionassero più come all'indomani della mia scarcerazione. Ricominciava con le sue scenate di gelosia, per il semplice gusto di una litigata. Avevo di nuovo alzato le mani. Ogni donna per lei diventava una rivale, che fossimo al ristorante, in strada o altrove; se il mio sguardo incrociava quello di una bella ragazza andava in crisi. Non si rendeva conto che stava erodendo la nostra unione così come il mare erode la roccia e che, presto o tardi, rischiavo di stancarmi di lei. A volte mi succedeva di viaggiare per lavoro. Qualche avventura senza storia né importanza entrò per una notte nella mia vita, unico ricordo della libertà passata. Era la mia rivincita per le scenate di Sole che, almeno all'inizio, erano immotivate. Fu così che cominciai a frequentare i locali notturni. Vi incontravo vecchie conoscenze. Mi piaceva rituffarmi in quell'ambiente fumoso, quel mondo della notte che era stato il mio. Ma tenevo duro nella mia risoluzione e rifiutavo certe proposte ambigue che mi venivano fatte. Il mio capo, da qualche tempo, era preoccupato perché gli affari andavano molto male e stava pensando di chiudere la ditta o di ridurre il personale. Quel clima si ripercuoteva sui miei colleghi; c'era disagio, perché ognuno si chiedeva chi sarebbe stato lasciato a casa. Alla fine di novembre, Sole partorì un bel maschietto. La lasciai sola con la sua gioia, evitando di parlarle dei miei problemi di lavoro. Adesso avevo tre bocche da sfamare e l'avvenire si preannunciava cupo. A metà dicembre arrivò la brutta notizia. Su sette che eravamo, Boris si trovò obbligato a licenziarne cinque. Era molto dispiaciuto, ma non poteva fare altrimenti. Io ero uno dei cinque. Prendendo la mia ultima paga, mi chiesi se quella era la ricompensa del destino per aver lavorato seriamente per sedici mesi. Ero disoccupato e quella situazione mi faceva più male che ad altri, perché mi trascinavo dietro un passato che sedici mesi d'onestà non avevano necessariamente cancellato. Decisi comunque di cercare lavoro. Non volevo trovare comode scuse per tornare alla vita di prima. Sole incassò la notizia con immensa preoccupazione e con il timore di vedermi cambiare dall'oggi al domani. A Natale ero ancora senza lavoro. Tutti i miei possibili datori di lavoro mi avevano chiesto la fedina penale. Volevo essere sincero con loro e usare lo stesso metodo diretto, senza celare il mio passato. I risultati furono disastrosi: avevo ricevuto un mucchio di «le faremo sapere». A poco a poco

quei rifiuti mi sfinirono, poi m'invase la rabbia. Iniziò il 1965. Alla fine avevo trovato un posto come disegnatore, ma mi ero ben guardato dal parlare del mio passato. Il titolare era un uomo asciutto e antipatico. Dopo quindici giorni fui chiamato nel suo ufficio. Mi disse che purtroppo avrebbe dovuto fare a meno di me, poiché da un'indiscrezione aveva appreso che ero stato in carcere, dovevo capire. Gli feci notare che con il mio lavoro avevo dimostrato il desiderio reale di cambiare vita. Si fece mellifluo, spiegandomi che i suoi soci gli forzavano la mano e che... Non lo ascoltavo più. Questa volta assistevo al crollo dei miei sforzi. Il mio passato mi veniva sbattuto in faccia come una malattia cronica e vergognosa. Questa società vendicativa si rifiutava di dimenticare lo sbaglio che avevo già pagato. D'un colpo riemerse la mia rivolta interiore. Con un gesto fulmineo presi il titolare per il colletto della giacca. Con sguardo omicida gli dissi: - Che stupido sono stato a credere ai finocchi della tua specie! Il mio stipendio era davanti a lui sulla scrivania, lo presi, gli sputai in faccia e gli tirai addosso monete e banconote. Poi, spingendolo con forza, presi la porta e lo lasciai senza parole, privo di qualsiasi reazione. Per più di un'ora camminai senza meta dritto davanti a me, covando un odio che non era altro che crudele delusione per il risultato dei miei sforzi. La mia decisione era presa. La società mi negava il diritto di guadagnarmi da vivere, l'avrei nuovamente attaccata. Questo semplice pensiero mi fece sorridere, perché la mia rivincita sarebbe stata brutale. Dentro di me mi dicevo: «Questa volta la pagherete cara!». Mi diressi verso un bar e telefonai a Guido. - Pronto! Sei tu, vecchio mio? - Ciao, come stai? - Come tre anni fa. Ci fu un istante di silenzio. Non aveva capito che cosa volevo dire. Poi, bruscamente: - Vuoi dire che...! - E' così, voglio dire che ricomincio a giocare. Arrivo. Prepara il "pastis".

Mangiamo insieme, ti spiegherò. Perché distruggere ciò che avevo costruito in tanti mesi di lavoro? Perché non provare ancora una volta... Un altro posto, un'altra ditta? La risposta era semplice. Nel fondo di me stesso, ero un criminale incallito. Ero cambiato per amore della mia donna, solo per amore. Ora questo amore non era abbastanza forte per trattenermi. Solo l'amore può far cambiare un criminale incallito e questo vale in tutti i casi. Avevo barato con me stesso, ora la realtà riprendeva il sopravvento. Guido mi ricevette senza nascondere la sua gioia: - Finalmente! Sono finite le pulizie di primavera... - Lascia perdere, per favore. Ricominciamo come prima. Sai bene che ci ho provato per Sole e la bimba. - Capisco. Ho sempre capito. Non aver paura, gli amici non ti hanno dimenticato, te ne renderai conto. Sapevamo tutti che saresti tornato. Al momento, abbiamo dei buoni affari e sei il benvenuto.

La mia vita cambiò. In seguito alla mia disillusione mi sentivo ancor più pericoloso e lo ero davvero. Feci diversi colpi per risollevare le mie finanze. Andai a Nizza per aiutare un amico a regolare un conto. Volevo riprendere il mio posto nell'ambiente e far capire che il contatto con il lavoro non mi aveva intenerito. Al contrario, ero diventato ancora più duro e avevo riacquistato il mio ascendente su alcuni miei soci. Che fare con Sole? Dirle la verità o nascondergliela? Le riconobbi il diritto di sapere. La scenata fu terribile. Mi ricordò le mie promesse, mi descrisse tutto ciò che avrei perso, ma rimase paralizzata sentendomi dire: - Prima ti adoravo! Oggi o accetti o te ne vai. - Allora non mi ami più! E' per questo che hai ricominciato? - Non so più se ti amo o no, questa è la cosa più grave. Se te ne vai ne soffrirò. Per il resto non devo darti spiegazioni, né a te né a nessuno. Fa' quel che ti pare, ma questa volta niente mi farà tornare indietro. Ho provato, ho fallito! E' tutto. Lei accettò... accettò tutto. Ma niente fu come prima. Avevo ucciso il nostro

amore. Cedendo, Sole mi perdeva. Con Guido stavamo trafficando in valuta falsa. Feci diversi viaggi in Svizzera e in Spagna. Tutto filava perfettamente. Avevo affittato un appartamento per tenervi il materiale. Avevo due passaporti falsi usciti direttamente dalla prefettura, cosa che mi permetteva di non temere controlli, neanche all'estero. La banda mi si era raccolta di nuovo intorno, con grande piacere di Guido. Avevamo messo in piedi un sistema per sbiancare i biglietti da un dollaro senza alterarne la carta, che perdeva solo un po' di patina ma conservava la resistenza e i filamenti colorati. Chi possedeva le matrici per stampare le banconote da 10, 20, 50 o 100 dollari poteva farlo utilizzando il nostro «dollaro» sbiancato, perché la dimensione era la stessa. Solo un controllo ai raggi X poteva rivelare le vecchie tracce del nostro biglietto da un dollaro e non era neanche certo. Prendemmo contatto con degli amici di Guido che si dedicavano a quel tipo di attività. Vivevano in Messico. Uno di loro venne a Parigi e fu entusiasta dei nostri campioni. Considerammo l'idea di metterci in società. Nel frattempo, mio padre, avendo saputo che non lavoravo più, una sera mi chiamò. Mi propose di entrare nella sua ditta come disegnatore. La sua proposta arrivava troppo tardi e mi sorprese; in passato non aveva forse detto che mai avrebbe accettato di vedermi lavorare per lui? Vidi subito i vantaggi che offriva un lavoro regolare in caso di controlli della polizia e acconsentii, in quanto il lavoro non avrebbe ostacolato le mie attività illegali. Avrei potuto cogliere l'occasione per riprendere una vita normale, ma non dimenticavo che la società, o almeno parte di essa, mi aveva scacciato come un cane rognoso. Solo mio padre mi aveva teso una mano, solo mio padre! Fu felice di vedermi accettare. Sole aspettava il terzo bambino. Ero più tenero con lei, perché, a poco a poco, aveva mostrato di capirmi, accettando quel che facevo, soprattutto evitando le scene penose del passato. Pensavo di averla logorata e che non fosse più in grado di lottare. Mi amava e sapeva che mi avrebbe perso se avesse cercato di farmi riprendere la retta via. Alla fine di novembre Guido mi chiamò al telefono. In meno di un'ora fui da lui. - Ho un lavoro per noi. E' una cosa molto seria, ma anche pericolosa, se per disgrazia qualcuno dovesse essere arrestato. Si tratta d'introdursi in una villa, di trovare un taccuino d'indirizzi in un certo posto che ci sarà indicato e recuperare alcune informazioni corrispondenti a un dato nome. La cosa migliore sarebbe impararle a memoria; vedremo... Per il momento, ascolta il seguito. Bisognerà rimettere al suo posto il taccuino e simulare un furto, creando un gran disordine e portando via qualche oggetto di valore e il

denaro, se ce n'è, per rendere il tutto più credibile. Soprattutto, non conservare niente in seguito. Se accetti, non posso dirti né per chi né per quale motivo facciamo il lavoro. Ma una cosa è certa, c'è da guadagnare parecchio. Personalmente non vedevo dove potesse essere la difficoltà e il rischio in un affare del genere. Sorridendo risposi a Guido: - E' un lavoretto piuttosto banale! - Oh no, per niente... Ascolta il seguito e cambierai idea. La villa in questione appartiene al governatore militare dell'isola di Palma di Maiorca, in Spagna. Emisi un fischio. - Niente meno... Un governatore militare! Ora capisco perché dici che può succedere di tutto. La villa sarà certamente sorvegliata molto bene, senza contare i possibili sistemi di allarme! - Niente di tutto ciò. I miei contatti indicheranno un giorno e un'ora precisi in cui la villa sarà completamente vuota, perché la moglie e la cameriera vanno a far compere in città con l'autista. Rimane soltanto un'auto della Guardia Civil che pattuglia la zona. - Sì, è da vedere... Ma in un affare come questo voglio garanzie serie. Chi si fa beccare in una storia del genere rischia di lasciarci la pelle. Gli sbirri spagnoli non scherzano se si toccano i loro capi. - Un'altra cosa... - mi disse Guido. - Io sarò sul posto, ma il lavoro dovrai farlo da solo, sempreché accetti, beninteso. - Dimmi un po'... Perché io? - Ti conosco e so che in caso di problemi terrai la bocca chiusa. E poi mi fido di te. - E se il taccuino non c'è? - Ci sarà. - Perché?... Ah! Già, è vero, niente domande, hai detto.

- Esatto, nessuna domanda. - D'accordo, accetto. - Perfetto, ne ero certo. Abbiamo tre giorni per prepararci. Partiremo ognuno per conto suo. Andremo nello stesso albergo, ma faremo finta di non conoscerci. Ho qui tutte le mappe. La villa si trova a quindici chilometri dalla città. Ho diverse foto. In teoria non ci sono sistemi di allarme. Dovremo studiare un buon piano d'azione. Il taccuino è in un mobiletto con un cassetto segreto; sai come... Abbiamo tutti i dettagli, descrizione e colore del taccuino. - Sai che questa storia sembra un romanzetto da quattro soldi? - Se ti dicessi che ti frutterà dieci milioni, continueresti a pensare che sia roba da quattro soldi? Ascolta, te ne do la metà subito - mi disse porgendomi una busta. Studiammo tutti i dettagli. Considerai la possibilità di essere armato per il colpo. I rischi erano enormi. Con Guido, decidemmo di prevedere anche l'eventualità del mio arresto e le sue conseguenze. Per il taccuino, non mi fidavo troppo della mia memoria. Stabilimmo che avrei copiato le informazioni su una cartina da sigarette e l'avrei infilata nella cassa del mio orologio. Quando le dissi che dovevo partire per un viaggio d'affari, Sole mi fece notare: - Ma fra tre giorni è il compleanno di tuo figlio! - Lo so, ma devo andare... quindi non insistere. Mi si strinse contro, incollando le sue labbra calde alle mie. Poi, fissandomi, disse: - Non fare stupidaggini... eh, "querido"! - Nessuna stupidaggine - dissi. Un senso di malessere mi pervase, come se quel viaggio fosse senza ritorno. Dopo aver definito gli ultimi dettagli con Guido, mi diressi verso l'aeroporto... Atterrai a Palma di Maiorca in mattinata e presi un taxi che mi

condusse a un albergo della catena Phénix. Avevo prenotato per telefono. Scopo dichiarato del mio viaggio: cercare una villa da acquistare. L'albergo era magnifico. Era sul mare. La mia camera era lussuosa e di buon gusto. Temendo un controllo alla dogana, non mi ero portato armi, ma prima della partenza avevo fabbricato un mattone di gesso, mettendoci dentro una pistola automatica avvolta nella plastica. Avevo ricoperto il gesso con un granulato di poliestere, con dei disegni decorativi, e lo avevo spedito al mio indirizzo in albergo con la dicitura «Campione senza valore, materiale da costruzione». Fingendomi un turista, chiesi al direttore dell'albergo di fornirmi indirizzi di agenzie immobiliari, spiegandogli il mio desiderio di comprare una proprietà sull'isola. Non volevo lasciare niente al caso, qualora successivamente ci fossero state verifiche di polizia sugli stranieri appena arrivati. Non avevo dubbi che un furto dal governatore militare dell'isola avrebbe destato scalpore. Dopo un pranzo a base di frutti di mare, cominciai a preparare l'azione. Affittai un'auto alla Hertz. Nella sacca da spiaggia avevo messo un binocolo, una macchina fotografica e una cartina molto dettagliata dell'isola. Presi la strada che portava alla villa. Ci misi una ventina di minuti per arrivare sul posto. Ebbi qualche difficoltà a trovarla, perché la maggior parte delle ville si somigliavano. Guardandomi intorno, vidi un'altura con dei pini marittimi. Ci andai. Sul posto mi resi conto che avevo trovato un ottimo punto d'osservazione. Tirai fuori il binocolo e lo puntai sulla villa. Tutte le finestre avevano delle grate di ferro battuto per protezione. Per evitare ogni possibile confusione esaminai le diverse foto che avevo. Non c'era possibilità di dubbio, era proprio la villa del governatore. Dopo aver osservato con il binocolo tutti i lati, non potei che constatare le difficoltà dell'impresa. Attraverso una finestra aperta vidi una donna, ma nient'altro pareva vivere in quella casa. Dovetti attendere più di un ora per veder passare una macchina della Guardia Civil. Fece il giro della villa, ma non si fermò. All'interno c'erano tre uomini. Controllarono anche le ville vicine. A prima vista nulla sembrava poter ostacolare la mia azione. Attesi fino alle diciassette. All'improvviso, vidi l'auto di pattuglia seguita da altre due macchine. La prima si fermò davanti al portone. Un uomo che mi parve molto alto ne discese e aprì i due battenti. Non c'era dubbio: era sicuramente la guardia del corpo. Il futuro avrebbe dimostrato che non mi ero sbagliato. Poi le automobili procedettero fino alla porta della villa vera e propria. L'autista della berlina si precipitò ad aprire la portiera posteriore. Ne discese un ometto elegante: era il governatore. Non potei impedirmi di pensare che se invece di un binocolo avessi avuto un fucile munito di cannocchiale, la vita del governatore sarebbe stata nelle mie mani. Le due auto di scorta uscirono, ma una restò parcheggiata davanti al portone, mentre l'altra prese la via del ritorno. Continuai la mia osservazione per una

buona ventina di minuti. Poi, ritenendo di avere acquisito informazioni sufficienti, tornai a Palma. Avrei dovuto agire l'indomani verso le quindici. Se le informazioni di Guido erano esatte, la villa sarebbe stata completamente vuota. Avevo già il piano in testa. Dovevo solo comprare qualche attrezzo per forzare la porta. Non me ne servivano molti. Di ritorno a Palma, andai in un'agenzia immobiliare e, con il direttore, visitai due ville in vendita. Non reputandomi soddisfatto di ciò che avevo visto, tornai all'albergo. Nella hall, vidi Guido al bar con uno scotch. Andai al bancone, fingendo d'ignorare la sua presenza. La chiave della sua stanza era posata lì in bella vista. Ordinando da bere, lessi il numero. C'eravamo già messi d'accordo a Parigi. L'avrei raggiunto nella sua stanza verso le ventidue, dopo cena. Avrei poi passato buona parte della notte nella discoteca dell'albergo, come uno scapolo desideroso di divertirsi. Cenai e Guido non era in sala. All'ora convenuta, bussai piano alla sua porta. Sorridente, mi aprì e mi offrì un bicchiere prima di dirmi: - Da parte mia è tutto OK. Il governatore lascia il palazzo alle sedici e quaranta con un'auto di scorta. - Esatto. Verso le diciassette era alla villa. - Raccontami della tua ricognizione. Gli descrissi tutto quello che avevo visto. Fu soprattutto il monticello boscoso a suscitare il suo interesse come punto d'osservazione. - Tutto ciò è molto interessante. Ho un'informazione supplementare. A destra della porta d'entrata della villa c'è un contatore dell'elettricità in una scatola di legno. Le chiavi della villa le lasciano sempre lì, me lo hanno assicurato. Ti sarà sufficiente rompere la serratura della cassetta di legno per prenderle. Guadagnerai tempo, perché la porta sembra molto solida. - Non credi che sarebbe meglio scassinare la porta? - No. In questo modo penseranno a un'iniziativa del personale... Va benissimo anche per il resto. Ho portato due piccole ricetrasmittenti. La tua idea originaria di prendere tu stesso gli appunti va abbandonata. In caso di difficoltà, potresti perdere le informazioni assieme alla libertà. Scusami se parlo senza mezzi termini, ma conosci i rischi. La mia idea è di appostarmi sul monticello. In caso di pericolo potrò avvertirti. Staremo sempre in contatto. Tu mi detterai le informazioni. Credo che questa soluzione sia perfetta. Ero assolutamente d'accordo con lui. Stabilimmo che avrei preso appunti in

caso si fossero guastati i walkie-talkie. Dopo aver messo a punto gli ultimi dettagli, lo lasciai e presi la mia ricetrasmittente che non era più grande di un pacchetto di sigarette. Secondo le nostre informazioni, la villa sarebbe stata libera fin dal mattino, ma ci era stato chiesto di non agire prima delle quattordici e trenta... Ne ignoravo il motivo, ma mi adeguai agli ordini. Feci una breve apparizione in discoteca, poi raggiunsi la mia camera da solo, con gran stupore della mia dama che si aspettava una partita a gambe all'aria. Al mattino chiesi alla direzione dell'albergo se era arrivato un pacchetto per me. Mi risposero di no. Quel ritardo mi contrariò, perché mi ritrovai a lavorare senz'arma. Avevo solo un coltello a serramanico, il che sarebbe stato ben poco se la situazione si fosse fatta difficile. Comprai due leve per smontare i pneumatici che, assieme a un semplice cacciavite, sarebbero stati più che sufficienti. Guido era andato a controllare il suo punto d'osservazione. Da parte mia, piazzandomi sull'unica strada d'accesso, avevo assistito all'arrivo in città della macchina del governatore. All'interno avevo visto due donne, il che confermò l'esattezza delle nostre informazioni. Verso le due del pomeriggio, lasciai l'albergo. Guido era già sul posto, come d'accordo. Il mio orologio segnava le due e venti. Adesso ero a trecento metri dalla villa. Fermai l'auto. Mi era impossibile vedere Guido, ma sapevo che era nascosto sull'altura a osservarmi. Presi il walkie-talkie per fare una prova. - Ehi! Mi senti? - Perfettamente. Puoi andare, tutto OK. Passai davanti alla villa. Dopo averla costeggiata, parcheggiai l'auto in un viottolo all'ombra delle piante e aprii il cofano come se avessi avuto un guasto. In caso di fermo, potevo sempre far credere che ero alla ricerca di un telefono. Mi guardai attorno. Tutto era calmo. Mi trovavo a cinquanta metri dal retro della villa. Nel mio angolo di visuale c'erano altre due proprietà. Scalai rapidamente la recinzione e mi ritrovai sotto una veranda, che formava una rientranza in cui nessuno poteva vedermi, neanche Guido. Rapidamente lo chiamai. - Sono sul posto... Passo. - Tutto OK... Passo e chiudo. La prima cosa che vidi a destra fu la cassettina di legno che copriva il contatore. Indossai i guanti e, con le due leve, feci saltare lo sportellino di legno senza alcuna difficoltà. Il mazzo di chiavi era su un ripiano. Mi

sembrava tutto troppo facile. Mi sentivo teso, non ero tranquillo, come se i miei sensi avvertissero un pericolo che non vedevo. Non ne tenni conto e mi misi al lavoro. Con molta naturalezza aprii la porta con le chiavi. Mi trovai in un immenso salone, ammobiliato in stile rustico spagnolo. Mi chiusi la porta alle spalle. Controllai rapidamente tutte le stanze alla ricerca di un'altra uscita, nel caso in cui le cose avessero preso una brutta piega. Solo la cucina aveva un'altra porta, che dava su un terrazzo, ma era protetta da una grata. Non c'era altra uscita se non la porta d'ingresso e ciò non mi piacque affatto. Arrivato davanti all'uscio che, secondo le mie informazioni, era quello della camera del governatore, mi accorsi che era chiuso a chiave. Nessuna delle chiavi del mazzo l'apriva. Controllai che non fosse protetta da allarmi... almeno visibili. Poi la scassinai. Entrai in una stanza arredata lussuosamente. Il mio sguardo cadde subito sul mobile che m'interessava. Era un secrétaire Luigi Quindici con una ribaltina che fungeva da piccola scrivania. I due angoli laterali erano ornati da quattro colonnine di legno con un anello dorato. Sapevo che tirando l'anello in alto a sinistra avrei aperto il cassettino segreto. Ma, prima di tutto, feci il giro della stanza, compreso il bagno e la toilette. Poi chiamai Guido: - Io comincio... Passo. - Tutto OK. Puoi lavorare tranquillo... Passo e chiudo. Guardai il mobiletto da tutti gli angoli per controllare che non ci fossero trappole. Tutto mi sembrava normale. Posando le dita sulla colonnina, cominciai a tirare verso di me. Ma resisteva alla pressione. Per sicurezza provai anche le altre. Niente. Tornato a quella che mi interessava, feci girare l'anello di metallo dorato che aveva in mezzo. Ma non riuscii lo stesso ad aprire. Capii che, per sbloccare il meccanismo, forse bisognava aprire, nello stesso tempo, un cassettino. Avevo già trovato quel sistema di doppia protezione. Per avere accesso ai cassetti mi toccava forzare la ribaltina. Ciò non avrebbe indotto a ritenere che il ladro avesse trovato il nascondiglio, perché si pensava che non ne conoscesse l'esistenza. Quando la ribaltina fu aperta, aprii i cassetti ad uno ad uno. Aprendo quello in basso sentii un leggero scatto. La colonnina che tenevo nella mano sinistra cedette. Tirandola con precauzione, vidi apparire un minuscolo cassetto orizzontale non più grande di quattro centimetri per dieci. Vidi subito diversi fogli. Il taccuino era lì. Ero ammirato dalla precisione delle informazioni che ci avevano fornito. Mettendo il tutto sulla ribaltina, ebbi cura di mantenerlo nello stesso ordine e chiamai Guido: - Ho il bambino. Comincio... Passo. - Ben fatto... Resto in attesa. Sfogliando il taccuino, mi resi conto che c'era un gran numero di nomi e, a

volte, c'erano solo iniziali seguite da cifre e indirizzi. Foglio dopo foglio lo esaminai tutto. Non c'era nessun nome né alcuna iniziale corrispondente a quello che mi aveva dato Guido. Lo rilessi da cima a fondo. Niente. Chiamai Guido: - Ehi! Il bambino non ha il nome che cerchiamo. Niente di niente. - Merda! Ma è impossibile... Sei sicuro? Passo. - Sì, sicuro. L'informazione può darsi che ci sia, ma sotto una forma che ignoriamo. Aspetto che tu decida... Passo. - Tanto peggio, mi leggerai il taccuino al completo, non abbiamo scelta. Io prendo nota... Passo. - Sarà lunga, perché sono almeno quindici pagine... Passo. - Vai, e pronuncia chiaramente... Passo. - OK, come vuoi. Cominciai a dettare tutte le pagine. A volte mi fermavo per verificare che Guido mi seguisse. Terminata l'ultima pagina gli dissi: - Ho finito. Spero tu abbia capito tutto. Vuoi che te lo rilegga?... Passo. - Non c'è più tempo. Non ti preoccupare, tutto è ben annotato. Vai, comincia la tua messinscena e sbrigati. Passo e chiudo. Rimisi il taccuino al suo posto. Durante il dettato avevo constatato che certe cifre corrispondevano a numeri di conto di alcune banche svizzere. Mi chiedevo se era ciò che interessava al nostro cliente misterioso. Dopo aver rimesso la colonnina al suo posto con il suo contenuto, cominciai a svuotare i cassetti del secrétaire per giustificare il mio scasso. Feci altrettanto con gli altri mobili. Per tenere libere le mani durante la perquisizione, commisi l'errore di posare la ricetrasmittente sul letto e dirigermi nelle altre stanze, per creare la stessa messinscena. Scesi in soggiorno, aprii i cassetti e versai tutto per terra. Misi qualche soprammobile da parte e risalii a cercare il walkie-talkie... Capii che Guido mi stava facendo una chiamata urgente e mi precipitai nella stanza. - Sì... Ti ascolto... Passo. - Scappa, veloce... Ci sono tre macchine di sbirri davanti al portone... Buon

Dio, dov'eri?... Passo. Accusai il colpo come un pugno in faccia e l'angoscia che avevo provato entrando scomparve subito. Mi precipitai in una stanza le cui finestre permettevano di vedere il portone. C'erano tre macchine, esattamente come il giorno prima. Ma gli sbirri non sembravano insospettiti, in quanto ignoravano la mia presenza alla villa. La guardia del corpo era già scesa e stava per aprire il portone. Non avevo possibilità di scappare, perché ci saremmo automaticamente trovati faccia a faccia. - Non c'è tempo... Sono fatto... Passo. - Buon Dio, non puoi tentare niente?... Passo. - No, niente... Non ho armi... Passo. - Il walkie-talkie! Distruggilo, se no... Attento, le auto sono già nel viale d'ingresso! Mi occuperò di te. Conta su di me... Passo. - Vado a distruggerlo... Addio, amico mio e scappa... Passo e chiudo. Non attesi neanche la sua risposta. Non potevo nascondere la ricetrasmittente, perché presto o tardi l'avrebbero ritrovata e avrebbero capito che non era materiale utilizzato da un semplice scassinatore. Vidi subito che, per le sue piccole dimensioni, poteva scomparire nella tazza del gabinetto. Mi ci precipitai e schiacciai con il piede il walkie-talkie. Buttai i pezzi nella tazza, spingendoli bene con la mano, poi tirai l'acqua. Scomparvero tutti, con mio grande sollievo. Adesso non avevo più niente da temere. In pochi secondi il destino mi avrebbe di nuovo messo in una situazione catastrofica. Decisi di scendere e affrontarla. Nel momento in cui aprii la porta d'ingresso mi ritrovai faccia a faccia con la guardia del corpo che, per un breve momento, fu più sorpresa di me. I riflessi ebbero presto il sopravvento. Mi buttò contro il muro, chiamando aiuto allo stesso tempo. Rimasi semplicemente tramortito. Quando ripresi conoscenza, tutto il corpo mi doleva. Le mani erano ammanettate dietro la schiena. Diversi uomini in uniforme mi guardavano con aria vendicativa e le armi che impugnavano non erano affatto rassicuranti. Accorgendosi che avevo ripreso i sensi, mi rialzarono brutalmente. Un tenente della Guardia Civil mi apostrofò in spagnolo: - Chi sei? Cosa fai qui, cane bastardo? Capii in fretta che la cosa migliore era fingere di non capire la loro lingua e,

in francese, gli risposi: - Non capisco! Sono straniero... Francese... Sono francese. Per un breve istante lessi lo stupore nel suo sguardo. Si girò verso la guardia del corpo dicendole, sempre in spagnolo: - E' uno straniero! Un francese... Tu parli francese? Rispose di no. Aggiunse che il governatore lo parlava perfettamente. Entrò nella villa e ne uscì dicendo: - Fatelo entrare. Lo interrogherà il governatore. Mi fecero entrare nel soggiorno. Ero imbarazzato dal disordine che c'era. Il governatore mi guardava con occhio attento e divertito. Era un ometto dall'apparenza fragile, sembrava mio nonno; ma sotto l'aspetto infantile c'era una grande fermezza. Con voce dolce mi chiese in francese: - Così, è francese? Mi venne l'idea di tentare la carta del deplorevole errore, lasciando credere che avevo sbagliato villa. Anche se non avesse funzionato, mi avrebbe fatto guadagnare tempo. Gli risposi: - Sì, signor Martinez, sono francese. Accusò il colpo senza battere ciglio e si rivolse al tenente nella sua lingua: - Perché mi chiama Martinez? Non sa che sono il governatore dell'isola? - Non ne ho idea, signor governatore. - Ma non tema, parlerà. A questa minaccia non reagii, ma il mio cuore si strinse. Il governatore mi guardò di nuovo. - Che cosa è venuto a cercare in questa casa?

- ... - Risponda, ragazzo mio. Che cosa cercava? - Del denaro. - Ma non è stato rubato niente. - Non ne ho avuto il tempo. - E' possibile... Sì, è probabile. Sa chi sono io? - Sì... L'industriale Martinez - dissi, come se fosse evidente. Fece un sorriso che la diceva lunga; poi, bruscamente si mise a parlare in spagnolo... Ebbi la prontezza di non rispondere e di non tradirmi, accennando anche solo un movimento della bocca. Non reagii, come se non si rivolgesse a me. Ordinò alle guardie di seguirlo. Mi fece salire al primo piano. Arrivati nella sua stanza, mi chiese con durezza: - Che cosa cercava in questa stanza? - Soldi, gioielli... - E in questo mobiletto? - mi disse mostrandomi il secrétaire sventrato. - La stessa cosa, signore. Voltandosi verso il tenente e sempre in spagnolo: - Spogliatelo e perquisitelo accuratamente. Mi portarono in un'altra stanza dove mi denudarono. Dopo aver esaminato i miei vestiti e le scarpe, mi fecero rivestire e mi rimisero le manette dietro la schiena. Evidentemente la situazione li preoccupava. Non mi guardavano più allo stesso modo. Con mia grande sorpresa, avevano quasi dei riguardi. Il governatore chiuse la discussione. - Non so che cosa sia venuto a fare qui, ma lo sapremo, ne sia certo. I miei servizi la faranno parlare; a meno che non si dimostri ragionevole.

Poi, in spagnolo, rivolgendosi al tenente con voce ferma: - Portatelo via! Voglio sapere la verità; quest'uomo mente, è troppo calmo. Consegnatelo al commissario Francisco Rossello e tenetemi aggiornato. Fui portato alla caserma della Guardia Civil. Mi fecero scendere in un sotterraneo; mi ordinarono di togliermi i pantaloni e le scarpe. Mi portarono in una cella umida e senza luce, lasciandomi le mani ammanettate dietro la schiena. Rimasto solo, non provai paura, anche se sapevo cosa mi aspettava. Non temevo le botte, ma si sarebbero fermati lì? Conoscevo i metodi e la triste fama della polizia spagnola. Non mi aspettavo regali. Questa volta era la fine. Mi misi a pensare a Guido... Per fortuna non si era fatto beccare! Passai le ore a riflettere, seduto sul pagliericcio steso per terra. Dovevo trovare una buona spiegazione, in modo da insinuare il dubbio nelle loro teste. Era ormai notte quando vennero a prendermi. Mi fecero rivestire e mi tolsero le manette per portarmi in uno stanzone in cui c'erano diversi uomini in borghese con un uomo di una cinquantina d'anni. - Si sieda, signor Mesrine - mi disse in francese. Presi l'unica sedia libera. - Per prima cosa voglio avvertirla che abbiamo trovato la macchina in affitto. Siamo andati all'albergo Phénix per perquisire la sua camera. Non abbiamo trovato niente, ma alla reception c'era un pacchetto che l'aspettava. Il contenuto è molto interessante... Sì, davvero molto interessante! Spero non le sfugga la gravità del suo reato. Non si può attentare impunemente al governatore militare... Ma ciò che preoccupa questi signori dei servizi segreti e me è il motivo. Mentre quello parlava, io cercavo una valida strategia di difesa. Così, alla fine il pacchetto con la pistola era arrivato. Il suo ritardo poteva risultare utile e avevo proprio intenzione di giocare la carta del mistero. Più insistevo a fare lo gnorri, più probabilità avevo di esser preso sul serio. Stupito, chiesi: - Il governatore... Quale governatore? - Andiamo, Mesrine, sia serio e non mi dica che ignorava che quella era la villa del governatore militare. Mi dica piuttosto il perché. La Francia è un paese amico, la verità ci permetterà di regolare questa piccola controversia

con i suoi capi e sistemare la sua situazione. - Un momento! Non la seguo... Le ripeto: quale governatore?... E quali capi?... Non capisco affatto le sue domande e neanche le sue affermazioni. Per un po' parlò in spagnolo agli uomini presenti. Cominciava a perdere la pazienza. Uno degli uomini gli disse: - Lo lasci a me, le garantisco che parlerà. Feci finta di non aver capito. Girandosi verso di me continuò la discussione, ma la sua voce si fece minacciosa: - Sbaglia a pensare che il fatto di essere straniero la protegga. Se l'è presa con il governatore militare. In albergo le è arrivato un pacco postale... E che cosa ci troviamo? Un'arma. Eh, no, Mesrine, non faccia il furbo! Tutta la storia puzza di servizi segreti e le assicuro che dirà la verità. Questo dubbio se l'era messo in testa da solo e scorsi subito il vantaggio che ne potevo trarre. Infatti, anche facendo tutte le verifiche possibili presso le autorità francesi, gli sarebbe stato impossibile ottenere risposta ai suoi dubbi. Se gli avessero risposto che non appartenevo ai servizi, ne avrebbe dedotto che le autorità rifiutavano di coprire la mia azione. Inoltre, il fatto che sostenessi di non appartenere ai servizi poteva lasciar supporre che invece ne facessi parte e avessi l'ordine di negarlo in caso di fallimento della mia missione. Gli risposi dunque con la massima naturalezza: - La verità? Ma gliela continuo a ripetere! Sono solo un ladro. L'arma consegnata al mio albergo... Nient'altro che una storia di ladri. E' possibile che abbia sbagliato villa. Ma le assicuro che non ce l'avevo assolutamente con il governatore. A quel punto gli avevo fatto perdere la pazienza. Girandosi verso le guardie che mi stavano alle spalle, disse loro: - Riportatelo giù. Poi, rivolto a me: - L'ha voluto lei, è un peccato... Ma il seguito sarà molto spiacevole. Dentro di me cominciavo a preoccuparmi, ma niente sul mio viso lasciava trasparire la mia paura. Ebbi la buona idea di buttare lì una frase che, per il suo contenuto, lasciava il dubbio che avevo già creato:

- Lei fa soltanto il suo lavoro... Così come io faccio il mio. Colse l'occasione al volo: - Ma quale lavoro, Mesrine? Risponda. Io rimasi zitto, come se l'ultima frase mi fosse scappata. Mi guardò un'ultima volta, attendendo almeno una mia reazione. Di fronte al mio silenzio fece un segno alle guardie. - Portatelo via. Mi fecero scendere nel sottosuolo. Questa volta ebbi paura. L'atmosfera era lugubre. Quella stanza emanava un senso d'infelicità e di sofferenza. Quell'ambiente era studiato apposta per incutere paura. Una seggiola in legno massiccio era al centro della stanza, nient'altro. Mi fecero togliere la giacca. Nessuna delle guardie parlava il francese. Malgrado le mie proteste mi fecero sedere a forza. Riflettei in fretta sulla mia situazione. Delle due l'una: o volevano solo tastarmi il polso e allora la lezione sarebbe stata sopportabile, o volevano veramente la verità e allora avrei fatto bene a preoccuparmi. Uno degli uomini in borghese che avevo visto nell'ufficio arrivò in compagnia di un altro tizio, che disse di essere l'interprete e mi domandò se mi ero deciso a dire la verità. Di fronte al mio silenzio, l'uomo ordinò alle guardie di legarmi le mani e i piedi alla seggiola. Non opposi resistenza. L'interprete mi si piazzò davanti: - Vuoi dirci la verità, sì o no? - ... Rimasi in silenzio per diversi secondi. La guardia che era piazzata dietro di me mi prese per i capelli e mi colpì in faccia con tutte le sue forze. Me lo aspettavo, ma mi fece male ugualmente. Mi aveva colpito il naso e gli occhi mi si riempirono di lacrime. Mi colpì ancora, questa volta con le due mani e la mia testa sbatté a destra e a sinistra. Il dolore era sicuramente inferiore alla rabbia che provavo nel non potermi difendere. Mi rifecero la stessa domanda; non risposi. La guardia mi colpì ai tendini delle spalle con un piccolo sfollagente di gomma. Questa volta il dolore fu atroce e non potei trattenere un grido. Il viso dell'interprete si sporse verso di me: - Allora, Mesrine... La verità, nient'altro che la verità, è tutto quel che vogliamo.

Davanti al mio mutismo continuarono. Udii un rumore dietro di me. Un uomo chiese, in spagnolo, a che punto eravamo. L'altro gli rispose che continuavo a tacere. Aggiunse che ero coriaceo. Malgrado la mia situazione, il suo commento mi diede coraggio. Non sapevo che ora fosse. Forse le due del mattino... La notte sarebbe stata lunga. Se si limitavano alle botte ero certo di resistere. Fino ad ora avevano evitato di lasciarmi segni sul viso. L'uomo che avevo sentito parlare alle mie spalle si fece avanti. Era quello che mi aveva interrogato qualche ora prima. Si rivolse a me, sempre in francese: - Perché ostinarsi?... Non creda che ci divertiamo a essere obbligati a... Non gli lasciai terminare la frase e gli risposi in spagnolo, certo dell'effetto che la mia frase avrebbe prodotto: - Nessun problema, è il suo lavoro, e io continuo a non avere niente da dire. Restò senza parole. - Ma lei parla la nostra lingua! - Sissignore, e anche molto bene! Senza volerlo, misi fine al mio interrogatorio. Ordinò di sciogliermi. Fu quasi amichevolmente che mi disse: - Lei è un bel tipo! Ha fame? Gli risposi di sì. Ordinò: - Portate quest'uomo in mensa e fategli dare da mangiare. Dopo riportatelo nel mio ufficio... No, non è il caso di rimettergli le manette. Poi, rivolto a me: - Domattina la porteranno a Madrid. L'ambasciatore è stato avvertito del suo arresto. Vuole parlarle. Spero che dimentichi questo piccolo incidente. Non potei impedirmi di sorridere, rispondendogli: - Quale incidente?

Mi guardò stupito e, a sua volta, si sforzò di sorridere: - Ha ragione, quale incidente? Dopo aver mangiato, mi riportarono davanti a lui. Mi fece capire che il governatore stesso aveva ordinato che mi trattassero bene. Mi portarono a dormire in una cella senza materasso, ma con due coperte. Mi addormentai senza aver avuto un solo pensiero per Sole. Credendomi perduto avevo dimenticato tutti quelli ai quali volevo bene, per affrontare meglio il mio destino. Prendemmo l'aereo nel primo pomeriggio. Arrivati all'aeroporto di Madrid, vidi che diverse auto della polizia ci aspettavano. Fui immediatamente condotto in Plaza del Sol al comando della Pubblica Sicurezza. Mi rinchiusero per qualche momento in una cella del piano interrato. Poi il commissario Francisco Rossello venne a prendermi: - Mi segua. L'ambasciatore è qui. Forse davanti a lui sarà più ragionevole. Mi fecero salire al secondo piano ed entrai in un ufficio lussuoso. L'ambasciatore era lì. Era un uomo dallo sguardo franco e diretto. Mi si avvicinò e mi tese la mano, presentandomi gli altri due uomini che si trovavano con lui. Uno era il sottosegretario degli Interni. Si alzò anche lui e mi tese la mano. Le cose stavano andando bene. Avrei voluto vedere le loro facce se avessero saputo che non ero chi realmente dicevo di essere: ero un ladro, nient'altro che un ladro! Tutti mi prendevano per un agente o uno spione del governo; non sarei certo stato io a contraddirli! Fu l'ambasciatore a parlare per primo: - Allora, Mesrine, a me può dire tutto. Siamo in ottimi rapporti con la Spagna. Questo piccolo incidente si può risolvere in fretta. Mi dica il nome del suo capo a Parigi e io farò il necessario con le autorità spagnole affinché lei possa tornare rapidamente a casa. Possibile che il mio bluff avesse funzionato a tal punto? Anche l'ambasciatore c'era cascato. Ero certo che il mio silenzio sarebbe stato interpretato in quel senso; mi sarebbe stato utile. - Signor Ambasciatore, la ringrazio per la sua sollecitudine. Ma non ho né capi né bisogno dei suoi servizi. Ho commesso un reato, sono pronto a pagarne le conseguenze. Non sono altro che un ladro sfortunato, nient'altro. L'ambasciatore, lungi dall'essere convinto, levò le braccia al cielo: - Ma no! Lei non è un ladro. Certo ha precedenti penali, me lo hanno

comunicato via telex, ma il suo passato militare... Suvvia Mesrine, non mi faccia perdere tempo. L'ho fatta venire qui per tirarla fuori da una situazione che potrebbe costarle lunghi anni di galera... Allora, mi dica la verità. Resterà fra noi. La storia stava diventando comica e, benché la mia situazione fosse tragica, mi stavo divertendo. Risposi con voce ferma, ma carica di sottintesi: - Non posso dirle niente, signor Ambasciatore... Mi dispiace, non insista... Ho corso i miei rischi... Non può farci niente. Lasci che la giustizia spagnola faccia quel che crede, non ho niente da dire né oggi né domani. Il sottosegretario degli Interni prese la parola: - Perché questo atteggiamento, signor Mesrine? L'ambasciatore vuole solo aiutarla. - Non posso averne un altro, signor Ministro, sono certo che lei capisca benissimo. A ciascuno il suo mestiere. Ero in pieno melodramma, ma ero certo che anche lui avrebbe abboccato. Assunse un'aria pensierosa, poi mi rispose: - Sì, è molto probabile che capisca bene!... Meglio di quanto lei immagini. La discussione durò ancora diversi minuti. Di fronte al mio rifiuto di fornire spiegazioni, si decisero a riportarmi nel sotterraneo, ma con una sollecitudine che mi riempiva di speranza. L'ambasciatore mi strinse la mano in modo amichevole, assicurandomi che, malgrado il mio silenzio, avrebbe fatto quel che poteva per aiutarmi a uscire da quella situazione. Dovevo passare la notte in cella. Mi fecero portare un pasto eccellente con vino e cognac; avevano aggiunto anche un sigaro. La guardia si dimostrò premurosa... Doveva aver ricevuto istruzioni in proposito. Il mattino seguente mi portarono all'aeroporto per tornare a Palma di Maiorca. Al mio arrivo fui immediatamente portato nel carcere della cittadina. La prima cosa che notai furono le numerose possibilità di evadere. La prigione era in piena città. Le strutture che la componevano erano incollate ad altri edifici residenziali. Non c'era un solo camminamento di ronda. C'era un grande cortile, dove i detenuti potevano passare la giornata al sole. Fui accolto in modo molto corretto. Per prima cosa, cercai di sapere se c'erano altri francesi. Non ce n'erano, ma mi si avvicinò uno spagnolo. Parlava perfettamente la mia lingua. Era lì per traffico di droga e faceva da segretario al direttore del carcere. Aveva l'aria di conoscere il motivo per cui

ero lì. - Lo sai che il direttore ha ricevuto ordini che ti riguardano? Sono bene informato perché li ho letti. Non devono considerarti un detenuto come gli altri. Diffidavo di quel tipo. Poteva anche essere uno sbirro messo lì per farmi parlare. Pur rimanendo corretto, mi tenni sulla difensiva. Prima di simpatizzare, volevo sapere con chi avevo a che fare. Lui non sapeva ancora di avere appena incontrato la «morte». Grazie a me, avrebbe perso la vita con le sue stesse mani... A un porco non si perdona mai. Per il momento, ci stavamo studiando ed ero ben lungi dall'immaginare che il destino avesse già distribuito le carte. Trascorsi diversi giorni senza ricevere notizie riguardo al mio procedimento penale. Fui autorizzato a scrivere a mia moglie. Sapevo che il contenuto della mia prima lettera sarebbe stato esaminato con cura. Di proposito vi feci scivolare dei sottintesi riguardo ai motivi della mia azione. Non m'importava della sua reazione. In me era avvenuto un cambiamento. Non temevo più di dover passare lunghi anni in prigione. Accettavo con filosofia il mio destino... Nient'altro che un incidente di lavoro. Non appena l'amore lascia il cuore di un uomo, il suo comportamento cambia. Al mio primo arresto non avevo sofferto per me, ma per il male che facevo a coloro che amavo. Oggi, l'indifferenza aveva compenetrato il mio essere... L'uomo diventa realmente pericoloso se non ha più paura delle leggi e delle loro conseguenze. Ero pronto ad affrontare ogni situazione... Mi sentivo protetto dalla fortuna che non m'aveva mai abbandonato. Ricevetti la visita di un avvocato. Si presentò in maniera molto cerimoniosa: - Sono stato incaricato di difenderla dalla sua famiglia. Mi è stata affidata una cospicua somma di denaro da consegnarle. Spero che vorrà accettare i miei servigi. Sapevo che tutto proveniva da Guido. Immaginai anche che l'avvocato si sarebbe tenuto in contatto con il governatore, riferendogli i nostri colloqui. Avevo intenzione di sfruttare la cosa a mio vantaggio. La nostra conversazione fu lunga e ambigua. Quando terminò, l'avvocato mi aveva sicuramente preso per quello che non ero, un agente segreto. Mi fece capire che le cose potevano sistemarsi in fretta e mi lasciò, soddisfatto delle informazioni che credeva di avermi estorto. Con il mio nuovo compagno, cominciava a instaurarsi un clima di fiducia.

Durante l'ora d'aria, mi disse: - Saresti d'accordo a tentare l'evasione? - Perché me lo chiedi, David? - Il tuo caso è serio. Quanto a me, ho saputo che all'inizio dell'anno mi trasferiranno a Barcellona per un processo in cui rischio molto. Qui ho dei seghetti. Ma bisogna che organizzi tutto tu, perché io non ho nessuno che possa aiutarmi... Per te non è certo così! - mi disse con un sorrisone che la diceva lunga. - Sì, ci si può pensare... Non so come le cose si potrebbero mettere per me, anche perché da questo carcere non sarebbe un problema evadere, ma siamo su un'isola e i mezzi per lasciarla sono limitati. Insomma, possiamo sempre pensarci. Se hai la possibilità di far uscire, senza controllo, delle lettere posso sempre contattare qualcuno. Una cosa sola, David: io non ti conosco, non abbiamo alcun amico in comune... Allora ti avviso, se tradisci la mia fiducia o se cerchi di farmi cadere in una trappola, ti faccio la pelle. - Non rischi niente, Jacques... Sono un bravo ragazzo. - Allora d'accordo... Siamo insieme. I giorni passarono. Ricevetti una lettera da Sole. Capii subito che gliel'aveva dettata Guido. Quando lessi la frase «il tuo bambino, malgrado ciò che ti è successo, è fiero di portare il tuo nome», capii che il mio amico aveva avuto le informazioni che cercava. Nonostante la mia situazione, ero tranquillo. Sapevo che, qualunque cosa mi fosse successa, potevo contare su di lui. Tramite David gli inviai un messaggio a un indirizzo che, a Parigi, ci serviva da buca delle lettere. Non dovevo fare altro che aspettare la risposta tramite gli amici di David. Il giudice incaricato della mia istruttoria mi convocò. La nostra conversazione fu quasi amichevole. M'informò che pensava di concedermi la libertà su cauzione sull'isola, a condizione che accettassi di presentarmi ogni giorno dal commissario Francisco Rossello. In più avevo il divieto di lasciare l'isola. Il mio avvocato aveva abbastanza denaro, depositato a mio nome, per pagare la cauzione. Potevo quindi sperare di essere scarcerato prima di Natale.

Quando annunciai la notizia a David, credette che il nostro piano d'evasione saltasse. - Ascolta... Il fatto che io sia messo in libertà sull'isola non cambia niente. Ho una parola sola. Ti aiuterò. Se sono libero posso aiutarti per il nascondiglio, per i documenti falsi, per lasciare l'isola... E, soprattutto, posso far venire degli amici. Mettemmo quindi a punto i dettagli dell'evasione. Lui lavorava, come segretario, nell'ufficio del direttore, dove poteva recarsi anche nei giorni festivi, se aveva delle pratiche da sbrigare, e poteva evadere da quell'ufficio. Se fossi stato scarcerato prima di Natale, lui avrebbe tentato l'evasione il primo gennaio 1966, intorno alle otto di sera. Sarebbe stato tutto pronto, poteva contare su di me. Ricevetti una lettera da Guido, sempre tramite David. Aspettava i miei ordini. Non ebbi neanche il tempo di rispondergli. La vigilia di Natale arrivò il mio avvocato tutto sorridente con la libertà provvisoria in tasca. David mi diede il nome di un hotel e, di fronte al suo sguardo interrogativo, risposi: - A presto, amico, andrà tutto come previsto... Una macchina ti aspetterà dove mi hai detto. Tutto sarà pronto, a te spetta il resto. Scesi all'hotel Jaime III e la prima cosa che feci fu chiamare Parigi, dando solo il mio indirizzo e dicendo che ero libero. Sapevo che, con il primo aereo, Guido o un altro amico sarebbe arrivato a Palma sotto falsa identità per contattarmi. Nell'attesa sarei andato a firmare ogni giorno come previsto. Non volevo avvertire Sole della mia liberazione, non sapendo ancora come sarebbe finita la storia. Passai la notte di Natale nella discoteca dell'albergo e feci la conoscenza di una bellissima donna di nome Josy Aranda. Era francese ed era venuta con sua figlia a passare le feste di fine anno a Palma. Era di Lione, dove aveva un bar. Simpatizzammo subito. In lei avevo visto la donna che conosceva la vita e gli uomini. In me lei aveva percepito il bandito. Dovetti attendere due giorni per essere chiamato al telefono, una mattina. - Chi parla? - Il vecchio... Salve, figliolo. Sono a Palma. Vieni al ristorante del porto verso le quattordici.

- Sono contento che tu sia arrivato, amico mio. - Non quanto me, fratellino... A presto. Chiesi a Josy se voleva venire a pranzare con me assieme a sua figlia. Accettò. Appena entrato nel ristorante vidi Guido. Era in compagnia di un uomo che non conoscevo. Una volta seduto al tavolo, vidi che andava in bagno... Feci altrettanto, con la scusa di dover telefonare. Mi accolse con un sorriso. - Nessuno ti ha seguito? Feci segno di no. - E' incredibile!... Come sei riuscito a uscire da quella trappola? - Troppo lungo da spiegare... In quale albergo sei sceso? - Non sono in albergo. Sono a casa di un amico fidato... Sì, il tipo che hai visto a tavola con me. A proposito, le informazioni che ci servivano le abbiamo avute. Hai fatto un ottimo lavoro. Te ne renderai conto al tuo arrivo, non ci siamo dimenticati di te. - Non abbiamo il tempo di discuterne adesso. Dammi l'indirizzo del tuo amico, sarò da lui alle diciotto... Dobbiamo parlare di cose serie. - Chi è la donna che sta con te... E la ragazza? - Una conoscenza... Non c'è niente da temere. - Lo spero! - No, stai tranquillo... Ho preso informazioni su di lei... Potrai chiedere a Lione chi è... In ogni modo è solo un'amichetta, nient'altro. - OK... A presto. Mi diede l'indirizzo del suo amico. Fu un ottimo pranzo. Josy era di compagnia. Non una volta il mio sguardo si

posò sul tavolo dov'era Guido. Fui puntuale all'appuntamento. L'amico di Guido era belga. Aveva una bella proprietà a dieci chilometri da Palma. Guido mi fece capire che potevo parlare tranquillamente. Gli raccontai la mia storia nei dettagli. Spiegai a Guido il mio progetto di fare evadere David. - Tutto ciò è molto bello, ma tu non lo conosci bene quel ragazzo. Hai pensato che potrebbe essere uno sbirro? - No, l'ho messo alla prova... E comunque gli ho dato la mia parola che lo avrei aiutato e... - Va bene... Non dire altro. Se hai ritenuto giusto aiutarlo, lo aiuteremo. Guido mi spiegò perché non mi aveva presentato il suo amico belga al momento dell'azione dal governatore. All'epoca non era sull'isola. In ogni modo, non avrebbe accettato di comprometterlo in quell'impresa. Ma era stato lui ha trovarmi l'avvocato. Lasciai la proprietà con discrezione, così come ero arrivato. Avevamo messo a punto tutti i dettagli dell'evasione. Nei giorni che seguirono, come convenuto, non rividi Guido. Ogni giorno andavo a firmare il registro della polizia. A volte incontravo il capo della Guardia Civil che mi aveva interrogato; diverse volte mi offrì da bere al circolo militare. Per lui ero un tipo a posto, quasi un collega. Questo persistere nell'errore mi divertiva, ma, lungi dal contraddirlo, stavo al gioco. Tutto era pronto per l'evasione di David. Guido aveva fatto venire da Parigi un altro amico che, all'ora prefissata, doveva aspettare David al volante di un'auto rubata. Il belga aveva preparato un nascondiglio. Per i documenti falsi mancava solo la foto. La sua partenza dall'isola era prevista un mese dopo l'evasione, onde evitare ogni sorpresa. Con animo tranquillo, passai il veglione di fine anno con Josy. Lei m'informò che l'indomani sarebbe ripartita in nave per Marsiglia. La partenza era fissata alle otto di sera. La coincidenza non mi sfuggì... Alla stessa ora David avrebbe tentato l'evasione. Accompagnandola e facendomi notare in un modo o nell'altro alla dogana mi sarei procurato un ottimo alibi. Ancora una volta il destino mi era favorevole, offrendomi in modo quasi comico un alibi inattaccabile. Il primo gennaio 1966, intorno alle sette di sera, accompagnai Josy e sua figlia al molo d'imbarco di Palma di Maiorca. La nave era alla banchina. Dirigendomi verso la dogana, vidi il capo della Guardia Civil. Mi guardò sorpreso, forse pensando che fossi io a volermi imbarcare. Mi venne incontro.

- Allora, signor Mesrine... Malgrado il divieto ci sta lasciando? - Oh no, signor comandante... Accompagno solo un'amica e sua figlia. Sa bene che non vi farei mai un tiro simile! - gli dissi ironico. Il suo sguardo si posò immediatamente su Josy. Feci le presentazioni. Volendo fare il gentiluomo, arrivò addirittura a un baciamano più prolungato del dovuto. La sua presenza mi esaltava. Insistette per facilitare il superamento della dogana a Josy, che senza sforzi faceva la graziosa, aiutata dalla sua bellezza naturale, che la rendeva desiderabile a chiunque la incontrasse. Lui propose di salire a bordo e ci invitò a bere una coppa di champagne. - Ottima idea, comandante, ma nella mia situazione non so se posso permettermelo. - Con me, signor Mesrine, tutto è possibile! - mi rispose, pieno di orgoglio e di supponenza, troppo felice di poter mostrare la sua autorità a Josy che lo guardava con occhi languidi. Salimmo dunque a bordo. Dopo averla accompagnata alla sua cabina, andammo insieme al bar di bordo. Offrii una bottiglia di champagne. Troppo presi dalla conversazione, non sentimmo l'annuncio della partenza. Il comandante fece portare un'altra bottiglia. Faceva spudoratamente la corte a Josy sotto i miei occhi. Il tempo passava; con l'aiuto dell'alcol, non ce ne rendevamo conto. Risuonò la sirena della nave. Al comandante dissi: - Forse è ora di scendere, comandante? Il barman, che parlava spagnolo, intercettò la mia frase e mi guardò, stupito, e disse: - Scendere, signore!... Ne dubito. Gli ormeggi sono già stati sciolti e stiamo uscendo dal porto. Il comandante esplose: - Cosa?... Ma perché non è stata annunciata la partenza? Lo sa chi sono io?... Io sono il capo della Guardia Civil. Mi porti immediatamente dal capitano. - Ma l'annuncio è stato dato. Può darsi che lei non l'abbia sentito...

- Mi porti dal capitano! - disse lui, folle di rabbia. Quella buffa situazione mi divertiva. Guardai l'orologio e capii che a quell'ora David aveva molte probabilità di essere già libero, se tutto era andato come previsto. Da parte mia, mi ero appena creato un alibi che nessuno avrebbe potuto contestare. Dopo esserci presentati al capitano, fu deciso che una lancia della dogana sarebbe venuta a prenderci. Il dispaccio fu inviato. Accompagnati da grida di saluto, con una scala di corda ci calammo nella lancia che beccheggiava sottobordo. Josy ci fece un ultimo segno d'addio. Quando la lancia accostò al pontile, il comandante aveva ritrovato il suo sorriso. - Donna affascinante, quella Josy!... - mi disse. - Ritornerà presto a Palma, comandante. - Sarebbe piacevole rivederla. Crede che accetterà l'invito che le ho fatto? - Senza dubbio, comandante... - dissi per blandirlo. Mi propose di accompagnarlo in un locale per concludere la serata. Ci portò il suo autista. Rimasi a bere con lui fino alle ventitré. Era ubriaco e non smetteva di dire alle due puttane che ci avevano raggiunto al tavolo che io ero «il suo amico francese». Gli feci capire che dovevo rientrare. Lui voleva restare; ordinò quindi al suo autista di riaccompagnarmi con l'auto di servizio. Quando il portiere dell'albergo mi vide rientrare in quella maniera, mi aprì la porta con uno strano rispetto, dicendomi che due poliziotti mi aspettavano nell'atrio da due ore. Se David era riuscito nella sua evasione, quella visita non mi sorprendeva... Ma era riuscito? I due poliziotti mi mostrarono i distintivi e mi invitarono a sedermi. Uno di loro cominciò: - Dov'è stato, signor Mesrine? - Perché me lo chiede? - Sono io che faccio le domande... Le chiedo di dirmi dove si trovava dalle

diciannove in avanti. Non potei trattenere un sorriso dicendogli: - Se glielo dicessi, non mi crederebbe... Ma non vedo la necessità di risponderle. - Senta, Mesrine - mi disse l'altro poliziotto - noi facciamo solo il nostro mestiere. Conosce un tale di nome David? Feci finta di riflettere. - David... Ah! Sì, il ragazzo con cui giocavo a scacchi durante la mia detenzione... Sì, lo conosco... Ma niente di più. Perché? - E' evaso! - Cosa?... Lui, scappare?... Sta scherzando! - Ha segato le sbarre dell'ufficio del direttore e si è lasciato cadere all'interno del mercato coperto. Si è fatto sorprendere dai due metronotte che facevano il loro giro di controllo. Non pensando di avere a che fare con un evaso, lo hanno preso per un ubriacone. E' l'impressione che ha dato loro affermando di essersi addormentato prima della chiusura e che, quando le guardie lo hanno sorpreso, stava cercando l'uscita. Le guardie, senza diffidare, hanno telefonato al commissariato di polizia vicino al mercato. Gli hanno detto di accompagnarlo da loro. Quando una delle guardie ha aperto il cancello, David ha spinto l'altra ed è scappato. I due gli sono corsi dietro. Lo hanno visto imboccare una stradina e salire su un'auto prima di scomparire. Lei aveva un legame d'amicizia con questo detenuto, riteniamo che fosse lei al volante dell'auto. Se non è in grado di dimostrare dove si trovava, abbiamo l'ordine di portarla dal commissario Francisco Rossello. - In effetti forse sarà meglio che mi ci portiate subito, perché non posso dirvi con chi ero senza prima aver visto il commissario. Ma sarà molto sorpreso, perché non ho assolutamente niente a vedere con questa storia; la persona con cui ero mi scagionerà rapidamente. Le crederanno sulla parola, non ne dubiti - dissi ironicamente. Fui condotto al posto di polizia, che era in piena effervescenza. Il commissario venne verso di me. Non era di buon umore. - Quel che ha fatto non è mica bello, Mesrine.

- Sta facendo un grosso errore, commissario... Io non c'entro assolutamente. Gli spiegai, nei dettagli, dov'ero stato. Sulle prime pensò che lo prendessi in giro. Gli ci volle un po' per riuscire a contattare il comandante, perché non avevo la minima idea di dove fosse il locale in cui avevo bevuto con lui. Quando tornò, il commissario aveva verificato il mio alibi. - In effetti, la storia incredibile che mi ha raccontato si è rivelata esatta. Con lei niente è normale, Mesrine, neanche gli alibi. Può andare... Ma non posso fare a meno di pensare che in questa faccenda ci sia il suo zampino. - No, commissario, perché non avevo alcun interesse a far evadere un tipo come David. - Come non aveva alcun interesse a entrare nella casa del governatore. Lei fa molte cose senza una ragione, signor Mesrine... Faccia attenzione, è un consiglio che le do gratis. In ogni modo, lo ritroveremo. Siamo su un'isola... E' difficile lasciare un'isola, signor Mesrine. Non potei impedirmi di tenergli testa replicando: - Sì, l'ho constatato stasera... Se avessi voluto, sarei in viaggio per la Francia e lei non avrebbe più alcuna possibilità di ritrovarmi... Questa è un'altra prova della mia buona fede. Io rispetto i miei impegni, commissario, quindi non mi complichi la vita. Non sono responsabile della sorveglianza nelle vostre carceri, non me ne importa niente del vostro David. Se mi autorizza, vorrei rientrare in albergo e lasciarla alle sue ricerche. Scusi se non le auguro buona fortuna. - D'accordo, Mesrine, può andare. La riaccompagniamo. Tornato nella mia camera, mi feci portare una bottiglia di whisky con del ghiaccio. Riempii il bicchiere e brindai a David dicendo a me stesso: «Ben fatto, Jacques, li hai fregati». Sapevo che avrebbero aumentato la sorveglianza su di me. In ogni modo, avevamo già previsto che, per il resto del mio soggiorno sull'isola, non avrei avuto alcun contatto con David. Guido mi fece sapere che tutto era a posto e che tornava a Parigi. Il 10 gennaio 1966, il mio avvocato venne a cercarmi in albergo. M'informò che ero stato processato in contumacia. Mi avevano condannato, con la condizionale, a sei mesi di detenzione per tentato furto. Della rivoltella non si era neppure parlato. Mi diede un documento che mi autorizzava a tornare in Francia. Non ero neanche stato espulso dalla Spagna... Il mio bluff aveva funzionato al di là di ogni

aspettativa. Il pomeriggio stesso, presi l'aereo per Parigi. Sole, riconoscendo il mio modo di bussare, lanciò un grido di gioia e si precipitò tra le mie braccia. La sua prima frase mi sorprese: - Caro, è vero che lavori per i servizi segreti?... E' stato l'avvocato a scriverlo a tuo padre. Scorsi subito il vantaggio che avrei potuto trarne per i viaggi futuri e, rimanendo sul vago, le risposi: - Evita di farmi domande, vuoi? Sapevo che lei ne avrebbe dedotto che non potevo risponderle. La sua immaginazione avrebbe fatto il resto. Mi guardò con uno sguardo ammirato, dicendomi: «Capisco...». Si credeva sposata a O.S.S. 117 e James Bond messi insieme... Se ciò poteva tranquillizzare la sua coscienza, preferivo lasciarle le sue illusioni. Ripresi subito contatto con Guido, che mi tranquillizzò su David. - Durante la tua carcerazione, ho fatto un ottimo affare coi dollari falsi. Ne ho comprati parecchi... Per noi due, se sei d'accordo. Andò a prendere una valigia e tirò fuori una scatola. Era piena di mazzette di banconote da cento dollari. Presi un biglietto e lo esaminai. - Allora? - Bella merce... Abbastanza buona. - La trovi buona? - Non è perfetta, ma è più che valida... Quanti ce n'è? - Centocinquantamila dollari... C'è un piccolo inconveniente: alcune di queste serie sono state individuate nel 1961 dall'American Express. - Quanto li hai pagati? - Il quindici per cento del valore nominale. - Bene, vedremo cosa potremo farne; troveremo di sicuro da piazzarli.

