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vicenzaabc la città a chiare lettere
venerdì 9 aprile 2004, numero 4, anno III
SETTIMANALE DI INFORMAZIONE, CULTURA, POLITICA, ASSOCIAZIONISMO, SPETTACOLO
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Un ruolo per la chiesa La venuta di un nuovo vescovo può ben difficilmente venire considerato un fatto di ordinaria amministrazione, un semplice avvicendamento di una carica ecclesiastica, certamente rilevante, ma limitato all’ambito strettamente religioso e al sistema chiesa. La chiesa cattolica continua invece a svolgere in Italia, ed ancor più in Veneto dove la parrocchia ha sempre avuto un forte radicamento sociale, importanti funzioni sociali oltre che culturali e spirituali. Con questo non si vuole dire che non sia cambiato nulla rispetto al passato. I mutamenti sono anzi evidenti. La chiesa, e la parrocchia in ambito locale, non rivestono più quella centralità culturale che assumevano in un passato anche recente, quando una società ancora contadina trovava lì i propri riferimenti culturali. Non si sono eclissate, ma costituiscono solo uno dei soggetti che influenzano la cultura di una società che è ormai definitivamente diventata plurale. Si è andata restringendo l’area costituita dalle materie su cui detti interventi vengono ritenuti legittimi o possono sperare di ottenere ascolto. Basterebbe pensare alla sfera politica, ma anche a quella dell’agire economico, spazi di discorso su cui ben difficilmente si accettano oggi prese di posizione ecclesiastiche, anche se il plauso unanime per le encicliche papali può far pensare diversamente. Ma tutto ciò non significa che la chiesa in Italia e a Vicenza non conservi un ruolo primario rispetto a funzioni sociali vitali. Nella formazione delle nuove generazioni innanzitutto. In campo sociale in secondo luogo, dove una serie di problemi non risolti nelle politiche di welfare, le tendenze a tagliare reti che si credevano consolidate di protezione sociale, la ridefinizione degli equilibri tra intervento pubblico e del privato sociale, la persistenza anche nelle società avanzate di problemi sociali che i servizi non riescono ad affrontare, vedono una presenza crescente delle chiesa cattolica che non solo ripropone, ma rilancia di fatto il suo radicamento sociale e contribuisce ad allargarne la credibilità anche presso strati di popolazione che pure dicono di non appartenervi. La rapidità dei cambiamenti che hanno interessato la convivenza civile nel nostro Paese infine, il quadro di crescente incertezza in cui questa versa, la carenza di linguaggi condivisi che possano rifondarla, la sensazione diffusa di mancanza di valori comuni di riferimento, a partire da quello dell’unità nazionale, possono infine contribuire a rafforzare il rilievo culturale di un soggetto come la chiesa cattolica che viene considerata dalla gente positivamente, spesso anche quando non viene ascoltata, perché garante di quelle permanenze e di quelle stabilità che alla fine devono pur esserci se si vuol garantire l’ordinato svolgersi della vita sociale. Sandro Castegnaro
Pasqua con Monsignor Nosiglia. Cosa chiede alla città. E cosa chiedono a lui i vicentini
Il Vescovo ai cattolici “Tornate alla politica” Si sveglia alle sei e trenta. E fino a mezzanotte la sua giornata trascorre tra decine di incontri, corse in lungo e in largo per tutta la diocesi, impegni gestionali e amministrativi. Ma non disdegna, quando può, di seguire i trionfi della Ferrari o informarsi su chi ha vinto l’ultima Milano-Sanremo, classica del ciclismo che, per un genovese come lui, ha lo stesso sapore di un piatto di orecchiette col pesto. Vicenza Abc ha incontrato il nuovo Vescovo, Monsignor Cesare Nosiglia. Una chiacchierata per conoscere più da vicino l’uomo che - comunque la si pensi - rappresenta un punto cardinale nella vita cittadina. Tra paure e speranze, certezze presenti e obiettivi da raggiungere, Monsignor Nosiglia racconta la sua città, ma soprattutto il progetto che ha in mente per i suoi vicentini. Affrontando anche temi delicati come politica (“I cristiani devono essere più presenti anche sotto questo profilo”), immigrazione (“Dobbiamo imparare a vivere in una società più aperta”), mass-media (“Devono fare anche formazione”). Quel che ne è uscito è un ritratto a tutto campo dove il Vescovo indica la sua via per superare le contraddizioni di una città stretta tra un passato di grandi tradizioni (ancora molto forti) e un presente di cambiamenti repentini e, spesso, vorticosi. Alle pagine 4 e 5.
Dalla tagliata ai tagli. Un invito che non si può rifiutare
Dieci primari al colpo a cena da Lia Sartori Dalla tagliata ai tagli il passo è breve. Per convincere i primari del San Bortolo che abbattere la spesa sanitaria è cosa buona e giusta, l’europarlamentare Lia Sartori li conquista con la buona cucina. Dieci alla volta, i circa 50 primari dell’Uls 6 ricevono in questi giorni un invito che non si può rifiutare. A raccogliere le adesioni non è ovviamente l’autorevole forzista in persona, ma
un primario di buon cuore (ogni riferimento al reparto è quasi casuale): “Giovedì tutti a cena assieme per una chiacchierata con Lia Sartori” comunica ai colleghi. Che magari nel segreto dell’urna votano Rifondazione, ma che all’invito non dicono mai di no, stando alle adesioni raccolte fin ora. A tavola, quella che doveva essere una chiacchierata diventa un
monologo: “Bisogna salvare l’ospedale, Per riuscirci, dobbiamo mettere mano alla situazione. Bisogna tagliare.” comincia Lia in zona antipasto. Al momento del caffè, il monologo ha raggiunto livelli che neanche Silvio B. da Bruno Vespa. D’altro canto, è proprio dal maestro che Lia ha imparato la tattica. Non è lui quello che si vanta di aver conquistato Bossi & c con il suo famoso
risotto di Arcore? E Lia Sartori, non a caso l’unica vera politica di rango di Forza Italia nel Veneto (ci fosse un po’ meno maschilismo, questa donna sarebbe come minimo al posto di Bondi) ha capito la lezione. Al momento di andare in stampa, abbiamo notizia di due cene già consumate. Defezioni: nessuna. Improvvisi mal di pancia dell’ultimo minuto: nes-
suno. Mal di pancia del giorno dopo: pochi. E terrorizzati. “A me neppure avevano detto che alla cena c’era lei” si lamenta un primario al quale la tagliata è andata di traverso. “Tutte scuse – replica un altro – la seconda cena è stata organizzata direttamente a casa Sartori”. Che per inciso, non ha alcun incarico istituzionale legato alla sanità. Mah! m.r.
