Mistero Sulla Morte Di Mastrogiovanni

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Primo Piano

venerdì 14 | agosto 2009 |

Primo Piano

venerdì 14 | agosto 2009 |

Dal ’45 a oggi 4 milioni e mezzo vittime di errori giudiziari. Un terzo dei detenuti in attesa di processo

Incarcerazioni facili problema italiano Paolo Persichetti

Dal dopoguerra ad oggi sono circa quattro milioni e mezzo le persone coinvolte in errori giudiziari, ingiusta detenzione o che hanno visto concludersi con un proscioglimento il procedimento penale aperto nei loro confronti. Una porzione di popolazione grande quanto un’intera regione. Solo dal 1980 al 1994 quasi un imputato su due è stato prosciolto; il 43,94 per cento delle persone sottoposte a giudizio, oltre un milione e mezzo di cittadini dei tre e mezzo passati davanti ad un giudice. E tra questi ben 313 mila sono finiti prosciolti con formula piena. Una cifra immensa che oltre a far riflettere dovrebbe sollevare un serio “allarme sicurezza” contro il funzionamento della Giustizia, dell’inchiesta e del processo penale, se solo questi dati fossero divulgati in modo capillare. Un vero paradosso, se è vero che una delle maggiori fonti di rischio per la libertà dei viene proprio da quella magistratura a cui la costituzione attribuisce, al contrario, una funzione di tutela e garanzia attraverso le leggi dei cittadini. Casi di omonimia, distrazioni, perizie errate, errori di calcolo, ma anche ragioni sistemiche ben più profonde. Per Ferdinando Imposimato il problema risiede nel carattere pressoché indiziario che ormai caratterizza gran parte dei procedimenti penali. Avendo lui stesso praticato per decenni questo metodo d’indagine, l’ex magistrato istruttore riesce a descriverne molto bene la logica perversa: «troppo spesso – spiega – le inchieste sono basate su fatti desunti dall’esistenza di altri fatti. In pratica il risultato di una deduzione logica, terreno ideale per l’errore. Troppo spesso – aggiunge – l’indizio altro non è che un sospetto tramutatosi troppo velocemente e che a sua volta finisce ancora più rapidamente per trasformarsi in prova». Eppure il senso comune, quello che i media raccontano orientando l’opinione pubblica, dicono l’esatto contrario. L’insicurezza intesa come mera percezione, sensazione sociale, stato d’animo, è in costante aumento; come la convinzione, rilanciata dalla cronaca di questi ultimi giorni, che vi sia in giro troppo lassismo della legge, un dilagare d’impunità garantita e

Ferragosto in carcere. Da oggi, per iniziativa della deputata radicale Rita Bernardini, più di 150 parlamentari di tutti gli schieramenti visiteranno 185 istituti di pena: forse la più vasta ispezione mai fatta scarcerazioni facili. Una dettagliata indagine dell’Eurispes, resa nota all’inizio dell’anno, racconta tuttavia una realtà ben diversa. Al 30 giugno 2008, dei 55.057 mila detenuti presenti nelle carceri italiane (oggi la cifra è vicina alle 64 mila unità, oltre 20 mila in più della capienza tollerata), soltanto 23.243 stavano scontando una sentenza definitiva. Poco più di un terzo. Tutti gli altri, ovvero la maggioranza, erano in attesa di giudizio. Tra questi la quota più alta riguarda coloro che sono ancora in attesa del giudizio di primo grado, ben 15.961. Il numero di quelli che hanno interposto appello sono, invece, 9.115. I ricorrenti in cassazione 3.451. Da allora la situazione non è mutata, semmai si è ulteriormente appesantita. Statisticamente quasi la metà dei quindicimila in attesa di primo grado finiranno prosciolti o in prescrizione. Ciò vuol dire che per un’altissima porzione della popolazione penitenziaria attuale la custodia cautelare è un passaggio inutile, oltre che dannoso e pregiudiziale. Dato che ribalta completamente l’opinione diffusa di una giustizia dalle “scarcerazioni facili”. Semmai il problema è esattamente inverso. Siamo il Paese delle incarcerazioni fin troppo facili, dovute ad un sistema penale che nonostante la riforma del codice di procedura del 1989 vede tuttora un forte squilibrio in favore della pubblica accusa. Non è un caso se le regioni dove più alta è la percentuale di errore e maggiore è l’impiego della custodia cautelare sono quelle meridionali. La legislazione penale speciale applicata contro le forme di criminalità organizzata, facendo leva sul reato associativo amplifica il carattere pregiudiziale delle inchieste. Ne consegue che la definizione della responsabilità personale diventa più incerta, mentre il livello di tutela delle garanzie giuridiche si abbassa paurosamente. Una legge del 1988, contrastata duramente dalla magistratura, ha disci-