Senza fretta. Passò un mese. Mi ero preso un po' di riposo con Sole, che non protestava più per le mie uscite notturne, immaginandosi non so quali missioni! Era tempo di far venire David. Con i suoi documenti falsi, prese l'aereo in compagnia della moglie e del figlio di un amico mio, che aveva accettato questo stratagemma per facilitargli la fuga. All'arrivo, David era raggiante di gioia. Mi raccontò tutto nei dettagli, non sapendo come ringraziarmi per quel che avevo fatto per lui. Avevo preparato tutto, un appartamento affittato con il nome dei documenti falsi, vestiti, denaro. Trovavo normale aiutare un tipo che aveva avuto il coraggio di evadere. A volte, senza saperlo, si fa entrare il lupo nell'ovile. Per una settimana lo portai in giro per presentarlo agli amici. Poi, un giorno, parlammo dei dollari falsi. Vedendoli, subito David si entusiasmò. - Ascolta, Jacques. Conosco un banchiere a Barcellona che accetta questo tipo di merce quando è di buona fabbricazione, incassando solo una commissione del venti per cento. Prenderà tutto senza problemi. Se vuoi, lo contatto. Ne parlammo con Guido. Davanti ai solidi argomenti di David, accettammo, poiché l'affare doveva essere sicuro, se lui correva il rischio di tornare in Spagna. Per me, era il suo modo di pagare il debito che credeva di avere con noi. Ancora una volta mi sbagliavo. Decisi di andare con lui e cominciai a organizzare il viaggio. Qualche giorno prima della partenza, Guido m'invitò a casa sua: - Ascolta, Jacques! Quel tipo non mi piace... Diffida di lui, certi dettagli mi lasciano perplesso. Mi ha chiesto di procurargli un'automatica per il viaggio... Te ne ha parlato? - Sì... Mi sembra logico essere armato per il viaggio. - Non lo conosciamo abbastanza da fidarci... Te lo ripeto, non fidarti... Sento che c'è qualcosa che non va. - In ogni modo, sono io che tengo i dollari e non viaggerò certo a mani vuote. Basta prendere qualche precauzione. Gli daremo una pistola poco prima della partenza, ma dopo averne limato il percussore. Di armi se ne intende poco. Io ne porterò due, così non sarò a mani vuote caso mai

incontrassimo gli sbirri spagnoli e ci trovassimo in difficoltà. .. Se ciò ti tranquillizza, facciamo così. Guido approvò. Fu deciso che David avrebbe affittato sotto falso nome una Mercedes alla Hertz. Dopo avere nascosto nella macchina i dollari falsi, fissammo la partenza. Al mattino gli diedi una 9 millimetri parabellum e due caricatori. I nostri sguardi s'incrociarono. Nei suoi occhi lessi la soddisfazione. - Con questa ti sentirai meno solo - gli dissi. - Sì, può servirmi. - Dimmi, David... Siamo d'accordo per il banchiere, siamo sicuri? - Sì, fidati di me. Attraversammo tutta la Francia, dandoci il cambio al volante. Pernottammo a Perpignan. Al mattino mi disse: - Per te c'è qualche rischio a passare la frontiera con me. La cosa migliore sarebbe che io passassi da solo in Mercedes e tu in pullman. Ti farei risalire dopo la frontiera. Era sincero? O aveva cattive intenzioni? Per tutto il viaggio si era mostrato allegro e niente nel suo comportamento rivelava qualcosa di strano. Decisi di sondarlo per capire se la sua proposta non avesse uno scopo diverso dalla mia sicurezza. - Sì, hai ragione, ma sarò io che passerò in Mercedes e tu in pullman... I rischi saranno ancora minori, che ne dici? Sembrò contrariato, ma mi rispose: - Come vuoi, sta a te decidere. Passai dunque il confine senza la minima difficoltà. Ma non potei fare a meno di ripensare all'avvertimento di Guido. Il pullman arrivò due ore dopo. Decidemmo di pranzare sul posto. Mi propose ancora:

- Senti, Jacques, visto che dobbiamo essere a Barcellona solo stasera, ho un amico che sta a quaranta chilometri da qui... Mi farebbe piacere presentartelo. Se sei d'accordo, potremmo passare a trovarlo. Non mi aveva mai parlato di questo amico. In quel momento, ebbi la certezza che stesse cercando di fregarmi, perché con quello che trasportavamo non era davvero il momento di fare del turismo. Il gioco cominciava a piacermi. Avevo una sola speranza, per lui... Di sbagliarmi. Indifferente, gli risposi: - Sì, abbiamo tempo. Va bene, passiamo a trovare il tuo amico. Si mise al volante. Costeggiammo i Pirenei su una strada a lato della foresta. Non c'era quasi traffico. - Come hai detto che si chiama il villaggio? Non mi aveva detto niente! Esitò e disse un nome che non conoscevo. Sentivo che era nervoso. Adesso ero sicuro: David aveva qualche idea strana in testa. Stavo in guardia. La 38 special che avevo alla cintura mi serviva da assicurazione. Feci finta di addormentarmi, come cullato dal viaggio. Finché aveva le mani sul volante, non rischiavo granché e la faccenda cominciava a divertirmi. Qualche chilometro dopo lo vidi imboccare una stradina. Non avevamo incrociato una sola auto. Rallentò. Feci finta di risvegliarmi. - Ho voglia di pisciare - mi disse. Era dunque così, mi aveva portato al macello, senza dubbio. Ero deluso... Colui al quale avevo offerto la mia amicizia mi avrebbe tradito per dei dollari falsi. Nei miei sentimenti ero troppo puro per capire. Che una donna tradisca lo si può ammettere. Se un amico ti tradisce, il sentimento del «fino alla morte» lascia il posto a un odio distruttivo. Avevo quasi voglia di gridargli: «Non vedi che stai per crepare?» ma, con calma, stetti al gioco: - Va bene, anch'io. Fermò la Mercedes in una radura in ombra. Scese per primo. Senza che se ne accorgesse, tolsi le chiavi dal cruscotto e me le misi in tasca, scendendo dal mio lato. Si era un po' allontanato dall'auto: feci lo stesso e gli girai le spalle, come se stessi urinando. Lo sentii ritornare all'auto e aprire la

portiera. Quando mi girai, non fui nemmeno sorpreso di vederlo a dieci metri da me, con l'arma in mano, sudato di paura, troppo piccolo per tentare quel che non avrebbe potuto portare a termine. Parlai per primo, fissando l'arma. Sapevo che, senza il percussore, era del tutto inoffensiva e mentalmente ringraziai Guido. - Che significa, David? - Dammi le chiavi... E non muoverti... e... e... butta a terra la pistola! Vedendomi sorridere, mi urlò con voce strozzata: - Dammi le chiavi o sparo! Non ti muovere, non ti muovere! - mi gridò ancora. - Povero scemo! Il cane del suo revolver batté sul percussore con un rumore secco. Non ci fu alcuna detonazione. Mi guardò con sguardo ebete, con il panico negli occhi. Fece il gesto di riarmare, ma io avevo già la mia pistola in mano. Lui era rimasto lì, con le braccia a penzoloni, come una marionetta senza fili. Io, con una fredda rabbia nel cuore, gli ero già vicino. Fissava con terrore il buco nero della mia 38. Gli tirai un calcio nel basso ventre e cadde gemendo contro la portiera. - Povero miserabile! Avevo recuperato la sua arma. Il posto era deserto. Vidi un sentiero che saliva leggermente verso la montagna. Chiusi le porte dell'auto e infilai un paio di guanti. Prendendolo per il bavero, gli dissi: - Vieni con me, merdoso. Dobbiamo conversare un po'. Lo feci camminare davanti a me. Percorremmo un centinaio di metri. Non si vedeva più la strada. David non la finiva più di piagnucolare: - Cosa mi vuoi fare... Lascia almeno che ti spieghi... Il figlio di cane non mancava certo di faccia di bronzo! Spiegarsi... Senza conoscerlo, gli avevo dato tutto e il suo primo atto di riconoscenza era stato non solo di volermi derubare, ma anche di spararmi. - Non ti preoccupare, povero scemo... Per spiegarti, ti spiegherai. Fermati

lì... Spogliati nudo... - Ma... Il mio pugno sinistro lo prese in piena faccia e gli ordinai: - Spogliati nudo, merdoso... e in fretta! Si spogliò, tremando di freddo e di paura... I porci non sono mai capaci di morire come gli uomini. Feci finta di mirare. - Ah! No... non sparare! No... no. Mi sentivo un po' sadico a vederlo in quello stato. Lo apostrofai: - Tutto questo per i soldi... Il banchiere non esiste, eh, maiale? Mi sparavi e te ne andavi con 150 mila dollari, macchina, armi e documenti. - Non volevo ucciderti... Te lo giuro... Volevo solo i soldi. - E' tutto quello che sai dirmi! Guido mi aveva avvertito e ti abbiamo manomesso la pistola... Non hai avuto fortuna, piccolo, la tua carriera di porco finisce qui... Hai scelto tu stesso il tuo destino. Era là, con gli occhi fuori dalle orbite, a supplicare: - No... No, non farlo... Farò tutto quello che vuoi... Sì, sì. Tutto quello che vuoi! Mi spiegò tutto. Il banchiere che non era mai esistito. Si mise in ginocchio, piangeva, frignava. Avrei preferito che tentasse l'ultima carta saltandomi addosso. Ma era un vigliacco, come tutti coloro che tradiscono l'amicizia. Ritardavo la sua morte. Feci finta di dargli una speranza di cavarsela. - Voglio darti una possibilità. I suoi occhi cambiarono espressione e si schiarirono. - Sì, sì dammi una possibilità... Vedrai, non te ne pentirai... Come faceva a credere alle mie parole? Era ingenuo, oltre che avido, a pensare che non avrebbe pagato il tradimento con la morte.

- Infilati la maglietta. Tremando la prese e se l'infilò. Quando la sua testa riapparve, vide la mia arma puntata. Avevo giocato abbastanza. La prima pallottola lo colpì al ginocchio sinistro. Crollò al suolo con un urlo. Si riparava il viso con le mani. - In piedi, porco... In piedi! - ... Si rialzò a fatica, fissando la mia arma. La paura aveva avuto la meglio sulle sue budella e i suoi escrementi gli colavano lungo le gambe. Altri quattro colpi lo colsero in pieno petto. Bucarono la sua maglietta. Quattro fiori rossi come prezzo del suo tradimento. Rantolava. Gli tolsi la maglietta, poi, prendendolo per i capelli, gli sollevai la testa e gli tirai un ultimo colpo che gli fece scoppiare la scatola cranica. Aprii il tamburo, mi misi in tasca i bossoli e ricaricai la mia arma in caso di problemi al mio ritorno alla macchina. Raccolsi i vestiti da terra. Dopo un ultimo sguardo a David, sputai per terra. Se ci fosse stato bisogno di un epitaffio avrei scritto: morto nella sua merda. Dovevo riflettere e in fretta. La calma era totale. Presi l'altra arma che mi ero portato dietro; dopo aver pulito dalle impronte quella che avevo appena usato e dopo averla svuotata dalle pallottole, la tirai lontano nel bosco, così come i bossoli. Feci lo stesso con la pistola di David. Misi nella mia valigia i suoi vestiti, dopo averne tolto i documenti. Strappai tutte le foto dai documenti e li bruciai sul posto. Mi restava solo la maglietta. Ciò che avevo deciso di fare era imprudente, ma me ne fottevo: era per Guido. Spostai la Mercedes fino alla strada e tornai indietro a cancellare le tracce delle gomme sullo sterrato. Dovevo tornare in Francia con la merce. Non avevo intenzione di ripassare il confine prima di sera. Salvo imprevisti, il corpo di David non sarebbe stato ritrovato fino a primavera... Per allora i roditori e i mangiatori di carogne di ogni specie erano i benvenuti e auguravo loro buon appetito. Sulla strada del ritorno pensai a David... Avrebbe fatto meglio a restare in prigione. Me la prendevo con me stesso per il mio errore di giudizio. I miei amici non potevano rimproverarmi niente, avevo fatto quel che bisognava fare. Per i dollari non era importante. Non mancavano certo altre soluzioni. Alle otto di sera valicai il confine. Quando il doganiere mi domandò se avevo

qualcosa da dichiarare, gli risposi con umorismo: - No, assolutamente niente. Feci una sosta in un luogo deserto e alla luce interna dell'auto tolsi i dollari dal loro nascondiglio e li misi nella sacca. Arrivato a Perpignan abbandonai la Mercedes con le chiavi nel cruscotto per facilitarne il furto e andai in stazione. C'era un treno per Parigi. Passai la notte in un vagone letto. Al mio arrivo mi recai da Guido. Quando mi aprì, si stupì: - Sei già qui? - Su David avevi ragione. - E allora? Posai la sacca sul tavolo. Poi, tirando fuori la maglietta macchiata di sangue, dissi a Guido: - Affare sistemato. Non ne parlammo mai più. Ma quella mia fermezza nell'azione brutale, quando era necessario, mi fece acquisire un certo prestigio presso gli amici.

Nell'aprile 1966 Sole mi diede un bel bambino che chiamai Boris. Malgrado quella nascita, raddoppiai le mie attività criminose. Amavo l'azione e, contro questa rivale, Sole non poteva competere. Mi piaceva il pericolo. Per contro, nutrivo un'adorazione senza limiti per mia figlia Sabrina. Certe volte la portavo con me la sera al ristorante. Come due piccole biglie nere i suoi occhi scoprivano il mondo. La portavo a passeggio tra i mercanti di quadri a Place de Tertre. Le avevo fatto fare il ritratto in stile Gavroche e i pittori che la conoscevano l'avevano soprannominata «la Pulce». Quando il fioraio passava con il suo cesto di rose, ne compravo sempre una e gliela offrivo. Quando rientravamo a casa, stanchi, mi toccava portarla in braccio. Si addormentava, la testa appoggiata sulla mia spalla, ed ero il più felice degli uomini. Questa contraddizione tra l'uomo sensibile e il bandito che ero diventato aveva per me una sola spiegazione: vivevo due vite parallele. La seconda rischiava di distruggere definitivamente ciò che mi dava la prima e, rientrando in casa, ero ben lontano dal pensare che non avrei mai visto

crescere quell'esserino fiducioso che, sentendosi protetto, si era addormentato serenamente. Guido mi chiese di andare con lui nel sud della Francia; il suo amico Tino aveva bisogno d'aiuto per regolare certi conti. Fu un bagno di sangue. La malavita è così, puoi uccidere un uomo senza averlo mai visto prima... Ignorando tutto di lui, tranne che è in guerra contro l'amico di un amico. Lo uccidi senza odio, senza cattiveria... Come in guerra, semplicemente perché bisogna farlo. E poi torni a casa, senza pensare che una madre piange, che una moglie ti maledirà senza mai sapere chi sei e forse anni dopo il destino ti metterà nel letto quella stessa donna, che continuerà a ignorare che sei l'arma che ha cambiato il suo destino. Ma una cosa è sicura: se quello ha degli amici sinceri, essi non ti dimenticheranno mai. Di ritorno a Parigi, Guido mi avvertì che le cose non sarebbero finite lì. Non avrei tardato a rendermene conto. Una sera che avevo un appuntamento con Tino, che era venuto per qualche tempo a Parigi, parcheggiai l'auto in Place de Clichy. Era notte. Mentre scendevo dall'auto, il rumore di un motore mi fece voltare la testa. Quel gesto mi salvò la vita. Un uomo, con la mano fuori dal finestrino, mi teneva nel mirino. Nel momento stesso in cui aprì il fuoco ebbi il riflesso di gettarmi a terra. La macchina mi superò. Ero rotolato a terra ed ero riuscito a estrarre la mia Colt 45. Ma non ebbi il tempo di rispondere al fuoco. Quando feci per rialzarmi, il piede sinistro non mi reggeva più. Me la cavai con una pallottola nella gamba e quattro fori nella portiera. Malgrado l'ora tarda, la gente cominciava ad affacciarsi alle finestre. Rapidamente mi rimisi al volante e sparii. Mi recai direttamente da Guido. Questa volta, dopo l'estrazione della pallottola, dovetti restare due giorni nella clinica di un amico prima di poter ricominciare a camminare. La fortuna di sfuggire alla morte mi avrebbe seguito per tutta la mia carriera criminale, nonostante i diversi conflitti a fuoco ai quali avrei partecipato. Non riuscivo a capire il perché di quell'agguato sul luogo dell'appuntamento con Tino. La spiegazione arrivò da sola. Non rivedemmo mai più Tino vivo. Probabilmente era stato portato via e interrogato in qualche cantina sui suoi amici e i loro nascondigli. Per farlo parlare, di sicuro il trattamento era stato molto rude. La morte gli aveva dato riposo... Se la sarà anche augurata. Forse un giorno il corpo sarà ritrovato... Oppure sta marcendo in un bosco sotto qualche palmo di terra. Tino era ben voluto. Decidemmo di riunirci e agire subito. Altri uomini morirono o scomparvero. Il sangue lavò altro sangue. A volte uccidi una persona che, se non fosse stata dall'altra parte, avrebbe potuto esserti amica. Nulla è più stupido di una guerra tra bande: fa il lavoro della polizia che si limita a segnare i punti.

Da parte mia, non uscivo più con mia figlia, temendo che le succedesse qualcosa. Poi, improvvisamente, come si era acceso, il fuoco si spense. Si contano i morti e le cose si calmano, perché tutti hanno bisogno di riprendere fiato. Decisi di lasciare la Francia per qualche mese e di andare alle Canarie, dove presi in gestione un ristorante. Mi piaceva Santa Cruz di Tenerife, che era un porto franco. Feci molto rapidamente la conoscenza dei malavitosi francesi che vivevano lì senza problemi con le autorità spagnole. Guido e altri amici vennero a trovarmi. Mi dedicai a diversi traffici, favoriti dalla situazione di porto franco, ma l'azione mi mancava. Con Sole le cose andavano di male in peggio. Le scenate di gelosia erano ormai quotidiane e a volte avvenivano in mezzo al ristorante perché, data la mia posizione, ero in contatto permanente con graziose clienti. Una sera mi fece una scenata peggiore del solito. Non si controllava più. Con l'unico scopo di vendicarsi di qualche amante immaginaria, minacciò di suicidarsi assieme a mia figlia. Credeva che ormai l'amore avesse lasciato il mio cuore e si attaccava a me in modo maldestro, passando dalle minacce alle suppliche, dalle lacrime alla collera. Mi rendevo conto che se fossi restato con lei, prima o poi l'avrei uccisa. Senza rendersene conto, mi aveva reso pericoloso per se stessa. Il nostro legame di coppia si affievoliva. Sapevo che in quella situazione squilibrata avevo delle responsabilità, ma non volevo fare niente per cercare di salvare qualcosa del nostro rapporto. Presi quindi la decisione di lasciarla senza spiegazioni e di sparire dalla sua vita. Feci venire mia madre, che ripartì per la Francia con mia figlia Sabrina. Dopo essere passato in banca, presi l'aereo per Roma. Non le lasciai né un biglietto d'addio né la possibilità di ritrovarmi. Non rividi mai più Sole. All'indirizzo dei miei genitori mi scrisse diverse lettere, che restarono senza risposta. Non seppi mai cosa le era successo né volli saperlo. A Roma parlai al telefono con Guido. Al mio racconto di quel che era successo con Sole, la sua risposta fu: - E' meglio così... Sì... meglio per lei... e per te. Mi disse che ora sapeva chi mi aveva sparato qualche mese prima e mi chiese se ero interessato a un colpo in Svizzera. Al telefono non poteva dirmi di più. Gli risposi positivamente e mi diede appuntamento in un albergo di Zurigo. Lo rividi qualche giorno dopo. Mi annunciò che aveva portato a termine la faccenda dei dollari falsi e che la mia parte mi aspettava. Il colpo in cantiere

era una rapina a una gioielleria di Ginevra. La cosa non presentava alcuna difficoltà. Due amici ci aspettavano sul posto. Quanto alla sparatoria nella quale ero stato ferito, quel che mi disse mi sorprese: - Jacques, bisogna dimenticare! - Stai scherzando? - No, sul serio... Le due parti hanno fatto la pace, curiamo le ferite. .. Anche quelle dell'orgoglio, e dimentichiamo tutto. - Anche quelli che ci hanno lasciato la pelle? Il tuo amico Tino, per esempio? - Non dire sciocchezze... Sai bene che per questo hanno già pagato! E' stata decisa la pace e pace sarà. Mi sono impegnato anche a nome tuo. Guido era un amico... Più che un fratello. Accettai dunque quel che aveva deciso per tutti. Non mi disse mai il nome di chi mi aveva sparato. Temeva troppo il mio spirito vendicativo. Non lo seppi mai. Partimmo per Ginevra, ognuno per conto suo.

Accadde un venerdì pomeriggio, giusto prima del Natale del 1966. Nel pieno centro di Ginevra, incappucciati, entrammo nella gioielleria. In meno di tre minuti arraffammo anelli, collane, spille per diverse decine di migliaia di dollari. Senza sparare un colpo, senza violenza... Un buon lavoro. Guido ripassò la frontiera nei minuti immediatamente successivi alla rapina con il bottino ben nascosto nell'auto. Io dovevo tornare a Zurigo per studiare un altro colpo dello stesso tipo in una gioielleria che avevamo visto all'andata. Non ne ebbi il tempo. La polizia di Ginevra, sospettando che il colpo fosse stato opera di stranieri, procedette a dei controlli d'identità negli alberghi. Il lunedì bussarono alla mia porta. Alla mia domanda risposero: «Polizia». Non ero particolarmente preoccupato quando mi chiesero il passaporto. Ma quando mi dissero che sarei dovuto andare a riprenderlo in questura capii che le cose, per me, potevano mettersi male. I poliziotti mi avevano sorpreso al mattino... Quando se ne andarono, feci una rapida doccia e preparai le valigie con la ferma intenzione di lasciare loro il mio passaporto e varcare il confine con la carta d'identità. Non volevo

correre il rischio di un arresto. Pagai l'albergo e feci per salire su un taxi. Appena misi la mano sulla portiera, quattro poliziotti, armi in pugno, mi ordinarono di non muovermi, cosa che feci, fingendomi sorpreso. Fui portato al quartier generale della polizia. Un commissario chiese ai suoi uomini: - E' lui? Alla risposta affermativa, con gentilezza mi disse: - Si sieda, Mesrine. Non sembra sorpreso di essere qui. - Giusto, vorrei proprio saperne il motivo. Stavo lasciando l'albergo per venire a ritirare il mio passaporto e mi sono trovato con quattro pistole puntate addosso... Sorridendo, mi fece segno con la testa: - Non si affanni a fare la vittima. Da quando abbiamo in mano il suo passaporto le informazioni sono arrivate rapidamente. Non è sconosciuto alle polizie francese e spagnola. Se le dico che venerdì è stata rapinata una gioielleria, questo ovviamente non le dice niente, vero? - Non vedo il nesso con la mia presenza qui. In quel momento entrò un poliziotto; teneva in mano le due 38 special che avevo in valigia. - Guarda, guarda... La storia diventa interessante. Sono suoi questi arnesi? - Sì, commissario, e anche la grossa somma di denaro che c'è nella borsa. Proviene dal mio conto bancario di Tenerife. Che io sappia, le armi non sono proibite nel suo paese. - Il loro porto, no, Mesrine... Ma io sospetto che se ne sia servito e che sia coinvolto nella rapina alla gioielleria. Di fronte al mio negare, si accontentò di sorridere. Mi chiusero in una stanza. Sulla porta c'era un finto specchio. Mi lasciarono solo per diverse ore. Mi sentivo osservato. Il gioielliere e i suoi dipendenti vennero a guardarmi dal finto specchio, ma siccome restavo seduto, era loro impossibile identificarmi dalla corporatura. Si aprì la porta ed entrò il gioielliere. Non mi riconobbe, e non poteva essere diversamente. Senza

passamontagna sembravo un bravo ragazzo. Il commissario m'informò che non aveva alcuna prova contro di me, ma che ero espulso a vita dal territorio elvetico in quanto «straniero indesiderabile con gravi precedenti». Per le armi non poteva farmi niente. - Gliele renderò. - Commissario! Se arrivo al confine francese con le armi in valigia sono due anni di prigione... Come previsto dalla legge, gliele lascio in custodia... E se ottengo il porto d'armi nel mio paese, ne chiederò la restituzione - gli dissi con un certo umorismo. - Ci mancherebbe altro! Ha una bella faccia tosta. Ma sembra conoscere troppo bene le nostre leggi per essere un turista. D'accordo, Mesrine. Adesso l'accompagneremo al confine, ma mi resta il dubbio... E il dubbio purtroppo non è una prova. Mi strinse la mano, con mio grande stupore. Fui riaccompagnato sotto buona scorta. D'ufficio restituirono l'auto alla Hertz, che era venuta a reclamare il noleggio. Per telefonare a Guido attesi di essere arrivato a Parigi. Decidemmo che sarei rimasto un mese senza vederlo, era possibile che mi pedinassero. Per diverse settimane non feci altro che frequentare night-club e ippodromi. Libero da Sole mi rituffai alla grande nel mio ambiente. Sapevo che se il nostro rapporto era finito, ne ero io il responsabile. Ma i rimorsi non facevano parte del mio carattere. Con il passare degli anni ero diventato duro e pericoloso. La gente mi temeva e io ne traevo una certa soddisfazione. Ritrovavo la mia dolcezza soltanto con i vecchi o i bambini. Il mio ambiente era una giungla, dove solo i forti erano rispettati. Si sapeva che non esitavo a uccidere, che ero corretto e leale nell'amicizia. Avevo pochi amici, ma con essi formavamo una buona squadra, molto solidale nelle difficoltà. Non era più il caso che io continuassi a vivere al mio vecchio domicilio. Decisi dunque di prendere in gestione un albergo, con opzione di acquisto. Una sera stavo passeggiando dalle parti di Place Bianche e, per semplice curiosità, andai in un bar dove non avevo mai messo piede. Appena entrato, due graziose biondine cominciarono a farmi gli occhi dolci per farsi offrire dello champagne. Mi avevano preso per un cliente del sesso a pagamento... Ciò mi divertiva e, gentilmente, declinai l'offerta. Ma una di esse insistette, certa del suo fascino. Mi guardai intorno nella sala. Lei era là, spiccava sulle

altre, con il suo fisico da segretaria di direzione, un po' hostess, un po' puttana, ma talmente donna! Gli occhiali le davano un'aria distinta. Guardò la sua compagna di lavoro e venne al bar. - Non vedi che il signore beve champagne solo con i suoi amici! Poi si rivolse all'amica sorridendo: - Se confondi gli uomini con i minchioni, bella mia, è meglio che cambi mestiere! Mi piaceva il suo accento meridionale; fisicamente trovavo che assomigliasse alla mia attrice preferita: Annie Girardot. Mi chiedevo che cosa ci facesse in quel locale, non era il suo posto. - Posso sedermi? - Puoi sederti. Le sorrisi. - Posso offrirle qualcosa? - mi chiese. - Di solito è il contrario. - Bisogna saper cambiare abitudini. Quella ragazza mi piaceva. La trovavo brillante e la sua aria strafottente aumentava il suo fascino. - Come ti chiami? - le chiesi. - Jane... «Janou» per gli amici... e tu? - Se ti dico Tarzan, non mi crederesti! No, mi chiamo Jacques. Mi tese la mano. - Allora, buon giorno, Jacques. - Ciao, Janou. Scoppiammo a ridere come pazzi. Siccome ordinai dello champagne, mi

sorrise: - Siamo diventati amici? - Senza dubbio lo diventeremo. Questa profezia si sarebbe rivelata esatta. Avevo appena incontrato la donna con la D maiuscola; quella che sarebbe diventata la compagna fedele e avrebbe condiviso il mio destino in modo totale. Colei che mi avrebbe dato tutto quel che mi aspettavo dalla donna di un bandito. Sarebbe stata l'amica, l'amante, la complice. A volte si trova la felicità nelle fogne. Una donna nasce il giorno in cui diventa la tua donna... Non le si chiede, come un doganiere, di aprire la valigia del suo passato dicendole: «Niente da dichiarare?». Quella sera Jane Schneider, soprannominata Janou, lasciò il bar dove lavorava per non tornarci mai più. Imparai a conoscerla; aveva molte virtù, era dolce pur essendo autoritaria. Come molte sue consorelle aveva avuto una gioventù segnata da un'assenza totale di amore. Sua madre era morta quando lei aveva sette anni. Suo padre, un industriale di La Réole, si era subito risposato. La matrigna aveva fatto di Jane il proprio capro espiatorio. A quattordici anni, nonostante non gli mancassero i mezzi, il padre l'aveva messa a servizio presso altre persone come domestica. Da lui non aveva mai ricevuto altro che rimproveri. A diciotto anni si era sottratta al giogo famigliare per vivere la sua vita. Si era messa a lavorare. Primo amante, primo amore, primi guai. Parigi è una città spietata e se le luci la illuminano, certo non riscaldano i cuori degli sprovveduti, che diventano facile preda dei professionisti della prostituzione. Per Jane non era stato diverso. Un giorno se ne andò con la cassa del ristorante in cui lavorava. Arrestata, si fece un anno di carcere. Suo padre l'aveva allontanata, come aveva fatto due anni prima quando si era presentata da lui con il bambino avuto dal suo amante. Uscita di prigione, senza possibilità di lavoro, si era prostituita per disperazione, semplicemente perché la vita ti fa venire voglia di vomitare. Poi ci si fa l'abitudine: si diventa «puttana». Ma in fondo al cuore resta un sogno: che un giorno un uomo ti tratti da donna, ti prenda la mano e ti dica «vieni», ma per qualcosa di più di una scopata a pagamento. Janou aveva incontrato quell'uomo. Venne a stare da me all'albergo. Le avevo affidato la responsabilità della cassa e dell'organizzazione generale. Dirigeva il personale che avevo assunto con fermezza e gentilezza. La vedevo rinascere. Da parte mia, avevo finalmente trovato la compagna che faceva per me. Mai una domanda. Aveva capito subito il mio genere di attività. Sapeva che non facevo certo lo sfruttatore e che non mi piacevano i magnaccia. Il suo «uomo» era in prigione per un anno e mezzo. Gli aveva scritto una lettera per dirgli: «Addio, carino... Non credo di doverti niente, quindi me ne

vado». Nient'altro. A Guido, che era venuto all'albergo, Janou era piaciuta e gli aveva subito ispirato fiducia. - Ecco la donna di cui avevi bisogno, Jacques - mi disse. Janou cominciava a innamorarsi di me. A volte si comportava come una ragazzina maliziosa... Era felice. L'albergo cominciava a farsi un nome. Gli affari andavano bene. Era situato in piena foresta, cosa che ci permetteva di fare lunghe passeggiate con i nostri cani. Ne avevo quattro, di cui due raccolti da Janou che li aveva trovati affamati e abbandonati. A volte dovevo assentarmi per un giorno o due. Lei mi preparava la valigia, sempre senza fare domande. Al mio ritorno mi buttava le braccia al collo e posava la testa sulla mia spalla. Una volta che avevo visto una lacrima nei suoi occhi, mi aveva detto, semplicemente: - Non è niente... Sono felice, piango per la felicità di essere con te. L'avevo presentata ai miei genitori. In mio padre aveva trovato il padre che non aveva mai avuto. Per lei era diventato «papi». Scopriva di avere una famiglia e io scoprivo lei giorno dopo giorno. La felicità era troppa. Cominciarono i problemi. Una banda di giovani duri imponeva il terrore nella regione di Compiègne. Alla loro testa, un ex paracadutista alcolista e rissoso. Ricevetti la loro visita una domenica sera. Erano venuti in otto. Sfortunatamente per loro, non sapevano dov'erano finiti. Cominciarono così: - Beviamo e non paghiamo... E se ti chiediamo la cassa?... Quella sera non c'erano molti clienti. Quando Janou mi vide prendere il nerbo di bue, infilò la mano nel cassetto dove c'era sempre la mia 38 special. Tutto accadde molto in fretta. Il parà si prese in piena faccia il nerbo di bue e crollò ai miei piedi... Quanto agli altri erano paralizzati dalla paura. Janou li minacciava con l'arma. Ne approfittai per colpirli ancora con il nerbo di bue. Scapparono come un volo di uccelli. Portai fuori il parà trascinandolo e lo lasciai fuori dalla porta. Non intendevo certo chiamare la polizia, per principio. Due giorni dopo fui molto sorpreso di essere convocato in questura per rispondere di lesioni al parà! Mi aveva denunciato! I poliziotti non apprezzarono che mi fossi fatto giustizia da solo; seppero che ero stato in prigione e da quel giorno non mi lasciarono più in pace. Provavo un grande rancore nei confronti di quel parà, che aumentò quando venni a sapere che si vantava che, se mi avesse incontrato nel

bosco, mi avrebbe abbattuto con il suo fucile da caccia. Quindici giorni dopo lo trovarono impiccato. L'inchiesta concluse che si trattava di un suicidio. Non vidi mai più la banda di giovani balordi nel mio albergo. Ma, di fronte alle prepotenze della polizia, decisi di andarmene senza avvertire nessuno. Andammo a stare nella proprietà dei miei genitori. Cominciavo ad amare Janou. La sua reazione il giorno della rissa all'albergo mi era piaciuta, aveva dei buoni riflessi... Sapevo di poter contare su di lei in ogni circostanza. Spesso uscivamo la sera per andare nei locali alla moda. Dovunque, la presentavo come mia moglie, e la luce che le brillava negli occhi mostrava tutta la sua gioia. Mi capitava di uscire da solo quando ne avevo voglia. Da quando vivevo con lei, le altre donne non mi interessavano più. Per la prima volta ero fedele, e credo che lei lo sapesse. Una sera che mi trovavo in un bar vicino a quello in cui l'avevo conosciuta, due uomini mi si accostarono. Uno era un arabo, grande e robusto, con una faccia da duro del cinema. L'altro, sui trent'anni, un bel tipo, sembrava sicuro di sé. Tutti e due puzzavano di magnaccia. L'arabo mi mise una mano sulla spalla. - Vogliamo parlarti riguardo alla donna di un nostro amico. Né l'uno né l'altro sapeva esattamente chi fossi. Quella sera non ero armato. Capii che poteva essere pericoloso. La cosa migliore era fingermi impressionato, con un po' di paura, per provocare in loro un eccesso di fiducia. Reagii da professionista. Guardandoli, dissi: - Non vi conosco... Subito l'arabo, con aria minacciosa, mi prese per il colletto: - Ci conoscerai... Vieni in fondo alla sala. Temevo che fossero entrambi armati. Dopo essermi alzato, li seguii. Il padrone del bar aveva girato la testa dall'altra parte. Mi fecero sedere, l'arabo al mio fianco e l'altro di fronte. Prese la parola: - Facciamo gli innamorati con «Jane», eh?... Forse non sai che non è libera... Ti costerà caro; il tuo romanzo d'amore non sarà certo gratuito. Avevo già capito quale sarebbe stato il seguito; ci sarebbero state minacce e poi proposte di riscattarla. Senza saperlo, entrambi si stavano condannando a morte. Mentre parlavano di Janou il mio sguardo s'induriva, ma né l'uno né l'altro sembrava accorgersene. Quando mi dissero che volevano vederla, che se mi fossi rifiutato me ne sarei pentito e, per

puntualizzare la cosa, l'arabo mi puntò una pistola nelle reni, non ebbi più dubbi: dovevo fare la pelle a quei due bastardi. E, per riuscirci, sarebbe stato sufficiente fingermi impaurito. Con una voce che quasi tremava risposi: - Ma noi non stiamo a Parigi... Viviamo in una casa di campagna a cento chilometri da qui. Vi darò dei soldi, ma non fatemi del male... Tutto quel che volete, pagherò, ma non fatemi del male. Erano soddisfatti della paura che credevano di incutermi. Volevo assolutamente che mi proponessero di fare il viaggio. Nella proprietà avevo armi nascoste un po' dappertutto. Dovevo annullare la loro diffidenza. In soffitta c'era una stanza che avevo trasformato in bar. Vi avevo nascosto del denaro. C'era anche un camino, puramente decorativo, con la canna fumaria otturata; ma all'interno vi avevo piantato due enormi chiodi da carpentiere e vi avevo messo sopra un fucile con il calcio e le canne segate. La lupara aveva in canna due cartucce a pallettoni. Chiunque entrasse nella stanza non poteva rendersene conto. L'arabo continuò: - C'è del denaro a casa tua? - Sì... e... - Quanto? - Ci saranno... un paio di milioni. Guardò il suo compagno: - Andiamo da lui... Lei è laggiù, adesso? Risposi subito di sì. Non era vero. Janou era a Parigi e aspettava il mio ritorno, ben lontana dall'immaginare che mi trovassi in una situazione critica a causa sua. Non ero preoccupato, una volta sul posto avrei giocato sulla sorpresa... La mia intenzione era di colpire al momento della consegna del denaro che tenevo in soffitta. Forse erano pericolosi, ma di sicuro erano avidi. Non ero neanche sicuro che agissero per conto dell'ex protettore di Janou. Forse la padrona del bar dove lavorava, vedendomi passare, aveva detto loro che ero io quello con cui Janou se ne era andata senza più tornare. Tutto ciò non aveva importanza. D'altronde non avrei tardato a

saperlo. Uscimmo dal bar. L'arabo salì dietro con me, mentre l'altro si metteva al volante. Durante tutto il viaggio l'arabo mi minacciò. Sapevo che non mi stavano portando a un'esecuzione. Se solo lo avessi visto prendere un'altra strada, avrei tentato il tutto per tutto. Non mi puntava neanche più l'arma, che si era rimesso alla cintola. Per loro, dovevo essere un bravo stupidotto al quale sarebbe stato facile estorcere i soldi... Forse, nella loro testa, avevano cattive intenzioni su Janou. Ero come una tigre in attesa. La ferocia mi riempiva il cuore... Avevo fretta di arrivare. Quando gli indicai la casa, doveva essere mezzanotte. - E' là. - Ma non c'è nessuna luce? Se ci hai raccontato delle storie, per te saranno dolori - mi disse l'arabo. - Dormirà... O magari è andata in città al cinema. In ogni modo non tarderà... Vedrai che ti ho detto la verità... Vedrai i soldi... E poi... - Chiudi la bocca. Aveva di nuovo impugnato l'arma. Le chiavi di casa erano, come sempre, dietro uno sportellino. Le presi, dicendogli: - Sì, è così... Dev'essere andata al cinema. L'amico dell'arabo mi disse: - Non è grave, l'aspetteremo, abbiamo tutto il tempo. Aprii la porta e accesi la luce. Le stanze erano lussuosamente ammobiliate e uno di loro emise un fischio di ammirazione. - E' tua, questa casa? Alla mia risposta affermativa, mi disse: - Non te la passi mica male!

Guardarono in tutte le stanze, aprendo qui e là un cassetto o uno sportello d'armadio. Ci dirigemmo in soffitta. Avevo i nervi tesi come una corda di violino. Mostrai loro il bar, che, entrando, si trovava sulla destra. - I soldi sono là, nel secchiello del ghiaccio. L'arabo fece il giro del bar e aprì il coperchio del secchiello del ghiaccio. Dentro c'era una busta. La strappò. Il suo amico si era sporto per vedere che cosa contenesse. Né uno né l'altro sospettarono di me, vedendomi andare verso il camino. Perché avrebbero dovuto? Non mi guardavano neanche. Con un gesto rapido presi la lupara... Erano ancora intenti a contare le banconote. L'arabo disse: - Bisogna festeggiare! Fu solo in quell'istante che guardò verso di me. - Con o senza ghiaccio? - chiesi. L'arabo fece il gesto di estrarre la pistola. - Fallo, merdoso, e sei morto... Avanti, tutti e due a terra... E svelti! L'altro volle parlare. Mi misi a urlare: - A terra! Sulla pancia! Eseguirono. Avevo due dita sul grilletto. Se uno o l'altro avesse fatto il minimo gesto, l'avrei abbattuto sul posto. - Gambe aperte, mani sulla testa. L'arabo era il più pericoloso. Gli appoggiai la canna alla testa e mi sporsi per recuperare la sua pistola. Feci lo stesso con il suo amico. Poi indietreggiai. - Adesso spogliatevi! Restate tutti e due a terra, ma nudi. - Ma... Non gli lasciai il tempo di rispondere.

- Sbrigati... Più veloce, idiota. Tutti e due erano adesso completamente nudi. Avevo aperto un cassetto e preso un rotolo di corda. Lo gettai al compagno dell'arabo con il coltellino che mi serviva per tagliare le fettine di limone. - Lega i piedi del tuo amico... E poi anche le mani dietro la schiena. Tentò di protestare... Ma il suo sguardo si posò sulle canne della lupara. Legò il suo compagno. - Adesso legati i piedi. Lo fece. E io gli legai le mani dietro la schiena. Erano là, tutti e due, con la paura che gli strizzava le budella, non capivano bene che cosa potesse succedere. Prendendo i loro documenti, dissi: - Facciamo le presentazioni. L'arabo si chiamava Rachid. Me lo disse perché non aveva documenti. L'altro si chiamava Alain Béran. Erano tutti e due papponi. Conoscevano Janou solo di vista. Era stata la padrona del bar ad avvisarli... Ad aspettare lei non ci rimetteva niente. Mi versai uno scotch. Avevo voglia di uccidere. Béran mi guardò: - Che cosa ci vuoi fare? Guardandolo fisso, gli risposi freddamente: - Uccidervi. - Non oserai... Sei pazzo! Il mio piede lo colpì in piena faccia. - Ascoltate bene, tutti e due... Mai più un magnaccia verrà a chiedermi conto di qualcuno... Quando tiri fuori un'arma, se non è per minacciare, dev'essere per uccidere. Siete due miserabili e come due miserabili creperete. Avrei potuto chiamare Guido, ma preferivo fare il lavoro da solo. Gli anni

avevano fatto di me un uomo senza pietà e la cosa più grave era che provavo un piacere morboso. Amavo Janou... Quella aggressione era diretta contro di lei, la prendevo così. Controllai che fossero ben legati. Non c'era più niente da dire. Ero il loro destino nato trentadue anni prima. Ero la loro morte. Li imbavagliai. L'arabo doveva essere anche lui un assassino, perché non protestò. Béran non voleva convincersi. Non era certo il caso di seppellirli come «Ahmed il porco». Volevo che uno dei due corpi venisse ritrovato per servire da monito. Per contro, se l'altro spariva, ciò poteva indurre la polizia a considerarlo colpevole dell'omicidio. La mia intenzione era di far sparire Rachid e di occuparmi dopo di Béran. In cantina avevo delle catene e dei dischi di ghisa da una decina di chili che usavo per fare sollevamento pesi. Misi il tutto nel bagagliaio della macchina, dopo essermi infilato un paio di guanti. Erano ancora lì, stesi sul cemento del garage, ad assistere ai preparativi della loro morte. Se le cose fossero andate diversamente, ci sarei stato io al loro posto. Sapevo ciò che rischiavo se, per sfortuna, fossi incappato in un posto di blocco della polizia. Ma conoscevo perfettamente la zona e quindi era poco probabile. Quando Béran mi vide aprire il cofano, il panico s'impossessò di lui. Tirai su Rachid per i capelli per farlo alzare. Indietreggiò. Gli diedi un colpo al plesso solare con tutte le mie forze. Cadde ai miei piedi. - Era prima che dovevi provarci... Adesso hai solo una possibilità: una morte rapida o una morte lenta. Lo sollevai di peso e lo buttai nel bagagliaio, che richiusi a chiave. Feci sdraiare Béran dietro e mi misi per strada. Conoscevo uno stagno a una decina di chilometri da là. Il posto era boscoso e completamente isolato. Vi avevo già buttato qualche cassaforte sventrata ai tempi in cui con Jacky e Paul avevamo affittato una casa nelle vicinanze. Lo stagno era abbastanza profondo, ma soprattutto molto melmoso. I fari rischiararono l'oscurità della strada. Fermai l'auto. Feci scendere Béran. Con i piedi legati non poteva muoversi. Non volevo correre rischi, dovevo liquidare Rachid quindi dovevo lasciarlo solo. Lo misi nel baule della macchina al posto dell'altro. Avevo tirato fuori Rachid, le catene e i dischi di ghisa. C'era un pontile che si allungava sullo stagno. Feci sdraiare Rachid. Feci due giri per portare le catene e i dischi. Non si era mosso. Avrebbe potuto tentare di buttarsi in acqua, malgrado avesse mani e piedi legati... Anche se avesse avuto solo una possibilità su mille di cavarsela era sempre una possibilità. Fra qualche minuto non ne avrebbe più avute. Ebbe la reazione dei condannati a morte portati sulla ghigliottina... Accettano senza reagire il loro destino. Avevo infilato la catena nel buco di sei dischi che avevo legati insieme. Quando misi l'altra catena attorno al collo, alla vita e ai piedi di Rachid, lo sentii tremare. Legai insieme le due catene. Com'è che il dodicenne che aveva pianto la morte della cinciallegra, a trentadue anni era diventato un freddo

assassino? Davanti alla corte d'Assise quel duplice omicidio sarebbe diventato un passaporto per il patibolo, ma ciò mi lasciava completamente indifferente... Per me il regolamento di conti era la legge della giungla del mio ambiente. Ero senza pietà, perché sapevo che se fossi stato al loro posto sarebbero stati senza pietà verso di me. Nel nostro ambiente solo il più feroce, il più astuto, il più duro ha una possibilità di sopravvivere. Se un giorno, per pietà, lascia in vita un rivale o un nemico, pronuncia la sua condanna a morte... Il suo istante di pietà gli costerà una morte crudele. Ero una tigre, in un mondo di tigri, serpenti, lupi, scorpioni e iene... Che cos'era Rachid? Non aveva più importanza. Lo feci alzare. Era sul bordo del pontile, con i dischi di ghisa ai piedi. Impugnavo la lupara. L'acqua dello stagno rifletteva la luna e dava alla scena un aspetto irreale. Senza preavviso premetti il grilletto. Avevo mirato all'altezza del ventre. Rachid scomparve nell'acqua fredda dello stagno. Restai là, sul bordo. Solo qualche bolla d'aria salì in superficie. Il corpo di Rachid affondava nel fango. Tornai indietro e, dopo aver verificato che il bagagliaio fosse ben chiuso, ripartii. Percorsi una quindicina di chilometri e presi una stradina che lasciava appena passare una macchina. C'era una casa abbandonata e il luogo era completamente isolato. Accesi i fari. Fermai il motore, con le luci accese. Feci scendere Béran e gli liberai i piedi tagliando la corda. Tremava e gemeva, nonostante il bavaglio. Lo presi per il braccio. - Vai avanti fino al muro. I fari rischiaravano la scena. Fece qualche passo. Tenendo la lupara all'altezza dell'anca premetti il grilletto. Due spari simultanei bucarono il silenzio della notte. Béran crollò contro il muro con la testa sfracellata... Lui e il suo amico mi avevano chiesto di pagare il riscatto... Ne avevano incassato il prezzo. Senza voltarmi, mi rimisi al volante e tornai alla proprietà. Dovevo far sparire i vestiti, la lupara e la barra dei pesi. Arrivato a casa, feci un pacco di tutto e lo buttai nella roggia che c'era a cento metri dalla casa. Presi la strada del ritorno verso Parigi. Mi ci volle un'ora per arrivare. Abbandonai l'auto con le chiavi nel cruscotto come avevo fatto a Perpignan. Con un po' di fortuna, sarebbe stata rubata quella notte stessa. Fermai un taxi, che mi portò a casa. Non c'erano luci accese. Janou dormiva. Silenziosamente aprii la porta. Entrato in camera lei si svegliò e mi sorrise. La abbracciai teneramente. - Hai passato una buona serata, caro? - mi chiese.

- Ottima, amore mio... Davvero ottima. L'indomani mattina, telefonai a Guido per chiedergli di riunire tutta la banda. Quando raccontai la mia avventura notturna, tutti mi diedero ragione: se lo sciacallo attacca la tigre, si fa uccidere, è la regola del gioco. A miei amici chiesi solo d'informarsi su chi erano esattamente i due uomini che avevo abbattuto la notte prima e soprattutto di andare a trovare la padrona del bar. Guido mi chiese una sola cosa: - Janou è al corrente? - No... e non deve saperne niente. Amichevolmente mi mise la mano sulla spalla: - Sai, Jacques, se tu avessi fatto un solo errore ci avresti potuto lasciare la pelle e noi non ne avremmo saputo niente. Siamo una squadra, potevi contare su di noi per regolare la storia dopo. - No, amico mio... Ci sono delle cose che bisogna fare da soli. - Gli hai detto chi eri, prima di ucciderli? - Vagamente... - Sai benissimo che se al bar gli avessi detto chi eri, si sarebbero scusati e non ti avrebbero chiesto altro. Perché hai agito così? Hai ucciso loro o il passato di Janou? Guido aveva visto giusto... Data la nostra amicizia, era un secondo me stesso. Sapeva quello che potevo provare e le sue domande non avevano altro scopo che farmi comprendere che aveva capito il vero motivo di quel duplice omicidio. Sì, avevo ucciso quei due uomini, perché erano venuti a riportare in vita il passato della donna che amavo. Quel passato che io volevo ignorare al punto di uccidere chi avesse commesso l'errore di usarlo contro di lei e di ricordarmelo. Lo guardai sorridendo: - Insomma, vecchio mio, è quasi un delitto passionale! Mi diede una pacca amichevole sulla testa.

- Sì, Jacques, quasi... Ma hai fatto bene. Janou è la tua donna e, con te, lei è certa di ottenere il rispetto che merita. Sei pericoloso, sì, molto pericoloso. Da quando ti conosco, ti ho sempre visto andare fino in fondo per i tuoi amici, per i tuoi amori. Guai a chi tocca l'uno o l'altro... Sì, Jacques... sei pericoloso perché sei un uomo sincero. Guido a volte amava parlarmi in tono paterno e io lo lasciavo fare, perché sapevo che quel che diceva era la pura verità. Con Janou eravamo andati a riposarci sulla costa della Normandia. Leggendo un giornale regionale appresi che il corpo di Alain Béran era stato ritrovato da un cercatore di funghi. Regolamento di conti, diceva il giornale. I sospetti caddero su un protettore che aveva avuto a che dire con Béran. Solo un sorriso mi si dipinse sulle labbra. Al di fuori di certi viaggi che facevo all'estero senza Janou, non la lasciavo mai. La nostra esperienza della vita ci metteva al riparo dalle stupide discussioni che avevano le coppie che dimenticano che vivere in due significa innanzitutto accettare l'altro. In sua compagnia ero felice e facevo di tutto perché lo capisse. In lei avevo una fiducia totale; era di quella razza di donne che se non funziona più niente se ne vanno, ma non tradiscono. Le avevo insegnato a sparare e i suoi inizi erano stati comici, perché colpiva tutto meno la latta alla quale mirava. Poi, a poco a poco migliorò. Ogni volta che centrava il bersaglio, lanciava un grido di soddisfazione. Le avevo chiesto perché ci teneva tanto a saper sparare. La sua risposta era venuta naturalmente: - Se tu un giorno avrai bisogno di me, io ci sarò... E' meglio che impari prima!... Dopo sarà troppo tardi, non credi, caro? Prese quindi l'abitudine di avere sempre un'arma addosso, come me. L'unica differenza era che teneva la sua 38 special nella borsa. Era la più meravigliosa delle mie guardie del corpo. Viaggiavo spesso con delle macchine con targhe false e molto spesso, negli alberghi dove dovevo passare una sola notte, mi registravo con un nome falso. Lo facevo per abitudine. Eravamo scesi in un lussuoso albergo di Chamonix sotto falso nome. Eravamo tranquilli al ristorante quando vidi un cliente presentarsi alla reception. Lo si sarebbe detto un principe arabo vestito all'europea. Era accompagnato da un uomo che poteva essere un suo amico o il suo segretario. Il cameriere che ci aveva servito fece questa riflessione: - Vedete quel tipo alla reception? E' un ricco industriale. L'ultima volta che è venuto, nella valigietta aveva più di trenta milioni, è stato l'addetto al

ricevimento a dirmelo. Se deve andare al casinò oggi ne avrà altrettanti. Avevo guardato Janou, poi la valigietta che l'industriale aveva posato per terra. La sera stessa, l'addetto alla reception si ritrovò la mia arma sotto il naso. Erano le due del mattino. Quello m'informò che l'industriale non avrebbe tardato a rientrare dal casinò. Dopo averlo legato, lasciai Janou alla reception: era armata di una 38 che sparava solo gas. Mentre aspettavo frugai a fondo la camera dell'industriale. C'era una valigietta, ma era vuota. Eppure il cameriere mi aveva detto che l'industriale non metteva mai il suo denaro nella cassaforte dell'albergo. Ridiscesi. Quando l'ascensore si fermò al mio piano sentii Janou gridarmi: - Sono loro! Mi ritrovai faccia a faccia con i due uomini. L'industriale era un uomo imponente, alto più di un metro e ottanta per 110 chili di carne di prima scelta. Aveva bevuto, cosa che spesso rende le persone coraggiose o incoscienti... Ed era contemporaneamente le due cose. Gli puntai la mia arma dicendogli: - Ridiscendiamo giù e con calma, vero grand'uomo? Il suo compagno non si muoveva, ma lui volle saltarmi addosso. Non mi piaceva lavorare con la violenza, ma non avevo altra scelta. Lo colpii con il calcio della pistola al mento e lui crollò ai miei piedi. Gli lasciai il tempo di riprendere conoscenza. Il suo compagno lo aiutò a ridiscendere. Janou ci aspettava da basso. L'industriale non nascose il suo stupore. Quando le aveva chiesto le chiavi della stanza e lei gli aveva risposto che erano nella toppa, l'aveva scambiata per l'addetta alla reception. Lei li aveva perfino accompagnati all'ascensore. L'industriale ne aveva anche approfittato per accennare una carezza sulla sua coscia sinistra... Se ci avesse provato su quella destra avrebbe incontrato il freddo contatto della calibro 38 che Janou aveva nascosto contro la gamba perché lui non la vedesse. Lei sorridendo gli domandò: - Vuoi che gli dica che mi hai messo la mano sul culo? La situazione era quasi comica, l'altro mi guardava con diffidenza. Avevo voglia di scoppiare a ridere. Li portai dall'addetto al ricevimento e li legai tutti e due. Dopo averli perquisiti ben bene, non trovai che poco denaro su di lui. Mi disse che, una volta tanto, non portava grosse somme. Che iella! Siccome aveva un bel diamante al dito glielo presi.

Perché avevo fatto quel colpo, senza precise informazioni? Semplicemente per mettere alla prova il sangue freddo di Janou... Avevo voluto vederla di fronte all'imprevisto. Dovevamo andarcene, le nostre borse da viaggio erano già nel bagagliaio dell'auto. Bisognava imbavagliare tutta quella bella gente. L'industriale m'informò che era malato di cuore. Poiché non ce l'avevo con lui, prima di andarmene gli feci prendere le sue pastiglie. Quando fu dato l'allarme noi eravamo lontani. Piazzarono dei posti di blocco, ma io conoscevo tutte le stradine e non ebbi alcuna difficoltà a sottrarmi alle ricerche. Quando Guido seppe del colpo, mi disse semplicemente che ero un pazzo e che per cominciare bene la settimana potevo trovare un altro diversivo. Invece, fu felice di vedere Janou imparare a sparare... Nella valigetta avrebbero potuto esserci trenta milioni. Si doveva controllare prima. Un mese dopo, mi rifeci rapinando una ditta d'alta moda in pieno centro, a Parigi. Mi ero fatto passare per un cliente e avevo atteso che tutto il personale lasciasse i laboratori prima di rapinare i proprietari. Il colpo era filato liscio e mi aveva fruttato una dozzina di milioni (24000 dollari) in gioielli e oggetti di valore. Dopo quella rapina, presi la decisione di fare un lungo viaggio in Italia, Spagna e Portogallo. Janou era felicissima di quelle vacanze permanenti. Da più di due mesi vivevamo al sole con l'unica preoccupazione di amarci, quando ricevetti la visita di Guido. Le notizie erano cattive. M'informò che ero ricercato in Francia per omicidio in un regolamento di conti e rapina a mano armata. Stavolta dovevo lasciare l'Europa per un certo tempo. Avevo degli amici in Canada. Guido mi consigliò di andarci almeno per il tempo necessario a capire che piega avrebbero preso gli avvenimenti. Mi promise di raggiungermi. Janou era felice di quel cambiamento... Nuovo paese, nuova vita, pensava. Era ben lontana dall'immaginare che, attraversando l'Atlantico, le mie future imprese criminali mi avrebbero valso il poco invidiabile appellativo di «pericolo pubblico numero uno» in Canada... Prima ancora di diventarlo, qualche anno dopo, anche in Francia. Sarei diventato uno dei peggiori criminali che il Québec avesse conosciuto. Là avrei rapito un miliardario, sarei stato accusato di un omicidio che non avevo commesso, sarei stato assolto da quella imputazione, sarei stato condannato a undici anni di prigione per rapina a mano armata, sarei scappato, sarei stato ripreso, avrei tentato altre evasioni... Sarei poi riuscito nell'impossibile evasione dal più duro penitenziario canadese, avrei rapinato diverse banche, avrei avuto vari conflitti a fuoco con la polizia, avrei abbattuto due guardie forestali, regolato diversi conti e, a coronamento di tutto, avrei preso d'assalto un penitenziario federale per tentare di liberare i miei amici... E malgrado tutto ciò, con una taglia sulla testa, sarei riuscito a lasciare il paese. Per il momento ero addormentato sull'aereo dell'Alitalia che mi portava verso il mio nuovo destino, quel destino che Janou all'inizio avrebbe condiviso,

prima di conoscere anch'ella i duri anni di solitudine della detenzione. Anche lei dormiva con la sua mano che stringeva la mia. La catena di carne che le nostre due mani allacciate formavano erano un giuramento d'amore che ci avrebbe unito per il meglio, ma soprattutto per il peggio...

IL CANADA.

Al nostro arrivo a Montreal, ci eravamo sistemati in un lussuoso appartamento in rue Sherbrooke. Sul piano c'era una piscina con la sauna. Janou era stupita di quel lusso all'americana. Avevo affittato un'auto per farle conoscere una parte della provincia del Québec. Di fronte all'immensità delle foreste, alla bellezza dei laghi, alla gentilezza degli abitanti, lei si sentiva rinascere. Da parte mia, non ero certo insensibile a quella nuova vita. Non mi sorpresi quando mi disse: - Dimmi, caro, e se ripartissimo da zero... Se cominciassimo una nuova vita come tutte le altre coppie... Si sta così bene qui! Avevo sorriso: - Vuoi dire... Ripartire da zero, con il passato che mi porto dietro? Non posso cancellare tutto quello che ho fatto, lo sai bene. Non si può mai ripartire da zero, si può solo cambiare strada. - Allora cambiamo strada. Tu sei capace di lavorare onestamente, con il tuo mestiere, anch'io sono capace di lavorare. Pensa che siamo in due... Io ti amo e vorrei tanto avere una vita normale... Avere un bambino da te, senza temere che un giorno una pallottola o la prigione ci separino! L'avevo lasciata parlare. Gliene riconoscevo il diritto. Lei mi aveva provato che tipo era. Sapevo che, qualunque cosa io avessi deciso, lei l'avrebbe accettata e mi avrebbe comunque seguito. Volevo chiedere la cittadinanza canadese... Avrei dovuto provare che avevo un lavoro. E poi avevo bisogno di farmi dimenticare. Dal mio arrivo, non avevo neanche preso contatto con le persone che conoscevo. Avevo solo telefonato a Guido, che mi aveva riferito che due nostri amici erano stati arrestati... La legge si riprendeva i suoi diritti. A Janou risposi:

- Perché no? Mi si era gettata al collo. L'indomani si era messa a cercare un lavoro. Stavo scoprendo un'altra donna e la sua eccitazione mi divertiva. Dovetti arrendermi all'evidenza: voleva fare di me un uomo onesto. Dovemmo passare all'ufficio immigrazione e riempire dei moduli. Il risultato non si fece attendere. Autorizzarono Janou a restare in Canada, ma a me davano dieci giorni per lasciare il territorio canadese. Non era stato emesso un mandato di cattura internazionale, ma i miei precedenti penali erano noti. Mi avevano fatto capire che ero un indesiderabile. Ciò mi confermò quel che già sapevo: non ci si rifà una vita, essa continua a scorrere con un passato che respinge ogni futuro. Janou ne era rimasta sconvolta. Io, invece, ne avevo sorriso, perché ero intenzionato a rimanere in Canada e a lavorarci. Anche se mi avessero preso, ciò non poteva essere motivo di espulsione immediata, il lavoro non è certo un delitto. Janou si era trovata un lavoro in un ospedale geriatrico. Faceva l'infermiera. Vi si dedicava in maniera ammirevole. Tutti quei vecchietti l'adoravano. Guadagnava poco, ma era felice. Tutto l'affetto che non aveva avuto lo riversava sui suoi malati. Alla sera mi raccontava la sua giornata con una certa fierezza. Da parte mia, avevo trovato un posto di ispettore nell'edilizia e avevo ottenuto i miei documenti in maniera fraudolenta. Anche per essere onesto dovevo usare mezzi illegali. A poco a poco, mi ero fatto prendere dal lavoro. All'inizio, lo avevo fatto solo per fare piacere a Janou. Avevo infine contattato gli amici canadesi; ma anche qui mi aspettava una sorpresa. Alcuni di loro erano in prigione e vi scontavano una pena molto lunga. Avevo fatto capire loro che, per il momento, avevo deciso di stare tranquillo, ma che, in caso di bisogno, potevano contare su di me come durante i miei precedenti viaggi. Passarono diversi mesi. La mia vita, senza che me ne rendessi conto, si era trasformata. Ero diventato il signor Tal dei Tali, che la sera non pensa ad altro che a ritornare a casa per raggiungere la donna che ama. Dal giorno del mio arrivo in Canada non mi ero messo in alcun pasticcio. Guadagnavo abbastanza per vivere bene. Ci eravamo comprati una magnifica auto e trascorrevamo i fine settimana a girare per il Québec in lungo e in largo. Lunghe passeggiate nella foresta, pesca nei numerosi laghi... Facevamo una vita sana. Janou da sola mi riempiva la vita. Non avevo alcuna altra necessità che stare con lei... Sì, ero cambiato e senza rendermene conto. Ma arrivò l'inverno e fui obbligato a lasciare il mio posto, perché l'edilizia si era fermata. Questo non mi scoraggiò. Questa volta credevo in me stesso; in verità mi ingannavo da solo... Il lupo non diventa mai un agnello. Da un annuncio seppi che un miliardario cercava, per una sua proprietà in campagna, un cuoco e una donna per organizzare i suoi ricevimenti. Non era altro che un lavoro d'albergo fatto per dei privati. Ero un ottimo cuoco e

non ebbi alcuna difficoltà a ottenere quel posto. Intravedevo i vantaggi che avrei avuto per chiedere più tardi il permesso di soggiorno in Canada, perché il mio datore di lavoro sicuramente aveva conoscenze. In breve gli divenni indispensabile. Trasformavo tutti i suoi ricevimenti in successi gastronomici e sapevo anche intrattenere gli invitati, essendo un buon prestigiatore con le carte. Ben presto egli trattava Janou e me come membri della sua famiglia. Non era raro che partecipassi al black jack con gli invitati. Mi ero affezionato a quell'uomo che aveva quasi l'età di mio padre. Tutto andava troppo bene... Successe che Janou ebbe una discussione con il vecchio giardiniere e tutto fu rimesso in gioco... Ridivenni una belva. Il giardiniere pose un ultimatum: o ce ne andavamo noi o era lui che se ne andava. Era al suo servizio da sempre. Ci toccò quindi andarcene. Presi quel licenziamento come un'ingiustizia e, quando quello disse: «Deve capirmi, Jacques, non posso fare diversamente» mi sembrò di ritornare indietro di qualche anno... Anche allora avevo tentato di rifarmi una vita, ma «avevo dovuto capire». No, non capivo, se non che solo la forza paga e che le rare volte che avevo rinfoderato i miei artigli ero stato sbeffeggiato. Avevo ucciso degli uomini, costretto dalla forza degli eventi. Una sola parola di quell'uomo mi aveva restituito il vizio del dominio. Gli risposi semplicemente: «Sì, Georges, capisco», ma in fondo al mio cuore la vendetta era inevitabile. E Janou, con un solo sguardo, lo capì. Ci eravamo sistemati a Montreal, ma, questa volta, mi ero rifiutato di cercare un altro lavoro. Avevo deciso di lasciare il Canada e di ritornare in Europa, ma prima di partire volevo rapire il mio miliardario. Quella decisione era dovuta più al mio spirito di vendetta che a un'azione di banditismo puro. Quando misi a conoscenza Janou del mio progetto, lessi nei suoi occhi la tristezza. Ma il suo interesse per me le proibiva ogni domanda. Contattai uno dei miei amici per farlo partecipare al progetto. Janou mi chiese una cosa sola: di partecipare. Tentammo il colpo e fallimmo. Non ero fatto per quel genere d'impresa. Il sequestro di persona non era nelle mie corde. E poi, benché il prelevamento dell'ostaggio fosse riuscito, la persona incaricata di custodirlo si assentò giusto il tempo necessario perché questi potesse scappare. Addio ai 200 mila dollari sperati. Ci ritrovammo con tutta la polizia del Canada alle calcagna. C'era una taglia su di noi. Mi decisi ad andare a Gaspésie e raggiungere il porto di Percé, dove ero certo di trovare un passaggio per l'Europa. Ci sistemammo al motel delle Tre Sorelle, sotto falso nome. Non avendo trovato un passaggio su navi straniere, lasciammo la regione il 26 giugno 1969. Il 30 giugno dello stesso anno, trovarono assassinata la padrona del motel e, benché noi fossimo già lontani dal luogo del delitto, i sospetti caddero su di noi e in seguito si trasformarono in un'accusa di omicidio.