questa settimana
politica
sanità
scuola
economia
cultura
Hüllweck ritratta la sparata sui sindaci e schiva la condanna
Cura senza scure per l’ospedale
Ese, l’Università fantasma di Corso Fogazzaro
Cresce il trend del terzo settore
Rigoni Stern dalla caccia alla natura
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La stazione più piccola del mondo Ad Anconetta una fermata ferroviaria fantasma: niente biglietti ma... nemmeno multe Con quell’aria malinconica e un po’ desolata da Far West, la fermata ferroviaria a fianco del passaggio a livello di Anconetta è una stazione enigmatica per gli sparuti ma fedeli pendolari della tratta Vicenza – Schio. Ce n’è davvero bisogno? Provate a chiederlo agli automobilisti, che dopo anni di promesse da parte delle Ferrovie si incolonnano rassegnati, sigaretta in mano e tubo di scappamento fumante, in lunghe file di traffico. E se invece il servizio è utile e rende - ma le stesse Ferrovie hanno avuto dubbi in passato - perché allora non renderlo più accogliente e più praticabile? Piacerebbe dare un’occhiata a una carta delle linee FS per vedere se
effettivamente da qualche parte ci sia scritto “Anconetta”. Se ci si trova ad aspettare il treno qui, non si direbbe. Varcato il cancelletto che da viale Trieste dà sul binario (unica entrata: sorry, chi viene da viale Anconetta, si abbassa e passa sotto la sbarra) c’è una pensilina modello fermata pullman e, attenzione, perfino una panchina! Bisogna dare merito ai responsabili di aver dotato la fermata di un posto a sedere riparato: fino a qualche tempo fa non c’era neanche quello. Così si potevano ammirare festosi bivacchi di anziane signore e studenti zaini in spalla sul ciglio del binario, con la pioggia o con la canicola. Col pericolo, ora passato, che il treno-diligenza sfrecciasse davanti ai
poveri utenti senza fermarsi. Perché questo accadeva: se il treno era in ritardo, a volte il controllore faceva il giro dei vagoni chiedendo ai passeggeri: ”Qualcuno ferma ad Anconetta?” E se nessuno fermava, si tirava diritto. Ma questi sono problemi superati, l’efficienza (!) ha vinto e ora si sale e si scende regolarmente. Un gran bel problema è invece munirsi di un biglietto. Proprio lì a fianco c’è un tabaccaio: venderà i biglietti ferroviari, si suppone. Macché: il negoziante vi guarda sconsolato e vi consiglia di andare in stazione centrale (sic). Proviamo allora al bar, non si sa mai, si chiama pure “Alla vecchia ferrata”: magari, nel nonsenso generale, la licenza per i ticket l’hanno data al barista. Niente da fare: ride sotto i
baffi e non sa cosa consigliarvi. Ma non bastava una macchinetta automatica? Figurarsi. Con una mano sul cuore e una sul portafogli, il viaggiatore onesto e scrupoloso dovrà adattarsi a salire a bordo e cercare il controllore per pagare il sovrapprezzo. Ingiustizia! Scandalo! Roba da Mi manda Rai 3. Invece, meraviglie dell’Italia che fa le leggi e poi le interpreta, il controllore (almeno quelli che abbiamo trovato noi) vi dà la buona notizia: “È vero, dovreste pagare la multa, ma fa lo stesso, vi faccio il semplice biglietto: 1,10 euro per Vicenza, 2 euro per Schio.” Almeno questo, per la gentile clientela. Alessio Mannino
sette giorni di politica
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Allergie di primavera in Consiglio: maggioranza frammentata e opposizione in tilt
I mal di pancia della Lega e i mal di testa dell’Ulivo
Un vespaio tra i consiglieri leghisti: la mancanza di Bossi si sente pure qui. Ma anche il centrosinistra naviga in cattive acque: tornano a far discutere le vicende dell’hotel De La Ville e il nuovo Piano regolatore Settimana di passione all’interno dei partiti vicentini: è scontro per la segreteria cittadina tra i Ds, è scontro tra la base del Carroccio per la presidenza della provincia. Le tensioni che attraversano Ulivo e Cdl riaffiorano proprio mentre gli spettri dell’urbanistica si riverberano sulla gestione dei partiti. Sul versante della Lega, tutto nasce dalle condizioni di salute di Umberto Bossi: la carenza di leadership nel partito ha aumentato le fughe in avanti verso una visione barricadera dei colonnelli del partito stesso. Una circostanza che ha avuto la conseguenza di aumentare in tutto il Paese i mugugni della base. A Vicenza è la consigliere Franca Equizi a dar voce al malessere: nell’ultimo mese ha attaccato senza sosta la giunta e in particolare gli assessori del suo partito. A palazzo Trissino si parla di malcontento tra i militanti per l’inadeguatezza delle risposte dell’amministrazione alle richieste degli elettori leghisti. Richieste che erano state tradotte nel programma elettorale di Stefano Stefani, nella privera del 2003, candidato sindaco per il Carroccio. A pagina 23 del libretto di Stefani si legge: Dobbiamo rimettere mano ai regolamenti cittadini e ai bandi nella assegnazione degli alloggi di proprietà pubblica, stabilendo il principio per cui è prioritaria la cittadinanza italiana e la residenza nella provincia di Vicenza da almeno cinque anni per la assegnazione degli alloggi pubblici e nelle agevolazioni per la prima casa. Detto fatto: l’assessore al sociale Davide Piazza (Lega) sotto il pressing degli alleati ha approntato una delibera che butta nel cassonetto il programma della Lega, cosa che avrebbe fatto pure infuriare Manuela Dal Lago (che è pure capogruppo in municipio). Quest’ultima appartiene all’ala filogovernativa del Carroccio, ma avrebbe intravisto nella delibera Piazza il rischio di un eccessivo scollamento dal corpo elettorale. Ma l’altra magagna per il partito di Bossi riguarda l’aumento della tassa sulle immondizie. Sempre Stefani (candidato sindaco e plenipotenziario leghi-
