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anno XIII febbraio 2006
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Bimestrale di Informazione - Aut. Trib. di Bolzano n. 23/94 del 13.12.1994 - Poste Italiane s.p.a. - Spediz. in A. P. - 70% - DCB Bolzano
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La didattica per competenze Giuseppe Braga
Individualizzazione e personalizzazione Luigi Guerra
Le scelte culturali di fondo per una “vera” riforma della scuola
Etero e autovalutazione L. Dozza e B. Vertecchi
La diversità come risorsa A. Canevaro e D. Demetrio
Nuove tecnologie S. Tagliagambe e D. De Kerckhove
“Apriamo il dibattito sui temi del cambiamento”
Autonomia e flessibilità Giancarlo Cerini
Scuola e territorio Giorgio Bocca
Linguaggi artistico-espressivi M. Piatti, M. Gagliardi, F. Zagatti, O. Mautone Con interventi di Franco Frabboni, Piero Cattaneo e Carmen Siviero
Bruna Visintin Rauzi*
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o sviluppo scientifico/tecnologico, la globalizzazione dei mercati e dei saperi, l’incontro di diverse civiltà nel nostro continente, la necessità di costruire una comunità europea basata non solo sull’euro, ma su radici di comune storia e cultura, sono gli avvenimenti epocali che costituiscono il complesso scenario su cui deve innestarsi ogni riforma, in particolare, quella del sistema educativo/ scolastico, all’inizio del terzo millennio nella società della conoscenza e della formazione continua.
La realtà specifica del nostro territorio e della scuola militante ci permette anzitutto, nelle modalità di progetto e nella traduzione operativa, di rielaborare la riforma scolastica con la partecipazione attiva degli operatori e con la possibilità, sul piano giuridico, di dare un assetto ordinamentale alla nostra scuola, che rifletta le sue tradizioni, le sue peculiarità, i frutti delle sue innovazioni viste anche alla luce della riforma nazionale. Il direttivo dell’Istituto pedagogico intende, con questo numero straordinario di Informa, aprire un dibattito sui temi caldi della riforma, raggiungendo capillarmente tutti gli operatori della scuola. Nella storia della legislazione e delle riforme scolastiche, se si parte dalla seconda metà del ‘900, la legge istitutiva della scuola media unica (n. 1859 del 1962) costituisce una pietra miliare per l’afflato di democrazia che la ispira. A mio avviso, la scuola deve proseguire, nel 1° e nel 2° ciclo, sulla scia di questa “stella polare” per realizzare una democrazia piena del suo sistema, coniugando i grandi principi della personalizzazione e dell’individualizzazione ben richiamati nella stessa costituzione italiana. IL PRIMO, che risponde al diritto alla differenza; nell’art. 2: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uo-
mo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. IL SECONDO, che risponde al diritto all’uguaglianza, nell’art. 3: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Molte riforme, nel campo della scuola, hanno richiesto decenni per essere applicate. Auspico che questa riforma, relativa al primo ciclo, anche soprattutto grazie alla legge provinciale dell’autonomia delle scuole, riesca ad entrare nel flusso vivo e palpitante della scuola e possa dare senso, colore, armonia al vivere quotidiano di ogni alunno e di ogni docente, inserendoli nell’orizzonte vasto dell’apprendimento per tutta la vita. * Presidente dell’Istituto pedagogico.
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LA SCUOLA DI DOMANI
“Cultura” e “mente” le bandiere della formazione
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di Franco Frabboni
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i sembra preliminare affermare che l’educazione - da sempre sentinella al servizio della maturazione integrale della persona e a difesa dei suoi valori universali (il rispetto, la dignità, la libertà, la vita) - soffre, sulle spiagge di questo XXI secolo, di progressivi abbandoni socioeconomici e di diffuse latitanze istituzionali. Ci riferiamo alla politica “tutta-economia” di non pochi Paesi a sistemi produttivi avanzati, sempre più riluttanti ad investire risorse per la cultura e la formazione delle proprie giovani generazioni: un trend colpevole - questo - che tende ad assumere i contorni di una vera e propria emergenza epocale. Questa, la nostra tesi. Se il Pianeta-terra non destinerà copiose e diffuse risorse all’educazione - allarme già fatto risuonare, un secolo fa, da John Dewey - rischierà In questa società del “cambiamento” (complessa e in transizione) è dunque l’educazione a farsi valere da officina di nuovi valori (in quanto teatro di “sfida” etico-sociale) e da motore di modernizzazione (in quanto risorsa “alfabetica” per l’umanità intera): tanto da proporsi da autorevole interlocutore dei gruppi di potere che governano gli odierni processi di mondializzazione. La correzione di tiro che l’educazione può suggerire all’uso mercantile del lavoro (sempre più in frantumi) è quella dell’urgente inversione di tendenza nelle politiche economiche a raggio planetario. Questa, in particolare. Dare sollecitamente le “ali” ad un capitalismo dal volto umano il cui profilo appare molto lontano e tradito - oggi - dalle deregulation liberistiche praticate dalle superpotenze industriali e tecnologiche. Si è detto. Gli scenari economici e culturali che fanno da sfondo a questo ventunesimo secolo portano i disegni e i colori di una duplice globalizzazione. La prima globalizzazione prende il nome di mondializzazione delle economie di mercato (tramite le quali le superpotenze industriali impongono forme nuove di monopolio colonialistico ai Paesi poveri). La seconda globalizzazione porta il nome di mondializzazione dell’informazione e della comunicazione (tramite le quali le multinazionali mediatiche impongono - sull’onda di sofisticati e iterati linguaggi virtuali - il consumo ripetuto degli stessi prodotti e dei relativi modelli di vita sociale). I media di massa, in particolare, stanno riducendo e impoverendo le cifre della “singolarità” di cui è titolare il soggetto-persona portando effetti devastanti nel mondo dell’educazione. Il solo capace di contrastare l’avvento di un soggetto-massa manipolabile e omologabile dai raffinati dispositivi di modellamento esistenziale di cui è in possesso la globalizzazione culturale di stampo massmediale ed elettronico. In queste righe, ci porremo sul naso occhiali forniti di “lenti” pedagogiche al fine di potere osservare e comprendere lo scenario intitolato alla globalizzazione culturale. In particolare, saliremo sul palcoscenico per recitare questo copione. L’umanità del XXI secolo ha il dovere di richiedere una formazione diffusa, “spalmata” su tutte le età generazionali dell’uomo e della donna: l’infanzia, l’adolescenza, la giovinezza, l’età adulta e l’età senile. Soltanto una formazione per tutto l’arco della la vita (il lifelong learning) potrà mettere a disposizione del cittadino di questo secolo un balcone di osservazione in grado di porlo al riparo (immunizzandolo) dai meccanismi di uniformizzazione e di standardizzazione delle conoscenze che stanno stampando un’u-
di dilatare ulteriormente il drammatico gap esistente tra i continenti colti (ricchi) e i continenti incolti (poveri), rinunciando al progetto di un’emancipazione culturale planetaria, a disegnare il volto di una nuova umanità. Nel sistema ferroviario del duemila - che auspichiamo popolato di veloci convogli economici, sociali, interculturali, scientifici e valoriali - l’educazione appare il solo “trenino” in grado di pervenire, senza rallentamenti e ritardi, al traguardo del soggetto-persona. Questo perchè la scienza dell’educazione - la Pedagogia - dispone di uno “sguardo” a 360 gradi. Con il quale può progettare la costruzione di una personalità multidimensionale, ricca e matura tanto nella sua sfera relazionale (affettiva ed etico-sociale), quanto nella sua sfera cognitiva (intellettuale ed estetica).
Docente di pedagogia all’Università di Bologna, insegna anche presso la Facoltà di Scienze della Formazione di Bressanone, dove dirige la Scuola di specializzazione per l’insegnamento secondario.
La macro-parola Cultura reclama peraltro anche quell’attitudine metacognitiva che popola il “macro-set” della conoscenza. Intesa come triplice dispositivo mentale: ermeneutico (capacità di comprendere e di interpretare le conoscenze), investigativo (capacità di elaborare e produrre conoscenze) ed euristico (capacità di scoprire e inventare “nuove” conoscenze). Un diffuso “macro-set” cognitivo si fa sentinella in difesa delle cifre alfabetiche della comunicazione, sempre più prigioniera dentro ai linguaggi dell’immagine e del codice elettronico. Tanto da espropriare l’uomo e la donna dall’uso-consumo di modalità di comunicazione sintonizzate con l’azione, la manipolazione delle cose, il contatto diretto con la realtà. Il deragliamento della “parola” e del “corpo” dalla rotaia della comunicazione conduce inevitabilmente alla distruzione del potenziale formativo dei linguaggi: che sta nella pluralità dei loro codici e delle loro funzioni. Sono oggi a rischio - dunque - la loro funzione di comunicazione sociale (la rotaia per parlare con gli altri), la loro funzione di comunicazione cognitiva (la rotaia per pensare, per rappresentare simbolicamente il mondo) e la loro funzione di comunicazione relazionale (la rotaia per esternare sentimenti, per traslocare emozioni-sensazioni personali).
Prima bandiera. - La sua parola al maiuscolo - la sua mission - è visibile a occhio nudo: porta stampate le sette lettere della Cultura. Questo, il suo compito formativo. Suggerire a chi la osserva come evitare il naufragio sugli scogli dei “saperi” mediatici che godono di un microfono no-stop sul palcoscenico dell’odierna società della conoscenza. La nostra tesi è che il gigantismo cognitivo on line nasconda a fatica il suo ingenuo sguardo formativo, soprattutto quando proclama che il “microset” della conoscenza elettronica è l’unico alfabeto deputato a dare riconoscibilità sociale e culturale all’uomo e alla donna di questo ventunesimo secolo. Questa bandiera ha il compito di fare prendere coscienza che per disporre di quadri culturali che assicurino autonomia intellettuale e pluralismo culturale non è sufficiente padroneggiare le sole funzioni “monocognitive”: intese come capacità di accumulare (assimilare) e selezionare (eliminare e/o memorizzare) i saperi galleggianti in Internet. Il loro raggio cognitivo “corto” è dovuto alla loro destinazione meramente esogena: di uso e di utilità sociale per chi vive nell’odierna società della conoscenza, diffusamente massmediale.
Seconda bandiera. - La sua parola al maiuscolo - la sua mission - è visibile a occhio nudo: porta stampate le cinque lettere della Mente. Questo, il suo compito formativo. Suggerire a chi la osserva come evitare il naufragio sul mono-scoglio del pensiero unico. Anche perché il veliero della mente ha la necessità, per potere viaggiare negli oceani della cultura, di percorrere una “molteplicità” di rotte marine: diverse per fondali, bonacce, ondosità, variabilità climatica, forza dei venti. Questa bandiera ha il compito di richiamare l’attenzione sull’emergenza teste ben fatte: le sole in grado di dare ospitalità al pensiero plurale. Sotto metafora, significa aprire le porte al pensiero della domenica. Vale a dire, alla mente meridiana - solare, calda, mediterranea - che non “anticipa” le conoscenze al sabato, accelerandole: con il mediocre risultato di tingerle diffusamente di mnemonismo e di nozionismo; ma neppure le “posticipa” e rinvia le conoscenze al lunedì, dove si ricoprirebbero di colori sbiaditi, inattuali e poco attraenti. Le parole al vento intitolate al pensiero della domenica (di cui è chiamata a farsi carico la scuola) informano i naviganti-allievi che soltanto autocostruendosi forma-mentis (nuclei cognitivi endogeni)
manità utile, di-serie, culturalmente clonabile. Questo, è il nostro “urlo” di Munch. Il Pianeta è oggi attraversato da un’emergenza-formazione dal compasso planetario di cui occorre lucidamente prendere consapevolezza. Convinti come siamo che soltanto la formazione (l’educazione e l’istruzione) può farsi valere da sfida vincente nei confronti dell’attuale processo di globalizzazione culturale. La domanda allora è un po’ questa. Con quali “bandiere” di identificazione la formazione può scendere in campo e sfidare - da antagonista - la globalizzazione culturale, governata da multinazionali che massimizzano su scala mondiale i prodotti dell’informazione-comunicazione? Risposta. Sono due le “bandiere” da porre sul tetto di una casa della formazione dalle robuste architravi pedagogiche. Franco Frabboni
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saranno poi in grado di selezionare, interiorizzare e conservare a lungo l’alfabetizzazione primaria e secondaria. Siamo alla mente riflessiva e alla autonomia intellettuale: capaci di pensare se stesse, vigili dalla memoria di sé e responsabili verso le azioni cognitive che compiono. Questa dunque la finalità formativa della scuola: rovesciare il vecchio registro delle sue conoscenze canoniche per porre sul tavolo dell’istruzione un’autonomia del pensiero (non-nozionistica, non-riproduttiva, non-spendibile immediatamente) che fino ad ora non è stata in grado di garantire. ■
* Assessora alla scuola di lingua italiana segue a pag. 15
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sità, l’interesse e la voglia di appropriarsi della seconda lingua (per i ladini le tre lingue di base), - potenziare l’apprendimento dell’inglese, un indispensabile passaporto per il futuro. Su queste tematiche comuni molto si può costruire insieme, anche perché la pedagogia e la didattica possono solo arricchirsi con il confronto di esperienze diverse. Accanto agli impegni comuni da coltivare bisogna anche mantenere le proprie specificità. La scuola italiana ha maturato una grande esperienza nel tempo pieno e tempo prolungato, che intendiamo mantenere; si è specializzata nell’approccio ludico alla seconda lingua già nella scuola per l’infanzia, mentre la scuola tedesca ha iniziato con la facoltatività di un’ora di italiano in prima elementare solo nell’anno scolastico 2003-04 (scelta confermata dalla quasi totalitá delle famiglie), nelle prime elementari italiane si fanno da sei a nove ore di tedesco da anni. Anche l’insegnamento della religione (storia delle religioni e non catechesi) è di un’ora la settimana nella scuola media italiana, mentre di due nella scuola tedesca e ladina, con l’introduzione delle tre ore di inglese è stata ridotta a un’ora solo in 2° media nel 2001. Sono state approvate due leggi provinciali diverse per l’introduzione dell’inglese nelle tre scuole: tre ore dalla prima media per la scuola italiana, tre ore solo dalla seconda per le altre due scuole. I quadri orari sono diversi in tutti gli ordini di scuola. La scuola ladina per la pariteticità delle tre lingue è quasi guardata da noi con “invidia” (positiva ovviamente) perché ci piacerebbe “copiare” sostituendo il ladino con l’inglese. Va sottolineato, quindi, come già le tre scuole si siano sviluppate in modo autonomo tra loro e ancor più autonomo dal resto d’Italia, diverse per almeno 8 ore la settimana già nelle elementari e 7 nelle medie. Quadri orari, programmi, libri di testo sono sempre stati “adeguati” alle nostre esigenze. Affrontare una legge di riforma com-
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una consulenza reale per capire quali possano essere le scelte giuste. In questi ultimi anni assistiamo alla frustrazione dei docenti che pensano di aver elaborato un’offerta formativa ideale per il proprio quartiere o paese e poi si sentono dire dai genitori che preferiscono un’altra scuola, non per un’offerta didattica o pedagogica diversa, ma perché garantisce più o meno pomeriggi liberi. Dobbiamo veramente porci il problema di dar più valore alla qualità della proposta, la formazione iniziale dei docenti e il loro continuo aggiornamento sará fondamentale e in questo può essere di grande aiuto l’Università di Bressanone. La Libera Università è ancora giovane, otto anni, ma per il futuro della scuola può svolgere un ruolo importante per la formazione iniziale dei docenti per la scuola per l’infanzia e primaria, per la fomazione dei professionisti del sociale, per i corsi di specializzazione per gli insegnanti delle secondarie e per tutte le figure di sostegno nei servizi sociali e nelle scuole. È il luogo adatto per creare sinergie e un possibile sviluppo in termini di formazione e aggiornamento continuo per chi lavora all’interno del sistema. Abbiamo quindi tutte le condizioni che possono sostenere un progetto di riforma. Una peculiarità solo della nostra provincia è avere scuole che permettono ad ognuna e ognuno di frequentare il proprio percorso in una scuola in lingua italiana, tedesca o ladina. Le tre scuole si sono caratterizzate negli anni rispettando le esigenze, le tradizioni, la cultura, le differenze dei tre gruppi linguistici giocando sempre tra collaborazione, intreccio e diversificazione. Quando Sabina Kasslatter, Florian Mussner ed io abbiamo partecipato alla prima riunione di insediamento dei direttivi dei tre istituti pedagogici abbiamo chiesto che si ponessero i seguenti obiettivi comuni: - operare insieme perché i ragazzi e le ragazze che vivono in questo territorio sono i cittadini e le cittadine del futuro e devono conoscere la storia locale per capire dove stanno crescendo, - coltivare la madrelingua, ma coltivare accanto alla madrelingua la curio-
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enso ad una riforma che delinei la scuola come un diritto, una risorsa basata sulla qualità e l’inclusione per un reale diritto di cittadinanza. Tutte le riforme a livello nazionale hanno coinvolto le scuole per l’infanzia, elementari e medie, ancora una volta le superiori sono “rimandate a settembre del 2007”. Mi auguro che il Governo che verrà porti l’obbligo di istruzione a 16 anni, noi abbiamo mantenuto il nono anno, nonostante l’abrogazione a livello nazionale, vedremo anche cosa accadrà del decreto legislativo sul secondo ciclo che per il momento prevede la possibile implementazione a decorrere dal 2007-08. Oltre a questo numero di “Informa” e la progettazione del convegno del 23 marzo si sono attivate commissioni di lavoro per la ricerca e l’elaborazione di un progetto culturale e curricolare, devono essere elaborate le indicazioni che dovranno individuare i traguardi comuni da raggiungere lasciando autonomia alle scuole e ai docenti nelle scelte didattiche, metodologiche e operative, dovranno ispirarsi al principio della coerenza e continuità per rappresentare un chiaro orientamento per studenti, genitori e società. Tornare quindi ad un concetto di piano dell’offerta formativa in cui il quadro identitario che la scuola definisce sia l’ambito nel quale si sviluppa anche la possibilità di scelta della famiglia, superare quindi il carattere di scelta personale affermato come principio dalla riforma nazionale per privilegiare un progetto scolastico di dialogo approfondito tra scuola e territorio.
Il tempo scuola è stato oggetto di confronti continui negli ultimi anni. Quale tempo-scuola, quale organizzazione, che significato attribuire al tempo non è solo questione di minuti, di ore, di articolazione su cinque o sei giornate e con quanti pomeriggi, ma corrisponde alla filosofia con cui si è costruito il piano dell’offerta formativa. Una nuova difficoltà che si incontra è il riuscire a garantire un’offerta formativa di qualità che tenga conto del territorio e delle famiglie, ma che non diventi oggetto di negoziazione continua con gli utenti. Il tempo obbligatorio comune potrà essere strutturato con flessibilità, utilizzando tutti gli spazi offerti dall’autonomia organizzativa e didattica, salvaguardando però la sua unitaria organicità e coerenza formativa, utile a contrastare efficacemente la dispersione scolastica, ad accrescere la qualità educativa, a dedicare maggiore cura ai ragazzi e alle ragazze che hanno più bisogno, ma contemporaneamente a potenziare le competenze di tutti e valorizzare le eccellenze. Accade, infatti, un fenomeno strano: le famiglie chiedono molte ore di apertura al giorno e durante tutto l’anno per asili nido e scuole per l’infanzia, quando si tratta di scegliere la prima elementare l’orario diventa il nodo centrale, per le medie poi la richiesta è di due tipologie quasi contrapposte, da un lato “un tempo pienissimo”, perché si è più tranquilli sapendo i ragazzi e le ragazze a scuola, dall’altro la preoccupazione che se non si impegnano a studiare da soli e quindi non hanno i pomeriggi liberi, come potranno poi imparare a studiare alle superiori? È come se non ci fosse la capacità di considerare seriamente e in modo autonomo ogni ciclo scolastico, oppure come se esistesse una diversa fiducia per un ciclo rispetto ad un altro. Un vero nuovo compito che abbiamo è il dialogo con le famiglie per sostenerle nelle scelte in modo da far capire il senso di una scelta rispetto ad un’altra. Va pensata una “scuola per genitori” che possa aiutare le madri e i padri a capire i figli, dare strumenti per migliorare le relazioni, ma anche offrire
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di Luisa Gnecchi*
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Va colta come opportunità positiva la possibilità di una riforma provinciale del sistema di istruzione e formazione
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LA SCUOLA DI DOMANI
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LA SCUOLA DI DOMANI
Un processo di riforme in moto da più di 10 anni
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di Piero Cattaneo
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l processo di riforma del sistema scolastico italiano si sta completando: ancora pochi atti legislativi e provvedimenti amministrativi e tutto l’impianto ordinamentale del nuovo assetto istituzionale del sistema educativo dell’istruzione e della formazione professionale sarà definito. Ci sono voluti dieci anni e forse qualcuno in più per portare a termine l’intero processo innovatore, interessando due legislature, due governi differenti come alleanze politiche e ben tre Ministri della Pubblica Istruzione cui è toccato il compito oneroso di avviare e di completare un disegno riformatore che si è rivelato nel suo divenire. Un disegno tracciato secondo alcune coordinate istituzionali, pedagogiche, strutturali e professionali e via via modificato secondo prospettive che i vari governi,
che si sono succeduti negli ultimi anni, andavano assumendo, spesso in contrasto, altre volte in accordo, altre ancora come naturale sviluppo di linee decise in precedenza. Un disegno progettuale che ha subito parecchi cambiamenti e altrettanti aggiustamenti nella sua fase realizzativa ,ma che ha avuto l’indubbio merito di promuovere nel sistema scolastico e in quello più ampio della formazione professionale, profondi cambiamenti che, come è prassi, producono altrettante forme di resistenza, atteggiamenti conflittuali, prese di posizione politiche e sindacali, manifestazioni di dissenso e di protesta da parte degli “addetti ai lavori” (dirigenti scolastici, docenti, personale ATA) e anche di fruitori del servizio scolastico e formativo (genitori, studenti ecc.).