Eravamo ben lontani dal pensare che una tale accusa si stava abbattendo sulle nostre teste mentre stavamo attraversando, a bordo di un gommone a motore affittato a Windsor, il fiume Detroit per entrare clandestinamente negli Stati Uniti. Sapevo che là avrei potuto avere l'aiuto dei miei amici americani di Dallas. A Detroit affittai un'auto per andarci in autostrada. Ignoravo ancora che il mio complice nel sequestro era stato arrestato e aveva detto che avevo intenzione di andare a Dallas. A quell'epoca l'Apollo 11 era sul punto di partire. Nonostante fossimo latitanti partimmo verso il lato orientale della Florida per andare a Cape Kennedy per vedere la partenza del missile. Il mattino del 16 luglio assistemmo meravigliati al lancio del primo uomo sulla luna... Era il nostro ultimo giorno di libertà. Fummo fermati da una macchina della polizia su un'autostrada del Texas e la sera stessa fummo portati in prigione a Texarcana. Il capo della polizia m'informò che ero in arresto per un mandato di cattura internazionale. Il suo compito non era interrogarci, ma solo portarci a New Orleans. Per più di dieci giorni Janou ed io fummo detenuti in quella città. La prigione era di un luridume rivoltante. Eravamo in tre in una cella minuscola con un solo materasso, sporco come tutto il resto, e una sola coperta. La popolazione detenuta era composta in grande maggioranza di neri, gran parte dei quali completamente drogati e le risse erano continue. Ero riuscito a comunicare con Janou che era al piano sopra il mio. Era nelle mie stesse condizioni, ma lei resisteva. Né rimproveri né rimpianti... I suoi messaggi erano sempre d'amore e terminavano sempre con la frase: «Con te fino alla morte». Quando lo sceriffo ci fece andare nel suo ufficio e potei vederla, mi si strinse il cuore. Era smagrita e irriconoscibile. Le sue condizioni di detenzione erano un insulto ai diritti dell'uomo ed ero stupito che un paese così rispettoso dei diritti dell'individuo accettasse che le sue prigioni fossero degli immondezzai. Ci presentarono a due poliziotti canadesi che ci dissero che eravamo accusati di rapimento. Volevano chiedere la nostra estradizione. Gli dissi che l'accettavo, cosa che semplificava il loro lavoro. La sera stessa partimmo per New York e prendemmo l'aereo per Montreal. Al nostro arrivo una marea di giornalisti ci bombardarono con i flash, c'era anche la televisione... Fu così che i canadesi ci conobbero. Il caso aveva fatto molto rumore perché, cosa che io ignoravo, eravamo accusati di un omicidio che non avevo commesso. Fummo incarcerati nella prigione di Sainte-Hyacinthe. Tutto era molto pulito. Le guardie e la direzione ci ricevettero in una maniera quasi cordiale. Mi accordarono subito un colloquio con Janou e il diritto di telefonare a un

avvocato. Mi sembrava di sognare e il mio rispetto per i canadesi non fece che aumentare. Janou aveva reagito come la donna di un bandito. Non una lacrima, solo un bacio che era un giuramento d'amore eterno e, allontanandosi, mi disse: - Ho avuto il meglio, non ho paura del peggio. Il peggio ci sarebbe capitato addosso nella maniera più crudele. Mi portarono alla questura del Québec. Quando, sulla porta dell'ufficio dove mi dissero di entrare, vidi la scritta Squadra Anticrimine, ciò mi lasciò indifferente. Non lo sarei restato per molto. Due persone mi attendevano, il tenente Caron e il sergente Blinco. Mi dissero di sedermi, poi restarono in silenzio per diversi minuti. Fui io a parlare per primo: - E' un gioco o cosa? Il tenente Caron si voltò verso di me; nei suoi occhi si leggeva la rabbia e, con una voce piena di collera, mi annunciò di che cosa ero imputato: - E' accusato di avere ucciso la signorina Lebouthier nella notte del 30 giugno 1969. Ha il diritto di non rispondere alle nostre domande; ma, se risponde, tutto ciò che dirà potrà essere usato contro di lei. Restai di una calma olimpica, non avevo capito assolutamente niente di quella accusa. Gli risposi sorridendo: - Siete fuori di testa o che cosa? Quello si stava quasi strangolando e tentò di saltarmi addosso. Mi ero messo in piedi, pronto a fargli fronte se avesse osato alzare le mani su di me. La mia reazione lo sorprese. Mi ordinò: - Si sieda. - Allora stia calmo, perché l'avviso che reagirò. Non capisco neanche la sua rabbia... Chi ho ucciso? - Ah! No, non ci prenda per scemi. Il motel delle Tre Sorelle, non le dice niente?

- Sì, lo conosco, perché? Lui guardò il suo collega. - Questo bastardo ci prende per scemi! Cominciavo a seccarmi e reagii all'insulto: - Perché bastardo? - Perché hai ucciso quella povera donna! - mi disse. - Ne abbiamo le prove, quindi ti conviene rispondere se no saranno cavoli tuoi. Abbiamo trovato i suoi gioielli nelle tue valigie... E vuoi ancora negare l'evidenza? Le cose si stavano complicando. Non ci capivo niente, ma il mio istinto mi avvertiva che ero caduto in trappola. Sapevo di non avere ucciso nessuno, ma quell'accusa doveva essere sorretta da qualcosa. Dovevo dunque aspettare il mio avvocato. - Sebbene non sappia niente di quel che mi dite, aspetterò che sia presente il mio difensore per rispondere alle vostre domande... Non conosco abbastanza la legge del vostro paese per far rispettare da solo i miei diritti. Mi fecero scendere nel seminterrato in cui c'erano sei celle. Come vestiti mi lasciarono solo uno slip e nient'altro. La cella era minuscola. Non avevo diritto a niente e per nove giorni mi lasciarono così... Non avevo potuto avvertire il mio avvocato... Il tenete Caron si era sentito autorizzato a infrangere la legge al solo scopo di farmi confessare il crimine di cui mi credeva colpevole. Mi aveva anche messo uno spione nella cella vicina nella speranza che mi confidassi con lui. Janou, non avendo più mie notizie, aveva avvertito il nostro avvocato. Così riuscii a vederlo per la prima volta. L'avvocato Raymond Daoust era considerato il migliore del Canada. Il nostro primo incontro mi fece una buona impressione. Cercava di leggermi negli occhi una verità che si rifiutava di credere. Mi annunciò che anche Janou era accusata di omicidio. Lei era stata interrogata per più di dieci ore. Il tenente Caron aveva tentato in tutti i modi di intimidirla, sentendosi solo rispondere: - Ascolta, grandone, cominci a rompermi le scatole... Quindi, con quella tua faccia da finocchio, vai a farti fottere te e le tue domande, OK? Caron era rimasto senza parole, poi aveva ordinato che portassero via quella donna, altrimenti avrebbe fatto uno sproposito. Daoust, raccontando

la scena, mi vide sorridere. - Eppure, Mesrine, la cosa è grave. Dite che siete innocenti, voglio credervi... Ma bisognerà provarlo. - Quale prova, avvocato... Non eravamo neanche a Percé all'epoca dell'omicidio! E da latitanti è difficile avere un alibi, non crede? - Ma... e i gioielli trovati nelle vostre valigie? - Impossibile! Questo, ve lo assicuro, è impossibile. Al riguardo, durante l'inchiesta preliminare, avrei avuto una brutta sorpresa. Mi annunciarono che sarei stato trasferito alla prigione di Percé assieme a Janou. Ciò fu fatto in giornata e con un aereo privato. Potei finalmente rivedere Janou. Nel piccolo aereo che ci portava a Percé, lei era di fronte a me. C'erano i due sbirri e un'agente donna che scortava la mia compagna. Non parlammo d'altro che d'amore. Come me lei era fiduciosa... L'accusa non poteva essere che un increscioso errore. Eravamo ben lontani dal poter immaginare la verità. Alla prigione di Percé fummo accolti bene. L'udienza avrebbe avuto luogo l'indomani. Nel recinto degli imputati, non potevamo credere ai nostri occhi. Una donna stava testimoniando. Aveva giurato sulla Bibbia di dire tutta la verità. Prendeva in mano, ad uno ad uno, gioielli senza valore e ogni volta, come in un incubo, la sentivo dire: - Sì, signor giudice, apparteneva alla mia povera sorella. Altre tre donne della stessa famiglia avevano testimoniato la stessa cosa. Io guardavo gli oggetti posati sulla tavola e non riuscivo a capire, perché tutti quei gioielli erano nostri e adesso ero certo che quelle quattro donne non stavano facendo un errore. Mentivano intenzionalmente. La loro testimonianza era un compitino preparato in famiglia. Avevo notato che nessun prezioso di un certo valore era stato da loro riconosciuto. Avevano forse paura che una ricevuta provasse che era di nostra proprietà? Il mio avvocato mi guardava come per dire: «A che scopo negare, adesso?». Janou era pronta a saltare addosso a quelle spergiure. Da parte mia, cercavo di capire perché si comportassero così. Se accusavano noi, forse volevano proteggere il vero colpevole. Avevo notato che nessun uomo della

famiglia era venuto a testimoniare. L'avvocato Daoust mi si avvicinò: - Allora, Mesrine? - Senta bene, avvocato... Tutti quei gioielli sono nostri. - Vuole scherzare? - Le do la mia parola. Ma ha visto che non sono altro che bigiotteria senza valore, quindi senza ricevuta. - Sarebbe in grado di provare che quei gioielli le appartengono? - Col tempo, può darsi. L'udienza preliminare stava terminando. Quando io avevo detto al giudice che quei gioielli erano miei, lui si era limitato a sorridere dicendo che sperava che io trovassi ben altra difesa per il giorno del processo. Avevo capito, ora l'accusa era ufficiale. Persi il controllo di me stesso e mi misi a ingiuriare i testimoni con tutti i nomi possibili. Gli sbirri che mi circondavano furono costretti a farmi uscire con la forza; fu lo stesso per Janou, che stavolta urlava la sua innocenza e la sua rabbia. Prima della mia partenza il mio avvocato ci fece un'ultima visita e capii che non mi credeva. Solo nella mia cella, non mi raccapezzavo. Il destino ci aveva tirato un colpo basso. Io, il killer, colpevole di tanti crimini nel mio ambiente, ero accusato del solo delitto che non avevo commesso, e che delitto!... Quello di una brava donna che aveva l'unica colpa di lasciare una grossa eredità a chi era diventato mio accusatore. Una rabbia omicida mi torturava. Il pensiero andò ai miei genitori... Cosa avrebbero pensato? No, non potevano credermi colpevole! La prigione dove stavamo era all'estremità di Gaspésie. Una sola strada passava per la città e permetteva di raggiungere le altre località. Tutto attorno, non c'era altro che un'immensa foresta che, in certi punti, era impenetrabile. Tutte le guardie incaricate della mia sorveglianza avevano conosciuto la vittima. A tutti gridavo la mia innocenza. Alcuni mi credevano o facevano finta di farlo. Ma tutti erano estremamente corretti nei miei confronti. Uno di loro, che conosceva bene la vittima, mi aveva persino detto: - Sa, Mesrine... Io la conoscevo bene, ero in tribunale il giorno dell'udienza

preliminare e ho visto i gioielli... Non l'ho mai vista con quella roba addosso, per quanto vada indietro con la memoria... Con altre persone ci siamo fatti un'idea su questo delitto e quando dice che non siete stati voi siamo pronti a credervi. Seppi che, prima di noi, un altro tizio era stato accusato di quell'omicidio, un certo Gérard Fieffe, che era evaso appena prima del nostro arrivo dagli Stati Uniti. Non riuscivo più a dormire, tormentato da quella falsa accusa. Bisognava che scappassi per far confessare la verità a quelle quattro vigliacche. Non avevo alcuna possibilità di mettermi in contatto con i miei amici di Montreal... Ma ero pronto a tentare il colpo. Ogni giorno andavo all'aria in un cortiletto. Avevo notato un portone di metallo utilizzato in inverno per evacuare la neve del cortile. Se si possedeva la chiave, era la libertà. A quell'epoca eravamo solo quattro detenuti a passeggiare insieme. Feci la conoscenza di un certo Paul Rose che sarebbe diventato famoso un anno più tardi sequestrando e uccidendo, in nome delle sue convinzioni politiche, il ministro del Lavoro del Québec, Pierre Laporte. Mi ero divertito a insegnargli qualche mossa di autodifesa e avevamo simpatizzato. Qualche giorno più tardi gliene avrei dato una dimostrazione pratica. Era arrivato tra noi un nuovo detenuto. Le guardie ci avevano avvertito che era uno dei duri della zona che seminava il terrore nelle sale da ballo del posto. Il tipo era robusto, 95 chili per un metro e ottanta; in più aveva una faccia davvero impressionante. Appena entrato nel cortile, mi si accostò: - Ehi, vieni qua, tu... Sei tu il francese che ha fatto fuori la vecchia? Non gli lasciai neanche il tempo di continuare. Gli diedi una testata sul volto e, prendendolo per i capelli, gli diedi una gomitata nel plesso solare. Era crollato a terra e ne approfittai per finirlo a calci in faccia. Le guardie erano accorse. Non potevano credere ai loro occhi. Il sangue scorreva per terra e aveva formato una pozza. Rivolto alle guardie, dissi: - Questo succederà a chiunque mi chiederà se ho ucciso quella povera donna. Lo portarono all'ospedale con naso e mascella fratturati. Quella dimostrazione di forza mi sarebbe servita. Ebbi un colloquio con Janou e l'avvertii della mia intenzione di preparare la nostra evasione. La prigione di Percé, benché ultramoderna con i suoi vetri infrangibili e le sue sbarre d'acciaio speciale, era una piccola prigione che, arrivata la sera, per sorvegliare i pochi detenuti presenti, non aveva che tre

guardie di turno. Nell'ufficio dei sorveglianti avevo notato un pannello. Vi erano appese tutte le chiavi. Il mio piano era semplice: dovevo neutralizzare le guardie durante la ronda notturna, impadronirmi delle chiavi, liberare Janou dalla sezione femminile e scappare dalla porta che c'era nel cortile del passeggio. Avvisai Janou che volevo agire tre giorni dopo verso le dieci di sera. Le chiesi, da parte sua, di neutralizzare la sua guardiana, cosa che non avrebbe dovuto porre nessun problema, essendo Janou l'unica detenuta.

I tre giorni erano trascorsi. Con un pezzo di alluminio mi ero fabbricato un coltello. Quel metallo molle era totalmente inoffensivo, ma nelle mie mani poteva sembrare un'arma temibile. E' l'uomo che impugna l'arma che è importante, non l'arma in se stessa. Prima di agire avevo solo un'ora. La guardia che dovevo neutralizzare era un tipo giovane e robusto che giocava a hockey sul ghiaccio. Vivevo in una stanza circondata di sbarre. Alle ventidue era obbligatorio rientrare per rinchiudermi per la notte in cella; dovevo agire in quel momento. L'ora dell'azione era vicina. Udii il secondino arrivare e aprire la porta che lo portava nella mia stanza. Avevo i nervi tesi. Non volevo usare violenza, per dimostrare che un uomo capace di impadronirsi di una prigione senza far male a nessuno non poteva essere il maiale che aveva ucciso una donna indifesa. Quanto meno è ciò che volevo dimostrare con la mia azione. La guardia mi chiamò: - Mesrine, è ora. Ero seduto a un tavolo e facevo finta di leggere. Si avvicinò. Nella mano destra avevo il coltello, nascosto alla sua vista dal libro che avevo nella sinistra. Ripeté: - E' ora, signore. Con un gesto rapido mi ero girato su me stesso e mi ero alzato. Gli avevo fatto brillare la lama sotto gli occhi e gliel'avevo posata sul collo. Con la mano libera lo avevo preso per il bavero. Con voce dura gli ordinai: - Se ti muovi ti uccido... Adesso, con calma, metti le chiavi sul tavolo. Con mia grande sorpresa non reagì. Eseguì. Mi impadronii delle chiavi. Lo obbligai a stendersi per terra. Aprii la mia cella.

- Adesso entra dentro... Senza alzarti. Entra a quattro zampe. Volle azzardare un gesto di difesa. - Non farlo, ragazzino. Hai visto cosa è successo a quel detenuto, non mi obbligare a essere violento. Entrò ed io richiusi il cancello dietro di lui. Si alzò e mi guardò, capendo infine che ora si trovava al mio posto. - Perché, Mesrine? - mi chiese. - Non cercare di capire. Invece rispondimi. Dove sono le altre guardie? Un'ultima cosa, non ci sarà violenza, a meno che qualcuno non faccia lo stupido. M'informò che le altre guardie erano nell'ufficio all'ingresso. Potevo quindi arrivare al pannello delle chiavi senza incontrarle. Se Janou aveva agito come me, a quell'ora doveva essere padrona della situazione. Lo avvisai che non volevo sentirlo gridare e le mie minacce lo dissuasero. Rapidamente m'incamminai per il corridoio. Avevo il suo mazzo delle chiavi e aprii senza difficoltà le porte che incontravo sulla mia strada. Non avevo avuto alcun problema. Arrivato al pannello delle chiavi le presi tutte. Raggiunsi il cortile dell'aria. Davanti al portone di metallo, dovetti provare diverse chiavi prima di trovare quella giusta. Riuscii ad aprirlo leggermente. Dall'altra parte c'era la libertà. Tutto era pronto, ora potevo andare a cercare la mia compagna. Imboccai il corridoio che portava alla sezione femminile. La intravidi, con le chiavi in mano. - Nessun problema, angelo mio? - Nessun problema, caro. Un rapido bacio con il gusto della libertà sulle labbra e lei mi segui. Ne approfittai per passare dalle cucine e recuperare un po' di cibo. Arrivati nel cortile dell'aria, sentii le voci delle guardie che chiamavano i loro colleghi. Superammo la porta. Eravamo liberi, ma eravamo obbligati a inoltrarci nella foresta. Faceva freddo e la pioggia che cadeva sembrava trapassarci i vestiti. Avevamo appena superato l'inizio del bosco, quando scattò l'allarme. Non avevamo che dieci minuti di vantaggio. Dovevamo scavalcare una collina. Dall'alto di essa scorsi i lampeggianti della polizia. La caccia all'uomo era cominciata. Di notte gli sarebbe stato impossibile ritrovarci, ma con la pioggia le nostre scarpe lasciavano impronte nel fango. La foresta nella quale ci eravamo inoltrati era profonda più di cento chilometri. Speravo di

potermici nascondere per qualche giorno, per poter poi raggiungere Montreal dove ero certo di trovare aiuto. Camminammo tutta la notte; certe volte dovemmo aprirci la strada scostando le fronde che ci sbarravano il passaggio. Janou era esausta, ma non diceva niente. Più avanzavamo, più il nostro cammino era in salita. Al mattino, alle prime luci del giorno, mi resi conto che avevamo fatto poca strada; in lontananza scorgevo il mare. Ma fu il rumore di un elicottero a farmi trasalire. Le ricerche erano ricominciate. Non conoscevo per niente la regione e avevo di fronte a me gente del posto che invece conosceva ogni mulattiera, ogni nascondiglio possibile. Capii la pazzia che avevo commesso. Non avevo nessuna arma per difendermi e forse tutti quelli che erano sulle nostre tracce avevano ricevuto l'ordine di spararci a vista, non eravamo altro che assassini evasi... Eravamo i soli convinti della nostra innocenza. Janou mi chiese di potersi riposare un attimo. Si addormentò sulla terra bagnata. Rabbrividiva; le gambe e le mani le sanguinavano. Mi distesi accanto a lei con la speranza di riscaldarla. Era un'ora che la tenevo fra le braccia quando sentii un lontano abbaiare di cani. Sentivo il rumore di rami rotti. Svegliai Janou. - Non dire niente... - le dissi dolcemente. - Credo che siamo circondati... Ascolta! Non mi ero sbagliato, i rumori erano molto vicini. Mi sentivo spiato. All'improvviso apparvero diversi poliziotti urlando: - Non ti muovere, Mesrine, o sei morto! In un riflesso istintivo mi alzai per scappare. Uno di loro sparò nella mia direzione. Janou mi era saltata addosso per farmi scudo con il suo corpo e urlava: - No... Non sparate! Volevo allontanarla, ma i poliziotti ci erano già saltati addosso. - A terra!... - mi gridò uno di loro. Avevo quella rabbia che a volte rende imprudenti; l'orgoglio o più semplicemente la voglia di mandare al diavolo il mondo intero. Janou era sempre aggrappata a me. Piangeva. Guardando lo sbirro, gli dissi

semplicemente: - Puoi spararmi, non me ne frega niente. Non sparò. Il suo capo mi frugò e poi, con calma, chiese a Janou di porgergli la mano. Ci ammanettò insieme. La strada del ritorno fu penosa ma molto più breve. All'arrivo, diverse macchine della polizia ci aspettavano così come diversi contadini con le armi in mano. Neanche uno di loro ci insultò. Il ritorno in prigione fu rapido. Il capo delle guardie ci aspettava, assieme a diversi giornalisti. Quando vide lo stato di Janou, mi guardò con aria di rimprovero, poi scosse la testa con l'aria di dire: «A che scopo?» Ci fecero fare una doccia, poi ci diedero dei vestiti puliti. Fui molto stupito quando vidi la guardia che avevo sequestrato che mi portava un pasto caldo dicendomi: - Ve ne siete andati senza violenza e qui nessuno ve ne vuole; neanche il capo, che pure rischia di perdere il posto. Non avrei mai pensato di vedervi tornare vivi. La polizia aveva ricevuto l'ordine di spararvi a vista. Potete ringraziare il capo settore che lo aveva proibito ai suoi uomini, se non in caso di legittima difesa.

Tutto si svolse molto in fretta. In giornata ci portarono verso la città di Québec. Dovevamo fare più di seicento chilometri. Mi avevano incatenato le mani e i piedi in maniera che la catena ai piedi passasse al centro delle mie manette, cosa che m'impediva ogni movimento. Janou era al mio fianco, sorvegliata dalla guardiana che lei aveva sequestrato la vigilia. Lungi dal volergliene, aveva parole tranquillizzanti per lei. La nostra scorta era impressionante. Cinque auto piene di uomini armati. Lungo la strada, tutti i miei pensieri furono per Janou. Il suo gesto di gettarsi su di me al momento in cui aveva creduto in pericolo la mia vita mi riempiva di ammirazione. Volevo urlarle tutto il mio amore, ma il nostro silenzio ci univa più delle parole. La scorta si fermò davanti alla prigione di Québec. Dovevamo separarci. Le nostre labbra s'incontrarono e non trovai altro da dirle che: «Ti scriverò». La sofferenza che lessi nel suo sguardo mi fece male. Ma questa volta, la mia vita aveva visto la sconfitta e dovevo pagarla cara. Fui accolto molto male dalle guardie che avevano sentito alla radio che, per scappare, avevo tramortito un guardiano. Uno di loro mi provocò:

- Qui, bello mio, non farai male a nessuno. Non gli risposi neanche. Ero troppo stanco per sostenere una lotta che sapevo persa in partenza. Mi fecero scendere nei sotterranei che servivano da isolamento e, completamente nudo, mi chiusero in una cella. Come unico cibo mi diedero una scodella di brodaglia. Per ventun giorni mi servirono solo un pasto a mezzogiorno e la brodaglia la sera. Mi avevano comunque dato dei vestiti. Le provocazioni erano costanti e l'odio che provavo rischiava di spingermi all'irreparabile. Poi mi fecero salire in sezione con gli altri detenuti. Mi misero nel reparto di sicurezza. C'erano solo dodici celle. Gli altri detenuti mi accolsero bene. Il semplice fatto che ero evaso era un buon biglietto da visita. Le nostre condizioni di detenzione erano buone. Vivevamo in una grande sala con la televisione e non rientravamo nelle nostre celle che la sera. I miei compagni m'informarono subito che erano sul punto di realizzare un'evasione. Ero invitato. Fummo tutti trasferiti in altre carceri prima che il progetto si potesse realizzare. Non ci era rimasta che una grata da segare. E' il destino che decide, non noi. Per l'evasione fui condannato a un anno di prigione e Janou a sei mesi. Per noi ciò non aveva alcuna importanza. L'unica cosa che ci preoccupava era l'accusa di omicidio. Avevo esaminato attentamente il mio fascicolo per cercarvi le contraddizioni nelle deposizioni dei testimoni. Avevo fornito all'avvocato Daoust molte foto delle vacanze o di locali notturni in Francia scattate due anni prima dell'omicidio. Si vedeva Janou con alcuni dei gioielli che sostenevano non fossero nostri. Tutti quei dettagli sconcertarono il mio avvocato. Decise di chiedere una rogatoria in Francia. In più, con la mia eccezionale memoria, gli indicai gli indirizzi dove avevo comprato quella bigiotteria senza valore. Studiando le foto prese sul luogo del delitto, riuscii a dimostrargli che un testimone aveva mentito in maniera lampante. L'avvocato Daoust si stava appassionando a questa causa e affermava che, nella sua carriera di penalista, non aveva mai visto cose del genere. Ma fu ancora più stupito quando un giorno gli dissi: - Ascolti avvocato... Questa storia mi fa impazzire. Non ho ucciso quella donna e sono pronto a tutto per provarlo. Chieda che mi sottopongano alla macchina o al siero della verità, ma, Dio mio, bisogna che mi si creda. Daoust mi aveva guardato. - Le dirò una cosa che non ho mai detto a nessun cliente, e ho già sostenuto 98 cause di omicidio: adesso sono certo della sua innocenza e della colpevolezza delle persone che la accusano. Sia certo che farò tutto il possibile per aiutarla. Quella prova, Mesrine, la chiederà lei pubblicamente in Assise davanti ai giurati; sarà una delle migliori prove della sua

innocenza. Le lettere che ricevevo dai miei genitori erano senza rimproveri, ma molto tristi. Mio padre era gravemente ammalato e l'idea che forse non l'avrei più rivisto vivo mi era insopportabile. E se fosse morto prima che la nostra innocenza fosse stata dimostrata? Quel pensiero mi ossessionava. A volte i miei compagni detenuti scherzavano su quell'omicidio. Le mie reazioni erano sempre molto violente. Fui trasferito in un'altra prigione e ciò mi permise di ritrovare alcuni amici. Una mattina Daoust se ne venne con una strana proposta riguardo al rapimento. Se accettavo di essere processato da un giudice monocratico, senza giurati, e di dichiararmi colpevole il Procuratore della Corona mi proponeva di patteggiare dieci anni per me e cinque per Janou. Il nostro miliardario temeva che io parlassi di certe cose che sapevo ed era intervenuto con le sue conoscenze. Capivo sempre di più l'accanimento della polizia riguardo alla faccenda dell'omicidio. Se non potevano darmi l'ergastolo per il rapimento potevano sempre farlo per l'omicidio, e il fatto che io l'avessi commesso o meno non aveva alcuna importanza. Quando seppi che il tenente Caron e il sergente Blinco erano stati interpellati dal mio miliardario, tutto si chiarì e capii meglio il loro accanimento a rifiutarsi di ammettere la mia innocenza, o almeno le evidenti menzogne dei miei accusatori. A poco a poco tutte quelle porcherie mi avevano portato a uno stato di rivolta permanente. Colpevole, avrei accettato la mia sorte. Ma in quella situazione non mi stava bene. Ogni volta che mi trovavo davanti a Caron, benché ben legato, lo riducevo ai minimi termini perché non credevo più alla sua onestà professionale. Gli avevo anche detto: - Sei una merda, sbirro. Se scappo dovrai ben dirla questa maledetta verità. Non mi piace che mi rifilino i cadaveri degli altri, ne ho abbastanza dei miei... Ma questo non puoi provarlo, siete troppo minchioni. Nel mio ambiente posso essere un assassino ma non uno scellerato, e questa non ve la perdonerò mai. Né a te né a questo schifo di società che accetta che delle carogne come te la rappresentino. Rosso di rabbia, si era accontentato di rispondere: - Avrò la tua pelle in Assise. Prima mi ero accontentato di prendermi gioco della legge e dell'ordine. Adesso, le odiavo entrambe e il mio odio per gli sbirri stava diventando

un'ossessione. Con Janou accettammo la proposta del Procuratore della Corona. In questa maniera, quasi senza processo, fummo condannati alla pena proposta. Ero dunque invitato a soggiornare per undici anni nei penitenziari canadesi. Janou per cinque anni e mezzo. Quando vennero a prendermi per trasferirmi ero nella prigione di Bordeaux, a Montreal. Vi avevo conosciuto le celle d'isolamento e la provocazione delle guardie; ma avevo sempre risposto. Questa volta non ebbi neanche il tempo di difendermi. Si aprì la porta e una decina di guardie mi saltarono addosso e m'incatenarono mani e piedi. Non mi lasciarono prendere niente. La mia cella fu letteralmente saccheggiata dalle guardie che, grazie al mio trasferimento, erano sicuri di non vedermi più. Ero come una belva in gabbia. Se avessi potuto uccidere uno dei miei aggressori, anche a morsi, l'avrei fatto. Perché quello spiegamento di forze quando sarebbe stato più semplice annunciarci il trasferimento e chiederci di uscire dalle celle come degli uomini e non come dei cani rabbiosi? L'amministrazione del penitenziario di Saint-Vincent-de-Paul ci aspettava. Perché dare, a un luogo di odio e di sofferenza, il nome di un santo che in vita fu solo amore e carità? La società voleva forse lavarsi la coscienza? Il carcere era vecchio, sporco e con delle celle minuscole. Ma la vita era organizzata molto bene. Fui assegnato alla riparazione dei sacchi postali. Era il lavoro più faticoso e più sporco. Ma presentava il vantaggio di riunire tutti i detenuti più seri. Vi ritrovai quindi degli amici che erano stati incarcerati prima del mio arrivo in Canada. Ci mettemmo d'accordo per far credere agli altri che era la prima volta che ci incontravamo. Avevamo i nostri buoni motivi per fare così. Non ci tenevo che qualche spione potesse dire che ero già venuto in Canada prima del 1968. Avevo simpatizzato soprattutto con un certo Pierre Vincent. Avevamo le stesse idee e lo stesso progetto: l'evasione. Formammo quindi un gruppo d'irriducibili ben presto notato dall'amministrazione. Janou mi scriveva regolarmente e la direzione mi autorizzò a telefonarle una volta ogni quindici giorni, poiché lei era sempre incarcerata a Québec. Il mio avvocato era ritornato dalla Francia e il risultato della rogatoria gli aveva portato una nuova prova della mia innocenza. Mi annunciò che il nostro processo era vicino. Due mesi dopo fummo trasferiti a Percé per essere giudicati. Il tribunale era pieno da scoppiare di curiosi che volevano assistere. Furono rapidamente delusi. La scelta dei giurati era appena terminata quando il Procuratore della Corona, Anatole Cauriveau, nostro principale accusatore, fu colpito da malore e crollò in mezzo all'aula. Il sorriso che mi si disegnò

sulle labbra non sfuggì a nessuno. Per un breve istante credetti nella giustizia di Dio e lo ringraziai di quel buon presagio. Fu impossibile continuare il nostro processo, perché il procuratore era stato portato in clinica. Fu dunque dichiarato nullo. Dovevano fissare un'altra data di comparizione. Quell'incidente mi lasciò meditabondo per diverso tempo. E ancor di più quando, due anni dopo, seppi della morte del giudice che aveva condotto l'inchiesta preliminare. Quell'inchiesta truccata dalla giustizia non portava fortuna. Il destino mi accordava una vendetta che io mi ero accontentato di sognare. Ritornai a Saint-Vincent-de-Paul. Da molto tempo non avevo notizie di Guido e mio padre evitava di rispondere alle mie domande. Dovetti dunque chiedere ad amici per sapere la verità. Guido era morto di una crisi cardiaca salendo le scale di casa. Una morte tranquilla per un uomo che non aveva mai fatto un solo giorno di prigione nonostante la sua vita da fuorilegge. Ne provai una tristezza immensa, ma non potei impedirmi di pensare che fino alla fine li aveva fottuti tutti, poliziotti e giudici insieme. La vita non può avere altro finale che la morte, bisogna saperla accettare. Ci annunciarono, per l'indomani, il nostro trasferimento in un penitenziario moderno.

Fu senza rimpianti che lasciammo il vecchio penitenziario di Saint-Vincentde-Paul. Le informazioni che avevamo avuto sul nuovo carcere erano buone. Eravamo sicuri di trovarvi celle pulite e un vitto accettabile. Conoscevamo anche le ampie possibilità d'evasione che una struttura nuova poteva offrirci; molte cose non erano ancora ben conosciute, sicuramente c'era una falla di cui approfittare. Il mio unico augurio era di non essere separato dai miei amici e di essere messi nella stessa sezione. Si diceva anche che i criteri di sicurezza erano tra i più rigidi. Gli edifici, composti da un piano terra e da un solo piano, non avevano sbarre visibili alle finestre, ma un telaio con dei piccoli lucernai che potevamo aprire da soli. Il telaio era di un acciaio speciale impossibile da segare. Tutto era comandato elettricamente. Ogni sezione aveva il suo posto di controllo. Le mura austere che, nelle vecchie costruzioni, separavano tutti gli edifici, erano state sostituite con alte reti di acciaio con sopra il filo spinato. Alcune garitte permettevano una sorveglianza totale dell'insieme del carcere. Le guardie avevano un armamento completo per far fronte a ogni evenienza, dal fucile di precisione alla calibro 12 a pompa caricata a pallettoni. Riflettori molto potenti permettevano di spazzare con i loro raggi luminosi tutti gli edifici. Oltre a un gran numero di bengala luminosi, l'allarme sonoro completava quell'arsenale che avremmo dovuto eludere per ritrovare la libertà. C'erano anche pattuglie di uomini armati e dotati di cani pastore tedeschi appositamente addestrati alla caccia al detenuto. Ma tutto ciò non ci

impensieriva e non potei trattenere un sorriso guardando il mio amico Pierre. - Stai pensando la stessa cosa? - Sì. Vedrai, francese, troveremo un sistema. - Speriamo solo di restare insieme. - Nessun problema; in caso contrario, ci arrangeremo. La polizia di scorta rallentò per svoltare a sinistra dove, in fondo a un rettilineo, apparve il famoso carcere nuovo nel quale riponevamo tutte le nostre speranze. Da lontano lo si sarebbe detto un ospedale o una scuola; ma, più ci avvicinavamo, più capivamo perché si chiamava Sainte-Annedes-Plaines (Sant'Anna delle Pianure). Perché tutt'intorno non c'era altro che terreno piatto, quasi nessun albero ed era impossibile nascondersi a meno di cinquecento metri, in caso d'evasione. Cosa che lasciava tutto il tempo di farsi scorgere dalle guardie e di farsi sparare addosso come conigli. Il nostro inconscio registrava ogni minimo dettaglio. Non avremmo avuto altra occasione di avere quella veduta d'insieme. Non sapevamo ancora quale sorpresa ci serbava il direttore al riguardo. Le auto della polizia si fermarono davanti alla garitta che controllava l'entrata e si annunciarono. I poliziotti scesero con le armi in pugno. Nessun altro veicolo aveva l'autorizzazione a superare quel limite. Il nostro furgone si mise all'interno del cerchio di sbirri e si fermò; vedemmo delle guardie; non erano armate, ma ci aspettavano. Si aprì lo sportello e cominciarono a chiamare i nostri nomi. Eravamo incatenati a due a due. Arrivò il nostro turno e ci alzammo. Appena posati i piedi a terra due guardie ci fecero segno di seguirle. Davanti a noi si aprirono due grandi cancelli. Saltellando arrivammo davanti a un posto di controllo. La guardia ci esaminò. Altre, armate, ci guardavano dall'interno di quella gabbia di vetro blindato a prova di proiettile. - Cognome, nome, numero? - Mesrine Jacques, 5933. - Vincent Pierre, 5921.

- OK, passate. Una pesante porta si era aperta. Eravamo ormai dentro la prigione. Tutto era di una pulizia impeccabile. Ci fecero entrare in una stanzetta per toglierci manette e catene. - Signori, seguitemi. Un lungo corridoio separato da una rampa ci portava a un altro posto di controllo. Eravamo nel centro del complesso del penitenziario e quella postazione controllava l'apertura dei vari bracci. La guardia ci ordinò di vuotare le tasche e ci fece passare sotto un metal-detector. Ci riprendemmo la nostra roba. Tre graduati ci fecero le stesse domande: cognome, nome e numero. - Mesrine, è assegnato alla cella 12, blocco C. Vincent, è assegnato alla cella 34, blocco C. Pierre mi guardò e lesse nei miei occhi la stessa gioia. Eravamo nello stesso blocco. Ci portarono nelle nostre celle. Anche lì un posto di controllo comandava la chiusura delle porte. Mi portarono al piano terra. Pierre al primo piano. La guardia annunciò il 12. Uno schiocco secco spalancò una porta massiccia. - La sua cella, signore. Il regolamento è affisso. Fra un'ora potrà fare la doccia e il suo bagaglio le sarà portato quanto prima. Sempre le stesse cose, c'ero abituato, ma gli risposi con un: - Grazie, signore. Ciò faceva parte della riforma. Ogni guardia aveva l'obbligo di chiamare il detenuto «signore». Era una cosa che li faceva impazzire perché per loro non eravamo che dei cani rognosi che avrebbero voluto veder crepare. La mia cella era piccola, ma molto pulita. Vi entrava il sole e, rispetto alla fetida gabbia del vecchio carcere dov'ero in compagnia di ogni genere d'insetti e dei topi, la situazione era molto cambiata. La porta si richiuse. Il mio primo gesto fu di accendere la radio che c'era nel muro. La musica che ne uscì mi riscaldò il cuore; era molto tempo che non sentivo una voce femminile così melodiosa. Feci l'inventario di quella che sembrava più una camera che una cella. C'era un letto con il materasso in gommapiuma, una scrivania, un grande armadio metallico, un lavabo con l'acqua calda e il

W.C. Il pavimento era di cemento ricoperto di smalto grigio. Sulla scrivania c'erano due sacchetti di Nescafé e dello zucchero. Quel dettaglio, a prima vista insignificante, mi fece capire che qualcosa era cambiato. Si cercava di umanizzare la pena. Mi feci subito un caffè. Sì, tutto ciò era davvero bello, ma una gabbia dorata resta sempre una gabbia. Una prigione non può essere umana, anche se può sembrarlo. Guardando attraverso il mio lucernaio, vidi le due grate che mi separavano dalla libertà. Così vicina! Quell'apparenza di facilità mi convinse della difficoltà che ci doveva essere per superarle. Sainte-Anne-des-Plaines era un penitenziario per criminali incalliti. La popolazione detenuta era di quattrocento uomini. Avevamo tutti delle lunghe pene da scontare, dai cinque anni all'ergastolo. Assassini e rapinatori di banche erano la maggioranza. Quindi si sapeva che un buon numero di detenuti non aveva in mente altro che l'evasione. Si sperava forse di fargli cambiare idea dandogli più vantaggi e più privilegi? Capii subito la trappola. Più l'amministrazione dà a un detenuto, più questo ha da perdere se commette una mancanza. Per impedirgli la fuga non gli s'incatenavano più i piedi, ma si addomesticava il suo spirito con un relativo comfort. Il futuro mi avrebbe provato che non mi ero sbagliato. Al pomeriggio fummo tutti riuniti in una grande sala che serviva da palestra. La direzione era presente al gran completo. Il direttore ci disse di sederci e iniziò il suo discorso di benvenuto: - Signori, come avete potuto vedere, è stato fatto uno sforzo considerevole per rendervi sopportabile la detenzione. Abbiamo un centro culturale e delle installazioni sportive per la vostra ricreazione. Dovrete tutti lavorare nei laboratori. Non sarà accettato alcun rifiuto, a pena di gravi sanzioni. Dovete rispettare il personale... Non l'ascoltavo neanche più, ero abituato a quel cinema... Mi divertiva, con la sua falsa umanità; proprio lui che, qualche anno prima, aveva fatto uccidere il cugino di un mio amico perché aveva sequestrato una guardia per avere un trasferimento che non arrivava. Aveva fatto aprire il fuoco malgrado le suppliche della guardia in ostaggio. Avrebbe potuto usare i gas. In tre dentro una cella, non potevano fare niente. Ma no, quel maiale aveva ordinato di sparare. La guardia era stata uccisa come il cugino del mio amico e il mio amico Michel Marcoux lo avevano dato per morto con diverse pallottole in corpo. Solo dopo aver portato via i corpi dalla cella si erano accorti che era ancora vivo. Se uno dei suoi aiutanti non lo avesse trattenuto lo avrebbe finito... Ciò era successo prima del mio arrivo in Canada. Sapevo che sotto le spoglie del brav'uomo si celava un bastardo. Riuscì a stupirci con una novità: - So che alcuni di voi non hanno che uno scopo: evadere. Vi riconosco il

diritto di pensarci, ma io sono qui per impedirlo. Evitate questo tipo di progetti. La sicurezza qui è assoluta. Le guardie sono armate e hanno l'ordine di sparare. Ma a quelli che amano questo genere di sport metto a disposizione la pianta del carcere; eviterete di perdere tempo a ricostruirla. Il suo sguardo era ironico e percorse tutta la sala, fissando per un attimo me e i miei amici. - Non si faccia illusioni, Mesrine, di qui non se ne andrà. Faremo il necessario per impedirlo. Se vi può interessare, possiamo sempre mandarvi alla sezione speciale, sapete cosa significa. Sì, lo sapevamo... Celle senza finestre, una disciplina di ferro, un cubo di cemento dove si distruggeva moralmente un uomo. Nessuno aveva voglia di soggiornare in quel posto. Non sapevo ancora che ci sarei andato e che vi avrei organizzato una delle più spettacolari evasioni degli ultimi anni. Il direttore continuò il suo discorso. Io mi accontentavo di sorridere pensando: «Vedremo se riuscirai a tenermi, cretino». Lavoravo in falegnameria con Pierre; avevamo diritto a diverse ore d'aria su un grande spazio dove ci si poteva dedicare a vari sport. C'erano quattro campi da tennis, un campo da baseball, uno di pattinaggio sul ghiaccio (per l'inverno) e altre cose. Non potei impedirmi di ammirare il popolo canadese, che sapeva proteggersi dai criminali comuni, senza dover applicare una legislazione repressiva come in Francia. Chi accettava la sua pena era certo di poterla scontare in condizioni che non rischiavano di distruggerlo, né moralmente né fisicamente. Diversi amici miei abbandonarono ogni progetto d'evasione e me lo fecero sapere. Su quattrocento persone, una buona trentina di noi era pronta a rischiare il tutto per tutto per ritrovare la libertà; le minacce della direzione ci lasciavano indifferenti. Formavamo un gruppo di cinque amici. Cercavamo il buco, la falla del sistema di sicurezza. Un progetto a volte germogliava e abortiva con la stessa velocità. A poco a poco capimmo che la sicurezza qui era presa sul serio. Alcuni tentativi erano falliti e quelli che ci avevano provato erano stati tutti trasferiti all'U.S.C. L'inverno stava arrivando e non avevamo ancora trovato niente di valido. Al laboratorio la nostra conversazione girava sempre intorno allo stesso soggetto. Io facevo molto sport per tenermi in forma. Alcune volte avvenivano anche regolamenti di conti. Il mio amico André Fillion era stato mandato all'U.S.C. per questo motivo, poiché avevano trovato il corpo di uno spione con un cacciavite piantato fino al manico nell'occhio. André si era accontentato di dire: «Eccone un altro che non potrà più servire l'amministrazione».

Il mio processo per omicidio doveva cominciare agli inizi di gennaio. Ne avevo parlato a lungo con Pierre. Quando gli dicevo che ero veramente innocente mi guardava con un sorrisetto ironico. Poi, conoscendo meglio le cose, fu obbligato a rendersi conto che gli dicevo la verità. Come me era indignato per i metodi impiegati dalla polizia per accusarmi delle colpe di un altro. Troppi dettagli provavano che io dicevo la verità e che i poliziotti si rifiutavano di chiarire le contraddizioni dei testimoni dell'accusa. Un giorno mi disse: - Ma perché continuano ad accanirsi su di te per questa faccenda? - Non ne so più di te, ma una cosa è sicura: me la pagheranno cara. Ma prima di tutto proverò a questi testoni la mia innocenza. - Dimmi, puoi farmi venire, assieme a uno dei miei amici, al processo come testimone? Potremmo sempre tentare qualcosa, là. E' una piccola prigione, può darsi che avremo fortuna. - Sai che se tento l'evasione durante il processo diranno che sono colpevole. Ma non me ne frega niente. D'accordo, vi faccio venire, vedremo sul posto. Arrivò il giorno del processo. Avevo rivisto Jane e le avevo raccomandato di avere fiducia in me. Era sempre molto in gamba. Malgrado il carcere era rimasta la stessa. Conservava la sua dignità, ma aveva detto una frase di rammarico: - E' terribile sapere di essere innocenti quando tutti ti credono colpevole. Se fossimo condannati, t'immagini il dispiacere dei tuoi genitori! A volte ho paura, non ho alcuna fiducia nella giustizia. E' tutto troppo ben preparato. Chi ci vuole così male da voler la nostra fine in questa maniera ingiusta e schifosa? Viviamo un incubo. - Non capisco neanche io, angelo mio. Ma ho fiducia. Ci sono persone che sanno che siamo innocenti di quest'omicidio. Daoust mi crede e farà l'impossibile per dimostrare la nostra estraneità. Il vero colpevole sa che non l'abbiamo uccisa noi e, poiché quelli che testimoniano contro di noi lo proteggono, io attaccherò tramite loro, perché essi sono la chiave di questo crimine scellerato. Spergiurano per un solo motivo: proteggere l'assassino. Hanno creato dei colpevoli con delle false testimonianze. Se io provo che sono spergiuri, basterà per provare la nostra innocenza. Ho fiducia nei giurati, non si possono ingannare dodici persone. Non possiamo mica essere condannati per un delitto che non abbiamo commesso. Sono diciotto mesi che mi torturo chiedendomi perché proprio noi! Ne soffro, divento pazzo...

Nella mia vita ho fatto molte cose, ma che mi si creda capace di una simile nefandezza, pure questo non lo posso accettare. Bisognerà bene che un giorno li ripaghi di tutta questa sofferenza. Che non mi si parli mai più di pietà. Tutta la società è marcia. Se riesco a scappare, farò scorrere il sangue per fargli pagare ciò che ci hanno fatto... Evaderò, lo giuro... Sì, lo giuro. Jane di fronte alla mia ira aveva sorriso. Ci era abituata. Dopo un ultimo bacio sulla mano, mi lasciò per tornare nella sua prigione. Ci saremmo rivisti sul banco degli imputati. La prigione di Montmagny, nella provincia di Québec, era in stato d'assedio. Il nostro processo avrebbe fatto clamore. Tutto era pronto per il melodramma: c'erano due accusati che proclamavano la loro innocenza; contro di essi c'era un cumulo di prove false sostenute dalla testimonianza dubbiosa di quattro donne troppo vicine alla vittima per avere le mani pulite; c'erano due procuratori della Corona imbevuti di pregiudizi e di sufficienza che, ben lontani dal voler ricercare la verità, si rendevano complici della menzogna considerando questo processo come una semplice formalità, essendo certi d'ottenere la nostra condanna all'ergastolo; c'erano il poliziotto alcolizzato con il suo vice che, malgrado le contraddizioni, lasciavano fare, non immaginando come saremmo potuti sfuggire alla trappola sapientemente tesa per rovinarci. E poi c'era l'avvocato, il principe del foro nel vero senso del termine: l'intelligenza, l'astuzia, la perspicacia fatta uomo. Il più grande del Canada, Raymond Daoust! Lui credeva, prove alla mano, nella nostra innocenza; oggi era certo che dicevo la verità. Si sarebbe trasformato in accusato. Si sarebbe immedesimato in «noi» e, così facendo, ci avrebbe difeso come se in gioco fosse stata la sua stessa libertà. Avrebbe sofferto con noi, capito la nostra collera, si sarebbe battuto come mai aveva fatto per un cliente. Con lui al mio fianco ero certo d'avere giustizia. Non avevo mai incontrato prima un uomo di tal fatta, dalle qualità morali così alte. Era della stirpe dei signori, di quegli uomini che impongono un rispetto totale a tutti coloro che hanno la fortuna e l'onore di conoscerli. Iniziò il processo. La sala era piena. Dovevamo scendere nell'arena. Con dignità, ma anche con emozione, presi contatto con quella folla. Chi ero per loro? L'assassino, il criminale, il «brutto bastardo». Tutti gli sguardi si posarono su di noi. I miei occhi si posarono sulla folla. Non vi leggevo alcuna ostilità, solo una grande curiosità accompagnata dalla sorpresa... Non avevamo «la faccia adatta». Ma ciò non sarebbe stato sufficiente a difenderci. Arrivati nel box, ci sedemmo. Jane mi aveva preso la mano. Tremava, sentivo che era nervosa. Delicatamente le accarezzai la guancia e posai un tenero bacio sulle sue labbra come se fossimo soli. Mi guardò con quello

sguardo che incatena una coppia per il resto della vita: un giuramento d'amore davanti alla comune sofferenza, la forza di sentirsi in due. - Non ti preoccupare, angelo mio. Sono pronto a difenderci. Mi batterò come mai nessuno si è battuto in corte d'Assise. Ti amo. Abbi fiducia in me. Le erano venute le lacrime agli occhi; scuotendo la testa, accolse il mio messaggio di fiducia. Poi il cancelliere annunciò: - La corte... Entrò il presidente Miquelon. Da solo rappresentava il maggior pericolo per noi. Aveva una ben triste fama. Quindici anni prima si era reso responsabile, secondo alcuni, d'aver fatto impiccare un innocente: William Coffin. A quell'epoca era procuratore della Corona e la sua parzialità ne faceva un giudice di dubbia dirittura. Il suo smisurato orgoglio gli faceva spesso dimenticare il suo ruolo di arbitro. Me l'aveva dimostrato quando si era recato a Parigi. C'era andato per interrogare, per rogatoria, i testimoni che avevo citato per spiegare la provenienza dei gioielli che erano in mio possesso, quei gioielli che, secondo l'accusa, appartenevano alla vittima. Avevo saputo che, invece di fare il suo lavoro, aveva trascorso un periodo in galante compagnia. La ricerca della verità non lo preoccupava molto. Non avevo alcuna intenzione di lasciarmi intimidire. Poco m'importava cosa ne pensasse lui. Avrei fatto molto più che difendermi... Avevo deciso d'attaccare a tutto campo e senza tregua... Avevo preparato il mio processo con cura; conoscevo il mio fascicolo dalla prima pagina all'ultima. Ero pronto. Quando i miei occhi incrociarono quelli del giudice, sostenni il suo sguardo e credo che fu in quel momento che comprese che il processo non sarebbe stato tranquillo. I miei occhi lanciavano lampi d'odio e di disgusto verso quegli uomini che si facevano chiamare «vostro onore» e che, in realtà, erano degli emeriti maiali. Per tutto il mio processo, a causa del loro atteggiamento, avrebbero tradito il loro compito di ricercare la verità. Si cominciò con la scelta dei giurati. Avevo il diritto di rifiutarne alcuni, così come il procuratore della Corona. Ci mettemmo tutta la mattinata per trovare i dodici uomini che avrebbero deciso il nostro destino. Dodici uomini che, con il loro verdetto, in nome della legge avrebbero fatto di noi dei colpevoli o degli innocenti. Giacché nessun altro che noi poteva avere questa certezza di innocenza. La prima settimana del processo, fatta solo di testimonianze dell'accusa, fu penosa. I miei due amici Pierre Vincent e Albert Thibault erano venuti come testimoni, almeno così avevo detto. La stretta sorveglianza non ci permetteva di tentare l'evasione, fu allora deciso di appiccare il fuoco alla

prigione di notte, con un ordigno a tempo di mia invenzione. Speravamo che, nella confusione, uno di noi potesse tentare la fuga. Si scatenò l'incendio e creò un tale panico che i rinforzi di polizia che arrivarono superarono ogni immaginazione. Mi fecero uscire dalla cella proprio quando stavo cominciando a soffocare. Incatenato mani e piedi fui portato in un commissariato della città. C'erano solo tre celle. Janou mi raggiunse. Per tutto il tempo che durò il nostro processo, fummo detenuti uno a fianco all'altra, separati solo da una grata. I poliziotti che ci dovevano sorvegliare si comportarono in maniera tale che io potevo abbracciare la mia donna e ciò malgrado le disposizioni che ci proibivano ogni contatto. Janou era molto dispiaciuta per il mio tentativo che rischiava di costarci caro agli occhi dei giurati. Non andò così. Non poterono provare che fosse stato un tentativo d'evasione. Ma i miei amici furono riportati a Québec. La seconda settimana offrì la prova che i gioielli erano proprio miei. Per due giorni accettai di testimoniare nel mio stesso processo e, malgrado il fuoco incrociato delle domande del giudice e dei due procuratori, non mi contraddissi neanche una volta. Uno per uno dimostrai che tutti i gioielli erano nostri. Il giudice non era abituato a vedere un accusato difendersi così. Ogni volta che perdeva il controllo dei suoi nervi, io segnavo un punto. Tutta l'accusa fu messa in difficoltà nel controinterrogatorio. Diventammo noi gli accusatori. Le quattro donne balbettavano e si contraddicevano continuamente. Quando affermarono che l'orologio che avevano davanti apparteneva da più di quindici anni alla loro sorella, il mio avvocato mostrò una dichiarazione della fabbrica che diceva che quell'orologio era sul mercato solo da tre anni. Ci fu un mormorio in sala. Sapevo che sarei stato assolto. Tutti erano con i nervi a fior di pelle. L'avvocato Daoust fece un'arringa come mai un avvocato aveva fatto prima di lui... Per sei ore questo principe del foro fu la mia voce, la mia anima. Tutto giusto, tutto vero; e quando, spossato, lasciò la sala con le lacrime agli occhi sapevo che aveva detto tutto e che gli sarei stato eternamente riconoscente per aver creduto prima degli altri alla nostra innocenza. Il verdetto doveva essere pronunciato l'indomani mattina, i giurati avevano chiesto di rivedere le foto e i gioielli. Quando fummo portati in tribunale, i corridoi erano pieni di giornalisti. Questa volta i poliziotti si mostrarono brutali e uno di loro strattonò Janou. Prima che avesse il tempo di capire, si prese un pugno in piena faccia e crollò al suolo pieno di sangue e con il naso fratturato. Tutti i suoi colleghi mi saltarono addosso e m'immobilizzarono. Il giudice ordinò che per sentire la sentenza ci mettessero le manette. Quando i giurati dissero «non colpevole», sentii Janou mormorare: «Mio Dio, ti ringrazio.» Il giudice Miquelon fu odioso fino alla fine. Era obbligato ad assolverci per la

decisione dei dodici giurati, che erano stati unanimi nel verdetto. Affermò pubblicamente il suo disaccordo e disse che, per lui, io ero colpevole, che mi consigliava di andare a pregare sulla tomba della mia vittima. Non gli lasciai il tempo di terminare. Malgrado le manette, ero saltato fuori dal box, ben deciso a fargli pagare le mie sofferenze. Non ne ebbi il tempo. Un'altra volta i poliziotti mi saltarono addosso. Anche Janou mi aveva seguito e ci fecero uscire dalla sala in una confusione totale. Ci lasciarono con il nostro avvocato. Gli dissi solo una cosa: - Telefoni subito a mio padre. Lungo il viaggio di ritorno al penitenziario, capii che avevo appena trascorso i peggiori momenti della mia vita. Ero stato assolto, ma il male che ci avevano fatto era rimasto in me. Sapevo che il poco di buono che c'era nel mio cuore si era spento per sempre. Sapevo che il mio spirito di vendetta mi avrebbe portato a compiere azioni terribili, se ne avessi avuto l'occasione. Chiunque indossasse un'uniforme da poliziotto non avrebbe dovuto aspettarsi alcuna pietà da me. L'inverno passò e noi coltivavamo sempre i nostri progetti d'evasione. Pierre era sempre con me. All'inizio della primavera mi annunciò che aveva un'idea. Ma ci sarebbe voluto un bel po' di materiale per realizzarla. La sera eravamo riuniti nella saletta vicino alle celle. Potevamo giocare a carte fino alle ventitré. In quella stanza potevamo stare fino a un massimo di quaranta detenuti. C'erano altre due sale con la televisione dove gli altri detenuti del mio braccio si guardavano un programma di loro scelta. Eravamo sorvegliati dal posto di controllo e da tre guardie protette dalle grate. Ci contavano a tutte le ore. Ma, alle dieci e mezza, in un ufficio vicino distribuivano le medicine. Per dieci minuti c'era un via vai costante dalle sale all'ufficio. In un angolo c'era una porta blindata con una serratura di sicurezza a chiave piatta. Dava su un cortiletto interno, chiuso e circondato da costruzioni che servivano da laboratori. Restava sempre sotto la sorveglianza del posto di controllo. Dovevamo trovare il mezzo per aprire quella porta e ciò era possibile solo fabbricando la chiave. Se ci fossimo riusciti, ci sarebbe poi bastato creare un diversivo dal lato opposto per distrarre il posto di controllo; introdursi nel cortile; salire sui tetti con l'aiuto di un rampino e di una corda; strisciare sui tetti e poi lasciarci cadere vicino alle reti; tagliarle e uscire evitando la ronda e le pattuglie di guardie armate e accompagnate dai cani. Per far tutto ciò dovevamo riuscire a procurarci un calco della chiave e tutto

il materiale. La cosa più difficile era evitare i controlli e il passaggio sotto il metal-detector, perché tutto sarebbe dovuto arrivare dai laboratori e noi eravamo perquisiti ogni volta che tornavamo in cella. Inoltre i tetti erano piatti e fortemente illuminati. Le quattro torrette di guardia sovrastavano tutto il carcere. Neanche un gatto sarebbe passato senza farsi scorgere. C'era anche la possibilità che ci fosse un sistema d'allarme. Tutte quelle difficoltà non ci spaventavano. Contavamo su un alleato che l'autunno ci avrebbe fornito: la nebbia. Ci mettemmo a studiare tutti i dettagli del nostro progetto. Avevamo cinque mesi di tempo per prepararci. Fu stabilito che ce ne saremmo andati in quattro. Tutti e quattro decidemmo quindi di dedicarci alla chiave. Era diventata l'obiettivo principale. Avevamo notato che ogni volta che ci portavano al passeggio nel cortile la porta che ci interessava veniva aperta senza intervento del posto di controllo. Non c'era quindi nessun sistema elettrico che segnalasse la sua apertura. Questo particolare ci incoraggiò. A ogni ritorno dall'ora d'aria, la guardia si metteva davanti alla porta e contava i detenuti; in quel momento teneva la chiave in mano. Dovevamo memorizzare ogni dente, tutti gli scarti, l'altezza e gli spazi di quella chiave. Facevamo apposta a tenerci vicino a lui quando era ora di tornare in cella e lasciavamo passare davanti gli altri. I nostri occhi fotografavano tutti i dettagli della chiave. A volte la situazione era quasi comica e non potevo impedirmi di sorridere a Pierre come per dire: «Se sapesse, il pollo». Fu deciso che ognuno di noi avrebbe fatto uno schizzo su carta, in dimensioni reali, e che poi avremmo confrontato i nostri lavori quando pensavamo di essere pronti. A fare i quattro disegni ci mettemmo due mesi. Arrivò il giorno del confronto. Portammo i nostri schizzi a Pierre. Il suo sorriso era piacevole a vedersi. - Guarda, francese... Guarda. - Merda! E' fin troppo bello. Abbiamo fatto tutti lo stesso disegno, quasi preciso al millimetro! Ci congratulammo con noi stessi, il resto era solo questione di dettagli. Pierre contattò degli amici fidati del laboratorio metalli per ottenere due pezzi di latta dello spessore e dell'altezza della chiave. Da parte nostra fabbricammo delle riproduzioni in legno delle limette per metalli e le colorammo con la matita. Vi incollammo sopra della limatura di ferro molto fine che desse un'impressione realistica. Il laboratorio del ferro ce le avrebbe sostituite con quelle vere. Sapevamo che se la fortuna ci avesse permesso di arrivare fino ai reticolati avremmo dovuto affrontare le guardie armate e i cani. Decidemmo quindi di fabbricare tre pugnali, perché se le avessimo incontrate non c'era certo da aspettarsi regali. Alla chiave ci pensava Pierre. I coltelli, il rampino e la corda erano compito mio. I nostri amici ricevettero una seconda ordinazione

di tre pezzi di ferro da venti centimetri di lunghezza che io gli chiesi di molare, in modo che non dovessi far altro che rifinirli con la lima. Tutti rischiavano grosso: se si facevano prendere si sarebbero fatti trenta giorni d'isolamento e sarebbero tornati al vecchio penitenziario. Ma sapevo di poter contare sia sulla loro discrezione sia sul materiale. Avevamo anche bisogno di una tronchesina per la rete. Il problema non era procurarsi ciò di cui avevamo bisogno e sostituirlo con imitazioni in legno, ma fare uscire il materiale dai laboratori e farlo arrivare alle celle. Inoltre dovevamo nasconderlo bene per salvarlo dalle perquisizioni quindicinali. Tutto fu risolto dagli incaricati alla raccolta dell'immondizia che, approfittando del loro lavoro e dei numerosi spostamenti che comportava, riuscirono a farci arrivare tutto. In quindici giorni di lavoro notturno ero riuscito a preparare i tre pugnali e a intrecciare la corda. Pierre aveva quasi terminato la sua chiave. Era solo necessario fare delle prove per poi apportare gli ultimi ritocchi. Sentivo che la libertà era vicina, perché il nostro piano era perfetto. Eravamo all'inizio dell'autunno quando tutto precipitò. In un'altra sezione, altri detenuti avevano preparato anch'essi la loro evasione, ma in una maniera del tutto diversa. Uno di loro si chiamava Jean-Paul Mercier. Era un tipo robusto che non aveva paura di niente. In futuro sarebbe diventato mio amico, il mio inseparabile compagno d'azione; ma per il momento non ci conoscevamo che di nome e ignoravamo che ognuno all'insaputa dell'altro stava preparando l'evasione. La sua avrebbe fatto fallire la mia. Perché, come me, aveva nascosto il suo materiale nel telaio dei neon della sua cella. La cosa successe in piena notte. Tre detenuti della sezione B scapparono facendo saltare la grata con un cric fabbricato nel laboratorio. La sicurezza non aveva visto niente e fu al mattino che apprendemmo la buona notizia. Eravamo contenti per loro, ma molto preoccupati per le ripercussioni che ci potevano essere sul nostro progetto, perché le guardie erano folli di rabbia. Il direttore aveva la sua lista personale delle persone sospettate di tentare un'evasione. Ordinò delle perquisizioni generali. Una trentina di celle furono smontate pezzo a pezzo. Non fui affatto sorpreso quando mi vennero a prendere per portarmi in isolamento. Il mio sguardo incrociò quello dell'ufficiale responsabile del reparto e, con aria innocente, gli dissi: - Perché mi portate in isolamento? Quello scoppiò in un attacco di rabbia e credetti che mi sarebbe saltato addosso. Con rabbia mi disse: - Bastardo... Dei pugnali per uccidere le mie guardie, me la pagherai! Su... Portatelo via e usate il gas. Non potevo muovermi perché, oltre ad avere le mani legate, le dieci guardie

che mi scortavano non aspettavano che un ordine per massacrarmi. Arrivati all'isolamento, mi fecero spogliare completamente e fui portato in una cella senza finestre. La stanza era piccola e aveva come unico mobilio un pancaccio e il cesso. Quando fu chiusa la porta, si aprì lo spioncino e intesi il soffio della bombola del gas. Stavano usando i lacrimogeni. Non avevo niente per proteggermi e miei occhi diventarono di fuoco. Credevo che sarei morto soffocato. Le lacrime mi colavano sul viso. Con la rabbia nel cuore, sapevo che non potevo reagire. La mia sola idea era: «Un giorno me la pagherete, banda di bastardi». Mi lasciarono in quello stato per più di un'ora. Ero stordito, perché quel gas conteneva sicuramente un'altra sostanza che ignoravo. La porta si aprì, mi buttarono una camicia e uno slip e mi lasciarono tutta la notte senza mangiare e senza coperta, disteso sul mio asse di legno. Per tutta la notte mi preoccupai solo per i miei amici. Se la chiave non era stata trovata, la speranza per loro non era ancora perduta. Non ero certo il tipo da lasciarmi abbattere dagli avvenimenti. Al mattino mi portarono una tazza di caffè e del pane. L'ufficiale mi annunciò che sarei stato giudicato dal consiglio di disciplina. Verso le nove fui portato nella sala delle udienze. Una ventina di guardie m'aspettavano. Mi avevano incatenato mani e piedi. Mi fecero entrare nella sala. Il direttore aveva il viso scuro dei suoi giorni peggiori e i due vicedirettori mi guardavano con aria vendicativa. Davanti a loro, sul tavolo, c'erano i miei tre pugnali, il rampino e la corda. Il direttore prese la parola: - Sono suoi questi strumenti di morte?... Dunque, si preparava a uccidere le mie guardie! Me la pagherà, Mesrine, e molto cara. Risponda, in nome di Dio... Perché questi coltelli? Tre... per chi erano gli altri due? Non potei trattenermi dal sorridere rispondendogli: - Se le dicessi che i coltelli erano per un picnic e la corda per fare un'altalena, non mi crederebbe... Allora preferisco dirle di andare a farsi fottere... Esplose. La rabbia lo soffocava. - Che cosa... Che cosa ha detto? - Di andare a farti fottere. Batté rumorosamente sul tavolo, ma, non sapendo più cosa dire, si voltò

verso i suoi vicedirettori: - All'Unità Speciale di Correzione... La manderò là. Me la pagherà, Mesrine. Per cominciare la mando trenta giorni in isolamento con regime alimentare ridotto e le garantisco che la raccomanderò al capo della sicurezza dell'U.S.C. Avevo sentito bene. Dell'isolamento me ne fottevo. Ma l'Unità Speciale di Correzione, per sentito dire, era un inferno ed era impossibile evadere. Per trenta giorni mi provocarono in tutti i modi possibili. Avevo diritto a un solo pasto giornaliero con un minimo di pane. Alla sera nient'altro che una fetta di pane. Dormivo sul tavolaccio con una sola coperta. Ma quella sofferenza, più morale che fisica, invece di abbattermi mi rese ancora più aggressivo. Un altro detenuto era stato vittima della perquisizione. Un mio amico, che si chiamava Edgar Roussel e stava preparando un'evasione solitaria. Era anche lui in isolamento e pronto per andare all'U.S.C. Terminati i miei trenta giorni, dimagrito e rabbioso, mi ammanettarono assieme a Edgar. - Anche tu in partenza? - E sì, francese! E da quel che ho sentito non sarà per Miami Beach. - Siamo stati presi solo in due, non è tanto male. - La cosa buffa è che hanno creduto che fossimo insieme... Va bene, vedremo sul posto. Non avremmo tardato a rendercene conto. Ci fecero salire sul furgone e, sotto buona scorta, ci dirigemmo verso l'inferno. L'Unità Speciale di Correzione, o più semplicemente U.S.C., era stata creata per rinchiudervi i duri del Canada o quelli considerati tali dall'amministrazione penitenziaria. Ma ci tenevano soprattutto i recidivi e gli specialisti delle evasioni. Gli architetti si erano applicati al problema della sicurezza assoluta e avevano usato molta elettronica e cemento armato nel costruire l'edificio. Disprezzando ogni logica umanitaria, avevano progettato un piano per distruggere giorno per giorno la psiche degli uomini, un piano che, anni più tardi, avrebbe dato al Canada i criminali più sanguinari che mai avesse conosciuto. Concepito per distruggere, l'U.S.C. fece di noi, già

pericolosi in partenza, delle belve sanguinarie estremamente feroci dopo un corso di apprendimento in quel posto. Dato che l'evasione classica consiste nel segare le sbarre, fu deciso di scongiurare ogni rischio eliminando le finestre. Ogni cella diventava di fatto un blocco di cemento senza alcuna apertura verso la luce del giorno. Una porta metallica comandata elettricamente costituiva l'unica apertura. Al soffitto misero un lucernaio di mezzo metro per trenta centimetri di vetro blindato e assolutamente infrangibile, in modo da permettere alle guardie armate di sorvegliare la gente da sopra la cella. Fecero anche una piccola grata per permettere di gasare ogni detenuto che tentasse il minimo gesto di rivolta. La luce artificiale restava accesa ventiquattro ore su ventiquattro. Per chi era condannato a vivere in tali condizioni ciò significava non vedere mai la notte né la penombra. Quella luce fissa si trasformava in un'ossessione. Certuni non dormivano più e il loro sistema nervoso cedeva giorno dopo giorno... fino alla follia o al suicidio. Due bocche d'aerazione portavano l'ossigeno necessario alla vita. I controlli erano assoluti. Le guardie, protette da gabbie di vetro blindato, entravano molto raramente in contatto con i detenuti. Quand'era necessario non erano mai meno di tre per detenuto. Quattro torrette dotate d'ogni tipo d'arma controllavano dall'alto quell'inferno di cemento e impedivano ogni tentativo d'evasione. Gli architetti assicurarono al governo federale che da quel posto non sarebbe mai evaso nessuno. Lungo la strada che mi portava all'U.S.C., avevo un solo pensiero: «Non potrò tentare niente». La fama di quell'unità era meritata. Là si distruggeva ogni piano ancora in embrione aggredendo la psiche dell'uomo. Con una certa apprensione vidi il furgone fermarsi a venti metri dall'entrata, davanti a un grande cartello che diceva: «Alt! Identificatevi parlando nel citofono. Non entrate se non autorizzati». Dal posto di controllo un uomo armato fece segno al furgone di venire avanti. Entrammo in un cortiletto. I cancelli si richiusero dietro di noi. Ci ordinarono di scendere mentre un uomo armato ci teneva d'occhio dalla torretta. Le nostre catene fecero un rumore metallico sull'asfalto. Il capo della scorta, con un sorriso cattivo sulle labbra, mi disse: - Qui si troverà bene, Mesrine... Provi a giocare con i coltelli e sarà servito. Non risposi a quella provocazione che aveva il solo scopo di farmi finire subito in isolamento. Ci avevo appena passato trenta giorni e non avevo alcuna intenzione di cominciare cosi. Entrammo nell'edificio principale. Aveva un solo piano. Tutto il penitenziario era costruito nella stessa maniera e solo l'edificio dell'amministrazione aveva le finestre. Tutti gli altri avevano le mura lisce senza alcuna apertura,

salvo dai due lati una porta blindata per l'entrata e l'uscita della ronda. Fummo ricevuti dal comandante Gauthier, responsabile della sicurezza. Era considerato, a ragione, il più gran bastardo dell'amministrazione penitenziaria. Sulla quarantina, robusto, cintura nera quarto dan di judo: queste erano le sue caratteristiche fisiche, per così dire. Sul piano morale, era uno spirito demoniaco; odiava i detenuti in maniera ossessiva. La sua onnipotenza gli permetteva ogni tipo di abuso. Un giorno aveva detto a un detenuto: - L'U.S.C. è un cimitero per detenuti e qui ti farò crepare. Il tipo era realmente morto; con una persecuzione continua, Gauthier a poco a poco lo aveva spinto al suicidio. Seppi poi che aveva giurato di farmi scoppiare. Conoscevo il suo metodo. Quando mi vide iniziò a fissarmi. Se lo fissavo a mia volta, mi sarei ritrovato con un rapporto per «sguardo insolente». Mi misi quindi a guardare il muro. Ci fece togliere manette e catene. Poi, rivolgendosi a me, disse: - E' lei Mesrine?... Qui non avrà certo la possibilità di fabbricare coltelli per aggredire le mie guardie. La avviso: all'U.S.C. spezziamo anche l'acciaio. Alcuni entrano impettiti ed escono come pecore. Tanto per cominciare sarà isolato per due mesi, niente in cella se non l'occorrente per lavarsi. Divieto assoluto di parlare, salvo durante il passeggio. Divieto assoluto di offrire una sigaretta a un altro detenuto, se no sarà punito per spaccio. Divieto di mettersi il lenzuolo sul viso la notte; se lasciamo la luce accesa è per vederla. Ha il diritto di scrivere e di vedere il suo avvocato. Faccia un solo passo falso e le farò rimpiangere di avere lasciato la Francia. Ha capito bene? - Sissignore... Ho capito fin troppo bene. - Cosa vuol dire? - Voglio dire che se siete in grado di spezzare l'acciaio vi sarà ancora più facile spezzare certi uomini. - Non certi uomini, tutti gli uomini, Mesrine. Vide il mio sorriso. Vendicativo, mi disse: - Da qui nessuno scapperà. Io sono qui per questo. Chi ci proverà lo

rimpiangerà fino alla fine dei suoi giorni. Poi, rivolgendosi alla guardia: - Portatelo via, cella 10, sezione 1. Per arrivarci dovetti passare tre cancelli elettrici. Non una sola guardia nei corridoi. Erano tutti protetti da gabbie di vetro infrangibile, salvo al controllo centrale dove dovetti passare al metal-detector. Ci sarei dovuto passare 1800 volte nei miei 10 mesi di detenzione all'U.S.C. Arrivato in cella, capii perché ogni tentativo era impossibile. Eravamo murati vivi. La stanza era piccola, ma molto pulita. Due tubi al neon, protetti da una griglia, davano una luce intensa che bisognava sopportare notte e giorno. Nient'altro che i muri da guardare per ore lungo giorni e giorni. Non ero affatto stupito del fatto che alcuni perdessero la testa e preferissero morire piuttosto che sopravvivere in quel mondo di pazzi. Il cibo invece era eccezionalmente buono. In sezione eravamo dodici detenuti. C'erano cinque amici. Sulla porta metallica della mia cella c'era uno sportellino in vetro infrangibile che permetteva alla guardia di controllarmi. Anche io potevo vedere il detenuto che avevo di fronte. Ci avevano messo Edgar Roussel. Non potevamo parlare. Dei microfoni messi un po' dappertutto controllavano ogni suono sospetto. Avevo di che scrivere. A grandi lettere scrissi a Roussel: «CHE SCHIFO!». Mi fece segno di sì e mi rispose con un messaggio: «Domani... all'ora d'aria». Gli feci capire che tutto era OK. Le poche parole che ci eravamo scambiati non avevano importanza, ma erano una sfida lanciata al nostro isolamento. La notte passò normalmente, ma la luce mi impedì di prendere sonno. Mi sentivo spiato continuamente. Al mattino, a uno a uno, andammo in doccia e poi la tanto attesa ora d'aria arrivò. Andammo a tre per tre in un cortiletto. Roussel capitò con me e un altro bravo ragazzo, Pierre Lompré, che durante la sua ultima evasione da un ospedale era stato gravemente ferito da un poliziotto che gli aveva sparato a bruciapelo pur sapendolo disarmato. Eravamo tra gente a posto e potevamo quindi parlare in piena fiducia. - Credi che in questo cortile ci siano dei microfoni? - mi chiese. - Con questi cani tutto è possibile. Parliamo sottovoce. Continuando a camminare, Roussel mi disse:

- Questa volta non c'è niente da fare. Hai visto quanta sorveglianza? - Sì, per il momento è impossibile. Lasciamo passare i nostri due mesi d'osservazione. Dopo ci metteranno alla sezione 2. Avremo la possibilità di lavorare quattro ore al giorno in un laboratorio. Ce ne sono due: «Legno» e «Metalli». Chi dice lavoro dice materiale. Aspettiamo... Bisogna aver pazienza. Se c'è una falla la troveremo, ma per il momento il meglio che possiamo fare è cambiare discorso. Non serve a niente parlare a vuoto... OK, ragazzi? - OK - mi risposero i miei due amici. Passarono i due mesi. Sapevo come comportarmi con le guardie che erano scelte tra gli elementi peggiori dell'amministrazione penitenziaria. Duri e repressivi, avevano su di noi ogni diritto. Le provocazioni erano continue e avevano il solo scopo di spingere le persone a reagire. Colui che cadeva nella trappola, quello cui cedevano i nervi, subiva una terribile repressione. Lo gasavano, poi lo ammanettavano alla schiena e gli davano qualche colpo di manganello dove fa più male. Un canadese, che aveva solamente risposto a Gauthier, era ritornato dall'isolamento in uno stato pietoso: il viso bruciato dai gas e il corpo dolorante per i colpi ricevuti. Lo avevano spezzato fisicamente e moralmente. Ero dispiaciuto, ma, non avendo altra scelta, ero rimasto zitto. Gauthier mi aveva provocato a più riprese, ma non ero mai caduto nella sua trappola. Era furioso perché mi limitavo a rispondere: «Sissignore, nossignore». Pensavo: «Vai a farti fottere, idiota; se un giorno ho fortuna ti farò pagare caro tutte le nostre sofferenze». Ogni giorno perquisivano la mia cella. Dovevo mettermi nudo, in cella non c'era niente; anche le posate erano di plastica. Le perquisizioni avevano un solo scopo: farci capire che non eravamo più niente. La notizia fece il giro dell'U.S.C. Un'evasione era riuscita al penitenziario di Sainte-Anne-des-Plaines. Pierre Vincent, Coco Mercier e René Gingras, i miei tre amici, erano riusciti a realizzare il progetto che avevamo preparato insieme. La chiave aveva funzionato. Ero felice e fiero perché avevo dato il mio contributo. Se i coltelli non fossero stati scoperti tre mesi prima nella mia cella, mi sarei ritrovato libero anch'io. Speravo solo che restassero a lungo liberi, perché ero certo che non mi avrebbero dimenticato. Tutti e tre erano specialisti degli assalti a mano armata e ne avevano dato dimostrazione. I giornali ridicolizzarono il direttore e la sorveglianza di Sainte-Anne-desPlaines, con mio grande godimento. Il successo dei miei amici era un po' la

mia rivincita per i trenta giorni d'isolamento che mi ero fatto laggiù. Il nostro periodo d'isolamento finì. Ci destinarono alla sezione 2. Sul piano della sorveglianza, il trattamento era identico, ma il regime era modificato. La passeggiata si faceva in un grande cortile con il suolo quasi interamente ricoperto d'erba. Su quel terreno c'era solo uno spiazzo di terra battuta per il tennis. Ma si giocava con delle racchette fabbricate nel laboratorio di falegnameria. Quel particolare fu una delle basi della nostra evasione. Il cortile era di una cinquantina di metri per cinquanta. Il lato dal quale arrivavamo dalle celle era un muro di cemento con una sola porta controllata elettricamente. Gli altri tre lati del cortile erano protetti da due reti sormontate da filo spinato. Queste reti erano intervallate ogni tre metri con del filo spinato sopra. C'era una torretta con una sentinella armata sull'angolo destro, un'altra su quello sinistro e degli uomini armati pattugliavano con i cani l'altro lato. Guardavo quelle due reti, l'unico ostacolo da superare per ritrovare la libertà. La protezione di uomini armati rendeva impossibile ogni evasione. Inoltre, nel nostro cortile una linea bianca era stata tracciata a un metro e mezzo dalla prima rete; era formalmente proibito superarla, sotto pena di essere presi di mira dalle armi. Impossibile scappare?... Non ne ero così sicuro. Gli uomini sono distratti e prendono delle abitudini... C'era forse una possibilità, se si era disposti a mettere in gioco la propria vita. Nel nostro cortile avevo ritrovato due ragazzi in gamba, sinceri e pericolosi. André Fillion, che era accusato d'aver ucciso un altro detenuto spia dell'amministrazione; quel tizio, come ho già detto, era stato ritrovato con un cacciavite infilato nell'occhio sinistro fino al cervello. Roger Poirier invece era stato condannato all'ergastolo per aver ucciso con una dozzina di coltellate un altro detenuto per motivi personali. Eravamo come in famiglia e potevamo parlare senza rischi. Albert Thibault, il mio amico, era con noi. I nostri discorsi avevano un solo soggetto: trovare il buco, la falla. La difficoltà maggiore era soprattutto reperire il materiale. Di notte non potevamo assolutamente uscire dalle celle. Dovevamo tentare il colpo di giorno. Ma avevamo la certezza che un tale progetto era impossibile. La nostra concentrazione la rivolgemmo allora sull'allenamento fisico, una ginnastica costante ci teneva in perfetta forma. Arrivò l'inverno. Passeggiavamo in cortile quando arrivarono le cattive notizie. Jean-Paul Mercier era stato ripreso. Tre giorni dopo fu la volta di Pierre Vincent e di Coco Mercier... Per finire, il mio amico René Gingras prese la stessa strada. Tutti gli evasi di Sainte-Anne-des-Plaines erano stati ripresi e tutti furono spediti all'U.S.C. Ero certo di rivederli dopo il periodo obbligatorio alla sezione 1. A volte sentivo qualcuno gridare che non ne poteva più. Batteva sulla porta

con la rabbia della disperazione. La calma tornava subito perché Gauthier arrivava con una decina di guardie, lo gasava e lo portava brutalmente in isolamento. Più il tempo passava, più odiavo quel bastardo e ne ero ricambiato. Faceva di tutto per provare a farmi cadere in trappola. Ma io non ci cascavo. Ero di una correttezza esemplare, cosa che lo rendeva ancora più furioso. Da qualche tempo lavoravo in falegnameria. Uscivo dalla cella e venivo perquisito. Passavo due cancelli e il metal-detector e arrivavo alla porta del laboratorio. Ero ancora perquisito prima d'entrarvi. I due laboratori di falegnameria e di carpenteria metallica erano vicini. Sette detenuti per laboratorio. Eravamo sotto sorveglianza armata. Due guardie protette da un cancello ci osservavano in permanenza, con la pistola al fianco, il gas e la maschera antigas pronta. Tutti i nostri gesti, ogni nostra conversazione erano spiati. Eravamo tranquilli solo quando le macchine entravano in moto. Avevamo un solo progetto: evadere a qualunque costo. Ma più il tempo passava, più ogni tentativo ci sembrava impossibile; troppi problemi erano insormontabili. L'unica soluzione era tentare qualcosa di giorno, durante l'ora d'aria, ma cosa? I controlli ai quali eravamo sottoposti erano così rigidi che neanche uno spillo sarebbe uscito dal laboratorio. Eravamo incapaci di trovare una soluzione e questa mancanza di possibilità ci rendeva furiosi. Il coraggio senza un progetto valido non serve a niente. Il 20 febbraio 1972 tutti i miei amici ci raggiunsero alla sezione 2. L'inverno era rigido. C'era più di un metro di neve. Subito Jean-Paul Mercier divenne un amico inseparabile. Avevamo la stessa visione delle cose. Lo sapevo capace di andare al limite dell'incredibile. Lo sapevo capace di rischiare l'impossibile. Lavorava al laboratorio dei metalli con Pierre. Il materiale era sotto il controllo di una guardia, l'unico possessore della chiave del deposito materiali e utensili. Da me era la stessa cosa. L'inverno fu duro, ma la primavera ci portò lo scioglimento delle nevi e la speranza. Durante l'aria presi Jean-Paul da parte: - Ascolta ragazzo, bisogna trovare qualcosa, a rischio di lasciarci la pelle. Dobbiamo trovare il modo di superare queste maledette reti metalliche. - Vuoi dire durante l'ora d'aria? - Sì, in pieno giorno. - Ma è un suicidio! - Qui crepiamo comunque... Cosa cambierebbe?

- Niente, hai ragione. D'accordo Jacques. Fissiamo una scadenza, se no diventiamo scemi a riflettere troppo. - Prima dell'autunno, o siamo fuori o dimentichiamo tutto. OK? - OK. Lo guardai sorridendo e gli tesi la mano per sigillare il nostro patto. - O fuori o morti, pronti a lasciare la vita sui reticolati. Avremmo mantenuto la nostra promessa. Avevamo notato che durante la passeggiata certe guardie nelle torrette sonnecchiavano e ciò principalmente il lunedì mattina. Ne avevamo concluso che la domenica bevevano troppo. Per diverse settimane studiammo attentamente quella umana debolezza per verificare la disattenzione degli uomini incaricati di sorvegliarci. A diverse riprese avevo tirato una palla da tennis vicino alla rete e avevo superato la linea bianca senza suscitare la reazione delle torrette. La falla era là, toccava a noi sfruttarla. Avevamo annotato i nomi di cinque guardie. Jean-Paul era sovraeccitato: - Ti immagini, Jacques, se due delle cinque guardie fossero contemporaneamente di turno un lunedì mattina! Come vedi le cose? - Dobbiamo procurarci qualcosa per tagliare la rete. Tu sei al laboratorio dei metalli, cerca di trovare una soluzione. Pensi di riuscire a sostituire delle lime triangolari? Se sì, trovami della limatura di ferro molto fine e ti garantisco che quelle false che ti farò saranno un'imitazione perfetta. Non dimenticare che facevo il disegnatore... Serve a molto essere stati onesti! gli dissi sorridendo. - Poi dobbiamo farle uscire dal laboratorio... Questo è impossibile. Né tu né io ci riusciremo. - Non saremo né tu né io a farle uscire, ma Gauthier stesso. - Scherzi o dici sul serio?... Lui è il capo della sorveglianza. - Giusto, non penserà mai allo scherzetto che gli prepariamo. Ecco la mia idea. Siamo noi a fabbricare le racchette in legno per giocare a tennis. Ci basterà romperne parecchie e fare domanda per poterle rimpiazzare. Sarò io a fabbricarle e, nei manici, ci metterò le tue lime. Siccome il capo officina darà le racchette a Gauthier, sarà lui stesso a portarcele all'aria. Se le passa

al metal-detector siamo fottuti, ma sono certo che non lo farà... Come vuoi che possa avere sospetti? Jean-Paul era scoppiato a ridere. - Ah, sì! Questa è proprio una bella idea... Fare la fuga con la complicità del capo della sorveglianza! OK Jacques, farò tutto il possibile per le lime. A poco a poco il nostro progetto prendeva forma. Ne avevo parlato a tutti i miei amici perché avevo bisogno della complicità totale dei due laboratori per riuscire nell'operazione. Tutto andò come previsto. Il 21 agosto 1972 uscimmo all'aria. I miei amici si misero al loro posto per controllare se le guardie ci prestavano attenzione. Ogni gesto, all'apparenza naturale, era un codice e, per me, aveva un significato preciso. Una guardia stava all'esterno delle reti, sulla destra, con il suo cane ai piedi. Era armato con un fucile a pompa calibro 12, caricato a pallettoni. Stava conversando con la guardia della torretta di destra che, quindi, ci girava le spalle. La guardia della torretta di sinistra sonnecchiava. Avevo posato il gioco degli scacchi sul rullo che serviva a spianare il campo da tennis. Da più di un mese facevo quel gesto regolarmente, affinché le guardie prendessero l'abitudine di vederci giocare sempre in quel posto. Due miei amici mi stavano di fronte. Jean-Paul era accovacciato dietro di loro. Eravamo contro il muro a soli quattro metri dalla rete di sinistra. Lafleur si era seduto sul mucchio di sabbia che stava di fronte alla torretta di sinistra e faceva finta di leggere. Un altro complice faceva degli esercizi di ginnastica all'altezza della torretta di destra; in caso di pericolo i suoi movimenti potevano diventare dei segnali in codice. Con lo sguardo feci il giro di tutto il cortile. Tutto era OK. - Adesso, figliolo, vai! Jean-Paul, con calma, aveva oltrepassato la linea bianca e si era appiattito al suolo, con il viso verso la rete. Non faceva un solo movimento. I suoi vestiti verdi si mimetizzavano bene con l'erba. Nessuna reazione dalle torrette... L'uomo con il cane stava sempre parlando. Jean-Paul doveva iniziare a tagliare solo su mio ordine. Era le mie mani, così come io ero i suoi occhi. Il minimo errore e avremmo fallito. - Vai, taglia! Con la lima triangolare, tagliò maglia dopo maglia, in verticale. In dieci minuti il buco era sufficiente per lasciar passare un uomo. Lo vidi inoltrarsi nel filo spinato tra le due reti. Se una delle guardie lo avesse visto, lo avrebbe abbattuto sul posto. Freddamente continuò il suo lavoro. Quando

stava cominciando a lavorare sulla seconda rete, sentii arrivare la macchina di pattuglia. - Non ti muovere... Soprattutto non ti muovere. L'auto passò lungo la strada che costeggiava esternamente il cortile. JeanPaul vide i pneumatici a meno di un metro da lui. L'auto proseguì la sua strada per andare a fermarsi davanti alla torretta di sinistra. Se per sfortuna una delle guardie dell'autopattuglia fosse uscita con il cane che l'accompagnava, poteva succedere di tutto. L'uomo della torretta si sporse per salutare l'autista. I nostri nervi erano messi a dura prova; eravamo così vicini al nostro traguardo! Quando l'auto ripartì, attesi un istante, poi dissi a Jean-Paul: - OK, figliolo, continua. Si rimise al lavoro con tutta la calma del mondo. Poi lo vidi uscire all'esterno. Era riuscito a passare dall'altra parte. Con il corpo incollato al suolo, mi disse: - A te, francese. I miei amici fecero una diversione. A mia volta superai velocemente le due barriere. Non pensavo che a una cosa: sarei stato libero. Con i miei amici eravamo d'accordo di andarcene a due a due. Il primo gruppo, di diritto, sarebbe stato il nostro... Ne avevamo accettato tutti i rischi che erano grandi, se ci vedevano era la morte certa, abbattuti come cani dalle guardie vendicative. Ma sarebbe stata una morte da uomo libero, da uomo che aveva fatto le sue scelte. Non provavo nessuna paura, solo una grande determinazione. Mi ritrovai disteso a fianco di Jean-Paul. Le nostre mani si strinsero, suggellando un'amicizia che non si smentì mai. Fino alla morte, la sua morte, tre anni dopo, abbattuto dalla polizia di Montreal. Dovevamo attraversare la strada. I nostri vestiti rischiavano di spiccare sul chiaro. A un mio segnale gli amici fecero una nuova diversione. Li vedevo ancora prigionieri, coloro che avevano creduto nel nostro progetto e quelli che avevano sempre dubitato. Mi ripromettevo di non dimenticarli e di mantenere la promessa d'attaccare il penitenziario per cercare di liberarli tutti. Rotolammo rapidamente su noi stessi e riuscimmo ad arrivare fino al fossato. L'erba era alta e ci nascondemmo nella vegetazione. La schiena alla torretta, cominciammo a strisciare. Intravidi la terza torretta che faceva

angolo con l'entrata. Immaginando la faccia che avrebbe fatto Gauthier, non potei trattenere un sorriso. Dovemmo strisciare per ottanta metri prima di arrivare a un boschetto dove infine potemmo rialzarci al riparo degli alberi. Jean-Paul mi batté amichevolmente sulla spalla: - Ce l'abbiamo fatta, francese... Ti rendi conto, siamo liberi! - Sbrighiamoci, fratello... Dobbiamo trovare un'auto. Attraverso gli arbusti intravedevo il penitenziario. Quel mangiatore di uomini non aveva avuto la mia pelle. I ragazzi passeggiavano all'aria come se niente fosse. Tutto era tranquillo. La prossima partenza sarebbe avvenuta dopo qualche minuto. Lafleur, Pierre Vincent... Poi Imbeau e Ouillet, e gli altri se ci riuscivano. Ci mettemmo a correre. Gli alberi ci protessero fino all'autostrada, che attraversammo per raggiungere un boschetto. Ci passava un ruscello, lo superammo. Erano più di quindici minuti che avevamo lasciato il penitenziario, ma eravamo ancora nel settore pericoloso. Proprio mentre stavamo uscendo dal bosco, un elicottero fece udire il suo rumore. Ci gettammo a terra. - Merda, è già stato dato l'allarme... - dissi. - No, guarda... Sorvola l'autostrada, è uno degli elicotteri che danno informazioni agli automobilisti. Maledetto, ci ha fatto paura! In effetti, si allontanava. Lontano, nei campi, dei contadini lavoravano. Facemmo un segno di saluto, che ricambiarono con molta naturalezza. Arrivammo all'incrocio fra due strade. In quel momento un'autovettura con due uomini a bordo rallentò per fare la curva. Mi precipitai verso la portiera posteriore e, con grande sorpresa degli occupanti, entrai nel veicolo. Jean-Paul aveva fatto lo stesso dall'altro lato. L'autista voleva protestare: - Cosa fate? La risposta fu secca e minacciosa: - Sta' zitto... Siamo appena evasi dall'U.S.C. O fai come ti diciamo o sei

morto... A te la scelta. La semplice parola U.S.C. per tutta la gente della regione era sinonimo di «killer». L'autista si era spaventato. Mi affrettai a rassicurarlo: - Portaci a Montreal, nient'altro. Il suo compagno, molto più calmo, gli disse che era meglio ubbidire. Prendemmo l'autostrada. Avevo chiesto al compagno dell'autista di aprire il vano del cruscotto per controllare che non ci fossero armi. Jean-Paul l'aveva perquisito e gli aveva vuotato le tasche. Il tizio non diceva niente; la situazione aveva l'aria di divertirlo. Con umorismo gli dissi: - Ti ho preso qualche dollaro per il telefono, ti farai rimborsare dall'U.S.C. Non vorrei passare per un ladro! Gli restituii il resto del denaro. Eravamo molto vicini a Montreal. L'allarme era stato sicuramente dato. Dovevamo passare un ponte, forse avevano piazzato un posto di blocco. - Ferma qui. - Ma... - Ho detto di fermare qui. Si fermò. - Tu e il tuo amico... Scendete. Fra poco rischia di fare caldo. Continuiamo senza di voi, a meno che abbiate voglia di prendervi qualche pallottola se la polizia ci aspetta sul ponte. Il suo amico gli disse di fare come dicevo. Fisicamente nessuno dei due poteva affrontarci. Jean-Paul prese rapidamente il volante e ce ne andammo lasciandoli sul bordo della strada. Nessun posto di blocco ci aspettava. Arrivati in città, mi precipitai in una cabina del telefono. Ebbi subito in linea Lizon. - Pronto, Lizon? Sono un amico di Pierre... Ci siamo riusciti. Vieni a prenderci.

Le spiegai dove eravamo. Non una parola di più. - Sarò lì in un quarto d'ora. Jean-Paul parcheggiò in uno spiazzo e venne a raggiungermi. Ci eravamo tolti le camicie ed eravamo rimasti in canottiera. Con i nostri pantaloni sporchi di terra, potevano prenderci per dei muratori, non certo per degli evasi in fuga. Dovevamo aspettare Lizon. Entrammo in un piccolo ristorante e tranquillamente prendemmo il nostro primo caffè da uomini liberi. La ragazza che era al bancone ascoltava la radio a basso volume. Erano passati quarantacinque minuti da che avevamo lasciato l'U.S.C. Dalla radio arrivò un comunicato. - Attenzione... Attenzione... Comunicato della polizia. C'è stata un'evasione dal centro di massima sicurezza. Sei pericolosi criminali sono scappati... Questi uomini sono molto pericolosi e forse sono armati. Se li vedete, non cercate assolutamente di fermarli... Comunicatelo al posto di polizia di Laval... Ve lo ripetiamo, questi uomini sono molto pericolosi. Vi daremo altre informazioni quando ne sapremo di più. La musica riprese. Jean-Paul mi guardò come per dire: «Sei... Mica male, eh, francese?». Gli sorrisi. La ragazza del bancone, parlando con la sua amica, disse: - Devono essere ben lontani... Speriamo non li riprendano! Avevo voglia di dirle che non erano molto lontani e di ringraziarla per l'augurio, ma feci finta che l'informazione non m'interessasse. All'orologio del ristorante vidi che erano appena passati quindici minuti. Uscii per primo. La riconobbi subito, grazie alla descrizione di Pierre. Le feci un cenno con la testa. Lei mi fece lo stesso e si diresse verso un'auto. Salii davanti, Jean-Paul dietro. - Salve ragazzi - ci disse. - E Pierrot? - In libertà... Se tutto va bene, non tarderà a raggiungerci. - Nel borsone c'è il necessario. Le due 38 special e la carabina USMI con il calcio segato e i tre caricatori da 25 pallottole erano le benvenute. C'erano anche diverse camicie colorate.

Ce ne infilammo una ciascuno. Guardai Jean-Paul con soddisfazione: - Adesso, figliolo, siamo davvero uomini liberi. Lizon ci condusse a un primo nascondiglio. Bernard, il fratello di uno dei miei amici, ci aspettava. La radio aveva annunciato che uno degli evasi era stato ripreso a un posto di blocco. Fecero il suo nome. Si trattava di Pierre Vincent. Lizon pianse una lacrima, ma sapeva che ciò faceva parte delle regole del gioco. Pierre non era certo il tipo da stare rinchiuso ancora a lungo. Per lui ci sarebbe stata un'altra evasione. Bernard ci diede delle parrucche, dei vestiti e degli occhiali finti. C'informò che avremmo cambiato immediatamente nascondiglio, quello era solo temporaneo. Ci sistemammo nel pieno centro di Montreal, in un appartamentino al primo piano, un perfetto osservatorio sulla strada. Tutto era pronto: cibo, bevande, radio, televisione; e soprattutto una radio a onde corte per intercettare le comunicazioni della polizia. C'erano anche delle armi e delle maschere antigas. Abbracciai Lizon: - Grazie ragazzina, tu e Bernard avete fatto un buon lavoro. Tutto è perfetto. Ora solo una cosa: qui non vogliamo vedere nessun altro, tranne voi due. Ci servirete da contatto con i nostri amici, ma... attenzione! La nostra pelle vale molto... Nessuno può collegarvi a noi; prima di oggi non ci conoscevamo... Ma ogni volta che uno di voi verrà qui, che usi la massima prudenza. Mi fido di entrambi. Avremo molto da fare e la minima imprudenza può costarci la vita o, peggio ancora, la libertà. - Puoi fidarti di noi, Jacques - mi disse Bernard. Jean-Paul, con un bicchiere in mano, guardava dalla finestra. - Ehi, francese! Vieni un po' a vedere cosa abbiamo di fronte. C'era una grossa banca. In seguito, l'avremmo rapinata due volte in tre giorni... Ma gli risposi: - Quella, più tardi. Per il momento dobbiamo restare senza uscire per qualche giorno... Ascolta! Le sirene della polizia si sentivano in tutta la città. La polizia voleva

dimostrare alla gente che era alla caccia dei cinque evasi rimasti. Jean-Paul sintonizzò la radio a onde corte. I messaggi che si sentivano ci facevano ridere. Eravamo segnalati un po' dappertutto. Bernard decise di andarsene. Lizon volle restare con noi in caso che avessimo avuto bisogno di lei. La sera noi tre festeggiammo la nostra vittoria. Lizon non aveva legami con Pierre; non era la sua donna, solo un'amica. La sera stessa divenne l'amante di Jean-Paul... Ero contento per lui, non poteva capitargli di meglio. Da parte mia, rimasi coricato a lungo, le armi al mio fianco, le mani dietro la testa, con un solo pensiero: Janou. Doveva essere felice del mio successo, ma ora per lei sarebbe cominciato il calvario dell'attesa. A ogni scontro a fuoco avrebbe pensato a me, dicendosi: «Speriamo che non sia ferito!». La mia intenzione era di andare a liberarla, ma volevo lasciarle la scelta. Le restava solo qualche mese di prigione da fare. L'evasione poteva essere una cattiva idea. Al mattino Jean-Paul mi propose: - Se vuoi, Lizon può far venire una sua amica. Una ragazza sicura. - No, figliolo... Prima il lavoro. Non dimenticare che tra quindici giorni abbiamo un appuntamento al penitenziario. Non voglio vedere nessuno qui... Poi sorridendo: - Posso ben restare altri quindici giorni senza una donna! Non faranno che aggiungersi ai tre anni d'astinenza... Ciò non v'impedirà di scopare, ragazzi - dissi scompigliando i capelli di Lizon che ci aveva raggiunto. Guardandola, aggiunsi: - Sei capitata bene ragazzina. E' un uomo, un vero uomo. Lo guardò, già innamorata, e mi disse: - Lo so, Jacques... Un vero uomo. I giornali del mattino non parlavano d'altro che della «evasione impossibile». «Un bel lavoro», dicevano alcuni che riconoscevano in noi una bella dose di coraggio nel tentare un colpo simile in pieno giorno. Altri titolavano: «Le guardie sono state pagate per chiudere gli occhi?». Il provveditore generale del Canada affermava: «Le mie guardie avrebbero dovuto sparare!» Il giornalista continuava precisando che se non l'avevano

fatto era perché non avevano visto niente. La cosa che mi fece più piacere fu la critica rivolta al capo della sorveglianza Gauthier. C'era una sua foto, con una faccia triste, conscia del fatto che il suo scacco gli avrebbe causato dei problemi. Guardando la sua foto, non potei fare a mano di dire: - A presto, pezzo di merda! Passarono quattro giorni, Jean-Paul era felice. L'indomani mattina dovevamo metterci al lavoro. Bisognava assolutamente che la polizia pensasse che eravamo lontani da Montreal. Decidemmo di attaccare due banche di seguito nella stessa regione dove lui abitava prima dell'arresto. La polizia ne avrebbe dedotto che il nostro nascondiglio era in quella zona, che distava 180 chilometri da Montreal. Partimmo di notte con la vettura rubata che Bernard ci aveva fornito. Le nostre armi ci avrebbero permesso di affrontare ogni situazione. Nel caso che avessimo incontrato un posto di blocco, eravamo pronti a vendere cara la pelle. Jean-Paul e io avevamo fatto un giuramento: «Partiamo in due e torniamo in due oppure moriamo tutti e due». Quella fedeltà nell'amicizia si dimostrò importante e, negli avvenimenti che seguirono, fu totale. La regione che avevamo scelto era in gran parte ricoperta da foreste con delle stradine che bisognava conoscere bene per non perdersi. Jean-Paul era del posto e ne conosceva ogni recesso. Passammo la notte nella foresta, avevamo portato con noi l'occorrente. Per le rapine in banca, io avevo più esperienza di lui. Fu deciso che sarei entrato per primo e avrei preso il denaro. Lui mi avrebbe fatto da copertura. Al mattino, ci mettemmo in viaggio... Le due banche erano a dieci chilometri di distanza, avremmo fatto divertire tutta la polizia della regione. Si trovavano in due cittadine, Saint-Bernardde-Dorchester e Saint-Narcisse-de-Lotbinière. Passammo davanti alla prima. Non era ancora aperta. Il direttore stava discutendo con diverse persone che si trovavano davanti alla porta d'ingresso. Dovevamo fare il pieno di benzina. Lo facemmo. Il benzinaio era ben lontano dall'immaginare ciò che avremmo fatto pochi minuti dopo. - Sei pronto, figliolo? - A posto, papà... - mi disse Jean-Paul di buonumore. - Andiamo! Con calma fermò l'auto vicino alla banca. Tutti erano dentro. Discesi con in mano il mio USMI con il calcio segato. Lo tenevo lungo il corpo. Jean-Paul mi seguiva. Vidi subito l'ufficio del direttore alla mia sinistra. Mi ci precipitai,

mentre Jean-Paul intimava agli impiegati e ai clienti di stare calmi. Il direttore, vedendomi a viso scoperto, ma con l'arma in mano, sorpreso mi disse: - Ma... ma cosa succede? - Sono Babbo Natale... Vengo per un prestito. Non doveva avere molto senso dell'umorismo. Dovetti alzarlo dalla sedia. - Alla cassaforte e in fretta! Arrivati in sala, indicando le cassiere, dissi a Jean-Paul: - Dì alle signorine di aprire i loro salvadanai, passerò a fare la vendemmia. Il direttore mi aprì la cassaforte. Ne conteneva un'altra con un sistema a tempo. Su quest'ultima potevo farci una croce sopra. Mi accontentai di arraffare le mazzette di banconote che avevo davanti, chiedendo al direttore: - Apertura in quanto tempo? - Un'ora dopo aver introdotto la prima chiave. Avevo visto giusto. Ritornato in sala, presi il contenuto delle tre casse e superai il bancone dicendo: - Niente stupidaggini, eroi. E' una giornata troppo bella per morire. Il direttore, che voleva pavoneggiarsi davanti al personale, rispose: - Forse avrei preferito... Non ebbe il tempo di dire altro. Jean-Paul gli aveva sparato un colpo a dieci centimetri dalla testa e, minaccioso, gli diceva: - Non chiederlo mai... La prossima volta potresti essere servito. Quando uscimmo, era steso sul pavimento e piagnucolava come un bambino al quale hanno tolto il giocattolo preferito. Saltammo in macchina e ce ne andammo davanti a due vecchiette molto

stupite di vederci uscire da una banca con un'arma in mano. - Alla prossima... - dissi a Jean-Paul. Dopo due minuti che viaggiavamo dissi: - Contento? - Perfetto, francese... Sul lavoro ci capiamo a meraviglia. - Perché hai sparato? - Non mi piacciono gli stupidi! Era una risposta come un'altra e mi limitai a sorridere. Eravamo vicini all'altra banca. Era sistemata peggio. Jean-Paul non aveva neanche fermato completamente la macchina che ero già fuori e mi precipitavo verso la porta d'ingresso. Era chiusa e non s'apriva che con un comando dall'interno. Arretrai di un metro e sparai cinque colpi sulla serratura che saltò subito. Rapidamente mi precipitai verso l'ufficio del direttore. I miei occhi incrociarono i suoi. La sua mano era dentro il cassetto della scrivania. - Non farlo - gli dissi puntandogli l'arma. - Non spari - fu la sua risposta. Volli calmarlo subito. - Niente paura... Le pallottole erano solo per la porta... Andrà tutto bene. Alla cassaforte! Rapidamente la svuotai del suo contenuto. Anch'essa era dotata dello stesso congegno dell'altra. Tornato nella sala, intravidi Jean-Paul che stava consolando una cassiera in piena crisi di nervi. Sorridendo, mi disse: - Hai delle strane maniere di aprire le porte! Tutti i soldi delle casse erano già nel mio sacco. Dopo un ultimo saluto, girammo le spalle e corremmo all'auto. Jean-Paul esultava:

- Sei un tipo spiccio - mi disse. - Anche tu figliolo... Via verso Montreal. Sei sicuro di riuscire a evitare i posti di blocco, prendendo le scorciatoie? - Sai, dopo un colpo così, saranno tutti in agitazione. Saranno ben lontani dall'immaginare che veniamo da Montreal e che non abbiamo neanche cambiato vettura. Al limite possiamo incontrare un'auto della polizia... Sarebbe peggio per loro! Andavamo molto veloce. Dai due lati della strada c'era la foresta. Da lontano vidi la sagoma di una donna, ma avvicinandomi mi resi conto che era una ragazzina di quattordici o quindici anni che faceva l'autostop. - Fermati - dissi a Jean-Paul, che frenò di scatto. - La prendiamo a bordo? - Perché no? Mi sporsi dal finestrino. Correva verso di noi. - Potete portarmi al garage di mio padre? E' al prossimo villaggio. - OK, sali. Jean-Paul ripartì subito. Dissi: - Sai che alla tua età non è prudente fare autostop da queste parti? Mi rispose che aveva perso l'autobus. Poi, guardando Jean-Paul: - Corre parecchio, il tuo amico! - Devi scusarci, ma abbiamo fretta. - Che lavoro fa? Girandomi verso di lei per vederla meglio le sorrisi: - Sono un banchiere, cara... e anche il mio amico!

- Ah! bene. Si era sporta verso di me e i suoi occhi si oscurarono vedendo la carabina che avevo al mio fianco. La situazione mi divertiva. Sullo stesso tono le dissi: - Questa è per proteggere il nostro denaro. Capisci, è pieno di ladri, di questi tempi! Mi fece ancora «Ah! bene». Arrivammo in paese. Vidi un benzinaio. Lei mi batté sulla spalla. - Siamo arrivati. Jean-Paul fermò e lei scese dopo averci ringraziato. L'indomani la stampa riportava quella storia per dire che almeno eravamo dei veri gentiluomini. La ragazzina avrebbe avuto dei ricordi da raccontare ai nipotini. Jean-Paul mi fece la stessa domanda, ossia perché mai l'avevo fatta salire. La mia risposta fu semplice: - Metti che le fosse successo qualcosa con un maniaco. Siccome nella regione c'eravamo noi, ci avrebbero dato la colpa... E poi, avevamo tutto il tempo, non è vero fratellino? Ritornati a Montreal vuotammo il sacco per terra per contare il denaro. C'erano 26000 dollari. Non era una fortuna, ma più che sufficiente, come inizio. Il mio primo gesto fu di darne a Lizon e Bernard. A me e Jean-Paul restavano solo dieci giorni per preparare l'assalto al penitenziario. Avevamo preso la nostra decisione. Avremmo cercato di attaccare in due l'unità speciale di correzione per liberare tutti i detenuti. Avevamo bisogno di una grande quantità di armi, tre automobili e soprattutto di appartamenti. Feci la lista delle armi per Bernard: dieci carabine USMI con caricatori da trenta pallottole, cinque mitragliette, un fucile di precisione con cannocchiale e due fucili a pompa da sette colpi calibro 12. Gli diedi il denaro e gli indirizzi dove procurarsi il materiale. Lizon era incaricata di affittare sotto falso nome tre appartamenti, cosa che non pose alcun problema. Ogni appartamento aveva abbastanza cibo per diversi giorni. Avevamo anche comprato diversi vestiti. Fra tutti i detenuti che volevamo far scappare, gli intimi erano otto; la preparazione dei

nascondigli era unicamente per loro. Gli altri, se il colpo riusciva, avrebbero ricevuto un'arma ogni due persone e avrebbero tentato la fortuna come l'avevamo tentata noi. Non gli dovevo niente, avrebbero semplicemente approfittato dell'occasione. Tutta quella preparazione c'era costata parecchio denaro. Prima dell'attacco al penitenziario, ci mettemmo d'accordo con Jean-Paul per rapinare un'altra banca, ma questa volta a Montreal. Lunedì 28 agosto 1972, alle dieci del mattino, entrammo alla «Toronto Dominion», banca situata nel centro commerciale Maisonneuve. Avevamo parrucche e occhiali da sole. Il nostro metodo era lavorare in tranquillità. Davanti alle quattro casse e al lungo bancone c'era una trentina di clienti. La banca era tutta in lunghezza. Entrai per primo come un cliente, con l'arma alla cintola. Avevo preso solo due 38 special. Jean-Paul si piazzò con naturalezza al limite del bancone, con la sua carabina USMI nascosta sotto il giubbotto. Il direttore della banca era nel suo gabbiotto a vetri e stava telefonando. Mi girava le spalle. Arrivato al bancone, passai dall'altra parte estraendo la mia arma. Nessuno aveva notato niente. - Signore e signori, questa è una rapina... State calmi, non vi succederà niente. Jean-Paul aveva tirato fuori la sua carabina. Sentii una donna dire: «Oh! mio Dio». - Le cassiere aprano le loro casse e le casseforti di riserva. Gli altri stiano calmi. Tenete le mani lungo il corpo, non alzatele in alto. Arrivati alla prima cassa, la cassiera mi fissò, paralizzata dalla paura Mentre prendevo le banconote, sorridendo, le dissi: - E' la tua prima rapina, cara? Lei mi rispose con un timido «sì». - Vedrai che fa meno male che un parto. Poi, passando alle altre casse, ne presi il contenuto. Non avevamo il tempo di aprire la cassaforte. Il direttore era sempre al telefono, la schiena girata, e non immaginava assolutamente quel che succedeva nella sua banca. Jean-Paul, vedendo che avevo terminato, domandò gentilmente: - Vogliate lasciare libero il passaggio, prego.

Lasciammo senza problemi la banca. Il direttore era sempre al telefono... Dopo aver fatto cinquecento metri con la nostra auto, la cambiammo e raggiungemmo il nostro nascondiglio. Jean-Paul era contento... e io ero contento più di lui. Mi piaceva lavorare così, senza violenza, con dolcezza. Non facevo mai alzare le mani, per evitare che attraverso i vetri i passanti potessero capire che era in corso una rapina. I poliziotti non avrebbero tardato a individuarci, semplicemente per il nostro metodo. Lizon ci aveva affittato un altro appartamento più grande, ma avevamo tenuto anche l'altro, perché avevo intenzione di rapinare la famosa banca che Jean-Paul aveva visto con tenerezza il giorno del nostro arrivo. Avevamo anche acquistato sotto falso nome due auto. La stampa e la televisione parlavano solo di noi... Lafleur e Ouillet erano stati presi di nuovo dalla polizia al volante di un'auto rubata, con due ragazze a bordo. Guardai Jean-Paul: - Che sfortuna, restiamo solo noi due e Imbeau.

Avevamo raccolto tutte le armi necessarie per l'attacco al penitenziario. Tutto era pronto. Non c'era neanche da parlarne di uscire dalla città fino a quel giorno. Su mia richiesta Lizon aveva comprato un kit di pronto soccorso completo, dalla pinza, al bisturi, al laccio emostatico alle compresse di penicillina. Lei era un po' triste perché amava Jean-Paul e sapeva che alla fine della settimana si sarebbe giocato la vita. L'abbracciai: - Non ti preoccupare, ragazzina, tornerà da te. - E tu, Jacques? - Anche io. Puoi fidarti. Il 3 settembre 1972, domenica, mettemmo a punto gli ultimi dettagli. Sapevamo che ciò che avevamo deciso di fare era quasi impossibile. Dopo l'evasione era stata ancor più rinforzata la sorveglianza. Oltre alle guardie armate, avremmo dovuto affrontare le pattuglie di poliziotti e le macchine delle guardie armate. L'unità speciale di correzione faceva parte di un insieme di quattro penitenziari: Saint-Vincent-de-Paul, il centro Leclerc e il penitenziario Laval. Una volta sparati i primi colpi avremmo avuto solo tre minuti per agire. Bisognava essere pazzi per tentare un colpo simile... oppure essere fedeli fino alla morte ai propri amici e alle promesse fatte.

Era il nostro caso. - Sai, ragazzo, sarà la guerra. Per poter arrivare alla rete e gettare loro le cesoie e le armi, dovremo aprirci il passo. La nostra unica possibilità è l'effetto sorpresa. Ma, qualunque cosa succeda, ci proviamo lo stesso, a rischio di rimanerci. Mi guardò e, serio, disse: - Puoi contare su di me... Volevo dirti una cosa: sono contento di essere tuo amico. Gli diedi un buffetto amichevole sulla testa: - Anche io, figliolo... Ti considero come un fratello. E... non ti far problemi, stasera sarai anche tu qui. A dire la verità non ero certo di esserci neanche io. Avevo fatto sapere ai nostri amici che avrei attaccato il penitenziario domenica 3 settembre 1972, alle quattordici e trenta. Erano le quattordici e partimmo con le nostre tre auto. Lizon era al volante della prima e doveva piazzarsi sull'autostrada a un chilometro dal penitenziario e, dopo aver girato la macchina, aspettarci. Io avrei dovuto lasciare la mia a cinquecento metri dal penitenziario e raggiungere quella guidata da Jean-Paul. Tutte le armi erano cariche. Avevamo tagliato il calcio a tutte le carabine USMI. Queste erano tutte munite di caricatore da ventotto colpi. Jean-Paul e io avevamo cinque caricatori ciascuno sul lato sinistro del corpo. Il serbatoio della nostra Dodge era quasi senza benzina per evitare ogni rischio d'esplosione in caso vi fosse arrivata qualche pallottola. Ci avvicinammo, Lizon ci sorpassò... Andava a raggiungere la posizione stabilita. Da parte mia, frenai, poi salii dietro sull'auto guidata da Jean-Paul. Tutte le armi erano posate sul sedile posteriore e nascoste sotto una coperta. Presi la mia. Jean-Paul aveva due USMI più le cesoie sul sedile davanti. In tasca io avevo tre chiavi, ognuna con una targhetta con l'indirizzo di un nascondiglio. Ore quattordici e ventotto. Lasciammo l'autostrada. Sulla nostra destra potevamo intravedere l'U.S.C. Eravamo dunque obbligati a passarci davanti, fare un'inversione a U all'altezza del penitenziario di Saint-Vincent-de-Paul e ritornare indietro per metterci in una buona posizione d'attacco. Passammo a meno di cinquanta metri dalle reti. Vidi i miei amici che camminavano nel cortile e anche la guardia rinforzata. Ce n'era dappertutto! Sui tre lati

esterni, fra le due reti e sulle torrette. Jean-Paul mi fece questa riflessione: - Hai visto? Sarà dura, eh, francese? - Non ha nessuna importanza, fratello... Eravamo arrivati all'altezza del penitenziario di Saint-Vincent-de-Paul. JeanPaul cominciò l'inversione a U. Fu in quel momento che vidi un'auto piena di guardie armate che arrivava da destra e un'auto di poliziotti che arrivava da dietro... Non c'era dubbio che le due auto venivano per intercettarci. L'auto delle guardie cercò di bloccarci il passaggio, ma Jean-Paul accelerò e riuscì a passare. L'auto della polizia ci inseguì... Saremmo ripassati davanti all'U.S.C. Ci avevano scoperti. Avremmo potuto scappare perché adesso l'effetto sorpresa era annullato. Eravamo a meno di trecento metri dall'U.S.C. Dal vetro posteriore vedevo l'auto della polizia e, da lontano, quella delle guardie che, passata la sorpresa, si era messa anch'essa all'inseguimento. Jean-Paul mi disse: - Cosa facciamo? - Attacchiamo lo stesso. Io mi occupo dei poliziotti, tu delle guardie della rete. Successe tutto molto in fretta. Jean-Paul aveva frenato. Io ero saltato giù dall'auto con l'arma in mano e già miravo alla macchina della polizia che mi arrivava di fronte. Fu l'inizio di un inferno di fuoco. I miei colpi presero il parabrezza e la portiera destra. L'auto uscì di strada, si sollevò e ricadde nel fossato. I due poliziotti furono sbalzati fuori. Nel momento in cui stavo per sparare all'auto delle guardie, questa frenò e tutte le guardie si buttarono nel fossato. Da parte sua, Jean-Paul aveva aperto il fuoco sugli agenti a protezione delle reti. Dalle torrette ci stavano sparando addosso. Le pallottole ci fischiavano alle orecchie. La mia arma era vuota, non persi tempo a ricaricare, la buttai a terra e ne presi un'altra. In quel momento una scarica di pallettoni fece volare in pezzi il vetro posteriore dell'auto e le schegge di vetro mi colpirono il viso. Buttandomi da un lato mi misi a sparare contro la torretta di destra. Jean-Paul era completamente allo scoperto e sparava dal fianco. Le pallottole bucavano la carrozzeria. Una mi colpì alla scarpa senza ferirmi il piede, un'altra trapassò il mio portacaricatori della giubba e fece esplodere alcune pallottole. Sentendo il colpo mi credetti colpito al fianco sinistro. Altre due pallottole mi avevano bucato l'abito senza ferirmi. Stavo svuotando il mio terzo caricatore. Non stavamo più attaccando, ci stavamo difendendo. Da parte sua, Jean-Paul sparava con un fuoco continuo. D'un tratto, mi gridò:

- Mi hanno colpito. Era stato preso alla gamba. In lontananza si sentivano le sirene della polizia. Arrivarono i rinforzi. Non potevamo fare più niente, se non provare a salvarci la pelle. Era da più di due minuti che era iniziata la sparatoria. La nostra macchina era bucata dappertutto. Nel momento stesso che dicevo: «Andiamocene, figliolo», Jean-Paul si prese un colpo di 308 che gli trapassò il braccio sinistro. Malgrado le ferite, si mise al volante. Da parte mia, iniziai un fuoco di copertura e mi buttai sul sedile posteriore nel momento stesso in cui la macchina partì. Lasciammo il posto sotto una pioggia di pallottole. Il nostro tentativo non era riuscito. Tutti i miei amici avevano assistito a uno dei peggiori scontri a fuoco che il Québec avesse mai conosciuto. A causa dei tagli provocati dalle schegge di vetro, sanguinavo dal viso. Jean-Paul perdeva sangue. Nessuno ci inseguiva. Una volta in macchina, rimisi tutte le armi in due grandi borse di tela. Non era certo il caso di perdere le nostre armi! Ormai avevamo raggiunto l'autostrada. - Reggerai, figliolo? - chiesi a Jean-Paul. - Non ti preoccupare. Se sento che sto per svenire, ti avverto. Avevo sempre una USMI in mano. Quando Lizon vide arrivare la nostra macchina, si precipitò verso di noi. - Presto... Mettiti al volante della tua auto... Aiuta Jean-Paul, è ferito. Il colpo è fallito. Presto, ragazza... Avremo tutti gli sbirri di Montreal all'inseguimento. Mentre io scaricavo le due borse con le armi, Jean-Paul aveva preso il volante, rifiutando la mia proposta di far guidare Lizon. Prendemmo la strada del ritorno. Sull'altra corsia dell'autostrada, le macchine della polizia correvano verso il penitenziario a sirene spiegate; erano ben lontani dall'immaginare che la macchina che avevano appena incrociato era quella che cercavano e che aveva scatenato l'allarme generale. Jean-Paul mi chiese: - Pensi che il ponte sia bloccato? - Non credo... Se è sorvegliato, ti fermi a cento metri e gli spariamo addosso. Ce la fai a reggere fino a casa? Mi rispose di sì. Non avemmo difficoltà ad arrivare a casa. La nostra auto

entrò nel parcheggio sotterraneo. Bernard ci aspettava. - La radio ha parlato dello scontro a fuoco... A sentirli, non pensavo di rivedervi vivi. - Aiuta Jean-Paul, è ferito. Entrati nell'appartamento, mentre Bernard e Lizon si occupavano di portare su le armi, io curavo le ferite di Jean-Paul. - Soffri, figliolo? Mi fece un sorriso, dicendomi di no. - Che sparatoria... e siamo ancora vivi! Ti rendi conto, francese! E' incredibile. Pensavo che non ne saremmo mai usciti vivi! Abbiamo fallito... Eppure abbiamo tentato l'impossibile... - Sì, figliolo, l'impossibile. Nessun problema per la pallottola nel braccio, lo ha trapassato senza toccare l'osso. Per la gamba invece non posso fare niente, la pallottola è restata dentro. Gli feci due medicazioni, un'iniezione antitetanica e gli feci prendere della penicillina. Poi mi occupai di me stesso. Lizon, con la testa appoggiata sul petto di Jean-Paul, piangeva. Lui si era addormentato. Bernard era ripartito. Avevo in mano un bicchiere di scotch e guardavo la televisione. I notiziari non parlavano che dell'attacco al penitenziario e facevano i nostri due nomi. Un poliziotto aveva parlato di un'incredibile audacia e diceva che bisognava essere pazzi per tentare un colpo così. Non potevo certo dargli torto. Restai sveglio tutta la notte per badare a Jean-Paul. Al mattino, tranquillizzato e certo che ormai non rischiava più niente, mi addormentai a mia volta. Non era certo il caso di uscire, almeno per qualche giorno, perché tutta la polizia del Canada era sulle nostre tracce e aveva giurato di avere la nostra pelle. Si parlava di spararci a vista. Jean-Paul si riprendeva rapidamente. Il secondo giorno si era alzato. Già facevamo progetti per l'avvenire... Le banche di Montreal avrebbero presto ricevuto la nostra visita. Domenica 10 settembre 1972, una settimana dopo il nostro scontro a fuoco, decidemmo di andare a passare una giornata in una foresta vicino a SaintLouis-de-Blandfort. Avevamo intenzione di approfittarne per allenarci al tiro

e, per questo motivo, avevamo portato con noi diverse armi. Quella stessa mattina due guardie forestali provinciali uscivano di casa per fare il loro solito giro. Due uomini che rappresentavano la legge avrebbero incontrato due fuorilegge. Quattro uomini che al mattino si erano armati per ragioni molto differenti. Due di loro, forti della loro uniforme e dell'arma regolamentare che avevano al fianco destro, avrebbero commesso l'errore che gli sarebbe costato la vita. Ci eravamo inoltrati il più possibile nella foresta per non essere disturbati. Una buona parte della giornata l'avevamo passata ad addestrarci. Avevo insegnato a Jean-Paul le basi del tiro istintivo. Il suo braccio non lo faceva più soffrire, ma nei suoi occhi avevo letto la rabbia ogni volta che svuotava un caricatore. Tutti e due eravamo ottimi tiratori. Dopo aver messo alcune armi nel baule dell'auto ed esserci tenute addosso le nostri personali, decidemmo di tornare a Montreal. Erano le diciassette quando li vidi alla curva di un viottolo. Erano a una cinquantina di metri dalla nostra auto. La loro camionetta bloccava il passaggio. A causa delle loro uniformi, Jean-Paul e io li avevamo presi per poliziotti. Non avevamo alcuna possibilità di prendere un'altra direzione. Né l'uno né l'altro aveva tirato fuori le armi, ma ci facevano segno di venire avanti. - Cosa facciamo? - mi chiese Jean-Paul. - Lasciali avvicinare. Magari è solo un controllo, abbiamo i documenti in regola. - Guarda. Vengono. - Se ti dicono di uscire, esci, ma senza armi. Anche tu, Lizon... - Nessun problema, uscirò subito dopo di voi. - E tutte le armi nel bagagliaio... Se mi chiedono di aprirlo? - Lo apri... Non ti preoccupare, figliolo. Le due guardie erano già alla nostra altezza. Il più vecchio, con il viso imbronciato, disse a Jean-Paul: - Siete stati voi a sparare per buona parte della giornata? - Sissignore... Non credo sia proibito!

- Scenda... e apra il bagagliaio. Nessuna delle due guardie sembrava interessarsi a me. Jean-Paul scese. Non aveva alcuna arma con sé. Lizon lo seguì, con la sua 38 special nella borsetta. Tranquillamente mi misi la mia nella cintura dietro la schiena. Ero in camicia e sapevo che se mi fossi presentato davanti alle guardie gli sarebbe stato impossibile accorgersi che ero armato. La mia intenzione era di puntargliela addosso se le cose si fossero messe male. Jean-Paul aveva aperto il baule. C'erano una dozzina di armi automatiche e alcune calibro 12 a pompa. Tutte le armi avevano le loro munizioni. La guardia più vecchia, con voce aggressiva, disse a Jean-Paul: - Non sa che è proibito trasportare armi cariche? Seguiteci in caserma. Ero sceso anch'io. Presi la parola: - Suvvia, signore. Non abbiamo fatto niente di male. Non è mai stato proibito allenarsi al tiro prima della caccia! Mi guardò in una maniera strana, come qualcuno che cerca di ricordare qualcosa. I nostri sguardi s'incrociarono. Mise la mano sul calcio della pistola retrocedendo rapidamente. - Gli evasi!... - gridò al suo collega estraendo l'arma. Ero stato più rapido di lui. Provò a gettarsi di lato, ma le mie pallottole lo presero in pieno petto. Aveva avuto il tempo di sparare una sola volta, ma la pallottola si era persa in aria. Jean-Paul era balzato sulla calibro 12 e, con un gesto rapido, aveva messo in canna una cartuccia a pallettoni. L'altra guardia, che gli stava puntando l'arma, fu sollevata da terra nello stesso tempo che si udì lo sparo; Jean-Paul, l'arma appoggiata sul fianco, riarmò e sparò nuovamente. La guardia crollò al suolo, fatta a pezzi dai pallettoni. Tutto era successo in meno di tre secondi. Né Jean-Paul né io lo avevamo voluto. La responsabilità era di Médéric Côté, guardia provinciale vittima della sua stupidità. Il suo collega, Ernest Saint-Pierre, era solo vittima degli avvenimenti. Se fossimo stati meno rapidi di loro, forse saremmo stati noi a giacere al suolo al posto loro. Jean-Paul mi vide prendere per i piedi Médéric Côté. Deposi il suo corpo a fianco di quello del suo collega. Avevo ricaricato la mia arma e ficcai due palle in testa a ciascuno. Quel gesto poteva costarmi la pena di morte. Il colpo di grazia è accettato dalla società solo se è il boia a darlo... e allora

diventa «gesto umanitario». Se lo fa un assassino, diventa «bestialità». Volevo essere certo di lasciare dietro di me due cadaveri. La nostra azione non era stata premeditata, si trattava solo di legittima difesa. Eravamo in guerra; tutti gli sbirri volevano la nostra pelle e, dopo l'attacco al penitenziario, l'avevano gridato a gran voce su tutte le frequenze radio. Avevamo appena dato la nostra risposta. Né pietà, né rimorsi... Con il nostro gesto anche noi facevamo una dichiarazione di guerra totale a tutti gli sbirri. Sarebbe servito d'avvertimento a quelli che sentivano la vocazione da cacciatori di taglie. Jean-Paul riprese il volante. Lizon aveva le lacrime agli occhi e io maledivo il destino che li aveva messi sulla nostra strada. I corpi furono ritrovati l'indomani da una delle pattuglie incaricate delle loro ricerche. Subito le radio annunciarono che quel duplice omicidio portava la nostra firma. Questa volta la polizia giurò di vendicare i suoi colleghi. La taglia sulla nostra testa aumentò di qualche migliaio di dollari, non aggiunsero «vivi o morti»... ma ogni poliziotto non sognava che di vederci stesi ai suoi piedi. Avremmo potuto lasciare Montreal, ma Jean-Paul e io dovevamo raccogliere la sfida attaccando diverse banche in pieno centro città e a viso scoperto. I funerali furono solenni. Una volta morti si diventa eroi in fretta. Il ministro della Giustizia venne a tenete il suo discorso. Quella che io avevo chiamato «vittima della sua stupidità» divenne «vittima del dovere». Triste consolazione per un ragazzino di dodici anni che piangeva sulla bara del padre! La foto che pubblicarono mi commosse. Quanto ci doveva odiare, quel ragazzo! Poteva mai capire che il giorno in cui suo padre aveva accettato di portare un'arma era diventato un assassino legalizzato, con il diritto di uccidere in nome della legge? Poteva capire che quando due uomini si affrontano con le armi in pugno è il più rapido che sopravvive? La legge autorizza a uccidere, ma non fornisce giubbotti antiproiettile. Non avevo alcun rimorso... Ma molti rimpianti. Per quelli che erano rimasti all'unità speciale di correzione le condizioni di vita erano divenute impossibili. Feci delle registrazioni per denunciare quelle condizioni di vita e le feci arrivare ai giornali. Avevo anche dato un serio avvertimento al governo. O umanizzavano le condizioni di vita dei detenuti o avremmo dato esempi sanguinosi. Ciò scatenò una campagna stampa. Tutti i giornalisti chiesero di visitare l'U.S.C. La popolazione, saputo cosa succedeva dietro quelle mura, prese coscienza che, invece di proteggerla, l'U.S.C. stava fabbricando i peggiori criminali che il Canada avesse mai conosciuto. I mesi che seguirono portarono un grande miglioramento e, infine, la chiusura del centro. Ma noi ignoravamo che si sarebbe prodotto un tale risultato. Per il momento eravamo all'angolo di rue Fleury-Papineau, pronti ad attaccare la famosa banca che Jean-Paul aveva notato il giorno

della nostra evasione. Fu tutto molto rapido. Dopo aver svuotato tutte le casse, feci altrettanto con le riserve delle cassiere. Al momento di uscire, una di loro mi fece una smorfia. Questo, qualche giorno più tardi, le sarebbe costato una bella sorpresa. Erano le dieci del mattino quando entrammo per la seconda volta nella stessa banca. Rapidamente, saltai il bancone. Il direttore mi accolse con un: «Ancora voi!» ... Indicandogli le casseforti, gli risposi: - Come l'altra volta. Poi, notando la cassiera che mi aveva fatto la smorfia, le dissi: - Tieni, mostriciattolo, prendi questa borsa e fai le casse mentre io mi occupo delle casseforti. Con voce soffocata, mi rispose: - Ma non sono mica una ladra! - Lo diventerai... Svelta, al lavoro! Cominciò a riempire la borsa con aria poco felice. Jean-Paul, con la mitraglietta in mano, rideva nel vederla affaccendarsi. Dopo aver svuotato le casseforti, presi la borsa che lei aveva riempito e ne tolsi un biglietto da venti dollari... Sorridendo, le dissi: - E non fare smorfie, altrimenti torno una terza volta, OK? Tendendole la banconota: - Tieni, stupidotta, questa è la tua parte e grazie dell'aiuto! Saltai di nuovo il bancone e scomparimmo... Appena in tempo. Da lontano già si sentiva il concerto delle sirene della polizia. Dal giorno della nostra evasione, avevamo rapinato una somma di denaro enorme. Era tempo di pensare a Janou. Tramite i miei contatti, le comunicai la mia intenzione di liberarla. La sua risposta negativa mi sorprese e mi contrariò. In effetti, era stato messo in piedi un dispositivo della polizia per

aspettarmi e Janou non voleva vedermi rischiare la vita. Ma questo io non lo sapevo. Non avendo più alcun obbligo verso nessuno ora potevo rilassarmi.