sta per Vicenza, in giugno per una alleanza all’ultimo momento col Polo) nella campagna per le municipali del 2003 annunciava in pompa magna: Investire in Aim significa offrire ai cittadini servizi a prezzi competitivi e quindi diminuire l’onere delle bollette (pagina 22 del programma, Ndr). Occorre un piano industriale e di sviluppo che sia articolato, di rilancio nei settori della produzione dell’energia elettrica e di riscaldamento... il vero utile che le Aim debbono versare alla città sta nella qualità dei servizi, nell’abbattimento dei costi delle bollette. La settimana scorsa il consiglio ha approvato la delibera redatta da Linda Favretto, assessore leghista alle finanze, con la quale si aumenta mediamente del 4% il gravame sugli utenti dovuto per lo smaltimento dei rifiuti. Poi c’è un altro rompicapo, che da settimane sta mandando in subbuglio la base. A pagina 7 dell’opuscolo di Stefani si legge: Non è lecito che il comune abusi delle sue capacità di indebitamento trasferendo al domani i suoi costi attuali, interventi dispendiosi come il nuovo teatro non hanno alcun senso. Intanto i lavori per il nuovo civico vanno avanti con il silenzio-assenso degli assessori leghisti e della Dal Lago. Nel centrosinistra le cose non vanno meglio. Gli ultimi dieci giorni sono stati segnati dalle diatribe interne ai Ds (che a molti sono sembrate una guerra per le poltrone più che per i programmi). Gli oppositori del segretario cittadino Tommaso Rebesani (quest’ultimo appartiene al correntone diessino) hanno cercato di imporre una gestione collegiale del partito, ma a palazzo Trissino il malcontento per il comportamento dell’opposizione di centrosistra è arrivato al culmine ai primi di aprile. I vertici della giunta Quaresimin (1995-1998) hanno infatti sottoscritto assieme a diversi esponenti della minoranza un intervento di fuoco contro il comitato anti abusi edilizi, pubblicato il 4 aprile dal Giornale di Vicenza: “Quel comitato ci ha dichiarato una guer-
ra folle”. Una frase sibillina, che messa in relazione alla vicenda giudiziaria dell’Hotel De La Ville, sembra puntare l’indice contro i portavoce del comitato Paolo Crestanello e soprattutto Fulvio Rebesani. Quest’ultimo (all’epoca faceva parte della sinistra del Pds) era stato uno degli artefici della caduta della giunta Quaresimin, accusata di non aver votato la delibera anti palazzoni, detta anti Rc-1, riproposta poi dai Verdi durante il primo mandato Hüllweck. La grana politica per l’Ulivo sta nel fatto che il documento sembra difendere a spada tratta tutti i dipendenti municipali coinvolti nella vicenda. In municipio qualcuno ha interpretato la cosa come un favore anche verso Lorella Bressanello, direttrice del Territorio, oggi moglie del sindaco, entrata in Comune con un contratto ad personam. Ironia della sorte, allora la si dava in quota al centrosinistra mentre oggi è iscritta a Forza Italia. Implicata assieme ad altri dipendenti comunali e esponenti della giunta nell’affaire De La Ville, è stata assolta di recente ma è tutt’ora invischiata nella vicenda giudiziaria di Ponte Alto, assieme ad altri dipendenti municipali. A turbare il centrosinistra ci sono poi altri temi: la Circolare Rossetto, il Piano Pomari, il restauro di Palazzo Porto Festa, Ponte Alto, l’hotel De La Ville, aree commerciali in zona industriale, Rc-1; per di più in municipio si vocifera di un diktat della Margherita, imposto agli alleati, per firmare un documento che in qualche maniera faccia da contropartita alle pubbliche scuse firmate da Hüllweck per le affermazioni infamanti sugli ex sindaci di Vicenza. Nella nota pubblicata dal Giornale di Vicenza infatti c’è pure la firma di Ciro Asproso, uno dei più duri oppositori alla permanenza delle attuali disposizioni del Piano regolatore sulle Rc-1 (norme che danno zero vincoli ai costruttori). Negli anni passati il consigliere aveva partecipato alle conferenze del
Una veduta notturna dell’hotel De La Ville
comitato durante le quali si chiedeva l’abolizione di quello status amministrativo nelle zone di completamento Rc-1, salvo poi definire ambiguo, assieme agli altri rappresentanti ulivisti, l’operato del comitato contro l’abusivismo edilizio. Marco Milioni
Identikit del contro-potere. Preparatissimo, puntiglioso, altezzoso. E un incredibile feeling con l’insospettabile Manuela Dal Lago
Ubaldo Alifuoco, il gentleman che non sa farsi amare
foto Corrado Pedron
LABIRINTI
Sguardo austero, voce impostata, passo elegante, bocca appena aperta anche quando parla in puro stile Clint Eastwood. È lo standard in consiglio comunale di Ubaldo Alifuoco, vice capogruppo diessino. Dalemiano di ferro un po' troppo destrorso dicono i suoi oppositori diessini all'interno del partito. In aula ha quella severità e quel british understatement, che farebbero la sua fortuna in qualche municipality o in qualche dicastero inglese, ma che forse sono un po' fuori luogo a Vicenza; nella patria del "paron mi", lui ex sindacalista ex funzionario di banca viene visto spesso dai suoi oppositori politici, e non solo,
come un altezzoso, anche se tutti gli riconoscono una preparazione di ferro unita a una grande passione, guarda caso, per la storiografia made in England. I suoi amici lo descrivono come una persona molto puntigliosa, estremamente educata e con una volontà d'acciaio, anche se negli ultimi giorni non gli hanno perdonato la calata di brache nei confronti della Margherita per la vicenda dell'Hotel De La Ville. Qualcuno a palazzo Trissino si è pure lamentato delle sue amicizie con la presidente della provincia Manuela Dal Lago, de facto sua datrice di lavoro, visto che il consigliere è a capo di una sorta di agen-
ACQUE MOSSE
DI PALAZZO
Aveva dato loro dei ladri senza motivo: querelato, ha fatto marcia indietro
zia speciale messa in piedi proprio per volontà della provincia e della camera di commercio. Amicizia che gli avrebbe suggerito di non attaccare il Carroccio su alcune questioni spinose come la risistemazione dell'area di San Felice. Ma Alifuoco è anche l'uomo dell'impegno a tutto campo su Aim, azienda che gli sta particolarmente a cuore e che negli ultimi mesi ha analizzato non solo con la passione del politico ma con il piglio dell'economista, mettendo in piedi una serie di studi tanto ricchi di analisi da fare invidia ad un consulente industriale. Studi che una volta pubblicati hanno mandato su tutte le furie il presidente di Aim
Beppe Rossi che più che contestare l'evidenza se l'è presa col Giornale di Vicenza reo di aver dato spazio alla minoranza. Ma il consigliere è impegnato anche sul fronte interno del partito; stizzito per una leadership vicentina che non lo convince è quasi indispettito da quei personaggi che secondo i suoi fedelissimi non hanno nemmeno una virgola della sua intelligenza politica e con i quali si vede costretto a condividere una barca, che si muove nelle acque agitate di una città allo sbando per le colpe di centrosinistra e centrodestra. m.m.