Il graduale sviluppo del disegno riformatore e soprattutto il coinvolgimento altrettanto scaglionato nel tempo dei vari “segmenti” del percorso scolastico e di parti del sistema formativo più generale, hanno innescato processi di riforma che di fatto hanno modificato lo status quo dell’intero sistema. Per cui oggi esiste, in Italia, un sistema educativo di istruzione e di formazione sicuramente diverso dal precedente (cioè di quello esistente circa 10-15 anni fa), più in linea con alcune scelte di politica scolastica e formativa a livello europeo, più coerente con la devolution approvata dal Parlamento italiano, legge quest’ultima che interessa ampi settori della vita pubblica, dalla sanità alla polizia locale, dalla scuola alla formazione professionale. Quindi un percorso piuttosto travagliato, come lo è stato l’ultimo decennio della storia del nostro Paese: la sfida per i prossimi anni sarà rappresentata dalla tenuta del sistema Paese nella sua unità politica, culturale, economica e sociale. A maggior ragione la tenuta del sistema educativo di istruzione e di formazione sarà uno degli indicatori fondamentali della capacità dell’intero Paese di garantire unità nei vari settori della vita sociale, culturale, economica e amministrativa, pur rispettando le differenti realtà locali. A distanza di due anni dall’approvazione della legge di riforma del sistema scolastico e formativo in Italia, è ancora prematuro tentare di abbozzare un primo bilancio delle innovazioni introdotte. È tuttavia possibile, sulla base dell’esperienza di questi due anni, cogliere gli elementi fondanti dell’impianto generale del disegno riformatore e rilevare dalla prassi quotidiana quanto potrà trovare facile attuazione nelle attività formative e didattiche, nell’organizzazione del servizio scolastico e quali difficoltà potranno frapporsi tra quanto auspicato dal testo legislativo e i risultati di fatto ottenuti. Va subito detto che la legge di riforma n. 53/2003 (delega al Governo per la definizione delle norme
me di una legislazione esclusiva dello Stato (es. il sistema dei licei) e norme di una legislazione concorrente (es. sistema dell’istruzione e della formazione). All’interno dei vincoli fissati dallo Stato e/o dalle Regioni, ciascuna scuola autonoma progetta, organizza, gestisce e valuta la propria offerta culturale e formativa sulla base di alcune coordinate istituzionali e pedagogiche che caratterizzano e connotano la riforma in atto: – la personalizzazione dei percorsi di istruzione e di formazione; – la certificazione delle competenze individuali di ciascun allievo/a; – la valutazione del sistema di istruzione (micro e macro) secondo il paradigma della qualità; – l’integrazione del sistema dell’istruzione con quello più ampio della formazione; – la professionalità richiesta ai Dirigenti Scolastici e ai Docenti sulla base di nuove funzioni e di compiti innovativi. Senza entrare nel dettaglio di ciascuna delle coordinate sopra riportate, occorre dire che l’attuazione della riforma è e sarà un processo graduale, che richiederà tempo e attuazione in chi, in rapporto ai vari ruoli assunti e alle funzioni esercitate, è chiamato ad applicare quanto previsto dai decreti legislativi attuativi. Occorrerà anche disponibilità e buon senso nel rilevare quanto di ciò che è previsto nelle norme, di fatto si riesca a realizzare. Un processo di innovazione complesso quale è quello in atto richiede in tutti gli attori responsabili, interni ed esterni alla scuola, disponibilità e intelligenza nel gestire gli spazi di autonomia progettuale, per ricercare le soluzioni educative, didattiche, organizzative più funzionali a soddisfare la domanda di formazione e di istruzione emergenti dal territorio di riferimento di ciascuna istituzione scolastica. Due sono al riguardo i passaggi obbligati per facilitare l’attuazione della riforma: la formazione e/o l’aggiornamento dei Dirigenti Scolastici e dei Docenti (ed anche del personale
generali dell’istruzione e dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e formazione professionale) trova applicazione tramite due decreti: d. lgs. n° 59/2004 (definizione delle norme generali relative alla Scuola dell’Infanzia e al Primo Ciclo dell’istruzione) e d. lgs. n. 226/2005 (definizione delle norme generali e dei livelli essenziali delle prestazioni sul secondo ciclo del sistema educativo di istruzione e formazione ai sensi della legge 28 marzo 2003 n. 53). Decreti, questi ultimi, che danno seguito a quanto previsto dall’art. 1 della legge n. 53/2003 che, a sua volta, riprende e attua in parte il dettato dell’art. 8 del D.P.R. n° 275/99 (Regolamento sull’autonomia delle istituzioni scolastiche). Quindi la riforma Piero Cattaneo Piero Cattaneo, attualmente dirigente scolastico della scuola media “Gen. Grittini” di Casalpusterlengo (LO), ha insegnato presso la Facoltà si Scienze dell’educazione dell’Università Cattolica di Milano. Segue con attenzione le politiche scolastiche italiane. Ha pubblicato contributi e ricerche sul “portfolio”, sull’autonomia scolastica e sui problemi della gestione e della dirigenza. oggi in atto nella scuola fa parte di quel processo di profondo cambiamento e di radicale innovazione della Pubblica Amministrazione che trova il suo snodo fondamentale nel decentramento amministrativo a favore delle Regioni e degli Enti locali. L’autonomia scolastica è sicuramente la chiave di volta del disegno riformatore del sistema scolastico di istruzione e di formazione, accompagnato e sostenuto da un decentramento di poteri dallo Stato alle Regioni e agli Enti locali. Oggi le singole istituzioni scolastiche sono tenute a rispettare nor-
A.T.A.); l’informazione puntuale e chiara, tempestiva ed esauriente, ai genitori e agli studenti in merito ai “contenuti” della riforma e ai loro spazi decisionali. Informazione che può riguardare la scelta a livello nazionale in quanto comuni a tutte le scuole del medesimo indirizzo di studi, ma che deve essere particolarmente attenta a fornire alla potenziale utenza di ogni istituto scolastico informazioni sulle scelte obbligatorie e le opportunità formative opzionali e facoltative offerte alle famiglie e agli studenti. Il superamento dell’uniformità dei percorsi di istruzione e di formazione, postulati dalla legge n° 53/2003 e dai decreti attuativi richiede la presenza sul territorio anche di alcune condizioni essenziali. La collaborazione tra scuola ed Enti locali è fondamentale là dove occorre rivedere l’organizzazione del settore trasporti in relazione agli orari scolastici, la gestione di servizi di ristorazione collettiva, eventuali servizi di pre-scuola e post-scuola per far fronte alle esigenze delle famiglie. Così pure l’ampliamento dell’offerta formativa auspicata dalla riforma con la proposta del monte ore annuo, articolata in orari obbligatorio e orario per attività opzionale e facoltative aggiuntive, spesso può essere garantita e quindi offerta solo attraverso convenzioni e/o protocolli di intesa tra istituto scolastico e gli Enti locali, data l’esiguità delle risorse economiche su cui eventualmente ogni scuola può contare. In sintesi: la riforma ha iniziato il suo cammino; la sua attuazione a livello nazionale presenta dei chiaroscuri sia sul piano della condivisione/accettazione della proposta di riforma sia a livello progettuale/metodologico per le differenti interpretazioni che il testo legislativo permette. La revisione della proposta, impegno contenuto nel testo stesso della legge di riforma, potrà accogliere quei miglioramenti che sicuramente si renderanno necessari proprio perché fondati sulle esigenze emergenti dalla prassi scolastica. ■
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Politiche educative per la cittadinanza democratica europea
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ca sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale”. Allo stesso tempo, a Lisbona il Consiglio europeo delineava un nuovo approccio al coordinamento politico applicabile anche al settore dell’istruzione e della formazione, cioè il “metodo di coordinamento aperto”, “uno strumento per diffondere le buone prassi e conseguire una maggiore convergenza verso le finalità principali dell’UE”. Il metodo di coordinamento aperto si avvale di una serie di indicatori, parametri di riferimento, valutazioni inter pares ecc. Tutto questo con la precisa intenzione di raggiungere i tre obiettivi principali che le strategie di Lisbona hanno individuato: – migliorare la qualità e l’efficacia dei sistemi di istruzione e formazione nell’UE; – facilitare a tutti l’accesso ai sistemi di istruzione e formazione; – aprire i sistemi di istruzione e formazione al resto del mondo. I tre obiettivi strategici sono stati poi declinati in 13 obiettivi connessi e 42 tematiche chiave, tra le quali emergono, solo per citarne alcune, l’importanza nuovamente ribadita della formazione permanente; l’individuazione di nuove competenze di base (literacy, servirsi delle tecnologie dell’informazione, acquisire competenze trasversali come “imparare a im-
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Insegnante di lingua inglese e italiano lingua seconda negli istituti superiori di Bolzano, ha lavorato a lungo presso l’Istituto pedagogico di lingua tedesca. Attualmente è in servizio presso l’Istituto pedagogico in lingua italiana, dove si occupa soprattutto di educazione linguistica e didattica integrata. Formatrice e autrice, tra le sue numerose pubblicazioni vi sono ricerche sulle competenze linguistiche e sull’esame di maturità. È coautrice dell’antologia letteraria italiana “Nautilus”, pubblicata da Zanichelli.
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Carmen Siviero
parare”, lavorare in équipe, avere spirito d’impresa); la garanzia dell’accesso di tutti alle TIC; la necessità di aumentare l’interesse verso gli studi scientifici e tecnici; la necessità di promuovere percorsi flessibili di apprendimento per tutti; l’opportunità di incoraggiare tutti ad apprendere almeno due lingue oltre a quella materna ecc. Per ciascuno obiettivo, inoltre, si ipotizza l’individuazione di strumenti quantitativi (indicatori) e qualitativi (tematiche adatte allo scambio di esperienze) tali da permettere di definire e di favorire il loro raggiungimento nel quadro di un’unica strategia globale, attentamente monitorata dalla Commissione Europea. A dire il vero, proprio l’azione di monitoraggio (si veda in proposito il documento Key figures 2005) ha riconosciuto che vi sono stati dei progressi in questi campi nei Paesi europei, ma ha dimostrato pure che le strategie di Lisbona hanno posto degli obiettivi eccessivamente ambiziosi per la maggior parte dei Paesi della UE. Ciò nulla toglie alla loro validità e alla necessità di porli come traguardi ineludibili per un futuro non lontano. L’altro organismo europeo fortemente impegnato a dare indicazioni di indirizzo in campo educativo è il Consiglio d’Europa, al centro del cui lavoro, in materia di educazione, vi è il concetto di educazione per la cittadinanza democratica, ribadito dalla celebrazione che ne è stata fatta nel 2005, anno dedicato alla cittadinanza attraverso l’educazione. Secondo uno degli esperti maggiori del CdE, J.L.M. Trim, “risulta essere obiettivo pervasivo dell’educazione finalizzata alla cittadinanza democratica far acquisire, entro la fine del percorso scolastico… dei giovani allievi, le conoscenze e le competenze, nonché permettere nei giovani lo sviluppo delle capacità di giudizio e il senso di responsabilità sociale che consentirà loro di esercitare la libertà e l’indipendenza di pensiero e azione in maniera responsabile per raggiungere il successo e la realizzazione nell’affrontare le sfide che il vivere in una moderna società democratica comporta.” Come si vede, dunque, sia Unione Europea sia Consiglio d’Europa sottolineano la necessità di favorire una dimensione olistica dell’educazione, che tenga quindi conto della persona nella sua interezza e nella sua complessità, nella consapevolezza che il diritto a formarsi costituisce la base per una integrazione non solo nel mondo del lavoro, ma per essere in grado di esercitare il diritto di cittadinanza nella società in cui si vive, come già affermato. In questa fase di necessaria innovazione dei sistemi scolastici e formativi, quali priorità ci suggeriscono anche per il mondo dell’educazione locale le istanze individuate a livello europeo e qui richiamate in modo estremamente succinto? Non si intende rispondere alla domanda dando una ricetta, ma evidenziando dei punti di attenzione che possono essere attentamente
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tegie di Lisbona”, che nel 2000 hanno gettato le basi della politica educativa, che negli anni successivi è stata fissata in un’incredibile quantità di documenti dell’Unione Europea, sempre più attenta a ribadire le priorità di questo settore. Pur riconoscendo ai vari Stati o Regioni la competenza sull’organizzazione dei sistemi di istruzione e formazione e sui contenuti dei programmi didattici, in base al principio di sussidiarietà, la UE si è posta l’obiettivo comune di diventare entro il 2010 “l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economi-
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Riflettere sull’educazione e sul futuro delle generazioni che frequentano le nostre scuole implica quindi situare le scelte che possono essere compiute a livello locale su uno sfondo che deve tenere necessariamente conto di ciò che avviene e degli indirizzi programmatici individuati sul piano nazionale e su quello europeo, se non planetario. Per questo motivo, nel momento in cui si affronta il discorso sulle innovazioni in campo educativo e scolastico, sarebbe estremamente miope tenere conto solo delle istanze e delle necessità maturate a livello regionale o, tutt’al più, nazionale. Non si possono, infatti, pensare le norme e le scelte in materia di istruzione, formazione ed educazione se non di concerto con ciò che matura almeno sul piano europeo. E vi è da aggiungere che mai come in questi ultimi anni l’Europa, con i suoi due maggiori organismi politico-culturali, l’Unione Europea e il Consiglio d’Europa, si è pronunciata con documenti programmatici e strumentali nel campo dell’educazione e della formazione. È quindi opportuno richiamare alcuni concetti espressi in questi documenti per delineare brevemente le scelte educative europee che costituiscono punto di riferimento imprescindibile anche per quelle nazionali e locali. Giova innanzi tutto ricordare quanto affermato nel famoso Libro Bianco di Cresson-Flynn del 1995, Insegnare e apprendere. Verso la società conoscitiva, che già dieci anni fa insisteva su alcuni concetti fondamentali per dotare i cittadini europei delle competenze utili a gestire criticamente la massa di informazioni oggi offerte dai nuovi mezzi di comunicazione e per “sfruttare la principale materia prima dell’Europa, la materia grigia”: continuare ad apprendere per tutta la vita (lifelong learning); cogliere tutte le occasioni di apprendimento, considerandolo, quindi, nei suoi aspetti formali, non formali e informali (lifewide learning); individuare come funzione essenziale dell’istruzione e della formazione l’inserimento sociale e lo sviluppo personale, mediante la condivisione dei valori comuni, la trasmissione di un patrimonio culturale e l’apprendimento dell’autonomia. Ciò significa non piegarsi genericamente alle richieste strumentali di qualificazione da parte del mondo del lavoro, ma rispondere alle esigenze anche di questo mondo con la rivalutazione della cultura generale, che più di ogni altra permette la flessibilità nell’apprendimento, e con lo sviluppo dell’attitudine all’occupazione. Il che implica, fra l’altro, incrementare la mobilità in ambito lavorativo, ma innanzi tutto in quello formativo – grazie anche al riconoscimento dei periodi di istruzione e formazione condotti in istituzioni e Paesi diversi –, favorire la formazione continua e il ricorso a nuovi strumenti tecnologici. Un’altra pietra miliare fra i documenti europei in campo educativo è stata posta dalle cosiddette “Stra-
cittadino si è necessariamente ampliato e comprende tutte quelle istanze e capacità che ci permettono di essere parte costruens del nostro Continente e del mondo, cioè di affrontare le sfide che l’attuale società globalizzata e cosmopolita ci pone e di essere in grado di abitarla con la consapevolezza delle opportunità, dei diritti e dei doveri che questo nuovo concetto di cittadinanza comporta.
