Il surriscaldamento del pianeta sarebbe alla base della moria di centinaia di specie di rane e di rospi, in quanto alimenterebbe il diffondersi di una malattia della pelle che provoca la morte degli animali. Gli scienziati ritengono di aver trovato la prova che dimostra come il surriscaldamento globale stia causando il diffondersi di una malattia contagiosa che sta eliminando intere popolazioni di anfibi. Il declino drammatico delle 6.000 specie di anfibi era stato identificato nel 1990 e spiegato con la teoria della diffusione di un'infezione devastante della pelle causata da un fungo. Uno studio condotto da una squadra internazionale di ricercatori ora ha collegato la diffusione di una specie di fungo, chiamato Batrachochytrium dendrobatidis, con l'aumento delle temperature tropicali connesse con il riscaldamento globale. Gli scienziati ritengono che le temperature medie di molte regioni tropicali, che sono ricche di una specie endemica di rane e di rospi, siano diventate perfette per lo sviluppo del fungo. Arturo Sanchez-Azofeifa dell'università di Alberta nel Canada, uno degli autori dello studio, pubblicato dalla rivista Nature, sostiene che l'analisi collega strettamente il cambiamento climatico con la moria di molti rane e rospi. "Con questo aumento della temperatura, il fungo ha potuto aumentare ed eliminare grandi popolazioni degli anfibi", ha detto. La perdita rapida di anfibi - rane, rospi, e salamandre - ha già ridotto di circa un terzo la specie, mentre altre centinaia sono minacciate. Con conseguenze drammatiche sulla catena alimentare e l'ecosistema nel suo complesso. (12 gennaio 2006) LINKS
Climate Change Devastating Latin American Frogs ScienceDaily 17 gennaio 2006 Global Warming Threatens Amphibians 12 gennaio 2006
L'orso bianco, l'ippopotamo e la gazzella del deserto sono entrati a far parte degli animali in via d'estinzione, secondo la lista pubblicata dalla World Conservation Union (IUCN). Con queste tre specie diventano 16.119 quelle considerate a rischio. L'elenco comprende un terzo degli anfibi e un quarto delle conifere del nostro pianeta, anche se le più vicine alla scomparsa sono numerose specie di uccelli e mammiferi. Ad oggi sono considerate ufficialmente estinte 784 specie e 65 sopravvivono solo in cattività. “La Lista Rossa del 2006 mostra una chiara tendenza: la perdita di biodiversità sul nostro pianeta sta aumentando”, ha spiegato Achim Steiner, Direttore Generale della World Conservation Union. La possibilità di invertire tale tendenza non è da escludere, sostengono gli esperti, perché vi sono stati numerosi casi in cui animali vicini all'estinzione su vaste aree sono stati salvati e il loro numero è tornato a crescere. Ma i tempi a disposizione sono molto stretti. L'orso bianco è diventato il simbolo di una delle cause principali d'estinzione: l'aumento della temperatura globale. Il fenomeno sta avendo un impatto disastroso sulle regioni polari: ci si aspetta che entro i prossimi 50 anni i ghiacci del Polo Nord si ridurranno di almeno il 50%. Questo comporterà una diminuzione del 30% degli orsi bianchi entro i prossimi 45 anni. Anche in prossimità dei grandi corsi d'acqua, soprattutto africani, numerose specie stanno soffrendo pesantemente l'azione dell'uomo sull'ambiente. Il comune ippopotamo, ad esempio, è entrato per la prima volta tra le specie “vulnerabili” (nella Repubblica Democratica del Congo il numero degli esemplari è sceso del 95%) a causa della caccia indiscriminata per la carne e l'avorio dei denti. La gazzella del deserto, che vive nel Sahara, considerata a rischio nel 2004, ha visto una riduzione del numero di elementi dell'80% in soli dieci anni perché viene cacciata dalle popolazioni che vivono ai bordi del deserto. Stando alla World Conservation Union, entro pochi anni farà la fine di una specie di orice (Oryx dammah) già considerata estinta. La stessa cosa sta accadendo alla gazzella subgutturosa, che vive in Asia e in Medio Oriente, sia per la caccia delle popolazioni locali che per la perdita dell'habitat. Nei mari, sono gli squali e le razze gli animali maggiormente a rischio. Delle 547 specie note infatti, ben il 20% sono considerate vicine alla scomparsa. Il 56% delle 252 specie endemiche d'acqua dolce dell'area mediterranea sono a rischio d'estinzione e ben sette sono state classificate come estinte. Ben pochi i casi opposti. Grazie all'azione compiuta in questi anni su molte specie ritenute a rischio d'estinzione, l'aquila dalla coda bianca, ad esempio, che vive in vari Paesi europei, è passata dall'essere un animale a rischio a dover essere tenuta sotto costante controllo. “Questo caso e molti altri - ha spiegato Steiner - dimostrano che con adeguate misure di protezione si può ancora salvare l'ambiente”. Che cosa stiamo aspettando allora? (Pubblicato su Ecplanet 07-06-2006) LINKS
Selected Species From 2006 ''Red List'' National Geographic
IUCN Red List - Wikipedia Da tempo gli scienziati denunciano il fatto che correnti oceaniche e venti scaricano sull'Artico i veleni prodotti dall'uomo, contaminando sempre di più un ecosistema dal quale dipendiamo tutti. I primi a pagarne le conseguenze, secondo l'ultimo rapporto del WWF, sono i circa 4 milioni di abitanti e specie animali che vivono al Polo Nord. Un cocktail di veleni colpisce mammiferi e uccelli, compromettendone in modo grave lo stato di salute, l'abilità a resistere in un ambiente estremo, la capacità di riproduzione, lo sviluppo. In particolare, si è rilevato che l’esposizione alle sostanze chimiche tossiche interferisce con il sistema ormonale e immunitario, modifica i livelli di vitamina A e provoca fragilità della struttura ossea. Ciò vuol dire che a essere alterate sono le principali funzioni vitali: metabolismo, sviluppo, fertilità, determinazione del sesso, funzioni neurologiche, stimoli della fame e della sete, impulsi sessuali. Gli orsi polari, per esempio, al vertice della catena alimentare, risultano gravemente contaminati da sostanze attualmente in uso negli elettrodomestici, come i ritardanti di fiamma bromurati (Bfr) e i composti perfluorinati, con conseguenti alterazioni del sistema immunitario, ormonale e diminuzione dello spessore delle ossa. I beluga, che prediligono acque costiere poco profonde e risalgono le foci dei fiumi, aree ad altissima concentrazione di inquinanti chimici, sono tra le specie artiche più intossicate, tanto che i corpi di alcuni esemplari trovati morti, provenienti dall'estuario del fiume San Lorenzo in Canada, sono stati smaltiti come rifiuti tossici. Per quello che riguarda gli uccelli poi c'è da osservare che molte sostanze chimiche tossiche si concentrano nel tessuto adiposo e, al momento della deposizione, passano nelle uova, con la conseguenza che l'embrione già nelle prime fasi di sviluppo è esposto ai contaminanti chimici. L'esposizione alle sostanze chimiche tossiche insieme ai cambiamenti climatici e alla perdita di habitat genera una miscela micidiale che mette a rischio la sopravvivenza stessa delle specie artiche. «L'Artico sta diventando sempre più una sorta di discarica chimica», ha commentato Gianfranco Bologna, direttore scientifico del WWF Italia. «Molti tra i prodotti chimici tossici che usiamo nelle nostre case finiscono nell'Artico». Un momento decisivo, in questo contesto che sta assumendo contorni sempre più allarmanti, sarà quando il Parlamento Europeo, a fine ottobre prossimo, dovrà pronunciarsi su REACH, la normativa sulle sostanze chimiche. (Pubblicato su Ecplanet 25-06-2006)