IN LAGUNA
Dalla Regione. L’aggravarsi della situazione politica fa sfumare il tour promozionale in Palestina
Hüllweck chiede scusa ai vecchi sindaci Rinviata la Crociata dei Serenissimi Hüllweck si scusa e i sindaci ritirano la querela. Il primo cittadino aveva dato dei ladri ai precedenti amministratori i quali lo avevano portato in tribunale: prova quello che dici oppure paga le conseguenze. Adesso arriva la marcia indietro di Hüllweck: “Riconosco non solo la correttezza e l’onestà di tutti i miei predecessori, ma anche l’impegno profuso. A voi Sala, Corazzin, Variati e Quaresimin la mia incondizionata stima sul piano personale e professionale. Ben diverso è il mio giudizio politico in merito alle scelte da voi operate e sui risultati raggiunti. Se comunque le mie parole vi hanno offesi, me ne scuso con voi, ribadendo che non era assolutamente mia
intenzione anche solo dubitare della vostra correttezza e onestà. Vi chiedo di rimettere la querela e abbandonare la causa civile, assumendomi io tutte le spese legali.” I quattro sindaci hanno accettato come pienamente soddisfacente la lettera di Hüllweck e hanno deciso pertanto di rimettere la querela. Accettano le scuse, e sottolineano come la vicenda offra un ulteriore motivo di riflessione e un monito a Hüllweck e a chi fa politica in generale: il dovere di sentire sempre l’alta responsabilità nell’esercizio delle pubbliche funzioni, nel rispetto delle persone e nella valutazione obiettiva e serena dell’impegno di ciascuno.
Doveva essere la missione di Pasqua o, come qualcuno ha detto, il “pellegrinaggio istituzionale”. Decine di amministratori veneti tra consiglieri regionali e comunali in Terra Santa durante la settimana santa. Sfidando i kamikaze di Hamas e i soldati di Sharon che notoriamente non vanno tanto per il sottile. Doveva, perché la situazione è precipitata. L’uccisione dello sceicco Ahmed Yassin ha definitivamente fatto sfumare l’ipotesi. La delegazione veneta era già pronta: alla guida l’ex patriarca di Venezia Marco Cè. Tra il seguito dei consiglieri regionali la bassanese Elena Donazzan di An, Iles Braghetto dell’Uc, Amedeo Gerolimetto di Forza Italia. Si erano messi in lista non pochi amministratori vicentini, come il sindaco di Schio Giuseppe Berlato Sella, gli assessori provinciali Luciano Zerbaro e Galdino Zanchetta e l’assessore comunale di Vicenza Davide Piazza. L’obiettivo della missione intitolata ufficialmente “Gli amministratori veneti in cammino per la Terra Santa” era di portare tra Nazareth (visita dei luoghi, incontro con la comunità locale e Messa ) Gerusalemme (Via Crucis) e
Betlemme (veglia pasquale) un messaggio di pace. Hanno dovuto rinunciare per ovvi motivi di incolumità anche i consiglieri regionali più temerari come Elena Donazzan e Iles Braghetto, che nel marzo dello scorso anno, alla vigilia dell’attacco di USA e Regno Unito all’Iraq, volarono a Bagdad con gli ultimi voli prima della chiusura degli spazi aerei. La bandiera con il leone di San Marco è stata, dunque, ammainata e la nuova crociata della Serenissima verso il Santo Sepolcro rinviata a tempi migliori. Con gran rimpianto de “Il segno” e “Viaggi e pellegrinaggi”, con sedi a Asolo e Mestre, che contavano molto nel tour dei politici per rilanciare il turismo in Terra Santa, oggi un po’ fuori moda. Nel frattempo l’unico consigliere regionale veneto che è riuscito ad andare veramente in Terra Santa (in questo caso, sarebbe meglio dire in Palestina), è Mauro Tosi, capogruppo di Rifondazione. Un viaggio meno “religiosamente corretto”: aggregatosi alla “carovana della pace” del social forum dal 13 al 22 marzo scorsi, Tosi ha manifestato solidarietà con la causa palestinese.
cronaca
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Sanità, la cura senza scure Il manager Filippo Marelli: “Gli ospedali vicentini puniti dal centrodestra ma la soluzione esiste: ecco come risparmiare senza tagliare i servizi” circostanza non è del tutto casuale, “perché oggi viene considerato bravo solo chi fa spendere meno”.