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ome sostiene Morin ne La testa ben fatta (2000), le finalità precipue dell’educazione e, di conseguenza, della scuola sono: contribuire all’autoformazione della persona; insegnarle a diventare cittadino, cioè a maturare i valori della solidarietà e della responsabilità grazie a un “sentimento profondo di affiliazione” a una realtà locale, nazionale, ma anche transnazionale, continentale e, perché no, planetaria. Oggi, infatti, il concetto di
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DIDATTICA PER COMPETENZE
Quando il sapere diventa un processo di costruzione
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Intervista a Giuseppe Braga sul tema delle competenze e dei risultati di apprendimento a cura di Floriana Bertoldo e Paola Mazzini
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a questione della didattica e della valutazione delle competenze è un tema di grande interesse e molto dibattuto. Affrontarla tende ad evitare che quanto viene proposto nel campo della valutazione venga subito e non capito, ma al contrario venga invece vissuto come un momento di scelta di cui si è
capaci, se solo si va a riflettere e a considerare quanto finora responsabilmente acquisito e fatto dai docenti per promuovere e valutare l'apprendimento dei propri alunni. Questo ci pare il senso del'intervista rilasciata dal prof. Giuseppe Braga, esperto di progettazione pedagogica e di valutazione dei processi formativi.
ome può un insegnante orientarsi in una pluralità di indicazioni, stimoli e proposte sul tema delle competenze? Qual è il rapporto tra conoscenza, sapere e competenza e come l’uso di questo termine influenza i processi di apprendimento e quindi i metodi didattici (progetti, laboratori, stage...) ? Che cosa si intende per competenze trasversali, e come le discipline scolastiche contribuiscono alla costruzione di queste competenze?
re, infatti, che le competenze sono considerate come risultati di apprendimento da perseguire (sono spesso considerati, peraltro, i risultati più pregiati). Dall’analisi dei documen-
Un insegnante, come ogni formatore appartenente a qualsiasi altro sistema formativo, se vuole essere sicuro di orientarsi nella pluralità di indicazioni, stimoli e proposte sul tema delle competenze deve avere alcune solidi punti di riferimento. Innanzitutto rimanere ancorato al concetto di apprendimento. Secondo quelle che appaiono le indicazioni più avanzate, il processo di apprendimento è il luogo nel quale si incontrano: – dinamismi della mente (“proiettati allo sviluppo e dotati di forme che, “processandosi”, si strutturano diventando funzionali allo sviluppo stesso: i dinamismi attendono di essere stimolati per poter emergere adeguatamente e compiutamente”); – metodi (“forme procedurali, primo logico interlocutore dei dinamismi”). È il processo che garantisce l’unità dell’apprendimento. Nel processo interagiscono in modo formale dinamismi e metodi tesi ad entrare nella comprensione della realtà (concetti) e nell’interazione con la stessa, anche per modificarla (cittadinanza attiva e lavoro professionale). Si tratta sempre di
un processo di costruzione del sapere e della realtà, il quale non è, quindi, un semplice dato da acquisire. Altra pietra angolare dell’agire professionale di un insegnante sulle compeGiuseppe Braga
È docente di Sociologia dell’organizzazione: gestione del cambiamento nelle organizzazioni e Sociologia dei processi organizzativi e del lavoro (Laurea specialistica in progettazione pedagogica ed interventi formativi) presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, sede di Piacenza. È inoltre docente di Economia Pubblica, nel Master in Marketing Territoriale, nel Master Politiche Formative e del Lavoro, nel Master in Progettazione e Valutazione dei Processi Formativi MA.PRO.VA. tenze è quella di assumere come criterio fondamentale la centratura sui risultati di apprendimento, di definire meglio cosa sono i risultati di apprendimento, la loro tipologia e precisare la relazione trai risultati di apprendimento e competenze. Nei documenti europei si trovano più definizioni di “risultati di apprendimento”, il cui denominatore comune è la centratura sul soggetto che apprende, piuttosto che sul soggetto che insegna. Non c’è, però, piena omogeneità nella rappresentazione dei risultati di apprendimento e nell’uso dei termini adoperati per rappresentarli: ciò genera confusione. Lo stesso si può affermare per l’Italia. Nello schema che segue sono messe a confronto le rappresentazioni dei risultati di apprendimento nel contesto europeo e nazionale. Lo schema aiuta a rilevare come i risultati di apprendimento sono correlati alle competenze. Si può afferma-
ti esaminati (europei e italiani) si può anche desumere che l’accordo su come intendere la competenza è ormai sostanzialmente raggiunto e si avvicina al pensiero di Bruner che definisce la competenza come l’“efficace e produttiva integrazione della persona con l’ambiente” se si intende l’ambiente in senso antropologico, comprensivo quindi, anche delle trasformazioni umane e della cultura stessa prodotta dall’umanità. Lo schema mette però in evidenza che sono considerati risultati di apprendimento anche le conoscenze, le abilità ecc., purché siano rappresentate-descritte dal punto di vista dello studente: tipicamente la formulazione di un risultato di apprendimento è “lo studente, al termine di un percorso, deve essere in grado di …” Sono considerati risultati di apprendimento anche i “contenuti”, quando il termine “contenuto” assume un signi-
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ficato specifico (tecnico), che non deve essere confuso con quello corrente, che lo considera sinonimo di informazione/nozione. Il contenuto è inteso qui come il dominio – unitario e inscindibile – di un campo concettuale, dei metodi e dei dinamismi attraverso i quali il contenuto stesso è costruito. I contenuti che si ritiene di scegliere come risultati di un determinato percorso di apprendimento devono corrispondere, come è già successo all’umanità, ai bisogni degli uomini in rapporto a situazioni problematiche di vita e lavorative. Il focus è sui bisogni del soggetto, il quale, di fronte a situazioni problematiche, avverte l’esigenza di impadronirsi degli strumenti culturali continuamente prodotti dall’insaziabile curiosità dell’uomo e dalla sua spinta a produrre nuovi saperi (cultura sociale). Il dominio dei contenuti è necessario alla persona per comprendere e per agire in più contesti. I contenuti, così intesi, devono essere individuati all’incrocio tra i diritti di cittadinanza del soggetto e i diversi campi concettuali (le discipline), in rapporto a situazioni problematiche, e prefigurano sempre, quindi, situazioni di utilizzo delle discipline. Tuttavia, il dominio/padronanza di questi contenuti è una condizione necessaria, ma non sufficiente per l’esercizio delle responsabilità richieste dall’agire nei contesti sociali (esercizio della cittadinanza attiva) e professionali (esercizio delle professioni). Per l’acquisizione dei soli contenuti possono essere sufficienti le esperienze maturate nei contesti formativi (esercitazioni, simulazioni ecc.).
ITALIA
European Qualification Key Competences Framework
Primo e secondo ciclo legge 53/03
IFTS
Percorsi triennali sperimentali
Competenze di base degli adulti
Knowledge
Knowledge
Conoscenze
Competenze di base
Competenze di base
Contenuti
Skills
Skills
Abilità
Competenze tecnico professionali
Competenze tecnico professionali e trasv.
competences
Attitudes
Competenze
Competenze trasversali
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Garantire la diversità, impedire la disuguaglianza
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INDIVIDUALIZZAZIONE/PERSONALIZZAZIONE
sariamente devono incorporare dinamismi, metodi e concetti) con cui l’uomo trasforma e memorizza il cosmo, compreso se stesso. Come si può tarare l’uso di un termine come competenza proveniente dal mondo del lavoro, in ambito scolastico e soprattutto nei confronti dei giovani allievi delle scuole primarie? Se un insegnante dispone di un approccio integrato alle competenze non teme più la confusione. Sempre avrà la chiarezza che suo compito professionale è promuovere apprendimento e quindi “dinamismi” e “metodi” nei soggetti di apprendimento. Di volta in volta, poi l’insegnante avrà chiaro se l’oggetto-processo di apprendimento riguarda “contenuti” (epistemologia, concettualizzazioni prodotte dalla “cultura sociale”) o anche risultati di cittadinanza attiva o risultati professionali. Per i giovani allievi della scuola primaria sicuramente saranno centrali i dinamismi mentali, le attitudini, i metodi e i contenuti ma sicuramente, come metodologia attiva di ap-
prendimento anche “primi ed elementari” risultati di cittadinanza attiva. Che cosa si intende per “Standard delle competenze”? Come in ogni scuola e in ogni classe possono essere individuati “standard di competenze“ che contribuiscano al processo di ridefinizione degli standard formativi? Gli “standard” sono sempre da intendere come “punti di riferimento” condivisi e, per essere tali, socialmente costruiti. Gli “standard di competenza” sono quindi, dei “descrittori di competenze” (sia di contenuto, sia di “cittadinanza attiva” sia “professionali”) possibilmente “progressivi” per stimolare una continua crescita negli apprendimenti. Sono dei “punti di riferimento per gli apprendimenti di una comunità” in quanto socialmente condivisi e prodotti. Gli insegnanti come professionisti dei processi di apprendimento interagiscono con gli standard di competenza socialmente definiti e condivisi. Così intesi gli “standard di competenza”
vanno ben distinti dagli “standard formativi” che invece sono degli “standard di processo” per raggiungere i livelli progressivi degli “standard di competenze” attraverso diverse “filiere formative”. Che cambiamenti comporta l’insegnare per competenze nei sistemi di valutazione degli allievi? Insegnare per competenze e quindi, per risultati di apprendimento, comporta che nella valutazione degli allievi non ci si possa limitare a valutare la “restituzione” anche personalizzata degli input d’insegnamento. Occorre valutare un risultato di apprendimento come punto di arrivo di un processo di costruzione che incorpora sia il suo oggetto (quale contenuto e quel risultato di cittadinanza attiva o quel risultato professionale) sia i dinamismi mentali e i metodi attraverso i quali gli oggetti sono stati costruiti e dei quali il soggetto, proprio attraverso la valutazione, come ultima tappa del suo processo di apprendimento diventa consapevole e, quindi, prende coscienza di essere in grado di… ■
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Non è solo possibile: è del tutto necessario. La scuola deve perseguire in modo integrato le logiche del diritto all’uguaglianza e quelle del diritto alla diversità. Suo compito è insegnare alcune cose a tutti, utilizzando ogni mezzo (individualizzazione) e insieme consentire/stimolare la possibilità di condurre percorsi personali di apprendimento (personalizzazione). Il dosaggio delle due strategie deve essere affidato agli insegnanti e nelle stesso tempo deve essere comunque garantito a tutti l’accesso a quelle competenze culturali in mancanza delle quali non si può parlare di diversità, ma soltanto di disuguaglianza fra i cittadini. ■
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Presidente del Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione e del Corso di Laurea in Educatore Professionale dell’Università di Bologna, è professore ordinario presso la Facoltà di Scienze della Formazione dello stesso ateneo. Attualmente è docente di Tecnologie dell’educazione e di teorie e metodi di programmazione e valutazione scolastica presso la libera Università di Bolzano. Dal 2003 è membro del Consiglio Direttivo dell’Istituto pedagogico di lingua italiana della Provincia di Bolzano.
È possibile una visione che compenetri le due dimensioni?
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La scuola della sola individualizzazione pone problemi didattici complessi: non è facile gestire l’eterogeneità delle classi e condurre contemporanea-
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In sintesi, un insegnante per orientarsi nel mondo delle “competenze” deve avere come punti di riferimento che: – un risultato di apprendimento è sempre il punto di arrivo di un processo in costruzione e incorpora sia il suo oggetto (quel contenuto, quel risultato di cittadinanza attiva e/o professionalità) sia i dinamismi mentali e i metodi attraverso i quali è costruito e dei quali il soggetto è consapevole; – il concetto di “competenza” come “efficace e produttiva integrazione della persona con l’ambiente” culturalmente strutturato, può essere applicato: – alle competenze trasversali (dinamismi della mente, dei sentimenti, della volontà, sviluppati/prodotti dall’uomo per strutturare se stesso); – alle competenze di base: “conoscenze”, “abilità”, “contenuti” che oltre ai “dinamismi” sopra indicati integrano anche “metodi” (forme procedurali, primo logico interlocutore dei dinamismi) e “concetti” (epistemologia, strumenti culturali della “cultura sociale”) prodotti dall’uomo per dotarsi di sistemi formali; – alle “competenze della cittadinanza attiva e delle professioni” (che neces-
Quali rischi implica dare esclusivo rilievo all’una o altra prospettiva?
mente didattiche differenziate. Il suo rischio è di essere solo la dichiarazione di un’utopia concretamente difficile da realizzare. Rischia inoltre l’appiattimento su percorsi didattici omologati e non attenti alle diverse motivazioni degli allievi. La scuola della sola personalizzazione è di più facile realizzazione didattica, ma rischia la divisione classista degli allievi. La libertà di scelta dei percorsi e degli obiettivi si traduce facilmente nel semplice ribadimento dei condizionamenti socio-ambientali di partenza. In definitiva, è facile che si ricada, personalizzando, in una scuola “a menù” nella quale ogni allievo trova solo quello che aveva già. Don Milani sarebbe del tutto indisponibile ad avallarla!
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I termini di “individualizzazione” e ”personalizzazione” non possono essere usati come sinonimi: hanno storie diverse e fanno riferimento a diverse interpretazioni dei significati e dei modi fondamentali dell’insegnamento. Il concetto e le strategie dell’individualizzazione, nati oggettivamente in ambiente comportamentista, fanno riferimento all’esigenza di garantire a tutti gli studenti di raggiungere gli stessi obiettivi (conoscenze, competenze, abilità): a tal fine l’individualizzazione propone di utilizzare strategie didattiche diverse (in termini di tempi, materiali, stili di apprendimento…) che lascino comunque immutato l’obiettivo. Il fine che si persegue è quello di una democrazia dell’insegnamento che risponda al diritto all’uguaglianza. Il concetto e le strategie della personalizzazione, legati alla tradizione del personalismo cattolico e ripresi oggi all’interno della più ampia tematica della valorizzazione delle diversità, si riferiscono alla op-
portunità di consentire agli studenti di raggiungere obiettivi diversi. Di garantire possibilità di scelta non solo dei percorsi didattici, ma anche delle conoscenze e competenze da raggiungere, in funzione delle motivazioni e risorse che contrassegnano il singolo studente.
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ella riforma Moratti uno dei nuclei concettuali riguarda “la personalizzazione”, che sostituisce (con tutte le implicazioni pedagogico-didattiche che ne conseguono) l’”individualizzazione”, caratterizzante, invece, l’impostazione dei precedenti programmi. Può fornire una chiarificazione sui due termini, spesso usati in forma impropria e sul conseguente diverso approccio metodologico-didattico che essi determinano?
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Luigi Guerra: Il problema è come gestire didattiche differenziate evitando la scuola “a menù”
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Valutare è attribuire un senso ad operatività complesse
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Tre domande a Liliana Dozza, presidente del Comitato provinciale di valutazione
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l concetto di valutazione si presta ad una molteplicità di significati, da quello più generale di controllo di un processo attraverso l’analisi e l’interpretazione dei dati relativi allo stesso, a quelli più specifici che si riferiscono al sistema scolastico, alle singole scuole, alle attività didattiche interdisciplinare e disciplinari. È da distinguere, inoltre, la valutazione “esterna” da quella “inter1. Lei presiede il Comitato provinciale di valutazione per la Qualità del Sistema scolastico di lingua italiana, quale concezione il Comitato e il Nucleo Operativo hanno della valutazione di sistema? Il Comitato e il Nucleo di valutazione ritengono che la valutazione debba essere al servizio dell’autonomia delle scuole, un’autonomia che si realizza attraverso processi di continua regolazione e di tensione verso l’innovazione dell’offerta educativa e del sistema formativo nel suo complesso. In senso molto generale, possiamo definire la valutazione un procedimento finalizzato a ridurre l’ambiguità e/o l’autoreferenzialità, a ragionare con i dati, a promuovere un miglioramento continuo della qualità di un determinato processo, prodotto, servizio. La valutazione in campo educativo si può definire come un processo di attribuzione di senso ad operatività complesse, che chiamano in campo differenti componenti e attori sociali implicati a diverso titolo nel processo valutativo e nell’atto del valutare. Valutatori interni ed esterni – insegnanti, dirigenti, alunni, personale amministrativo e ausiliario, ricercatori, esperti, peer review, agenzie esterne alla scuola – sono impegnati in percorsi valutativi che riguardano il profitto degli allievi, il contesto, il sistema scuola e il sistema scolastico. Come Comitato e Nucleo di Valutazione pensiamo a una valutazione di sistema che solleciti gli “attori sociali” a confrontarsi non solo su quello che avviene nell’organizzazione del servizio-scuola, ma anche sui criteri con cui apprezzare quello che avviene. Intendiamo la valutazione del sistema formativo come una “pratica sociale”, un complesso di procedure condivise mediante le quali una collettività analizza la ricaduta (l’efficacia e l’efficienza) del proprio sistema formativo, valutando: i punti di forza e di debolezza, le prestazioni delle scuole, gli impatti delle politiche educative. Riteniamo che sia fondamentale disporre, a monte, di una visione complessiva del sistema formativo del territorio, che ci permetta di apprezzarne la qualità. Una qualità che concepiamo non tanto in termini assoluti e autoevidenti, quanto in termini relativi, che vanno studiati mettendo “in relazione” ciò che sta dentro, fuori e intorno alla singola istituzione scolastica e al sistema scolastico di lingua italiana, nel suo complesso. Va riconosciuto che il dibattito in corso si è focalizzato forse eccessivamente sull’architettura del sistema, quando invece la vera riforma è quella del pensiero. La vera riforma è quella che considera la formazione come un’impresa a responsabilità individuale e collettiva, che sa riconoscere e dare valore alle diversità interne, che ha una sicura attitudine al sostegno delle diverse parti del sistema. In tal senso, il Comitato e il Nucleo di Valutazione ritengono che, quando un sistema intende innescare cambiamenti migliorativi, mantenere livelli alti di qualità delle singole scuole e
na”, la cosiddetta autovalutazione. Il dibattito su questo tema mette in evidenza la presenza di approcci e posizioni molto diverse, dovute anche, in parte, ad una non sempre chiara definizione degli oggetti cui ci si riferisce. Nell’intervista che segue, Liliana Dozza chiarirà che cosa si intende per valutazione di sistema e quale relazione essa abbia con l’autovalutazione delle singole scuole.
del sistema nel suo complesso, coordinarsi all’interno del sistema formativo e del sistema socio-culturale-economico nel suo complesso, ha bisogno di valutazione esterna, ma soprattutto di concordare su indicatori per potere anche autovalutarsi. 2. Quale rapporto il Comitato di Valutazione intende istituire con le Scuole? L’autonomia delle istituzioni scolastiche (Legge 59/1997) assegna alle scuole e all’Università nuove responsabilità di progettazione e gestione delle risorse, di redicontazione dell’operato svolto (contabilità su base economica, controllo del budget), di comunicazione interna ed esterna, di innovazione e sviluppo. In questo quadro, la valutazione – intesa come autovalutazione e come valutazione esterna – è uno strumento fondamentale per programmare e la programmazione è un fatto di governo interno. Una Liliana Dozza Docente di pedagogia generale e sociale presso la Facoltà di Scienze della Formazione a Bressanone, presiede attualmente il Comitato provinciale di valutazione per la qualità del sistema scolastico di lingua italiana. È inoltre componente del Comitato tecnico-scientifico dell’Ip di Bolzano. scuola che si voglia muovere in autonomia ha bisogno di sapere “dove si trova” e di muoversi avendo capacità di posizionamento e orientamento strategico, di esercitare la libertà di scelta con ampia consapevolezza, evitando il rischio dell’autoreferenzialità. Parallelamente, la valutazione del sistema scolastico nel suo complesso non è solo funzionale alla regolazione e allo sviluppo del sistema, ma fornisce punti di riferimento anche per l’autovalutazione della singola scuola. Il Comitato e il Nucleo di valutazione della qualità del sistema scolastico di lingua italiana adottano un approccio per processi basato sull’autovalutazione e sulla valutazione esterna. Lo scopo della valutazione esterna è quello di portare un contributo almeno su tre prospettive: fornire elementi di conoscenza utili a orientare le politiche scolastiche e i processi decisionali più complessivi; innescare un processo di cambiamento migliorativo e di regolazione interno al sistema e alle scuole; eventualmente accreditarsi, esibendo certificazioni di qualità. Lo scopo dell’autovalutazione è di: raccogliere e analizzare i dati sui processi e sui prodotti al fine di compiere scelte che comportino cambiamenti migliorativi; attivare all’interno della scuola le forze che possono costituire potenziali di sviluppo del sistema stesso.