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Toxic Chemicals Harming Arctic Animals: WWF redorbit 15 giugno 2006 I reperti geologici dimostrano che ci sono state cinque grandi estinzioni. La più imponente di è verificata durante la transizione dal Permiano al Triassico, più o meno 250 milioni di anni fa; la seconda in ordine di importanza è quella che 65 milioni di anni fa ha spazzato via i dinosauri. Ora gli esseri umani stanno perpetrando una “sesta estinzione”: le specie stanno scomparendo a un ritmo cento volte, forse addirittura mille volte, superiore a quello naturale. Alcune specie vengono stermiante, ma la maggior parte delle estinzioni non è un risultato
intenzionale: è la conseguenza di modifiche degli habitat effettuate dall'uomo o dell'introduzione di specie non autoctone in un ecosistema. Gregory Benford ha proposto di istituire una Biblioteca della Vita, un progetto dettato dall'urgenza di raccogliere, congelare e conservare un campione dell'intera fauna di una foresta pluviale tropicale; questa biblioteca non dovrebbe sostituirsi alle misure di tutela della biodiversità, ma fungere da polizza di assicurazione. La balenottera dell'aletta, uccisa dall'equipaggio della baleniera Hvalur 9 a ovest dell'Islanda, catalogata nell'elenco delle specie a rischio, è il simbolo della follia umana. Non solo le balene si stanno estinguendo, ma tutta la fauna marina. Secondo una indagine durata 4 anni, che ha coinvolto migliaia di scienziati dei cinque continenti (i cui risultati sono stati pubblicati sui Science), entro il 2048, le specie marine che finiscono nei nostri piatti saranno collassate, ridotte ai minimi termini. Dovremo dire addio a ricci di mare, vongole, tonni, a una lunga serie di mitili che adornano i menù, ma anche a merluzzo, nasello, spigola, branzino, orata, pesce spada. L'elenco è sterminato e include pure altri pesci come gli squali. Dal 1950 al 2003 abbiamo perduto il 65% delle specie pescate all’inizio del periodo considerato. Di quelle presenti oggi, il 29% per cento è GIà «collassato», sceso a meno del 10%. «Purtroppo stiamo assistendo a una accelerata riduzione della capacità di sostentamento e riproduzione della quasi totalità delle specie marine - dice Fiorenza Micheli della Hopkins Marine Station della Stanford University - e le cause sono ormai chiare». Eccesso di pesca, distruzione degli habitat lungo le coste, inquinamento con scarichi che avvelenano gli animali. Non c'è zona del pianeta sfuggita alla distruzione. «Intorno alla Penisola italiana le condizioni sono tra le peggiori: Adriatico, Ionio, ambienti di scoglio del Tirreno ma anche il Sud del Mediterraneo offrono dati raccapriccianti». La pesca a strascico è uno degli interventi più dannosi perché la metà di quanto viene raccolto non serve e viene eliminato. L'annientamento di molte specie, inoltre, provoca squilibri ecologici su vaste regioni favorendo le fioriture delle alghe o la crescita abnorme, ad esempio, delle meduse. «Ma siamo ancora in tempo a intervenire», spiega la scienziata fiorentina d’origine e californiana d’adozione da quasi vent'anni, «Lo dimostrano — precisa — gli esperimenti condotti in 48 aree protette della Terra dove nel giro di qualche anno la situazione locale si è invertita e si sono ripristinate anche le aree circostanti». I rimedi sono noti quanto le cause: riduzione del pescato con l'eliminazione delle reti o la scelta di pesci che abbiano ritmi di riproduzione più veloce, passando, ad esempio, dalle spigole ai calamari o damolluschi come la litofaga ai pettini molto diffusi in Atlantico e altrove; avviare iniziative di protezione dei fondali lungo le rive e soprattutto impedire l'immissione di sostanze chimiche e inquinanti. «È necessario anche suggerisce la Micheli estendere le aree protette che favoriscono l'economia locale». Un'altra ricerca ha prodotto una dettagliata mappa dell'estinzione globale, secondo cui, le specie a rischio di mammiferi, uccelli e anfibi, non abitano le stesse aree geografiche. Contraria dunque alle precedenti teorie, la mappa mostra in definitiva come la situazione delle specie a rischio sia diversificata a seconda dei vari gruppi anche nelle stesse aree geografiche. Il Professore Ian Owens, uno degli autori della ricerca, della Divisione di Biologia dell' Imperial College of London, ha detto: “Per la prima
volta, questa mappa dell'estinzione globale ha diviso il pianeta in piccole aree per ottenere una dettagliata fotografia della biodiversità e delle specie a rischio”. Quello che è emerso è che nelle aree geografiche dove è maggiore il rischio di estinzione, non tutti i grupppi sono minacciati allo stesso modo. “È importante - dice il Professore - avere compreso che la situazione è più complessa di quello che si credeva. Mammiferi uccelli e anfibi sono minacciati da diversi fattori e in differenti locazioni”. Ad esempio: in Nuova Zelanda sono più a rischio gli uccelli a causa dell'introduzione di ratti e topi; nell'Africa orientale la minaccia riguarda in particolare i mammiferi, a causa della caccia e del commercio di carne; nella foreste tropicali sulòe montagne dell'Australia del nord, sono in declino le rane, e in questo caso ancora non si conoscono le cause precise. (Pubblicato su Ecplanet 11-11-2006) LINKS
'Only 50 years left' for sea fish BBC News 02 novembre 2006
Global Map Shows New Patterns Of Extinction Risk ScienceDaily 05 novembre 2006 Lo scienziato della NASA James E. Hansen, parlando in video-conferenza via satellite con il 14timo Operation Sierra Storm meeting alla Mammoth Mountain Ski Area di Mammoth Lakes, Calif., sugli effetti del riscaldamento globale, ha annunciato che, a dispetto degli sforzi internazionali annunciati per i prossimi 10 anni, le specie di queste pianeta, già in estinzione, sono destinate a scomparire entro la fine del secolo. Hansen, che dal dicembre del 2005, dopo un suo intervento in cui invitava a ridurre drasticamente le emissioni di gas serra, è preso di mira dalla Casa Bianca, ha detto di non parlare per la NASA, e ha predetto che se le emissioni di gas continueranno a questo ritmo, i riscaldamento globale salirà fino a 3°C, eliminando metà delle specie viventi di questo pianeta. Inoltre, lo scioglimento delle calotte polari e il susseguente innalzamento degli oceani provocherà l'inondazione della Florida, gran parte della Louisiana, e anche della costa est. E anche che è impossibile dire con precisione quando questo avverrà (ma avverrà). Ha continuato dicendo che i segni del riscaldamento globale stanno apparendo drammaticamente in Groenlandia, dove il ghiaccio si scioglie ad una velocità molto superiore a quella di 5 anni fa. Mentre i livelli degli oceani si stanno innalzando di 3.5 millimetri all'anno. E ancora: “L'ammontare dei gas serra nell'atmosfera è oggi attribuibile completamente all'intervento umano. Una nuova era glaciale significherà l'estinzione dell'umanità”. (Pubblicato su Ecplanet 26-01-2007)
James Hansen - Wikipedia I Ministri dell'Ambiente del G8 e di cinque fra i più importanti Paesi in via di sviluppo hanno lanciato da Potsdam, in Germania, l'ennesimo grido d'allarme riguardo l'estinzione della biodiversità del Pianeta. Nella prima giornata di lavori, rappresentati USA, Russia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Giappone, Canada e Italia, più quelli di Cina, India, Brasile, Messico e Sudafrica, si sono impegnati, in un documento denominato “Iniziativa di Potsdam”, a fare cosa?