Filippo Marelli, 64 anni lombardo di nascita ma vicentino di adozione (vive ad Altavilla Vicentina dal 1981), è stato direttore generale dell’Ulss di Bussolengo. Manager di grande esperienza, ha operato sia nel settore privato (era dirigente alla Zambon farmaceutici) sia nel settore pubblico nelle Usl di Ancona e Udine. Alla fine del 2002 è stato anche lui sacrificato sull’altare delle nuove direttive regionali in materia di tagli alla sanità. La sua estromissione è avvenuta contemporaneamente a quella di Valdo Mellone (ex Ulss Dolo, attualmente alle Ipab) e di Antonio Petrella (ex ULSS 6 Vicenza). E per lui la
Secondo Marelli l’Ospedale di Vicenza è una struttura molto valida con settori di eccellenza e di valore assoluto: in passato il mantenimento di un buon livello nelle terapie era visto come un obiettivo ottimale. “Oggi non più - sostiene Marelli - perché al primo posto di ogni ragionamento ci sono i costi da razionalizzare, i bilanci da salvaguardare. Secondo me la posizione del centro destra sulla sanità produrrà risultati inquietanti nel prossimo periodo. Ovvero? “Queste cose io le vado a sostenere nei vari convegni che tengo sulla sanità; il trend garantito con gli attuali parametri regionali non può che essere il seguente: avremo un progressivo indebolimento della struttura degli ospedali pubblici, una maggior partecipazione dei cittadini alla spesa per farmaci e servizi, lunghe liste d’attesa. A meno che uno non si rivolga alle strutture private, e un progressivo ricorso alle assi-
curazioni mediche”. Da cosa nasce questo sconfinamento nel deficit di alcune ULSS venete? “I due esperti incaricati dalla Regione hanno individuato otto aziende che hanno un deficit notevole e hanno espresso il loro giudizio: bisogna intervenire drasticamente. In realtà il problema del deficit nasce dalle modalità con le quali vengono finanziati i vari ospedali: è un meccanismo complesso che premia, comunque, chi attua il minor numero di interventi e di operazioni. Ecco perché, ad esempio, centri regionali importanti come quelli di Verona, Vicenza e Padova hanno i bilanci più pesanti. E’ sbagliato porre le varie aziende del Veneto in contrapposizione fra loro o mettere paletti fra una struttura ed un’altra. Sarebbe come se alla Fiat venissero posti in contrapposizione fra di loro i vari reparti della fabbrica! Ma come è possibile intervenire sui bilanci evitando il taglio selvaggio che si ipotizza per molte strutture? “In realtà una ricetta esiste ed è molto semplice: basta
fare come hanno fatto già la Toscana e l’Emilia Romagna dove sono stati creati i cosiddetti Ospedali di Comunità. Attraverso queste strutture vengono sostanzialmente eliminati i ricoveri impropri e si creano delle strutture dove il primo responsabile è il medico di base. La spesa giornaliera per un ricovero che è oggi di 300/400 euro può essere ridotta di due terzi! Sono molte le patologie che possono essere seguite in queste strutture, sotto il diritto controllo dei medici condotti”. Ma i medici di base sono d’accordo di assumersi questo ulteriore impegno? “Il loro coinvolgimento è assolutamente indispensabile, ma non dobbiamo dimenticarci che questo sarebbe un modo per loro di recuperare professionalità e competenze. Spesso questi medici, dotati di grandi capacità, si lamentano di essere ridotti ad un ruolo di impiegati della sanità; così potrebbero effettivamente svolgere la professione per la quale hanno studiato per anni”. Federico Formisano
Nadia Qualarsa bacchetta Alessandri, non esagerare Fiducia al manager, ma senza sconti La consigliera regionale vicentina Nadia Qualarsa è presidente della Sesta Commissione consiliare che si occupa delle problematiche legate all’Istruzione, alle Attività culturali, alla Ricerca scientifica e allo Sport. Come tutti i consiglieri regionali ha incrociato, tuttavia, i problemi inerenti la sanità vicentina. “Noi non possiamo che riconfermare la nostra piena fiducia nell’operato del direttore generale Antonio Alessandri. D’altra parte, sta semplice-
mente seguendo un preciso piano concordato a livello regionale”. Ma se questo disegno dovesse comportare dei tagli nei servizi? “Non sarebbe assolutamente accettabile. I servizi che attualmente l’Ospedale offre ai nostri cittadini non devono essere toccati. Da parte mia non sono disponibile ad accettare nessuna riduzione ai servizi e alle funzioni di eccellenza conquistate dal San Bortolo”.
Sgarbi e sgambetti. Alleati ai ferri corti a causa del discusso progetto del nuovo complesso a Marano
La sanità dell’Alto Vicentino spacca Fi e An Lunedì scorso si è tenuto a Schio “Ospedali e Territorio”, un convegno sulla sanità. L’invito era partito da Alleanza Nazionale che schierava in prima fila i suoi big: da Giorgio Conte all’onorevole Martini, più un nutrito corollario di consiglieri regionali e comunali. Nel cartoncino di presentazione venivano annunciati, tra gli altri, i nomi di alcuni pezzi forti, a partire da Giorgio Carollo, coordinatore regionale di Forza Italia, e così via fino all’assessore regionale Raffaele Grazia (Fi), Iles Braghetto della Commissione Sanità della Regione, Remo Andreoli, responsabile Consulta Salute Nord Est (An) e Francesco Campanile, responsabile Consulta Salute Vicenza (An). In realtà nessuno di costoro si è presentato.
I soliti bene informati sostengono che le assenze, e quelle dei forzisti in modo particolare, siano da ricollegare al netto taglio del Convegno, non in linea con la posizione dell’europarlamentare Lia Sartori sulla questione del nuovo ospedale dell’Alto Vicentino. Su questo argomento il parlamentare eletto nel collegio, Giorgio Conte aveva già avuto modo di esprimersi dichiarandosi apertamente contrario: “Niente ospedale nuovo, bisogna rafforzare Schio” ha più volte ripetuto, non ultimo al Giornale di Vicenza, lo scorso 23 gennaio. E certamente non era un caso che al posto degli Azzurri fosse presenti il Comitato per la salvaguardia dell’ospedale di Schio, con tanto di cartelli poco lusinghieri nei confronti del-
l’ex presidente del Consiglio Regionale, la thienese Lia Sartori. Nei cartelli si faceva riferimento in particolare ad una cena tenutasi a casa della consigliera regionale Nadia Qualarsa, presenti alcuni imprenditori (si fanno i nomi di
Chi più ne A più ne metta.