La finalità è sempre quella di monitorare un processo di cambiamento migliorativo e di regolazione interno al sistema che venga assunto come responsabilità individuale e collettiva dalle differenti componenti e dai differenti attori in campo. Il processo di valutazione nel suo complesso riguarda: - sia il servizio di istruzione e formazione, come processo e come prodotto: best practices, valutazione delle prestazioni delle scuole (percentuale di diplomati, votazioni conseguite dagli allievi, ecc., posizionamento in ricerche locali e nazionali, o internazionali del tipo OCSE-PISA, ecc.), impatti (competenze acquisite dagli allievi, effetti sociali delle politiche educative, grado di soddisfazione degli utenti, ecc.). Alcune delle domande a cui si cerca di dare risposta (che solitamente sono responsabilità del sistema, come della scuola e del docente/dei docenti) sono: Il servizio di formazione prestato è in grado di consentire a tutti gli studenti di raggiungere gli obiettivi di formazione indicati? Il piano di studio è coerente con gli obiettivi? Si tiene conto delle caratteristiche degli studenti in fase di accesso? - sia il contesto, ossia la “relazione” tra ciò che sta dentro, fuori, intorno alla singola istituzione scolastica (a livello locale, nazionale, internazionale). In quanto tale, la valutazione di contesto riguarda fenomeni educativi e relazionali complessi che coinvolgono differenti soggetti istituzionali: classe/classi e altri gruppi o componenti della scuola, la scuola, le famiglie, i rapporti che intercorrono con esse, con i soggetti e le opportunità formative del territorio, con altri soggetti istituzionali – enti locali, associazionismo, chiese, privato sociale organizzato – con gli altri ordini di scuola, con la collettività (tra l’altro, la valutazione espressa dalla collettività ha ricadute significative sulla percezione che gli insegnanti hanno della propria identità professionale, così come sulle politiche scolastiche a livello locale e nazionale). Nel caso della valutazione di contesto, si può parlare di un “accertamento intersoggettivo” di più dimensioni formative e organizzative, che permette di indicare la loro distanza da espliciti livelli considerati ottimali da un gruppo di riferimento, con lo scopo di influire costruttivamente sull’esperienza educativa. Alcune delle domande a cui si cerca di dare risposta sono: L’orientamento in entrata, in itinere, in uscita è garantito? Il tutoring è efficace? Vi è collaborazione fra team docenti e fra classi all’interno della scuola, e con altre scuole? Com’è la soddisfazione degli studenti? Qual è l’impatto quanto ad accesso e successo nei curricola universitari? Qual è l’impatto con il mondo del lavoro? Quali sono le valutazioni dei datori di lavoro? Qual è l’autopercezione di competenza degli studenti nel momento in cui si misurano con nuovi percorsi formativi e/o con il mercato del lavoro? - sia del sistema di gestione. La domanda a cui si cerca di dare risposta è: Il sistema di gestione consente di
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Necessari strumenti attendibili e rapporti di fiducia con le scuole
Benedetto Vertecchi Insegna Pedagogia sperimentale presso l’Università Roma Tre. È stato presidente del Cede (Centro Europeo dell’Educazione) e dell’Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema di Istruzione. Ha collaborato a numerose ricerche comparative promosse dall’Ocse e dall’International Association for the Evaluation of Educational Achievement (Iea). Le sue ricerche hanno riguardato prevalentemente le strategie per l’individualizzazione didattica e la valutazione. Dirige Cadmo, Giornale italiano di Pedagogia sperimentale. stato di crisi. Se vi fosse una generale soddisfazione nei confronti del funzionamento del sistema scolastico (lo stesso può dirsi delle università) l’attività valutativa resterebbe per lo più implicita (com’è quella consistente nell’esprimere soddisfazione), senza richiedere la definizione di particolari metodologie volte ad evidenziare questo o quell’aspetto o a misurare i valori che presenta questa o quella variabile. Il quadro si complica se si percepisce che qualcosa non corrisponde alle attese. Diventa allora una questione di razionalità rendere espliciti gli elementi del giudizio. Ma tutto ciò può ri-
dare continuità e di migliorare i risultati raggiunti? L’approccio per processi si presta ad individuare e gestire un sistema di attività tra loro collegate e comporta una serie di “passi”: stabilire gli obiettivi e i processi necessari per fornire risultati/esiti in accordo con gli obiettivi; dare attuazione ai processi previsti; monitorare/valutare i risultati a fronte degli obiettivi; adottare azioni per migliorare in modo continuo processi e prodotti.
dati siano raccolti in un breve lasso di tempo (si tratta dunque di valutazioni sincroniche). Ovviamente, ogni scelta valutativa deriva da un modello interpretativo dell’attività educativa della scuola. Tale modello comprende un’ipotesi circa le relazioni che si stabiliscono nel processo tra le variabili che concorrono a determinarlo. Il modello è più o meno complesso in relazione alle variabili che si prendono in considerazione. In ogni caso, perché un modello abbia una sua coerenza, bisogna che comprenda variabili cui si attribuisce la capacità di incidere sull’andamento dei fenomeni (indipendenti) e
3. Vi è, quindi, un rapporto dialettico tra i processi di autovalutazione e la valutazione esterna? Può esserci o meno un rapporto dialettico tra i processi di autovalutazione e di valutazione esterna. Una valutazione di sistema – compiuta secondo una logica “statica”, secondo una concezione di scuola e di servizio formativo pensata “a tavolino” e avulsa dal contesto – si associa ad uno stile marcatamente
Quali sono i principali orientamenti emergenti in campo internazionale sulla valutazione del sistema scolastico? Nell’attività valutativa che investe i sistemi scolastici, alle diverse interpretazioni corrispondono specifiche metodologie e tecniche di rilevazione. La principale differenza, sul piano metosegue a pag. 20
giudicante e sanzionatorio piuttosto che di promozione e di empowerment. Una valutazione di sistema – compiuta secondo una logica “dinamica”, secondo una concezione di scuola e di servizio formativo basata sulla comunicazione, sul confronto, sulla concertazione tra i soggetti a vario titolo e con diversi livelli di responsabilità segue a pag. 13
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Le scelte in materia valutativa effettuate negli ultimi anni hanno l’intento di esprimere giudizi, e prevedono che i
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È un dubbio del tutto legittimo. Spesso, infatti, l’enfasi posta sulla valutazione si collega alla percezione di uno
Che cosa è possibile e opportuno valutare?
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Per quanto possa sembrare che quella di valutare il funzionamento del sistema scolastico sia un’esigenza generalmente avvertita, non sempre si colgono le differenze tra i due modi in cui tale attività può essere svolta. Né si colgono le implicazioni sottese all’una o all’altra soluzione. Un primo modo consiste nel rilevare che cosa appare in un momento determinato al fine di esprimere un giudizio (positivo o negativo che sia); l’altro modo considera l’analisi di ciò che appare una condizione per assumere decisioni idonee ad orientare il corso successivo degli eventi in una direzione desiderata. Quando queste due interpretazioni si manifestano a livello locale, qualificano in un senso o nell’altro le pratiche valutative delle scuole e dei singoli insegnanti. Quando si manifestano a livello dell’intero sistema scolastico, danno luogo ad atteggiamenti sanzionatori (se prevale l’esigenza di esprimere un giudizio), o di revisione costruttiva delle scelte, se l’interesse è quello di raggiungere determinati traguardi considerati necessari. Un’ulteriore distinzione deve essere operata in relazione al tempo nel quale le informazioni necessarie alla valutazione sono state assunte. Se tali informazioni hanno origine in un tempo determinato e circoscritto, la valutazione assume caratteristiche sincroniche; se, invece, si tiene conto di un
Come collega la valutazione al funzionamento del sistema scolastico? Non c’è il dubbio che tanta insistenza sui problemi della valutazione nasconda una sostanziale povertà delle interpretazioni?
variabili capaci di riflettere i risultati che si sono ottenuti (dipendenti). Le scelte dell’attuale governo sembrano ridurre, di volta in volta, le variabili indipendenti alle sole caratteristiche personali dei soggetti coinvolti nell’aspetto dell’educazione cui il giudizio si riferisce. Così, per esempio, se si valutano i risultati conseguiti dagli allievi, contano le loro caratteristiche personali, intellettuali e affettive; se si considerano i risultati di una classe o di una scuola, il giudizio ricade sul docente o sui docenti cui si devono le pratiche organizzative e didattiche alle quali i risultati stessi possono essere riferiti. Si tratta di un modello molto povero, che esaspera la chiave di lettura sincronica delle informazioni. Se si seguisse una chiave diacronica, si potrebbe giungere a conclusioni anche molto diverse: alla fine di un certo tratto del percorso educativo (sui risultati del quale si è esercitata una varia incidenza sia di fattori sociali e culturali di contesto, sia di fattori riferibili all’attività didattica) corrispondono risultati da considerarsi variabili dipendenti per ciò che riguarda il tempo che precede, ma indipendenti per il tempo che segue.
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solversi in una sorta di cultura della crisi, sostanzialmente sterile, o in una revisione critica dei modelli e delle scelte che si ritengono non più rispondenti alle condizioni in cui si svolge l’attività educativa.
quadro evolutivo la valutazione ha caratteristiche diacroniche.
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Quello della valutazione è un tema di grande attualità. Si ha però l’impressione che alla parola corrispondano significati e intenzioni diverse. Come orientarsi in un dibattito così complesso?
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ne criticamente le potenzialità e di verificarne l’efficacia sul campo. In ogni caso, la valutazione e l’autovalutazione costituiscono ormai degli imprescindibili strumenti di formazione crescita, per gli studenti come anche per gli insegnanti. Per le singole scuole come per l’intero sistema scolastico. Sull’importanza della valutazione abbiamo rivolto alcune domande a Benedetto Vertecchi, uno dei massimi esperti italiani in questo campo.
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l dibattito che ormai da lungo tempo si è sviluppato intorno alle problematiche della valutazione testimonia che questo tema è entrato ormai a far parte stabilmente della cultura pedagogica e della pratica didattica dei docenti. Non è più, insomma, un argomento per soli esperti. A questi va certamente riconosciuta la capacità di elaborare, presentare, discutere, analizzare modelli teorici e approcci metodologici diversi. Ai docenti, sul campo, la capacità di coglier-
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a cura di Carmen Siviero e Klaus Civegna
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Secondo il pedagogista Benedetto Vertecchi, la situazione attuale è molto confusa: “Per una buona valutazione è fondamentale la consapevolezza dei metodi e delle tecniche adottate”
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ETERO E AUTOVALUTAZIONE
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LA DIVERSITÀ COME RISORSA
Solidarietà nell’apprendimento per aiutare i soggetti più deboli Per Andrea Canevaro gli elementi di difficoltà o contrasto vanno riformulati in termini di progetto sociale o individuale
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a cura di Umberta Biasioli
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a Qualità dell’integrazione è la Qualità della scuola” titolano gli ultimi convegni organizzati da Andrea Canevaro e Dario Ianes a Rimini. In effetti, se ci si sofferma ad osservare che cosa si muove nel variegato mondo della scuola, molta parte dell’innovazione – di metodi, approcci, strumenti – la troviamo nella dimensione ‘integrazione’. Una normativa tra le più avanzate d’Europa, se non del mondo, ha permesso e promosso uno ‘sguardo sottile’ in grado di cogliere aspetti che non appartengono alla tradizione esplicita del fare scuola: autostima, senso di autoefficacia, tutte quelle componenti
dell’apprendimento che possiamo ricondurre alla ‘metacognizione’, cui si comincia a prestare la dovuta attenzione. Gli alunni ‘disabili’ sono stati anche i primi a disporre di un Piano Educativo Individualizzato, oggi presentato come novità dai vari progetti di riforma. Uno dei protagonisti che hanno tradotto le politiche di riduzione dell’handicap in proposizione di novità fondamentali per tutti, promotore e testimone di tante ‘buone prassi’ è Andrea Canevaro. A lui abbiamo rivolto alcune domande, per cercare di coniugare la sapienza pedagogica generata dalla diversità con il lavoro quotidiano di tutti i docenti.
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produrre contesti per impedire che i ‘non luoghi’ siano il destino dei soggetti deboli.
andicappati, alunni in situazione di handicap, disabili, diversamente abili: è diversa la forma o la sostanza?
Ritengo il termine disabilità un progetto e una sfida, una provocazione. Una sfida non può essere un regalo: non posso permettermi di attribuire una diversa abilità a tutti; potrebbe sembrare una presa in giro. Esistono disabilità nelle quali la sofferenza di non scoprire la propria abilità è forte. È una sofferenza che non può essere annullata ‘per decreto’. Va rispettata condividendola nella ricerca di una diversa abilità, senza la certezza di arrivare al risultato. L’espressione ‘portatore di handicap’ è confusiva: gli handicap sono svantaggi da ridurre, non possono essere incollati all’individuo che ne soffre. Si spendono le parole con molta leggerezza e si arriva ad un attribuire agli studiosi, agli addetti ai lavori un eccesso di pignoleria o di stravaganza umorale. Non credo sia un problema nominalistico ma rimanda alla possibilità che le parole rispettino una prospettiva: quella della vicinanza, dell’essere insieme, dell’avere delle responsabilità condivise, del potere essere compagni di strada di persone che hanno delle disabilità ma che non ‘portano’ un handicap; combattono per ridurlo, per annullarlo. Per concludere: disabilità è la parola che al momento useremo e considereremo diversabilità una sfida importante, non una parola sostitutiva. Accettiamo le sfide e nello stesso tempo conserviamo il senso della realtà, proprio per accettarne la sfida. Insieme. La scuola italiana integra tutti gli alunni, ma con quali risultati? In altri paesi europei – ad esempio in Germania – bellissime scuole speciali preparano ad inserirsi nella vita adulta. Non credo si possano confrontare i risultati, ma riferirci ad un processo
complesso, riconducibile alla dimensione della deistituzionalizzazione. ‘Istituzionalizzare’ equivaleva a collocare in grandi contenitori che facevano perdere le tracce originali, singolari degli individui per trattarli come categorie. Non basta negare il grande contenitore, senza capire quanto di quel conte-
La presenza di un alunno disabile in classe altera le modalità di lavoro; altera di conseguenza anche il livello generale, i risultati?
Andrea Canevaro Docente di Pedagogia Speciale presso il corso di laurea in Pedagogia della Facoltà di Magistero dell'Università degli Studi di Bologna, nel 1983 è stato eletto presidente del corso di laurea in Pedagogia; e dal 1987, per due mandati triennali, è stato Direttore del Dipartimento di Scienze dell’Educazione presso lo stesso ateneo. Nel novembre 1996 è stato nominato nuovamente Direttore del Dipartimento di Scienze dell’Educazione. Ha all’attivo una vasta attività di ricerca, che ha prodotto un numero alto di pubblicazioni. È membro di associazioni scientifiche internazionali e nazionali, direttore di collane editoriali, e nel comitato scientifico di alcune riviste nazionali e internazionali. nitore deve essere sviluppato in un ampio programma sociale: il senso autentico del processo di deistituzionalizzazione. È in una vera e propria riconciliazione. Riconciliazione con l’offesa per la violenza dell’esclusione in una dimensione culturale dell’impegno che sappia vedere nell’altro non qualcosa che limita e danneggia ma un completamento e un arricchimento della nostra stessa realtà. Non un “buon sentimento”, ma un’azione di giustizia che conviene a tutti, anche sul piano economico. Riconciliazione è impegno in prima persona a incontrare, farsi carico, accompagnare che implica il superamento dell’assistenzialismo e del vittimismo. L’istituito, ciò che è già organizzato, tende a fornire risposte secondo modelli in parte superati. Occorre partire dal basso, incontrare le persone, assumersi responsabilità, accompagnare, interpretare le regole secondo le nuove necessità; non ci si può limitare a smontare dei luoghi, si deve anche
La presenza di elementi di solidarietà nell’apprendimento è un punto che va trattato con molta delicatezza; significa considerare il proprio modo di essere con gli altri secondo la dimensione ‘sinaptica’, cioè evidenziando la possibilità che gli elementi di contrasto siano riformulati in termini di progetto, individuale e sociale insieme. Il farsi carico diviene quindi capire come vi siano diverse strategie di apprendimento e come vi sia la possibilità, utilizzando il tempo di dedizione all’altro, di aumentare le proprie capacità. Per funzionare in una dimensione sinaptica abbiamo bisogno di stare insieme in un tempo che sia qualificato; torna il ricordo, se vogliamo un po’ la nostalgia, del tempo pieno. Nei prossimi anni le attività della scuola si troveranno impegnate con una pluralità di soggetti. Pluralità di soggetti vuol dire pluralità di linguaggi, di strutture comunicative: simboliche, grammaticali e semantiche. Per costruirle sono necessarie situazioni di lavoro comune, tempi di laboratorio durante i quali il riscontro tra le parole che evocano, che rappresentano, che annunciano e gli oggetti permetta di
costruire il condiviso. “Labor” significa “fatica”, imparare a sopportare e a dar senso alla fatica; il gruppo, nella sua pluralità, è in grado di accogliere chi ha difficoltà maggiori o disabilità... La mano di un bambino o di una bambina esplora materiali che possono suggerire un’attività; nel laboratorio quella mano trova una disciplina che la aiuta; trova – nella mano esperta che lavora accanto a lei – un modello cui riferirsi e da imitare. Non dimentichiamo la fatica. Un ragazzo con sindrome di Down ha risposto a suo fratello che gli chiedeva cosa significa questa definizione: “È che sono intelligente, ma è fatica stare al mondo”. Possiamo avere la tentazione di impegnarci soprattutto o esclusivamente a togliere la fatica. È più giusto trovarne insieme il senso. Il laboratorio può dare senso alla fatica; e la fatica può trasformare un luogo, una situazione in laboratorio. Questa reciprocità non può essere vissuta senza sporcarsi le mani. Non si può trasformare gli altri in cavie. È necessario sporcarsi nel senso di coinvolgersi, accettando il rischio di sbagliare e di dover rimediare ma nello stesso tempo prendendo tutte le cautele per non commettere errori, per capire quali errori sono fattibili, quali non fattibili perché catastrofici. I progetti di riforma della scuola come affrontano l’integrazione? È cambiata la sensibilità del legislatore in questi ultimi anni? Viviamo un momento un po’ frastornante: molte indicazioni di cambiamento vengono dichiarate, sembrano adottate, poi lasciate, contestate, discusse, riprecisate. Si può pensare che la confusione sia segno di creatività; noi la stiamo vivendo come segnale di smarrimento. È il momento giusto per riflettere sulle radici dell’impegno scolastico. Sergio Neri aveva tracciato alcune linee per se stesso – scritte nei suoi resegue a pag. 13
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Voglia di identità consapevole: cosa può fare la scuola
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LA DIVERSITÀ COME RISORSA
Intervista a Duccio Demetrio su intercultura, alunni stranieri e innovazione didattica
Il discorso relativo alle implicazioni della scuola e delle altre istituzioni sociali, culturali, educative coinvolte, colloca ad un secondo livello, invece, l’analisi della esperienza relazionale. La relazione si rende interculturale in senso proprio (ed è qui che emergono le implicazioni pedagogiche più interessanti) quando stabiliamo con “l’altro” dei rapporti diretti, intenzionali, cercati, di confronto, di utilità reciproca, di carattere anche conflittuale, che esigono mediazioni politiche vere e proprie. In una realtà cir-
Duccio Demetrio Fondatore del “Gruppo di ricerca in metodologie autobiografiche” e, con Saverio Tutino, della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari, è docente di Filosofia dell’Educazione e Teorie e Pratiche autobiografiche all’Università degli studi di Milano-Bicocca. Si occupa di pedagogia sociale, educazione permanente, educazione interculturale ed epistemologia della conoscenza in età adulta. Dirige la rivista Adultità (Guerini Edizioni). glienza, ad un’integrazione assimilativa di carattere linguistico, al solo riconoscimento di alcune (superficiali) mentalità o di alcuni modi di vita. Oggi, tale indirizzo educativo, che dovrebbe essere compreso da chiunque lavori nella scuola e ne sia coinvolto, in tempi così difficili per il dialogo dovuti a squilibri di carattere sociale, materiali, di ingiustizia, sta sempre più entrando nel tempo della ricerca delle “consonanze” e delle “identità di vedute” per obiettivi condivisi di miglioramento della convivenza.
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La pedagogia interculturale mette l’accento sulla nozione di identità; lei afferma che il concetto di identità è cruciale perché nel momento in cui ci incontriamo con alunni e genitori di altre culture il nostro pensiero non può che interrogarsi sul senso di ciò che stiamo facendo e proponendo a proposito delle trasformazioni della loro e delle nostra identità; quali punti di attenzione e quali piste di lavoro propone allora ad una scuola che si interroga su questi temi? Che cosa può fare la scuola rispetto al costruirsi della nuova identità in terra di migrazione?
La scuola, perché di tutti, pertanto, oltre a garantire le condizioni migliori per l’integrazione degli studenti stranieri (dai più piccoli agli adolescenti), affinché non subiscano svantaggi e discriminazioni, ma siano messi nella condizione di emergere e di elaborare un loro autonomo progetto (autonomo anche rispetto alle loro stesse culture di origine), fa già molto quando affronta il “problema” non in quanto problema aggiuntivo. Ma in quanto tratto caratteristico, ineludibile, delle società attuali. Quando si reinventa come luogo che discute di culture, di inevitabili interazioni, e le considera fonte di innalzamento culturale in generale. Visibilizzare la differenza significa quindi prenderne coscienza, significa far entrare nei programmi e nelle attività il mondo e le tante versioni che di esso possiamo darne. Visibilizzare il bambino o il ragazzo significa riconoscerlo nella sua eguaglianza, e cioè nel suo diritto a diventare un adulto o una
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Si tratta, in primo luogo, di intendersi sulla parola “relazione”. Le relazioni, come sappiamo, sono di diversa natura e intensità. Ad un primo livello, possiamo quindi sostenere che, per quanto concerne il rapporto con culture diverse (ma io preferisco riferirmi sempre alle singole storie portatrici di comportamenti, valori, credenze ecc per noi inconsueti, non usuali), l’intercultura ben prima e ben oltre il problema migratorio - fa parte del nostro vivere quotidiano anche quando non siamo in presenza di piccoli, adulti, famiglie di altra nazionalità. Le culture non esprimono soltanto una differenza etnica, linguistica, religiosa. Ogni giorno, pur appartenendo ad una più o meno vasta area territoriale nella quale si parla la stessa lingua, dove si condividano tante cose comuni, entriamo in queste o quelle relazioni interculturali giocoforza. Le culture sono anche professionali, sociali, di censo, di più o meno alto livello intellettuale ecc. Persino psicologiche. Ho voluto richiamare questa ovvietà per ricordare che il problema delle relazioni tra culture diverse, pur nella trasversalità di una stessa appartenenza nazionale è una costante dalla quale occorrerebbe, in primo luogo partire. Prima di inoltrarsi in argomenti che riguardino il rapporto con chi è giunto da lontano e quindi con una sua visibilità eclatante della propria differenza: con volti, idiomi, fedi, interessi ben diversi dai nostri. L’aspetto più visibile della questione interculturale non deve mai farci dimenticare che oggi gli stessi antropologi riconducono la nozione di cultura al grande tema delle soggettività individuali che le reinterpretano in circostanze diverse. Ad esempio un maghrebino approdato in Italia non è tout court assimilabile ad un suo connazionale che ab-
bia scelto la Francia o la Germania come luogo di migrazione. Le culture non sono mai insomma speciè nella società globalizzata in quanto comportamenti collettivi o omogenei, sono dei punti di vista, delle declinazioni di quei comportamenti d’origine, che tendono a trovare una loro identità e un loro riconoscimento, a livello soggettivo. Che si riadattano alle diverse nuove circostanze, alle quali pur magari rifiutandole debbono riconformarsi. Si contaminano in relazione ai luoghi, agli atteggiamenti autoctoni, alle opportunità trovate. In conclusione, le relazioni interculturali rappresentano, da sempre, una presenza inevitabile delle micro- e macrosocietà: certo delle più dinamiche e coinvolte da processi di mutamento. Si tratta però, certamente, di non accettare che questo si produca fisiologicamente, quando la naturalità di certi fenomeni conduca ad aggravare condizioni di debolezza e precarie cui sempre è esposto chi viene da un altrove.