plinato la responsabilità civile dei giudici. Da allora è possibile avviare delle procedure di risarcimento per «ingiusta detenzione». Il legislatore ha affrontato, in modo tuttavia ancora molto insoddisfacente, solo un aspetto del pro-

blema. Nel nostro ordinamento, infatti, non esiste una norma che indennizza “l’ingiusta imputazione”. Questa anche quando non si somma alla ingiusta detenzione, risulta comunque estremamente pregiudizievole per la persona messa sotto accusa. Oltre al costo umano, gli errori giudiziari hanno un prezzo sociale e erariale importante. Nel corso degli ultimi 5 anni lo Stato ha pagato circa 213 milioni di euro di risarcimento, la quasi totalità per ingiusta detenzione cautelare, molto meno per gli errori giudiziari.

> In senso antiorario dal basso: Regina Coeli > Stefano Montesi > Rebibbia: chiavi delle celle > Dufoto> e una sezione > Adriano Mordenti/Agf > Una cella del carcere minorile Beccaria > Contrasto > Di nuovo Rebibbia: due detenute in una cella e la somministrazione di metadone al Centro clinico > Stefano Montesi

11decessipocochiaridal2004.AgiugnoNiki,26anni,sièdavverosuicidato?

A Sollicciano si muore In tanti, e senza perché Daniele Nalbone

La pianta del complesso del carcere di Sollicciano è a forma “giglio”, simbolo di Firenze. Un carcere il cui il numero dei detenuti supera, in pianta stabile, le mille unità da anni, nonostante la capienza regolamentare sia di 447. A pochi metri delle mura due lingue di asfalto, l’autostrada del sole e la Fi-Pi-Li, tagliano il territorio, un tempo ricco di campi agricoli e ancora caratterizzato da casali e ruderi. Un ambiente agreste, lontano dai nuovi quartieri ormai saturi di abitazioni di Firenze, una delle città simbolo dell’indiscriminata espansione urbana. Le vie che portano alla casa circondariale sono semideserte, il silenzio è rotto soltanto da qualche tir in transito sull’A1. Per arrivarci bisogna prendere via Minervini, una di quelle strade che non vorresti mai percorrere. Una strada che porta spesso verso il nulla più totale, alcune volte senza uscita. Così è stato per Niki Aprile Gatti, un ragazzo avezzanese, residente da due anni a San Marino, trovato impiccato il 24 giugno 2008 in una cella di Sollicciano poche ore prima di deporre su un caso di truffa telefonica e frode informatica fra San Marino e Londra. Un’inchiesta di quelle che scottano, in cui sono implicati loschi personaggi della criminalità organizzata e imprenditori senza scrupoli. Purtroppo Niki non è stato il solo detenuto a perdere la vita in questa struttura. Prima di lui tante altre persone hanno trovato la morte a Sollicciano, così come sarebbe accaduto subito dopo la sua scomparsa. Fino ad oggi. Dall’ini-

zio del 2009 qui sono deceduti M.B., 60 anni, morto il 30 gennaio impiccandosi alle sbarre di ferro della cella; Ihssane Fakhreddine, un ragazzo palestinese, morto il 24 aprile in circostanze poco chiare: prima di andare a dormire era stato visitato dal medico del carcere e il suo stato di salute era perfetto. Il dottore fu l’ultima persona a vederlo in vita. Morì quella stessa notte. Il 12 giugno fu il turno di Anna Nuvoloni, 40 anni, sembra strozzata con un “filo” di mozzarella. Ma dal giorno seguente il sospetto che gira nei padiglioni del carcere è che invece si sia trattato di omicidio da parte di una detenuta psicolabile che le avrebbe, con la forza, spinto la mozzarella in gola per soffocarla. E per malore, come spiegano dagli uffici di Sollicciano, è scomparsa lo scorso 7 luglio una ragazza di 27 anni, detenuta per piccoli reati legati alla tossicodipendenza. Sembra che la donna possa aver sniffato gas da un fornellino. Morti strane. Direttore della struttura dal 2004 è Oreste Cacurri. Il primo a perdere la vita in circostanze non chiare fu un detenuto marocchino, il 2 marzo del 2004. Il suo corpo fu rinvenuto da un compagno di cella con un rivolo di sangue che gli scendeva dalla bocca: overdose di farmaci, l’ipotesi. L’11 giugno fu la volta di Khaled, algerino di 34 anni, impiccato. Il 21 giugno morì nella sua cella, appena rientrato da un permesso premio, pochi minuti dopo esser stato sottoposto a visita medica, Giuseppe Mazzantini, 30 anni: dall’autopsia non emerse nulla di macroscopico, motivo per cui la sua morte venne dichiarata “non accer-