Un'altro rapporto, sul modello di quello preparato dall'ex capo della Banca mondiale Nicholas Stern sulle conseguenze economiche del riscaldamento della Terra, che dovrà stabilire i costi economici della distruzione della biodiversità. Si preoccupano delle perdite economiche, poverini. Inoltre, un altro rapporto dovrà stabilire lo stato dell'annientamento di numerose specie di animali e piante. Prendono ancora tempo i padroni del mondo. Dicono di volersi impegnare a intensificare il lavoro scientifico sulla biodiversità, a sensibilizzare l'opinione pubblica e a lottare contro il commercio illegale di piante e animali. «Stiamo cancellando la banca dati della natura», ha detto ai giornalisti il ministro dell'ambiente tedesco Sigmar Gabriel, che ha presieduto i lavori. Gabriel ha sottolineato come ogni giorno 150 specie spariscano dal Pianeta, un fenomeno che minaccia le basi stesse della nostra economia: il 40% del commercio infatti è direttamente legato alle materie prime. A essere minacciate sono al tempo stesso, ha aggiunto Gabriel, la prosperità e la sicurezza sociale, mentre ne viene rafforzata la povertà. Ma che bella scoperta. Gli studi annunciati saranno presentati al vertice del G8 in programma a inizio giugno a Heiligendamm, sulla costa tedesca del Mar Baltico. La riunione di Potsdam è in effetti una farsa pensata per imbonire l'opinione pubblica in preparazione del vertice dei capi di Stato e di governo del G8 in programma fra tre mesi, dove ci sarà un primo confronto diretto dopo gli impegni assunti dall'Unione Europea riguardo le drastiche riduzioni delle emissioni di gas serra. BASTA CON LE CHIACCHIERE: AGIRE ORA! Dinanzi alla residenza di Cecilienhof, nella quale si tengono i lavori, attivisti di Greenpeace hanno inscenato una dimostrazione di protesta . Un grande striscione giallo con la scritta “G8: Stop talking - Act Now” è stato issato a bordo della barca dell'organizzazione “Beluga”, che si aggira nelle acque del Wannsee, il lago sulle cui rive sorge il castello di Ceciliehof. Tale residenza è nota per aver ospitato tra luglio e agosto 1945, alla fine della seconda guerra mondiale, il vertice tripartito fra i leader di USA, URSS e Gran Bretagna - Truman, Stalin e Churchill - che nella cosiddetta conferenza di Potsdam parlarono del nuovo assetto dell'Europa postbellica. Secondo Greenpeace, ''Bush e i suoi alleati hanno tradito la causa della protezione del clima'', mentre le emissioni di gas tossici continuano ad aumentare. ''I maggiori paesi industrializzati sono ancora lontanissimi dagli obiettivi indicati dal protocollo di Kyoto'', ha detto in un comunicato Joerg Feddern, esperto di energia di Greenpeace. In testa il Canada, con un +30 per cento rispetto ai livelli del 1990, seguito da Stati Uniti con un +15,7 per cento, Italia a +12, 3 per cento e Giappone a +7,7 per cento. Le emissioni di gas serra, purtroppo, sono calate solo nei Paesi dell'ex blocco comunista, per il crollo della loro economia, mentre altrove, come in Italia, crescono e anche in maniera significativa. DEFORESTAZIONE IN ACCELERAZIONE
Meno 20mila ettari al giorno, per un totale di 7,3 milioni di ettari all'anno. Questa la perdita netta di foreste nel mondo secondo il recente rapporto della FAO “Lo Stato delle Foreste nel Mondo”. Dal 1990 al 2005, la Terra ha perduto il 3% del suo territorio forestale totale (che copre circa 4 miliardi di ettari, vale a dire il 30% della superficie del Pianeta), un calo medio di quasi lo 0,2% l'anno. Tra il 2000 e il 2005,la perdita più alta di foreste primarie si è registrata in Indonesia, Messico, Papua Nuova Guinea e Brasile. (Foto satellitare del 20-03-07: zona a nord est del Brasile - i punti rossi sono incendi)
Anche Africa e America Latina continuano a perdere foreste a un tasso allarmante. Ogni anno l'Amazzonia perde un'area grande quanto la Sicilia e il continente africano in sei anni ha volatilizzato il 9% di tutte le sue foreste. L'Europa ed il Nord America registrano invece un aumento della superficie forestale. Si segnala in generale anche una positiva inversione di tendenza rispetto ai decenni precedenti: mentre in 83 paesi c'è stata una diminuzione della copertura forestale, in altri 57 si è visto un aumento. È il caso dell'Asia e della regione del Pacifico. In Cina, i grandi investimenti negli interventi di riforestazione hanno bilanciato l'alto tasso di deforestazione di altre zone, dice il rapporto. “Molti paesi hanno mostrato la volontà politica di migliorare la gestione delle foreste rivedendo politiche e legislazioni e rafforzando le istituzioni forestali”, ha detto David Harcharik, direttore generale aggiunto della FAO, “maggiore attenzione è stata data alla conservazione del suolo e delle risorse idriche, alla difesa della diversità biologica ed ad altri fattori ambientali”. Secondo Greenpeace si tratta però di una visione troppo ottimistica: il rallentamento della deforestazione a livello mondiale, in realtà, sarebbe solo il risultato della crescita del numero degli alberi piantati in paesi che hanno già perso le proprie foreste naturali. “Secondo la FAO, in Asia aumenta la superficie forestale grazie ai quattro milioni di ettari di piantumazioni in Cina, ma le piantagioni certo non compensano la devastazione delle foreste tropicali dell'Indonesia, dove la deforestazione avanza ad un tasso annuale del 2%”, denuncia l'associazione ambientalista. Per Greenpeace è più credibile il rapporto che l'Organizzazione per le Foreste Tropicali (Inernational Tropical Timber Organization - ITTO) ha reso noto qualche mese fa: meno del 5% delle foreste tropicali sono gestite con pratiche sostenibili, mentre il taglio illegale continua ad intaccare pesantemente le foreste tropicali. «I nostri più vicini parenti nel mondo animale, gorilla, scimpanzè, bonobo e orango, rischiano di scomparire per sempre per la perdita del loro habitat – spiega allarmato Sergio Baffoni, di Greenpeace - certo non vivranno nelle piantagioni di eucalipto. Con loro scompariranno moltissimi altri animali: i due terzi delle specie animali e vegetali terrestri hanno nelle foreste il proprio habitat. Confondere una piantagione con una foresta intatta è un tragico errore».