Nel libro Bambini stranieri a scuola Lei propone di passare dal bambino “invisibile” al bambino “risorsa”, quali sono le strategie che lei propone alla scuola perché il bambino straniero venga considerato una risorsa per il cambiamento? Quando il bambino straniero da invisibile può diventare una risorsa per la scuola?
adulta che possa essere riconosciuto come cittadino e cittadina a prescindere dalla lingua, dal colore della pelle, dalla fede professata. Questo è il nuovo relativismo: non più enfasi eccessiva sulla differenza, ma riconoscimento dei diversi modi di pensare, di fare comunità, nella comprensione che non c’è una verità, ma ce ne sono innumerevoli e che proprio per questo occorre fra loro trovare una strategia di riconoscimento reciproco e di comune emancipazione. ■
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Il termine intercultura ricorre ormai sempre più frequentemente in numerosi ambiti e , al di là delle varie definizioni che se ne possono fornire, la questione di fondo riguarda primariamente le relazioni fra persone con riferimenti culturali, linguistici, filosofici, storici e sociali fra loro differenti. Quando una relazione può dirsi interculturale?
coscritta e istituzionale, quanto in una realtà più vasta: dove più difficile è senz’altro veicolare i contenuti dell’interculturalità ”consapevole”. Ciò si esplica quando, dalla situazione multiculturale, che non necessariamente prevede una rimescolanza delle idee, delle parole, delle tradizioni, si espliciti e si dia seguito con interventi concreti all’interesse di riconoscere nella differenza una risorsa. Insomma, quando “l’altro” diventa per noi, e noi per lui o lei, una fonte di sapere, interesse, conoscenza, curiosità non superficiale e folcloristica poiché desideriamo che ciò accada. E non solo per caso e avventura. Quando “tra tutti” si vengano a stabilire delle regole di reciprocità e ci si riconosca, a prescindere dalle differenze stesse che ciascuno ha il diritto e il dovere di esibire e difendere: purché queste, è ovvio, non abbiano di mira l’offesa e l’annientamento del diverso, in alcuni orientamenti di valore comuni. Non solo occidentali, naturalmente, che consentano alla nostra specie planetariamente intesa di evolvere, di comprendere che è conveniente per tutti credere nei diritti universali, nella progettualità di cercare di stare meglio al mondo e assai meno nelle sue infelicità e sofferenze cui purtroppo diamo un contributo. L’educazione interculturale è contrassegnata, di conseguenza, da una forte vocazione progettuale ed ideale. Non può limitarsi soltanto ad una buona acco-
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bbiamo rivolto a Duccio Demetrio tre domande sull’educazione interculturale per proporre alcuni punti di riflessione e di approfondimento sulle relazioni nei contesti che contraddistinguono il cambiamento della nostra società, per ragionare sul ruolo della scuola nella educazione a questo cambiamento e per riflettere sulla presenza di tanti alunni stranieri come veicolo di innovazione didattica.
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a cura di Marco Ferretti
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NUOVE TECNOLOGIE
Una didattica “di rete” per l’informatica nella scuola
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Intervista a Silvano Tagliagambe e Derrick De Kerckhove sull’importanza delle ICT nell’apprendimento a cura di Luisanna Fiorini
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nformatica a scuola? Oggetto di studio o ambiente di sviluppo dell’apprendimento? Disciplina autonoma o elemento trasversale di prassi didattica? Per portare un contributo al dibattito porgiamo la stessa domanda a due protagonisti delle pratiche e delle riflessioni intorno alla costruzione della conoscenza attraverso le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, Silvan Tagliagambe e Derrick De Kerckhove... La riforma della scuola italiana mette in risalto l’importanza delle ICT nell’apprendimento e nel portfolio delle competenze degli alunni. Quali accortezze pedagogiche e organizzative consiglierebbe? TAGLIAGAMBE. Sul piano pedagogico la prima accortezza da garantire è quella di evitare gli usi didattici ancorati al modello della “forma libro”, per favorire, di contro, una didattica pensata come rete, cioè metodologie e contenuti realmente aperti ed effettivamente improntati al paradigma della rete e permeati di quest’ultimo. Rispetto alle modalità usuali di rappresentazione della conoscenza, l’irruzione della rete ha causato un rovesciamento che ha portato all’acquisizione dei seguenti presupposti: 1) la conoscenza non è statica bensì dinamica e sempre incompleta. Essa non può essere vista come un corpus di idee e/o di competenze da acquisire bensì (continua da pag. 5: “Politiche educative per la cittadinanza democratica europea”) approfonditi dagli addetti ai lavori o integrati con altri punti, che dovrebbero emergere da un dibattito all’interno delle singole istituzioni locali e provinciali: – ribadire la centralità del soggetto in formazione; – interrogarsi sulle competenze di base: quali sono? quali è necessario fornire a tutti? – interpretare il raggiungimento delle competenze di base come obiettivo non minimo, ma di eccellenza; – riconoscere e certificare tutte le competenze conseguite nei vari segmenti formativi, considerando sia quelli formali sia quelli non formali e informali; – favorire la mobilità nel periodo scolastico per permettere il confronto con altri sistemi educativi e il conseguimento o il miglioramento di competenze sociali, linguistiche e interculturali; – favorire la flessibilità dei sistemi di formazione, anche connettendo e integrando quelli presenti sul territorio in un sistema di reti fra varie istituzioni scolastiche e non, associazioni, aziende ecc. in una sinergia di intenti, tra i quali primario è quello di favorire la riduzione del disagio e della conseguente dispersione scolastica; – considerare l’apprendimento come un processo permanente e come tale comprendente anche gli adulti. Ciò implica, però, favorire la nascita e la crescita della motivazione all’apprendimento a partire dall’ingresso nella scuola; – documentare e condividere le buone pratiche di insegnamento e apprendimento ai fini di un confronto utile a evitare avventure solipsistiche. ■
Silvano Tagliagambe Silvano Tagliagambe è professore di Epistemologia del progetto presso l’Università di Sassari. I suoi studi sono rivolti alle questioni filosofiche legate allo sviluppo delle nuove tecnologie, all’esplorazione del rapporto tra sensi e mente estesa. Ha partecipato a vari gruppi di lavoro per la riforma della scuola. come capacità del soggetto di vederne i limiti, le manchevolezze, le insufficienze, la necessità di approfondimento. 2) La conoscenza ha rilevanza solo e in quanto si accompagna alla capacità di uso della stessa. Se è così, allora essa deve esprimersi nella capacità di affrontare e risolvere problemi reali. Viene così posta in risalto la dimensione operativa della conoscenza, vale a dire l’esigenza di tenere nella massima considerazione il nesso tra sapere e saper fare, tra le conoscenze acquisite e la capacità di affrontare e risolvere con successo problemi concreti in cui quelle conoscenze siano in qualche modo implicate, e di tradurre quindi le nozioni e i concetti in schemi d’azione e comportamenti pratici. 3) La conoscenza non può essere pensata come l’apprendimento di regole e concetti che descrivono il mondo, al contrario essa è il risultato di un processo di costruzione collettivo, sociale. Pertanto l’unica forma di apprendimento efficace è la partecipazione a tale processo. Per quanto riguarda le misure di carattere organizzativo occorre tener presente che neppure la scuola può eludere il problema dell’ambiente, di apprendimento in questo caso, e continuare a pensare che l’introduzione delle nuove tecnologie possa essere operata senza intaccare minimamente i modelli organizzativi, il modo di strutturare, al proprio interno, gli spazi, la concezione del tempo e dell’orario, le forme di aggregazione, il tipo di servizi da erogare e di prodotti e di contenuti di cui valersi. In qualunque luogo di lavoro, infatti, quando si introduce un’innovazione rilevante, che richiede una nuova mentalità da parte degli operatori e modelli organizzativi inediti, viene appositamente creato e sperimentato un ambiente, conforme alle nuove esigenze e al nuovo stile di attività, e gli addetti vengono formati all’interno di questo ambiente, nella consapevolezza che non si può stimolare la loro familiarità con le innovazioni se si continua a farli lavorare nei contesti tradizionali e secondo il tipo di organizzazione che si vuole superare. Nella scuola, invece, pur continuando a parlare di
“buone pratiche” da introdurre e imitare, i luoghi nei quali lavorare con il supporto delle reti e utilizzando il computer come “compagno di banco” sono pensati e realizzati come “spazi esterni” alla “normale” attività didattica, separati da una linea di demarcazione molto netta rispetto agli ambienti nei quali si sviluppa quest’ultima, sia che si tratti di laboratori “ad hoc”, sia che si abbia a che fare con aule attrezzate. Ciò impedisce, o comunque rende assai più difficoltose, non solo l’effettiva costituzione di ambienti di apprendimento e di comunità di apprendimento basate sulle reti, ma anche l’osmosi tra le modalità d’insegnamento più tradizionali e l’utilizzazione delle opportunità che le Tic rendono disponibili per rafforzare l’efficacia dei processi d’apprendimento. DERRICK DE KERCKHOVE. The first suggestion would be to equip the educational facilities with free and ready access to Wi-Fi wherever possible, or failing that to provide the highest possible bandwidth under the circumstances within economic and social reason; second I would recommend to start teaching and learning to develop a website and practice the ICT formally from as early as the first years of high school. Many younger students will have already practiced the web informally, but there is a lot to be learned from a critical approach to networks. In practical matters, I would suggest putting the students in charge of the learning process, inviting them to teach each other and to form and support teams (rewarding them for good practice in evaluations and recommendations). In theoretical matters, it would be useful to constitute, on line, a consortium of Italian experts in networked media, to develop with them a curriculum and also invite individual members to present a weekly webcast on matters pertaining to that curriculum. Students should also be encouraged to practice intelligent research strategies, make best use of collaborative sites such as blogs, social bookmarking sites, etc. What the present era needs from education is to transform the system from a uniquely individualist and ultra competitive model, to a collaborative-coopetitive model. This calls for an understanding of pedagogy that recognizes the value of multiplying cognitive and social resources by each other, fostering cooperation along with competition, instead of isolating each intellectual performance, totally excluding or forgetting the social dimension. ■ Derrick De Kerckhove Derrick De Kerckhove è il direttore del McLuhan Program in Culture & Technology di Toronto. Le sue innumerevoli pubblicazioni, conferenze e progetti in tutto il mondo portano il dibattito sulle tecnologie della comunicazione oltre la prassi e verso l’esplorazione dell’universo delle intelligenze connettive. Collabora nel progetto Mille modi per un mondo: 3d per costruire conoscenza dell’Ip di Bolzano.
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(continua da pag. 9)
Valutare è attribuire un senso ad operatività complesse (L. Dozza) coinvolti in campo educativo (famiglie, insegnanti/ dirigenti e loro associazioni, studenti, sindacati, associazionismo, privato sociale organizzato, soggetti istituzionali e politici impegnati in campo formativo) e sensibile al contesto – adotta uno stile facilitante il cambiamento migliorativo, procedure interessate a cogliere linee di tendenza, a considerare i risultati come indizi del posizionamento “attuale” e “potenziale” di una scuola (e/o del sistema), come strumenti utili per assumere decisioni, per individuare “azioni” idonee ad orientare/regolare un processo migliorativo che cresca su se stesso a “spirale aperta”. Nel primo caso, la valutazione di sistema fornisce una “fotografia” dell’esistente che “orienta” il cambiamento secondo il modello interpretativo adotta-
to, rischiando di limitare processi costruttivo-creativi basati sull’autopercezione di potere essere attivi e propositivi come gruppi (interni/esterni alla scuola) e come istituzione. Nel secondo caso, si dovrebbero creare le condizioni per realizzare un’integrazione dialettica tra auto-valutazione e valutazione esterna. Se la valutazione esterna è diacronica, quindi “dinamica”, interessata a innescare processi di cambiamento migliorativo a “spirale aperta”, a partire da indicatori esplicitati, convenuti con gli attori del servizio formativo, sensibili al contesto, tende a innescare un processo circolare e “intersoggettivo” dove lo sguardo dei valutatori interni e quello dei valutatori esterni possono favorire la “messa a fuoco” sul sistema scuola e sul sistema scolastico nel suo complesso.
Noi riteniamo che la valutazione esterna non debba “dettare legge”, ma lavoreremo affinché possa integrarsi dialetticamente con l’autovalutazione. Aggiungasi che, in una realtà delimitata come il sistema scolastico di lingua italiana in Alto Adige, dove la comunicazione fra dirigenti, fra insegnanti, personale di amministrazione, classi può essere anche “faccia a faccia”, è possibile ricercare e consolidare un’apertura ragionata e ragionevole, un modo di pensare-fare-essere che riconosca nella complementarità/collaborazione tra istituzioni scolastiche e tra queste e i soggetti/servizi intenzionalmente formativi del territorio un punto di forza. Di più, la conoscenza, il confronto, la collaborazione con i sistemi scolastici degli altri gruppi linguistici – tedesco e ladino – può costituire un valore aggiunto in grado di fornire, a chi le voglia usare, “lenti” diverse con cui guardare e comprendere meglio se stessi e gli altri. ■
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Muhammad Yunus è il banchiere dei poveri: concede microprestiti per piccoli progetti: acquistare galline che facciano uova da rivendere, vimini per costruire canestri da portare al mercato. È molto critico nei confronto del rapporto di aiuto fra paesi ricchi e paesi poveri. “In realtà si tratta di un sistema in cui entrambe le parti – donatori e beneficiari – non si preoccupano di conoscere le vere esigenze dei poveri”. Sembra impossibile immaginare una vita senza momenti di sofferenza, una crescita che non incontri mai punti di resistenza, piccoli traumi, delusioni. Molti studi hanno messo in relazione la capacità di elaborare la sofferenza al linguaggio, all’argomentazione che permette di collocare il proprio dolore in un contesto storico – di storia personale e di storia sociale – trasformando una prova di limite fisico e psichico in una struttura simbolica. È difficile comprendere davvero il dolore fisico: per quanto si possa esprimere solidarietà, il dolore non viene comuni-
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Lei si occupa molto anche di bambini che vivono in situazioni difficili, ad esempio in zone di guerra. La disabilità è una dimensione particolare, che necessita di certificazioni e sostegni specifici o può rientrare in un’ottica più ampia, che affronti i problemi di un contesto spesso non a misura di bambino/adolescente?
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gionare, a riflettere e interrompere una dinamica perversa, facendo cambiare segno al processo: dalla degenerazione perversa di un sistema complesso alla degenerazione virtuosa che Edelman ci indica.
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todologici. Ce ne preoccupiamo in particolare per le conseguenze sull’integrazione: è difficile, per non dire impossibile, avere insegnanti specialisti per ogni disabilità. Sarà necessaria una certa “degenerazione”, uscire dallo specialismo per ampliare, riformulare, rivedere, flessibilizzare. Nella politica degli ultimi anni si passa rapidamente da una posizione come quella che abbiamo appena descritto alla sottolineatura del volontariato: lo specialismo tiri dritto per la sua strada lasciando al volontariato i compiti relativi alle persone che non rientrano nel suo ambito. Si aggiunge l’incremento della precarizzazione. Le conseguenze per un’educazione solidale, capace di assumere delle responsabilità nei confronti delle diversità sono a dir poco drammatiche. Può vivere una società che scompone così la rete sociale, la rete delle competenze professionali? C’è speranza. È riposta nel paradosso di un disegno tanto scombinante che difficilmente funzionerà. Potrà accadere quello che in maniera conscia e determinata avveniva nell’universo concentrazionario: l’organizzazione disfunzionale mette chi vi è dentro nella necessità di farla funzionare infrangendone le regole, portando a forme di riorganizzazione positiva. Nel frattempo chi paga i danni? Per ora sappiamo chi li subisce: soprattutto le diversità che si sentono trattate come un oggetto rifiutato dagli uni, accolto strumentalmente dagli altri. Quanto durerà la disorganicità, la frantumazione? Forse tanto perché ci chiudiamo ciascuno in un isolamento lamentoso, cercando di ricavarne quello che si può. Ma può indurci a ra-
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gistri di maestro del 1961 – alcune constatazioni relative alla necessità di usare strumenti adatti a tutti i bambini. “Se io seguissi unicamente quelli che vanno bene, non avrei questi rallentamenti. Ma sarebbe giusto?” A scuola abbiamo bisogno di più tempo. È dalle riflessioni scaturite dall’impatto con la realtà di tutti che nascono le ragioni del tempo pieno. Oggi vi è sofferenza su questa dizione ‘tempo pieno’: tra i tanti problemi anche quelli interpretativi, non essendo chiaro se “opzionale” e “facoltativo” siano termini equivalenti; non dovrebbero esserlo perché portano in direzioni diverse. Il tempo pieno nasce per avere più tempo da dedicare ad un apprendimento che riguarda tutti, che non può essere selettivo e organizzarsi in rapporto ad alcuni bambini, lasciando gli altri – come diceva Sergio Neri – ai ‘ripetitori’. Il patto non scritto di un insegnante della scuola pubblica dice che non si può lasciare un bambino o un ragazzo, una bambina o una ragazza, per strada, peggio: nel fosso. Pubblico vuol dire per tutti. Edelman, un neuroscienziato, insegna che la “degenerazione” permette alla rete neurale di variare e di collegare, attraverso elementi sinaptici, fattori che diversamente avrebbero difficoltà a stare insieme, a patto che i singoli elementi siano capaci di “degenerare” ovvero di non viversi esclusivamente per lo specifico della loro specializzazione. Nella formazione dei docenti si possono oggi creare, fin dalla scuola dell’infanzia, figure che sentono la loro competenza come qualcosa di specifico in cui si identificano; solo in un secondo tempo si metteranno in moto verso aspetti più ampi, me-
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Solidarietà nell'apprendimento per aiutare i soggetti più deboli (A. Canevaro)
cato in quanto tale ma trasmesso come elaborazione del linguaggio. È quindi motivo di sofferenza non riuscire ad esprimerlo secondo argomentazioni codificate. Se questa è la situazione per chi ha una sofferenza da malattia, da trauma, pensiamo a chi ha dei limiti, come in caso di disabilità. Il termine ‘resilienza’ appartiene al linguaggio tecnico relativo ai materiali dell’edilizia; consiste nella capacità che ha un materiale di riprendere la sua forma dopo aver subito delle deformazioni. Trasportato all’educazione ci permette di capire quanto bambine e bambini che abbiano subito delle profonde deformazioni, anche per la violenza delle situazioni in cui sono vissuti, possono riprendere la loro struttura. Come per i materiali dell’edilizia un elemento fondamentale è avere spazio: se la compressione viene continuamente esercitata è difficile mostrare capacità di resilienza. Bambine e bambini possono essere soffocati anche dalle attenzioni; quindi anche nelle condizioni normali di chi cresce nei paesi del benessere vi è la necessità di educare alla resilienza. Chi cresce è ‘bombardato’ da una gran quantità di stimoli, immagini, suoni, odori, sensazioni, messaggi, richiami, seduzioni. Educarsi alla resilienza significa considerare che la realtà dei ‘bombardamenti’ non è l’unica, capire che vi è un ritmo che attraversa tutta la vita, tutte le dimensioni della vita, nel nostro corpo e nel mondo esterno: il ritmo delle stagioni, il ritmo del giorno e della notte. Nell’entrare in relazione con situazioni diverse possiamo educarci ad un’appartenenza più ampia, in cui lo spazio per ripristinare la forma e vincere le deformazioni, gli schiacciamenti è dato dal collegare il nostro modo di essere ad altri, in un’assunzione di responsabilità insieme. ■
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(continua da pag. 10)
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LA SCUOLA DI DOMANI
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AUTONOMIA E FLESSIBILITÀ
Una nuova sfida per la professionalità dei docenti Intervista a Giancarlo Cerini sulle opportunità che può offrire l’autonomia scolastica
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a cura di Giuseppe Perna
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on la pubblicazione sulla G.U. n. 186 del 10.08.1999 del DPR 275, è stato emanato il Regolamento sull’Autonomia organizzativa e didattica delle istituzioni scolastiche, entrato in vigore dal 1 settembre 2000, terminando così un lungo iter, avviato nel 1997, quando il parlamento licenziò la legge 59 del 15 marzo, che conteneva uno specifico dispositivo (l’art. 21) relativo all’autonomia scolastica. Quell’unico articolo si configurava come una vera e propria delega al Governo per l’emanazione di numerose norme secondarie, che ha dato luogo a provvedimenti di grande rilievo, tra i quali ricordiamo il D. L.vo n. 59 del 06.03.1998 (sull’attribuzione della qualifica dirigenziale ai Capi di istituto) e il DPR n. 233 del 18.06.1998 (contenente i criteri per il dimensionamento degli istituti scolastici e la definizione degli organici del personale). Si tratta di due atti propedeutici all’avvio della piena autonomia dall’anno scolastico 2000/2001, sanzionata dal conferimento della personalità giuridica agli istituti scolastici. Con il Regolamento si definiscono le condizioni di esercizio effettivo dell’autonomia, con specifico riferimento agli spazi decisionali in materia di curricolo
(Piano dell’Offerta Formativa) di scelte organizzative (con ampi margini di flessibilità nell’articolazione di tempi, spazi e gruppi) e di gestione del personale (anche se minore è la potestà di intervento in questo campo). In Alto Adige la legge nazionale sull’Autonomia scolastica è stata accolta con la legge provinciale n. 12 del 29.06.2000. Nel recepire le disposizioni contenute nel DPR 275/99, la legge provinciale anticipa alcuni concetti che in seguito saranno sviluppati nelle indicazioni nazionali per la predisposizione dei piani personalizzati delle attività educative nella scuola dell’infanzia, nella scuola primaria e secondaria di primo grado, allegate al D. L.vo 19 febbraio 2004, n. 59, relativi al portfolio delle competenze e alla certificazione delle conoscenze, capacità ed abilità acquisite dall’alunno nel sistema educativo formale, non formale ed informale. Su queste problematiche abbiamo interpellato Giancarlo Cerini, dirigente dell’Ufficio scolastico regionale dell’Emilia Romagna, da anni impegnato nel dibattito sui temi dell’autonomia e dei nuovi curricoli.