Valentino Ziche e di Franco Gemmo, ecc.) e i responsabili dello studio d’Ingegneria Altieri che stanno già lavorando alla predisposizione del progetto ambizioso che prevede la realizzazione di un mega centro commerciale in cambio della costru-
zione di un nuovo ospedale. Il nuovo complesso, posto vicino a Marano Vicentino e ai confini con Schio, comporterebbe la chiusura dei due Ospedali di Thiene e di Schio. Per il Sindaco di Schio Berlato Sella è “Un’operazione molto strana che prevede la predisposizione di progetti e la discesa in campo di promoter, prima che la stessa Giunta Regionale si pronunci e prima che la Quinta Commissione Regionale, presieduta da Padrin, abbia deciso a favore dell’una o dell’altra tesi. Eppure vi sono situazioni nel Veneto, riguardanti la chiusura di Ospedali che hanno una ben diversa priorità rispetto a Schio.” Nella foto, due amici-litiganti storici: Stan Laurel e Oliver Hardy
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la nostra inchiesta
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Una lunga chiacchierata con Monsignor No “A Vicenza chiedo di imparare ad aprirsi al mo
Un tè con I vicentini chiedono La Chiesa faccia da paciere nel conflitto che incendia i mondi Credo che il ruolo più significativo che la chiesa può e deve assumere in questo momento storico e nella realtà vicentina, sia quello di calmieratrice nel conflitto che si sta determinando rispetto al fenomeno dell’immigrazione. E’ in corso un confronto epocale che produrrà molti effetti. Se questi saranno negativi o positivi, dipenderà appunto da come verrà affrontata la questione. Sia chiaro, questa gente che arriva da noi cerca solo un modo per sbarcare il lunario. Ma se abbandonata a se stessa, alla miseria, povertà ed emarginazione, diventa terreno fertile per il fondamentalismo che fa breccia facilmente su un popolo disperato. In Europa non abbiamo la tradizione del melting pot americano. Ognuno agisce a suo modo. In Inghilterra ultimamente si sta portando avanti una politica che impone agli immigrati di adeguarsi non solo alle leggi locali, ma anche ai costumi. In Francia si impedisce l’uso del velo nelle scuole... Insomma, le risposte sono frammentarie, diverse, a volte contraddittorie. In tutto questo, da noi in Italia, deve inserirsi la chiesa. Non solo attraverso le strutture di accoglienza, ma soprattutto nella costruzione di un terreno di cultura nel quale si possa convivere tutti insieme. Le più avvedute componenti ecclesiastiche hanno ormai compreso che la diversità è una ricchezza. Anche lo stato dovrebbe farsi artefice di questo percorso, ma purtroppo, oggi come oggi, non è in grado di farlo. Davvero, il governo Berlusconi (nonostante l’intelligenza di un ministro come Pisanu) non dà alcuna garanzia. Loro hanno fatto la Bossi-Fini. Che i problemi non li risolve: li crea. Meglio va, qualche volta, a livello locale. Dunque, vista l’assoluta latitanza di “Cesare”, sia “Dio” ad assumersi questo decisivo ruolo culturale, prima che istituzionale. E’ una chiave di volta per sperare in un futuro migliore. Per tutti. Diego Bardelli
Non tradire la nostra primogenitura per un misero piatto di lenticchie Il cortese interlocutore che mi ha telefonato per chiedermi queste 20 righe ha precisato che me le chiedeva come cattolico di centro destra. Ah, questa antica voluttà classificatoria dei cattolici italiani, graziosa, fine-ottocento, dura a morire! Non ti interpellano per quello che puoi e vuoi dire, ma da dove lo devi dire. Di qua o di là. Perché che c. di cattolico saresti se non fosse noto da che parte stai? Ma non si preoccupi, il mio cortese interlocutore. Mi sarei arrabbiato ancor di più se mi avesse cercato credendomi di centro-sinistra (dispiace se metto il trattino?). Dopo questa inutile premessa, utile solo a togliermi, prudentemente, un po’ di spazio, entro nel merito e alla Chiesa dico: non tradisca la primogenitura per un piatto di lenticchie. Da quando la Dc si è sciolta, i cattolici, privi di recinto, sono dilagati, ma, invece di portare nelle varie e disparate caselle il loro personale cristianesimo, hanno portato il loro autorizzato clericalismo. E la Chiesa ha chiesto e ottenuto favori, ha chiesto, meno insistentemente, e non ottenuto, ideali. Si è accontentata dei favori, anche di quelli indecorosi. Ha ottenuto, ad esempio, la legge sulla immissione in ruolo degli insegnanti di religione, una delle più gravi offese alla laicità dello Stato da quando esiste la Repubblica. Si è accettato di trasformare in un banale e sconcio clientelismo di massa un delicatissimo snodo del rapporto tra Chiesta e Stato, la cui laicità ridiventa un ostacolo anziché un valore. E non ho sentito “cattolici” né di sinistra, né di centro-sinistra, sollevare obiezioni. Almeno nel clericalismo siamo compatti, destri e sinistri! Abbiamo ottenuto finanziamenti per le scuole “cattoliche”, e accettiamo, anche qui, da noi, a Vicenza, che scuole indecenti nascondano dietro l’ispirazione religiosa il mercimonio più sconveniente… Mi dispiace finire così bruscamente, ma quella che sto scrivendo è, almeno sul mio computer, la 20ma riga. Non è bene che un cattolico di centro destra abusi dello spazio di un giornale (di centro-sinistra?).
Monsignor Nosiglia, lei è appena arrivato a Vicenza. Molti ancora non la conoscono. Prima di parlare con il Vescovo vorremo sapere qualcosa dell’uomo. Le sue letture, la cucina preferita, i suoi hobby.... Naturalmente amo molto le Sacre Scritture. Sono affascinato dalla spiritualità dei grandi Padri della Chiesa. Sant’Agostino e Santa Teresa. Tanto per citargliene due. Ma leggo molto anche la filosofia: sul comodino ho l’ultimo libro di Massimo Cacciari. Certo, non è un cattolico, ma i suoi scritti sono sempre stimolanti. Devo confessare invece che seguo decisamente meno la narrativa. Compenso con la pagina di cultura di Avvenire: molto ben fatta. Cosa mangia il vescovo?