E mentre il rapporto FAO dice che le foreste europee e del Nord America sono in netta crescita, Greenpeace dice che anche le foreste boreali sono a rischio. «La Finlandia incrementa la propria superficie boscata, ma allo stesso tempo si appresta a distruggere gli ultimi frammenti di foresta primaria, malgrado gli avvertimenti di tutta la comunità scientifica del paese - sottolineano gli ambientalisti - in Canada continua la pratica del taglio a raso, che erode progressivamente le preziose foreste borali». Non si tratta solo di proteggere la biodiversità sempre più minacciata. Secondo la Banca Mondiale, 1,2 miliardi di persone hanno bisogno delle foreste per sopravvivere. La perdita di foreste naturali causerà un incremento della povertà, dell'insicurezza e dell'instabilità sociale. Greenpeace sta mettendo all'indice il gigante finnico-svedese Stora Enso, il principale acquirente di fibre di legno dalla Metsähallitus un´agenzia statale, che secondo gli ambientalisti sta distruggendo le foreste affidatele: «Con il legno proveniente da queste preziose foreste - spiegano gli attivisti finlandesi di Greenpeace - Stora Enso produce carta per riviste stampate in tutto il mondo, Italia inclusa, e risme da fotocopie». La Stora Enso ribatte che la biodiversità in quelle foreste è adeguatamente salvaguardata, ma 240 scienziati di università e istituti statali finlandesi di ricerca chiedono di fermare il taglio nelle foreste naturali del Paese, perché non sostenibile dal punto di vista ecologico e che violerebbe gli accordi internazionali sottoscritti dalla Finlandia per la protezione della biodiversità. sono proprio gli scienziati ad avvertire che le operazioni forestali in programma causeranno un cambiamento irreversibile. La stessa FAO, fa rilevare anche che le foreste sono esposte anche a pericoli come insetti, malattie, specie invasive e incendi. «I trasporti rapidi, la facilità degli spostamenti e il commercio internazionale in espansione hanno facilitato la propagazione della devastazione». Tra l'80 e il 99% degli incendi boschivi sono di natura antropica, dovuti al dissodamento agricolo e ai piromani , mentre i fulmini sono la causa principale degli incendi non provocati dall'uomo. È evidente che le foreste saranno colpite profondamente dai cambiamenti climatici, e che i danni causati dall'aumento degli incendi, dei parassiti e delle malattie sono destinati a crescere. (Pubblicato su Ecplanet 20-03-2007) LINKS
Biodiversity 'fundamental' to economics BBC News 09 marzo 2007
Greenpeace: The world’s climate being betrayed by G8 states 16 marzo 2007 State of the Worlds Forest's 2007 ITTO has failed to end tropical forest destruction says Greenpeace 07 maggio 2007
ITTO Greenpeace International Food and Agriculture Organization of the United Nations L'estinzione è un processo naturale. L'evoluzione prosegue il suo cammino, molte specie spariscono e nuove specie emergono, in un processo dinamico chiamato “background extinction”. Inoltre, la storia geologica è stata sottolineata da 5 grandi estinzioni di massa, che hanno portato alla scomparsa di un gran numero di specie, dovuto a possibili eventi drammatici quali possono essere l'impatto con qualche asteroide o il mutamento del livello del mare. Oggi, molte testimonianze inducono gli esperti a ritenere che vi sia in atto una “sesta onda di estinzione”, una diminuzione delle specie dovuta soprattutto alle attività umane. Secondo la World Conservation Union o IUCN (International Union for the Conservation of Nature and Natural Resources), che raggruppa un consesso internazionale a cui partecipano 83 paesi, 800 ong (organizzazioni non governative) e 10.000 scienziati ed esperti dediti a preservare la biodiversità della Terra, attualmente sono 3.071 le specie a rischio. Come dimostra il report “European Mammal Assessment”, rilasciato dalla World Conservation Union in occasione dell'International Biodiversity Day lo scorso 22 maggio, un sesto delle specie di mammiferi presenti sul suolo e nei mari del Vecchio Continente potrebbe sparire molto presto dalla faccia della terra se non saranno presi subito provvedimenti: con il documento dell' “Habitats Directive”, l'Unione Europea ha chiesto agli stati membri di adoperarsi per far sì che entro il 2010 il processo che sta portando alla perdita della biodiversità venga arrestato. Secondo i dati IUCN, il 15% delle 250 specie di mammiferi che popolano l'Europa e la Russia occidentale sono classificate come vulnerabili, o peggio, ovvero a rischio di estinzione. In particolare, è molto critica la posizione di un gruppo di mammiferi europei, classificati come “in grave pericolo”, tra cui vi sono: la lince iberica (una specie di gatto selvatico che ha prosperato in Spagna, Portogallo e Francia del sud, di cui restano circa 120 esemplari, sparsi in Andalusia. L'estinzione della lince iberica sarebbe la prima specie selvaggia ad andare estinta dopo circa 2.000 anni), la volpe artica, il visone europeo, l'orango dell'isola di Sumatra (che sta sparendo ad un tasso di circa 1000 esemplari l'anno), il cammello selvaggio di Bactrian, cammello a due gobbe antenato dei cammelli domestici (anche se è sopravvissuto a 45 anni di test nucleari nel Gashun Gobi, non è più in grado di sopportare le attività correnti, che includono l'estrazione, la caccia, lo sviluppo industriale e la miscelazione genetica con i cammelli domestici. Ne restano circa 650 esemplari in Cina e 350 in Mongolia), la gazzella dama, diffusa nel deserto del Sahara (nell'ultima decade, è sparita per circa l'80%, soprattutto a causa della caccia e della distruzione dell'habitat. Ne restano non più di 100 esemplari nei territori del nord Africa, nel Ciad, nel Niger e nel Mali), il vombato dal naso peloso (ne esistono circa 100 esemplari che vivono in un'area protetta del Queensland, in Australia), il pipistrello delle Seychelles, l'alligatore cinese, il rinoceronte nero bicorno (i loro corni sono molto usati come ornamenti e per le loro proprietà medicinali, se ne contano appena 1000 esemplari), il Tamarin pezzato bicolore brasiliano (si stà estinguendo a causa dell'espansione della foresta pluviale e delll'agricoltura intensiva), la tartaruga di Leatherback, la più grande di tutte le tartarughe marine (il numero si è ridotto fra le 43.00 e le 26.000 unità). Più grave ancora sarebbe la situazione dei mammiferi marini, a rischio estinzione per il 22% per cento. Se si considera poi che per circa la metà di queste specie non si possiedono dati a sufficienza per procedere a una classificazione, la situazione potrebbe essere anche più catastrofica. Come ai tropici, dove, in media, una specie su quattro è ufficialmente in pericolo, principalmente a causa della deforestazione, ma anche per il progressivo degrado degli habitat naturali, l'inquinamento e la caccia. A meno di un cambiamento radicale dello stile di vita umano, su cui non c'è da sperare, il numero delle specie a rischio è purtroppo destinato a salire ovunque.