L’autonomia delle istituzioni scolastiche e formative è realmente un fattore indispensabile per un rinnovamento reale del sistema in cui i poteri dello Stato, delle Regioni, degli enti locali e delle stesse istituzioni scolastiche siano in un bilanciato equilibrio?
Questa ricerca compete anche alle scuole autonome, anzi ne rappresenta una delle ragioni di fondo. L’autonomia, infatti, non è l’assunzione di uno spirito “aziendale” per raggiungere l’efficienza delle procedure (spesso i bollini qualità si sono limitati a questo), ma è innanzitutto un processo di natura culturale e professionale, che riguarda la possibilità di svolgere un
L’autonomia della scuola nasce e si sviluppa quasi in contemporanea con il cambiamento della forma statuale della Repubblica italiana. È vero, avevamo cinque Regioni (e due Province) con poteri legislativi “speciali”, come appunto il caso di Bolzano, ma oggi è tutto il sistema dei poteri pubblici ad essere in movimento. Con la legge 59/1997 è nata l’autonomia scolastica, ma poi sono arrivati i decreti legislativi 112/98 e 233/98, il nuovo Titolo V della Costituzione (legge cost. 3/2001) ed ora (novembre 2005) il testo di una nuova Costituzione, con la c.d. devolution. Le “periferie” sembrano prendersi la rivincita sul “centro”, anche in materia di istruzione. C’è di che preoccuparsi per l’unitarietà del sistema scolastico nazionale. Ma il riconoscimento “costituzionale” dell’autonomia della scuola può rappresentare una garanzia di stabilità e di solidità del “sistema-scuola”: le sue prerogative in materia culturale, didattica, organizzativa non potranno essere compresse dai poteri “locali”; lo stesso Stato dovrà limitare i suoi interventi alle “norme generali”, ai “livelli essenziali delle prestazioni”, ai principi generali. Ci aspetta un dimagrimento “legislativo” dal centro, che non dovrà però essere sostituito dalla “bulimia” delle assemblee legislative locali. La scuola non può essere regolamentata troppo nei dettagli, ne soffrirebbero l’incipiente autonomia e la
sua stessa capacità di iniziativa. La scuola cambia (si spera, in meglio) non perché ci sono leggi che impongono le riforme, ma perché si creano condizioni favorevoli al cambiamento (motivazioni, partecipazione, formazione, soddisfazione personale, incentivi). L’autonomia è, dunque, un contesto organizzativo e professionale per “incubare” le innovazioni. Con la scuola dell’autonomia sono sembrate venire meno molte delle certezze in fatto di programmi, orari, metodi…, con le quali abbiamo operato finora. In che modo l’autonomia organizzativa e didattica, ma anche di ricerca e di sviluppo riesce a modernizzare la cultura scolastica? L’autonomia in questi anni è stata vissuta prevalentemente come un evento “istituzionale”, un fatto di carattere giuridico e normativo, sollecitato e voluto soprattutto dal mondo esterno (il mercato, il territorio, le istituzioni) per mettere la scuola al passo con i tempi, modernizzarla. Insomma, quasi due parti in commedia: da un lato una società in rapida trasformazione (veloce e rock), dall’altro la scuola con i suoi tempi lunghi (quasi sull’orlo dell’obsolescenza). Questa rappresentazione è ingannevole perché non tiene conto che la scuola richiede tempi lunghi e disinteressati, il suo compito è quello di formare identità, memoria, saperi persistenti. Non potrà inseguire tutti i saperi della contemporaneità, ma dovrà scegliere l’essenziale, la sobrietà, la profondità piuttosto che l’estensione. Pecchiamo troppo di enciclopedismo nei nostri curricoli scolastici, ma la ricerca del “nucleo essenziale dei saperi” è finora sfuggita a tutti i legislatori.
Giancarlo Cerini Attualmente dirigente dell’Ufficio Scolastico regionale per l’Emilia Romagna, Cerini si è occupato di problemi di didattica, formazione dei docenti, curricoli della scuola primaria. insegnamento “ben fatto” e quindi socialmente apprezzato. Deve prevalere nei docenti una dimensione etica, ovvero la capacità di assumersi responsabilità in prima persona nel delineare i criteri “qualitativi” del proprio lavoro. Ecco perché, prima ancora di pensare a modifiche nell’organizzazione didattica (dei tempi, degli spazi, dei gruppiclasse) è indispensabile porsi domande approfondite sul significato e sulle motivazioni pedagogiche che stanno alla base delle scelte organizzative. Cos’è l’apprendimento? Come si facilita? Come si interviene in caso di difficoltà? L’autonomia è dunque, prima di tutto, riscoperta di un’autonomia di ricerca e di sviluppo, cioè la riconquista di uno spazio aperto per una riflessione approfondita sulle caratteristiche dell’evento insegnamento-apprendimento.
È la stessa professionalità dei docenti ad essere rimessa in discussione, perchè: – al centro stanno i processi di insegnamento-apprendimento (non la mera erogazione di lezioni); – dall’aspetto trasmissivo si passa ad una funzione di mediazione culturale; – emergono nuove responsabilità organizzative, funzioni di tutorato, compiti di coordinamento; – l’insegnamento diventa un’azione complessa, ove si incrociano autonomia dei singoli, cooperazione, nuovi linguaggi, multimedialità, sicurezza ed efficacia dei metodi (che vengono consolidati, validati, documentati). Tutto questo, in senso lato, potrebbe essere definito “modernizzazione della cultura scolastica”, che non significa riduttivamente utilizzo di nuove tecnologie, ma costruzione di “ambienti integrati di apprendimento” presidiati da professionisti preparati e motivati. In qualche misura, questo tipo di scuola richiede anche l’emergere di una leadership “distribuita”, cioè il riconoscimento di un gruppo trainante in ogni istituto (che faccia staff con il dirigente scolastico) che sappia però far crescere la partecipazione e la professionalità di tutti (il senso di appartenenza alla scuola autonoma ed il benessere dell’organizzazione). Sono riuscite le scuole a trarre completo profitto dalle opportunità offerte dall’Autonomia scolastica? In altri termini, è stata capace la nostra scuola di acquisire i caratteri di agibilità e flessibilità, che le sono richiesti? Con l’autonomia ogni scuola si muove come un equilibrista su un filo teso (tra lo Stato e la Provincia, mi verrebbe da aggiungere). L’importante sarebbe disporre, “sotto”, di una buona rete
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porta, quindi, una riflessione sulla realtà attuale per valorizzare le esperienze positive e cogliere nuove opportunità di innovazione del sistema. Nel 2004 con legge provinciale ci siamo tutelati dall’applicazione automatica e meccanica della riforma nazionale. Per la scuola in lingua tedesca alcuni aspetti della riforma sono stati uno stimolo positivo per promuovere opzionalità e piani dell’offerta formativa più articolati, la legge provinciale sull’autonomia delle istituzioni scolastiche offriva già tutti gli strumenti innovativi possibili, ma evidentemente gli stimoli ministeriali sono stati più efficaci. È arrivato il momento di affrontare la riforma e il percorso di dibattito, questo numero straordinario di
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famiglia, ma bisogna promuovere la progettualità del territorio, perché non diventino attività “solo” di prolungamento dell’orario scolastico. Se bimbi e bimbe, ragazzi e ragazze italiani e tedeschi più tutti “i parlanti le nuove lingue” giocheranno insieme e si frequenteranno si potrà puntare maggiormente l’attenzione a scuola su altri aspetti che sono passati in secondo piano in questi anni, perché la passione per lingue e il capirsi si giocherà su altri livelli. Vogliamo immaginare una riforma che risponda alle esigenze di tutti, che tenga conto delle differenze, ma che non escluda nessuno, che riesca a mettere in gioco un progetto comune per questa terra, che permetta di trovarsi a proprio agio a scuola da qualunque storia personale e familiare si provenga, che offra gli strumenti a ognuna e ognuno per realizzare un progetto di sé nella vita. Buon lavoro! ■
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dei ragazzi e delle ragazze di lingua italiana arrivi alla maturità. Questa è un’altra differenza tra i gruppi linguistici che dimostra il grande interesse che esiste nella formazione professionale tedesca per ottenere la possibilità del conseguimento della maturità professionale, pensando che questo sia il salto di qualità offerto dalla riforma Moratti in contrasto con l’interpretazione che viene data da tutti in Italia di grande “liceizzazione” della scuola e di doppio canale con scelta precoce. Un altro documento utile dell’ASTAT è il “Barometro linguistico dell’Alto Adige” (N. 123) perché ci deve far riflettere su come affrontare in modo progettuale la conoscenza delle due lingue che non può essere solo delegata alla scuola. Un’iniziativa per permettere che le attività extrascolastiche siano trasversali ai gruppi sia per partecipazione che per personale educativo è il pacchetto-
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1. La scuola altoatesina di lingua italiana ha deciso di promuovere l’edu-
Senza entrare nel merito specifico delle scelte effettuate a Bolzano, ritengo importante che la scuola sappia utilizzare tutti gli spazi (normativi, culturali, organizzativi) per migliorare la qualità di ciò che offre. La padronanza di più lingue è tradizionalmente un punto di debolezza per i nostri concittadini, un rischio di “marginalità” rispetto ai processi di mondializzazione e di apertura all’Europa. In questa prospettiva, le regioni di confine, quelle plurilingue in particolare, possono rappresentare uno spazio di ricerca utile per il resto del Paese. In fondo è la stessa Comunità Europea a proporre l’obiettivo della padronanza di almeno due lingue europee, oltre a quella “materna”. Il problema è semmai quello di distribuire bene l’insegnamento di più lingue lungo l’intero curricolo “verticale” per evitare sovraccarico, sovraesposizione, ripetitività; di sperimentare nuove metodologie, come ad esempio l’apprendimento di contenuti disciplinari in lingua (CLIL e approcci veicolari); di collegare meglio l’apprendimento scolastico con opportunità di effettiva comunicazione, mediante l’utilizzo frequente delle lingue nel “fuori-scuola”; di far percepire la padronanza di più lingue come una opportunità maggiore di scambio, incontro, cittadinanza attiva. Insomma, abbiamo bisogno di una glottodidattica più “efficace”, ed il laboratorio “Bolzano” può essere di stimolo a tutta la scuola italiana. ■
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“Informa” ne potrà supportare la discussione. Mi permetto di suggerire anche la lettura di ASTAT (n. 118) “Previsione sull’andamento scolastico in provincia di Bolzano 1995-2015” e “14° Censimento generale della popolazione, Tomo 3, Istruzione 2001” che ci offrono un quadro sui livelli di scolarità. È significativo osservare che nel 1991 i laureati in provincia erano 13738 (5115 donne, 8623 uomini) e nel 2001 sono praticamente raddoppiati 27625 (in particolare le donne sono 13616 e gli uomini 14009), pur rimanendo ancora la percentuale di laureati più bassa rispetto ad altre regioni è però importante tener conto di come si stiano modificando le vocazioni dei giovani, ed in particolare delle giovani. Nel 1990 il 35% dei ragazzi e delle ragazze di lingua tedesca si iscrivevano alla formazione professionale, attualmente è il 20%, mentre rimane costante che l’87%
La flessibilità è indispensabile per favorire la personalizzazione dei percorsi di apprendimento, per far fronte a domande sempre più individualizzate, per avviare l’integrazione tra le diverse occasioni di formazione. La normativa tende ormai a distinguere la quota obbligatoria comune del curricolo scolastico dalle discipline/attività opzionali (da scegliersi all’interno dell’orario obbligatorio) e da quelle facoltative (che potranno essere offerte dalle scuole in orario aggiuntivo), anche se spesso questa distinzione non è sempre così chiara. Penso alla legge nazionale di riforma 53/2003 che unifica impropriamente opzionale e facoltativo ed introduce una quota locale, affidata alla potestà di regioni/province autonome, piuttosto che alla scuola. Va comunque precisato che la flessibilità (in senso lato, potremmo dire la “personalizzazione dei percorsi formativi) non può incentrarsi unicamente sulla quota locale del curricolo, tanto meno su quell’area facoltativa (aggiuntiva) che può
cazione plurilingue (insegnamento veicolare della L2 e L3) utilizzando il famoso 15 % a disposizione delle scuole. Lei cosa pensa di questa e di altre simili scelte?
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(continua da pag. 3: “Va colta come opportunità positiva la possibilità di una riforma...”)
A proposito di flessibilità, può dirci qualcosa di più su questa caratteristica richiamata a gran voce dagli estensori della Legge 59/97?
ampliare ed integrare il curricolo obbligatorio con nuove attività, corsi, laboratori, ecc. Con la flessibilità si deve poter intervenire sulla quota “vincolata” del curricolo (quella imperniata sulle discipline fondamentali). L’attuale normativa offre già la possibilità di: – variare la quantità dei tempi destinati alle discipline fondamentali, nell’ambito di una fascia di oscillazione e compensazione (provvisoriamente fissata al 15 %); – modulare diversamente i tempi delle discipline durante l’anno scolastico (orario plurisettimanale, periodi intensivi, ecc.); – articolare le unità di insegnamento in tempi diversi dalle canoniche ore di sessanta minuti; – scomporre il curriculum annuale di una disciplina in sequenze delimitate, ma significative (moduli, unità di apprendimento, sequenze didattiche), adatte alle caratteristiche, ai bisogni ed ai livelli conoscitivi degli allievi, favorendo così un effettivo processo di individualizzazione e di sostegno alla motivazione; – superare il riferimento alla classe, intesa come unica modalità di aggregazione degli allievi, in favore di soluzioni più articolate e mobili (piccoli gruppi, gruppi di interesse, laboratori, classi aperte). Le discipline “forti” e caratterizzanti il curricolo potranno così essere oggetto di una riorganizzazione non superficiale del loro impianto didattico, per migliorare i livelli di apprendimento.
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L’autonomia, in questa ottica, è la capacità di costruire una buona ambientazione didattica per favorire l’incontro degli allievi con la conoscenza ed i saperi, che rappresentano i materiali culturali necessari per promuovere processi cognitivi, abilità, linguaggi. Ecco perché serve innanzi tutto l’autonomia di ricerca, attorno alle discipline, ai curricoli, alle didattiche.
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di sicurezza. Infatti, è necessario che il legislatore (ai diversi livelli) definisca gli obietti di apprendimento, gli standard di funzionamento, le discipline fondamentali, gli orari obbligatori di ogni ciclo scolastico e soprattutto quel “nucleo essenziale” di conoscenze che rappresenta i livelli essenziali delle prestazioni in materia di diritti civili e sociali che devono essere assicurati su base nazionale. A maggior ragione quando i “piani di studio personalizzati” sembrano prendere il posto del “curricolo”. Sono i nostri cugini francesi a ricordarci che il massimo dell’autonomia richiede la preventiva definizione di uno “zoccolo comune” di conoscenze, competenze e regole di comportamento da assicurare a tutti i cittadini: una base di equità, su cui innestare la ricerca delle eccellenze (Documento Thelot, 2005). In questo scenario, nei prossimi anni, si potrà consolidare l’autonomia solo se non sarà interpretata come moltiplicazione di progetti di carattere integrativo o facoltativo. Nella fase “pionieristica” ha spesso prevalso l’idea che si potesse realizzare l’autonomia aggiungendo alcune attività al curricolo (ampliamento ed arricchimento dell’offerta formativa), magari organizzando percorsi innovativi, ma del tutto facoltativi. Autonomia organizzativa e didattica non significa necessariamente incrementare l’offerta di tipo aggiuntivo, ma piuttosto reinterrogarsi sul “core” curriculum, sui compiti formativi della scuola, sulle competenze da raggiungere, sugli obiettivi formativi che si intendono realizzare attraverso le discipline scolastiche.
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SCUOLA E TERRITORIO
L’esperienza educativa non è solo a scuola ma nell’intera società Il rapporto tra i diversi sottoinsiemi formativi in un’intervista rilasciata da Giorgio Bocca
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a cura di Francesca Califano
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l sistema formativo, è cosa nota, ha raggiunto una struttura complessa e una crescita nel numero e nella tipologia degli agenti formativi che spesso non è determinata o orientata secondo un preciso orizzonte di sistema. Tra i sistemi che lo costituiscono si è soliti individuare quello formale, non formale, informale. Con ambito formale si intende il sistema scolastico e della formazione professionale. Il sottosistema formativo non formale corrisponde alle agenzie formative extrascolastiche caratterizzate da una ben riconoscibile intenzionalità formativa. Il sottosistema formativo informale è invece determinato dalle agenzie sociali che producono formazione in contesti diversificati come l’ambito del-
la comunicazione mass-mediatica e in contesti sociali di carattere informale (come il cosiddetto “gruppo dei pari”, i luoghi di ritrovo spontaneamente scelti). Quanto mai attuale è l’esigenza di un’integrazione tra sistemi, che interessano dunque il mondo propriamente scolastico e quello che possiamo indicare in linea generale come territorio, quale fattore di espressione e crescita di una società complessa. A Giorgio Bocca sono state rivolte alcune domande relative al rapporto scuolaterritorio, facendo riferimento a un’ottica generale e, al tempo stesso, al contesto locale che il professor Bocca conosce attraverso il suo impegno diretto.