Alcuni amici del giro avevano preparato una festa in nostro onore. Per la nostra sicurezza era stata presa ogni precauzione. Ci andai. C'erano tante pistole quante bottiglie di champagne; le ragazze erano carine. Si fecero molto femminili e quando, al mattino, Jean-Paul mi venne a cercare in una delle camere, lo spettacolo che vide lo lasciò sbigottito. Dormivo come un pascià in mezzo a due biondine. Una mezza dozzina di bottiglie erano sparse per la stanza con della biancheria intima disposta a ghirlande. Le mie due 38 special erano sul tavolino da notte e il mio USMI per terra a completare la scena. Aprii gli occhi. Jean-Paul, con un bicchiere in mano, mi disse: - Benedetto francese, per essere un vecchio hai un buon appetito! Sorridendo, gli risposi: - Erano troppo carine... Non sapevo quale scegliere! Cosa credi? Godo di buona salute, soprattutto dopo tre anni d'astinenza! Quella serata ci aveva fatto bene. Ci aveva fatto apprezzare la libertà. Le nostre fotografie erano sempre sui giornali, ma la cosa non ci impediva certo di uscire. Avevamo ripreso i nostri contatti. Tutti i nostri amici parlavano dell'attacco al penitenziario. Poi, una sera, un amico mi presentò quella che sarebbe diventata la mia nuova compagna d'avventure, senza peraltro rimpiazzare Janou. Sentivo il bisogno di non stare solo. Al confine una coppia si fa notare di meno. Joyce Deraiche era graziosa e i suoi vent'anni non le avevano ancora dato un'esperienza di vita. Sognava avventure, denaro facile, belle macchine... Io avevo l'esperienza e il resto. Divenne la mia amante. Dopo le sofferenze della detenzione, le privazioni d'amore e di affetti, la sua gentilezza trasformò i miei sentimenti. Le insegnai a essere donna, a scoprire il suo corpo e il piacere. La sua rapida trasformazione mi affascinava. Jean-Paul e Lizon l'avevano adottata. Joyce si era innamorata di me. Ammirava il bandito, confondendo la realtà crudele con gli eroi del cinema. Decidemmo che tra di noi non ci sarebbero mai state «domande». Le spiegai che la mia donna era in galera e che, per nessun motivo, un'altra ne avrebbe potuto prendere il posto. Decidemmo di procurarci, tramite un mio amico del giro, dei passaporti falsi. Avevamo cambiato i nostri connotati, ma ciò non impedì all'ufficio passaporti del ministero degli Esteri di ritrovarci. Questa volta la

polizia pensò di averci preso. Con l'autorizzazione del ministro Mitchell Sharp, in seguito alla richiesta della gendarmeria reale di Ottawa, decisero di emettere i nostri passaporti, pur sapendo che erano falsi; tutto ciò con l'unico scopo di facilitare il nostro arresto. Questo non lo sapevamo, al momento in cui stavamo per fare l'ottava rapina in banca dopo la nostra evasione... Il direttore che avevo di fronte era un tipo rossiccio con una pancia prominente. Con la canna della mia arma gli indicai la direzione della cassaforte mentre obbligavo uno dei cassieri a seguirci. Jean-Paul controllava il tutto, con la mitraglietta appoggiata al fianco. Avevo avvertito il personale di non far scattare l'allarme collegato direttamente al posto di polizia. - Apri la cassaforte! - gli dissi. - Sì... Sì, ma sbrigatevi. - Perché mi dovrei sbrigare, visto che hai detto di non aver fatto scattare l'allarme? Lo vedevo preoccupato e tremebondo. Quel bastardo aveva premuto l'allarme appena ero entrato in banca. Le macchine della polizia erano già per strada per intercettarci. La paura che leggevo nei suoi occhi mi divertiva. Si sarebbe pentito del suo gesto. Dal taschino della sua giacca spuntavano due sigari. Ne presi uno e gli misi in bocca l'altro: - Hai voluto correre il rischio, adesso devi giocare fino alla fine. Glielo accesi. Stava sudando copiosamente. Il suo cassiere tremava. Erano stati loro a dare l'allarme. Volevo dargli una lezione che non avrebbero più dimenticato. Gridai a Jean-Paul: - Fai attenzione, hanno dato l'allarme. Normalmente noi non restavamo mai più di due minuti. Perché la polizia di Montreal era bene organizzata e arrivava sul luogo di una rapina in meno di tre minuti. Avevo ancora il sigaro tra le labbra quando iniziò lo scontro a fuoco. I vetri della banca volarono in pezzi. Tutti i clienti si erano gettati per terra. JeanPaul era uscito sul marciapiede e, sparando dal fianco, innaffiava i poliziotti

di pallottole calibro 45. Io ero saltato sul bancone e sparavo su un poliziotto che si nascondeva dietro la sua automobile. Jean-Paul era rientrato in banca. Non potevamo più uscire dalla porta principale e salire sull'auto che ci aspettava. Le pallottole fischiavano dappertutto. Vedendo la porta secondaria, gli gridai: - Vai... Vai, figliolo; ti copro io. S'inoltrò nel passaggio. Dava sul retro della banca. Dopo aver sparato ancora qualche colpo per coprire la nostra fuga, lo seguii. Le auto della polizia arrivavano da ogni parte a sirene spiegate. Entrato in un passaggio che non era altro che un vialetto, mi assicurai che nessun poliziotto ci seguisse. Rapidamente ricaricammo le nostre armi. Incrociavamo dei passanti che sembravano non capire niente. Arrivati nella strada principale, fermammo un'auto e, dopo averne cacciato fuori gli occupanti, Jean-Paul prese il volante. Gli dissi di guidare piano. Incrociammo diverse auto della polizia che andavano sul luogo della rapina senza immaginare di aver appena incrociato gli uomini che cercavano. Jean-Paul, guardandomi con il sorriso sulle labbra, esclamò: - Il tuo sigaro... Mi resi conto che durante tutta l'azione lo avevo tenuto in bocca. Tirai e ne uscì una nuvola di fumo. - Buona qualità... Non s'è neanche spento! Poi, girandomi verso Jean-Paul: - Ben fatto, figliolo... Quello lì non lavorerà mai più con la musica. In verità, avevamo avuto fortuna a non lasciarci la pelle. All'indomani, tutta la stampa parlava dello scontro a fuoco e si chiedeva: «Cosa fare contro quei due?». La nostra freddezza e la nostra determinazione disgustavano la polizia di Montreal. Era tempo di lasciare il Canada. Decidemmo di fare un'ultima rapina in banca. Ci riuscimmo tranquillamente e, questa volta, senza musica. I direttori di banca si erano passati parola. I nostri amici ci avevano procurato i passaporti. Organizzai la nostra partenza prendendo ogni precauzione. Fu organizzata una festa per salutarci.

Al momento della nostra richiesta dei passaporti, per motivarne l'urgenza, ai documenti necessari avevamo accluso i biglietti aerei per la Francia. Per tale motivo, le autorità della gendarmeria reale di Ottawa credevano di poterci facilmente arrestare al momento dell'imbarco. Non sapevano che anch'io gli avevo teso una trappola. Dal biglietto dell'aereo pensavano di conoscere la data precisa e la destinazione del nostro viaggio, cioè la Francia. Invece noi non avevamo alcuna intenzione di passare legalmente la frontiera, ma di usare solo all'estero i passaporti, che conservavano intatta la loro validità. Perché le autorità non si sarebbero certo vantate di avere emesso dei passaporti falsi ai due criminali più ricercati del Canada. Ci stavano facilitando la fuga. Era solo questione di tempo. Il tempo che ci avrebbe messo il governo di Ottawa per capire che li avevamo fregati. Da Montreal avevo telefonato a degli amici di New York per annunciargli il nostro arrivo al Waldorf-Astoria. La nostra intenzione era di attraversare la frontiera attraverso stradine nei boschi. Avevamo scelto la regione di Covey Hill. Alcuni amici, accompagnati dalle loro donne e con documenti in regola, fecero delle prove. All'andata e al ritorno non ebbero alcun problema. Ma alcuni doganieri di pattuglia avevano controllato i documenti alla macchina che li precedeva. Fu dunque deciso che, il giorno della partenza, saremmo stati preceduti di un centinaio di metri da un'auto di uno dei miei amici, con la moglie e i due bambini. Che dietro di noi ci sarebbe stata un'altra auto con due amici piuttosto ubriachi. Se per un motivo o per l'altro venivamo fermati per un controllo, questa seconda vettura si sarebbe fatta notare il più possibile per attirare l'attenzione dei doganieri; sicuramente le avrebbero dato la caccia, dimenticando di controllarci. Jean-Paul e io volevamo evitare quello che era successo con le guardie forestali. Ma eravamo anche decisi a non fermarci davanti ad alcun ostacolo. Avremmo passato il confine bene armati. Se, in caso di controllo, la mossa dei due ubriachi non avesse funzionato, avremmo abbattuto i doganieri. In caso di bisogno avevo una Colt 45 con il silenziatore. Arrivò il giorno della partenza. Jean-Paul e io avevamo una grossa somma di denaro in biglietti da cento e da mille dollari. Lizon aveva voluto seguire il suo amore. Anche Joyce, da parte sua, innamorata dell'avventura e un po' inebriata per la nuova vita, mi seguiva. Prima della partenza avevo contattato un'ultima volta Janou per informarla che andavo in Sud America, ma che lei poteva star certa di rivedermi, che avrei fatto tutto il possibile per cercare di farla uscire legalmente. Passammo la frontiera senza difficoltà. Non trovammo né guardie di confine né altri veicoli. Mi sorprese quella facilità nell'entrare in territorio americano e mi fece capire che i trafficanti di ogni tipo avevano vita facile. Arrivati a Cannon Corners, ci separammo dai nostri amici. Per noi, stavolta, era aperta la strada della libertà. Jean-Paul esultava:

- Li abbiamo fottuti tutti... Vero, francese? - Sì, figliolo... Stavolta ce l'abbiamo fatta per davvero. Mentre eravamo già in direzione di New York, tutti gli sbirri del Canada, credendoci ancora sul loro territorio, continuavano le loro ricerche intensivamente. Mi avevano accusato di un omicidio che non avevo commesso... Avevo giurato di fare pagare le sofferenze mie e di Janou. Avevo mantenuto la mia parola. La polizia e le banche ne avevano pagato il prezzo. In serata arrivammo al Waldorf-Astoria. Avevamo molte valigie; quando il portiere volle prendere quella delle armi, declinai la sua offerta. Arrivati alla reception, prendemmo ognuno una suite e una cassaforte personale per tenervi il frutto del nostro lavoro, guadagnato con il sudore dei «ferri». Dovevamo restare solo dieci giorni, il tempo di risolvere alcuni problemi. Il Waldorf-Astoria era il lusso abbinato al buon gusto; il superalbergo. Ero certo di non rischiare un controllo di polizia durante questo breve soggiorno. La sera stessa, i miei amici americani ci invitarono in un locale spagnolo, lo Château-Madrid, e vi festeggiammo degnamente la nostra ritrovata libertà. Il mio pensiero andò a Janou. Sola nella sua cella, quanto grande doveva essere la sua sofferenza, ma io sapevo che era anche felice del mio successo. Il fatto che Joyce fosse con me faceva parte delle regole del gioco. Dovevamo preparare i nostri documenti per entrare in America del Sud. La scelta cadde sul Venezuela, perché avevo delle conoscenze a Caracas. Decidemmo che sarei partito per primo con Joyce e che Jean-Paul ci avrebbe seguito quattro giorni dopo. Non serviva a niente correre il rischio di un duplice arresto all'aeroporto Kennedy. La fortuna ci sorrise; anche là tutto andò senza problemi. Arrivammo all'aeroporto venezuelano che era notte. Ci aspettava un amico. Ci mettemmo venti minuti per arrivare a La Guaira che era una borgata per turisti. C'era un solo albergo di lusso: il Macuto Sheraton; ci sistemammo lì. Era situato in riva al mare, il posto era paradisiaco. Mi si offriva una nuova vita, ma solo in apparenza. Perché una volta sistemato e organizzato per bene, la mia intenzione era di ritornare in America del Nord per rapinarvi, con Jean-Paul, qualche banca al fine di essere definitivamente al riparo dal bisogno economico. Jean-Paul mi aveva raggiunto. Avevamo comprato un'auto e ne avevamo noleggiata un'altra. Adesso abitavamo in una splendida villa con piscina. L'avevamo affittata con opzione d'acquisto versando una forte somma al proprietario. L'avevamo ammobiliata completamente secondo il nostro gusto. Vivevo sotto il nome di Bruno Dansereau, ma la gente che avevo preso a servizio e i commercianti del villaggio mi chiamavano «Don Bruno». Per la nostra sicurezza avevo preso due magnifici pastori tedeschi e un

alano. Tutti e tre erano stati addestrati. Non tardai a fare delle conoscenze. Quelle che m'interessavano di più furono quelle con la polizia. In Venezuela tutto si compra e si vende. Con Jean-Paul avevamo aperto un conto in banca. Il direttore non ci aveva fatto nessuna domanda sulla provenienza delle nostre mazzette di banconote. Avevamo lasciato correre la voce che volevamo comprare un hotel e il poliziotto che credeva di essere diventato mio amico mi assicurava che avrei potuto contare su di lui per la sicurezza della mia attività. Mi presentò a uno dei suoi capi che era incaricato della protezione delle banche a Caracas. L'ambiguità della situazione ci divertiva. Lo ricevetti in villa. Il lusso spesso è un passaporto attestante un'apparente onorabilità, soprattutto per coloro che sono pronti a chiudere gli occhi. Volevo delle armi. Il poliziotto me le fornì... e arrivò anche a propormi di andare ad allenarmi al poligono della polizia. Passavamo le nostre giornate in mare, alla pesca del pesce spada. La sera andavamo a ballare al Macuto Sheraton. Joyce si comportava da donna innamorata, ma non poteva farmi dimenticare Janou. La nostra intesa sessuale era totale e appassionata, ma io sapevo che lei non era una di quelle donne eccezionali sulle quali si può contare in ogni occasione. Era troppo lontana dalla realtà della nostra situazione, non vedeva che il lato gradevole dell'avventura. Sapevo che era sincera; ma viveva in un sogno che rischiava di finire bruscamente se fosse accaduta una catastrofe. Il suo amore per me era come quello di una geisha che ammira il suo padrone. Per lei, ero il «capo», colui che domina gli altri, ma anche l'amante delicato. La sua passione non era finta; mi amava per averle insegnato a essere donna e a conoscere il piacere sotto tutte le sue forme. Mi avrebbe dimostrato, due anni più tardi, che il suo amore poteva arrivare fino al sacrificio della libertà, preparando e facendo evadere cinque miei amici, considerati i più duri criminali del Canada... Ma a quell'epoca non potevo immaginarla capace di una tale azione, come Jean-Paul che le dovrà la libertà e l'incontro con la morte. Per il momento, ci lasciavamo vivere e ogni giorno che passava era un giorno rubato al carcere dove avremmo dovuto essere. Un solo giorno di libertà valeva tutti i rischi che avevamo corso per strapparlo al nostro destino. Ma questo stesso destino avrebbe sconvolto i nostri piani... Uno dei pastori tedeschi non sopportava la presenza di Lizon. Eravamo tranquillamente sdraiati vicino alla piscina, quando le balzò addosso. Le sue zanne si richiusero sulla sua testa prima che io potessi intervenire. JeanPaul, più rapido, aveva preso il cane per il collo e gli aveva fatto mollare la presa a forza di pugni. Lizon giaceva al suolo, il cranio aperto in diversi punti. Perché quel cane, che avevamo sempre trattato bene, aveva avuto quella reazione aggressiva? Non ci capivamo niente. Il nostro personale si era subito precipitato a portare Lizon nella sua camera. Lei credeva di rimanere sfigurata. Jean-Paul rientrò nella villa e ne uscì con un'arma in mano. Sapevo che avrebbe abbattuto l'animale. Mi misi davanti a lui:

- Non lo fare, figliolo. Ti sembrerà di sentirti sollevato ma poi lo rimpiangerai. Gli tolsi l'arma. - Ma hai visto in che stato ha conciato Lizon? Lascia che gli dia una lezione a mani nude. Il pastore tedesco era addestrato alla lotta, ma si rifiutò di mordere JeanPaul che lo picchiava a tutto spiano. Il cane assassino aveva riconosciuto l'uomo assassino. A un mio ordine, Jean-Paul si fermò. Tese il suo pugno sotto il muso dell'animale in un gesto di sfida. L'animale gli leccò la mano come per chiedere perdono. Con un semplice morso aveva distrutto tutte le nostre speranze. Bisognava trasportare Lizon in un ospedale. Il clima era nefasto per la ferita provocata dal cane. Se la chirurgia estetica non interveniva rapidamente, Lizon rischiava di restare sfigurata. Jean-Paul non volle sentire ragioni. Decise di ritornare in Canada per farla operare, malgrado i miei consigli; giacché il rischio era troppo grande. La loro partenza era prevista per l'indomani mattina. Nella sala dell'aeroporto, Lizon con la testa bendata e il viso di un pallore cadaverico salutava Joyce. Intanto discutevo con JeanPaul del suo ritorno e delle precauzioni da prendere. - Fai attenzione, figliolo. Ho telefonato ai nostri amici di New York, t'aspettano... Ma, te lo ripeto, commetti un errore a voler tornare a Montreal. Spero di sbagliarmi. Telefonami in caso di bisogno, sai che puoi contare su di me per tutto. - Non ti preoccupare, fratellone... Tra un mese sarò di ritorno. Quando l'aereo decollò, provai come un'impressione di vuoto. Non ci saremmo mai più rivisti. Alcune lettere furono il nostro unico legame nei due anni che mancavano alla sua morte violenta, abbattuto dalla polizia. Ma, per il momento, credevo ancora al suo ritorno così come credevo alla mia libertà... che non avrei tardato a perdere, proprio come Jean-Paul avrebbe perso la vita. Quattro giorni dopo la sua partenza, ricevetti una telefonata. Per Lizon tutto era andato bene, ma le altre novità non erano altrettanto buone. Dieci giorni dopo la nostra partenza dal Waldorf-Astoria di New York, l'F.B.I. era già sulle nostre tracce. Senza saperlo eravamo sfuggiti per poco all'arresto. Ciò che mi preoccupò di più fu che Jean-Paul aveva letto sui giornali canadesi che, per la gendarmeria reale, noi eravamo partiti per il Sud America. La mia decisione fu presa in fretta. Lo informai della mia

intenzione di partire per la Francia dove ero sicuro di ritrovare degli amici. Quando Lizon fosse completamente guarita mi avrebbero raggiunto. Quella partenza non era definitiva, ma non volevo farmi intrappolare in un paese sconosciuto. Avevo alcuni amici fra la polizia venezuelana; ma questa protezione rischiava di non essere sufficiente di fronte a un mandato d'arresto internazionale per duplice omicidio dei due agenti provinciali. Le cose precipitarono quando il poliziotto che mi aveva venduto le armi arrivò tutto agitato alla villa. - Don Bruno - mi disse - i miei capi hanno ricevuto un mandato di cattura dell'Interpol per lei e il suo amico. Non potremo fare niente per lei. Deve lasciare al più presto il Venezuela. Può contare sul mio aiuto per passare senza controlli la dogana all'aeroporto. Ma non resti qui. Non me lo aveva detto, Don Bruno, che tutte le polizie del mondo la cercano. Per noi è una cosa troppo grossa. In meno di ventiquattro ore avevo svuotato il mio conto in banca, venduto la macchina e pagato sei mesi anticipati al mio personale, perché nonostante tutto era possibile che, con il tempo, le cose si aggiustassero. Joyce era felice di lasciare il Venezuela, perché per lei la Francia era Parigi. Il poliziotto mi scortò con diversi uomini e il timbro d'uscita sul passaporto venne apposto senza controllare i miei bagagli, che contenevano diverse armi. Avevamo preso la direzione di Madrid. Preferivo fare scalo in Spagna e passare il confine francese di notte su un'auto a noleggio con un'arma al fianco. Se le cose si mettevano male, avrei sempre potuto tentare la fortuna. All'aeroporto di Madrid tutto andò normalmente. Il concetto di dogana mi ha sempre fatto sorridere, perché ho sempre avuto un'arma nella valigia e non me l'hanno mai trovata. La fortuna o più semplicemente il fatto di comportarsi in maniera naturale mi hanno sempre evitato noie. Dopo un lungo viaggio in macchina, passammo il confine a Hendaye verso le otto di sera. Il doganiere mi chiese se avevo qualcosa da dichiarare. Avrei voluto vedere la sua faccia se avesse saputo del mio mandato di cattura! Mi accontentai di ringraziarlo quando ci rese i passaporti. Avevo lasciato la Francia quattro anni e mezzo prima. Dopo la morte di Guido, avevo perso i contatti con diverse conoscenze. Ma tramite suo cugino ero certo di poter riformare la banda. Ero felice di ritornare nel mio paese. Avrei rivisto mio padre che sapevo molto malato. Conoscevo i rischi che correvo per un tale incontro; la polizia di certo stava sorvegliando la mia famiglia. Non me ne importava granché. Avevo bisogno di vedere mio padre, di stringerlo fra le braccia come lui aveva fatto, al suo ritorno dalla guerra, quando ero bambino. Dovevo spiegargli perché mi comportavo così. Non sarebbe stato d'accordo con me,

ma sapevo che era il solo a poter quanto meno capire le mie reazioni. Prima di tutto dovevo trovare una città dove vivere. Scelsi Mantes che era molto vicina a Parigi. Vi affittai una villetta. In due giorni avevo piazzato un sistema che mi avrebbe consentito di sfuggire alla polizia, se per sfortuna avesse bussato alla mia porta per arrestarmi. Una volta sistemato, ripresi i miei contatti. La mia prima visita la feci a Mario, il cugino di Guido. Decidemmo che mi avrebbe presentato dei ragazzi seri. Parlammo della morte di Guido e di certe persone che non si erano comportate bene con sua moglie, subito dopo la sua morte. Promisi che avrei personalmente regolato tutti i conti lasciati in sospeso. Ma, prima, dovevo ricostituire una squadra. Quasi tutti i miei vecchi amici erano o in prigione o morti. «In quattro anni le cose cambiano in fretta!», fu la risposta di Mario. Quando mi presentò Rémy, capii subito che saremmo diventati amici. Era un ragazzo serio, buon conoscitore di armi, di una prudenza estrema, che aveva cancellato dal suo vocabolario la parola pietà per tutto quello che concerneva il nostro ambiente. Il tipo d'uomo che sarebbe andato fino in fondo per un amico. A sua volta mi presentò i suoi amici e le sue conoscenze. I miei precedenti canadesi erano un buon biglietto da visita. Senza essere il capo, ero quello che decideva. Personalmente non avevo più niente da perdere ed ero deciso a giocare duro per rifarmi un nome a Parigi. Cominciai a ricostituirmi un arsenale completo. Altri conoscenti mi fornirono documenti falsi. Mi ritrovai con sei passaporti differenti, due dei quali uscivano dritti dalla prefettura, e andai anche allo sportello a firmarli, pur essendo una delle persone più ricercate del mondo. Questo gesto era una prova di sangue freddo, non d'imprudenza. Feci lo stesso per ottenere i documenti per Joyce, che si ritrovò con la nazionalità francese pur conservando il suo bell'accento canadese. Mio padre venne all'appuntamento che gli avevo dato. Per la mia sicurezza, presi ogni genere di precauzioni. Quando lo vidi mi si strinse il cuore. La malattia lo consumava e capii subito che senza la mia evasione non lo avrei rivisto vivo. Aveva il cancro, ma non lo sapeva. Gli avevano nascosto la realtà degli interventi che gli avevano già fatto perdere la voce. I suoi occhi si illuminarono quando mi vide andargli incontro. Andammo a mangiare in un ristorante gestito da un amico. Non nascose la pena che provava nel vedermi vivere così, ma il suo «Sei sempre mio figlio», anche se non era un perdono, rivelava la sua rassegnazione. Mi voleva bene... Non mi disse niente di nuovo riferendomi che tutte le polizie erano sulle mie tracce. Ma quando mi disse che Janou sarebbe ritornata nel 1973 e che in Francia l'aspettava un mandato di cattura per rapina a mano armata, capii che non avrei potuto lasciare la Francia abbandonandola al suo destino. Lo dovevo alla donna, per amore, e all'amica, per la fedeltà nell'azione. Mio padre mi fece anche capire che non avrei potuto vedere mia madre e mia

figlia. Lo lasciai con la promessa di rivederci. Con Rémy e la banda cominciammo il nostro giro di rapine. Volevo che si lavorasse alla mia maniera. Sempre rilassati, senza violenza, salvo che bisognasse affrontare gli sbirri. Avvisai i miei soci che non mi sarei mai arreso ai poliziotti durante un lavoro o una sparatoria in strada. Il denaro non mi mancava. Rémy aveva il compito di guardarmi le spalle mentre io razziavo il denaro dalle casse e scendevo nel caveau. Oramai le rapine alle banche erano diventate comuni in Francia. Non cera più tanto contante come in passato. I miei nuovi amici avevano adottato Joyce che però io tenevo fuori dalle mie attività. Le avevo fatto capire che non avrei accettato nessuna domanda. Era un po' gelosa di Janou, perché sapeva di poter stare al mio fianco solo provvisoriamente. Il posto non era libero. La sola donna che per me era importante stava in una cella, a soffrire ogni giorno di più, ad ascoltare la radio canadese e a sperare che non mi riprendessero. Che un'altra donna fosse nel mio letto, non aveva importanza, poiché lei sapeva che io l'amavo. I poliziotti canadesi avevano provato tutte le pressioni e i ricatti per farla cedere; erano anche arrivati a mostrarle delle foto di donne, dicendole: «Vedi bene che adesso che è libero, e con tutte queste donne, se ne frega di te e di quello che può succederti!» Lei li aveva mandati a quel paese e loro si erano ben guardati dal tornare. All'inizio di dicembre del 1973 ci furono due rapine a mano armata nella regione di Mantes. Le buste paga di una fabbrica, per un totale di 64000 dollari, furono rapinate e, tre giorni dopo, una cassiera che andava a fare un prelievo in banca, benché scortata dalla polizia, si fece rapinare 56000 dollari dai banditi che ne avevano neutralizzato la scorta. Il commissario Tour e i suoi uomini arrivarono in zona. Uno dei testimoni di una delle due rapine aveva creduto di vedere che i rapinatori, al cambio macchina, erano saliti su una Taunus. Il commissario fece prendere tutti i nomi di proprietari di Taunus della regione. Fu in questo modo che seppe che un certo Bruno Dansereau, di nazionalità canadese e recentemente arrivato in zona, ne aveva acquistata una da poco. Capì in fretta, con l'aiuto dell'ispettore Dormier, che quel canadese non era altri che Jacques Mesrine, persona che tutti e due cercavano per diversi delitti. Una circostanza fortuita mi avrebbe salvato dall'arresto. Il mio istinto avrebbe fatto il resto. Gli uomini del commissario mi pedinavano. Mi sorvegliavano nella città di Mantes, ma volevano operare l'arresto a colpo sicuro. Sapevano che ero sempre armato e pronto a tutto. Malgrado la mia diffidenza, non li avevo visti. Eppure mi sentivo a disagio. Non vedevo i miei amici da diversi giorni, il che aveva impedito che fossero pedinati anch'essi. Qualche giorno prima, avevo ordinato un'autovettura sportiva nello stesso garage che mi aveva venduto la Taunus. L'unico problema era la scelta del colore. Il colpo di

fortuna fu il rappresentante che venne da me con il suo catalogo una sera alle otto. Gli chiesi se si poteva riprendere la Taunus. Non mostrai la mia preoccupazione, ma le sue parole mi ghiacciarono il sangue nelle vene. - Sì, posso riprenderla senza problemi. A proposito, sono venuti dei poliziotti a parlare con il proprietario. Proprio della Taunus... Non ha avuto incidenti, vero? Gli risposi di no. Quando mi lasciò chiamai Joyce. - Svelta, ragazzina. Fai le valigie, gli sbirri sono sulle mie tracce. Il commissario Tour aveva deciso di arrestarmi l'indomani mattina e non aveva lasciato nessuno a sorvegliare casa mia, per paura che me ne accorgessi. Verso mezzanotte, lasciai la villetta, abbandonando un mucchio di cose. Avevo la Colt 45 sulle ginocchia e la calibro 12 a canne mozze al mio fianco, con cinque colpi a pallettoni per aprirmi il passaggio in caso di bisogno. Arrivai a Parigi senza problemi. Dopo aver preso tutte le precauzioni per non essere seguito, andai da un amico a passarvi la notte. Al mattino, riunii tutti per informarli degli avvenimenti. Decisi di usare uno dei miei passaporti per affittare un appartamento a Parigi o nell'immediata periferia. Questa volta diventai Nicolas Scaff, architetto. L'appartamento che avevo trovato a Boulogne-Billancourt al numero 1 di Rue Pierre-Grenier offriva tutte le garanzie di sicurezza. Era un giudice in missione all'estero che me lo subaffittava. Ottenni anche che il telefono restasse a suo nome. Questa volta avevo la speranza di poter stare tranquillo. Era tempo di far arrivare Jean-Paul Mercier... Telefonai in Canada. Bernard era molto dispiaciuto. - Sì... Lui e Lizon... Quando?... Due giorni fa. Avevo capito bene, Jean-Paul era stato preso dalla polizia durante una rapina che aveva tentato con Lizon, ormai guarita. Se non fossi scappato da Mantes saremmo stati arrestati entrambi alla stessa ora, a migliaia di chilometri di distanza. Dissi a Bernard che avrei fatto il possibile per tirarlo fuori di prigione, ma che avrei avuto bisogno di tempo, almeno sei mesi. Questa notizia mi rattristò molto, perché Lizon avrebbe pagato caro il suo legame con il mio amico: era stata condannata a dieci anni. Per il momento, avevo ancora la speranza di tirarli fuori. Non avrei tardato a fare la stessa fine. Avevo cominciato a regolare qualche conto e la mia fredda determinazione faceva paura a molti. Diversi uomini persero la vita per mano mia. Sapevo che la polizia francese era sulle mie tracce e che prima o poi sarei stato arrestato. Non ero certo tanto ingenuo da pensare che potesse succedere

solo agli altri. Presi quindi la decisione di organizzare la mia evasione prima del mio arresto. In caso di cattura, sapevo che dovevano portarmi al tribunale di Compiègne per una vecchia storia dei tempi in cui gestivo l'albergo. Andai da solo in quella città e visitai il palazzo di giustizia per vedere se era possibile nascondervi un'arma. I bagni degli avvocati erano il solo luogo possibile, se un giorno ci fossi dovuto andare. Feci la mappa del tribunale, del palazzo di giustizia e delle stradine vicine. Tre giorni più tardi vi ritornai con degli amici per spiegar loro ciò che dovevano fare se per sfortuna fossi stato arrestato. Rémy non poté trattenersi dal dire: - Vuoi prevedere tutto, ma hai ragione. Perché, se io sono libero, puoi essere sicuro che tutto sarà fatto come si deve. Studiammo le vie d'uscita e le caserme della gendarmeria. Se mi avessero arrestato, dovevo solo comunicare la data perché tutto fosse pronto per la mia evasione. Quella precauzione mi sarebbe servita quattro mesi più tardi. Ero lontano dal pensare che mi restava poco più di un mese di libertà. Dal mio ritorno avevamo già fatto una ventina di rapine in banca. Ne avevo anche fatta una da solo, per il solo piacere di farla. Avevo approfittato della pausa pomeridiana per entrare nell'ufficio dei direttori. Dopo averli neutralizzati, li avevo obbligati ad aprirmi la cassaforte. I pochi clienti che erano in banca non potevano vedermi. Avevo legato i due direttori con lo stesso paio di manette, attraverso lo spazio che lasciava la porta aperta della cassaforte. Così uno teneva prigioniero l'altro. Con calma gli dissi: - State tranquilli, ragazzi, io vado a vuotare le casse. Poi, passando davanti ai clienti come uno del personale, entrai in una cassa e ne svuotai il contenuto, dicendo a una cliente: - Si stanno occupando di lei, signora? - Sì, sì, i direttori sono andati a cercare il mio fascicolo. - Non tarderanno, stia tranquilla. Poi avevo lasciato molto tranquillamente la banca. Rémy mi aveva chiesto perché lo avevo fatto da solo e io gli risposi: - Fa bene, per conservare il dominio di sé... E poi, figliolo, alcuni hanno il passatempo del golf, o dello sci... Per me è la rapina che mi rilassa... Vivo solo per il rischio. So che è stupido, ma mi piace rischiare la pelle. Ho superato lo stadio della paura, non so più cos'è... Sono pericoloso per

questo semplice motivo. Avevo un vecchio conto da regolare con il padrone di un bar, confidente della polizia. Dava soldi e informazioni ai suoi amici della Buoncostume. Mi diressi verso il suo bar per chiedergli conto di storie di sei anni prima. Era un bar di puttane frequentato anche dai poliziotti del quartiere. La clientela era selezionata, il bar era nei quartieri bene di Parigi. Quando entrai, si girarono verso di me diverse teste. L'illuminazione era soffusa. Ordinai un whisky. Mi servì una graziosa fanciulla e mi chiese, con voce sensuale, se le offrivo qualcosa. Declinai l'invito e mi rivolsi alla cassiera: - Era da molto che non venivo nel vostro locale! Il padrone è sempre Marcel? Lei mi guardò con i suoi occhi porcini e la sua aria di fregarsene di tutti. Era una grassona laida e rubiconda. Prima che aprisse la bocca, già sapevo che le cose si sarebbero messe male. - Il mio padrone... Quale padrone? - Non hai un padrone? - Non so. - Ascolta, grassona, quando io faccio delle domande, si risponde sempre. Le lanciai il mio bicchiere di whisky sul volto. Uno dei clienti che aveva la faccia da sfruttatore fece per intervenire. Con un gesto rapido avevo tirato fuori la Colt 45. Fu il panico. Gridai alla ragazza: - Gli lascerò il mio biglietto da visita, al tuo fottuto padrone! Feci il giro del bancone e cominciai a distruggere tutte le bottiglie e gli specchi che circondavano il bar. Fare ciò in pieno giorno, in uno dei quartieri di Parigi più controllati dalla polizia, era rischioso. Ma volevo che il padrone del locale capisse che non me ne fregava niente delle protezioni che aveva tra i politici o nella polizia. Non era neanche un minuto che ero intento a distruggere tutto, quando l'istinto mi avvertì del pericolo. Uno sbirro stava giusto sulla porta d'ingresso, pronto a far fuoco con un'arma già puntata nella mia direzione. Non ne ebbe il tempo. Più rapido di lui, avevo già sparato. L'impatto della pallottola lo aveva sollevato da terra. S'accasciò sul marciapiede. Passando dal retro del bar, arrivai in un cortiletto che dava su un altro stabile. Al momento di uscire dal portone vidi un poliziotto seduto su un'auto di pattuglia. Per radio chiedeva rinforzi; dalle sirene che sentivo, stavano già arrivando. Lo presi di mira. Non dovevo far altro che premere il grilletto ed era morto. Sarebbe stato completamente gratuito, poiché non

sarei comunque potuto passare da lì, visto che la strada stava per essere bloccata. Girandosi, mi vide. Gli risi in faccia. Fece un gesto rapido e mi sparò due colpi che presero la porta. Ero già scomparso dalla sua vista e avevo imboccato la scala del palazzo. Non avevo altra scelta, perché ero circondato, e la mia unica possibilità era arrivare ai tetti e saltare su un palazzo vicino. Dovevo superare un cancello per ritrovarmi dall'altra parte. Arrivato al primo piano, spaccai i vetri di una finestra del ballatoio e salii su un tetto. Tutti gli abitanti mi guardavano dalla finestra. Scavalcai una cancellata. Adesso ero sul tetto di un cortile all'altezza del primo piano. Da ogni lato c'erano finestre di appartamenti privati. Mi gettai attraverso una di quelle finestre. I vetri s'infransero con un rumore spaventoso. Diverse persone urlarono. Mi trovai faccia a faccia con una brava donna molto stupita di vedermi in casa sua. Vedendo l'arma e il sangue che mi colava dalle mani, ebbe paura. Non la minacciavo affatto. - Non abbia paura, signora... Stia calma. - Ma... cosa succede? Non le risposi, ma la presi dolcemente per la camicia. - Mi indichi l'uscita del palazzo e non abbia paura, non voglio farle del male. Si era tranquillizzata e quasi sorridendo mi disse: - Va bene, mi segua... Ma ha un modo curioso di entrare in casa della gente. Mi portò fino all'uscita. Superai il portone del palazzo. I poliziotti mi cercavano dall'altro lato e il loro collega steso nel suo sangue aveva calmato i loro bollenti spiriti. Arma in mano, mi misi a correre fino in fondo alla strada per arrivare al viale. Vidi un taxi fermo, mi buttai subito sul sedile posteriore. L'autista, sorpreso, si girò e vide la mia arma puntata. Con voce dura gli ordinai: - Svelto! Metti in moto... Non ti preoccupare non voglio i tuoi soldi. Partì. Appena in tempo, perché le macchine della polizia avevano bloccato la strada che avevo appena lasciato. L'autista disse: - Andiamo lontano, signore? - Ascolta bene ciò che ti dico. Devi dimenticare la mia faccia, è meglio per

te. Mi lascerai una ventina di strade più in là. Poi gli misi cinque biglietti da cento franchi (circa 100 dollari) sul sedile davanti. - Questi sono per lo spavento. Mi girai per verificare che nessuna macchina ci seguisse, gli dissi di lasciarmi pure lì. - Addio e tieni chiusa la bocca, OK? - Sì... Sissignore, certo. E grazie per il denaro. Sparii tra la folla. Erano le otto di sera e la notte stava sopraggiungendo. Ancora una volta avevo sfiorato la morte. Forse lo sbirro non aveva avuto la stessa possibilità, ma non avevo avuto scelta: o lui o io. Erano passati tre giorni. I giornali riferirono che lo sbirro se l'era cavata. Ma la ferita era grave. La mia pallottola gli aveva trapassato il collo ed era uscita dalla schiena, a causa della posizione in cui si era messo al momento di spararmi. Faceva parte di un'autopattuglia che passava di là per caso. Erano state le ragazze del bar ad avvertirli. La donna dell'appartamento aveva detto ai giornalisti che ero stato molto gentile con lei. Ciò mi fece sorridere. Il tassista non si era fatto vedere. Da quel giorno non ero più uscito. Dovendo ricevere degli amici ero uscito a fare acquisti. Il mio appartamento era all'undicesimo piano. Avevo l'abitudine di guardare prima dal balcone se tutto era a posto. Non vidi niente di strano. Eppure erano due giorni che erano appostati, che mi fotografavano ogni volta che mi facevo vedere. Il commissario Tour e i suoi uomini avevano ritrovato le mie tracce. Ci avevano messo meno di due mesi, grazie anche all'imprudenza della donna di uno dei miei amici che, non credendosi seguita, era venuta a casa a sentire se c'erano novità, dopo l'ultimo conflitto a fuoco che avevo avuto. Suo marito viveva con me e anche lui sarebbe stato arrestato. Erano già due volte che entravo e uscivo. Ma i poliziotti piazzati in strada, vedendo che avevo sempre la mano destra libera e non occupata da pacchetti, avevano preferito aspettare, come avevano fatto due mesi prima a Mantes. Non sapevano che, quando facevo spese nel quartiere, non ero mai armato. I miei documenti erano in regola. Tutti mi credevano un architetto e non volevo che, accidentalmente, un bottegaio potesse accorgersi dell'arma. Inoltre, non sottovalutavo certo le capacità dell'anticrimine. Se per sfortuna avessero trovato il mio nascondiglio, sapevo che non avrei avuto alcuna possibilità di scappare. Ogni uomo per la strada avrebbe potuto essere un poliziotto. L'imbianchino, il postino e anche quel signore che, con il pane in mano, portava a passeggio il cane. Questa volta il mio istinto non mi aveva avvertito del pericolo. Ridiscesi una terza volta. Non feci caso a un

giovanotto che dal macellaio chiese una bistecca, «come al solito». Questa volta, al ritorno, avevo entrambe le mani occupate. Dovevo passare davanti a un garage e avevo di fronte una fermata d'autobus. Arrivati alla sua altezza, sei uomini mi saltarono addosso puntandomi alla testa le loro armi, mentre altri mi avevano preso le braccia e uno mi puntava l'arma al petto. Sentii solo l'ordine dell'ispettore Dormier. - Non ti muovere o sei morto, Jacques. Mi caddero al suolo i pacchetti. Cadendo si ruppero le bottiglie. Da sportivo dissi: - Ben giocato... Mi avete preso. Siete stati più bravi dei poliziotti canadesi. Avete fatto un bel lavoro, complimenti. Ma avete anche avuto fortuna. Sì, i commissari Tour e Avazeri, l'ispettore divisionale Dormier e gli ispettori Allegrini, Darrouy, Caliaros e Albert avevano fatto un buon lavoro e, malgrado quel che mi aspettava, riconoscevo ai miei avversari il loro merito. Prese la parola il commissario Tour. Io ero ammanettato alla schiena. - Ci hai dato parecchio lavoro, Jacques, e credimi, sono contento che sia finita così. Con un tipo come te mi aspettavo il peggio. So che la canadese è in casa tua. Saliamo, non tentare niente, d'accordo? Te lo dico per lei. Arrivati nel mio androne, lo sguardo sorpreso della mia portinaia mi fece scoppiare a ridere. - Signor Nicolas... Ma cosa succede? - Niente, signora... Dirà solo al giudice che ha affittato il suo appartamento a uno degli uomini più ricercati del mondo. - Mio Dio! - fu la sua risposta. Mi fecero salire all'undicesimo piano. Suonai alla mia porta. Per Joyce era il crollo del bel sogno e la prigione. Avvisai il commissario: - E' una ragazzina, commissario! Lei non c'entra... Niente porcate, OK? - Lo sappiamo, Jacques. Dille di aprire. Hai la mia parola che ci

comporteremo bene. Una voce femminile attraverso la porta mi chiese: - Sei tu, caro? - Sì, bimba... Ma non sono solo. Ci sono con me gli sbirri. Mi hanno arrestato. Apri e stai calma. Aprì la porta e i poliziotti si precipitarono, armi alla mano, in tutte le stanze dell'appartamento. Tour rispettò la sua parola e non le mise le manette. Mi fece sedere. Nel mio appartamento c'erano più di quindici sbirri. - Aspettiamo i tuoi amici - mi disse l'ispettore Dormier. Non sapeva che, normalmente, non saliva nessuno senza prima telefonarmi, utilizzando un codice ben preciso. - Quali amici? - dissi. - Io qui vivo solo! Mi riferì i loro nomi. - Vabbe'! Siccome volete aspettare per niente, meglio farlo piacevolmente. Mi autorizzate a festeggiare il vostro successo e offrirvi da bere? Mi rivolsi a Joyce: - Se il commissario è d'accordo, servici qualcosa. Assentì. In verità, volevo solo guadagnare tempo. Cinque dei miei amici dovevano venire a cena e aspettavo la prima telefonata. Non rispondendo, li avrei messi in guardia. Quando suonarono alla porta nella maniera convenuta, capii che il mio amico Michel non aveva preso la precauzione di telefonarmi prima. Viveva a casa mia e, normalmente, doveva rientrare più tardi. Tutti i poliziotti si misero in posizione di tiro mirando alla porta. Il commissario Tour mi avvisò: - Se lo chiami, lo facciamo fuori.

Sapevo che Michel non era armato e il fatto di vivere da me non era un gran delitto. I poliziotti aprirono la porta rapidamente e gli saltarono addosso. Lo fecero entrare nella stanza dove stavo io. Mentre lo ammanettavano sulla schiena, lui protestava. Il suo sguardo incrociò il mio; vi lessi la sorpresa. I poliziotti si erano piazzati ai miei fianchi. Joyce ci dava da bere, perché non potevamo tenere i bicchieri in mano. Gli sbirri pensavano di aver fatto un buon raccolto e speravano di prendere buona parte della mia banda. A Michel rimproveravo di non aver telefonato prima. Ciò gli costava la libertà. Poi suonò il telefono. Erano le venti precise. Tre squilli poi chi chiamava riappese, per poi chiamare di nuovo. Normalmente avrei dovuto rispondere al quarto squillo. Guardai il commissario Tour sorridendo. Né lui né i suoi uomini sapevano cosa fare. Anche se avessero risposto, non sarebbe stato sufficiente, avevamo un numero in codice da dare prima d'iniziare a parlare. Li guardai e scoppiai a ridere, perché adesso i miei amici erano avvisati che da me stava succedendo qualcosa di strano e non sarebbe venuto più nessuno. - La vendemmia è finita, commissario. Con flemma, mi rispose: - Stavolta credo proprio di sì. Partimmo per Versailles. Non avevamo niente da dirci. L'interrogatorio fu una pura formalità. Seduto nel loro ufficio, sentii tutto quello di cui ero accusato. Anche certe faccende a cui ero completamente estraneo. - Dimmi, Jacques, da quando sei tornato si muore parecchio tra di voi. Mi accusarono dell'omicidio di un magnaccia che era stato ritrovato con quattro pallottole calibro 45 in testa, in una foresta vicino a Versailles chiamata «Falso riposo». Anche la morte aveva il senso dell'umorismo... O l'assassino, se il luogo era stato scelto volontariamente. - Vede, signor commissario - avevo aggiunto il «signor» - lei sa bene che non farei male a una mosca. - A una mosca, no. Ma non prenderci per stupidi. In giro per il mondo hai quasi un cimitero privato.

Poi, sorridendo: - Nella tua carriera quanti uomini hai ucciso? So che erano tutte persone del tuo ambiente, ma quanti erano? Dieci, venti? - E perché non trentanove, visto che ci siamo! Joyce, malgrado le quarantotto ore d'interrogatorio, stava bene. Era anche vero che, non essendo al corrente di niente, non avrebbe potuto dire niente. Michel non si prese neanche la briga di rispondere alle domande. Dovevamo andare al carcere giudiziario. Prima della mia partenza il commissario mi disse: - Stavolta Jacques ne hai per un po'. - Vuole scommettere che in tre mesi sarò fuori? - Non farmi ridere. Non si scappa dalla Santé. Non gli risposi. Ma già pensavo a ciò che avevo preparato al palazzo di giustizia di Compiègne. Come avevo fatto bene a prevedere il mio arresto! Rémy era sempre libero e la sua frase: «Con me fuori, sei certo che tutto sarà fatto come si deve» mi ritornò alla mente. Sapevo di poter contare su di lui. Mi era sufficiente darmi da fare per comparire presto a Compiègne dov'ero stato condannato in contumacia nel 1968. Opponendomi al giudizio, sarei stato nuovamente processato. La legge stessa mi forniva le armi per il mio piano. Il furgone ci lasciò al carcere. Tutto era sgradevole. Mi lasciarono comunque salutare Joyce per evitare una lite che avrei scatenato in caso contrario. Prendendola dolcemente tra le braccia, le feci capire di avere fiducia in me. Non potevano tenerla molto in carcere, non avendo niente da contestarle. - Sarai libera prima di due mesi. Fatti coraggio, ragazzina. Lei piangeva. - E a te cosa succederà... Mio Dio, ti amo e non ci rivedremo più. - Fidati di me, ecco tutto.

Doveva raggiungere la sua sezione, quella femminile. Un ultimo sorriso la cui tristezza mi fece male e lei sparì dalla mia vista. Passai la notte seduto su una panca in una cella con un altro ragazzo che si era fatto arrestare per una storia di armi. Si presentò: - Henry, il lionese. Era un tipo che, a sentirlo, ne aveva passate di tutti i colori e si era fatto più di venti anni di galera. Io non avevo voglia di parlare. Ma lo ascoltai perché parlare gli faceva bene. - E la tua storia, è seria? - mi disse. Gli risposi di no e la conversazione finì. Al mattino, il furgone venne a prendermi per portarmi alla Santé. Avevo lasciato le prigioni francesi giusto dieci anni prima con la ferma intenzione di non ritornarci. A quell'epoca ci avevo creduto. Oggi sapevo che avrei dovuto giocare bene le mie carte o vi avrei passato tutta la vita.

La Santé: una vecchia zitella lebbrosa, fiore all'occhiello dell'amministrazione penitenziaria francese. Nelle celle niente era cambiato. Sei metri quadrati più o meno puliti dove vivere ventitré ore su ventiquattro. L'inattività più totale. Quando si entra in una prigione si perde molto più della libertà. Si sa che si troverà il regno dell'arbitrio, dell'ingiustizia e di ogni tipo di abuso. Si diventa «ostaggi del sistema penale» con il ricatto dei colloqui con i parenti, il ricatto del condono o della libertà condizionata. Superando le porte di quell'austero carcere circondariale, mi ripromisi di non marcirvi a lungo. Era l'11 marzo 1973... Avevo detto al commissario Tour che in tre mesi sarei stato fuori... Speravo di mantenere la mia promessa. La mia prima notte in cella mi sconvolse per le mie reazioni interiori. Sapevo di essere in trappola eppure non avevo nessuna preoccupazione per il futuro. Quel fatalismo aveva qualcosa d'inquietante. Nella mia vita avevo visto troppe cose per patire la prigione. Nel momento in cui un uomo diventa «non più suscettibile di intimidazione» è estremamente pericoloso. Io ero un «uomo da latitanza» che, appena entra in prigione, non pensa ad

altro che a uscirne. I primi giorni di carcere passarono tra gli uffici dei diversi commissariati per essere messo a confronto con i testimoni delle rapine in banca. La testimonianza umana è una prova ben fragile. Fui riconosciuto in rapine alle quali non avevo partecipato e scagionato per altre che avevo commesso. Quella immagine della società mi faceva vomitare. Che un individuo con la sua testimonianza, erronea, possa mandare in prigione un uomo per degli anni per un crimine che non ha commesso è una cosa che mi ha sempre provocato un odio mortale. L'unico processo per omicidio che avevo subìto era stato per un assassinio che non avevo commesso e avevo visto delle donne mentire e spergiurare sulla Bibbia... Come se il fatto di chiamare Dio a testimone fosse una prova di verità. Che io fossi riconosciuto o meno per le rapine, non cambiava niente. Conoscevo in anticipo la mia sentenza e ciò mi lasciava completamente indifferente. Vennero a trovarmi alcuni poliziotti canadesi con un mucchio di accuse e un buon numero di foto di appartenenti alla mafia o alla mala di Montreal che erano sospettati di avermi aiutato o di avere lavorato con me. Mi confessarono che sapevano già che non avrei risposto. E, dopo avermene fatte vedere alcune, davanti al mio sorriso strafottente, il detective Fauchon mi disse: - Sai, Mesrine, che in Québec ci hai fatto tribolare! Avremmo voluto avere la tua pelle, ma devo riconoscere che sei un bel mascalzone. Sapevamo bene che non ci avresti detto niente, ma per noi era un'occasione per vedere Parigi. L'ufficiale giudiziario mi notificò una condanna a due anni emessa dal tribunale di Compiègne. La impugnai e l'ufficiale giudiziario si stupì. Con quello che mi aspettava, due anni in più o in meno non avevano alcuna importanza... Eppure quella era la mia scappatoia. Diedi subito ordine al mio avvocato di fare in modo che fossi citato rapidamente. Ben lontano dall'immaginare le mie intenzioni, fece il necessario. I miei altri procedimenti andavano avanti. Fui portato al palazzo di giustizia sotto buona scorta. Il mio primo contatto con il giudice istruttore fu cordiale. Al di là dell'enorme quantità d'armi trovatami in casa e di una grossa somma di denaro che era la prova che mi dedicavo alle rapine in banca, mi fece sapere che ero accusato dell'omicidio di uno sfruttatore, del tentato omicidio di un poliziotto e di diverse rapine in banca. Con umorismo aggiunse: «Per il momento...». Il Canada, da parte sua, mi accusava del duplice omicidio delle guardie forestali, di diversi tentati omicidi a poliziotti, di duplice tentato omicidio di guardie carcerarie, dell'attacco a un penitenziario federale e di nove rapine in banca. Di fronte al mio sorriso, il

giudice mi disse: - Tutto ciò la lascia freddo. - Più che freddo, signor giudice... totalmente indifferente. Invece la giovane canadese Joyce Deraiche che viveva con me non c'entra per niente. - Lo so, Mesrine, e ho intenzione di metterla in libertà provvisoria, come ha chiesto il suo avvocato. Joyce fu messa in libertà condizionata il 18 maggio e andò a vivere presso amici. I giorni passavano e la mia tensione nervosa aumentava, perché ora conoscevo la data del mio processo a Compiègne. Era per il 6 giugno. I miei amici erano avvisati. Le ore e i giorni che mi separavano dall'azione divennero interminabili. In carcere, conducevo una vita normale e discreta, non fidandomi di nessuno. Le guardie, nell'insieme, erano corrette, ben sapendo che gli uomini del mio tipo non cercano mai guai per niente. Passavo le mie giornate a leggere e a fare ginnastica in cella per restare in buona condizione fisica. Molti ragazzini che incrociavo non sarebbero dovuti stare in prigione. Quello non era posto per loro, i piccoli reati che avevano commesso non meritavano il carcere. Ma la società è fatta così: invece di aiutare i giovani delinquenti a reinserirsi, prepara, con quella scuola di crimine che è il carcere, i «nemici pubblici numero uno» di domani. Era successo anche a me quando, se la società mi avesse dato una possibilità, forse avrei avuto un futuro diverso. Avevo fatto pagare molto caro alla società la sua mancanza di comprensione e, benché prigioniero, non ero vinto. Conoscevo i miei limiti: non ne avevo. Il mattino del 6 giugno 1973 doveva rappresentare per me l'ultimo giorno di prigione alla Santé. Ero certo di una cosa: alle quindici sarei stato o libero o morto. Avevo preparato il mio piano di evasione nei minimi dettagli. Poteva sembrare impossibile, ma io ci credevo. Ancora una volta avrei messo la mia vita in gioco. Mi ero preparato a lungo alle difficoltà di quell'azione. Avevo studiato tutte le situazioni che potevano presentarsi. Conoscevo il pericolo rappresentato dai gendarmi, capaci di sacrificare la vita per compiere il loro dovere. Sarei stato solo contro tutti. Un solo errore da parte mia ed era una morte rapida, ma certa. Preferivo fare quella fine, piuttosto che patire una lunga detenzione. Avevo persino previsto la mia morte con una certa filosofia, perché accettare la carcerazione sarebbe stato come ammettere di aver perso. Ero stato arrestato l'8 marzo e avevo promesso al commissario Tour che sarei stato fuori in tre mesi. Lui l'aveva presa come una bravata, uno scherzo. Non avrebbe tardato a rendersi conto che io non

bluffavo mai. Il capo della sorveglianza aprì la porta della mia cella. Erano le nove del mattino. - La scorta è pronta, Mesrine. Lo seguii. Mi perquisirono. Né le idee né le intenzioni sono rilevabili. Il sorvegliante mi disse: - A stasera, Mesrine. - A stasera, signore. Arrivato all'ufficio matricola, il vicedirettore Carrier mi stava aspettando. Avevo una certa stima di lui; era un uomo corretto e giusto. Quando mi vide mi venne incontro: - Un viaggio in vista, signor Mesrine... Poi, girandosi verso il capo scorta: - Fate attenzione. E' simpatico, ma molto pericoloso. Il capo scorta mise la mano sulla fondina e, sbruffone, rispose: - Con questa, signor direttore, nessuno è pericoloso. I miei occhi incrociarono i suoi; non capì la luce ironica che brillava nei miei. Mi lasciai incatenare. Mi fecero salire su un furgone che ci avrebbe portato in stazione. Là, sotto buona scorta, mi fecero prendere posto in uno scompartimento isolato. Durante il viaggio studiai quelli che sarebbero stati i miei avversari. Il capo scorta era senza dubbio il più sveglio. Sentivo che era diffidente e pronto a ogni evenienza. Dovevo cominciare a recitare la parte del malato. La riuscita della mia evasione si basava interamente sulla mia necessità di andare sovente al gabinetto. Il treno procedeva da una buona ventina di minuti quando mi rivolsi a lui: - Capo! Il direttore le avrà detto che sono in piena crisi di dissenteria. .. Scusi, ma mi deve accompagnare in bagno. Guardò il suo collega e gli ordinò di andare a ispezionare la toilette. Quel primo dettaglio aveva la sua importanza. Mi dimostrava il clima di sfiducia.

Al momento di accompagnarmi, mi avvertì: - Attenzione! Nessuna mossa falsa. Mi fece entrare nel bagno, mi liberò una mano e m'incatenò l'altra alla sua. Fui obbligato a fare i miei bisogni con il culo in aria, seduto sull'asse del W.C. con un gendarme di sentinella al mio fianco. Mancava solo la Marsigliese. Ero furioso, all'apparenza, e glielo feci capire. Tutto ciò era per preparare la mia futura azione. Lungo il viaggio, non feci altro che lamentarmi per immaginari dolori di pancia. I poliziotti cominciavano a credermi. Per arrivare a Compiègne ci volle un'ora. Il treno si fermò. Mi fecero scendere. Diversi gendarmi della cittadina rinforzarono la scorta. Per prima cosa dovevano condurmi al commissariato, perché il mio processo si sarebbe svolto alle quattordici. Salendo sulla camionetta, intravidi uno dei miei amici. Fece il gesto di buttare la sigaretta. Quel gesto mi riscaldava il cuore. Tutto era pronto per la mia evasione. Dovevo solo aspettare qualche ora. Rémy aveva mantenuto la promessa come solo i veri amici sanno fare. Per lui provavo l'affetto di un fratello e lui lo ricambiava abbondantemente. Mi portarono alle celle. Sentii il capo scorta dire ai suoi uomini: - Soprattutto non gli aprite. A nessun costo. Verso le tredici si aprì la porta. Era lui con un panino in mano. Per i detenuti non era previsto il pranzo. Lo aveva comprato con i suoi soldi. Quel semplice gesto di umanità avrebbe pesato molto al momento dell'azione e forse gli avrebbe salvato la vita. Mi tese il panino. - Tenga, Mesrine, le ho comprato questo. Lo ringraziai. Arrivò l'ora della partenza per il tribunale. Prima, mi perquisirono nuovamente e mi misero due paia di manette, cosa che mi fece sorridere. Un solo paio, ma sulla schiena, sarebbe stato più efficace. Il capo mi disse: - Allora, Mesrine... Questa volta è a vita. Non c'era provocazione nelle sue parole, solo una constatazione che per lui era evidente. Gli risposi con lo stesso tono leggero: - A meno che il giudice, fra un po', non mi conceda la libertà provvisoria.

- Bah! Almeno è su di morale! Volevo distendere il clima. La conversazione provoca sempre un allentamento della vigilanza. Avanzavo, una pedina dopo l'altra. Giocavo una partita che ero il solo a conoscere. Prima dell'azione mi restava meno di un'ora. Ci dirigemmo verso il tribunale. Nel momento in cui la camionetta entrò nel cortile, dal finestrino vidi il mio amico Rémy. Portò la mano all'altezza degli occhiali da sole. Le armi erano al loro posto. Toccava a me agire. Mi sentivo calmo e in piena forma. Mi fecero entrare nel tribunale. Il mio avvocato, Smadja, era ben lontana dall'immaginare che presto avrebbe perso il suo cliente. Mi fece sapere che tra quindici minuti sarebbe toccato a noi. Ora era il mio turno di gioco. Girandomi verso il capo scorta, con voce lamentosa gli dissi: - Capo, mi sta succedendo di nuovo... Deve accompagnarmi in bagno. Tutto il problema era lì. Sapevo che l'arma era stata messa sullo sciacquone dei bagni del primo piano, normalmente riservati ai giudici e agli avvocati. I gendarmi mi portarono nel cortile dove c'erano i bagni aperti al pubblico. Avevo previsto quella eventualità. I miei amici, prima del mio arrivo, vi avevano tolto tutta la carta igienica. Arrivati sul posto, il capo mi aprì la porta del primo cesso. Mi aveva prima tolto un paio di manette e mi aveva attaccato al braccio di uno dei suoi uomini. Lo guardai, come se fossi sorpreso: - Non c'è la carta igienica. Mi aprì la porta del cesso vicino. Feci finta di essere furioso. La mia fama fece il resto. - Ehi! Capo... Mi prende per scemo! Anche qui non c'è carta, e guardi com'è sporco! Riportatemi in tribunale. - Ma... - Senza ma!... Se mi cerca, mi trova; non mi piace che mi si creino problemi, OK? Vedevo che aveva paura delle mie reazioni. Gli avevano detto: «Attenzione, è pericoloso!». Conciliante, con i suoi uomini mi riportò all'interno del tribunale. A ogni costo dovevo arrivare ai gabinetti del primo piano. Non potevo fargli una domanda diretta senza destare la sua diffidenza. Dovevo

trovare uno stratagemma. Sapevo che avevano paura di me. Con voce rude interpellai il cancelliere del tribunale: - I vostri cessi sono schifosi... Non ce n'è di più puliti qui? Lo vedevo esitare. Da parte loro cominciavano a innervosirsi anche i gendarmi. Si avvicinò anche il mio avvocato per chiedere che cosa succedesse. Ne approfittai per dire al cancelliere: - Ha detto di sopra? Gli avevo rinfrescato la memoria, senza che gli altri si fossero resi conto che in realtà lui non aveva detto proprio niente. Soddisfatto e troppo contento di farmi piacere, affermò: - Sì, di sopra... Al primo piano... ed è pulito. Girandomi verso il capo scorta: - Ce n'è uno al primo piano... Portatemi di sopra. - Non abbiamo più tempo, Mesrine. - Ci prenderemo tutto il tempo... Ho mal di pancia e non ho voglia di andare davanti al giudice in questo stato. Se no, nessun processo, faccio casino. Volendo evitare ogni scandalo, accettò. - D'accordo, d'accordo... Ci andiamo, Mesrine... Non s'innervosisca. Mi fecero salire. A ogni gradino che facevo, l'azione si avvicinava. Non potevo sequestrarli lassù senza fare un massacro. Ero certo che, anche se ero armato, il capo scorta mi sarebbe saltato addosso, il mio istinto mi aveva avvertito. Volevo evitare ogni violenza. C'erano due cessi al primo piano. Sapevo che in ciascuno c'era un'arma. Lo sciacquone era molto in alto. Non si poteva vedere cosa c'era sopra. Temevo che il capo scorta frugasse i cessi come aveva fatto in treno. La porta del primo era aperta. Rapidamente mi infilai dentro, non lasciandogli tempo per opporsi. - Mi sbrigo subito, capo... Mi toglie le manette?