Brutte notizie anche per le balene, sempre a più rischio a causa dei cambiamenti climatici che minacciano di stravolgere gli habitat e le fonti di sostentamento. Oltre le balene, a rischio anche delfini ed altri cetacei, sempre più minacciati dai cambiamenti climatici. Lo afferma il dossier “Whales in hot water” pubblicato dal WWF in collaborazione con la Whale and Dolphin Conservation Society (WDCS). Per l'organizzazione ambientalista, gli impatti del cambiamento climatico sui cetacei sono sempre più incisivi: dal raffreddamento delle acque del mare per lo scioglimento dei ghiacci e l'aumentata frequenza delle piogge, fino a un aumento del livello dei mari, alla scomparsa di habitat polari e al declino delle popolazioni di krill, piccoli crostacei che rappresentano la principale fonte di cibo per molte popolazioni di balene. Il mare ghiacciato dell'Artico si riduce ad un ritmo spaventoso (tra il 2005 e il 2006 è andata persa un'area ghiacciata estesa quanto l'Italia) e l'impatto del clima si somma ai problemi indotti da altre attività umane, come inquinamento chimico o acustico, collisioni con le navi e cattura accidentale nelle reti da pesca, che uccidono ogni giorno circa mille cetacei. Con la diminuzione dei ghiacci, è presumibile che aumenteranno anche le attività umane in aree artiche fino ad ora rimaste intatte. «Balene, delfini e cetacei hanno una certa capacità di adattarsi ai cambiamenti del proprio habitat - afferma Gianfranco Bologna, direttore scientifico del WWF Italia - ma il clima sta cambiando talmente in fretta che non è chiaro fino a che punto riusciranno a cavarsela. Gli Stati occidentali – continua Bologna – hanno un dovere ben preciso nei confronti di queste specie». Gli impatti del cambiamento climatico sono particolarmente gravi nell'Artico e nell'Antartico e i cetacei che dipendono dalle acque polari per il sostentamento e la sopravvivenza - come belughe, narvali e balene della Groenlandia - saranno drammaticamente colpiti, afferma il rapporto. Tra gli altri impatti, il WWF cita la riduzione di habitat per diverse specie di cetacei che non sono in grado di trasferirsi in acque più fredde (come i delfini di fiume), l'acidificazione degli oceani e un peggioramento delle condizioni fisiche dei cetacei (malattie, capacità riproduttiva, tasso di sopravvivenza). Il cambiamento climatico potrebbe anche essere il colpo di grazia per le ultime 300 balene franche del Nord Atlantico. Non se la passano bene neanche gli squali, da predatori a predati. Le associazioni Marevivo e Shark Alliance hanno lanciato un appello per l'adozione di misure di emergenza per la tutela di queste specie. Secondo Shark Alliance, sono 75 milioni quelli uccisi ogni anno, con un aumento delle catture del 22% solo nell'ultimo decennio. “Nel Mediterraneo sono presenti poco più di 80 specie di squali, sulle oltre 1.000 presenti nel mondo - ha spiegato Giuseppe Notarbartolo di Sciara, fondatore dell'Istituto Tethys - ma non per questo sono meno minacciate da catture dirette, accidentali e dal degrado dell'habitat”. Il piano per l'emergenza squali in Italia esiste già: “Da sette anni l'ICRAM lavora su questi temi - ha affermato Silvio Greco, direttore di ricerca dell'Istituto - ed è pronto ad aggiornare i dati in modo da consegnare entro giugno al ministro il piano d'azione”. Ma quale sarà il piano? “Sicuramente ottenere informazioni sulla composizione e la distribuzione delle specie nei mari italiani - ha aggiunto Greco - oltre a strumenti legislativi per ridurre l'impatto dell'azione dell'uomo in ambiti come trasporti, pesca e inquinamento”. Quella degli squali infatti è una specie in cima alla catena alimentare, la cui scomparsa scatenerebbe un effetto domino dall'alto verso il basso con risultati incontrollabili nell'ecosistema marino. “Gli squali crescono lentamente, generano pochi piccoli e una volta decimati stentano a riprendersi - spiega Rosalba Giugni, presidente di Marevivo - questo li rende particolarmente vulnerabili a uno sfruttamento eccessivo e indiscriminato”. E l'Italia, come quarto importatore di carne di squalo nel mondo ha le sue responsabilità. Una recente ricerca effettuata da studiosi della Dalhousie University del Canada ha messo in luce una preoccupante situazione anche per il Nord Atlantico. Gli studiosi hanno preso in considerazione il periodo che va dal 1970 al 2005 e hanno constatato che i danni sono più gravi di quanto si era precedentemente stimato: le specie di squalo martello e squalo tigre sono diminuite del 97% mentre lo squalo toro è diminuito addirittura del 99%. Lo squalo toro, “Charchairas Taurus”, ha un corpo lungo e massiccio che può superare i tre metri, lo squalo martello, “Sphyrna mokarran”, è uno tra gli squali più antichi ed ha come caratteristica principale la strana forma del muso che assomiglia ad un martello; lo squalo tigre invece, “Galeocerdo cuvier”, così chiamato per le sue striature scure verticali lungo i fianchi, possiede un corpo slanciato ed affusolato che può raggiungere anche i 7 metri. La forte diminuzione di queste tre specie di squalo lungo la costa atlantica degli Stati Uniti ha portato ad uno squilibrio all'interno dell'ecosistema. Essendo infatti questi
squali dei grandi predatori, la loro progressiva scomparsa ha determinato un aumento di quelle specie marine che erano loro prede. Per porre rimedio a questa pesante situazione, i ricercatori propongono di limitare la pesca allo squalo e di vietare la caccia alle pinne sia in acque nazionali che in mare aperto. La sopravvivenza della tigre asiatica è legata a doppio filo alla perdita dell'habitat e delle prede, ma anche all'inarrestabile boom economico della Cina. Cacciati illegalmente, questi animali, infatti, diventano preziosi ingredienti della medicina tradizionale ancora praticata nel Paese della Grande Muraglia, di cui i “nuovi ricchi” vogliono fare uso. A lanciare l'allarme per salvare gli ultimi esemplari della specie “Panthera tigris” è Bivash Pandav, coordinatore del programma tigri e grandi felini asiatici del WWF. «Le stime ufficiali, che parlano di circa 6.000 esemplari, ormai risalgono a sette anni fa e possono essere considerate ottimiste - spiega Pandav - secondo i nostri calcoli, con la riduzione del 40% del loro habitat, negli ultimi dieci anni ormai le tigri saranno circa tra i 3.000 e 3.500 individui». Le tigri abitano fra l'India e la Cina sudorientale e tra l'estremo oriente russo fino a Sumatra. «In Cina, dove un secolo fa viveva la maggioranza delle tigri asiatiche, oggi esistono centinaia di allevamenti di tigri in cattività, come in Occidente facciamo con i polli, mentre allo stato selvatico non saranno rimasti più di 15 individui», afferma Susan Lieberman, direttrice del programma specie internazionali del WWF. Una tigre, che uccisa in India e nel Sud Est asiatico (Malesia, Indonesia, Laos, Vietnam) all'inizio vale pochi dollari, nella rotta del traffico arriva a costare prima intorno ai 500 euro, per poi arrivare a cifre più elevate in Cina, passando dall'India attraverso Nepal o Bangladesh. Stilando una classifica dei Paesi dove la specie risulta più a rischio di estinzione, «l'area numero uno è la Malesia, seguita da India, Nepal e poi dalle foreste della Russia», dice Pandav. La chiave per riportare il numero di esemplari ad una cifra accettabile sarebbe la conservazione degli ecosistemi, ma anche l'educazione, soprattutto dei cinesi che si affidano a queste medicine illegali. «La caccia della tigre non è qualcosa che appartiene alle popolazioni che la praticano - conclude Pandav - ma è il risultato della forte richiesta attuale da parte della Cina». Una nuova ricerca pubblicata dal CGIAR (Consultative Group on International Agricultural Research) lancia l'allarme sul rischio di estinzione che corrono anche specie selvatiche di piante, come la patata e l'arachide, dovuto agli effetti