La mission della scuola è considerata generalmente quella di aiutare e sostenere il processo di crescita delle nuove generazioni, organizzando una serie articolata di stimoli orientati a creare occasioni di apprendimento. Quali elementi vede come prioritari qui in Alto-Adige per una definizione del campo di azione della scuola? Come definirebbe il ruolo del territorio considerato in una prospettiva di azione sinergica con la scuola?
pevoli dell’appartenenza a una comunità. Quali sono gli ambiti specifici in cui la relazione scuola-territorio può dare un contributo significativo nella direzione della formazione alla cittadinanza responsabile?
Mi sembra che dapprima si debba avere il coraggio di rimettere in discussione una certa immagine della scuola che ci deriva dalla società industriale e non sembra più in linea con l’ipotesi della società cognitiva. La realtà della lifelong e della lifewide learning ci porta a pensare all’educazione come processo che si prolunga lungo tutto il percorso di vita del soggetto e procede attraverso molteplici modalità (formali, non formali e soprattutto di apprendimento informale, all’interno delle esperienze quotidiane). Se ciò è vero, non dovrebbe più sussistere una suddivisione concettuale rigida fra scuola e territorio, bensì dovrebbe procedere una lettura dell’intera società come luogo al cui interno il soggetto partecipa o realizza in proprio esperienze educative. Ciò non sminuisce affatto il ruolo della scuola che, da trasmettitore di sapere già consolidato, diviene ambito di educazione della persona e di sua abilitazione alla produzione di sapere attraverso il corretto esercizio del metodo sperimentale (quale forma di educazione della ragione). In tal senso, l’Alto Adige si presenta come un territorio privilegiato al cui interno i tre gruppi etnico-linguistici possono e debbono operare sinergicamente al fine di realizzare modalità di interazione con il territorio che permettano alla popolazione di divenire sempre più soggetto attivo della propria crescita personale e culturale. Quindi, non tanto l’attivazione di tre modelli scolastici, quanto lo studio
di un modello minimo comune denominatore che sia in grado di rideclinarsi assumendo i caratteri propri derivanti dai bisogni educativi specifici di ogni gruppo etnico. Molti sono gli approcci pedagogici che fanno della progettualità autobiografica l’orizzonte al quale guardare e la cornice in cui collocare esperienze e scelte nell’ambito del percorso formativo individuale. Come scuola e territorio possono interagire per dare al soggetto piena possibilità di realizzazione delle proprie potenzialità?
A monte della cittadinanza responsabile dovrebbe porsi l’esigenza che i nostri giovani non debbano poter giungere alla maturità senza essere stati portati a sviluppare un proprio progetto di vita. Ciò in quanto la rapidità del mutamento non permette più di ancorarli unicamente alla società in quanto tale, bensì richiede loro di ra-
Giorgio Bocca Questa intervista a Giorgio Bocca, scomparso nel mese di gennaio, viene ad assumere una grande forza, ora che è affidata alla pagina scritta. La forza che nasce dal valore prezioso di parole definitive, in questo caso strettamente legate a un impegno pienamente coerente rispetto a queste, che vanno conservate non solo perchè significative ma anche perchè si è perso il privilegio di poterne avere delle altre. Nell’intervista crediamo di poter ritrovare anche la testimonianza di un uomo che, con l’umiltà e la disponibilità al dialogo che sono dono di chi unisce in sè intelligenza e sensibilità, ha dato prova di vivere fino in fondo il ruolo di intellettuale e insegnante. Giorgio Bocca è stato professore straordinario di Pedagogia generale presso la Facoltà di Scienze della formazione della Libera Università di Bolzano. L’aspetto autobiografico viene ad assumere, in una prospettiva di lifelong learning nella società cognitiva, un ruolo centrale in quanto porta il soggetto a fermarsi per ‘rileggersi’ attraverso le proprie esperienze, cercando di cogliervi gli elementi utili ad una ridefinizione di sé e del proprio percorso di vita. Esso dovrebbe divenire uno strumento fondamentale di qualsiasi pratica formativa rivolta sia a soggetti in età evolutiva che adulti.
dicarsi sulle tradizioni della cultura locale rileggendole però dal punto di vista della prospettiva del proprio sé futuro. Ciò apre il discorso ai temi della formazione etica e della educazione della volontà anche in una scuola che per iper esaltazione del cognitivismo se ne è un po’ troppo dimenticata.
La formazione di studentesse e studenti va considerata in un’ottica di cittadinanza responsabile, che li veda non solo attori responsabili dell’agire individuale ma anche consa-
La società della conoscenza è già in atto, non si tratta di realizzarla bensì di mettere in condizioni la popolazione di potervi operare al meglio, esprimendovi la propria soggettività perso-
E quale apporto possono dare scuola e territorio in funzione di una società della conoscenza?
nale. È quindi essenziale preservare e trasmettere in termini critici e progettuali la cultura locale quale fondamento sul quale ciascuno poi verrà stimolato a progettare sé; al contempo, non appare procrastinabile una formazione che miri a sviluppare appieno li pensiero logico formale astratto tipico dell’adulto e fondamento della società cognitiva. Il territorio deve venire condotto a leggersi quale risorsa essenziale all’interno di tale processo, assumendosi le proprie responsabilità sia in termini etici che culturali (in quanto società che produce sapere su di sé). Vi è qui, ad esempio, l’auspicio di una piena valorizzazione delle fondamentali risorse messe in campo da Internet al fine di ridurre le distanze fra le comunità, permettere il dialogo, realizzare gruppi virtuali di apprendimento e di produzione culturale, il tutto ovviamente da gestire in collaborazione fra sistema formativo e società locale. Grazie a quali risorse potrebbe svilupparsi meglio, secondo Lei, l’integrazione tra scuola e territorio? Che il web sia una risorsa fin ad ora poco e male esplorata anche sul territorio alto atesino mi sembra una considerazione ovvia. Si tratta di collegare fra di loro le differenti comunità favorendo il dialogo e la socializzazione; veicolando contenuti e processi formativi (ad es. si pensi a percorsi di Laurea in modalità blended: parte in presenza e parte via web; ad analoghi percorsi di formazione professionale e di istruzione tecnica per adulti lavoratori….). Fra l’altro, il ricorso a chat, forum e strumenti analoghi modifica radicalmente le modalità comunicative fra le persone e favorisce il bisogno di successivi incontri de visu. Da qui potrebbero partire esperienza anche più evolute in cui stimolare la realizzazione di blog e gruppi virtuali di apprendimento… onde favorire l’emergere di tutte la potenzialità insite nella popolazione (penso ad esempio all’espe-
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La competenza comunicativa al centro del curricolo
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LINGUAGGI ARTISTICO-ESPRESSIVI
L’Autonomia scolastica ha prodotto miglioramenti e sviluppo nel rapporto con le opportunità del territorio? Sono sorte in generale problematiche nei rapporti con quegli enti e associazioni culturali o sportive che, a volte, entrano di prepotenza nella scuola? In tale direzione va anche l’autonomia, laddove permette alle singole scuole ed alle Regioni la strutturazione di interventi di ricerca e sviluppo al fine non solo di inserire nuove materie di stu-
Mario Piatti È docente di Pedagogia musicale al Conservatorio di musica di La Spezia e alla Scuola di Animazione musicale di Lecco. Dirige la rivista on line www.musicheria.net.
dio, bensì di attuare modelli scolastico formativi adeguati alle esigenze locali. Penso qui ad una progressiva presa di distanza della ‘scuola’ dalle tappe dell’età evolutiva, per riagganciarsi invece alle esigenze della popolazione. Potremmo pensare ad una scuola ‘primaria’ finalizzata alla alfabetizzazione (anche ai nuovi linguaggi), alla socializzazione secondaria, alla trasmissione dei minimi culturali necessari per saper ‘stare’ all’interno della società alto atesina. E potremmo pensare a una secondaria, di cui parte integrante è la formazione professionale, meglio mirata allo sviluppo delle vocazioni professionali, all’inserimento diretto nella vita attiva anche attraverso la progressiva educazione alla responsabilità civico sociale e politica, allo sviluppo del pensiero logico formale astratto. E di conseguenza a un ‘terzo’ livello (quello che oggi chiamiamo impropriamente ‘universitario’) finalizzato a formare le professionalità elevate, i quadri dirigenti, aprendo alla ri-
Come affrontare il rapporto di partenariato con l’esperto esterno che entra nella scuola nel modo migliore? E come gestire l’accreditamento
Il tema dell’accreditamento è una spina nel fianco dei sistemi formativi. Il sistema formativo altoatesino dovrebbe stabilire i propri criteri di qualità e su di essi proporre l’accreditamento a tutti i soggetti che intendano collaborarvi. Nella stessa direzione va il discorso dell’impiego di esperti esterni. A mio avviso, prioritaria dovrebbe essere l’attenzione a creare all’interno della società e della cultura altoatesina un assieme di risorse esperte cui attingere, resistendo alla tentazione di attingere sempre ad esperti esterni, molto bravi ma forse poco attenti alle specificità locali. Anche in questo ambito dovrebbe instaurarsi un circolo virtuoso fra sistema formativo ed Università al fine di preparare anche giovani da avviare a tali forme di collaborazione sul territorio. ■
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di enti, e associazioni: da chi dovrebbe essere promosso, con quali criteri? Come sapere e poter filtrare le svariate proposte e le opportunità che il territorio altoatesino offre?
rienza della Scuola3d avviata dall’Istituto pedagogico che ha scatenato modalità espressive non più unicamente cognitive e verbali, quanto grafiche, musicali ecc., come espressione di sé e delle proprie esperienze da parte degli studenti, dei genitori, dei docenti). Su questo ambito è necessaria una collaborazione diretta fra scuole, università e territorio al fine di fare ricerca, strutturare modelli operativi, monitorare i processi e valutarli.
Che ruolo ricoprono e quale dovrebbero ricoprire nel curricolo scolastico? Quali le motivazioni? I linguaggi espressivo-artistici coniugano in modo integrato il “fare” con il
Il primo desiderio sarebbe quello di vedere riformulato in modo sostanziale il curricolo formativo dei futuri insegnanti delle scuole dell’infanzia ed elementare, attualmente privi di qualsiasi seria formazione in campo musicale. Senza questa scelta, avremo sempre maestri incapaci di fare una corretta e completa formazione musicale di bambini e ragazzi, primo fondamentale passo per qualsiasi formazione successiva. Il secondo desiderio è che ogni scuola venga attrezzata con spazi e attrezzature adeguate per cantare, suonare, ascoltare, danzare. Qualche soldo in meno per armamenti, grandi opere e cose simili, e qualche finanziamento in più per la scuola pubblica, sarebbero un ottimo investimento per un futuro più democratico, pacifico e di benessere per tutti. ■
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cerca scientifica ed alla capacità di applicarne gli esiti alla vita civile. Ciascuno di questi ambiti può contare su team di specialisti (gli attuali docenti) in grado di leggere i bisogni e progettare esiti formativi adeguati (ad esempio per gli extracomunitari o per coloro che necessitano di alfabetizzazione informatica ecc. per il primario) oltre a mantenere l’attenzione alla realizzazione di percorsi ‘dedicati’ ai soggetti in età evolutiva. Credo sia importante sottolineare che dovranno presentarsi come percorsi non univoci, bensì definiti sulle caratteristiche di motivazione e di modalità di apprendimento del pubblico infantile, adolescente, giovanile presente: dobbiamo tenere presente la progressiva disaffezione dei giovani verso la scuola (o verso questo tipo di scuola ?).
Nominalmente nelle indicazioni nazionali per i piani di studio possiamo dire che tali linguaggi sono presenti, anche se con denominazioni e formulazioni che tutto sommato rispecchiano quanto contenuto nei precedenti programmi e orientamenti. Di fatto c’è il grosso rischio che le attività funzionali all’acquisizione e alla pratica di tali linguaggi vengano relegate nei cosiddetti ‘laboratori’ facoltativi, e quindi considerati nell’immaginario collettivo di docenti, genitori e studenti come cose di secondaria importanza. Forse si sarebbe dovuto aver maggior coraggio nell’articolazione del quadro orario e organizzativo, e prevedere maggiori spazi e tempi per “fare” teatro, musica, pittura, scultura, cinema, televisione, poesia, danza, uscendo da schematismi (mentali e operativi) legati alle vecchie
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Se potesse esprimere, in riferimento alla Musica, un desiderio rispetto al contesto scolastico italiano ed internazionale, quale ipotizzerebbe?
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“pensare”, e quindi sviluppano in modo ottimale la competenza comunicativa, intesa quest’ultima come la capacità di saper usare le proprie conoscenze e le proprie abilità tecniche in funzione alle esigenze del contesto socioculturale. Da qui si deduce l’importanza fondamentale che tali linguaggi dovrebbero ricoprire nel curricolo, proprio perché pongono i ragazzi di fronte alla necessità di saper relazionarsi con il proprio contesto di vita in modo creativo, e non semplicemente come fruitori passivi di modelli socioculturali imposti. Del resto, le interessanti esperienze condotte ad es. nell’ambito dei Laboratori Musicali attivati in molte scuole, stanno proprio a dimostrare che, quando le cose vengono organizzate nel modo giusto, i risultati ci sono, e smentiscono gli eterni pessimisti che continuano a dire che in Italia non si fa nulla. La scuola italiana farebbe passi da gigante se si rendesse possibile (con adeguate iniziative e con correlati adeguati finanziamenti) una maggiore sinergia tra insegnanti e artisti.
denominazioni disciplinari. La scuola della riforma Moratti è ancora una scuola dove si privilegia e dove predomina lo “studiare discipline” invece del “vivere esperienze”, dove il modello dominante è quello dell’efficienza aziendale, invece che dell’efficacia e della forza, innovativa e rivoluzionaria, dell’arte e dell’estetica.
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I linguaggi espressivo-artistici, considerati diffusamente come veicoli pedagogicamente validi ed efficaci nella scuola, quali prospettive hanno effettivamente nella scuola della Riforma?
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contenuti, ma anche come metodi, metodologia e forma di insegnamento/ apprendimento individualizzato, integrato, efficace, creativo, affettivo. Gli studi recenti avvalorano l’importanza dell’aspetto psico-corporeo, espressivo, emotivo, artistico, del pensiero divergente, dello sviluppo della parte destra del cervello e non solo sinistra, nell’avventura della conoscenza e dell’apprendimento. Sentiamo al riguardo il parere di quattro illustri esperti d’arte varia e di scuola, impegnati significativamente sul territorio nazionale e conoscitori della nostra realtà locale. Le loro autorevoli opinioni vanno proprio in questa direzione.
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linguaggi espressivi artistici, pur riscuotendo nella scuola, ma anche da parte di autorità scolastiche nonché autorevoli pedagogisti, approvazione, successo, incitamento, vengono dalla Riforma Moratti sempre più relegati ad attività opzionali extracurricolari; le educazioni artistica, musicale, motoria, all’immagine e con l’immagine, il teatro, la danza educativa ecc., rischiano sempre più di assumere un ruolo secondario rispetto a discipline considerate maggiori, se non addirittura di scomparire (anche nella terminologia!); vivono però nella loro accezione migliore un momento di grande rilievo non solo nei loro
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a cura di Barbara Ritter
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Il teatro per l’espressione della creatività individuale e di gruppo
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LINGUAGGI ARTISTICO-ESPRESSIVI
l linguaggio teatrale, che ruolo ricopre e quale potrebbe, a suo parere, ricoprire nel curricolo scolastico attuale? Quali le motivazioni?
Se si guarda alle prescrizioni ministeriali, attualmente il linguaggio teatrale ha un ruolo molto modesto. È vistosa, ad esempio, l’assenza dello stesso termine “teatro” nelle “Indicazioni nazionali per i Piani personalizzati delle Attività Educative”: si usano piuttosto i termini recita, memorizzazione, transcodifica: un lessico vecchio, che non tiene conto delle nuove accezioni della pratica teatrale in situazione pedagogica, nella peculiarità dei suoi obiettivi e delle sue forme. E confinare la pratica teatrale negli spazi pomeridiani come attività opzionale (quindi riservata a pochi) e quindi probabilmente affidata a operatori esterni renderà i docenti curriculari completamente estranei alle dinamiche di un’attività che dovrebbe invece inserirsi in un percorso educativo globale. Insomma, in una scuola votata all’efficientismo e all’utilitarismo, come quella delineata dalla Riforma Moratti, pare che non possano trovar posto i tempi e i valori di un’attività “inutile” e quindi “necessaria” come il teatro. Se si guarda invece alla prassi scolastica nella sua realtà, ci si trova davanti a un quadro ben diverso: una diffusione capillare di attività teatrali nelle scuole di ogni ordine e grado. E questo sia sul piano nazionale che a livello europeo. Evidentemente ci troviamo oggi in una fase di vertiginoso cambiamento, quasi di mutazione antropologica: l’uso prolungato e massiccio dei nuovi mezzi di comunicazione elettronica che modificano radicalmente le nostre modalità percettive, il rapporto realtà-finzione, le forme stesse della relazione interpersonale, sembrano suscitare nelle giovani generazioni un diffuso desiderio/bisogno di esperienze di tipo creativo, di espressività corporea, di cultura della relazione. La scuola accoglie queste esigenze e cerca di offrire delle risposte, perché vede nel teatro un mezzo per il benessere psichico dei bambini e dei ragazzi, in quanto mette in relazione sistemi generalmente separati: immaginario/realtà, corpo/mente, individuo/ gruppo, inconscio/razionalità. Il teatro appare come uno dei principali mezzi per l’espressione della creatività individuale e di gruppo, una risposa, appunto, al desiderio da parte dei bambini/ragazzi di prendere la pa-
rola, ponendosi come emittenti attivi nei processi di comunicazione. Ed è perfino sorprendente che emerga una tensione così significativa nei confronti del teatro (nel suo duplice aspetto, di fruizione di spettacoli per il pubblico giovane e di pratica personale dei linguaggi teatrali) in un contesto come quello contemporaneo, caratterizzato da mancanza di prescrizioni istituzionali e da oggettive difficoltà. Il fenomeno è così diffuso che alcune regioni - Lombardia, EmiliaRomagna, Toscana - hanno sentito il bisogno di promuovere una ricerca per stabilire una mappa delle scuole che assumono la cultura teatrale come elemento innovativo della propria azione formativa, per evidenziarne caratteristiche, peculiarità, prassi operative e deficienze. Accade infatti che spesso queste attività, si svolgano sotto il segno del pressapochismo e dell’improvvisazione, oppure con la preminenza di un operatore esterno, o con un’eccessiva tendenza alla spettacolarizzazione: prova ne sia che negli ultimi anni si sono diffuse quasi ovunque le rassegne di teatro fatto dai ragazzi. Senza negare l’esigenza di comunicazione insita nella prassi teatrale, è pur vero che nella situazione pedagogica il valore di questa prassi sta più nel percorso che nel prodotto e che è opportuno istituire nuove modalità di
Mafra Gagliardi Ha insegnato alle elementari (metodo Montessori), medie e superiori. Co-protagonista dell’animazione teatrale negli anni Settanta, si occupa del rapporto educazione/teatro (con particolare attenzione alle dinamiche di ricezione dello spettatore bambino e alle forme dell’immaginario infantile): su questi temi scrive su quotidiani e riviste specializzate, svolge ricerche sul campo, tiene corsi di formazione per insegnanti e collabora all’”Osservatorio dell’Immaginario Infantile” di Torino. relazione tra operatore e insegnante, per esplorare insieme gli spazi dell’universo infantile, con gli psichismi che gli sono propri: processi che non seguono le leggi del pensiero razionale, ma si affidano piuttosto a quello che gli studiosi definiscono pensiero laterale, che presiede all’espressione artistica e creativa. Se potesse esprimere, relativamente al teatro in tutte le sue sfaccettature, un desiderio rispetto al contesto scolastico attuale, che cosa ipotizzerebbe? Penso che ci troviamo di fronte a un potenziale ricchissimo che non viene valorizzato nella giusta misura. Perciò io punterei soprattutto su un processo di formazione del corpo docente, iniziale e in servizio. In particolare dovrebbe essere propo-
Franca Zagatti Dirige il Centro di Educazione alla Danza Mousikè di Bologna, insegna Teoria tecnica e didattica dell’attività motoria dell’età evolutiva (facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Bologna) e La danza nelle pratiche pedagogiche, terapeutiche e comunitarie (Corso di laurea specialistica in Discipline teatrali della Facoltà di Lettere e Filosofia); dirige corsi per educatori tra cui il Corso nazionale per danzeducatore; cura e conduce progetti per la formazione degli insegnanti e laboratori per disabili mentali e psichici.