Dove sta questo “zoccolo duro”?
Come genovese la risposta è quasi scontata: adoro il pesto. In omaggio alla mia attuale diocesi devo dire che ho molto apprezzato il vostro famoso baccalà. Buonissimo. Magari accompagnato a un bicchiere del favoloso vino di queste parti. Che vuole, son figlio di un alpino: apprezzo il vino che, con la giusta moderazione, è davvero un gran piacere. Mio padre mi ha trasmesso anche la passione per la montagna. Appena posso mi rifugio tra le vette. Pensi che appena arrivato a Vicenza la prima parrocchia che ho visitato è stata Tonezza! Le piace lo sport? Ah sì: il ciclismo. Da sempre. Quando ero bambino ricordo la MilanoSanremo. Allora, come oggi, passava dalle mie parti. Ed era una vera festa in paese. Poi il mito: Coppi, Bartali. Non ho dimenticato. Quando posso lo seguo anche oggi. Il calcio meno. Ma quando incontro i giovani me lo chiedono continuamente: ‘Vescovo, per che squadra tifa?’ Allora rispondo loro che la mia squadra è la Sampdoria. Li lascio un po’ così, ma questo è quanto. Invece la Formula Uno mi interessa molto. Riesco a vedere anche qualche Gran Premio. Domenica scorsa, ad esempio, ho visto il gp del Bahrein. L’orario era favorevole: ora di pranzo. Ma il mio vero relax è la musica. Classica sinfonica. I soliti grandi. I miei genitori mi hanno trasmesso soprattutto la passione per la lirica, la grande musica operistica: Verdi e Puccini. Poi sa, io ero parroco a Roma nel ’68. Allora si respirava molto quell’aria di utopia. Positiva. In chiesa si cominciò a cantare con le chitarre. A ciò aggiunga che io sono – ripeto – genovese, e il gioco è fatto: Fabrizio De Andrè è e resterà sempre nel mio cuore. Immagino però che non abbia molto tempo per ascoltarlo. Per dirla altrimenti, qual è la sua giornata tipo? Ah, il tempo.... Devo conquistarmelo. Un vescovo viene tirato da tutte le parti. Speravo di avere una giornata di ferie a Pasquetta. E’ saltata anche quella. Pazienza. Comunque, di solito mi alzo alle sei, sei e trenta. E vado a dormire intorno a mezzanotte. Senza queste sei, sette ore di sonno non ce la farei. Per fortuna non soffro d’insonnia. Cosa faccio di più durante la giornata? A parte i momenti di preghiera di cui ho assoluto bisogno: ascolto. Lei non ha idea di quanta gente voglia parlare con me. Cerco di essere il più disponibile possibile: per me il rapporto personale è fondamentale. Giro anche moltissimo, sto cercando di incontrare, uno ad uno, tutti i sacerdoti. E poi i giovani! Tutti i giorni vedo i ragazzi che si preparano per la cresima. Sono davvero tanti. Tenga presente che nella diocesi ci sono più di trecento parrocchie. Un impegno che non è solo pastorale, ma anche amministrativo e gestionale. Molto del mio tempo deve essere necessariamente impiegato in queste cose. A proposito delle parrocchie di Vicenza, come ha trovato la nostra realtà? Vicenza è tradizionalmente cattolica ma, al tempo stesso, ha subito un notevole processo di cambiamento derivato da un’industrializzazione impetuosa. Siamo tra le provincie più ricche d’Italia. Credo che l’attuale benessere del vicentino si fondi su valori portanti che sono quelli assolutamente tradizionali: la laboriosità, l’intraprendenza, il grande valore della famiglia che è radicato fortissimamente al famoso “modello veneto”. Qui, perfino le aziende diventate enormi si rifanno a questa comune origine. Posso dire di essermi trovato di fronte ad una realtà vivace e creativa (impressionante, ad esempio, la presenza del volontariato!). Sotto tutti i profili. Certo, Vicenza, come tutto il resto del mondo, è molto cambiata rispetto al passato. Bisogna rispondere in maniera adeguata alle mutazioni in atto. Noi, come Chiesa, ci stiamo rinnovando. Faticosamente. Ma lo stiamo facendo. Del resto, credo che società e chiesa siano indissolubilmente legate tra loro. Hanno radici profonde in comune. Al processo di rinnovamento di una deve corrispondere la crescita dell’altra. La crisi dell’una apre spazi oscuri anche per l’altra. Dunque, tutto bene?