tata”. Tre persone furono rinvenute impiccate nel 2006: Dario B., 73 anni; Santo Tiscione, 45 anni,; Sorin R., 32 anni, in attesa di giudizio e richiuso a Solliciano da due mesi. Prima di essere trasferito in una delle carceri più dure e importanti d’Italia Cacurri era direttore della casa circondariale di Livorno negli anni in cui si verificò il caso Marcello Lonzi. Marcello aveva 29 anni ed era in carcere per scontare una pena di 8 mesi per tentato furto. Era in attesa di usufruire dell’“indultino” quando morì, il 12 luglio 2003, per causa non accertata: infarto fulminante, disse l’autopsia, e il suo caso venne archiviato. Alla prima autopsia richiesta dalla Procura di Livorno, che poi concluse

le indagini con l’archiviazione, a Marcello vennero riscontrate due costole rotte. Due che, però, diventarono otto quando, dopo diversi ricorsi da parte della madre, Maria Ciuffi, venne riesumata la salma del ragazzo. Le foto del cadavere di Marcello parlano da sole: si vede un corpo martoriato e pestato a sangue, «fino alla morte» dichiara la madre, che lo scorso 11 luglio, in un presidio organizzato fuori dal carcere delle Sughere, racconta di aver assistito direttamente «alla testimonianza di un allora detenuto nella sezione dove è successo il fatto». Un racconto che gela il sangue: «tra le 15.30 e le 17», ripete la madre «i secondini hanno chiuso i portoni delle celle e nella sezione si sentivano voci sconosciute e rumori distinti di passi veloci che facevano capire che stava succedendo qualcosa di grave a qualche detenuto. Solo l’indomani mattina vennero a sapere della morte di mio figlio». Una madre coraggio alla quale si “accoda” cinque anni dopo Ornella che, dal 25 giugno 2008, giorno in cui ricevette la maledetta telefonata che le comunicò la terribile notizia, lotta per ottenere giustizia sulla morte di suo figlio Niki, detenuto nella cella numero 10, reparto B, sezione 4 di Sollicciano, e trovato impiccato nel bagno durante l’ora d’aria. Un’ora dove a Sollicciano può succedere di tutto. Anche nella vicenda di Niki, morto nel carcere fiorentino, come in quella di Marcello, morto a Livorno, si registrano gravi incongruenze fra l’autopsia e la perizia di parte. Speriamo solo che il caso di Niki non finisca come quello di Marcello: archiviato.

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Ieri i funerali del maestro

Il precedente

Tso letale, i magistrati indagano anche gli infermieri

Giuseppe Casu, 8 giorni legato, mortod’embolo: occupava la via

«Coloro la cui vita rappresenta l’inferno della Società Opulenta sono tenuti a bada con una brutalità che fa rivivere pratiche in atto nel medioevo». Così scriveva Marcuse ne L’uomo a una dimensione nel 1964. Peccato che, nel caso di Francesco Mastrogiovanni, maestro elementare di Castelnuovo Cilento, l’inferno «sia stato creato proprio dalla società, che ha distrutto la vita di una persona assolutamente normale» ricordano le sorelle Caterina, Rosalba e Chiara. E raccontano dell’aggressione del 7 luglio 1972, subita da Francesco e due suoi compagni anarchici, Giovanni Marini e Gennaro Scariati, da parte di un gruppo di fascisti, nella quale morì Carlo Falvella, giovane vicepresidente del Fuan salernitano. E poi dell’arresto di Francesco nel ’99: resistenza a pubblico ufficiale l’accusa «montata ad arte dalle forze dell’ordine», dicono le sorelle. Scontò un mese in carcere e cinque ai domiciliari prima di essere assolto in appello. Da allora il suo incubo si chiamava Tso, trattamento sanitario obbligatorio. «In pratica una misura terapeutica per controllarlo per tutta la vita, per aspettarlo al varco al primo errore, al primo segno di cedimento». E’ proprio per essere “curato” che Francesco è stato fermato da decine di agenti in un’operazione degna dell’arresto di un boss della camorra, trasportato all’ospedale di Vallo della Lucania e legato ad un letto dalla sera del 31 luglio alla mattina del 4 agosto, quando venne ritrovato senza vita a causa di un edema polmonare provocato da un’insufficienza ventricolare sinistra. Ieri pomeriggio, per dare l’ultimo saluto a Francesco, a Castelnuovo sono accorsi a centinaia fra parenti, amici e alunni da tutto il Cilento. Da oggi, per chi ha nel cuore il maestro - e sono in tanti a stimarlo - l’unico pensiero sarà quello di rendergli giustizia. Qualcuno dovrà spiegare perché un uomo in salute, senza alcun problema fisico, sia morto legato ad un letto di un reparto psichiatrico a seguito di un’ordinanza di Tso emanata dal comune di Pollica Acciaroli. Le indagini del sostituto procuratore Francesco Rotondo, per ora, sono ferme ad accertare la posizione del personale ospedaliero: non solo dei sette medici che lo avevano in cura, fra i quali il dottor Michele Di Genio, direttore del dipartimento di Psichiatria del San Luca di Vallo della Lucania, ma anche degli infermieri del reparto: secondo la testimonianza di uno dei portieri dell’ospedale, infatti, ieri mattina i carabinieri hanno recapitato avvisi di garanzia, in pratica, a tutto il personale operativo fra il 31 luglio scorso e il 4 agosto. Antonio Fasolino, avvocato del dottor Di Genio, ha però spiegato che «i sanitari dell’ospedale di Vallo della Lucania hanno seguito il protocollo previsto per casi come questo». La chiave per far luce sulla morte del professor Mastrogiovanni, secondo gli inquirenti, risiede nella cartella clinica: fra le carte non ci sarebbe menzione dell’allettamento forzato, pratica estremamente invasiva e che può protrarsi solo per poche ore. Inoltre, risulterebbe un “buco di trattamento” di oltre dieci ore, dalle 21 del 3 agosto alle 7.20 del giorno seguente, nonostante gli fossero stati prescritti farmaci da assumere ogni tre ore. D.N.