negativi dei cambiamenti climatici: si rischia la perdita di una fonte vitale di geni, necessari ad incrementare la capacità di colture agrarie di resistere alle condizioni di siccità e peste. Secondo gli scienziati che hanno condotto lo studio, nei prossimi cinquanta anni, rischiano l'estinzione circa 31 di 51 (61%) specie di arachidi selvatiche ed 13 di 108 (12%) specie di patate selvatiche. Le colture restanti saranno limitate ai suoli sempre più marginali, erodendo così ulteriormente la loro capacità di sopravvivenza. I risultati della ricerca sono stati resi noti durante la Giornata Internazionale di Biodiversità, organizzata dalla Convenzione sulla Diversità Biologica (Convention on Biological Diversity - CBD). Andy Jarvis ed i suoi coautori, studiando gli effetti dei cambiamenti climatici su queste tre colture in Africa e Sud America, hanno avuto la possibilità di considerare come le comuni popolazioni di piante selvatiche si comporterebbero di fronte ad una larga variazione delle condizioni di coltivazione. Riferisce Jarvis, uno degli autori della ricerca, che lavora in due centri CGIAR (al Bioversity International con sede centrale a Roma e al Centro Internazionale per l'Agricoltura Tropicale (CIAT) in Colombia): “I risultati ottenuti indicano che la sopravvivenza di molte specie selvatiche di colture, e quindi non solamente di patata, arachide e fagiolo, sono minacciate seriamente. Pertanto, è urgente raccogliere e conservare i semi di piante selvatiche prima che esse scompaiano. Attualmente, le collezioni esistenti contengono una bassa percentuale di diverse specie selvatiche nel mondo”. L'estinzione di specie selvatiche di colture rappresenta una seria minaccia per la produzione alimentare, essendo custodi di geni caratteristici importanti, fondamentali per la resistenza alla peste e tolleranza alla siccità. Si tratta di quei geni che i ricercatori utilizzano per migliorare le prestazioni di varietà coltivate. Di conseguenza, è previsto l'intensificazione dell'utilizzo di specie selvatiche per aumentare il carattere di tolleranza e resistenza alle malattie delle loro cugine specie coltivate; visto che con i cambiamenti climatici, farà troppo caldo, troppo freddo, troppo umido o troppo arido, per permettere a molte varietà di colture esistenti di continuare a produrre ai loro livelli correnti. Di recente, i geni di piante selvatiche hanno permesso ai ricercatori di sviluppare nuovi tipi di patate commestibili, resistenti alla devastante malattia della ruggine della patata, e nuovi tipi di grano con più tolleranza alle avverse condizioni di siccità. Allo stesso modo,
attraverso programmi di miglioramento genetico appropriato, specie selvatiche di arachide sono risultate fondamentali nello sviluppo di nuove varietà, resistenti ai nematodi fitoparassiti e alla peronospora, una muffa che attacca le foglie. Negli Stati Uniti, il valore delle nuove varietà prodotte è stimato nell'ordine di svariati milioni di dollari annui. La coordinatrice di un importante progetto mondiale sulle piante selvatiche, sovvenzionato da più soggetti internazionali, e con a capo la Bioversity International, Annie Lane, ha affermato che, “l'ironia qui è che i ricercatori conteranno più che mai su piante selvatiche per sviluppare colture domestiche in grado di adattarsi ai continui cambiamenti climatici. Ma, proprio a causa dei cambiamenti climatici, rischiamo di perdere una quantità significativa di queste vitali risorse genetiche, nel momento di maggior bisogno per garantire la produzione agricola”. Una parte importante degli attuali sforzi del CGIAR è di condurre ricerche per identificare le piante selvatiche (potenzialmente) minacciate dai cambiamenti climatici, con lo scopo di anticipare e mitigare gli effetti del riscaldamento atmosferico sull'agricoltura. Negli ambienti locali, nazionali ed internazionali, i ricercatori del CGIAR stanno mettendo a punto, opzioni innovative per migliorare l'adattamento di colture agrarie ai cambiamenti climatici. Inoltre, nuove ricerche nei centri CGIAR hanno come obiettivo principale la conoscenza degli impatti dei cambiamenti climatici sulle risorse naturali, come l'acqua, la pesca e le foreste e la loro miglior gestione per soddisfare i bisogni delle popolazioni in aumento. I cambiamenti climatici minacciano le meraviglie della natura. È allarme rosso per i paradisi del Pianeta. Nel dossier del WWF dal titolo “Salviamo le meraviglie naturali del mondo dal cambiamento climatico”, diffuso a Bruxelles in concomitanza con la seconda parte del rapporto del Comitato Intergovernativo sul Mutamento Climatico (IPCC), si legge che sono dieci le meraviglie della natura più a rischio: la barriera corallina - il cui valore complessivo, fondato sulla ricchezza di biodiversità che raccoglie, è calcolato approssimativamente in 30 miliardi di dollari - si sta sbiancando per le elevate temperature dei mari e rischia una progressiva distruzione, con drammatiche conseguenze per le innumerevoli forme di vita che vi trovano sostentamento (pari al 25% della vita marina) e per molte popolazioni in via di sviluppo. Ma soffrirà, ad esempio, anche il deserto di Chihuahua, l'area secca più ricca di biodiversità, con oltre 3.500 specie di piante, di cui un migliaio endemiche, il cui delicato equilibrio idrico è seriamente minacciato dalla variazione delle precipitazioni e dai lunghi periodi di siccità. Grave lo scenario anche per il motore idraulico del mondo, il Rio delle Amazzoni, un regolatore climatico per tutto il pianeta, che riversa nell'oceano circa un quinto dell'acqua dolce che complessivamente vi confluisce: il fiume subirà un prosciugamento diffuso, con la possibilità che buona parte della foresta pluviale si trasformi in un'arida savana. Guardando in alto, i ghiacciai dell'Himalaya (Nepal, Cina, India), veri e propri “serbatoi” che danno acqua a centinaia di milioni di persone, oltre ad una ricca varietà di specie animali, si ritirano di circa 10 metri all'anno, causando la formazione di laghi precari ad alto rischio inondazione. La conseguenza sarà che 500 milioni di persone e il 37% del terreno coltivato indiano patiranno la mancanza d'acqua. “Il WWF fa la sua parte con oltre 2000 progetti di conservazione attiva - commenta Gianfranco Bologna, direttore scientifico di WWF Italia - si tratta di esempi concreti di attuazione della sostenibilità, ma possono restare gocce nell'oceano senza adeguate politiche di sostegno per reagire ai cambiamenti che noi stessi stiamo inducendo nei sistemi naturali”. Nelle Isole Galpagos è stato proclamato lo stato di emergenza. Il presidente dell'Ecuador Rafael Correa, ha dichiarato che presto saranno adottare una serie di misure per proteggere quello che in tutto il mondo è noto come un ecosistema unico e di straordinaria importanza. Gruppo di isole vulcaniche situato nell'oceano Pacifico a un migliaio di chilometri di distanza dalla costa dell'Ecuador (a cui appartengono), le isole Galapagos sono considerate una riserva di diversità biologica di prima importanza proprio a causa del loro isolamento: le isole e le acque circostanti sono popolate da specie di tartarughe antichissime, iguane di mare e di terra, rare varietà di fringuelli, l'unica specie di pinguino che viva in acque