Ma le cose non andarono come volevo. Non solo mi lasciò ammanettato al suo collega, ma tenne la porta aperta. In quelle condizioni, mi era impossibile prendere l'arma. Girandomi verso il gendarme al quale ero legato, con cattiveria e volgarità gli dissi: - Cominciamo bene... Sei finocchio o che cosa?... C'è da credere che ti piace respirare l'odore di merda! Dai, chiudi la porta. Il suo capo, vedendomi nuovamente infuriato, acconsentì. Se la situazione non fosse stata drammatica, sarebbe stata comica. Accostarono la porta e solo il braccio del gendarme al quale ero ammanettato si trovava all'interno della toilette. Tirai al massimo, perché non volevo che, quando fossi salito sul cesso per prendere l'arma, si accorgesse del movimento. Senza fare rumore, riuscii a prendere la Luger calibro 9. Sapevo che aveva già il colpo in canna. I gendarmi, dietro la porta, non sospettavano nulla. Provavo una gioia intensa perché, con un'arma tra le mani, sapevo che solo morto avrebbero potuto fermarmi. Misi l'arma alla cintola, all'altezza dell'anca. Poi feci rumore di carta stropicciata e tirai lo sciacquone. Il gendarme aprì la porta. - Finito? - Sì, signore, grazie. Possiamo ridiscendere. Con l'arma al fianco e scortato dai gendarmi, raggiunsi il tribunale. Sul mio viso niente lasciava trasparire quel che era successo. Prima che fosse il mio turno mancava ancora qualche minuto. Mi fecero sedere con due gendarmi da un lato e tre dall'altro. Nella sala delle udienze ce n'erano altri, che erano lì per altri detenuti. Speravo che, quando fosse toccato a me, mi avrebbero tolto le manette, come la legge prevedeva. Il cancelliere annunciò: «Causa Mesrine». Mi fecero alzare. Guardando il capo scorta e mostrandogli la mia mano sinistra ancora ammanettata, gli dissi: - Deve staccarmi... Non vorrà che vada così dal giudice! - Non se ne parla proprio. E' lui che lo ha ordinato. Non avevo più scelta, adesso o mai più. Ero in piedi, di fronte al giudice, con la mano sinistra attaccata a un gendarme che non aveva più di trent'anni, che era sicuramente addestrato e che era più grande e più pesante di me. Avevo dietro di me quattro suoi colleghi a meno di un metro di distanza. Il mio avvocato mi era accanto. Nel momento in cui il presidente cominciò a leggere le frasi di rito, dicendo: «Signor Mesrine, lei compare per...», con gesto rapido tirai fuori l'arma e la

puntai nella sua direzione, a qualche centimetro dalla sua testa. Avevo urlato il mio ordine: - Tutti a terra... o uccido il giudice! Poi, rapidamente, mi girai verso il gendarme che mi stava attaccato e, tirandolo a me e trascinandolo verso la pedana, gli appoggiai la Luger sulla tempia. In meno di due secondi mi trovai dietro il presidente. Il gendarme si era buttato per terra supplicandomi di non ammazzarlo. I suoi colleghi, paralizzati dalla rapidità dell'azione, cominciavano solo adesso a comprendere tutto il dramma. Avevo appoggiato l'arma alla nuca del presidente e avevo ordinato all'agente che era attaccato a me di liberarmi la mano. Lo fece rapidamente. - Vattene! Si allontanò a quattro zampe. La manetta pendeva dal mio polso sinistro. Adesso ero libero di muovermi. Con la mano sinistra avevo preso per il colletto il presidente. I suoi due assistenti non si erano mossi. In sala tutti si erano buttati per terra, salvo i gendarmi che avevano tirato fuori le loro armi, meno il capo scorta. Per loro era impossibile sparare senza ferire il giudice. Il capo scorta mi si avvicinò. La pedana aveva tre gradini e lui aveva già il piede sul primo. Nei suoi occhi lessi la determinazione. Sperava di avvicinarsi abbastanza da potermi saltare addosso. Sarei stato obbligato a ucciderlo. Se avesse avuto l'arma in mano lo avrei fatto. Il tipo non era incosciente, ma coraggioso. Dovevo fare in fretta. Puntando nuovamente l'arma alla nuca del presidente, gli gridai: - Un passo in più e uccido il giudice. E, per sottolineare la minaccia, sparai un colpo verso il soffitto. La confusione era al massimo. I gendarmi scapparono in tutte le direzioni. Nella sala delle udienze non ce n'era più nemmeno uno. Tenendolo per la collottola lo sollevai. - Andiamo, Vostro Onore... Offro io il viaggio. - Non le servirà a niente - mi disse. - Allora morirai con me. Andiamo.

Attraversammo la sala delle udienze in mezzo a una foresta di piedi e di facce a terra. La mia arma era appoggiata alla sua nuca. Dopo aver superato diverse porte, ci trovammo nel cortile del palazzo di giustizia. Molti gendarmi erano appostati e mi tenevano sotto tiro. Per arrivare all'uscita dovevo fare una trentina di metri. Senza esitare avanzai con l'arma sempre puntata alla nuca del giudice. Se sparavano un solo colpo verso di me abbattevo il giudice sul posto. La mia minaccia era molto reale e i gendarmi l'avevano ben compreso. Ero in mezzo al cortile quando, ancora una volta, il capo scorta tentò di avvicinarsi, ma stavolta con l'arma in mano. Con un gesto rapido gli sparai un colpo a qualche centimetro dalla testa. Si gettò per terra. Era il mio ultimo avvertimento. Non era certo il caso di portarmi dietro il giudice come ostaggio. Lo avevo preso come scudo solo per evitare un massacro. Ma non avevo certo paura di tentare la fortuna una volta in strada. Sapevo il rischio che correvo lasciando il giudice. Arrivato al portone d'ingresso, vidi un altro gendarme che mi prendeva di mira. Avrei potuto abbatterlo, ma mi accontentai di spostare il giudice per impedire all'uomo di sparare. Con lui la partita era solo rinviata. Ero arrivato in strada. Brutalmente spinsi di lato il giudice e mi misi a correre sulla destra, sapendo che una macchina mi aspettava alla fine della strada. Non avevo fatto neanche venti metri quando, alle mie spalle, iniziò la sparatoria. Nella mia corsa sentii una pallottola che mi colpiva al braccio destro. Mi gettai a sinistra e attraversai correndo la strada; non sentivo altro che gli spari, ma non mi girai neanche. Arrivato alla fine della strada, una macchina aprì la portiera. Rémy era al volante. Nel momento in cui entravo nel veicolo, una camionetta della gendarmeria giunta di rinforzo arrivò da sinistra. Riconobbi immediatamente il capo che aveva scherzato con me sulla mia condanna a vita. Ignorandolo, gridai a Rémy: - Fai in fretta... Sono ferito. La camionetta tentò di tagliarci la strada. Rémy accelerò e riuscì a sgusciare sulla sinistra. L'autista accelerò per tentare di stringerci contro le macchine parcheggiate. Mal gliene incolse. Avevo sporto la mano dal finestrino. Sparai tre colpi. Ebbi solo il tempo di vederlo accasciarsi al volante mentre Rémy prendeva la curva su due ruote. Avevo appena compiuto la mia terza evasione. Ma a quale prezzo! - Ben fatto... - mi disse Rémy passandomi un'automatica con caricatore da venti pallottole. E aggiunse: - Dietro c'è una borsa con una parrucca rossa e degli occhiali. Ci sono anche

due bombe a mano e una mitraglietta Mauser. La tua ferita è grave? - No, a posto. Grazie, amico... Non lo dimenticherò mai. - Lascia stare. E' normale. Poi, passandomi un sigaro Robert Burns: - Tieni, vecchio mio, te lo sei meritato. Avevo sempre la mia manetta al polso sinistro. Ciò mi avrebbe procurato un'imputazione per furto di materiale dell'amministrazione. Per precauzione Rémy aveva portato il nostro mazzo di chiavi false per manette. Non ebbi alcuna difficoltà a sbarazzarmene. Avevamo previsto tutto. La fortuna aveva fatto il resto. Avendo preso soltanto strade secondarie, evitammo tutti i posti di blocco che la mia azione aveva fatto mettere in campo. A Meaux cambiammo auto e dopo una ventina di chilometri arrivammo alla proprietà di un amico che mi avrebbe ospitato per una settimana, giusto il tempo di lasciare che la polizia arrancasse sulle piste false che sarebbero arrivate da ogni dove. La casa di Robert era isolata. Quando vide la nostra auto aprì il cancello. Si precipitò verso di me e lanciò un «Merda!» vedendo il sangue che colava dal mio braccio destro. - Vieni che lo curiamo subito!... Che impresa! Tutte le radio parlano della tua evasione. In tutta la Francia è stato dato l'allarme generale. Dicono che hai sparato a uno sbirro e che è tra la vita e la morte. Dio mio, come sono contento di rivederti! Eravamo entrati in cucina. Mi ero tolto la giacca e la camicia. Robert era andato a prendere l'occorrente per curarmi. La pallottola era rimasta nel bicipite, ma non mi faceva male. Guardando Robert dissi: - Puoi estrarmela? - Se non è entrata troppo profondamente, sì. Ho tutto quel che serve per l'anestesia locale. Tutto è stato previsto, come aveva chiesto Rémy... Sapevamo che rischiavi di prenderti del piombo, ma, Dio mio, è stata proprio una bella evasione! Una volta estratta la pallottola e bendato il braccio, fu servito lo champagne. Feci una telefonata a Joyce. Per il momento non era ancora

pericoloso, la mia evasione risaliva solo a due ore prima. - Pronto... Sì, bambina, sono io. Sì, tutto è andato bene. Mi chiese se poteva raggiungermi immediatamente. - Impossibile... Quando? Tra una ventina di giorni. Non ti preoccupare, quel giorno, sarai prelevata dai miei amici. Nell'attesa, spostati continuamente, avrai dietro tutta la polizia. Ciò mi aiuterà. No, non sono ferito... Non ti preoccupare, OK? Anch'io ti adoro. A presto e fai esattamente come ti ho detto. Riappesi. La sera stessa ero l'uomo più ricercato di tutta la Francia e appresi dalla televisione che lo sbirro ferito se la sarebbe cavata. Mi descrivevano come un uomo molto pericoloso e pronto a tutto. Il nemico pubblico numero uno. L'uomo da abbattere. In compagnia dei miei due amici mi sentivo rivivere. La prigione della Santé mi aveva avuto solo tre mesi... Avevo mantenuto la mia promessa. Con Robert e Rémy ci mettemmo subito a parlare d'affari. Avevano una dritta sulle buste paga di una fabbrica. Una trentina di milioni di vecchi franchi (62000 dollari). Dovevo preparare il colpo che avremmo realizzato una quindicina di giorni dopo. Nell'attesa, non dovevo far altro che rimanere tranquillo per una settimana. Ero andato a Parigi per studiare la cosa. Si trattava della tipografia Lang al 17 di rue Curial. Secondo le nostre informazioni, quattro uomini lasciavano l'ufficio della contabilità con la paga imballata in pacchetti. Costeggiavano il muro interno dell'azienda e dovevano attraversare rue Curial sulla loro destra per raggiungere l'altro edificio che stava di fronte. Su quattro persone, era possibile che una fosse armata. La rapina doveva essere fatta tra le dieci e le undici del mattino di un giorno che ci sarebbe stato indicato. In quel punto, la strada si allargava. Cosa che permetteva, parcheggiando una camionetta, di tenere d'occhio tutto il muro e di vedere arrivare gli uomini con la paga. Una sola cosa mi preoccupava: proprio in quel luogo, c'era una scuola. Non volevo correre rischi, se qualcosa fosse andato male. Presi dunque la decisione di non intercettare i quattro uomini quando attraversavano la strada, ma di bloccarli all'interno dello stabilimento, dalla parte del muro. Per noi era più rischioso. Ma, se il lavoro veniva fatto come avevo previsto, tutto avrebbe funzionato perfettamente. Per la nostra fuga avremmo preso il vicolo Degrais, che dava sulla rue Curial e su un'altra strada e ci avrebbe permesso di coprirci bene la fuga, anche in caso di

arrivo della polizia. Ci riunimmo tutti nella villa di Robert. Da tre giorni Rémy era all'estero. Non poteva quindi partecipare alla rapina. Avevo studiato un piano di massima e ognuno dei miei amici era andato sul posto per rendersi conto personalmente. Dopo la mia evasione ero irriconoscibile. Portavo la barba che avevo tinto di rosso così come i capelli tagliati molto corti. Con i miei finti occhiali neanche mia madre mi avrebbe riconosciuto. Questa volta non era certo il caso di lavorare a viso scoperto. Anche colui che mi aveva dato la dritta doveva partecipare alla rapina. Fu quindi deciso che avremmo entrambi indossato caschi blu da motociclista e tute dello stesso colore. Gli altri due si sarebbero finti imbianchini con tute bianche, cappelli di carta in testa e il secchio del colore in mano. I due falsi imbianchini dovevano passare davanti ai quattro uomini come se andassero a fare un lavoro all'interno dell'azienda. Il mio amico e io, nascosti in una Estafette, saremmo intervenuti in quel momento. I quattro uomini si sarebbero così trovati completamente circondati, senza alcuna possibilità di fuga. A Robert dissi: - Tu preparami una Estafette. Dipingi i vetri dietro di blu. Gratteremo solo un angolo per poter vedere l'arrivo degli uomini con le paghe. I due imbianchini resteranno fuori vicino alla camionetta. Vorrei anche una coperta che metterò dietro i sedili anteriori perché non si possa vedere all'interno dell'Estafette. Per armamento solo pistole, nessuna mitraglietta. Sarò io il solo con un'automatica calibro 12 a canne mozze e caricata a pallettoni numero 9. Darò il segnale dell'azione e farò da copertura durante lo sganciamento. Non dovremmo avere sorprese. Il tutto può essere fatto in trenta secondi. Non voglio alcuna violenza sui contabili. Mi occuperò di quello che non ha pacchetti. Sicuramente è lui che fa da scorta ed è armato. Li sbatteremo contro il muro e li frugheremo prima di andarcene. Non vorrei che uno di loro avesse la vocazione dell'eroe. D'accordo su tutto ci lasciammo fino al giorno fissato... cioè quattro giorni dopo. La vigilia della rapina avevo fatto piazzare la vettura del cambio macchina al posto che avrebbe dovuto prendere l'Estafette il mattino dopo, per essere sicuri che fosse libero. Era quella la base del successo. L'Estafette era parcheggiata a trecento metri dal luogo della rapina. Tutto al suo interno era pronto. Ciascuno per conto proprio, prendemmo il metrò per arrivare all'appuntamento, fissato alle otto del mattino. Uno alla volta entrammo nella camionetta. Robert e un altro amico si vestirono da imbianchini. Erano loro a doversi sedere nei posti anteriori. Un altro complice era andato a piedi a raggiungere la macchina parcheggiata la vigilia. Doveva mettersi al volante e, quando ci avesse visto arrivare,

lasciarci il posto per andare a piazzarsi nella stradina che dava sul vicolo Degrais. Tutto andò come previsto. Eravamo sul posto. Erano le otto e mezza. La strada era a senso unico e non avemmo alcun problema a parcheggiare. Robert spense il motore dell'Estafette e discese con l'altro uomo. Sembravano veri imbianchini, in piedi davanti alla camionetta con i secchi di vernice posati a terra. Non restava che attendere. Avevamo preferito arrivare con un buon anticipo, in caso di difficoltà inattese. Io ero all'interno dell'Estafette, con il casco con la visiera scura. Era impossibile riconoscermi. I miei amici erano al mio fianco. Avevo posato il fucile su un mobile che c'era dentro il veicolo il giorno che era stato rubato. Erano quindici giorni che ero evaso ed ero già al lavoro. Nel frattempo gli sbirri mi cercavano dappertutto, meno che a Parigi. L'attesa fu lunga. Dallo spazio che avevamo grattato sul vetro potevamo vedere la tipografia in tutta la sua lunghezza. Eravamo certi di vederli arrivare da lontano. Fuori, i miei amici fumavano dandosi un'aria naturale. Davanti a loro dei bambini giocavano nel cortile della scuola. Alcuni operai stavano facendo dei lavori. Erano due ore che eravamo sul posto. Rivolgendomi a quello che mi aveva dato le informazioni: - Sei sicuro che è per oggi? - Sì... Sicuro, non dovrebbero tardare. Nello stesso momento bussarono sull'auto. Era il segnale. Guardando dallo spazio del vetro li vidi. Erano in quattro e venivano verso di noi. Tre di loro avevano dei pacchetti in mano. Erano a cinquanta metri da noi. - Sono loro - mi disse il mio amico. Non guardavo più dal vetro. Il mio amico doveva segnalarmi la distanza che li separava dall'Estafette. I due falsi imbianchini dovevano andare verso di loro quando erano a trenta metri. - Gli imbianchini si sono mossi... trenta metri... venticinque venti... vai! Ero balzato fuori dall'Estafette, con il mio amico al seguito, una borsa militare in una mano e l'arma nell'altra. Gli imbianchini li avevano appena sorpassati. La trappola si era chiusa. I quattro uomini mi videro di fronte a loro, con l'arma puntata nella loro direzione. - Non vi muovete... Posate il denaro per terra... e faccia al muro. Non avevano neanche avuto il tempo di capire cosa stesse succedendo che i due falsi imbianchini gli erano addosso e li avevano già spinti contro il

muro. I tre pacchetti erano per terra. Il mio amico li raccolse e li mise nella borsa. Robert sorvegliava tutta l'azione mentre io perquisivo rapidamente i due uomini. Nessuno di loro aveva armi. - Non fate stupidaggini... Restate calmi. Alcuni operai che avevano assistito all'aggressione si erano avvicinati a noi. Robert andò loro incontro, arma in pugno, e li obbligò a entrare in un capannone. Le paghe adesso erano nella borsa. Gridai ai miei amici: - Finito... Andiamocene. Tutti e tre attraversarono la strada sulla destra per imboccare il vicolo Degrais. Solo allora li raggiunsi, dopo essermi assicurato che nessuno ci seguisse. Un operaio che ne aveva l'intenzione vide il gesto che gli feci con la mano e non insistette. Dall'altro lato del vicolo ci attendeva l'auto. Partì tranquillamente. Ci togliemmo i travestimenti e mettemmo tutto in una borsa assieme al fucile che avevo scaricato. Il nostro autista ci lasciò al metrò e andò ad abbandonare la vettura più lontano. Arrivati a uno dei nostri nascondigli, aprimmo i pacchetti. I soldi c'erano tutti, una trentina di milioni di vecchi franchi in banconote e una grande quantità di assegni che non avevano alcun interesse per noi. Robert mi batté amichevolmente sulla testa. - Contento, Jacques? - Sì, molto contento... Un bel lavoro... Nessun errore. - Non hanno perso tutto, gli ho lasciato i barattoli di vernice. Potranno sempre ridipingere il muro. Scoppiammo a ridere. Dopo aver bevuto uno scotch per festeggiare l'azione, ci separammo. A Parigi avevo un nascondiglio. Era la casa di un ragazzo che era all'estero e che aveva lasciato le chiavi a uno dei miei amici. Costui mi aveva proposto di usare l'alloggio durante l'assenza del ragazzo. Non potevo restare eternamente a Parigi. Mi avevano trovato una casa in affitto a Trouville.

Prima di tutto dovevo fare due cose: recuperare Joyce che sapevo pedinata e, soprattutto, avere notizie di mio padre che non avevo più rivisto. Non potendo telefonare a casa sua, mandai un amico a organizzare un appuntamento. Il mio amico ritornò, scuro in volto. - Tuo padre è gravemente malato. E' all'ospedale. Mi si strinse il cuore. Dovevo vederlo. - Ho tutte le informazioni. So dov'è, ma se ci vai cadrai in una trappola della polizia... Non fare lo stupido, Jacques, è troppo rischioso. - Non me ne frega niente... E' mio padre, bisogna che lo veda. - Non devi. Tanto per lui come per te. Andrò a trovarlo per te, se vuoi, ma non fare questa pazzia. - E' un problema mio... Lasciami in pace. Ci andrò in ogni modo. Trova due amici per farmi da copertura fuori e una macchina. Comprami un camice bianco nuovo, quelli degli imbianchini sono conciati male. Comprami anche uno stetoscopio. - Ma sei pazzo o cosa? - Ascolta, con il mio nuovo aspetto non possono riconoscermi. Con camice e stetoscopio al collo, mi scambieranno per un medico. Andrò all'ora dei pasti o subito dopo. Tu scoprirai qual è la sua stanza e mi farai una mappa con tutti i dettagli. Può darsi che non ci siano poliziotti. - Tutto questo per vedere tuo padre! - Sì, tutto questo per mio padre... Non ci sarà un'altra occasione, lo so. Non puoi capire. - D'accordo, Jacques, farò come vuoi. Ma dovremo andare ben armati. - Se gli sbirri cercano di arrestarmi sul posto, sparo nel mucchio. Niente e nessuno m'impedirà di andare, lo capisci? Avevo lo sguardo duro e il mio amico, che mi conosceva bene, sapeva che

niente mi avrebbe fatto cambiare idea. Due giorni dopo, vestito col camice sbottonato per meglio afferrare la mia colt 45 in caso di bisogno, entrai nella clinica. I miei amici erano al loro posto e non avevano visto niente di sospetto. Dopo aver percorso diversi corridoi, arrivai davanti alla porta della sua stanza. Tutto sembrava normale. Aprii dolcemente, sperando solo di non trovarmi faccia a faccia con uno sbirro. Lui era lì, coricato, gli occhi fissi sulla porta. Nel suo sguardo lessi il pensiero che gli attraversava la mente: «Questa faccia mi dice qualcosa». Poi s'illuminò. - Tu? Mi misi un dito sulla bocca per imporgli il silenzio. Arrivato al suo capezzale, lo abbracciai. Per questo semplice gesto d'affetto avevo rischiato molto. Ma, adorando mio padre, sapevo di essere stato un cattivo figlio e forse ero venuto a chiedere perdono per le sofferenze che la mia vita avventurosa gli aveva procurato. Come due cospiratori parlammo a bassa voce. - Non saresti dovuto venire. - Dovevo, papà. - Perché, figliolo? - Per me. Lo guardai. Era dimagrito più di trenta chili. Sentivo che era sfinito, ma non vinto. Gli presi la mano. - Sì, papà... Per me. Per la prima volta vidi i suoi occhi inumidirsi. Si tratteneva per non piangere. Avrei dato la mia vita, purché vivesse, ma il mondo dei sogni bisogna lasciarlo ai bambini. Eppure, di fronte a mio padre, mi sentivo piccolissimo. Non ero più il temibile bandito, ma semplicemente un bimbo sfortunato di fronte alla morte inevitabile della persona che aveva più cara. Mi batté amichevolmente su una guancia.

- Grazie, piccolino... Sì, capisco... Ma adesso devi andartene. Soprattutto, stai attento. Sì, dovevo andarmene. Lo strinsi forte tra le braccia. - Addio, papà. - Sì... Addio, piccolo mio. Entrambi sapevamo bene che non ci saremmo più rivisti. Uscendo dalla stanza per imboccare il corridoio, non mi ero più girato. Piangevo... E' stupido, un nemico pubblico che piange. Non mi era più successo da quando avevo dodici anni. Fu l'ultimo omaggio all'uomo, al gentiluomo che mio padre era stato per me. Quando salii nella macchina che mi aspettava, i miei amici capirono che non dovevano cercare di parlarmi e partirono senza dire una parola. Abbandonammo l'auto, rubata, in un parcheggio. Due mesi dopo, mi fecero sapere che mio padre era morto... Qualcosa sarebbe morto anche in me e avrebbe cambiato certe mie reazioni, ma per il momento speravo ancora in un miracolo. I giorni che seguirono alla mia visita in clinica furono dedicati a preparare il recupero di Joyce, che sapevo seguita da un buon numero di sbirri. Ciò fu fatto senza alcuna difficoltà, utilizzando un palazzo con due uscite e una macchina che l'aspettava dall'altro lato. Ero evaso da ventun giorni. Joyce mi amava di un amore folle e la mia ultima impresa, ai suoi occhi, faceva di me un supereroe. Mi ci volle molta pazienza per riportarla alla realtà. - Ascolta, bambina... Noi due insieme, è bellissimo. Ma dobbiamo lasciarci. Se tu resti al mio fianco, questa volta ti rovini la vita. Gli sbirri hanno sicuramente ricevuto l'ordine di sparare a vista. Non voglio che tu ci sia quando succederà. In più, Janou sarà presto estradata in Francia per una vecchia storia di rapina a mano armata. Resterò per aiutarla e per farla evadere, se lo vuole. Fin dall'inizio ti avevo messo al corrente delle mie intenzioni. Ti preparerò dei documenti perfetti. Ti porteranno in Inghilterra e da lì partirai per il Canada. Avrai tutto quel che ti serve. Nessun problema... Continuavo a spiegarle. Non mi rispose, ma leggevo la sofferenza nei suoi occhi. Non piangeva, era troppo orgogliosa per farlo. Una volta terminata la

spiegazione, la sua unica frase fu: - Non mi ami più. - Sì, ti amo... Ma non ti rispetto. - E rispetti Janou? - E' così, ragazzina... E non voglio essere obbligato a dover fare una scelta... Janou è la mia vita. Tu sei di passaggio. Non ho barato con te, non barerò con lei. - Per quanto tempo ancora resterai con me? - Più di un mese, mia bella canadese... - Allora, approfittiamone... Ci sistemammo a Trouville. Diversi amici erano venuti per proteggermi. Avevo preso l'abitudine di andare in un ristorantino di rue des Bains. Avevo fatto amicizia con la padrona che era molto lontana dall'immaginare la mia vera identità. Alcuni poliziotti della cittadina vi pranzavano. Fu così che mi presentarono l'ispettore Fortier. Questa storia mi divertiva e, verso mezzogiorno, andavo sempre a prendere l'aperitivo con lui. Gli avevo lasciato credere che ero un uomo d'affari. Nel mio modo di comportarmi non c'era niente di sospetto. Prendendomi per un buon cittadino, faceva il buon poliziotto. Ma ciò che mi divertì di più fu il suo: «Se un giorno avrà bisogno di me, non si faccia problemi». Era l'unico poliziotto francese ad avere in tasca la foto dell'uomo più ricercato di tutta la Francia e ad avere il privilegio di stringergli la mano tutti i giorni. L'episodio che mi fece più sorridere fu quando parlò della sua professione e degli uomini più pericolosi e fece il mio nome. I miei ammirati «oh!» e «ah!» davanti alle sue affermazioni non valevano certo il «Ah! Merda, non è possibile!» che profferì quando, dopo il mio arresto, apprese la mia vera identità. Ma non ero là ad assistere. Il 9 agosto ritornai a Parigi. Il Crédit Lyonnais dell'avenue Bosquet era il mio obiettivo. Alle tre del pomeriggio, salii i gradini della banca. Non ero mascherato, solo camuffato, e i miei due amici lo stesso. L'arma alla cintola, mi diressi verso la cassa, che era in fondo alla banca, a sinistra.

La cassiera mi guardò con aria interrogativa: - Desidera? Avevo tirato fuori l'arma e, attraverso lo sportello, gliela puntai addosso. - Calma, bella mia... Indietreggia e aprimi la porta, senza far suonare l'allarme, OK? Obbedì. La banca era grossa. Uno dei miei amici era rimasto davanti alla porta e teneva l'arma vicino al corpo, senza mirare a nessuno in particolare. Doveva lasciar entrare tutti, ma non fare uscire nessuno. L'altro amico mi serviva da copertura. Avevo fatto il giro del bancone Arrivato alla cassa, cominciai a riempire la borsa con le mazzette di banconote che c'erano. C'erano diverse caselle chiuse a chiave. Feci segno alla cassiera. - Aprimi la riserva. - Io non sono la cassiera principale. Non so se... - Apri le casse! Prese le chiavi da un vasetto di ceramica a fianco della cassa e obbedì. Vidi una busta del ministero delle Finanze. La presi. Al bancone, un cliente aveva l'aria di divertirsi della situazione; così non era per il direttore. Vedevo che esitava a dare l'allarme. Fu la cassiera che accidentalmente, aprendo una cassaforte e poggiando il piede sul pulsante, diede l'allarme. Più sorpresa di me, ebbe paura della mia reazione. Ciò non mi impedì di prendere le ultime mazzette di banconote. - Non aver paura, cara... Mi piace lavorare con la musica. Al momento di uscire dalla cassa, vidi a terra una donna che aveva perduto conoscenza; i suoi colleghi tentavano di rianimarla. Tranquillamente, diedi il segnale di partenza. Uscimmo dalla banca, l'arma infilata nella cintura e, come tutti gli altri passanti, ci guardavamo attorno per cercare di capire da dove venisse la sirena. Questo era il grande vantaggio di lavorare a viso scoperto. Con i miei amici imboccai subito un vicolo alla nostra destra. Portava a un boulevard dove ci aspettava una macchina con un uomo al volante. Girandomi vidi degli uomini che ci seguivano. Riconobbi quello che pensavo fosse il direttore. Per noi non rappresentavano alcun pericolo, ma erano

imprudenti a correre un tal rischio. La nostra auto partì tranquillamente. Una volta ancora mi girai. - Hanno fermato una macchina e ci seguono - dissi all'autista. L'inseguimento non durò molto. Li seminammo al primo semaforo. Lasciammo la nostra auto qualche traversa più lontano e tranquillamente prendemmo il metrò. Una quindicina di milioni di vecchi franchi avevano cambiato padrone. La sera stessa ero di ritorno a Trouville.

Da due settimane sapevo che Janou era in prigione a Fleury-Mérogis. Alcuni amici canadesi, con cui ero in contatto permanente, mi avevano avvisato della sua partenza e mi avevano fatto sapere che Janou mi chiedeva di non fare niente per lei, che preferiva pagare una volta per tutte il suo debito alla società. In ogni modo, all'aeroporto di Orly non avrei potuto tentare niente senza provocare un massacro. Il commissario Tour e i suoi uomini l'avevano accolta con tutti gli onori che il suo passato, e la mia presenza fuori, non mancavano di esigere. Avevo intenzione di lasciar passare due mesi prima di contattarla per chiederle se voleva che la tirassi fuori da Fleury. Non ne avrei avuto il tempo. Certe volte uno fa entrare il lupo nell'ovile. Accadde quando mi presentarono Pierre Verheyden. Mi dava l'idea di un bravo ragazzo. A poco a poco, divenne mio amico e arrivammo a discutere di affari. Conosceva molto bene il lavoro dei bar. Gli feci la proposta di acquistarne uno a Trouville, se voleva farmi da prestanome. Fu felice della proposta e aggiunse che gli sarebbe piaciuto guadagnare tanti soldi come me. Attesi un po' per metterlo a parte delle mie attività. Prima di tutto volevo metterlo alla prova. All'inizio di settembre, ritornai a Parigi. Avevo tre nascondigli e dovevo affittarne un quarto. Ne approfittai per rapinare la banca di place Jessaint, vicino al metrò La Chapelle... Tutto filò liscio. Trenta minuti dopo, mentre la polizia faceva i primi rilievi, noi rapinavamo un'altra banca sul boulevard Gouvion-Saint-Cyr. Mi piaceva quel metodo di «doppiare» le banche. Sarebbe stata la causa indiretta del mio arresto. Per Joyce era arrivata l'ora della partenza. Mi supplicò di seguirla. Il mio amico Robert doveva portarla in Inghilterra e seguire le mie istruzioni per la

sua partenza per il Canada. Per lei avevo previsto due serie di documenti. Avrebbe passato la frontiera con un nome e avrebbe preso l'aereo con un altro. Le avevo dato una grossa somma di denaro. Aspettavo solo Robert. Arrivò a mezzogiorno. Mi diede i documenti di Joyce senza una parola. - Oggi hai una brutta faccia. - Tuo padre è morto. Me lo aveva detto senza prepararmi, ben sapendo che non c'era altro da dire. Mio padre era morto a casa sua, in poltrona, di crisi cardiaca. Era diventato l'ombra di se stesso ed era stato il cuore a cedere, prima che lo divorasse il cancro. Joyce avrebbe voluto venirmi vicino per dirmi qualcosa. La sua valigia era pronta. Dissi a Robert: - Accompagnala, per favore. Joyce avrebbe voluto dire qualcosa. - Caro... Io... - No... Non dire niente. Vai. Su, Robert, accompagnala e segui bene le mie istruzioni, che non le succeda niente. Presi Joyce tra le braccia: - Addio, ragazzina... Voglio stare solo. Quando si chiuse la porta, sapevo che lei avrebbe sempre rimpianto quella partenza, perché il suo amore per me era sincero. Ma non era fatta per vivere la parte brutta dell'avventura. Ero solo. Mi coricai sul mio letto per piangere la morte del mio migliore amico: mio padre. Il mio dolore era terribile. Nessuno dei miei amici venne a trovarmi, sapendo che avevo bisogno di solitudine. Forse solo in quel momento capii quanto la morte può far male a chi resta. In nome della mia legge avevo ucciso degli uomini. Quante madri, quante mogli avevano provato quella sofferenza che ora mi torturava il cuore e ciò per colpa mia: uccidendo i miei nemici, non avevo ucciso anche loro? Era un po' tardi per accorgermi che avevo una coscienza. Sapevo che non potevo ingannare me stesso. Ero una belva e, nel mio ambiente, il mattino dopo, lo sarei stato di

nuovo, senza pietà. Il terzo giorno venne a trovarmi uno dei miei amici. - Ti porto a Trouville. Bisogna cambiare aria - mi disse. Aveva ragione. Lo seguii. Avevo conosciuto una barista, una ragazza carina, e le poche parole che ci eravamo scambiati mi dicevano che aveva la testa a posto. Era chiamata Francine, ma io la chiamavo «Bel faccino». Era simpatica e tosta. Quando mi vide scendere dalla S.M. che avevo affittato a Parigi, le si rischiarò il volto. Capì che ero venuto per lei. Quando quattro giorni dopo tornai a casa, lei venne con me. Uno dei miei, nel frattempo, aveva affittato un appartamento in rue Vergniaud. Lei venne a stare da me. Stavamo bene insieme e, se fra di noi c'era del sesso, non c'era vero amore, ma il piacere di stare insieme. Ero tornato nella capitale per organizzare un buon colpo; e il nuovo appartamento affittato era una delle basi operative. Avrei commesso un errore imperdonabile, per amicizia. Robert mi venne a trovare e mi presentò uno dei suoi amici intimi. Lo trattai come se fosse Robert in persona. - Sai, Jacques, il mio amico è al verde. Gli piacerebbe fare una rapina con te. - Senti, posso prestargli dei soldi. Rifiutò. Voleva guadagnarseli, il che andava a suo onore. Ma io stavo preparando una cosa grossa e non ero entusiasta di farmi una banca per prendere solo una dozzina di milioni di vecchi franchi. - E poi, potrai mettere alla prova, come autista, Pierre Verheyden - mi disse. Per me una banca era poco più che una formalità. Le rapinavo come altri fanno una commissione. Con chi mi chiedeva questo favore, ero in debito. Finii per accettare. La sera stessa telefonai a Pierre perché venisse a Parigi. Il lavoro che gli offrivo era più che un regalo, perché in certe situazioni era quasi meglio non avere autista. Lui era felice di partecipare. Io, da parte mia, preferivo che fosse coinvolto con noi, prima di comprare il bar. Pierre non conosceva molto Parigi. Gli feci lasciare l'auto alla Porte d'Auteuil e andai a prenderlo. La sera stessa ero un poco esitante a farlo dormire in rue Vergniaud. Poi,

pensando di non correre un gran rischio, accettai che passasse la notte da me. Dovevamo fare il nostro colpo il mattino dopo. «Bel faccino» era andata da una sua amica, ignorando completamente le mie attività. L'avrei dovuta rivedere la sera stessa. Mentre ci dirigevamo verso la prima banca, dentro di me ero preoccupato. Il mio istinto mi diceva che non dovevo andare a rapinare quel giorno, che ci sarebbe stato qualche problema. Ero con due tipi che non avevano mai lavorato con me prima. Per fargli un favore. Il mio amico era anche lui con noi per lo stesso motivo. Tutto andò come sempre e l'allarme che il direttore aveva fatto scattare non ci preoccupava. Il tipo che mi era stato presentato era un professionista, calmo, e lavorava come piaceva a me. Dopo essere rientrati in macchina, dissi a Pierre: - Tutto a posto, ma c'è poco denaro. C'erano solo cinque milioni di vecchi franchi e il triplo in buoni al portatore. - Doppiamo. Avevo previsto di doppiare con una banca di boulevard Barbès. Un ingorgo ci fece perdere cinque minuti, cosa che ci fece arrivare davanti alla banca all'ora di chiusura degli uffici. Pierre parcheggiò l'auto a dieci metri dalla banca. Entrammo. Arrivato allo sportello del cassiere puntai l'arma e gli ordinai: - Indietreggia e apri la porta. Feci il giro del bancone e andai alla cassa. Cominciai a prelevare le prime mazzette e mi accorsi che il sistema d'allarme si attivava se si sfilavano gli ultimi biglietti. Osservai: - Toh!... una trappola per gli stupidi. Fu in quel momento che sentii la voce di Robert che mi diceva: - Merda, ci sono gli sbirri!... Alzai la testa giusto in tempo per accorgermi che i miei due soci erano usciti precipitosamente lasciandomi solo nella banca. Quella situazione non mi gettava certo nel panico. Con calma mi diressi verso la porta. Non era certo

il caso di prendere un ostaggio per coprirmi la fuga. Avevo partecipato a troppi scontri a fuoco per temerne un altro. Li vidi dalla porta. Un furgone di sbirri aveva bloccato il nostro autista, che era ammanettato alla schiena e circondato da tre agenti, uno dei quali armato di mitraglietta. Capii subito che pensavano solo d'aver arrestato l'autista della prima rapina e non sapevano che ne stavamo facendo una seconda. Non potevo abbandonare il mio autista. Essendo a viso scoperto e poiché in banca non era scattato alcun allarme, volevo avvicinarmi sufficientemente per sorprenderli tutti e tre e liberare Pierre. Avrei potuto abbatterli, poiché non guardavano verso di me. Ma avevo abbastanza esperienza per non fare quell'errore, tanto stupido quanto gratuito. Mi avvicinai piano. I miei amici, vedendo cosa facevo, erano tornati per aiutarmi. Tenevo l'arma lungo il corpo. Per arrivargli addosso mi mancavano solo sei metri. In quel momento il direttore della banca uscì dalla porta e si mise a urlare: «Al ladro!». Gli sbirri, sorpresi, lo fissarono e videro che il suo dito era puntato verso di me. I miei amici si erano fermati. Se davo inizio allo scontro sarebbe stato un massacro. A mezzogiorno il boulevard era pieno di gente. Vedendo che non sparavo, gli sbirri fecero lo stesso. Mi misi a correre verso i miei amici. Questa volta era la fuga. Sentivo i fischietti e i «Fermateli!». Girandomi, vidi che erano al nostro inseguimento. Il primo poliziotto era a meno di trenta metri da me, con l'arma in mano. Non era stato ancora sparato alcun colpo. A un incrocio, un vigile volle sbarrarmi la strada aprendo le braccia a croce, come un crocefisso volontario buono per una medaglia al valore o alla stupidità a titolo postumo. Era un africano. Per me non era un pericolo. Lo presi per il bavero, lo incollai al muro e passai. Avevo la Colt 45 in mano. Vedendola, rovesciò gli occhi dallo spavento. - Non metterti in mezzo, paparino! Proseguii la mia corsa, inseguito dalle grida dei poliziotti che si guardavano bene dall'avvicinarsi. Avevamo già fatto più di trecento metri. Arrivati al quarto incrocio, ci imbattemmo in una vigilessa. Scambiandoci per poliziotti in borghese, bloccò un'auto per permetterci di passare. Robert ne approfittò per tirare fuori l'autista e prenderne il posto. Da parte mia avevo fatto il giro dell'auto per sedermi davanti, mentre il nostro nuovo compagno si era seduto dietro. Partimmo prendendo verso destra. In un decimo di secondo vidi un poliziotto che mirava a Robert. Tirai nel momento stesso in cui i miei occhi avevano scorto il pericolo. Le pallottole passarono davanti al viso di Robert, perché il pericolo era alla mia sinistra. Trapassarono l'interno del veicolo. Lo sbirro non aveva avuto il tempo di mirare, ma le sue pallottole erano partite nello stesso tempo delle mie. La nostra auto svoltò con uno stridio di pneumatici. Il poliziotto svuotò il resto del suo caricatore dietro il nostro veicolo. L'amico di Robert si portò le mani al viso; una pallottola gli aveva graffiato la guancia facendo scoppiare il vetro posteriore. Adesso eravamo lontani dal pericolo. Introdussi un nuovo caricatore nella mia arma. Rivolgendomi a Robert:

- Mi dispiace per Pierre... Poi, guardando il suo amico che si tamponava la guancia con un fazzoletto: - Fammi vedere la tua ferita. Era superficiale, sanguinava poco, ma avrebbe lasciato un segno come ricordo. Robert andava veloce. Avevamo bruciato diversi semafori. Si girò verso di me: - Grazie, mi hai salvato la vita. - Lascia stare... Fermammo davanti a un garage, perché un'auto aveva appena parcheggiato e volevo buttarne fuori l'autista e prenderne il posto. La nostra macchina, con i vetri rotti e i segni delle pallottole, dava leggermente nell'occhio. Vidi che al volante c'era una donna. Mi volsi verso i miei amici: - Ce ne andiamo a piedi. Il garagista non aveva capito niente. Guardava il nostro veicolo con aria sorpresa. Siccome c'eravamo allontanati con tutta calma senza correre, anche lui ci aveva preso per poliziotti. Riuscimmo ad arrivare al metrò. Quattro fermate dopo ci separammo. Io presi un taxi. Mi lasciò a duecento metri dalla mia auto. La presi per arrivare fino a casa. Era la prima volta che, in una rapina, perdevo un uomo, la prima volta in quindici anni. Se quella mattina avessi seguito il mio istinto! Ma uno si rifiuta sempre di credere a cose del genere, pensa che sia colpa della fatica o dell'immaginazione. Ero certo di non aver ferito il poliziotto, perché non avevo tentato di farlo. Mi dispiaceva per Pierre che avrebbe subito un interrogatorio in piena regola. Gli sbirri non gli avrebbero certo fatto regali. Lui aveva praticato la boxe per diversi anni. Supponevo che avrebbe resistito ai colpi e che avrebbe tenuto la bocca chiusa. In ogni modo, anche se aveva dormito a casa mia non ne conosceva l'indirizzo, perché ce lo avevo portato di notte. La cosa più importante era chiamare uno dei miei amici perché gli trovasse subito un avvocato che non fosse del nostro ambiente. Feci una telefonata. Il mio amico mi assicurò che se ne sarebbe occupato immediatamente. Mentre io stavo facendo il mio dovere verso di lui, Pierre mi stava tradendo e non potevo immaginare che, anche se non conosceva l'indirizzo, le informazioni che avrebbe dato sarebbero

state sufficienti perché l'anticrimine ritrovasse la mia pista. Gli avevano messo sotto il naso le foto di tutti i rapinatori di banche. Mi aveva riconosciuto senza esitazione... e nello stesso tempo aveva riconosciuto gli uomini che, secondo lui, mi conoscevano. Gli sbirri avevano insistito e la paura gli aveva fatto dire «sì». Sapeva bene che gli uomini che aveva indicato non avevano partecipato alla doppia rapina, perché non conosceva i miei soci e gli sbirri non avevano le loro foto negli schedari... Ma Pierre era un vigliacco pronto a tutto pur di cavarsela. Gli sbirri facevano solo il loro mestiere di sbirri, con metodi da sbirri. Arrivata la sera, avrei potuto cambiare casa, i nascondigli non mi mancavano. Ma sapevo che certi amici, che io non potevo raggiungere altrimenti, sarebbero potuti venire a cercarmi a quell'indirizzo. E poi ero certo dell'impossibilità che Pierre cantasse... Che cosa mai poteva dire? «Bel faccino» mi raggiunse e passò la notte con me, ignorando del tutto ciò che era accaduto quel giorno. Il mattino del 28 settembre io vivevo le mie ultime ore di libertà. Durante la notte, i poliziotti avevano percorso in lungo e in largo Parigi e tutte le zone che rassomigliavano alla descrizione che Pierre aveva dato. Dicendo loro che stavo vicino alla Porte d'Orléans, gli aveva facilitato il compito... Portato di strada in strada, aveva trovato la mia e l'aveva indicata, ben sapendo che forse mi stava condannando a morte o almeno all'ergastolo. Al mattino, gli sbirri avevano mostrato la mia foto alla portinaia, dandole la nuova descrizione che Pierre aveva fornito di me. - Sì, lo riconosco... Il suo appartamento è affittato a nome di Lefèvre. Indicò il piano e la porta. Ero in trappola. Dovevano solo aspettare che uscissi. Se lo avessi fatto sarebbe stata la morte sicura. Perché, in strada, prendevo ogni precauzione per non farmi catturare come nel mio ultimo arresto. Ma il destino, ancora una volta, mi fece dono della vita. Dovevo andare a ritirare due vestiti dal sarto. Erano le tredici. Francine mi propose di andare lei al mio posto. Io non avevo molta voglia di uscire e la lasciai fare. Verso le quindici passarono a trovarmi due miei conoscenti. Uno di loro mi aveva aiutato ad affittare il mio appartamento, ma ignorava la mia vera identità... L'altro raccoglieva le mie scommesse alle corse, perché io giocavo solo tramite lui. Gli avevo dato un milione e mezzo di vecchi franchi per fare le mie puntate a Vincennes. Se ne andarono tutti e due. Gli sbirri erano già sul posto e li videro uscire. Avevo le persiane abbassate e non potevano vedere cosa facevo in camera. Tutte le stanze dell'appartamento davano su un giardino. Ero al secondo piano e non

potevo vedere la via principale, altrimenti mi sarei accorto degli sbirri. Avevo stappato una bottiglia di champagne. Sul giradischi avevo messo un disco di James Brown... Al mio fianco «Bel faccino» faceva le fusa. Senza saperlo, facendo l'amore, mi concedevo l'ultimo piacere del condannato. Nel frattempo, l'anticrimine, non vedendomi più, chiese istruzioni al commissario Bouvier. Il grande capo prese la sua decisione: non poteva più aspettare, dovevano fare irruzione... Avvertì i suoi uomini: - Attenzione, Mesrine è un killer, non vi farà regali. Bisogna prenderlo. Il commissario Leclerc e il commissario Broussard, al comando dei loro uomini, predisposero tutto per non lasciarmi alcuna possibilità di fuga. Il sostituto procuratore e la squadra con i gas erano sul posto. Gli appartamenti vicino al mio erano stati occupati dai poliziotti. A ogni balcone c'era un'arma pronta ad abbattermi se tentavo una sortita. Nel giardino all'inglese altri uomini dell'anticrimine erano nascosti negli angoli in ombra. C'eravamo addormentati, sazi di piacere. Bussarono alla porta. Era la portinaia. Le avevo aperto, nascondendo dietro di me la mano che impugnava la Colt 45. - Cosa vuole, signora? Incominciò una spiegazione contorta: dei lavori da fare nel mio appartamento l'indomani mattina. Mi chiese se acconsentivo. Le risposi di sì, la salutai con un «buonasera» e richiusi la porta. Gli uomini dell'anticrimine le avevano chiesto di venire a controllare se c'ero ancora. Erano le venti. Mi ero di nuovo disteso sul letto... Mi stavo rilassando, quando bussarono violentemente alla porta. - Polizia!... Aprite! Non potei trattenermi dall'esclamare: «Merda, non può essere vero!». Ero balzato sulle mie armi, le due Colt 45 e la mitraglietta. Francine sonnecchiava. - Svelta, svegliati... Ci sono gli sbirri. Mi guardò, stupita... Poi, realizzando: - Oh! No, non può essere vero... Oh! No, caro!

Non avevo tempo da perdere. - Stenditi a terra, giocherò le mie carte... Addio, ragazzina. Lasciai la stanza per andare in cucina. Volevo saltare dal secondo piano. Passando nel corridoio, sentii l'avvertimento: - Sei circondato... Secondo avviso... Arrenditi. Ero pronto a sparare una raffica attraverso la porta. Avevo spento tutte le luci. In risposta agli ordini che mi davano non avevo pronunciato una sola parola. Arrivato in cucina diedi un'occhiata fuori dalla finestra. Diversi poliziotti uscirono fuori dagli angoli in ombra. Li avevo visti. Ero in trappola. Se saltavo giù, era la morte certa. - Ultimo avviso... Poi buttiamo i gas. Ero ritornato in corridoio e mi ero incollato al muro, a fianco della porta. La voce ripeté: - Arrenditi... Ultimo avviso. Per un momento avevo sperato che gli sbirri non sapessero chi erano venuti ad arrestare e, per confonderli, avevo imprecato in tedesco. Mi ero messo in posizione di tiro di modo da poter abbattere il primo che passava la porta. Ma avevo capito che stavolta ero perduto. «Bel faccino» mi era venuta vicino. Vedendo che miravo alla porta, mi supplicò: - Oh! No, caro... Non farlo, ti prego. Mi ero di nuovo incollato al muro, gridando attraverso la porta: - Voi non sapete chi state venendo a prendere. - Sì... Sei Mesrine... Non fare lo stupido, non hai neanche una possibilità su mille di cavartela... Ci sono tiratori dappertutto e... - Tu chi sei? - Commissario Broussard. - Broussard... Quello dell'anticrimine?

- Sì. - Hai una tua foto con te?... Falla scivolare sotto la porta. - Perché?... Vuoi spararmi quando mi abbasserò per farlo? - No... Voglio solo verificare se sei tu. Hai la mia parola, non è una trappola. - D'accordo... Ti passo la mia carta d'identità. Vidi la carta d'identità che sporgeva. Diffidavo come lui e la presi con il piede. Avevo una rassegna stampa con tutte le foto degli sbirri che erano comparsi sui giornali. Avevo anche quella di Broussard. La confrontai... Era lui. Misi l'articolo di giornale nella custodia della carta d'identità. - Sì, sei tu... Ti restituisco il documento. Lo prese da sotto la porta. - Che intenzioni hai, Jacques? - Stavolta credo che sono fatto. - Sì, non hai alcuna possibilità. - Ascolta poliziotto. C'è una ragazza con me, non c'entra niente e... Dal tono della sua voce, capii che aveva pensato fossi solo. - Una ragazza?... Falla parlare. Feci segno a «Bel faccino» di venire vicino alla porta. - Dai... Parla. Non sapeva che dire e, timidamente, fece: - Sì, signore... C'è una donna con lui. Gli uomini dell'anticrimine non lo avevano previsto. Se avessi voluto avrei potuto fargli credere che era la figlia di un uomo importante e uscire con lei come ostaggio. Ma non avrei mai agito contro i miei principi, usando una

donna come scudo. Avevo solo un'idea in testa, evitarle la prigione. - Ascolta, Broussard... So che sei un tipo corretto. Per me non chiedo niente, ma la ragazza non c'entra. Se ho la tua parola che non la tenete più di ventiquattro ore e che poi la fate uscire, accetto di arrendermi. Se no, venite a prendermi. Sentii che Broussard parlava con altre persone. - D'accordo, Jacques... Hai la mia parola... Ma solo se lei non è ricercata per altro. E adesso, cosa decidi? - Ho bisogno solo di venti minuti... Poi vi apro. - Per fare cosa? - Non quel che credi... - D'accordo... Venti minuti. Broussard sapeva molto bene che ne avrei approfittato per distruggere dei documenti. Ma per lui la cosa più importante era evitare ogni spargimento di sangue. Sapevano che per avere la mia pelle avrebbero dovuto perdere degli uomini, il mio passato parlava chiaro. Gli avvenimenti avevano preso una piega per loro imprevista. Visto che giocavo secondo le regole, non dovevano contrariarmi... Un uomo in trappola certe volte ha delle reazioni impreviste. Avevo bisogno di quei venti minuti per distruggere i piani completi del colpo che avevo in preparazione. Presi una pentola e vi bruciai dentro tutti i documenti. Schiacciai le ceneri e le buttai nell'acquaio e feci scorrere l'acqua. Poi bruciai i miei documenti falsi... Questi li lasciai così com'erano, perché gli sbirri ne recuperassero le ceneri, non aveva importanza. Nell'appartamento c'era quindi del fumo. Per evitare ogni sorpresa, avevo comunque la mitraglietta accanto. Broussard, vedendo il fumo uscire sotto la porta, mi chiese: - Ma cosa fai? - Brucio ciò che ti avrebbe interessato - gli dissi ironicamente. - Eh, Jacques... I venti minuti sono passati. - E allora?... Se voglio un'ora me la prendo.

- OK... Non t'innervosire. Broussard non voleva che io cambiassi idea. Ero calmo. Nel giro di qualche minuto avrei perso, per sempre, la mia libertà. Un funerale imponente, senza una possibilità su mille, lo lasciavo ai dilettanti... Non si evade da un cimitero; da una prigione, sì. Mi dispiaceva arrendermi. .. In strada avrei tentato la fortuna, anche uno contro dieci. Ma gli uomini dell'anticrimine avevano fatto un bel lavoro. Ero un tipo sportivo. Guardando Bel Faccino, le dissi: - Prepara lo champagne e anche la mia valigia. Poi, prendendola teneramente tra le braccia: - Noi due insieme, è stato bello. Non ti preoccupare, Broussard manterrà la parola. Aveva le lacrime agli occhi, il nostro bacio aveva un gusto salato. - E a te, caro, cosa succederà? E' grave la tua situazione? - Sì... Per me è finita. Aveva appoggiato la testa sulla mia spalla. - Grazie... Sì, grazie per questi giorni di felicità. Gli uomini dell'anticrimine erano sempre dietro la porta, armati come per la guerra, e io davo il mio addio in tutta tranquillità, come l'amante che parte per un lungo viaggio... Il mio rischiava d'essere molto, molto lungo. Broussard si spazientiva: - Allora, Jacques, merda, sbrigati!... - Arrivo, sbirro, arrivo. Ero ancora armato. - Ehi, Broussard. - Sì? - Dicono che sei un duro.

- Anche tu non sei male. - Sai che mi scoccia arrendermi. - Non ne dubito. - Mi piacerebbe vedere se hai le palle come dicono. Quando aprirò la porta saresti capace di presentarti disarmato e senza giubbotto antiproiettile? - Perché? Vuoi spararmi? - No, ma se sei qui è perché mi hanno venduto. Vorrei che questo arresto te lo guadagnassi, correndo qualche rischio. - E tu, Jacques, dove saranno le tue armi? - A terra... Adesso tolgo il colpo dalla canna. Avevo tolto i caricatori e tirato la slitta di ogni arma per togliere il colpo dalla canna. Broussard, dietro la porta, sentendo il rumore dell'otturatore, si era spostato. - Ecco fatto... Allora? - Che garanzia mi dai, Jacques? - La mia parola... Niente altro che la mia parola. E lì che si vedono i grandi sbirri... Faccia a faccia, non c'era più nemico pubblico contro capo dell'anticrimine, ma due uomini, due duri che sapevano il valore della parola data. Broussard correva un grande rischio, ma si rendeva conto dell'importanza che il suo gesto assumeva ai miei occhi. Ho sempre rispettato un avversario leale. Per strada uno dei due, il meno rapido, avrebbe perso la vita... Ma Broussard aveva avuto il regalo gratuito di guadagnarsi il mio arresto: la sua vita contro la parola di un assassino. Il cittadino normale non poteva capire; lui che, con il culo al caldo, non rischiava mai la sua pelle, cosa avrebbe potuto capire di una storia di uomini? - D'accordo, Jacques... Non ho più niente.

- Allora, apro. Girai la maniglia e aprii la porta. Broussard era davanti a me, tutti i suoi uomini dietro. Avevo un sigaro tra le labbra. Gli sorrisi tendendogli la mano: - Bel colpo, commissario... Per questa volta ha vinto. Gli sbirri invasero l'appartamento. Mi ammanettarono. Il commissario Leclerc e il sostituto procuratore erano entrati. Mi strinse la mano. - Grazie, Mesrine. - Di che? - Ci aspettavamo il peggio. - Io gioco secondo le regole, signor procuratore... Secondo le regole. Poi, girandomi verso Francine alla quale avevano lasciato le mani libere: - Servici dello champagne, vuoi? Con le coppe piene, bevetti con Broussard, Leclerc e il sostituto. Non avevamo più niente da dirci. - Portatelo via... - disse Leclerc. Fui portato alla prima brigata territoriale. Mi fecero passare la notte in un commissariato. Ho sempre avuto un odio viscerale per gli sbirri in uniforme. Mi lasciarono tutta la notte con le manette. Mi rifiutarono un bicchiere d'acqua e anche il permesso di andare in bagno. Vendetta di miserabili verso colui che, libero, li terrorizzava. Li insultai per provocare la loro reazione. Niente. Al mattino, gli uomini dell'anticrimine vennero a prendermi per riportarmi alla prima brigata. Durante la notte avevano arrestato due miei conoscenti, tra i quali quello che andava a farmi le puntate a Vincennes. Era venuto a casa mia, dopo le corse in notturna, per portarmi la mia vincita. Vedendo degli uomini armati aprirgli la porta, si era spaventato e aveva cercato di scappare. Mal gliene incolse. Lo avevano tramortito.

Lo vidi al mio arrivo. La sua camicia era piena di sangue. Non lo salutai, preferendo ignorarlo. Gli uomini di Leclerc mi chiesero di mettermi contro il muro assieme all'altro e a due sbirri che servivano da figuranti, per un confronto all'americana con il direttore della prima banca che avevo rapinato due giorni prima. Non eravamo né puliti né rasati e spiccavamo dall'insieme. Il direttore mi identificò. Ma ciò che mi stupì di più fu che indicò, come uno dei miei complici, anche l'uomo che mi faceva le scommesse. Quell'errore provocò la mia collera e mi provò ancora una volta che qualunque cittadino può mandare in prigione un uomo per un errore d'identificazione. Rifiutai ogni dichiarazione. Verso mezzogiorno arrivò Broussard e mi salutò. - Salve, pendaglio da forca. - Salve, sbirrazzo. - Sei in forma, Jacques? - Così così, commissario... E la piccola, quando la rilasciate? - Come promesso, sarà libera alle quattordici... Vuoi vederla? Arrivò «Bel faccino». Aveva il viso triste. Ci lasciarono soli, io in una specie di gabbia, lei seduta al mio fianco. I suoi occhi si riempirono di lacrime. - Cosa ti succederà? Non sai come soffro per te!... Se chiedo un colloquio per venirti a trovare, lo accetteresti? - No, bel faccino... Impossibile... La donna che amo è in prigione. Da latitante potevo permettermi tutto... Ora non più. I colloqui sono per lei, solo per lei. - ...Sì, capisco... Restiamo amici, è così? - Sì, grandi amici. Per me era arrivata l'ora della partenza per il carcere giudiziario. La lasciai con un ultimo bacio. Alle quattordici la liberarono. Broussard e Leclerc avevano mantenuto la parola. Nell'ambiente della mala sapevo che certuni contestavano i loro metodi. L'opinione degli altri non m'interessava. Per me erano due grandi sbirri che forse si comportavano in maniera diversa di

fronte a un uomo e a uno scellerato. I grandi sbirri non si sbagliano mai a giudicare il «loro cliente». La mala non è certo quel mondo d'onore e d'amicizia come molti film fanno vedere. I veri uomini sono rari. In verità è il mondo dell'imbroglio, del tradimento, del «non sai chi sono io», della vanità smisurata, un mondo di palloni gonfiati. Senza pistola, certi duri da cortile sono dei vigliacchi. I veri uomini li si vede in prigione, dal loro modo di comportarsi, di saper pagare a testa alta e non faccia a terra. Se la maggior parte delle donne vedessero i loro «uomini» in galera e come si comportano, diventerebbero lesbiche, gli metterebbero un dito in culo e li manderebbero a fare le commissioni. Ritornando alla Santé avrei ritrovato questo bell'ambiente. Ero rispettato... perché ero temuto. Criticato anche... ma sempre dietro le spalle, mai davanti. Pochi dell'ambiente apprezzavano i miei metodi troppo diretti e sempre violenti. Ma il carcere è il regno della mitomania, i «bravi ragazzi» stanno insieme... Gli altri si inventano degli amici e delle azioni per darsi importanza. In prigione tutto è deformato, circolano voci, false informazioni con l'unico scopo di insudiciare un tizio che non vi sta simpatico. Ci si dà del bastardo a mezzanotte, ci si abbraccia a mezzogiorno. La Santé non faceva eccezione alla regola, con il suo mondo di delatori piazzati nei posti migliori dall'amministrazione... Si guadagnavano tre mesi di condono per ogni denuncia... Quelli che non avevano niente da denunciare si inventavano piani d'evasione. Era questa razza di schifosi che temevo di più, sempre a spiare, sempre ad ascoltare, sempre a denunciare. Vi avrei anche trovato degli amici, degli uomini veri; ragazzi sinceri, ragazzi di latitanza come me. Il furgone mi portava verso il mio nuovo destino e stavolta la scorta di polizia mi dimostrava che avrebbero evitato gli errori del passato. Mi avevano ripreso, avrebbero fatto di tutto per tenermi.

Quando le pesanti porte di metallo si richiusero dietro di me, capii che non avrei ritrovato la mia libertà per lungo tempo. Voler evadere è una cosa, riuscirci un'altra. Quando mi portarono in matricola, erano tutti lì ad accogliermi. Uno dei capi mi disse: - Non ha avuto fortuna, Mesrine? Poi, vedendo come mi ero trasformato: - Com'è adesso non l'avrei mai riconosciuta. Non avevo voglia di parlare. Mi portarono alla prima sezione. Mi rimisero nella stessa cella che avevo lasciato cento giorni prima. Non mi sentivo

neanche di malumore. Non mi sfuggiva la realtà delle cose, ma se ero evaso tre volte, sapevo che ce ne sarebbe stata una quarta... Era una semplice questione di pazienza. Janou era in Francia, se il giudice istruttore mi autorizzava, alla fine l'avrei rivista. Al mattino avevamo un'ora d'aria. Nel cortile ritrovai dei vecchi compagni. Dovetti raccontare... E lo feci, per non contrariarli. I giorni passavano. Avevo riorganizzato la mia vita di cella. La prigione della Santé, malgrado la sua vetustà, offre delle condizioni di vita accettabili. Ma, in paragone alle carceri canadesi, aveva più di venti anni di ritardo. Il fatto che lasciassero un uomo chiuso ventitré ore su ventiquattro in una cella di 1 metro e 80 per 3 e 60 agli anziani faceva rimpiangere il bagno penale. La Spagna stessa offriva ai detenuti condizioni migliori lasciandoli tutto il giorno in grandi cortili. Ma la Francia è il paese della repressione sotto ogni forma. La prigione non è fatta per allontanare alcuni individui dalla società e per fargli pagare i loro errori. Nella sua forma attuale la prigione ha uno scopo solo: distruggere chi ha la sfortuna di entrarci. Da anni erano state annunciate riforme... Ma le promesse dell'amministrazione sono delle lucciole che non m'incantano. La società francese non vuol conoscere la verità sulle sue prigioni. Non le interessa sapere che degli uomini si suicidano, si mutilano, si drogano e crepano nella miseria psicologica. I muri sono abbastanza alti per non far udire la disperazione e le grida di odio. Per essa l'importante è avere la coscienza a posto. Bisogna vedere una prigione per capire che una società regola i suoi conti nella maniera più vigliacca e per interposta persona. Tutto ciò lo avevo constatato da tempo, cosa che mi toglieva ogni rimorso per aver scelto quel genere di vita. Sapevo che la prigione non mi avrebbe mai distrutto. Io ero tipo da lottare, da battermi contro ogni ingiustizia... Anche incarcerato mi sentivo libero. Il giudice istruttore, forte del suo potere, non mi concesse i colloqui. Neanche con mia madre... Rifiutare a un uomo di vedere la madre è l'azione di un uomo di giustizia che usa arbitrariamente i poteri che la società gli ha conferito. Le leggi esistono solo sul codice. Nella realtà sono bellamente ignorate da coloro che dovrebbero applicarle. Non avevo niente da perdere e le altre inchieste non potevano certo cambiare la mia situazione. Mi fecero riconoscere da testimoni di rapine in banca, senza nessun figurante. E quando il giudice istruttore ne faceva venire, spesso i testimoni riconoscevano gli sbirri come autori delle rapine e non indicavano me. Il semplice gesto che condanna un uomo ad anni di prigione, l'errore nella testimonianza dovrebbe far vergognare a morte chi lo fa. Ma la società può accusare tranquillamente... Si concede il diritto di sbagliare, come lo sbirro si concede il diritto al colpo partito accidentalmente. Gli scontri con il giudice spesso erano violenti. Perché oltrepassando il suo ruolo aveva perso ogni autorità ai miei occhi. In verità, mi divertiva... Era fatto per la canna da pesca, non per la caccia alla tigre. Diverse volte lo

avevo mandato a farsi fottere. Le cattive notizie arrivavano una dopo l'altra. Rémy si era fatto arrestare in Italia... Dopo l'evasione non lo avevo più rivisto. Con lui fuori avrei potuto organizzare ogni cosa... Il suo arresto mi toglieva la possibilità di un'evasione rapida. Era l'unico vero amico. Senza di lui o senza di me alla loro testa, gli altri non erano che dei soldati sui quali non potevo contare fino in fondo. Poi fu la volta di Robert... Per lui niente prigione... Un incidente... La morte stupida al volante della sua auto lungo la strada di Lisieux. Il destino prendeva la sua rivincita... Ma forse era meglio una morte a 150 all'ora che la morte lenta offerta dall'amministrazione penitenziaria. Mezzogiorno... Nella mia cella... La sua prima lettera dopo la mia evasione in Canada. Il giudice aveva finalmente autorizzato Janou a scrivermi... Strappai nervosamente la busta... Quella riscoperta di lei, il ritorno della donna in carcere da più di quattro anni... Dov'era finito il nostro amore? Davanti ai miei occhi, le prime lettere cominciarono a ballare, i «ti amo» del passato erano declinati al presente. Nient'altro che noi due. La rilessi.

"Fleury-Mérogis, 18 novembre 1973

Mio caro, Se dai miei occhi sgorgano lacrime scrivendoti, e perché ho dovuto trattenerle per molto tempo... Che oggi si liberino per la gioia di saperti vivo, io che ho temuto per la tua vita, e per la tristezza che ho provato nel saperti di nuovo prigioniero tra quelle mura. Sono più di quattro anni che il mio corpo è intrappolato in questo mondo carcerario. Pago e pagherò ancora, lo so... Ma se, oltre a farmi pagare per i miei atti, mi fanno pagare il prezzo di amarti... la mia detenzione sarà dolce. Il fatto di saperti ogni giorno in pericolo di morte è stato un calvario per me... Se questa morte, separato da me, fosse stata il tuo destino, io non sarei sopravvissuta, giacché io vivo solo per te e tramite te. A ogni sparatoria che la radio di Montreal annunciava, io abbassavo il volume per non sentire il tuo nome. Questa sofferenza tu non la puoi immaginare. Era peggio che saperti tra le braccia di altre donne... Esse non avrebbero avuto che il tuo corpo, il tuo cuore mi era riservato, lo so, amore... Per noi non è cambiato niente. Devi capire cosa sei stato per me. Ho sofferto tramite te, ho sofferto per te. Ma quando, vento di carezze, le tue labbra da uragano mi davano la tua

passione, nelle stagioni del mio cuore tu infioravi d'amore un'eterna primavera. Se ti sei abbeverato delle mie lacrime attingendole alla sorgente del perdono del mio cuore, è perché te lo sei meritato... Tu sei l'uomo... E, ai miei occhi, sarai sempre il solo che amo e rispetto in maniera totale".