Il Trattamento sanitario obbligatorio è uno strumento terapeutico che può essere emanato dal sindaco nei confronti di un libero cittadino solo in presenza di due diverse attestazioni mediche che certifichino, contemporaneamente, che la persona si trovi in uno stato tale di alterazione da necessitare di interventi terapeutici urgenti, che questi siano stati rifiutati e che non sia possibile adottare tempestive misure extraospedaliere. Purtroppo accade che amministratori locali abusino strumentalmente del Tso. Un caso eclatante, denunciato da un Comitato Giustizia e Verità nato ad hoc, è avvenuto il 15 giugno 2006 a Quartu Sant’Elena, in provincia di Cagliari. Il sindaco ordina un Tso per Giuseppe Casu, un venditore ambulante cagliaritano che viene ammanettato alla barella, caricato su un’ambulanza e trasportato nel reparto psichiatrico dell’ospedale Is Mirrionis di Cagliari. Il tutto dopo essere stato sbattuto violentemente in terra e immobilizzato da alcuni agenti. Motivo della misura terapeutica, il fatto che il signor Casu sarebbe “impazzito” di fronte alla seconda multa comminatagli dai vigili urbani nell’arco di due giorni (importo: 5mila euro) per vendita senza licenza. Addirittura, come spiegò l’allora vicesindaco di Quartu, Tonio Lai (recentemente scomparso), «la polizia municipale da maggio 2005 aveva emesso numerosi verbali a carico del signor Casu». Che, però, ostinatamente si rifiutava di liberare la strada durante il percorso di “riqualificazione” di Quartu. E allora Tso e tanti saluti. “Sgombero forzato: se ne va anche l’ultimo ambulante” il titolo trionfale dell’Unione Sarda del 16 giugno 2006. Per otto giorni Giuseppe Casu rimarrà legato mani e piedi al suo letto. Il 22 giugno morirà per tromboembolia venosa. Tutt’ora è in corso il processo per accertare responsabilità di questa morte. Intanto il Comitato “Verità e Giustizia” nato in suo nome non si arrende e va avanti «perché la terribile vicenda che ha portato alla morte di Giuseppe non sia dimenticata». Il loro obiettivo, da tre anni, non sono i medici dell’ospedale Is Mirrionis o gli agenti di polizia, né il comune di Quartu , ma «il sistema che dichiara “Guerre” in nome della legalità contro i soggetti marginali della società e che vengono condotte con metodi arroganti, brutali e violenti che rappresentano, di fatto, un grave pericolo per i cittadini», utilizzando strumentalmente ogni arma in proprio possesso. Come accade per il Tso che si trasforma da pratica terapeutica a pratica repressiva, sinonimo di arresto. E’ così che «pazzi o ritenuti tali, drogati, clandestini, vagabondi, spariscono, vengono feriti, alcune volte muoiono, senza che nessuno spieghi, parli, faccia giustizia». In fondo, in questa società dove un sindaco qualsiasi può chiuderti nel reparto psichiatrico di un ospedale per un Trattamento sanitario obbligatorio solo per eliminare quello che i media hanno definito “l’ultimo ambulante”, «sono morti che possono essere dimenticati in fretta». D.N.

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