tropicali. La gran parte delle specie di flora e fauna pre-umane (cioè, che sono apparse sul pianeta in epoche anteriori alla comparsa della specie umana) ancora viventi si trova in quell'arcipelago. Non per nulla, è proprio là che a metà del 19esimo secolo il naturalista Charles Darwin, nel suo famoso giro del mondo, collezionò osservazioni fondamentali per formulare la sua teoria sull'evoluzione delle specie. Oggi le Galapagos sono abitate, oltre che da iguane e tartarughe, da una crescente popolazione umana che si guadagna da vivere con la pesca e con il turismo. Ed è questo il problema: l'arcipelago attira un turismo «ecologico» in aumento, così come è in aumento la popolazione residente, circa 18mila persone, di cui le autorità stimano che circa 15mila siano immigrati illegalmente. Una missione delle Nazioni Unite, composta da esperti dell'UNESCO e dell'IUCN, ha constatato che la crescita del turismo rende difficile la salvaguardia dell'ecosistema: l'espansione di turismo e pesca hanno attirato immigranti dalla costa, la pressione sulle riserve ittiche è aumentata, aragoste, cetrioli di mare e cernie sono declinati drasticamente negli ultimi 15 anni. Dal continente, inoltre, non sono arrivati solo esseri umani. La missione UNESCO-IUCN ha rilevato la presenza di almeno 748 specie di piante «aliene», rispetto alle 500 specie native, facendo notare che il 60% delle 180 specie endemiche di piante sono minacciate. Ci sono poi 490 specie di insetti e 53 di altri invertebrati di cui 55 minacciano la biodiversità nativa. Le conclusioni della missione saranno presentate al Comitato Intergovernativo del Patrimonio Mondiale nel corso della sua prossima sessione, che si terrà a Christchurch, in Nuova Zelanda, dal 23 giugno al 2 luglio. Il Comitato esaminerà le conclusioni della missione e concorderà le misure da prendere, soprattutto la possibilità di iscrivere le isole di Darwin come nella lista del patrimonio mondiale in pericolo. (Pubblicato su Ecplanet 29-05-2007) LINKS
One in six European mammals threatened with extinction shows new IUCN assessment 22 maggio 2007 Whales in Hot Water: Global Warming's Effect on World's Largest Creatures 21 maggio 2007
Mediterranean Sharks and Rays in Danger of Extinction 16 novembre 2007 Sharks extinction threat ABC
Sumatran tiger being hunted to extinction New Scientist 16 marzo 2004 Saving Earth's Plant Diversity From Global Warming 22 maggio 2007
Le dieci meraviglie della natura minacciate dai cambiamenti climatici 10 maggio 2007
International biodiversity day European Mammal Assessment Convention on Biological Diversity IUCN - The World Conservation Union Convenzione del Patrimonio Mondiale UNESCO The 2006 IUCN Red List of Threatened Species World Wildlife Fund's Borneo and Sumatra Program Un mammifero su quattro e un uccello su otto, un terzo di tutti gli anfibi e il 70% di tutte le piante catalogate sono in pericolo d'estinzione. È l'ennesimo allarme di «estinzione globale» che questa volta viene dall'annuale «Lista Rossa delle Specie Minacciate» a cura dell'Unione Mondiale per la Conservazione della Natura (IUCN), pubblicata dal quotidiano francese Le Monde, considerata dagli esperti il più completo indicatore della biodiversità. Sarebbero 16.306 le specie minacciate, e 65 quelle estinte allo stato selvatico. Quest'anno si è aggiunta, alle 784 specie che l'IUCN considera totalmente estinte, la Begonia eiromischa, una pianta della Malesia il cui ultimo esemplare è stato visto nel 1898. Gli uccelli, i mammiferi e gli anfibi più minacciati si trovano nelle regioni con foreste tropicali, concentrato di biodiversità. Australia, Brasile, Cina e Messico guidano la classifica dei paesi ospitanti la maggior quantità di specie a rischio. La Lista rossa registra una sola storia positiva: il parrocchetto Echo delle Mauritius passa dalla lista delle specie «gravemente minacciate» a quella delle specie «minacciate» grazie a una misura di conservazione, cioè l'allevamento in cattività di 139 uccelli poi liberati nell'ambiente selvatico. In testa tra le specie più minacciate ci sono i nostri cugini: il gorilla occidentale (Gorilla gorilla) è passato da specie in pericolo a specie in pericolo critico: la sua principale sottospecie, il gorilla delle pianure (Gorilla gorilla gorilla) è stata decimata dal commercio di carne, dal virus ebola (che ha fatto strage anche fra gli individui che vivono all'interno di aree effettivamente protette) e dai massacri legati agli interessi predatori sulla regione (la sua popolazione è diminuita del 60% negli ultimi 20-25 anni). L'orangutan di Sumatra (Pongo abelii) è specie in pericolo critico così come l'orangutan del Borneo (Pongo pygmaeus): minacciati dalla perdita del loro habitat peculiare, a causa del taglio illegale e legale degli alberi di foresta per far spazio a piantagioni da olio di palma (soprattutto per il biodiesel). Anche lo scimpanzé occidentale, che vive in Africa orientale e centrale, è particolarmente minacciato dalla perdita degli habitat, dal bracconaggio e dalle malattie. Sempre in Africa, la gazzella di Speke è stata decimata dalla caccia, dalla siccità e dall'eccessivo sfruttamento dei pascoli in Somalia ed Etiopia. Dopo un'intensa ma infruttuosa ricerca, il delfino del fiume Yangtzé (Lipotes vexillifer) è stato inserito nella categoria delle specie in pericolo critico, forse estinta. Cause: pesca, traffico fluviale, contaminazione e degrado degli habitat.
Per la prima volta sono stati valutati anche i coralli. Sono state inserite nella Lista dieci specie delle Galapagos, causa il Niño e i cambiamenti climatici che riscaldano i mari. Molte minacce alla biodiversità superstite vengono anche dalla pesca eccessiva che decima pesci e tartarughe. Per quanto riguarda le migliaia di specie vegetali, in pericolo c'è l'albicocco selvatico (Armeniaca vulgaris), albero dell'Asia centrale che è l'antenato diretto di piante coltivate in tutto il mondo. Minacciato dallo sviluppo turistico, dallo sfruttamento del suo legno, dall'estrazione di materiale genetico. “La lista rossa dell'IUCN mostra che gli sforzi inestimabili fatti fino ad ora per proteggere le specie sono insufficienti”, ha detto a Le Monde Julia MartonLefevre, direttrice generale di questo organismo che raggruppa 83 paesi, oltre 800 organizzazioni non governative ed una rete di esperti provenienti da 181 paesi. Secondo la direttrice, “il ritmo dell'erosione della biodiversità è in accelerazione, bisogna agire senza più aspettare”. Oggi gli spazi protetti rappresentano il 12-13% del territorio terrestre, “ma non sono sufficienti per aprire una riserva naturale”, secondo lo studioso francese Robert Barbault, secondo lui una possibile soluzione è mantenere grandi spazi naturali diversificati per preservare la biodiversità. Per discutere la questione, gli specialisti della biodiversità si incontreranno dal 15 al 17 novembre a Montpellier nell'ambito del Meccanismo Internazionale di Stima Scientifica sulla Biodiversità (Pubblicato su Ecplanet 02-10-2007) LINKS
Gorillas head race to extinction BBC News 12 settembre 2007 LA SESTA ESTINZIONE «Questo non è il primo libro nel quale si sostiene che Homo sapiens, diventato com’è la specie dominante sulla Terra, sta probabilmente causando una catastrofe biologica di immense proporzioni attraverso l’erosione, a un ritmo allarmante, della diversità della vita. (...) Tuttavia questo libro è effettivamente il primo ad affrontare il fenomeno considerando Homo sapiens come nient’altro che una specie, in un flusso di vita che ha una lunga storia e un lungo futuro. Per conoscere noi stessi come specie, e comprendere il nostro valore nell’universo delle cose, dobbiamo prendere le distanze dalla nostra esperienza, sia in termini di spazio che di tempo». “La Sesta Estinzione” - “La vita sulla Terra e il futuro del genere umano”, di Richard Leakey, il più noto paleontologo vivente, e Roger Lewin, del New Scientist (Bollati Boringhieri 2000) – è un appassionante e inquietante allo stesso tempo che tratta del futuro della vita sulla Terra. Nel corso della sua lunga storia si sono avute cinque grandi estinzioni, la più recente delle quali ebbe luogo 65 milioni di anni fa, quando in un lasso di tempo incredibilmente breve un istante geologico - perirono i grandi dinosauri. Furono catastrofi inimmaginabili, e in un caso almeno, la cosiddetta estinzione permiana, la vita corse il rischio di sparire dalla faccia della Terra: venne spazzato via il 95% di tutte le specie.