La sua lettera conteneva sei pagine piene d'amore e terminava con:

"Le mie labbra si posano sulle tue... Lasciamole parlare. Hanno tante cose da dirsi!... Lasciamole coniugare il verbo amare al passato, al presente. .. Al futuro che un giorno sarà nostro. Amarti fino alla morte, mio amato. La tua complice... la tua amante... la tua donna... il tuo socio. La tua Janou".

Non era cambiata. Aveva sempre quella forza di carattere che faceva di lei una donna come ce ne sono poche. Mai un rimprovero, solo amore... Eppure quanti anni doveva ancora farsi?... Si paga caro il fatto d'essere la donna di un Mesrine. La giustizia ha paura delle donne che amano. L'amore può tutto. Una donna che ama vale da sola un esercito, l'avvenire me lo avrebbe dimostrato ancora una volta... Tramite Joyce, la piccola canadese ritornata nel suo paese, e tramite Martine Willoquet che non conoscevo ancora. Il vero coraggio è delle donne. La «giusta mentalità» sono le donne ad averla. Quel tipo di donne vale cento uomini. Ma degli uomini, quelli veri, quanti ne restano perché le donne siano ancora costrette a sacrificare la loro vita e la libertà per «l'uomo»? Era quello l'ambiente attuale: gli sfruttatori a far la calza e le donne con le armi. Avevo risposto alla sua lettera. In quante mani sarebbe passata, quanti occhi avrebbero violato i segreti dei nostri cuori in nome della censura? Non ci appartenevamo più... Eravamo condannati a fare l'amore di fronte ai guardoni dell'amministrazione. Erano passati due mesi... Avevo solo un'idea in testa: tentare l'evasione.

Ero in contatto permanente con alcuni amici canadesi che erano pronti a venire qui per tirarmi fuori se avessi trovato una soluzione. Stavolta mi sentivo in trappola. Non avevo avuto il tempo di preparare niente come a

Compiègne... Eppure ne avevo avuto l'idea. Sì, l'idea consisteva nel commettere, quando ero libero, una falsa aggressione a degli amici che avrebbero ignorato chi ero. Quegli stessi amici avrebbero denunciato il fatto descrivendomi in modo vago. In caso di un mio arresto, avrebbero visto sui giornali la mia foto e dovevano solo riconoscermi e andare al primo posto di polizia a segnalare la cosa; il sistema giudiziario avrebbe fatto il resto. Automaticamente ci sarebbe stato un confronto con i miei accusatori. Non si perquisiscono mai i testimoni dell'accusa... Il giudice avrebbe avuto una bella sorpresa e un viaggio gratis come prezzo della mia libertà... Ma non avevo avuto il tempo di mettere in pratica la mia idea. Mi restava da tentare il colpo dei falsi avvocati in pieno palazzo di giustizia. Due dei miei amici canadesi erano d'accordo per assaltare la pretura se ci andavo... Ma in pretura non avevo alcun processo. Dovevo allora crearmene uno. I giornali non mi avevano fatto regali, ma preferivo prenderla a cuor leggero, perché della pubblica opinione me ne frego. Molte cose errate erano state scritte sulla mia vita e sui miei crimini... Dovevo sfruttare la possibilità di un processo per diffamazione. M'immaginavo la faccia che avrebbero fatto i giornalisti ai quali avrei contestato di aver contato male i cadaveri che mi appioppavano, senza prove né sentenze. Feci quattro querele per diffamazione a mezzo stampa... Pensavo che le cose si sarebbero svolte in fretta. Non ero al corrente delle lentezze della giustizia francese, ero troppo abituato alla giustizia americana e canadese che risolvono problemi del genere in un mese. In realtà quei processi ci avrebbero messo due anni per arrivare in pretura e il loro scopo principale sarebbe venuto meno. Vedendo che dopo alcuni mesi non succedeva niente, scelsi un'altra soluzione. Venne a trovarmi un poliziotto incaricato degli interrogatori alla Santé e che tutti chiamavano «Manix». Era un ragazzo di ventisette anni, grande e robusto, un po' montato. La guardia che venne a chiamarmi in cella mi avvertì: - Sa, Mesrine, ci ha chiesto di mettere delle guardie davanti alla porta... Dice che non si fida di lei. - Ah! bene. Avevo appena trovato il modo di finire in pretura. Bastava che provocassi una rissa... Uno sbirro fa sempre la denuncia quando prende botte. Mi presentai davanti alla cella che utilizzava come ufficio. Era in piedi... A prima vista dava l'idea d'essere in forma. Entrando lo

apostrofai: - Allora, chiedi protezione quando vieni da me? Mi prendi per un selvaggio? Rispondendomi era arrossito: - Con un tipo come te non voglio correre rischi. Poi, volendo dare un'impressione di autorità, mi mostrò un foglio che aveva in mano: - E' il giudice che me lo ha ordinato... - Del giudice me ne frego... Non gli lasciai il tempo di continuare e, avanzando verso di lui, gli feci saltare il foglio dalle mani... Era indietreggiato. La macchina da scrivere era sul tavolo... Con la mano sinistra l'avevo lanciata contro il muro. Lo sbirro aveva lanciato un «Ma!...». Senza lasciargli il tempo di dire altro, lo presi per la gola e lo piegai verso terra. Avevo fatto un mezzo giro su me stesso. Le guardie si erano ben guardate dall'intervenire. Il capo, che era davanti alla porta, non aveva capito niente. - Ma cosa succede, Mesrine? - Niente, capo... Torno in cella. - Ma l'ha picchiato... - Sì... Non mi piacciono gli stupidi... Quello, poi, non ha neanche reagito, è un finocchio. Ritornato in cella, scoppiai a ridere... Questa volta ce l'avevo il mio processo in pretura. Anche su questo mi sbagliavo. Ci fu una denuncia, ma non in pretura. Manix si era fatto rompere la faccia per niente. C'era da disperarsi. Il giudice mi concesse il primo colloquio con mia madre. Non parlammo che della morte di mio padre. Le aveva nascosto la mia ultima visita. Mia madre era una donna di carattere, solida di fronte alle prove della vita. Avevamo avuto dei problemi a capirci, ma era sempre stata una buona madre. Nessun rimprovero inutile... Non si giudica il proprio figlio, ci si accontenta di amarlo. Volevo assolutamente vedere mia figlia Sabrina, erano più di sette anni che non la vedevo. Le avevano sempre nascosto la mia detenzione, cosa che era stata un errore, perché così credeva che l'avessi

abbandonata. Aveva saputo tutto dai giornali e aveva fatto questa riflessione che aveva stupito mia madre: - Papa è in prigione?... Stupendo, così lì almeno potrò vederlo! Il giudice istruttore mi rifiutò quel diritto con diversi pretesti. Così come mi rifiutava i colloqui con Janou, benché il suo fascicolo fosse chiuso. Nelle prigioni e nei penitenziari francesi il malcontento era generale. Nonostante il numero incalcolabile di promesse che l'amministrazione penitenziaria aveva fatto per calmare le acque, nessun programma di riforme vide la luce. Alla Santé avevamo un nuovo direttore che dava l'impressione di una certa umanità, ma non si può fare una guerra moderna con vecchi fucili. Prima di tutto bisognava cambiare la mentalità dell'amministrazione penitenziaria... e anche quella di certi detenuti. I tentativi di suicidio erano abituali. Alcuni si tagliavano le vene, altri ingoiavano barbiturici, per disperazione, per ricatto. Altri ci lasciavano la pelle sotto lo sguardo indifferente dell'amministrazione. A volte era un ragazzo che, condannato a una lunga pena, non credendo più in niente, senza un amore, sceglieva quella maniera per evadere. Se la guardia se ne accorgeva in tempo, il soccorso arrivava abbastanza in fretta... Se era un caso disperato doveva andare all'ospedale più vicino. Ma la scena stessa era motivo di rivolta. Se il suicida era considerato pericoloso, anche se si trovava nel coma più profondo, lo incatenavano mani e piedi e aspettavano la scorta, con il rischio di perdere tempo prezioso e forse la sua vita. Quell'immagine della società e dell'amministrazione mi faceva venire voglia di vomitare sulle leggi e sui principi che gli esseri umani volevano che fossero regole di vita. A causa di questa negligenza a volte la persona moriva. Uno dei miei amici sarebbe morto un anno dopo per tale motivo. Al contrario, ero in ammirazione di fronte a quelle donne meravigliose che sono le infermiere delle prigioni. Il loro impegno costante, la loro pazienza, l'attenzione che mettevano nel curare tanto il lato morale quanto quello fisico, ai miei occhi facevano di loro degli esseri intoccabili, degni del più profondo rispetto. Una di loro, che aveva l'età di mia madre, madame Sitterlin, mi aveva preso in simpatia. Entrava da sola nella mia cella, senza temere che la prendessi in ostaggio, sapendo bene che un uomo pericoloso non è necessariamente uno scellerato. I sorveglianti della mia sezione, a parte qualche eccezione, erano persone senza storia. Il secondino non è il guarda ciurma dei tempi delle galere. Dalla sua maniera di agire dipende la maniera di agire del detenuto. Il «malavitoso» non prova odio per il «carceriere». Di fronte all'uomo si comporterà da uomo. Di fronte a una merda, la tratterà di conseguenza, con tutti i rischi che ciò comporta, come le sanzioni disciplinari. Per contro, le prigioni sono piene di chiacchieroni, di sbruffoni che si immaginano che

insultando una guardia, senza motivo, si fanno un nome. In verità costoro, oltre che abbaiare, si sgonfiano come palloni quando il gioco diventa duro. Purtroppo nelle prigioni francesi sono la maggioranza. Le spie e i delatori di ogni risma mandavano regolarmente alla direzione lettere nelle quali denunciavano immaginari progetti d'evasione che mi concernevano. Ciò mi nuoceva, perché tenevano in tensione la direzione. Una delle lettere, a torto, annunciava che avevo intenzione di far entrare delle armi alla Santé per tentare qualcosa. Alla fine di aprile, mi accompagnarono al palazzo di giustizia con la scusa di un'istruttoria. Mi portarono con una scorta da far impallidire il Presidente della Repubblica. Ero sorvegliato meglio della Banca di Francia. Non avevo alcun motivo per nutrire sospetti... Eppure... Quando, terminata l'istruttoria, presi la via del ritorno, si diressero verso un'altra prigione. Avevano approfittato della mia fiducia per trasferirmi senza rischi. Ancora una volta i metodi classici dell'amministrazione.

Mi portarono in un carcere di massima sicurezza. Il direttore di questo carcere era un bastardo integrale per il quale la parola «detenuto» coincideva con la parola «cane». Dell'uomo aveva solo i pantaloni. Con lui non era possibile alcuna discussione. Con lui tutto era arbitrio, incomprensione, illogicità... Era uno di quegli individui che, a forza d'ingiustizie e abusi di potere, fanno scoppiare una rivolta per il semplice piacere di reprimerla. Gli avevo chiesto udienza... Si era rifiutato. Due giorni dopo, per una discussione, avevo incollato al muro una guardia. Dieci minuti dopo, l'invisibile direttore mi fece passare in consiglio di disciplina per violenza su uno dei suoi agenti. Incapace di guardarmi in faccia, come una faina, blaterava sul mio caso; credeva d'intimidirmi. Gli avevo tolto la parola, esprimendogli il fondo del mio pensiero, e lo avevo mandato a farsi fottere. Mi aveva condannato a una pena con la condizionale. Al contrario, i vicedirettori erano uomini di dialogo. Molto presto, avevo sviluppato un odio profondo per quel direttore e avevo deciso di fabbricarmi una lama e piantargliela in pancia alla prima occasione. Gli avvenimenti successivi non me ne diedero il tempo. Quando la misura fu colma i detenuti francesi scatenarono rivolte sanguinose. Quando Clairvaux si muove, tutte le carceri si muovono... E Clairvaux scoppiò... Tutte le prigioni di Francia la seguirono per solidarietà.

L'ingiustizia può spingere le persone ai gesti più folli. Per rivoltarsi bisogna avere coraggio, perché la repressione, dieci celerini armati per ogni detenuto a mani nude, può arrivare al massacro. A Clairvaux i prigionieri si fecero massacrare per rivendicare i loro diritti. Due di loro vi persero la vita, assassinati dalle forze dell'ordine. E ciò nell'indifferenza di una società di buone coscienze che dimentica troppo spesso che anche i detenuti sono uomini. Nella sezione dove mi trovavo era impossibile provocare qualcosa di serio. Da soli ci si può ribellare, non provocare una rivolta. Ero nella mia cella quando arrivarono delle urla dalla seconda sezione. I ragazzi tentavano qualcosa. Dalla mia finestra, ordinai ai detenuti che si trovavano in cortile di salire sui tetti per sostenere la seconda sezione e soprattutto che venissero ad aprirci affinché anche noi potessimo partecipare alla rivolta. Da parte mia tentai di sfondare la mia porta. Non ci riuscii. Erano già arrivati i celerini... Non erano ancora passati tre minuti. Alla seconda sezione ci si picchiava. Stavo ancora tentando di sfondare la porta quando questa si aprì. Una trentina di celerini, armati di tutto punto, fucile in mano, pronti a picchiare e una dozzina di secondini che mi aspettavano. Il capo dei sorveglianti mi chiamò: - Esca, Mesrine. Sorridendo, guardando con un occhio ironico l'esercito che mi stava di fronte, gli risposi: - Credo di non avere scelta. - Esatto... Esca. Al momento di lasciare la mia cella, intravidi il direttore e tentai di saltargli addosso. Ma si rifugiò dietro un cancello e le sue guardie mi portarono all'isolamento scortato dai celerini. Non mi avevano toccato. Ma nei loro occhi leggevo che non gliene mancava certo la voglia. Eravamo alla fine di luglio 1974. Mi rinchiusero in una cella. Tre ore dopo, mi vennero a prendere le teste di cuoio della gendarmeria. Mi fecero salire in una camionetta e, siccome non c'erano catene per legarmi i piedi, lo fecero con un paio di manette. Il cortile della prigione era pieno di poliziotti in uniforme. Parecchi di loro circondavano la camionetta. Non potevo fare un solo gesto. Fu quello il momento che uno sbirro scelse per provocarmi:

- Voi, cani di detenuti, bisognerebbe ammazzarvi tutti. Se dipendesse da me, vi ficcherei una palla in testa, pezzi di merda! Quelli erano i metodi degli sbirri in uniforme. Invece di impressionarmi, quel pagliaccio mi divertiva e gli risposi: - Ascolta, burattino... Le pallottole si sparano, non si promettono. Con la faccia che ti ritrovi, nella fondina dovresti portare un vibratore non una pistola... Se vuoi lavorare per me, ti offro dieci metri di marciapiede all'angolo del boulevard Barbès... Carino come sei, farai dei bei soldi con gli arabi. Di colpo esplose. Ma le guardie presenti e i gendarmi della mia scorta si divertivano come pazzi. Quello volle reagire. Ma il capo scorta gli ordinò di allontanarsi. Mi portarono a Fleury-Mérogis. Là mi fecero salire su un furgone. I quindici uomini responsabili della rivolta di Clairvaux, erano già sopra. Uscivano tutti dall'isolamento. Ci dirigemmo verso il carcere di punizione di Mende. Fra loro diversi avevano ancora i segni delle botte che avevano ricevuto. Nel furgone, incatenati mani e piedi, in quattro in una gabbia di neanche un metro quadro, facemmo un viaggio di quindici ore. Come bestiame, come ai tempi della Gestapo, in nome di una società irreprensibile... Uomini trattati come bestie, esseri umani, sofferenti a causa dei movimenti del veicolo e dell'odore di benzina, che si vomitavano addosso, non avendo posto per farlo altrove... Che non si chieda mai a un uomo, trattato in quel modo, di avere rispetto per la società. Quei momenti non si dimenticano mai. Non ci si stupisca che uomini trattati come cani, reagiscano poi da cani. Quattro uomini che si vomitano addosso chiusi in una gabbia di un metro quadrato, è così che la società, con la sua giustizia e le sue leggi, regola i suoi conti. Ma questa realtà... viene nascosta. Lungo la strada ci mettemmo d'accordo per iniziare lo sciopero della fame appena fossimo arrivati... Ognuno era libero di smettere quando voleva. Eravamo tutti condannati a lunghe pene. Ero l'unico detenuto in custodia cautelare. Il fatto di mandarmi in un carcere di punizione e allontanarmi dai miei avvocati era arbitrario e illegale. Ciò mi privava del mio diritto alla difesa, ma ero certo che non ci avrei messo molto a ritornare a Parigi. Sapevo di poter contare sull'efficienza del mio avvocato, Geneviève Aiche, che, nel rispetto della legge, aveva sempre saputo curare i miei interessi. Quelli di Clairvaux mi raccontarono tutto quel che era successo durante la rivolta. I celerini avevano dato l'assalto al mattino, dopo aver lasciato per tutta la notte che i ragazzi spaccassero tutto. Da un elicottero avevano

tirato dei razzi lacrimogeni per sloggiarli dai tetti. A loro parere, un detenuto ne aveva preso uno in pieno petto ed era caduto morto nel cortile del passeggio. I celerini, caricando, avevano sparato granate lacrimogene con il fucile e, sempre secondo loro, un altro detenuto si era preso un lacrimogeno in piena faccia, perdendo anche lui la vita. La stampa, per spiegare quei due morti, aveva parlato di regolamento di conti fra malavitosi. Non essendo presente, mi guardavo bene dall'esprimere un giudizio, ma ciò non mi stupiva... Le forze dell'ordine possono compiere degli omicidi legalizzati quando si tratta di detenuti... E, nel frattempo, una certa stampa si faceva portavoce della teoria delle prigioni a quattro stelle e glorificava il massacro compiuto dalle forze dell'ordine. Il presidente della Repubblica ci aveva dato la speranza di un cambiamento dichiarando: - La prigione dev'essere già una punizione sufficiente, non è necessario aggiungerci altro. Era sufficiente essere rinchiusi a Mende per capire quanto poco valore si dovesse dare a quella dichiarazione. Ogni uomo era in completo isolamento e sottoposto a una disciplina di ferro. Proibizione assoluta di parlare. Un'ora al giorno di passeggio in un cortile con una grata sopra la testa, soli, con la proibizione assoluta di parlare. Condannare un uomo al silenzio totale, significa volere la sua distruzione mentale, spingerlo al suicidio. In cella, proibizione di coricarsi sul letto durante la giornata. Per mangiare, solo un cucchiaio, niente forchetta né coltello del tipo consentito nelle prigioni. Ciò obbligava chi voleva nutrirsi a mangiare la carne con le mani e a strappare a morsi i bocconi. Sono questi i dettagli che fanno la differenza in detenzione. L'uomo si riduce a una bestia. Se non accetta e si rivolta è la repressione: porta aperta a ogni abuso. A causa del nostro sciopero della fame, ci provocavano facendoci passare sotto il naso, due volte al giorno, il nostro pranzo. Il cibo era accettabile. Ma l'uomo che passava due o tre anni in quelle condizioni ci lasciava qualcosa di sé. Nove giorni dopo, mi riportarono a Parigi. Avevo perso sette chili, ma il mio pensiero andò ai ragazzi di Clairvaux che rischiavano di vivere a lungo in quelle condizioni inaccettabili e ciò per aver avuto il coraggio di denunciare gli abusi dell'amministrazione. Mi riportarono alla Santé. Per tutto il viaggio ebbi come scorta motociclisti e poliziotti armati di mitraglietta e granate. Il lato ridicolo di questa scorta non mi sfuggiva. Un uomo solo e incatenato non può giustificare un tale

spiegamento di forze. Al mio arrivo al carcere mi misero in isolamento. Il capo dei sorveglianti mi disse che gli avevano ordinato «isolamento totale». Ero troppo stanco per discutere. Rimandai al mattino successivo. Il direttore con i suoi vice venne a trovarmi. - Ecco, Mesrine, siamo obbligati a isolarla. Ma questa misura è provvisoria, perché stavolta le riforme partiranno. Faremo una sezione ad alta sorveglianza dividendo l'isolamento in due... In seguito altri detenuti la raggiungeranno. La sua situazione è provvisoria... E dalla sua bocca uscì tutta una serie di promesse, di falsi progetti. Che ci credesse davvero? Cercava di indorarmi la pillola? Perché la mia reazione non era stata buona. Per diversi mesi, mi lasciarono in isolamento. Non potevo neanche vedere i cortili dell'aria. Come finestra avevo solo dei vetri opachi in un telaio di ferro. Non era possibile aprirla. Mi era proibito vedere il sole o la luce del giorno, avere qualcuno con me al passeggio. Sì, il presidente della Repubblica aveva ragione, la prigione doveva essere già una punizione sufficiente... Andavo all'aria da solo in un cortiletto. Certe volte succedeva che dei detenuti dell'infermeria fossero messi nella cella di fianco alla mia. Fu così che conobbi Jean-Charles Willoquet. Mi raccontò la sua storia. Per prenderlo, gli uomini dell'anticrimine gli avevano sparato sei colpi nella schiena. Quando era a terra, per finirlo, gli avevano dato un colpo con il calcio della pistola in faccia. Ma «Charlie» aveva una resistenza fisica eccezionale. Era in osservazione all'infermeria. Sei pallottole in corpo ed era vivo! Con una fortuna come la sua, ogni speranza era permessa! A poco a poco avevamo simpatizzato e il nostro tema di conversazione era uno solo: l'evasione! Un anno dopo lui ne avrebbe realizzata una delle più spettacolari. I miei contatti con il Canada erano costanti. Joyce mi scriveva per gridarmi il suo amore. Era pronta a qualunque sacrificio affinché io potessi ritrovare la libertà. Solo i miei amici canadesi potevano tentare un'azione da commando per tirarmi fuori. Questo non era nei metodi francesi, ma in quelli canadesi sì, soprattutto se alla testa del commando c'era il mio amico Jean-Paul Mercier. Era detenuto in una sezione speciale del carcere di SaintVincent-de-Paul vicino a Montreal. Dopo la nostra evasione dall'U.S.C. e il suo arresto, era stato processato e, per i diversi reati che gli contestavano, aveva preso due ergastoli e 270 anni di galera. Lizon aveva preso dieci anni

per complicità. Jean-Paul, tramite i suoi contatti, mi fece avere il suo piano d'evasione. Ma per realizzarlo era necessario che Joyce accettasse di portargli delle armi al colloquio. Mi diceva che era lì con altri amici, fra i quali Pierre Vincent e Edgar Roussel che erano stati con me all'U.S.C. Un'altra delle mie conoscenze era con lui, un uomo considerato fra i più temibili assassini del Canada: Richard Blass. Jean-Paul mi promise, se gli riusciva l'evasione e dopo aver assaltato qualche banca, di venire a Parigi con qualche ragazzo in gamba e di mettersi a mia disposizione. Sapevo che, con della gente così e con il mio piano, era la libertà sicura. Joyce sapeva che non doveva aspettarsi niente da me. Ma verso di me, e anche verso il mio amico, aveva un debito. Jean-Paul ebbe il mio consenso. Il 23 ottobre 1974, Joyce andò a colloquio. Aveva ottenuto, sotto falso nome, un permesso per andare a trovare Jean-Paul. Con lei c'era un'altra donna, Carole Moreau, amica di Pierre Vincent. Richard Blass, Edgar Roussel e Robert Frappier avevano anche loro fatto venire un familiare per ritrovarsi tutti nella stessa sala dei colloqui. Diverse guardie li scortavano. Nella borsa di Joyce c'erano due pistole... Nel parcheggio del penitenziario c'era un'auto con il motore acceso. Tutto accadde molto velocemente. JeanPaul e Pierre fecero saltare il vetro che separava i famigliari dai detenuti. Lo spazio era sufficiente per far passare le armi. Nello stesso tempo, Richard, Edgar e Robert erano saltati addosso alle guardie per neutralizzarle. Joyce aveva passato i revolver ai miei due amici. I cinque si erano messi a correre lungo il corridoio che portava al portone dei famigliari. Le guardie, vedendoli con le armi in mano, furono prese dal panico e, benché fossero anch'esse armate, preferirono aprire le porte. Per sollecitare la loro decisione JeanPaul aveva sparato un colpo verso di loro. Era stato dato l'allarme generale. Arrivati fuori, i cinque erano stati bersagliati dal fuoco delle torrette, ma erano riusciti a saltare sulla macchina che li aspettava. Ancora una volta la determinazione aveva dato i suoi frutti. Cinque fiere erano in libertà, cinque veri uomini. Joyce e Carole si erano sacrificate. Per loro non era possibile alcuna fuga. Sapevano che sarebbero rimaste prigioniere dal lato dei famigliari della sala colloqui, ma avevano accettato di sacrificare la loro libertà. Joyce lo aveva fatto per me, Carole per Pierre. Furono arrestate sul posto e portate in questura per essere interrogate. Non diedero alcuna spiegazione e rimasero in silenzio. Nonostante la caccia all'uomo scatenata in tutto il Québec, non trovarono alcuna traccia dei fuggitivi. Il 31 ottobre 1974, Jean-Paul, in compagnia di Vincent e Frappier, attaccò

una banca situata tra le vie Pio Nono e Jean-Talon, nel nord-est di Montreal. Erano le undici e venti. In seguito a una soffiata, gli agenti della sezione criminale della polizia, sotto la direzione del tenente Jacques Boisclair, si erano piazzati di fronte alla Banca Reale al 4286 di rue Jean-Talon. Quando i tre uomini erano usciti dalla banca, dopo aver ripulito le casse, la polizia aveva intimato il fatidico: «Polizia, arrendetevi»... ed era scoppiata la sparatoria senza che si potesse capire chi avesse aperto il fuoco per primo. Per proteggere la fuga dei suoi amici, Jean-Paul aveva letteralmente crivellato di colpi le auto della polizia. Una pallottola lo aveva colpito al braccio. Ma, dopo una folle corsa sotto una pioggia di piombo, tutti erano riusciti ad arrivare alla macchina della fuga. Nel momento in cui la macchina si avviava, una raffica la prese in pieno, bloccandone la direzione e rendendo impossibile ogni manovra. Sull'abbrivio, non potendo girare né a destra né a sinistra, l'automobile terminò la sua corsa sbattendo contro un palo del telefono e due auto in sosta. Scesi, Jean-Paul e i suoi amici si erano precipitati verso l'ingresso principale di un negozio della catena Handy Store. Frappier intanto cercava di andare a destra verso il Miracle Mart, mentre Vincent fuggiva sotto il fuoco tra le macchine in sosta. Jean-Paul sparava raffiche, aprendosi la strada in mezzo ai poliziotti. Uno di loro, pancia a terra, lo prese di mira. Una delle pallottole lo raggiunse alla testa. Cadde morto. A trenta metri un altro poliziotto cercava di tagliare la strada a Frappier, ma perse l'equilibrio e cadde. Frappier, arrivato alla sua altezza puntò l'arma alla testa del poliziotto e premette diverse volte il grilletto, ma il caricatore era vuoto. Colpito a sua volta al collo e da due colpi allo stomaco, Frappier si accasciò davanti a un'auto della polizia che gli sbarrava la strada. Vincent invece era riuscito a scappare. Per ottenere quel risultato erano stati sparati più di duecento colpi. Il mio amico era morto con le armi in pugno e quando lo seppi, oltre al dolore, capii che anche lui, come me, aveva fatto la sua scelta. Ne aveva pagato il prezzo. Processarono Joyce. Il mio avvocato, Raymond Daoust, riuscì a ottenere una condanna a ventitré mesi. Con il suo gesto aveva permesso a Jean-Paul di morire da uomo libero. Non poteva aspettarsi altro ed era meglio così, piuttosto che morire a poco a poco nelle celle infette della sezione di massima sicurezza del penitenziario di Saint-Vincent-de-Paul. A causa della morte del mio amico, tutti i miei progetti erano compromessi. Richard Blass, da parte sua, regolava i suoi conti a Montreal. Con l'aiuto di Roussel, giustiziava due suoi vecchi amici che lo avevano tradito. Si presentò al bar Gargantua, una pistola per mano e gli sparò tre colpi a testa, davanti a tutti i clienti. A Montreal Blass era un uomo temuto e nessuno osò andare a testimoniare contro di lui. Il tipo di detenzione che aveva subìto, come l'avevo subìto io all'U.S.C., lo aveva trasformato in una belva senza pietà. Eppure, io che lo avevo conosciuto bene, sapevo che Richard era un tipo sensibile e sentimentale. Il carcere aveva ucciso qualcosa in lui. Dai tempi della mia evasione in Québec, avevo lottato perché migliorassero le condizioni dei detenuti. Se l'unità speciale era stata

chiusa grazie a quanto avevo fatto, qualcosa di peggiore l'aveva sostituita. Richard Blass era libero... Scrisse una lettera aperta al procuratore generale del Canada, Warren Allmond, per avvertirlo di lasciare che la stampa visitasse quella fabbrica di criminali che era la sezione "Cell Block I" del penitenziario di Saint-Vincent-de-Paul. Se non veniva fatto qualcosa, se la popolazione si rifiutava di migliorare le condizioni di detenzione rendendosi complice delle autorità, Blass avvisò che il sangue sarebbe stato sparso per le strade di Montreal. Alle rimostranze di Blass, il procuratore generale fece orecchie da mercante... e il sangue si sparse come mai prima nella metropoli. Blass tornò al Gargantua con uno dei suoi amici. Bloccò tutti, fece uscire le persone che conosceva e chiuse gli altri in cantina. Il padrone del Gargantua era un ex sbirro. Blass gli sparò un colpo al cuore. E allora, come vendetta per tutto quello che la società gli aveva fatto, commise il peggior crimine che Montreal avesse mai visto. Riempì di benzina la cantina e le diede fuoco. Freddamente mandò a morte dodici persone, più lo sbirro giustiziato... Blass, come risposta al silenzio del procuratore generale, assassinò tredici persone. Il Canada inorridì per quel massacro, ma cercò di capire come si era potuto arrivare a quel punto. I giornalisti, finalmente, visitarono il "Cell Block I" e capirono che detenere uomini in quelle condizioni significava o spingerli al suicidio o trasformarli in pazzi criminali... Tredici innocenti ne avevano pagato il prezzo... Roussel non aveva partecipato a quel massacro, ne ero certo... Qualche tempo dopo, circondato dalla polizia, si arrese. Il 24 gennaio 1975, i poliziotti, con alla testa il sergente Albert Lisacek, accerchiarono di notte uno chalet in Val David, nella regione delle Laurentides, a una trentina di chilometri da Montreal. Sfondarono la porta e si precipitarono all'interno. Blass dormiva con una delle sue numerose amiche. Al grido di «Polizia, arrendetevi», lei saltò dal letto e si precipitò nell'altra stanza. I poliziotti corsero in direzione della camera di Richard. Lui ebbe solo il tempo d'infilarsi i pantaloni. Nessuna fuga era possibile. Richard gridò: «OK, mi arrendo.» I poliziotti si affacciarono alla porta della stanza e spararono due raffiche di mitraglietta... Blass morì con ventisette proiettili in corpo, le sue ultime parole ai poliziotti erano state «mes hosties» che voleva dire «fottuti»... La polizia lo aveva giustiziato... Non si prende viva una belva responsabile del massacro di tredici persone... Uno dei peggiori assassini del Canada era morto così come aveva vissuto: nella violenza. L'Interpol, che aveva avvertito le autorità francesi dell'evasione dei miei amici, adesso poteva respirare... Quattro non erano più in condizione di aiutarmi, due erano morti... Solo Pierre Vincent era ancora libero. Sarebbe stato catturato un anno dopo. Nella mia cella della Santé, la situazione era migliorata. Ogni fine settimana avevo diritto alla televisione, per compensare il cinema cui avevano diritto

gli altri detenuti. Mi avevano messo in una cella con la finestra e all'interno dell'isolamento avevano costruito una saletta per i colloqui con gli avvocati. Insomma, avevano costruito una prigione nella prigione. Non avevo alcun problema con le mie guardie che erano selezionate tra le migliori. Nell'insieme, avevo a che fare con dei tipi per bene, corretti, che facevano di tutto per rendermi meno pesante l'isolamento. Da parte mia, non li provocavo, non avendo assolutamente niente da rimproverargli né niente da dover dimostrare. Finalmente il giudice mi concesse un colloquio al mese con Janou. La fecero venire sotto buona scorta da Fleury-Merogis. Seduti faccia a faccia, separati dai vetri infrangibili, i nostri occhi si leggevano, s'interrogavano in silenzio... Eravamo rimasti più di un minuto senza pronunciare una sola parola. Poi, su un tono scherzoso, per nascondere l'emozione, ruppi il silenzio. - Buongiorno angelo mio... Sei in ritardo... - Sì, vecchio marpione... Ventisette mesi di ritardo... Un secolo, per me. Non la vedevo dalla mia evasione dall'U.S.C. Lei era la stessa, ma leggevo sul suo volto tutte le sofferenze che aveva sopportato. I suoi capelli avevano cominciato a ingrigire come per testimoniare gli anni di prigione. Erano cinque anni e mezzo che era in carcere. Il giudice istruttore le rifiutava la libertà provvisoria. Eppure, che cosa le contestavano?... Nient'altro che la rapina all'industriale di Chamonix, e la storia era di otto anni prima. In caso di libertà provvisoria non c'era neanche il pericolo dell'inquinamento delle prove, perché l'industriale era morto di morte naturale da più di dieci mesi. Le stavano facendo scontare la custodia cautelare come acconto su una possibile condanna... In realtà le stavano facendo pagare il mio nome... Le facevano pagare il suo amore per me. Al contrario, colui che mi aveva denunciato agli sbirri, Pierre Verheyden, come ricompensa per la sua delazione, era stato posto in libertà provvisoria dopo un anno di carcere. Chi mi aveva affittato l'appartamento era stato prima incarcerato e poi messo in libertà provvisoria, ma si era impiccato in un garage dopo tre giorni... Forse aveva avuto dei rimorsi per non essersi comportato bene con gli sbirri? Il giudice forse sperava che succedesse la stessa cosa a Verheyden. Quello, me lo tenevo per me... Nessuno doveva toccarlo. Nell'attesa viveva come un uomo braccato, con la paura che gli attanagliava le viscere... Ogni donna che incontrava poteva essere una trappola per portarlo al macello, ogni nuovo amico poteva essere colui che era incaricato di giustiziarlo... Viveva nel terrore, come tutti i cani della sua

razza. Con Janou, il nostro colloquio era fatto solo d'amore... Lei sarebbe stata messa in libertà provvisoria nell'ottobre del 1976, dopo sette anni e tre mesi di carcere. Alla Santé, malgrado l'isolamento, avevo contatti costanti con l'esterno e l'interno della prigione. Jean-Charles Willoquet voleva assolutamente che tentassimo qualcosa insieme. Sapevo che era pronto a tutto; intanto mi chiese se potevo procurarmi delle armi... Gli risposi affermativamente. Uno dei suoi compagni voleva tentare qualcosa al palazzo di giustizia di Parigi... Feci lasciare una Mauser con il colpo in canna sullo sciacquone del cesso che era vicino all'ufficio del giudice istruttore. Arrivato il giorno, quello s'impadronì dell'arma, ma fallì perché l'unico gendarme presente gli saltò addosso... Almeno aveva avuto il coraggio di tentare e il fatto di aver fallito non toglieva niente al gesto. Alla Santé mi succedeva di essere violento. Normalmente nessun detenuto doveva entrare nella mia sezione se io ero fuori dalla cella. Un algerino di nome Tchicou, noto informatore della polizia e spia dell'amministrazione, commise l'imprudenza di farlo. Era giusto mezzogiorno, la mia porta era aperta per la distribuzione del caffè. Avevo la scodella e il cucchiaio in mano... Quando lo vidi, spinsi la guardia che era davanti alla mia porta per precipitarmi su di lui. Lo apostrofai: - Non venire mai qui, schifezza... Era un gradasso, uno spaccone come tanti. Con lo sguardo cattivo, mi rispose, aggressivo: - Che cosa... Non gli lasciai il tempo di dire altro. Avevo il mio cucchiaio in mano... Il mio braccio si distese, il manico del cucchiaio gli entrò nella mascella destra, gli spaccò due molari e gli tagliò un pezzo di lingua. Esterrefatto, guardava il mio sguardo freddo. Ruppi il cucchiaio lasciandogli in bocca il manico. - Se torni qui, ti uccido. Nessuna guardia si era mossa... Gli avevo girato le spalle ed ero tornato in cella. L'indomani mi chiamarono in consiglio di disciplina. Il direttore mi chiese il motivo della mia reazione. La mia unica risposta fu: «nessuna spia a portata della mia mano». Siccome non gli mancava il senso dell'umorismo,

mi fece notare che non avevo usato il rovescio del cucchiaio... L'incidente finì lì. Con Willoquet cominciò a prendere forma un progetto... Voleva tentare lo stesso colpo che a me era riuscito al tribunale di Compiègne. Mi chiese il mio parere. Gli feci capire che se era certo di andare fino in fondo aveva ogni possibilità di riuscire... Voleva che mi unissi alla sua evasione. Per diversi mesi, tutte le volte che ci era possibile incontrarci, mettemmo a punto tutti i dettagli. Io insistevo perché avesse anche una granata a frammentazione a cui togliere la sicura... Era l'arma assoluta che poteva impedire ogni tentativo d'opposizione da parte dei gendarmi. La sua compagna Martine era di quelle donne capaci di sacrificare la sua vita per l'uomo che amava. Era pronta a tutto per tirare fuori il suo «Charlie» da quel buco. Sapeva che, in caso contrario, non aveva speranza di rivederlo. Uno per uno controllò tutti i dettagli... Gli avevo fornito le armi che gli mancavano. Il nostro compito era semplice e l'azione doveva essere precisa. Martine si sarebbe presentata vestita da avvocato con due rivoltelle in borsa; avrebbe brandito la granata, minacciando di far saltare tutti e tutto, e avrebbe passato le pistole a Charlie che, rapidamente, avrebbe neutralizzato i giudici e il procuratore ammanettandoli insieme. Doveva poi barricarsi con loro in una stanza e chiedere che mi facessero arrivare, sotto la minaccia di giustiziare uno dei giudici. La granata era la garanzia di riuscita, perché né l'anticrimine né i tiratori scelti potevano tentare alcunché senza far saltare il giudice e il procuratore. Avevo avvertito Charlie che bisognava giocare duro, perché non c'era da aspettarsi alcuna grazia né bisognava concederla. Gli avevo anche detto che se si servivano di me come scudo per avvicinarlo, di aprire lo stesso il fuoco... Ero certo della riuscita. Mi assicurò che tutto sarebbe stato fatto come previsto. Da parte mia, una volta fuori, gli avrei dato tutto il mio aiuto perché potesse rifugiarsi negli Stati Uniti da amici che, oltre a fornirgli documenti e nascondigli, lo avrebbero preso come socio nei loro affari, poiché l'evasione sarebbe stata un buon biglietto da visita. Come due amici facevamo già progetti per il futuro. Non avevo alcun motivo per dubitare della sua parola. Tutto era pronto... Non restava che aspettare. La fortuna volle che andassimo entrambi in tribunale lo stesso giorno, ma solo per un'istruttoria. Riuscii a farmi mettere nella sua stessa cella. - Tutto è pronto, figliolo. - Sì, nessun problema, sarà fra tre giorni, l'8 luglio. Charlie non mi doveva niente. Ci eravamo conosciuti in prigione, ma avevamo stipulato un patto... Nella mia vita avevo sempre rispettato i miei impegni. Lui, malgrado la sua amicizia per me, non avrebbe rispettato il

suo. Se mi avesse detto che preferiva tentare un'uscita diretta, avrei capito e mi sarei organizzato in un altro modo. Ma per me tutto era basato sul fatto che mi avrebbe dovuto fare arrivare quando fosse rimasto padrone della situazione... Non avevo alcun motivo per dubitare della sua parola. L'8 luglio, alle undici del mattino, mi misi un'ultima volta in contatto con lui e gli passai le mie ultime istruzioni scritte. Lo sostenni dicendogli che ero certo della sua riuscita. Charlie era temibile nell'azione. Lo avvisai che i gendarmi erano gente pronta a sacrificare la vita per il dovere, lo avevo constatato a Compiègne... Alle undici e mezza, Charlie terminava una partita di pallavolo dicendo ai suoi compagni che avrebbe preferito lasciare per l'indomani il quindicesimo punto. Passò vicino alla finestra della mia cella. I nostri sguardi s'incrociarono. - A presto, figliolo. E in bocca al lupo! Mi sorrise. - A presto.

Per mesi avevo aspettato quel giorno... Per ore avevo preparato, insieme a Charlie, l'azione, eppure... Mi diceva «a presto», ben sapendo che non aveva nessuna intenzione di farmi andare con lui. Mi aveva nascosto ciò che gli aveva fatto cambiare i suoi progetti. Se me lo avesse detto sarei stato il primo a essere d'accordo per tentare un'azione diretta come stava per fare. Nell'aula di tribunale dove doveva andare stavano facendo dei lavori... Perciò lo avevano spostato in un'altra aula più vicina all'uscita... Era questa la ragione che gli aveva fatto cambiare idea. Ma si era detto che se il colpo falliva e si trovava obbligato a rinchiudersi con gli ostaggi, allora mi avrebbe fatto venire. In verità, mi aveva dato una falsa speranza su un progetto comune. L'8 luglio 1975, Manine Willoquet entrò vestita da avvocato nella quattordicesima sezione del tribunale... Il presidente Cozette iniziò a chiamare le cause del giorno. Willoquet doveva essere processato per un semplice furto d'auto e si trovava in mezzo ad altri detenuti. Di colpo, la voce di Mattine squillò nell'aula:

- Se qualcuno si muove, faccio saltare tutto! Brandiva una granata. Si avvicinò alla gabbia degli imputati e passò una pistola e un paio di manette al marito che saltò sul presidente e, come avevo fatto io a Compiègne, gli puntò l'arma alla nuca. Charlie ordinò di far sgombrare l'aula. Nel tribunale ormai c'era il panico... Poi ammanettò insieme i due magistrati e si diresse verso l'uscita riparandosi dietro il presidente Cozette e il sostituto Michel. Martine seguiva tenendo ben salda la bomba a mano. L'allarme era stato dato. Il comandante Guillaume, capo delle guardie, si parò davanti a Charlie per fermarlo. Non aveva armi con sé... Charlie sparò un colpo in aria. Il comandante gli si avvicinò ancora per saltargli addosso... Due spari... Il comandante Guillaume crollò al suolo, colpito da due colpi in pancia. Nello stesso momento l'agente Germano saltò addosso a Willoquet. Questi, senza girarsi, puntò l'arma sopra la spalla e sparò... Germano cadde con un colpo in testa. Nel corridoio tutti urlavano. Charlie approfittò della confusione per arrivare all'uscita. Una Fiat 126 lo aspettava. Obbligò i due magistrati a salire dietro. Martine salì davanti sempre con la bomba senza sicura... Charlie prese il volante e partì di volata... Nella mia cella, seppi dell'evasione da un notiziario della radio. La mia prima reazione fu di felicitarmi per quell'azione di commando, ma subito mi resi conto che Charlie mi aveva ingannato... I patti devono essere rispettati... Nella vita, bisogna comportarsi coerentemente o non prendere impegni... Malgrado tutto, avevo un'ultima speranza apprendendo che aveva sempre i due magistrati in ostaggio... Se avesse chiesto la mia liberazione in cambio della loro vita, subito, a caldo, soprattutto dopo aver abbattuto due gendarmi, ero certo che le autorità non avrebbero avuto altra soluzione che rilasciarmi. Ma anche ora, benché libero, Charlie non si preoccupò di me. Libero, tornò a essere un egoista che fa passare i suoi interessi davanti all'amicizia, davanti ai suoi impegni di uomo. Seppi che i magistrati erano stati rilasciati... Charlie aveva appena buttato le chiavi che potevano aprire le porte della mia cella... Mi resi conto che a suo riguardo mi ero sbagliato e che, se le sue azioni e il suo coraggio potevano suscitare la mia ammirazione, non era lo stesso per la sua mentalità e i suoi principi. Perché non si prendono impegni con una persona seria che altrimenti dovrebbe terminare in prigione la propria vita, non si dà una falsa speranza e non si bara con l'amicizia. Fuori, i miei amici avrebbero dovuto aiutarlo. Non c'era neppure da pensarlo. Se Charlie non mi doveva niente, neanche io gli dovevo niente. Al contrario, ero felice per Martine, che aveva appena ritrovato qualche istante di felicità tra le sue braccia. Ancora una volta era la donna a essersi comportata da uomo.

Passarono due mesi... All'esterno Charlie aveva trovato un aiuto limitato... Senza soldi, senza tanti soldi, non è possibile alcuna latitanza... Non avevo sue notizie, allorché un mio amico incarcerato a Fleury-Mérogis mi fece sapere che aveva preso contatto con lui. Charlie mi chiese istruzioni per organizzare la mia evasione... Sul momento non ero molto entusiasta, avendo ancora ben presente come non aveva rispettato il primo impegno. Forse voleva riparare alla sua dimenticanza... Sapevo che mi stimava molto. Inoltre, sapeva che, con me libero, era certo di potersi rifugiare negli Stati Uniti... Malgrado il mio rancore, gli feci sapere che ero d'accordo per fargli avere un piano d'evasione completo... Stavolta ero pronto a tutto. Vedevo la cosa da due punti di vista: il lavoro che doveva fare Charlie e quello che dovevano fare i miei amici canadesi. Presi contatto con Montreal. Due canadesi erano d'accordo per venire a Parigi e aiutare Willoquet il giorno dell'azione. Lasciavo a Charlie il compito di preparare tutto prima del loro arrivo. I miei amici non conoscevano la Francia e avevano bisogno di essere guidati. Credevo, a torto, che Charlie avesse amici seri e soldi. Alla fine di settembre, gli feci arrivare un piano completo con tutti i dettagli e gli errori da non commettere. Pianificavo il sequestro di due personalità, un alto magistrato e un uomo politico dell'opposizione. A tal proposito avevo delle informazioni approfondite perché tutto andasse liscio, ma gliele avrei comunicate solo quando avesse terminato i primi preparativi. La mia scelta di un uomo dell'opposizione non aveva niente a che fare con le mie opinioni politiche. Era il frutto di un calcolo ben preciso. Il governo era responsabile dell'evasione di Willoquet e degli atti che poteva commettere. Non potevano lasciare morire un membro dell'opposizione senza provocare uno scandalo politico. D'altra parte, l'opposizione non poteva rimproverare al governo il fatto di avermi reso la libertà in cambio della vita di uno dei suoi. Charlie doveva tenere i due uomini in un luogo che io ignoravo. Sapevo che una tale azione avrebbe provocato la forte reazione del ministero degli Interni. Certo, non dovevo aspettarmi regali... Ma ero pronto a correre il rischio. Alla fine della strada c'era o una palla in testa o la ghigliottina o la libertà. Se fossi stato io a essere libero sapevo che sarei riuscito a condurre a buon fine una tale operazione. Charlie ne sarebbe stato capace? Perché bisognava andare fino in fondo! Una volta rapiti i due uomini e messili al sicuro, Charlie doveva portare una lettera a un avvocato conosciuto che, da parte sua, doveva consegnarla al procuratore generale. Questa lettera conteneva i miei ordini, da eseguire entro ventiquattro ore. Dopo averla ricevuta, il procuratore generale doveva mettersi in contatto con me. Da parte mia, seguendo un codice, avrei avvisato Charlie degli sviluppi tramite una radio. Avevo scelto Europa N° 1.

Tre messaggi precisi dovevano essere sufficienti per capire esattamente a che punto era l'azione. Se il mio primo messaggio non era letto entro sei ore dopo che il procuratore generale aveva ricevuto la lettera, Charlie doveva telefonare a Europa N° 1 tramite il telefono rosso e annunciare il sequestro politico e le condizioni. Ciò per evitare che scendesse il silenzio sulla faccenda. Se, in uno solo dei miei messaggi, un qualsiasi colore seguiva la frase, era il segnale che annunciava il rifiuto delle autorità a cedere. Il magistrato doveva essere affidato a uno dei miei amici canadesi, messo nel portabagagli di un'auto, portato in un garage sotterraneo ben preciso e giustiziato a mo' di risposta alle autorità. Gli amici che dovevo far venire non erano tipi sentimentali. Sapevo con certezza che in caso di rifiuto il magistrato sarebbe stato giustiziato. Così Charlie doveva dare a Europa N° 1 l'indirizzo del parcheggio e annunciare quanto tempo restava delle ventiquattro ore. Ero sicuro che le autorità si sarebbero spaventate. L'unico bluff era che non avrei mai giustiziato un uomo dell'opposizione. Sapevo che il governo avrebbe ceduto. Si cede sempre di fronte alla determinazione. Prima del mio isolamento completo in detenzione, non avrei mai pensato di fare un sequestro politico. Ma non ero anch'io ostaggio dell'amministrazione penitenziaria? Mi rifiutavano, come a molti altri ingabbiati nei centri di massima sicurezza, condizioni normali di detenzione e, se organizzavo freddamente l'esecuzione di un magistrato, era perché sovente quegli stessi magistrati si facevano complici indiretti degli abusi dell'amministrazione penitenziaria, chiudendo gli occhi sulle nostre verità. Con questo isolamento volevano trasformarmi in belva. E io come una belva reagivo. Sapevo che se il piano riusciva la maggiore difficoltà sarebbe stata la mia uscita da rue de la Santé. I migliori sbirri mi avrebbero pedinato. Ma avevo previsto una cosa che Charlie ignorava. Avevo chiesto di prepararmi una macchina e di piazzarla in un punto ben preciso. Inoltre dovevo raggiungere una stanza dove c'erano vestiti e armi. In nessun momento dovevo interrompere il pedinamento, anzi. In seguito avrei preso la macchina che Charlie mi aveva preparato per andare in un parcheggio dove mi aspettava un'altra auto. Quest'auto doveva essere di colore bianco e avere uno dei profili posteriori ammaccato perché i poliziotti potessero riconoscerla... Perché a cento chilometri da Parigi, su una stradina vicino a Louviers, un'altra auto simile, con la stessa targa e lo stesso colore e la stessa ammaccatura, doveva aspettarmi con al volante un tipo vestito come me. Dal parcheggio avrei atteso la notte per partire in direzione di Louviers con gli sbirri dietro. Avrei preso l'autostrada dell'Ovest e l'avrei lasciata per Louviers. Nella discesa che portava in città, avrei preso una stradina che c'è sulla destra e che si inoltra nella foresta. Ciò avrebbe costretto gli sbirri a seguirmi da lontano. A mezza costa un viottolo entrava nella foresta che contornava la proprietà di Mendès-France. L'altra macchina mi avrebbe aspettato con il motore acceso, in un angolo invisibile ai poliziotti. In quel momento avrei giocato la mia partita. Avrei

spento tutte le luci, mi sarei inoltrato in quel viottolo che conoscevo bene e avrei fermato il motore. L'altra auto doveva partire nello stesso momento e continuare per la strada che si presumeva io avrei seguito... I poliziotti non si potevano rendere conto della sostituzione e alla fine avrebbero seguito un altro. Da parte mia, avrei lasciato l'auto per inoltrarmi nella foresta che, nella mia infanzia, avevo percorso in tutti i sensi. In un punto preciso ci doveva essere un ciclomotore con una tuta bianca e dei barattoli di vernice. E anche un casco integrale. Con quel mezzo di locomozione avrei dovuto raggiungere un nascondiglio che certi amici avevano lì vicino. Nel frattempo, l'altra auto doveva prendere la direzione di Rouen, sempre con gli sbirri dietro. In quella macchina l'autista avrebbe avuto dei vestiti di ricambio, delle provviste, un cappellino e un cagnolino. Arrivato a Rouen, l'uomo sarebbe entrato in una strada senza uscita, cosa che avrebbe impedito agli sbirri di seguirlo. Doveva parcheggiare l'auto ed entrare in un edificio. Da lontano, i poliziotti, essendo certi di avermi seguito fin dall'inizio, avrebbero creduto che io fossi entrato nell'edificio. Intanto, l'uomo avrebbe raggiunto il corridoio delle cantine. Si sarebbe rapidamente cambiato, si sarebbe messo il cappellino, preso le sue provviste e il cagnolino al guinzaglio... E sarebbe uscito tranquillamente come qualcuno che porta a passeggio il cane. Sarebbe passato davanti ai poliziotti nascosti. Più in là lo avrebbe aspettato un'auto con i documenti in regola. Poteva ritornare a Parigi e lasciare gli sbirri davanti a un edificio in cui pensavano ci fossi io. Ero assolutamente certo della riuscita del piano. Charlie aveva ricevuto la prima parte delle istruzioni e mi aveva fatto sapere che era tutto OK... che avrebbe fatto il necessario. Eravamo all'inizio d'ottobre... I giorni e le settimane passarono senza che lui prendesse nuovamente contatto... In realtà non aveva preparato niente, rimandando sempre l'inizio dei preparativi. Da parte mia, tutto era pronto... I miei amici canadesi non aspettavano che il mio segnale per arrivare a Parigi. Gli amici di Parigi avevano preparato le due auto uguali, erano andati a controllare il luogo in cui piazzarle e l'edificio di Rouen. Per contro, nessuno di loro era d'accordo a partecipare al sequestro; se li avessero presi, per loro il prezzo era troppo alto. Gli avevo chiesto solo ciò che potevano fare. In effetti l'azione doveva essere fatta solo da qualcuno che non avesse più niente da perdere. Credevo che Jean-Charles Willoquet fosse l'uomo adatto. La sua evasione mi aveva dimostrato che era capace di azioni giudicate impossibili. In realtà, con sprezzo del pericolo, commetteva un mucchio di errori, come lasciare dalla scala di servizio un albergo dove aveva mangiato e dormito per diversi giorni. Un buon sistema per attirare l'attenzione dei poliziotti. Tutti quegli errori erano dovuti alla mancanza di denaro, perché Charlie, l'uomo più ricercato del momento, non era capace di riempirsi le tasche rapinando le banche... Ma questo lo ignoravo. Non avendo sue notizie, capii che ancora una volta il mio piano era in alto mare. Avrei aspettato fino alla fine del mese per annullare i preparativi dei

miei amici. Nessuno di loro voleva incontrare Charlie per timore di portarsi dietro gli sbirri, cosa sempre possibile. Mi misi ad attendere, furioso e disilluso... Perché a quel progetto ci credevo. La notizia mi colpì in pieno. Una sparatoria era avvenuta in avenue Kléber. Era il 25 ottobre. Willoquet era stato intercettato dall'anticrimine e aveva aperto il fuoco. In azione lui era temibile. Gli sbirri avevano risposto al fuoco... Oppure avevano aperto il fuoco per primi, non lo so. La sola cosa che m'importava era che Martine era rimasta al suolo, gravemente ferita... Charlie aveva preso in ostaggio una coppia e, ancora una volta, era uscito da una situazione impossibile. Sapere che Martine era sul selciato, ferita, vittima del suo amore, mi sconvolse. Ammiravo quella donna per il suo coraggio, per il suo carattere. In tempo di guerra la sua azione al palazzo di giustizia avrebbe suscitato l'ammirazione di tutti... In tutte le prigioni di Francia, il suo nome era pronunciato con rispetto, perché lei era «una donna di rispetto». L'indomani, domenica 26 ottobre, avrei avuto la più grossa sorpresa della mia vita. Alcuni poliziotti si presentarono alla sezione di massima sicurezza con un mandato di perquisizione e sequestrarono la mia macchina da scrivere, dicendomi che avevano trovato il piano d'evasione nella borsa di Martine. Avevano in mano i cinque fogli dattiloscritti che spiegavano tutto nei minimi particolari... Charlie lo aveva ricevuto da più di venti giorni. Come aveva potuto commettere una tale imprudenza non distruggendo tutti i fogli dopo averli studiati? Capivo che non aveva mai avuto l'intenzione di realizzare il mio progetto. In realtà era troppo grosso per lui. Per passare dal progetto all'azione ci voleva una forte determinazione. Willoquet era forse un killer pericoloso, ma non un organizzatore... Forse si era messo in contatto con me solo per giustificare un aiuto problematico o il rimorso di non aver mantenuto i suoi impegni il giorno dell'evasione. Non gliene volevo neanche per quello. Per me l'unica cosa che contava era la salute di Martine e il dolore che doveva provare, con lui braccato come una belva. Martine Willoquet, incinta e ferita, sola nella sua disperazione di donna innamorata, malgrado le domande dei poliziotti, mantenne il silenzio più completo... I poliziotti che m'interrogavano non poterono impedirsi di ammettere che il piano, se messo in pratica, aveva tutte le possibilità di riuscire. Mi tranquillizzarono sulla salute di Martine, aggiungendo: - Quella sì che è una donna.

Ero sicuro che Charlie sarebbe stato ripreso prima della fine dell'anno se non avesse lasciato immediatamente la Francia. Mi chiedevo chi aveva potuto informare gli sbirri e soprattutto che cosa era andato a fare in avenue Kléber... Il primo dicembre 1975 gli uomini dell'anticrimine accerchiarono Willoquet in un appartamento al 17 di rue d'Oslo, a Parigi. I commissari Broussard e Leclerc, fattisi forti del mio arresto, ripeterono il colpo e non lasciarono via di scampo a Charlie... Lui si arrese. Ancora una volta sentii la notizia per radio. Mi ritornò in mente una frase che aveva detto, parlando della mia resa in rue Vergniaud: «Sai, Jacques, io al tuo posto non mi sarei mai arreso!». All'epoca mi ero accontentato di sorridere... Sfortunatamente per lui ora si era trovato nella stessa situazione... Quando Broussard gli aveva messo le manette, aveva pensato alla frase che mi aveva detto? Stavolta, per lui come per me, l'evasione rischiava di farsi attendere. In ogni modo, mi ripromisi che, se un giorno fossi riuscito a evadere, non lo avrei lasciato in galera. Non si lascia un uomo all'ergastolo, anche se non ha fatto tutto il suo dovere... Nonostante le sue promesse, Charlie non mi doveva niente. Non rispettandole, adesso ne pagava il prezzo. Il direttore della Santé ricevette l'ordine di isolare Charlie e soprattutto di fare in modo che non potessimo comunicare. Il mio isolamento divenne più rigido.

Si era parlato di migliorie nelle prigioni francesi. In realtà, dopo le rivolte del 1974, sulle persone condannate a lunghe pene o che potevano esserlo, la repressione era totale. Nessuno può scappare dalla Santé. Da quando esiste, che io sappia, nessuno ne ha mai scavalcato le mura. L'amministrazione iniziò ogni sorta di lavori per rinforzare la sicurezza. Aggiunse torrette un po' dappertutto. Nella mia sezione le celle furono trasformate in maniera ancora più repressiva. Il mio cortiletto fu ricoperto da una fitta griglia... Le riforme promesse restarono lettera morta... Ingabbiarono un po' di più gli uomini considerati pericolosi, ma che magari tenevano una condotta impeccabile. Il grande pericolo delle sezioni di massima sicurezza è che una volta costruite non le possono lasciare vuote; allora ci mettono chiunque... Si inventano le persone pericolose... Tutto ciò fa parte degli abusi dell'amministrazione penitenziaria. Ebbi dei colloqui con il direttore a tal proposito. Gli spiegai che lo stesso errore era stato commesso in Canada... E che la repressione ingiustificata aveva avuto conseguenze catastrofiche. Aveva creato dei Richard Blass... dei Mesrine. Perché, se si toglie la possibilità di una vita normale a un uomo condannato a una lunga pena, gli si lasciano due scelte: o lasciarsi distruggere o ribellarsi. L'amministrazione ama la rivolta; gli serve da alibi per giustificare

la repressione. Ma una rivolta nasconde sempre un'ingiustizia a un detenuto. Un uomo non può accettare di essere isolato a vita. Un uomo non può accettare la sua distruzione mentale. Senza una speranza al termine del suo percorso di sofferenza, l'uomo è capace dei peggiori eccessi, dei peggiori atti omicidi. Gli predissi che, prima di tre anni, ci sarebbe stato un massacro in qualche sezione di massima sicurezza... O quanto meno degli incidenti molto gravi. Sei mesi dopo, l'incidente si produsse a Lisieux. Segard e i suoi compagni presero delle guardie in ostaggio e si fecero massacrare dalle forze dell'ordine. Io sapevo che, a titolo personale, se un giorno ci provavano con me, non lo avrei accettato. Espiare la propria pena è una cosa, lasciarsi distruggere un'altra. Alla Santé, non mi potevo lamentare. I miei colloqui erano regolari e, quando possibile, mi concedevano un prolungamento di orario. Ero isolato... ma sopportavo quell'isolamento. Il ministero della Giustizia, temendo che io approfittassi di un'istruttoria a palazzo di giustizia per tentare un'evasione, decise che le mie istruttorie avrebbero avuto luogo in carcere. Questa misura speciale limitava parecchio i miei diritti. Ogni altro imputato è presentato ai testimoni mischiato con diversi figuranti, mentre io ero portato direttamente di fronte ai testimoni. Sempre per motivi di sicurezza, il giudice istruttore mi rifiutava ciò che per gli altri era la norma. A ogni istruzione avevo gli agenti speciali della gendarmeria dietro di me. Il fatto di avere cinque karateka, con la Manurhin 357 magnum alla cintura, in piena sezione speciale mi faceva sorridere... Mi facevano più grosso di quel che ero. Senza figuranti ai confronti, chiaramente era più facile che mi riconoscessero come sicuro colpevole piuttosto che colpevole probabile. Tutti i testimoni che erano entrati nel carcere provavano una sorta di malessere morale; la cosa era visibile. Lì avevano occasione di vedere il mondo del carcere, i suoi corridoi freddi e l'allineamento delle porte numerate come i cassetti dell'obitorio. La maggior parte mi riconosceva, cosa che per me non aveva nessuna importanza, ma facendoli entrare in prigione, indirettamente, gli facevano correre un rischio. Cosa sarebbe successo se fosse scoppiata una rivolta durante la loro presenza? In quelle condizioni, i miei mezzi di difesa erano considerevolmente ridotti. Il giudice istruttore si ostinava a rifiutarmi ogni confronto. Quelle disposizioni autoritarie, personalizzate, mi facevano vedere il volto parziale della giustizia. Sempre in nome della sicurezza, questo regime molto speciale mi era applicato contrariamente al diritto comune e sfiorava l'arbitrio. Avevo l'impressione che tutti i miei diritti fossero violati perché mi sentivo privato di ogni mezzo per intervenire nel mio processo. Mi scontravo violentemente con il giudice istruttore, ma ciò non cambiava niente. Stanco di tale situazione, presi la decisione di rifiutare le future istruttorie.

Mia madre mi annunciò che mia figlia Sabrina aveva finalmente avuto l'autorizzazione al colloquio. Dopo il mio arresto ci eravamo scritti regolarmente. Adoravo la mia bimba di un amore folle. Lei rappresentava tutto quello che di bello e di pulito c'era nella mia vita. Temevo quel primo incontro. Avevo lasciato una bambina e ritrovavo una signorina. Sapevo che la mia non presenza ne aveva fatto una ragazzina difficile e un po' in rivolta. Ma la mia adorazione per i bambini in generale e la mia esperienza di vita facevano sì che fossi capace di comprenderla. Leggevo molto di psicologia infantile. Speravo di diventare amico di mia figlia, il suo confidente e che lei avrebbe trovato la possibilità di dire tutto, di confidarmi i suoi veri problemi. Già mi immaginavo che riponesse fiducia in me. Avevo bisogno di un motivo per continuare a vivere. Lo cercavo in mia figlia e tramite lei. Avevo bisogno di lei, come immaginavo lei dovesse averne di me. Temevo i suoi occhi accusatori perché, malgrado il mio amore per lei, mi ero dato all'avventura senza curarmi della sua educazione. Lei era figlia dell'amore, ma quello stesso amore non mi aveva distolto dalla mia vita deviata. Quello era il mio crimine peggiore. Indirettamente mia figlia pagava le mie colpe. Privandola della mia presenza le avevo tolto l'amore che le era dovuto. Ero il solo colpevole della sua rivolta interiore. Conoscevo l'importanza della presenza del padre; durante la guerra il mio mi era mancato molto. Avevo provocato la stessa sofferenza a mia figlia. Volevo poterle dire tutto. Volevo che sapesse tutta la verità su di me, perché il nostro amore non fosse costruito sull'inganno. Riscoprire il proprio figlio è come rinascere. Lei era davanti a me, separata da un vetro infrangibile. La trovavo di una bellezza commovente. Fisicamente era come l'avevo immaginata. Quando i nostri occhi s'incrociarono, nascose il viso tra le mani e si mise a singhiozzare. La guardavo in silenzio, ma avevo capito che la mia condanna cominciava quel giorno. Lei avrebbe rappresentato i miei rimpianti per non essere stato lì a educarla. Sollevò la testa e con voce timida pronunciò le sue prime parole che mi avrebbero commosso come i suoi primi passi: - Buongiorno, papà adorato. - Buongiorno, angelo mio. Non poté dire di più e ricadde nella sua malinconia che si mischiava alla gioia di rivedermi. E poi le sue labbra mi raccontarono tutto ciò che aveva vissuto lontano da me. Nessun rimprovero, ma frasi dette innocentemente che facevano male come un pugno in faccia. Mi chiese di poter venire ogni settimana, poi aggiunse: - Spero, paparino caro, che non scapperai più... Adesso che ti ho ritrovato non voglio più perderti.