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linguaggi espressivo-artistici, considerati diffusamente come veicoli pedagogicamente validi ed efficaci nella scuola, quali prospettive hanno effettivamente nella scuola attuale, italiana ed internazionale? È ormai convinzione diffusa che lo studio delle arti faciliti lo sviluppo di alcune principali forme di conoscenza e metta in atto specifici processi di apprendimento. In particolare i linguaggi espressivo-artistici: – Costituiscono una potente risorsa
per soddisfare ed ampliare la creatività e l’immaginazione. – Esplorano la relazione fra idea ed oggettività e servono a collegare il pensiero con l’azione. – Aiutano a sviluppare capacità emozionali, relazionali ed umane, insegnano l’autodisciplina, promuovono l’autostima. – Rafforzano le abilità a percepire, interpretare e valutare gli stimoli sensoriali ed estetici. – Insegnano l’importanza e il valore del lavoro di gruppo e dimostrano praticamente il collegamento diretto fra l’im-
sta ai docenti una visione del teatro non coincidente esclusivamente con gli statuti drammaturgici del teatro di tradizione, ma aperta piuttosto alle ricerche e ai fermenti delle avanguardie teatrali del secondo Novecento: il che significa per esempio riallacciarsi a certi intendimenti antirappresentativi dell’Animazione anni ’70, superare il primato del testo, esplorare altri linguaggi (compresi quelli informatici) in chiave creativa, recuperare i valori del gioco e della festa. Insomma più performance come azione aperta anche in spazi non canonici che spettacoli nel senso tradizionale del termine. Gli insegnanti dovrebbero essere consapevoli che il teatro con bambini e ragazzi ha una sua specifica peculiarità, che deriva dal suo porsi tra pedagogia e arte, nell’interazione armonica tra esigenze etiche ed estetiche, tra finalità formative e artistiche. ■ pegno, lo studio e i risultati ottenuti. – Abituano al confronto con ciò che è insolito, mutevole, inatteso ed educano alla ricerca di soluzioni creative. – Contribuiscono alla costruzione di quell’universo di significati che sono alla base dei modi di vita e dei valori ai quali ogni società fa riferimento. In questa prospettiva i linguaggi espressivo-artistici possono divenire area del sapere che unisce l’esperienza pratica a quella concettuale attraverso una serie di esperienze didattiche sia di tipo produttivo, concreto, visibile, che di tipo ricettivo, impalpabile, astratto. Possiamo di conseguenza affermare che tale tipo di apprendimento si manifesta attraverso un doppio canale operativo, quello del pensare e quello del fare, concretizzando, così, un’idea di scuola attiva basata sulla valorizzazione dell’individuo e di tutte le sue potenzialità - cognitive, emotive, corporee, cinestetiche.1 In particolare la danza educativa, che ruolo ricopre e quale potrebbe, a Suo
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Nella visione di un’educazione integrata, i linguaggi artistici espressivi parere, ricoprire nel curricolo scolastico? Quali le motivazioni? Come si connota la danza educativa in linguaggio espressivo-artistico a scuola? La danza, rispetto alle altre arti, possiede la capacità di unire e conciliare lo sviluppo motorio con quello espressivo ed emozionale - il corpo è conduttore del messaggio artistico e diviene al tempo stesso strumento e oggetto del suo stesso agire. Nella nostra prospettiva la danza nella scuola acquista finalità educativa non in quanto rappresentazione esteriormente formalizzata, ma in virtù dell’enfasi percettiva che viene data all’esperienza soggettiva, emozionale, ed estetica del movimento. In quest’ottica l’apprendimento della danza educativa non passa attraverso l’acquisizione di sequenze date di movimento, ma attraverso l’esplorazione di quelli
strumento principale per spaziare nel contatto con il nuovo, utilizzare il bagaglio di esperienze, di vissuti e di saperi di ciascuno… – fare “cultura”, essere protagonisti di un processo creativo, unico, originale e personale. La cosiddetta educazione emozionale, che ruolo ricopre e quale potrebbe, a Suo parere, ricoprire nel curricolo scolastico? Quali le motiche vengono considerati i principali elementi strutturali della danza. Analizzare lo spazio circostante, osservare quali movimenti il nostro corpo può coordinare in esso, studiare in che modo il suono ci può aiutare nelle scoperte cinetiche, comprendere come le sensazioni e le emozioni possono modificare il nostro movimento, significa non solo dar forma alle infinite espressioni del nostro movimento, ma far sì che queste non vengano spinte a strutturarsi secondo logiche di pura funzionalità motoria. Se potesse esprimere, in riferimento alla danza educativa, un desiderio rispetto al contesto scolastico italiano ed internazionale, quale ipotizzerebbe? L’ipotesi più realistica che in questo momento di grandi cambiamenti del
bisogna riconoscere e dare dignità alle emozioni: non c’è apprendimento senza emozioni, non c’è conoscenza senza emozione, non c’è pensiero senza emozione, non c’è relazione educativa che non coinvolga il piano delle emozioni, il “campo educativo” per essere fertile dev’essere “affettivo”, l’affettività trasforma e riscalda i contenuti del pensiero. In particolare il movimento espressistema scolastico, mi sento di fare, è quella di potenziare l’inserimento dei linguaggi artistici all’interno delle attività di laboratorio recentemente “ufficializzate” dalla riforma. Credo sarebbe importante prevedere nella formazione degli insegnanti, la possibilità di seguire un percorso a “coloritura artistica”, dove le didattiche laboratoriali vengano approfondite e non lasciate alla buona volontà del singolo e dove i linguaggi artistici siano sufficientemente conosciuti dagli insegnanti da consentire loro l’attivazione di percorsi didattici adeguati e soprattutto proficue collaborazioni con gli esperti e gli artisti presenti sul territorio. ■ 1 Tratto da F. Zagatti, La danza educativa. Principi metodologici e itinerari operativi, Ed. Mousikè Progetti Educativi, Bologna, 2004.
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Maestra elementare, laurea in Filosofia, counseling in relazione d’aiuto ed in tecniche psico-corporee, esperta e conduttrice di gruppi e laboratori con allievi in corsi di formazione per insegnanti; collaboratrice didattica per il corso di laurea in Scienze della Formazione Primaria in “Didattica della Matematica”, presso l’Università degli Studi di Napoli e per l’area scientifica presso la Fondazione Idis-Città della Scienza, Napoli.
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Olga Mautone
Spesso mi sono chiesta quale ruolo svolga “il corpo” nell’apprendimento, quando diventa ostacolo e quando è risorsa. Il corpo diventa “ostacolo” nell’apprendimento e nella crescita dell’individuo quando è negato, inespresso, bloccato. Il corpo diventa risorsa quando la sua manifestazione è libera e spontanea, quando si riconosce il valore del suo sentire, percepire, agire, esprimere e comunicare, entrare in relazione con gli altri e con il mondo. Le tecniche psicorporee che introduco nel mio lavoro d’insegnante, hanno, prima di tutto, aiutato me, adulta, a integrare i vari livelli dell’essere, ad acquisire sempre più consapevolezza del mio sentire e agire, consentendomi così la manifestazione e l’espressione senza inibire o bloccare; nel mio lavoro, con gli adulti e con i bambini, nei corsi di formazione, nelle attività di laboratorio, o nel lavoro quotidiano in classe, il corpo entra a pieno titolo, nella sua interezza ed integrità, il corpo inteso, cioè, come energia fisica, vitalità e gioia, come affettività ed emozione, come pensiero e spiritualità. Il corpo rappresenta il luogo privilegiato delle esperienze e delle conoscenze, non più ospite indesiderato e fastidioso, ma alleato nei processi di apprendimento e di crescita. Cambia, così, la prospettiva di “scuola” e di “educazione”: la scuola diventa il luogo in cui coltivare e proporre esperienze per i diversi livelli del “corpo”: gli spazi vengono modificati a seconda delle varie esigenze, si organizzano aule per i diversi laboratori e per i diversi linguaggi, si allargano i confini di spazio e tempo; e compito dell’educazione è coltivare tutti i campi, riconoscendo quali semi (esperienze) proporre, qual è la caratteristica della terra che accoglie, quali modalità adotterò per rendere ogni terreno fertile, di cosa avrà bisogno ogni angolo del campo, di come attendere, con fiducia ed amore, e di cosa attendere, durante ed alla fine del processo, immaginando i frutti non solo sul piano cognitivo, ma, indispensabile, sul piano affettivo-emozionale; sapendo riconoscere come raccoglierli e cosa farne… ■
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L’Educazione emozionale è un aspetto fondamentale dell’azione educativa in genere: consiste nell’accompagnare verso una forma di consapevolezza, nel riconoscere e quindi fornire strumenti cognitivi, linguistici, emotivi, abilità sociali con cui nominare, significare, armonizzare, costruire “un mondo di eventi e momenti emotivi che accadono dentro la persona e fra le persone”. Ritengo che, nell’ambito educativo,
sivo corporeo, che ruolo ricopre e quale potrebbe, a Suo parere, ricoprire nel curricolo scolastico? Quali le motivazioni? Come si connota a scuola l’integrazione corpo-mentepsiche?
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Che ruolo ricoprono e quale dovrebbero, a Suo parere, ricoprire nel curricolo scolastico? Quali le motivazioni?
vazioni? Come si connota tale educazione a scuola?
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Nella scuola della riforma non si parla di “Educazione” nelle discipline artistiche, trasformando così il senso profondo della pedagogia dell’arte e proponendo una visione nozionistica e contenutistica dell’apprendimento di queste “materie” (proprio così chiamate! Ahimè!); il termine “educazione” viene abolito, come viene abolito lo spazio dedicato alle discipline artistico-espressive, relegate ad un orario facoltativo. “Nell’ambito di un progetto educativo e didattico realmente integrato e complesso l’educazione artistica è un luogo privilegiato di esperienza personale nei campi dell’espressione, del contatto con l’arte, del cimento tecnico. Una possibilità di trovare un momento consacrato alla sperimentazione, all’esplorazione di nuovi linguaggi e strumenti, all’apprendimento attivo anche attraverso il vissuto emozionale, alla valorizzazione dei processi e degli stili personali.”
hanno un ruolo fondamentale, quello di: – offrire ad ogni individuo la possibilità di esprimersi usando il mezzo espressivo a lui più congeniale; – dare, prima ancora e in assoluto, la possibilità di “esprimersi”; – integrare le differenze di contenuto e di metodologia proprie di ciascuna disciplina; – offrire opportunità e motivazioni diverse per tutti gli allievi; – valorizzare le qualità espressive dei ragazzi e dei loro sentimenti; valorizzare l’immaginazione che diventa lo
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I linguaggi espressivo-artistici, considerati diffusamente come veicoli pedagogicamente validi ed efficaci nella scuola, quali prospettive hanno effettivamente nella scuola della Riforma?
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A scuola per imparare a esprimersi con l’arte e le emozioni
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LINGUAGGI ARTISTICO-ESPRESSIVI
CONVEGNO Per uno scenario di riforma del sistema educativo e formativo della provincia di Bolzano
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23 marzo 2006
Giovedì 23 marzo 2006 alle ore 15, presso il Liceo scientifico Torricelli di Bolzano LILIANA DOZZA, FRANCO FRABBONI, LUIGI GUERRA E CESARE SCURATI
Introducono i lavori l’Assessora alla scuola Luisa Gnecchi e la Sovrintendente scolastica Bruna Visintin Rauzi. Coordina gli interventi Daniela Pellegrini Galastri
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Lo scenario della riforma nazionale e provinciale
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Riflettono sui nodi cruciali dell’innovazione
Istituto pedagogico in lingua italiana di Bolzano promuove un percorso di riflessione per creare uno scenario culturale e pedagogico forte e condiviso quale sfondo alle innovazioni che investono attualmente, a livello locale, nazionale e internazionale, il sistema educativo e formativo. Tra le iniziative volte a stimolare tale riflessione e a promuovere il confronto sul tema della Riforma, l’Istituto ha organizzato un convegno, che si terrà il 23 marzo 2006 a Bolzano, presso il Liceo scientifico Torricelli di Bolzano con inizio alle ore 15.00, in occasione del quale verranno proposte all’attenzione del mondo della scuola altoatesina tesi/linee guida su alcuni punti cruciali, gli stessi oggetto delle interviste che questo numero di Informa propone ai suoi
dologico, consiste nel rilevare le informazioni sull’universo (ossia su tutte le scuole, tutti gli allievi, tutti gli insegnanti), oppure su un campione. Si comprende che da un punto di vista tecnico le due soluzioni differiscono sostanzialmente per complicazione organizzativa e per costo, enormemente maggiori se si procede sull’universo, seguendo una logica censimentaria. Va notato, tuttavia, che i dati che si ottengono da rilevazioni censimentaria sono effettivamente utili solo se si intende esprimere giudizi che investano singo-
Notiziario bimestrale dell’Istituto Pedagogico Provinciale di ricerca, sperimentazione e aggiornamento educativi per il gruppo linguistico italiano
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(continua da pag. 9: “Necessari strumenti attendibili e rapporti di fiducia con le scuole”)
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ISTITUTO PEDAGOGICO
Direttore responsabile Bruna Visintin Rauzi Redazione C. Bertorelle, C. Cantisani, L. Taufer Foto di copertina Claudio Cantisani Impaginazione Edizioni Junior, Azzano San Paolo (BG) Stampa Tecnoprint S.n.c., Romano di Lombardia (BG) Autorizzazione del Tribunale Bolzano nr. 23/94 del 13/12/1994 Anno XIII, numero 57 - febbraio 2006 Chiuso in redazione il 23 febbraio 2006 Redazione Via del Ronco, 2 - 39100 Bolzano tel. 0471/411465 - fax 0471-411469 internet: http://www.provincia.bz.it/ipi/ e-mail:
[email protected]
Convegno dell’Istituto pedagogico il 23 marzo 2006 a Bolzano lettori: individualizzazione/personalizzazione; didattica per competenze; autonomia e flessibilità; diversità come risorsa; etero e auto-valutazione; scuola e territorio; tecnologie; linguaggi artistico-espressivi. L’Istituto ha affidato l’elaborazione di tali tesi/linee guida ai professori Liliana Dozza, Franco Frabboni, Luigi Guerra e Cesare Scurati, in qualità di autorevoli esperti, i quali presenteranno pubblicamente le proprie relazioni durante il Convegno, con cui si aprirà ufficialmente il confronto su questi argomenti all’interno del mondo della scuola. Apriranno l’incontro l’intervento dell’Assessora al
larmente questo o quel soggetto (allievo, scuola o insegnante che sia). Informazioni non meno attendibili (ma con costi enormemente inferiori) possono essere raccolte per via campionaria, se ciò che interessa è cogliere le tendenze che si manifestano circa questo o quell’aspetto dell’attività educativa. Se la valutazione ha lo scopo di assumere decisioni necessarie per orientare il funzionamento del sistema scolastico non ha alcuna utilità identificare i soggetti cui i dati si riferiscono, mentre sono assai più importanti la tempestività e le condizioni delle rilevazioni. Quali carenze individua nelle attività istituzionali di valutazione e come potrebbero essere superate? Che si tratti di rilevazioni censimentarie o campionarie, vale comunque un presupposto, quello dell’osservanza rigorosa dei requisiti formali capaci di assicurare la validità e l’attendibilità dei dati. Ciò vuol dire che gli strumentari debbono essere messi a punto attraverso procedure complesse, che prevedano: – il disegno delle prove, con il dettaglio delle prestazioni da sollecitare in funzione dei traguardi che si vogliono accertare; – l’elaborazione delle prove grezze, sulle quale occorre richiamare l’attenzione critica di specialisti nelle diverse aree culturali al fine di stabilirne la validità; – la prova sul campo (try out), volta ad accertare le caratteristiche, di formulazione e metriche) di ciascuna prova o parte di essa; – la rettifica, che consiste nell’espungere gli elementi di prova che non abbiano presentato le caratteristiche desiderate, o nel modificarne la formulazione; – la prova finale sul campo (dry run), che ha lo scopo di accertare la presenza di tutte le caratteristiche desiderate, oltre che di consentire la messa a
lavoro, innovazione, pari opportunità, cooperative, Formazione professionale e scuola in lingua italiana Luisa Gnecchi e quello della Sovrintendente scolastica prof.ssa Bruna Visintin Rauzi. Sono invitati i dirigenti scolastici e gli insegnanti di tutte le scuole di ogni ordine e grado della Provincia di Bolzano, le autorità politiche e istituzioni interessate (assessorati, università, agenzie di educazione permanente ...), i rappresentanti della stampa e della televisione, gli studenti, i sindacati, i genitori, il Consiglio scolastico provinciale e tutti coloro che sono interessati. ■
punto di modelli statistici per l’interpretazione dei dati. È evidente che tutte queste operazioni richiedono tempo, e soprattutto richiedono che si disponga di una organizzazione tecnico-scientifica capace di provvedere adeguatamente ad esse. Non è eccessivo affermare che la messa a punto di uno strumentario che risponda alle caratteristiche menzionate richiede circa un anno di lavoro. Non si ha notizia che in Italia siano in corso progetti volti alla produzione di strumentari valutativi che rispondano alle specifiche indicate. In Italia, dopo il 2001 il governo ha deciso di procedere sull’universo. Finora, si sono ottenuti dati che presentano scarsa o nessuna utilità, per l’inattendibilità degli strumenti e delle procedure seguite. Si è, inoltre fortemente deteriorato il rapporto di fiducia con le scuole, dal momento che esse sono chiamate a collaborare ad operazioni che possono avere conseguenze negative per il loro funzionamento ulteriore. Se consideriamo quanto accade in altri paesi, osserviamo che la via censimentaria è seguita nel Regno Unito, e quella campionaria in Francia. Nel Regno Unito si è assistito negli ultimi anni al moltiplicarsi delle rilevazioni, che si sono affiancate a periodiche visite ispettive delle scuole. Queste ultime finiscono per orientare la loro attività verso gli aspetti che sanno essere oggetto di rilevazioni, tramite prove oggettive o rapporti ispettivi, trascurando aspetti, pure importanti, dell’attività educativa che non si traducono in prestazioni codificabili o in procedure predefinibili. In Francia si preferisce avere un rapporto collaborativo con le scuole, che Queste ultime non debbono considerare con ansia la valutazione, ma essere consapevoli dei vantaggi che possono derivare dall’emergere delle
loro esigenze, in termini di migliore programmazione degli interventi, di più equa ripartizione delle risorse, di impostazione di programmi di ricerca e di sperimentazione volti alla soluzione di problemi specifici. Se avesse una bacchetta magica, quali scenari vorrebbe poter realizzare per la valutazione in campo scolastico? Purtroppo non ce l’ho. Mi accontenterei perciò di un sistema scolastico in grado di analizzare se stesso, di stabilire un rapporto positivo con la ricerca (quella interna, sempre che non sia completamente soffocata, e quella internazionale), di fondare le decisioni su flussi attendibili di dati. Per concludere, vorrei segnalare un aspetto della valutazione sul quale non si riflette abbastanza: ho già detto che per effettuare una valutazione che abbia un senso occorre effettuare rilevazioni attendibili. Ma perché si possano effettuare rilevazioni attendibili è necessario che tra chi raccoglie i dati e chi li fornisce si stabilisca una rapporto di fiducia. I dati valutativi sono infatti il risultato di mediazioni culturali, che si forniscono in modo differenziato (o non si forniscono affatto) in relazione ai diversi atteggiamenti che i soggetti coinvolti assumono nei confronti sia della valutazione in generale, sia delle singole iniziative alle quali sono chiamati a partecipare. È essenziale, in altre parole, la collaborazione dei soggetti ai quali si richiedono informazioni o prestazioni per assicurare la qualità delle valutazioni che possono essere espresse. Ma si collabora se si capisce che cosa si sta facendo, se si è convinti che si tratta di operazioni utili, se si è certi della correttezza delle procedure. Ci si è veramente preoccupati, negli ultimi anni, di assicurare tali condizioni? ■