Il perché delle estinzioni - improvviso mutamento climatico, impatto con asteroidi, inadeguatezza evolutiva è al centro di vivaci dibattiti, ma il loro svolgimento sembra comunque seguire un copione ben definito. Anche oggi, la macchina distruttiva opera a pieno regime: ogni anno scompaiono oltre trentamila specie, ma questa volta non occorre andare lontano per individuare la causa. Il comportamento rapace dell'Homo Sapiens nei confronti dell'ambiente naturale lacera la complessa trama del vivente e, rompendo antichi equilibri, mette addirittura in forse le condizioni della sua sopravvivenza. Senza una decisa correzione di rotta a difesa della biodiversità - ammoniscono gli autori - anche l'uomo farà ben presto la fine del mastodonte e dello pterodattilo e li seguirà nell'oblio dell'estinzione. Secondo due grandi ricerche condotte in Inghilterra, la Terra sarebbe sull'orlo della sesta grande estinzione di massa, simile alle cinque che l'hanno preceduta. Finora, l'ipotesi di un'estinzione di massa si è sempre basata sull'analisi di dati relativi a limitati gruppi di animali e piante. Ma le informazioni sugli insetti, che sono circa il 50% delle specie conosciute, sono sempre state molto scarse. Secondo un primo studio, gli insetti che vivono in Inghilterra si starebbero estinguendo allo stesso ritmo, se non in misura maggiore, di altri animali più studiati o meno resistenti. Se altrettanto stesse accadendo anche nel resto del mondo - ha spiegato Jeremy Thomas, direttore del Centro per l'Ecologia di Dorset, in Inghilterra, che ha condotto lo studio - staremmo assistendo alla più grande estinzione dal tempo dei dinosauri, quando dal 65 al 95% delle specie presenti sulla Terra scomparvero. Miliardi di dati. Thomas ha analizzato le informazioni relative a uccelli, piante e farfalle inglesi degli ultimi 40 anni, raccolte attraverso i dati di oltre 20 mila naturalisti. I ricercatori hanno scoperto che il 71% delle specie di farfalle sono drasticamente diminuite negli ultimi 20 anni. Lo stesso è avvenuto per il 54% degli uccelli e il 28% delle piante studiate. E in alcuni casi (due specie di farfalle e sei di uccelli) si sono completamente estinti. Quali le cause? Secondo Thomas, il declino della popolazione è uniforme in tutta l'Inghilterra e sembrerebbe causato dalla perdita di un habitat "naturale" ormai irrimediabilmente "contaminato" dalle "sporche" attività dell'uomo. Quest'affermazione sarebbe fortemente supportata, almeno per le piante, da un altro studio, condotto sempre in Inghilterra, che ha scoperto come l'inquinamento da azoto riduca il numero di specie. Secondo i dati più aggiornati, il suolo inglese (e quello dell'Europa centrale) ricevono una media di 17 chilogrammi di composti d'azoto per ettaro all'anno. Troppi per i ricercatori, che mettono in guardia: potrebbero uccidere il 20% delle specie di piante erbose. L'ULTIMA ONDA L'avvocato David Burton accetta di difendere a Sidney un gruppo di aborigeni accusati di omicidio. Durante la preparazione del processo, Burton scopre che i suoi assistiti fanno parte di una setta iniziatica, e finisce per subire il misterioso fascino di questa cultura a lui sconosciuta. La costruzione del processo coincide con una serie di drammatiche e inspiegabili perturbazioni climatiche e con l'impressione che l'avvocato ha di vivere situazioni sognate da bambino. Chris, uno degli imputati, gli spiega che quanto accade si ricollega ai ritorni ciclici del tempo e gli insinua il dubbio di essere lui stesso un "mulkurul", il messaggero che annuncia periodicamente la fine del mondo. Quando la causa è perduta, Burton, ossessionato dalle parole dell'aborigeno e spinto a sondare i segreti della sua mente, scopre nei sotterranei di una centrale elettrica un antico santuario che conserverebbe i segni premonitori di una catastrofe imminente. Tornato in strada, Burton assiste impotente all'arrivo di una immensa onda che sommergerà la città intera.
“L'Ultima Onda” condivide con una certa fantascienza cinematografica la riflessione angosciosa sulla possibilità di una prossima fine del mondo. Il tema svolge una riflessione critica sul significato dell'esistenza e interroga sulle contraddizioni strutturali della società contemporanea. Sviluppandosi tra sociologia, etnologia e filosofia, il racconto pone il drammatico contrasto tra due civiltà solo apparentemente integrate: quella aborigena legata a pratiche religiose e magiche fondate sulla sintonia tra uomo e natura, e quella dei bianchi, permeata di ignoranza e razzismo, superbamente puntellata sull'asserito equilibrio tra ragione ed ordine. La cultura aborigena - tanto più "diversa" in quanto poco nota al pubblico occidentale - si colora, nel contesto della vicenda, come forza sotterranea (il santuario, significativamente, è nel sottosuolo della realtà cittadina) umiliata dalla colonizzazione dei bianchi e dal loro progresso industriale (sul santuario è stata costruita una centrale elettrica), ma umorosamente confusa con la terra e con il paesaggio (oltre la relativamente piccola Sydney si aprono paesaggi semidesertici a perdita d'occhio). Il male della storia, sembra dire il film, è dimenticare le radici: una colpa che genera il disprezzo, l'ottusità, la violenza e che sfocia fatalmente nell'autodistruzione. LINKS
Earth faces sixth mass extinction New Scientist 18 marzo 2004 Sixth Extinction: Biodiversity and its survival Richard Leakey and Roger Lewin New Scientist 02 marzo 1996
The Last Wave - Wikipedia PESTICIDI KILLER ECO APOCALYPSE LA VERITA’ DEL GHIACCIO EFFETTO SERRA ALLA SBARRA ESTINZIONE GLOBALE 2022 i SOPRAVVISSUTI ULTIMATUM ALLA TERRA
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