Alla sua riflessione avevo sorriso, ma rischiava d'essere la catena che mi avrebbe tenuto dentro. Ci lasciammo con la promessa di rivederci quanto prima. Ci misi mesi a fare nuovamente la sua conoscenza. Trovò in me ciò che le era sempre mancato: qualcuno con cui confidarsi. Parlammo della mia vita. Non le nascosi niente, salvaguardando solo la sua sensibilità di bambina. Era meglio che sapesse da suo padre ciò che la stampa non avrebbe mancato di sbatterle in faccia. Sabrina aveva conosciuto Joyce, la mia amica canadese, nel breve periodo che era stata in libertà provvisoria prima della mia evasione da Compiègne. Mi chiese il permesso di andare in vacanza in Canada, invitata dalla famiglia di Joyce. Ero felice che lei potesse conoscere quel meraviglioso paese; inoltre c'erano i giochi olimpici di Montreal. Avevamo parlato del mio amico Jean-Paul Mercier ucciso dalla polizia di Montreal. Sabrina, che per me era tornata «la Pulce», mi chiese di andare a mettere dei fiori sulla sua tomba; la sua maniera di chiedermelo mi commosse. - Era un tuo amico, papà... Li metterò da parte tua. Joyce mi porterà alla tomba... Dirò una preghiera per lui. Teneramente la ringraziai del suo gesto di piccola donna. A quindici anni, aveva capito l'importanza che la sua proposta aveva ai miei occhi. A volte mi faceva sorridere per l'innocenza di certe sue riflessioni. Una in particolare: - Sai, papà... Studierò molto per diventare avvocato e tirarti fuori di prigione. Siccome a scuola non era certo tra le prime della classe, le risposi che avrei avuto tutto il tempo di terminare la pena prima che si laureasse. E poi eravamo scoppiati a ridere tutti e due. Il mio avvenire era fosco, ma, con lei, avevo il sole nel cuore. Mi parlava di Janou e sperava che venisse liberata presto per poter andare a vivere con lei. La giustizia, però, le rifiutava la libertà provvisoria. Era al settimo anno di reclusione. Sabrina ritornò da Montreal nel momento in cui io mi decisi a scrivere un libro sulla mia vita, comprendendo le gravi conseguenze che ciò avrebbe comportato per i miei processi. Ma, essendo arrivato al «punto zero» e non avendo più niente da perdere, mi ero deciso; ciò che lei mi comunicò mi incoraggiò a buttare in faccia la «mia verità» a una società che a breve sarebbe stata incaricata di giudicarmi. Questa verità poteva esser interpretata come una sfida. Un omicida che descriveva i suoi crimini avrebbe fatto arrabbiare più di un cittadino... Le ultime pagine di un libro possono diventare i primi gradini della ghigliottina. La cosa per me non aveva alcuna importanza. Una cella è come una tomba dove ogni tanto si

solleva il coperchio per vedere se il morto vivente è sempre lì.

La Pulce tornò a trovarmi. - Non so se te lo devo dire, papà. Ero andata al cimitero dal tuo amico, ma dopo che è morto si sono rifiutati di restituirne il corpo alla famiglia. E' sepolto nel cimitero dei detenuti del penitenziario di Saint-Vincent-de-Paul. Ci sono andata, non c'era alcuna tomba. Una guardia mi ha detto che lo avevano messo in una scatola, senza nome, solo un numero. Ho cercato il numero... Ero triste, ma non l'ho trovato. Poteva anche essere che fosse lì a fianco e io non lo sapevo... Allora ho preso i miei fiori e li ho sparsi attorno, a caso. Li ho messi dappertutto... Dove ero, potevo vedere il penitenziario. Ho pensato che ci avevi vissuto, che anche il tuo amico c'era vissuto e che anche nella morte vi era ancora prigioniero. Allora ho pianto... Il mio amico non era riuscito a evadere. Era scappato dall'ergastolo, ma la società si era ripresa il suo cadavere per fargli proseguire la condanna, anche dopo la morte...

"Tu che dormi sotto terra Ricordati che una bimba E' venuta a posare, per suo padre Dei fiori sul tuo nulla".

"E adesso aspetto..."

"Cosa importa la mia sentenza... Non sarà che la conseguenza della vita che volontariamente ho scelto di condurre. Dì fronte ai miei giudici non abbasserò il capo. Mi assumerò tutte le mie responsabilità accettando di pagarne il prezzo. Con questo libro mi sono condannato da solo. E' la mia peggiore difesa.

Scrivendolo non ho voluto barare. Per dura che sia la mia verità, non ho paura di guardarla in faccia. In che momento della mia vita sono diventato quel che sono oggi? Lo ignoro. Che frattura si è prodotta in me per arrivare a non rispettare più la vita? Forse qualcuno mi troverà delle scuse?... Io non ne trovo. Non voglio fare il processo alla società; mi accontento di fare il mio; a volte l'uomo è il proprio miglior giudice. So che le porte della libertà resteranno chiuse per sempre. Preferirei la morte... e tuttavia mi piace vivere. Fin da piccolo i miei occhi si sono aperti sulla morte e sulla violenza. Ho subìto la guerra che si facevano gli adulti in nome delle libertà. Da adulto, l'ho fatta anch'io. Un'altra guerra... un'altra violenza. L'omicidio collettivo è degno di gloria se commesso al suono dell'inno nazionale. Le guerre vissute, le guerre raccontate, le guerre che ho subìto non mi hanno dato l'esempio del rispetto della vita. Non hanno fatto altro che legalizzare l'omicidio, ai miei occhi. Mi hanno armato la mano al suono della "Marsigliese" e poi questa mano ha preso piacere alle armi. Mi hanno insegnato la violenza e la violenza mi e piaciuta. Da che ho aperto gli occhi, gli uomini si massacrano in tutto il mondo, si assassinano, si tradiscono, spergiurano in nome di un ideale che si danno per giustificare i loro atti... Allora, oggi, di fronte ai miei giudici, ai miei accusatori, resterò freddo se mi parlano del rispetto della vita. Perché l'uomo è un lupo per l'uomo; e se, a volte, si mette in branco per farsi giustizia, rimane pur sempre un lupo, come colui che si è arrogato l'autorità di giudicare. Io ho solo condotto una guerra personale in un ambiente che non è certo quello della maggioranza degli uomini. Questo ambiente ha le sue leggi... Finora non ho mai visto un cittadino piangere la morte di un criminale. Quindi non gli riconosco alcun diritto di giudicare i conti che regoliamo tra di noi. Se ho rubato, non ho mai preso ai poveri. In quasi tutte le mie azioni ho rapinato banche o aziende. Non ho mai usato violenza contro un cassiere o un portavalori e ho sempre lavorato con correttezza. Non ho mai stuprato né fatto del male a persone anziane né sfruttato donne. Se ho vissuto avventurosamente è perché amavo il pericolo. Se qualcuno è morto per colpa mia è perché ho dovuto scegliere tra la loro vita e la mia. Accettando uno scontro armato, hanno corso i loro rischi come io ho corso i miei. Nell'azione sono sempre stato il primo. I miei veri amici hanno sempre potuto contare su di me. Non ho mai mancato un appuntamento. Se ho cancellato la parola «pietà» dal mio vocabolario, è perché ho visto troppe ingiustizie, ho visto troppe persone crepare in prigione, troppe volte

ho visto uomini distruggere altri uomini. Per due volte nella mia vita, prima di arrivare al punto di non ritorno, ho voluto cambiare strada e ritornare nella società e nelle sue leggi. Ho fallito, perché un uomo che esce dalla prigione ne resta segnato a vita, qualunque cosa faccia per reinserirsi. La società è vendicativa... Un pregiudicato non si libera mai del suo debito, anche dopo averlo pagato... Gli impongono il divieto di soggiorno, gli tolgono il diritto di voto, ma gli faranno pagare le tasse e lo mobiliteranno in caso di guerra. Gli riconosceranno il diritto di pagare e di morire per il suo paese... ma non quello di scegliere il genere di società nella quale vuole vivere. Castrato nei suoi diritti civili, resterà sempre un «ex galeotto». L'uomo al quale si rifiuta il diritto di decisione è un uomo a metà. Si sottometterà o si rivolterà. Dopo due fallimenti, io ho scelto la rivolta e da quel giorno i dinieghi della società non hanno più avuto importanza per me. Ho violato con piacere le sue leggi e ho vissuto al di fuori di essa. Mi sono dato il diritto di prendere. Ho oltrepassato tutti i limiti, perché non ne avevo più alcuno, come ho già detto. Fuorilegge... La società ha perso ogni potere su di me e mi ha reso «non più suscettibile di intimidazione» da parte delle sue sanzioni penali. Se gli riconosco il diritto di condannarmi, non le riconosco il diritto di giudicarmi. In effetti, mi sono condannato da solo il giorno stesso in cui ho preso un'arma in mano e l'ho adoperata. Non ho né rimorsi né rimpianti. Ma io spero che questa società si occupi dei giovani delinquenti che marciscono inutilmente in prigione; non sempre il reato giustifica la sanzione. La prigione è la scuola del crimine. Attualmente vi sì fabbricano i Mesrine e i Willoquet di domani. Per questi giovani ci vuole una speranza. La mano tesa è più efficace della catena. Chiudere la porta di una cella non risolverà il problema della delinquenza. Per loro, si è ancora in tempo; per me è troppo tardi. L'ergastolo... o la morte, la mia condanna mi lascia indifferente. La mia vera condanna la leggerò ogni volta negli occhi di mia figlia a colloquio e là... conoscerò il rimorso".

L'ISOLAMENTO

"Sissignora!

Cammina avanti e indietro, per migliaia di passi che non portano da nessuna parte In un mondo di cemento, con alberi di sbarre fioriti di disperazione Disumano... rattrappito... senza alcun futuro. Il suo pasto gli viene fatto scivolare sotto una griglia a terra E in una ciotola, l'acqua... perché si raffreddi i bollori. E' solo... senza sole E non ha neanche più la sua ombra. Infedele compagna, lei se ne è andata Rifiutando di essere schiava di quel vivo nato morto. Cammina avanti e indietro, sempre Fino al giorno in cui, vinto come un animale ferito, Dopo essersi lamentato in un unico pianto Cadrà a terra e si lascerà morire Per trovare solo nella morte l'unica libertà. Vi scorgo una lacrima... Perché vi rattristate? «Povero cane», mi dite! Ed ecco un errore... E' un uomo, signora, E' in prigione.

E' colui che i vostri pari hanno così bene condannato Facendo giustizia in nome delle libertà".

Fleury-Mérogis Un giorno di settembre del 1976 in cui esistevo così poco che non ero neanche «nessuno». MESRINE

***

ANNESSI.

INTERVISTA A JACQUES MESRINE pubblicata il 3 e 4 gennaio 1979 su "Libération".

Sempre uguale a se stesso, Jacques Mesrine rivendica in questa intervista di essersi recato a casa del giudice Petit il 10 novembre 1978 per ucciderlo. Il giudice era assente. Mesrine ha preso in ostaggio la sua famiglia, ma la polizia è stata avvisata: ancora una volta è riuscito a fuggire dalle maglie della brigata anticrimine. Quando è stata realizzata questa intervista, Mesrine pensava di avere evitato quel che chiamava allora un «errore politico». "Libération" lo ha intervistato per capire che cosa lo fa muovere. Risposta: «l'avventura», e «l'odio per le carceri di massima sicurezza (Q.H.S.)». Personaggio curioso, che sulle carceri parla la lingua della ragione. E' una buona ragione non ostacolarlo perché è un bandito?

Libération: Che cosa succede a Jacques Mesrine?

J.M.: Cerco di mantenere la mia libertà. Per il resto, una parte la conoscete: la rapina di Deauville, quella di Drancy e infine Petit... Deauville non si può chiamare una gran storia perché, purtroppo, due persone sono state ferite. Personalmente dubito che siano state le mie pallottole. Così come non sono stato io a colpire la donna che si trovava lì. Nel momento in cui è successo, ero a 80 metri almeno. Penso che i feriti siano stati colpiti dalle pallottole della polizia, ma questa è un'altra questione... A Drancy, ho preso 35 milioni [di vecchi franchi]. Bisogna pur sopravvivere... In fin dei conti, ho continuato la mia vita da bandito e poi sono passato legalmente in Italia. Dall'Italia sono andato in Algeria, dove volevo mettermi in contatto con dei gruppi di rivoluzionari. Vi nasconderò quello che ho fatto laggiù, perché per il momento non riguarda la stampa. Dall'Algeria sono partito per Londra, dove ho vissuto tranquillamente con Sylvie Jeanjacquot, che alcuni giornalisti chiamano «la bella italiana». Poi c'è stato l'affare Petit.

Libération: Come vive la sua clandestinità?

J.M.: Ci sono diversi modi di vivere in clandestinità. Io vivo esattamente come uno qualunque. Significa che non vivo come un animale braccato o ferito. Vivo come uno che ha un lavoro normale, cioè di notte non esco, non frequento il «milieu», né le discoteche e soprattutto i bar. Così, non rischio di essere venduto. In genere, chi è clandestino tende a frequentare il «milieu» per mettersi in mostra e vantarsi delle sue azioni. Questo errore, io non lo commetto. Per strada, sono il signor qualunque. Non sono nervoso, anche se sono sempre armato, pronto a far fronte alla polizia: cosa del tutto normale.

Libération: Concretamente, in questo periodo, come trascorre le sue

giornate?

J.M.: Attualmente sono giornate super tranquille. Passo il tempo davanti alla T.V., a dormire, a fare l'amore e a mangiar bene. Leggo molti libri e giornali. Gioco a scacchi, a domino, a Master Mind... Mi piace molto. Diciamo che fortifico la mente senza dimenticare di fare ginnastica. Sono rimasto cinque anni in una cella: perciò posso anche restare mesi e mesi chiuso in una stanza... Sì, attualmente Mesrine è tranquillamente nascosto e non si muove. Aspetta.

Libération: L'ultima volta che si è «mosso» è stato per andare dal presidente Petit. Che cosa è andato a fare da lui esattamente?

J.M.: Sono stato condannato a 20 anni di reclusione e non ho mai messo in discussione la sentenza. Forse ne meritavo di più. Forse meno. Non è questo il problema, ma so da fonte certa che ai tempi del mio processo il presidente [della Corte di Assise] Petit non ha avuto l'integrità che si è in diritto di aspettarsi da un magistrato. Avevo quindi in partenza un rancore personale contro di lui, ma non è stato questo a motivare più di ogni cosa la mia azione. Quando i giurati mi hanno condannato a 20 anni di reclusione, ero da tre anni e mezzo in un centro di detenzione di massima sicurezza e ci sono ritornato. La massima sicurezza, non ho alcuna ragione per accettarla. Né per me, né per gli altri. E' su questo problema che ho voluto risvegliare la gente attraverso un'azione contro Petit. Ho voluto far capire che i magistrati, quando condannano un uomo a 20 anni di carcere, se ne fregano se poi questo sarà contemporaneamente condannato a stare negli speciali, cosa che non ha niente a che vedere con la pena pronunciata. E poi devo dirvi comunque una cosa un po' dura. Non sono mai andato da Petit per rapirlo. A titolo personale, andavo da Petit per ucciderlo. Le circostanze gli hanno dato l'occasione della sua vita. Non voleva essere un omicidio politico. Semplicemente, ritengo che un magistrato che, dopo aver condannato un uomo, non segue le sentenze che ha emesso, sia un truffatore della giustizia. Oggi la pubblica opinione è totalmente indifferente al problema degli speciali: io so che, attaccando i magistrati e attraverso di essi la sacrosanta magistratura, si dà uno scossone. Almeno la gente si pone il problema degli speciali. Bisogna capire che la maggior parte dei detenuti, che siano o no del mestiere, accetta il principio di una sentenza, ma non la maggior parte delle sentenze che sono sproporzionate ai delitti

commessi. Inoltre non accettano, una volta condannati, di essere sottoposti a una condanna aggiuntiva. E' una truffa e un inganno, e se i giurati sapessero esattamente di condannare anche alla massima sicurezza, la loro sentenza sarebbe forse minore. Si sa, la massima sicurezza è una condanna moltiplicata, dal punto di vista fisico, psichico, morale... Ecco perché ho attaccato Petit. E' un problema che mi tocca da vicino. Ho lottato contro gli speciali quando ero dentro e ritengo di non dover tradire, una volta libero, ciò che ero e volevo. E continuerò a lottare.

Libération: Non pensa che se avesse ucciso il giudice Petit non sarebbe più un uomo che lotta contro gli speciali ma semplicemente un assassino? Alla gente non piacciono gli assassini.

J.M.: Lei parla di assassino. Le rispondo che la società assassina moralmente gli uomini nelle carceri speciali. Non bisogna fare agli altri quel che non si vorrebbe fosse fatto a se stessi. La società assassina i detenuti. Li assassina giorno dopo giorno, notte dopo notte. Le carceri speciali sono un assassinio legalizzato. Quindi, avrei risposto all'assassinio morale di queste persone con un altro assassinio. Non chiedete a un uomo di essere ragionevole quando, per l'appunto, la giustizia e il governo non lo sono. Uccidere un uomo... Ma che cos'è un magistrato? E' soltanto una pedina. Milioni di uomini muoiono e si fanno meno storie... Capisce, l'odio l'ho imparato negli speciali... Eppure uccidere Petit non era soltanto una vendetta: aveva lo scopo di far venir fuori un gran casino... Il destino non ha voluto che facessi quell'errore. So benissimo infatti che dal punto di vista politico sarebbe stato un errore. Infatti il governo lo avrebbe utilizzato. Per rafforzare la polizia. Per rinchiudere la mia azione in un terrorismo i cui effetti avrebbero distrutto l'obiettivo che mi ero prefissato. Ora so che se devo agire, lo farò senza utilizzare questo tipo di violenza. Ma capitemi... In certi casi, se un uomo è sovrastato dal suo stesso odio, le sue azioni lo possono portare al di là di quello che realmente vuole fare. Quello che voglio io, è far capire il problema delle carceri di massima sicurezza. Forse farò degli errori, ma l'importante è che se ne parli. Io non ho una formazione politica. Ho una formazione da combattente. Non scordate che mi hanno insegnato la lotta nei commandos e che, in quelle situazioni, non si bada alla vita umana. E' bello venirmi a raccontare della vita umana, ma quando ho combattuto in Algeria la vita umana non aveva la stessa importanza. Allora avevo soltanto vent'anni. Ora tutti hanno in bocca la vita umana... La vita umana... Complimenti. Ma per me la vita di un giudice non vale più di quella di un detenuto. Dei detenuti che vengono moralmente distrutti. Io sono stato distrutto. Mi hanno fatto nascere un odio che non

avevo. Sono andato dal giudice Petit con l'odio dentro.

Libération: Ora si sa che cosa è successo nell'alloggio di Petit. Come ne è venuto fuori?

J.M.: Quando abbiamo lasciato l'alloggio di Petit, arrivando nell'entrata ci siamo imbattuti in una decina di poliziotti. Avrei potuto farne fuori cinque o sei senza problema. Non l'ho fatto. Ho semplicemente sparato due volte in terra e due volte nei vetri. I poliziotti sono come tutti gli altri: quando gli spari contro, scappano. Cosa del tutto normale. Avevo visto che un poliziotto si era nascosto in cantina. Mi ero messo nella posizione del tiratore d'istinto e, quando volle prendermi di mira, ho fatto fuoco per spaventarlo. Mi ha detto: «Mi arrendo». L'ho preso in ostaggio per uscire. La via era piena di poliziotti. C'erano furgoni ovunque. Sono rientrato in casa. Ho preso la sua arma di ordinanza e l'ho gettata dietro a un muro, perché mi aveva detto che se l'avessi presa avrebbe avuto delle noie... Poi gli ho messo le manette che avevo destinato a Petit e siamo fuggiti con Coupé. A quel punto, per strada, mi sono imbattuto in un mucchio di spazzatura. Mi sono messo un sacchetto sotto il braccio per dare l'idea di essere un passante. Siamo passati vicino ai poliziotti. A quel punto, ci hanno chiamati e Coupé si è fermato, mentre io ho proseguito. Dopo il suo arresto, Coupé, che conosceva tutti i miei rifugi, li ha rivelati. A questo proposito, è successa una cosa buffa.. Il giorno in cui gli sbirri sono venuti all'indirizzo di Impasse Saint François, io ero lì. Sono passato vicino al commissario Broussard e non mi ha riconosciuto. Penso fosse il lunedì successivo al venerdì dell'azione da Petit. C'erano poliziotti ovunque. E' lì che ho visto Broussard. Era nel piccolo bistrot vicino all'Impasse Saint François. Aveva un giaccone beige e dei guanti, un'antenna di walkie-talkie sbucava dalla tasca sinistra... Ho sorriso. Mi cercavano all'Impasse Saint François e io ero dietro di loro. Se avessi voluto farli fuori, non ci sarebbe stato alcun problema. Non l'ho fatto. In ogni caso, tutti i miei rifugi sono stati bruciati: i due alloggi e il parcheggio in cui avevo un'auto che veniva dal Lussemburgo e una Honda 750. Se ho fatto sparire la 750, è semplicemente per far credere loro che la utilizzavo. In realtà, l'ho imboscata da qualche parte e non la toccherò mai più. Avevo già fatto qualcosa di simile al commissario Devos. Quando sono evaso, avevo lasciato nella mia cella un'agendina. Come se l'avessi dimenticata... Era falsa, serviva a depistarli. Devos dice che sono nato sotto una buona stella: in realtà ho i controcoglioni e sono un buon stratega... Alla fine dei conti, sono solo contro un branco, e sono io la preda. Dal

giudice Petit, ero circondato da 40 o 50 sbirri, me ne sono andato facendo prigioniero uno dei loro uomini armati. Non è fortuna...

Libération: Torniamo ai fatti. Che ne pensa di Jean Luc Coupé, il suo complice?

J.M.: Ero riuscito ad affittare, con l'astuzia, un piccolo alloggio in Passage Charles Albert 12, nel diciottesimo arrondissement di Parigi. Coupé era il mio vicino. Questo tizio viveva in una miseria totale e, inizialmente, l'ho aiutato per simpatia. A poco a poco è nata l'amicizia per questo tizio che ha, in ogni caso, un enorme livello intellettuale. Nelle discussioni, Coupé mi ha dimostrato di essere di sinistra e ha dato prova di un certo spirito rivoluzionario che mi piaceva. Mi sono messo a parlare con lui della detenzione, delle carceri speciali... Ho conosciuto le sue opinioni e gli ho detto chi ero. Coupé non avrebbe dovuto essere trascinato nell'affare Petit. Intanto, non sapeva che volevo uccidere il giudice. Pensava che volessi semplicemente rapirlo perché non gli avevo parlato delle mie reali intenzioni. Quando mi sono messo in moto con questa azione, mi ha detto: «Voglio partecipare». Ma non era pronto per un'azione come quella. Nel momento in cui le cose si sono messe male, si è comportato come un bambino. Ecco perché penso debba essere giudicato come un bambino. Se ce l'ho con lui? Certo, e non posso parlar bene di lui. Eppure è proprio il tipo cui vanno date le attenuanti. Qualcuno ha detto che è una vittima di Mesrine. Lo ammetto, perché effettivamente un uomo con una certa personalità può influenzare un debole. Soltanto ora me ne rendo conto, benché io sia comunque disgustato dal suo comportamento... Ma quali sono stati i metodi della polizia? Non li conosciamo. E' stato pestato? Sì, secondo le mie informazioni. E' stato drogato? Quello che succede in questura non si sa. Si può tuttavia pensare che sia stato messo in una situazione psicologica che ne ha fatto un delatore. Ma se Coupé è un delatore, non è un informatore, c'è una differenza. Delatore è qualcuno a cui crollano i nervi nelle mani dei poliziotti. Un informatore è un sfottuto bastardo che vende qualcuno in cambio di denaro o di favori. Coupé non è un informatore. E' un tizio che si è comportato male, e purtroppo per lui quando ci si comporta male il fatto rimane per sempre... Anche se, alla fine dei conti, è una vittima della società.

Libération: Non è lei il responsabile? Si è anche detto che Rives è morto a causa sua. Che la giornalista Isabelle de Wangen ha avuto dei guai per causa sua...

J.M.: Il piccolo Rives non è morto per causa mia. Rives è morto in un'azione commessa insieme a me. Rives era un tipo che non accettava il carcere a vita cui era stato condannato. Avremmo potuto andar via senza di lui: ci avremmo anche guadagnato due o tre minuti. Ma non si poteva lasciare un tizio che scontava l'ergastolo in condizioni pietose perché era nel braccio speciale. Quando è iniziata la nostra azione, ha cominciato a battere sulla porta della sua cella... Non lo potevamo lasciare là. E Rives è morto sui muri della ronda. Come un uomo. Quando si fa un'evasione come la nostra, c'è pericolo di morire. Potevano essere Besse o Mesrine a morire. E' stato Rives. E' un peccato, ma non ci si può fare niente... Lo abbiamo aspettato sotto e alla fine si è fatto ammazzare da un poliziotto. E' caduto completamente incosciente. Poi è stato finito da vicino, alla schiena, mentre era a terra. L'autopsia lo può dimostrare... Ho visto Rives morire sotto i miei occhi. A sei metri da me. La mia arma era inceppata. Non ho potuto fare niente... Nelle nostre azioni, ci sono dei pericoli. Se domani vado a fare una rapina con un Rossi o con un Bianchi e mi faccio ammazzare, non si può dire che il responsabile sia Rossi o Bianchi. Quando si compiono azioni violente si rischia di morire violentemente. E' una logica semplice. Per quanto riguarda Isabelle de Wangen, è una giornalista che ha corso i rischi della sua professione ed è lo Stato che, non rispettando il segreto professionale dei giornalisti, è responsabile dei suoi guai. Non io. Ha fatto un'azione giornalistica che molti suoi colleghi avrebbero voluto fare e non hanno fatto, e c'è una certa invidia nei suoi confronti, anche perché è una donna...

Libération: Ma Isabelle de Wangen le ha dato dei soldi per intervistarla, come afferma la polizia basandosi sulle dichiarazioni di Coupé?

J.M.: Isabelle de Wangen non mi ha mai dato un centesimo. Lo chieda al direttore di "Paris-Match". Si sa esattamente quanto ha dato a Isabelle de Wangen: credo un totale di tre o quattro milioni. Del resto, si è parlato di cifre tra i 15-20 milioni... E' demenziale. Come potrebbe un settimanale come "Paris-Match" pagare 20 milioni per un articolo su Mesrine? Ne

avrebbe girato una parte a me? E' pura fantasia...

Libération: Coupé quindi ha inventato?

J.M.: Credo che gli abbiano fatto leggere delle false dichiarazioni di Isabelle de Wangen facendogli credere che lei avesse detto questo. Siccome doveva essere piuttosto scosso, ha firmato qualsiasi cosa. Io, se vuole, domani faccio firmare qualsiasi cosa ai giudici Petit e Ullman. Mi basta averli fra le mani per 24 ore e, anche senza violenza, gli faccio firmare quello che voglio. Non bisogna scordare poi che Coupé è un ex tossico ed è quindi psicologicamente più debole...

Libération: Qualcuno l'ha aiutata dopo l'affare Petit?

J.M.: Dicono: Mesrine è solo; non lo sono affatto. Ho molti amici. Il vantaggio che ho, è che non fanno parte della mala. Non pensate che tutti i rapinatori ne facciano parte. Che tutti i marginali ne facciano parte. La nuova generazione di banditi non fa parte del milieu. Tutti sanno che il milieu è marcio. Che viene usato per le polizie parallele. Che la mala è composta da sfruttatori e padroni di discoteche. Tutta questa gente non la tollero. Spero venga capito per sempre. Ma di amici ne ho. Eppure è molto probabile che mi becchino domani. Tutto può succedere. Basta, per esempio, un incidente stradale in cui venga fuori che sono armato. Mi può effettivamente capitare un guaio. Ma ho una certa fortuna, e, come vi ho detto, le palle che vanno di pari passo. Dopo Deauville, quando con Corbec siamo arrivati al posto di blocco, c'erano 30 poliziotti con i mitra... Abbiamo accelerato. Mi sono beccato una pallottola nella schiena. Non è entrata... Non è fortuna. E' semplicemente l'aver accettato l'idea della propria morte. Eppure, amo la vita: anche se non sempre l'ho rispettata. Ma c'è una cosa che non accetterò mai: tornare in un carcere speciale. In questo caso, ovunque io sia, agirò con la violenza. Se la polizia spara per strada, sarà colpa sua se degli innocenti saranno uccisi. Se la polizia individua dove sto, ha una sola cosa da fare: seguirmi e individuare il mio nascondiglio. Qui sono certi di uccidermi senza errori. Se ci provano per la strada, sarà tanto peggio per le conseguenze. Non voglio più tornare in carcere.

Libération: Dopo il colpo dal giudice Petit, lei ha inviato una lunga lettera al giornale "Le Matin", poi una seconda per scagionare Isabelle de Wangen Pelletier. Si dice che lei sappia usare ottimamente i mass media. Che abbia gran cura della sua immagine. Perché questo gioco con i mass media?

J.M.: Io non uso i mass media: il fatto è che i mass media non esitano a infangarmi e a infangare l'azione che porto avanti. Il diritto di replica esiste. E io lo utilizzo. Se si parla di me, perché io non dovrei avere il diritto di rispondere? E' troppo facile scrivere porcherie e diffondere false informazioni sul mio conto... Non sono né un giustiziere, né un eroe... Sono un uomo d'azione non troppo scemo che compie azioni che non tutti compirebbero. Quando "France-Soir" o "Paris-Match" pubblicano titoloni su di me, ci guadagnano dei soldi, e non sono io a metterli in tasca. In fin dei conti, sono diventato un nuovo prodotto commerciale, e hanno torto. Perché non sono un buon prodotto per i valori che difendono. Per quanto riguarda le mie lettere al giornale "Le Matin", non erano intese a giustificarmi, ma a ristabilire la verità su un certo numero di fatti che erano stati nascosti o deformati dalla stampa di destra. In particolare si era omesso di precisare che avevo fatto prigioniero un poliziotto. Che gli avevo messo le manette. Che gli avevo sequestrato l'arma. Ero ben lontano dal ritratto dell'assassino che spara a ogni piè sospinto. Invece di conficcargli una pallottola in testa, ho perso tempo per farlo prigioniero. La polizia non mi avrebbe certo fatto lo stesso regalo. La mia violenza forse non è quella che si crede. Sono violento quando non posso farne a meno. Se mi sono rivolto a "Le Matin" è perché è un giornale corretto. Dopo "Libération", che ha sempre dato voce ai detenuti, l'unico giornale che inizia a farlo è "Le Matin". Inoltre, politicamente mi ritengo un po' socialista e sapevo benissimo che, se avessi scritto a "Le Matin" una lettera che non fosse un incitamento alla violenza e all'omicidio, l'avrebbero pubblicata.

Libération: Alcuni pensano che la sua evasione o quello che ha fatto dal giudice Petit non aiuti i detenuti, anzi nuoccia loro. In realtà, invece di lottare contro gli speciali, non li rafforza rispondendo all'immagine del «pericoloso gangster irrecuperabile» di cui parla il governo?

J.M.: Che deve fare uno che è rinchiuso in uno speciale? Accettare? Star zitto? Lasciarsi umiliare? Lasciarsi disumanizzare? Lasciarsi distruggere? Stare fermo? Quando uno evade da uno speciale basato sulla sicurezza e teoricamente creato per evitare le evasioni, dimostra che la massima sicurezza non serve a niente. Ne è la prova... Prima di evadere dalla Santé, lo avevo già fatto in Canada. Sono evaso da un carcere di massima sicurezza chiamato «Unità speciale di pena»: uno stabilimento concepito dagli architetti proprio per evitare le evasioni. Siamo usciti in sei... Con l'evasione voglio innanzi tutto riprendermi la mia libertà. Se i detenuti incominciano a pensare: se evado ciò nuocerà agli altri, più nessuno evaderebbe. Ma l'evasione è un diritto di qualsiasi uomo recluso. L'Amministrazione penitenziaria ha soltanto da creare un clima tale che i detenuti pensino ad altro che ad evadere. Quando i detenuti penseranno che la reclusione può portare loro altro che l'odio, cercheranno di riabilitarsi. Si sa, più si colpisce una persona moralmente, più la persona diventa dura. Ci sono persone che sono state distrutte dall'Amministrazione penitenziaria: si pensi a Georges Segard... Anche se ha conservato la sua personalità, è stato distrutto dal carcere. Io non ho accettato questa distruzione. Malgrado le mie cinque guardie, malgrado le perquisizioni quotidiane, malgrado il supercontrollo, ho dimostrato che si può sempre evadere. E evadere dalla Santé non è uno scherzo... Il responsabile dell'Amministrazione penitenziaria Dablanc non si faccia illusioni, si potrà sempre evadere. Possono creare altri centri di massima sicurezza. Ci sarà sempre una risposta. E' come il judo: c'è la presa e la contropresa. Anche se costruiscono supercarceri, ci saranno sempre uomini che troveranno il modo di evaderne. Non scordate che resta sempre un minimo di contatto umano, ci sono rapporti umani possibili... Nulla prova che la guardia di oggi non sarà un tuo alleato domani. La guardia accetta di controllare l'uomo, ma non accetta automaticamente la repressione di cui gli si impone di essere l'agente. Ci sono degli stronzi fra le guardie, ma ci sono anche brave persone. Disoccupati che sono diventati sorveglianti non potendo fare altro. D'altra parte, se si dice che i detenuti in molti casi hanno subìto i contraccolpi della mia evasione, non me ne importa. Quando abbiamo fatto l'ultimo grande sciopero della fame contro gli speciali, siamo stati in 650 a farlo su 3300 detenuti. Perciò dell'opinione di migliaia di detenuti che tacciono... che usano i permessi... che leccano il culo ai direttori per incontrare le mogli... me ne fotto. Il permesso è una trappola per fessi. La catena nella catena.

Libération: In più occasioni lei ha annunciato una serie di azioni contro gli speciali. Nella sua lettera a "Le Matin", dopo l'affare Petit, ha dichiarato che era soltanto l'inizio. Che cosa ha intenzione di fare?

J.M.: Infatti non è finita perché un'azione del genere non si può lasciar perdere. Peyrefitte o Dablanc devono capire. Non mi aspetto molto da Peyrefitte, per il quale non ho alcun rispetto. Lo considero un incosciente, un uomo del passato. E' forse uno scrittore di semi-talento, ma per quanto riguarda la giustizia è un uomo al di fuori dei problemi. Dablanc dovrebbe prendere coscienza veramente del problema della massima sicurezza. In Canada, per esempio, ci sono uomini molto più pericolosi che non in Francia. Eppure, pur essendo rinchiusi in carceri estremamente sicure, hanno una detenzione normale. In Francia dovrebbero creare la stessa cosa. Carceri con una sorta di regime migliorato... I detenuti non sarebbero contrari. Quello che non accettano è l'isolamento, la repressione inutile, le perquisizioni... Tutta questa routine amministrativa il cui scopo è distruggere l'individuo. Quando si portano via le foto delle mogli, si sopprimono la corrispondenza o i colloqui, si aprono le lettere indirizzate agli avvocati... Non venite a dirmi che si tratta di sicurezza!

Libération: Pensa che esistano prigioni buone?

J.M.: No, non ci sono prigioni buone. Purtroppo la società non è stata capace di trovare altro per combattere il banditismo e le crisi sociali. Molti detenuti sono vittime della società. Sono molto pochi i cosiddetti «professionisti del crimine». Purtroppo io ne faccio parte e questo mi dovrebbe impedire perfino di prendere la parola in nome degli altri. Ma posso permettermi di dire meglio di chiunque altro che molti ladruncoli non hanno motivo di stare in prigione. Vedo persone che entrano in carcere per dieci, quindici, vent'anni, mentre sono soprattutto vittime della società. Io non lo sono. Oggi sono piuttosto uno strumento della società per giustificare la repressione...

Libération: Che cosa ha intenzione di fare?

J.M.: Se Peyrefitte e Dablanc non vogliono fare niente, che altri strumenti ho a parte la violenza? Se voglio creare un fenomeno di violenza, posso farlo quando mi pare. Posso uccidere per strada chiunque... Questo tutti lo possono fare, ma l'opinione pubblica non lo accetterebbe... Voglio

soprattutto far capire che il pericolo peggiore per la società è accettare l'esistenza delle carceri di massima sicurezza. Perché gli uomini che vi sono rinchiusi diventano vendicativi. Allora che fare? Sinceramente, non oso rispondere. Sono certo che sarebbe in contraddizione con le vostre idee. Se occorre arrivare a versare sangue. Non dimenticate che, purtroppo, solo la violenza è rispettata.

Libération: Non è forse una richiesta disperata? Non sta semplicemente per dare corpo all'idea del «pericoloso gangster»?

J.M.: E' possibile che io sia un disperato e un kamikaze. E' molto probabile... Lei mi parla di «pericoloso gangster». Non vuol dire niente. Quando un gendarme si lancia sulla folla o brucia un lacrimogeno in faccia a un ragazzo o a una donna... Non è pericoloso? Pensa che la forza della repressione non sia pericolosa? Io agisco con lo stesso metodo del governo. Ho spesso visto il governo, di fronte a manifestazioni pacifiche, adoperare la violenza. Io non faccio altro che adoperare, su scala artigianale, la stessa violenza del governo.

Libération: Come vede la sua vita? Il suo personaggio?

J.M.: Mesrine, il nemico pubblico numero uno e la sua leggenda non mi interessano più. Per il resto, non sono un uomo disperato, sono un uomo che lotta per una causa disperata. Perché non c'è speranza... Si è rifiutato di darne una e la mia causa è disperata perché riguarda solamente un piccolo numero di detenuti in condizioni anormali. Dico «anormali» per non dire «abominevoli». In effetti, se adopero questa parola, l'Amministrazione penitenziaria mi rinvia a immagini stereotipate: la T.V. una o due volte alla settimana, un tavolo da ping pong, tutto quello che si è visto nel corso della trasmissione sulle carceri di massima sicurezza diffuso da T.F.1. Rete televisiva che non ha neppure avuto l'onestà di comunicare ai telespettatori la testimonianza registrata che ho fatto pervenire loro. Eppure non era violenta... Si è visto il centro di Evreux, ma non è stato mostrato realmente il braccio speciale di Fresnes che è stato anche ripreso: là non c'è mai stato né lavoro né ping pong. E' l'isolamento totale...

Riconosco però che il direttore dell'Amministrazione penitenziaria, Dablanc, ha avuto il coraggio di aprire le carceri alle telecamere: c'è una piccola evoluzione, ma non è tutta politica? Non è far politica mostrare un po' per nascondere il resto? Si mostra quel che si vuole e poi si dice: lo vedete, non è così terribile come si crede... Quello che non si è visto, sono dieci guardie che entrano in una cella per picchiare uno... O un direttore come Beaune, del carcere di Fresnes, che fa registrare le conversazioni fra un detenuto e la sua famiglia. Questo non lo sto inventando e posso portarne le prove perché ho fatto rubare la registrazione dal suo ufficio... In ogni caso, l'Amministrazione penitenziaria non si potrà cambiare che con persone nuove: tra i giovani direttori c'è qualcuno che vuole instaurare un clima nuovo. Ma da persone come Beaune o Rousseau, il nuovo direttore della Santé, non c'è da aspettarsi niente. Di fronte a queste persone personalmente penso che non ci siano altri metodi se non la violenza. Invece Bonaldi, che è stato ritenuto responsabile della mia evasione mentre non c'entrava per niente, era una persona che poteva fare qualcosa anche se il suo liberalismo era molto politico. E la politica, come ben sapete, è soltanto imbroglio... Quando un uomo deve scegliere tra le sue idee e la sua carriera, le sue idee scappano velocemente e lasciano il posto ai suoi interessi... Per quanto riguarda la detenzione, è un grosso problema che i francesi ignorano completamente perché alcuni giornali hanno creato un clima di insicurezza. E qui non c'è niente da fare se si considera che un detenuto deve essere trattato come merda. Io non lo accetto. Questo è quanto.

Libération: Lei ha detto che con il suo modo di vivere e la lotta che porta avanti contro gli speciali, rischia di morire. Che effetto le fa pensare a queste cose?

J.M.: Sappiamo tutti senza eccezioni di essere condannati a morire dal momento della nostra nascita. La nostra prima condanna è essere condannati a morire (è fondamentale quello che sto dicendo). Non trovo sia più scemo morire per una pallottola che morire al volante di un'auto, o lavorando in fabbrica per un salario minimo. Il mio mestiere è il banditismo. Un certo tipo di banditismo che non consiste nell'attaccare i vecchietti ma le banche e alcune aziende. Non mi voglio giustificare, ma sono sicuro che quando porto via il denaro delle banche non è quello della gente che ce lo ha portato... Non faccio altro che prendere l'interesse che le banche prelevano sull'operaio. Se porto via 20 milioni a una banca, non è una tragedia... Lo ripeto, il mio mestiere è il furto. Perciò morire o correre il

rischio di morire quando si vive nella violenza...

Libération: E' veramente sincero quando dice di non aver paura di morire?

J.M.: Mi piace la vita. Le mie azioni lo dimostrano. E poi le confesso una cosa. Sono gravemente malato di cuore. Può verificarlo chiedendo alla Santé. Ho sempre viaggiato con una pressione di 120/220, 130/200. Perciò avrei potuto tranquillamente morire in cella per un'emorragia cerebrale o un attacco di cuore... Non sto per dire che morire con un'arma in pugno sia una morte da uomo. No. La morte da uomo non esiste. Esiste la morte e basta.

Libération: Non pensa di interrompere un giorno la sua attività?

J.M.: La voglio sorprendere: è possibile che un giorno io mi fermi... Proprio per dimostrare a Peyrefitte che gente come me si può riabilitare fuori dalle mura del penitenziario. Quello che temo, invece, se mi fermo, se mi metto a lavorare, è di rinnegare tutto quello che ho detto... E poi, bisogna essere onesti. Mi piace il denaro. Sono incapace di vivere con 2500 franchi al mese. Mi domando come possa farlo un operaio... Come si fa a vivere con 2500 franchi al mese quando il tuo padrone vive con tre o quattro milioni e sostiene di far fatica ad arrivare a fine mese. Ho studiato il problema in tutti i sensi: ci sono i prodotti di consumo nelle vetrine, un'esposizione di ricchezza, e l'operaio non ha il diritto di metterci le mani. Ha soltanto il diritto di vederli. Io voglio vederli e toccarli. Se ho intrapreso questo mestiere, è stato per prendere del denaro, anche se ora non è più il mio scopo principale. Se lo volessi, con la fama che ho, potrei fare il protettore e le ragazze lavorerebbero per me per poter dire: sono la sgualdrina del Tale... Ma io non faccio questo tipo di cose. L'affare Petit non mi ha fruttato denaro. Al contrario, mi è costato tutta la mia latitanza, tre rifugi, tutti i vestiti, i miei quattro diversi documenti sono bruciati... E' tutto bruciato. Sono un tipo sincero. Anche se ho molti difetti: sono molto orgoglioso, ho una montagna di orgoglio, se si tocca il mio orgoglio sono capace di tutto... L'uomo perfetto non esiste. Bisogna prendere il buono e il cattivo. Ma non mi si rimproveri di non essere sincero. Quel che dico, in genere, lo faccio. Non lo faccio per la fama e metto in gioco anche la mia vita. Non sono un giustiziere, sono un uomo in rivolta che vive la sua rivolta. E' troppo facile

dire, quando si è in cella: se uscissi, farei questo. Tutti lo pensano ma nessuno mai lo fa. Io sono di una nuova generazione uscita dagli speciali. E lo faccio.

Libération: Pensa che esistano altri detenuti come lei?

J.M.: Sì, ne conosco un mucchio. Non posso fare nomi ma conosco persone che quando usciranno, legalmente o illegalmente, reagiranno esattamente come me. Almeno una decina di loro faranno esattamente come me. Non accettano che la società non si assuma le sue responsabilità e si comporti da vile.

Libération: Come lo spiega?

J.M.: C'è un'evoluzione generale nelle coscienze. Ma più di tutto, occorre capire che un uomo isolato vive con se stesso e si vede obbligato a fantasticare. A furia di vivere con le sue creazioni immaginarie, le trasforma in realtà e queste realtà le mette in pratica o lo può fare... Negli speciali si fabbrica un odio che non esisteva prima. E non mi vengano a raccontare delle due ore di televisione alla settimana. Come se la T.V. fosse un mezzo in grado di sostituire il contatto umano. La T.V. non può sostituire una discussione con un amico. Quel che i ragazzi degli speciali chiedono è di poter lavorare. Mezzi di espressione. Vivere almeno come chi è rinchiuso nei bracci normali. E già quelli non sono rose e fiori... Perché dire, come fa il ministro Peyrefitte, che chi è negli speciali è irrecuperabile? In fin dei conti questa gente viene catalogata prima di entrare. Nessun uomo al mondo è irrecuperabile. Sono state perdonate persone che hanno commesso crimini contro l'umanità: li si ritrova perfino in qualche governo... E non si vuole perdonare un «comune»? Un crimine contro l'umanità è perdonabile, ma non un delitto contro una compagnia di assicurazioni o una banca? Si è dichiarati «irrecuperabili» in quanto si colpisce un servizio pubblico. Perché si tocca il sistema, il capitale... Mentre Peyrefitte ha sicuramente teso la mano a tipi che hanno commesso delitti contro l'umanità ben più gravi. E vanno a mangiare insieme, e si abbracciano...

Occorre essere logici e capire che oggi alcune persone che vivono ai margini della società si evolvono intellettualmente. Non siamo bruti infami che funzionano soltanto a suon di pistola. La pistola è uno strumento di dissuasione necessaria al nostro lavoro, ma non si va avanti soltanto con la pistola in pugno. Io posso affermare che non è la pistola a dominare me: sono io che domino lei... Se il ferro avesse parlato per me, a casa Petit, lo sbirro sarebbe morto. E se gli ho detto: sono Mesrine, non è per far lo sbruffone, è il mio modo di dire «vaffanculo». Visto che il commissario Devos dice che mi avranno... Certo, prima o poi mi possono beccare. E' una riflessione da piccolo sbirro. Io gli posso dire: prima o poi ti beccherai l'influenza, prima o poi morirai... Non vuol dire niente. Invece io, a Devos, domattina posso «beccarlo». Se continua a rompere le scatole, gli farò una foto. E l'apparecchio potrebbe essere un fucile di precisione. Non mi piace Devos, è uno che viene dalla Buoncostume, e non trovo una gran differenza tra questi sbirri e i magnaccia. Forse Devos non mi prenderà: vivo per lo meno. Broussard invece mi avrebbe preso vivo. Devos avrà forse soltanto il mio cadavere. Se un giorno mi ritrovo sul marciapiede con 20 pallottole in corpo, non penso che per Devos sarà una gran vittoria... In conclusione, vorrei dirvi che sto bene. Sono felice. Non vivo come un ricercato. Non si bussa alla mia porta: oltre tutto è più prudente. Posso vivere senza discoteche, senza «baci»... Il bacio del mascalzone, questa fregatura inventata dal milieu: ti abbraccio e ti prendo la moglie e i soldi mentre stai in galera. Tutte queste sceneggiate che caratterizzano il milieu in cui ho più influenza di quel che può sembrare. Almeno in un certo milieu americano e canadese. Ma questo non mi interessa, ho superato questo stadio. Quello che voglio è conservare la mia libertà. Per il momento, penso che le cose non vadano male. Ho guadagnato almeno sette mesi di bara, è già qualcosa. Ero condannato a 20 anni, sarei stato sicuramente condannato all'ergastolo, e considerato il mio stato di salute sono quasi certo di morire intorno ai 52/53 anni... Ho già guadagnato sette mesi di vita. Sette mesi di felicità nel corso dei quali sono riuscito per lo meno ad attirare l'attenzione dell'opinione pubblica sulla massima sicurezza...

[Intervista di Gilles Millet].

JACQUES MESRINE: NOTE BIOGRAFICHE.

Jacques René Mesrine è nato il 28 dicembre 1936 a Clichy. Dopo il suo primo matrimonio con Lydia de Souza nel luglio 1955, divorzia l'anno dopo e parte per la guerra d'Algeria. Ne torna tre anni dopo nel '59 con tutti gli onori di buon combattente. Al suo ritorno, si oppone ad alcuni magnaccia della mala parigina, inizia i furti negli alloggi, fa le prime esperienze di sangue freddo quando i proprietari lo sorprendono in pieno furto e si fa passare per un ispettore che fa un sopralluogo prima di fuggire. A causa della sbadataggine dei suoi due complici, viene arrestato per possesso di armi, portato in commissariato tenta l'evasione ma finisce, nel gennaio '62, nella prigione di Evreux. Liberato nel luglio '63, Mesrine decide di ritornare nei ranghi e condurre una vita più «normale», per amore della sua nuova donna, Sole. Trova un posto da apprendista architetto in uno studio, poi, a seguito di una ristrutturazione economica si ritrova disoccupato. Per onestà, non nasconde il suo passato, ma questo non facilita la sua ricerca di lavoro. All'inizio del '65 finisce per trovare un posto da disegnatore, nascondendo i suoi precedenti. Questi ritornano a galla dopo quindici giorni e il suo nuovo datore di lavoro lo licenzia. La sera stessa decide di riprendere le sue attività. Alla fine del '65, gli viene proposto un colpo: sottrarre un'agendina nella villa del governatore militare dell'isola di Palma di Maiorca in Spagna. Il furto finisce male e si fa catturare. Di fronte al suo mutismo e a un furto anomalo, le autorità spagnole e l'ambasciatore francese pensano di avere a che fare con un agente dei servizi segreti francesi (visto anche il suo glorioso passato militare). Dopo un soggiorno in carcere, viene rilasciato in libertà vigilata sull'isola. Con l'aiuto di un amico, David, evade e qualche tempo dopo ha la possibilità di rientrare in Francia. Tenta un colpo con dei dollari falsi con il famoso David, che cerca di ingannarlo e finirà ucciso in un bosco.

Aprile 1966, nascita del secondo figlio, Boris. Mesrine continua le sue attività criminali, sfugge a una sparatoria, regola i suoi conti e decide in ottobre di andarsi a calmare alle Canarie, dove rileva un ristorante a Santa Cruz di Tenerife. Si separa da Sole e raggiunge Ginevra per rapinare una gioielleria proprio prima di Natale del '66. Qualche tempo dopo, prende in gestione una pensione a Compiègne con la sua nuova compagna Janou Schneider. A seguito di una rissa in cui ha steso un parà nel suo bar, di fronte alle minacce della polizia Mesrine decide di mettere la chiave sotto la porta e di ritornare nella proprietà di famiglia. Minacciato da due magnaccia a causa di Janou, Mesrine li fa scomparire e parte in vacanza con la sua compagna. Scrive che è in quel periodo che iniziano a girare sistematicamente armati, lui e lei. Il 15 novembre 1967 vanno in un albergo

di Chamonix e ne approfittano per realizzare un furto a mano armata su un industriale ... Il furto non frutta granché, ma Mesrine è contento del sangue freddo della sua amica e prevede una vita di coppia ricca di ... avventure!

L'8 dicembre rapina una casa della moda a Parigi, il bottino (circa 120 mila franchi) consente loro di fare un viaggio che li porta in Italia, Spagna, Portogallo prima di scoprire di essere attivamente ricercato in Francia e decidere di trasferirsi in Canada. Fuggono il 6 febbraio 1968. A luglio, trovano rifugio in un lussuoso monolocale a Montreal. Janou lavora in un ospedale e Mesrine ha un posto in un cantiere edile. Finito il cantiere, entra come cuoco al servizio di un miliardario, Georges Deslauriers. Simpatizzano e la coppia s'installa da lui, ma scoppia una lite tra Janou e il giardiniere. Mesrine perde il posto. Disgustato di essere licenziato ogni volta che torna a essere onesto, Mesrine rapisce Deslauriers il 12 giugno 1969 ma il colpo fallisce e devono fuggire con tutte le polizie del Canada alle calcagna. Il 26 giugno 1969 lasciano il motel delle Trois Soeurs a Percé e varcano il confine. Il 30 viene scoperto il corpo della padrona Evelyne Lebouthier. Mesrine vuole raggiungere Dallas, il 16 luglio. Decidono di fare tappa a Cape Kennedy per assistere alla partenza dell'Apollo 11. La sera stessa sono arrestati a Dallas dalla polizia del Texas e incarcerati a Texarcana per 10 giorni. Poi Mesrine e Schneider sono estradati in Canada nel carcere di Sainte-Jacynthe, accusati di rapimento ma anche, con loro grande stupore, dell'omicidio di Evelyne Lebouthier. Dopo lo shock causato dalla scoperta dell'iniquo sistema carcerario americano, Mesrine è impressionato da quello canadese. Nella sua autobiografia dichiara: «Tutto era molto pulito. Le guardie e la direzione ci ricevettero in maniera quasi cordiale. Mi accordarono subito un colloquio con Janou e il diritto di telefonare a un avvocato. Mi sembrava di sognare e il mio rispetto per i canadesi non fece che aumentare». Il 17 agosto 1969 Mesrine e Janou evadono dal carcere. Mesrine ha una sola idea, ritrovare chi lo accusa dell'omicidio per chiedergli spiegazioni. Verranno riacciuffati all'indomani e rinchiusi nel penitenziario di Saint Vincent de Paul. Janou sarà condannata a 5 anni di carcere e Mesrine a 11, mentre vengono assolti per l'omicidio. In realtà la donna era stata uccisa da parenti per una questione di eredità, e costoro avevano approfittato del fatto che Mesrine era passato da quelle parti per farlo accusare dell'omicidio. Dopo la condanna Mesrine viene inviato al carcere di Sainte Anne des Plaines.

Ben presto organizza un'evasione con alcuni compagni. A seguito di un'altra evasione riuscita, vengono perquisite tutte le celle, e viene scoperto un pugnale in quella di Mesrine, che viene inviato all'U.S.C. (Unità speciale di correzione, l'equivalente di un carcere speciale). Là le celle sono quattro

muri di cemento, una porta elettronica, delle bocche di aerazione per l'ossigeno e una botola per poter gasare i detenuti, e un soffitto in vetro antirapina su cui passeggiano le guardie. La luce è accesa 24 ore su 24, «alcuni non dormivano più e il loro sistema nervoso cedeva giorno dopo giorno... fino alla pazzia o al suicidio», scrisse Mesrine. Le misure di sicurezza sono al massimo grado, ma Mesrine riesce a organizzare un piano di evasione dal cortile chiuso con la rete, dopo mesi di osservazione. Il 21 agosto 1972 taglia la rete e riesce a fuggire con il suo amico Jean Paul Mercier. Fermano un'auto e fuggono verso Montreal. In tutto sono scappati in sei, gli altri quattro vengono presto catturati. I due latitanti stanno nascosti in un alloggio di Montreal da amici. Il 26 agosto decidono di rapinare due banche in dieci minuti (bottino: 26000 dollari canadesi) a 180 chilometri da Montreal, nella zona in cui Mercier abitava prima, per far credere agli sbirri di essersi nascosti da quelle parti. Il 28 agosto rapinano la Toronto Dominion Bank a Montreal, il 31 ci ritornano per un'altra rapina e il 3 settembre vanno a regolare alcuni conti in sospeso. Jean Paul Mercier e Mesrine attaccano l'U.S.C. di Saint Vincent de Paul, per mantenere la promessa di tornare armati a liberare i loro ex compagni. L'attacco ha inizio con una sparatoria serrata, Mercier viene ferito e non riescono a distribuire i fucili automatici destinati ai prigionieri. Fuggono in extremis e riescono a farla franca. Una settimana dopo, mentre fanno esercitazioni di tiro nei boschi, vengono sorpresi da due guardie forestali che li riconoscono e, come scrisse poi: «Meno rapidi di loro, avremmo potuto essere abbattuti sul posto». A seguito dell'omicidio non premeditato delle due guardie, Mesrine e Mercier diventano il nemico pubblico numero 1 in Canada. A Mesrine rincresce molto questo incidente, non voleva la loro morte ma ritiene di non aver avuto scelta. «La legge autorizza a uccidere, ma non fornisce giubbotti antiproiettile». A seguito di questa valanga di avvenimenti, i media chiesero di visitare gli U.S.C., ne nacquero scandali cui seguì la loro chiusura.

Vorrebbe far evadere Janou, ma lei rifiuta di fronte ai rischi che questo comporta, è strettamente sorvegliata. Mesrine e Mercier, accompagnati da Joyce e Lizon, vanno al Waldorf Astoria di New York, e da lì fuggono in Venezuela, a Caracas, nell'ottobre '72. Lì simpatizzano con un poliziotto altolocato e facilmente «corruttibile». Lizon viene ferita da un cane e deve tornare presto a farsi curare; riparte con Mercier alla volta di Montreal. Mesrine non li rivedrà più, Mercier sarà ucciso due anni dopo dagli sbirri.

Il poliziotto corrotto gli fa sapere che è ricercato dall'Interpol e deve andarsene dal Venezuela. Decide di tornare in Francia. Riprende a ritmo sostenuto a compiere rapine, fra dicembre '72 e marzo '73 assalta più di una ventina di banche e le paghe di una fabbrica (320 mila franchi). Visto

come vanno le cose, sa che presto sarà o morto o in galera e, nel secondo caso, pensa di sfruttare una vecchia causa pendente presso il tribunale di Compiègne e progetta quindi un piano di evasione per il futuro.

All'inizio di marzo, va in un bar di sfruttatori per regolare un conto in sospeso: il padrone era un informatore della polizia locale. Mesrine inizia a distruggere il locale, quando entra uno sbirro, ne segue una sparatoria. Mesrine riesce a fuggire, il poliziotto è gravemente ferito. Tre giorni dopo viene arrestato vicino a casa a Boulogne Billancourt in mezzo alla strada. Gli sbirri vanno a casa sua, arrestano Joyce e un amico, Michel, che non aveva preso la precauzione di telefonare per sapere se tutto era a posto. Gli altri erano stati più prudenti e seppero che Mesrine era stato arrestato. Mesrine si ritrova alla Santé l'11 marzo 1973. Dichiara ai poliziotti che lo interrogano che fra tre mesi sarà fuori. Come aveva previsto, viene processato per una questione minore al tribunale di Compiègne.

La mattina del processo, il 6 giugno 1973, lamenta finti dolori al ventre, chiede di andare in bagno e lì recupera una pistola nascosta da amici. Di fronte al giudice tira fuori l'arma in una frazione di secondo e minaccia di ucciderlo. Lo prende in ostaggio fino all'uscita e riesce a fuggire ancora una volta.

Due settimane dopo, il 21 giugno, rapina le paghe della tipografia Lang, in rue Curial nel diciannovesimo arrondissement di Parigi. Poco dopo Mesrine va a trovare clandestinamente il padre morente in ospedale. Poi Joyce esce dal carcere, sfugge ai poliziotti che la inseguono e ritrova Mesrine. Prendono casa a Trouville fino a settembre, quando lei riparte per il Canada. Il 9 agosto Mesrine rapina il Crédit Lyonnais dell'avenue Bosquet a Parigi (settimo arrondissement) bottino: 15 milioni di vecchi franchi. Il 27 settembre rapina colpo su colpo due banche del boulevard Barbès ma il suo alloggio è stato individuato dalla polizia. L'indomani il commisssario Broussard (padre di uno dei primi punk parigini, per la cronaca) suona alla sua porta e ne segue una strana conversazione. Mesrine che è con una ragazza (Francine), chiede a Broussard dall'altro lato della porta di promettergli di non tenerla più di 24 ore e poi liberarla, questi accetta e Mesrine gli chiede venti minuti dopo di che uscirà disarmato. Questo gli consente di distruggere ogni tipo di documenti falsi e altri documenti. Dopo venti minuti, Mesrine chiede a Broussard di entrare senza giubbotto antiproiettile perché, a suo dire, era stato venduto e quindi aveva avuto il suo arresto servito su un piatto d'argento. Qui le versioni sono contrastanti,

secondo Mesrine, Broussard sarebbe entrato e avrebbe trovato Mesrine che con un sigaro in bocca gli avrebbe offerto dello champagne, secondo Broussard, questi gli avrebbe risposto di fare altrettanto e sarebbe stato Mesrine a uscire disarmato. Comunque sia, Mesrine ritrova ancora una volta il carcere. Nell'ottobre '74, in Canada, Joyce e un'amica riescono a far passare delle armi a Mercier e a quattro dei suoi compagni che riescono a evadere. Mesrine conta su di loro per preparare un'operazione da commando per liberarlo. Sfortunatamente una rapina finisce male e Mercier viene ucciso in una sparatoria. Mesrine si rivolge allora a un compagno di cella, Willoquet, che prepara un'evasione organizzata con Martine, la sua amica. Questi fugge senza far approfittare Mesrine del suo piano. Promette di aiutarlo a evadere una volta fuori. Fa passare il tempo, lo mena per il naso e finisce per farsi riacciuffare il primo dicembre 1975. Da qualche tempo Mesrine può rivedere Janou una volta al mese a colloquio. E' in quel periodo che scrive "L'Istinto di morte", in barba alle autorità penitenziarie e riesce a farlo pubblicare nel febbraio '77.

Il 19 maggio 1977, dopo due settimane di processo viene condannato a 20 anni di carcere dal giudice Petit per rapina a mano armata, detenzione e porto d'armi. Nel corso del processo riuscirà anche a lanciare in faccia al giudice la chiave delle sue manette per dimostrare la corruzione della giustizia e della polizia. Viene trasferito nel braccio speciale della Santé, dove inizia la sua lotta contro questo sistema di detenzione massima. Ma questi vent'anni non li sconterà mai: un anno dopo, l'8 maggio 1978, riesce a evadere dal carcere della Santé. Mesrine e François Besse saltano il muro, seguiti da Carman Rives che verrà ucciso da uno sbirro appena fuori. (Si può ritrovare il piano dell'evasione nella compilation di Maloka a sostegno dell'A.B.C. «Au pied du mur» sulla pagina de "La Fraction", per la cronaca...)

MESRINE ALLA SANTÉ, 1977. Per Besse e Mesrine inizia allora la latitanza, rapinano un'armeria, poi la cassa di una tipografia. Il 26 maggio rapinano il casinò di Deauville, la fanno franca per un pelo sotto una «nutrita» sparatoria. Mesrine inizia allora una lotta più politica, in questi pochi mesi che gli restano scriverà il suo secondo libro intitolato "Coupable d'être innocent" (Colpevole di essere innocente). Dirà: «Che cosa vuole una banda Baader-Meinhof? Se è lì che dobbiamo arrivare, ci arriveremo. Mi organizzerò. Farò un percorso senza errori». Il mese dopo la rapina è rivolta contro la Société générale a Raincy, il 30 giugno. Poco tempo dopo incontra la sua ultima donna, Sylvia Jeanjacquot. Rilascia un'intervista a Isabelle Pelletier per "Paris Match" in cui dice di

sapere che «finirà male» (quest'ultima verrà allora inquisita). Lasciano la Francia per la Sicilia, poi in agosto fanno un viaggio in Algeria, e da settembre a novembre sono a Londra. Ritorna passando per Bruxelles e il 10 novembre 1978 tenta di rapire il giudice Petit a Parigi. Viene dato l'allarme ma riesce a fuggire. Il suo complice «Nounours» viene arrestato e fornisce agli sbirri il suo indirizzo ...vuoto da poco. Viene poi intervistato per "Libération" dal (famoso) Gilles Millet. Nel maggio 1979 va ad abitare in rue Béliard nel diciottesimo arrondissement. Il 21 giugno 1979 Henri Lelièvre (che ha fatto fortuna in campo immobiliare) viene prelevato e sequestrato a Maresché nella fattoria del Breuil. Mesrine e il suo complice riescono a recuperare un riscatto di 6 milioni di franchi il 28 luglio. Lucien Aymé Blanc dell'O.C.R.B. si occupa allora dell'inchiesta.

PORTE DE CLIGNANCOURT, VENERDI' 2 NOVEMBRE. Il 19 agosto l'Eliseo crea un'unità anti-Mesrine, Christian Bonnet dà ordine al capo della polizia giudiziaria, Bouvier, di fare di tutto per averlo vivo o morto (!). Da quel momento 40 poliziotti si dedicano soltanto a questo. Mesrine riferisce a "Libération" il suo desiderio di ritirarsi ma ha ancora un conto in sospeso. Il 10 settembre tende perciò un agguato al «giornalista» Jacques Tillier, ex sbirro, che presta servizio nel «giornale» "Minute". Lo convoca per un'intervista in una grotta di Creil poi lo riempie di botte e lo lascia per morto. Questi aveva dichiarato nei suoi scritti che Mesrine non esitava a tradire amici e amiche. Aymé Blanc recupera notizie tramite gli informatori del suo amico (!) Tillier e viene a sapere che il complice di Mesrine è Charlie Bauer. Questi viene seguito e il 31 ottobre la polizia riesce a individuare il suo alloggio in rue Béliard. Il 2 novembre, Mesrine e la sua compagna salgono in macchina e cadono in trappola alla Porte de Clignancourt: 21 pallottole ad alta velocità colpiscono Jacques Mesrine, lei se la caverà. Più tardi, nel pomeriggio, toccherà a Bauer e sua moglie essere circondati e arrestati. Mesrine è sepolto nel cimitero di Clichy. Aveva 43 anni quando è entrato nella sua ultima cella, quella "da cui non si evade".

Questa autobiografia, scritta alla Santé nel '77, è stata pubblicata da Jean Claude Lattès ma poiché la casa editrice ha trattenuto i diritti in base a una legge scritta appositamente, Mesrine li ha minacciati di morte e il libro è stato ritirato. E' stato rieditato nel 1984 da Champ Libre. Poco dopo la sua morte una casa editrice del Québec ha pubblicato una raccolta di testi politici: "Coupable d'être innocent" (édition Stanké, 615 Boulevard

Levesque, Ouest bureau 1100, H3B 1PS Montreal).

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