Giuliano Zoso
Impariamo a riconoscerci peccatori Troppo facile sentirsi sempre santi La Chiesa oggi: quale Chiesa? Quella istituzionale? Ovvero quella dei credenti in Cristo Signore? Oppure tutte e due insieme? Penso che, nel bene e nel male ci siamo dentro tutti. Nel tempo confuso e oscuro che segna i nostri giorni, a noi cristiani viene chiesto di riconoscere i segni dei tempi, di schierarci in maniera chiara, di avere l’umiltà di annunciare una Parola che non è nostra e della quale siamo tuttavia responsabili. A me sembra che responsabili significhi ricercare, proprio in questo tempo, se e come sia possibile non tradire questa stessa Parola, senza ambiguità. La Chiesa ha potere: mezzi, comunicazione, altoparlanti sparsi in ogni territorio e comunità. A che serve? A rendere testimonianza della speranza che è in noi, in questo passare dei tempi, in questa pasqua dove sono attesi e implorati segni di risurrezione che favoriscano relazioni umane e convivenze verso un mondo più giusto e solidale. Penso alle speranze degli ultimi, al dialogo con le culture, al rispetto della laicità, al coraggio della verità. Fuor di metafora: parliamo degli ultimi con tanti ragionamenti e poche azioni concrete; ci confrontiamo con chi la pensa diversamente e fatichiamo ad accogliere altri pensieri; rispettiamo il pluralismo culturale, sociale, politico, istituzionale ma, nella quotidianità, non ci mettiamo a lavorare insieme con ogni uomo e donna di buona volontà, negli spazi pubblici (scuole, consultori, aggregazioni laiche, partiti…) perché amiamo troppo i nostri territori cattolici e sacri; amiamo la verità che pensiamo ci appartenga, e non ne riconosciamo i frammenti presenti in altri luoghi, culture, ideologie. Tutti noi desideriamo la pace, soprattutto la nostra idea di pace, ma non ci è facile coniugarla con la giustizia e il perdono. Difficilmente sappiamo riconoscerci peccatori, più facile la tentazione di sentirci santi. Ogni giorno, proprio oggi, è il tempo opportuno per invitare anzitutto i credenti alla conversione del cuore e della vita. Alla forza del coraggio cui ci invitano le parole di Gesù: Quello che vi dico nelle tenebre ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio gridatelo sui tetti. Maria Rosa Tapparo Stocchiero
formale. Non intenso. Non intimo. I veri sistemi di riferimento sono altri. Ne deriva una sorta di religione laica che riduce la fede a rito. Ma così facendo, la religiosità scivola, al massimo, nella superstizione! Credo che società e chiesa debbano lavorare insieme unendo le proprie forze: risorse umane e spirituali. In un dialogo continuo. In un confronto perpetuo. Solo così è possibile superare ogni negatività. Intendiamoci: poi tutto dipende dalla prospettiva in cui si guardano le cose. Queste difficoltà aprono anche spazi a nuove possibilità. Un tempo tutti erano cristiani, giusto? Bene. Ora invece si sceglie di diventarlo! Insomma, cristiani non si nasce, si diventa. Dalla difficoltà sta emergendo un cristianesimo di qualità. Per così dire: uno “zoccolo duro”. Vero. Forte.
Non proprio. Ho parlato di vivacità e creatività. Tutto vero. Ma non mi nascondo i problemi. Esistono anche quelli. Come no. C’è anche sfiducia. Paura. Rassegnazione. Bisogna vincere questi sentimenti negativi. Così come l’edonismo e il materialismo che una società come la nostra, in qualche modo, promuove. Come non vedere nelle persone, nella famiglia, le tracce di questo processo? Il rischio è quello di mettere insieme cose tra loro incompatibili. Mi spiego. Magari si mantiene un certo rapporto con la chiesa (sono pochi coloro che non fanno battezzare o cresimare i propri figli), ma è un legame del tutto
Nella solidarietà. Verso i poveri, gli anziani, gli immigrati. I più deboli. Ci tengo a sottolineare la presenza fortissima di questo fenomeno a Vicenza! Non avevo mai visto tanto trasporto prima d’ora. Pensi, sono venuto a sapere che perfino degli imprenditori passano le loro vacanze in Africa ad aiutare la gente. In silenzio. Senza pubblicità. Senza farlo sapere alla stampa. Ma lo fanno. Abbiamo 1200 missionari vicentini sparsi in giro per il mondo. Non solo religiosi, molti sono laici. Perché secondo lei, è così forte questo fenomeno nel vicentino? In parte per la tradizione cattolica. Ma credo anche per un altro motivo. Dopo che si è perso il riferimento politico a causa della fine della Democrazia Cristiana, molti hanno scelto di impegnarsi nel sociale. Cosa apprezzabilissima, ma sono convinto che i cristiani debbano farsi sentire anche sotto il profilo politico. Credo vi sia una sostanziale debolezza negli attuali schieramenti. Una volta a destra, una volta a sinistra, si cerca di tirare il papa dalla propria parte. Spesso, un mero calcolo elettorale. Pensano che “arruolando” il Papa tra le proprie fila sia più facile intercettare il voto cattolico. Ma il Papa prosegue un proprio discorso coerente che non è né di destra né di sinistra! Il principio è sempre lo stesso: l’uomo al centro. Anche la politica abbandoni ogni calcolo utilitaristico. Rimetta al centro l’uomo. La scorsa settimana ho parlato a quasi duecento politici locali. Sono stato molto contento. Abbiamo discusso di onestà, coscienza, coerenza. Credo sia necessario convergere su alcuni valori fondanti: educazione, lavoro, famiglia. Abbiamo bisogno di più politica! Ma di una politica concepita nell’esclusivo interesse dell’essere umano. Dei mass-media, che ne pensa? Penso che contribuscano non poco a creare lo stato di rassegnazione che serpeggia nella nostra società. Utilizzano un po’ troppo lo schema doccia fredda/doccia calda. Prima danno notizie disastrose che mettono in allarme le persone (salvo magari, abbandonarle del tutto dopo qualche giorno), poi saltano a pié pari su una notizia di pura evasione. Un vero frullatore. Come possono convivere così angoscia e divertimento? Sono per una informazione che sia anche formazione. Monsignore, che fare contro la “rassegnazione” cui lei più volte accenna? Sarà uno dei miei compiti più importanti: ridare speranza. Non bisogna peccare contro la speranza.
Foto Corrado Pedron
Un ricordo in presa diretta dei quattro vescovi che hanno segnato sessant’anni della vita cittadina
Così uguali eppur così diversi Quattro Vescovi nella storia moderna della diocesi vicentina, a partire dal 1943. Ciascuno a caratterizzare momenti diversi di questa storia. Carlo Zinato viene in uno dei più cruciali passaggi storici, fra guerra, occupazione tedesca, resistenza, eccidi, liberazione. Non manca di forti gesti davanti al tiranno. Promuove, ritornata la pace, ricostruzioni poderose dalle immani rovine: dalla cattedrale all’episcopio, e realizza il nuovo grandioso seminario in tempi che abbondano di vocazioni al sacerdozio. E’ Vescovo forte di una chiesa forte. Le esigenze del dialogo si affacciano faticosamente. Arnoldo Onisto viene nel tempo tormentato da tensioni e aspettative ribollenti. Cambiamenti epo-
cali nelle culture, crisi economiche niversità. Porta sapienza, autoree sociali, terrorismo e violenze. La volezza, attitudine ai rapporti chiesa diocesana vive dentro queumani, al colloquio con le istitusto dramma collettivo, tenta di zioni. È chiamato a collaborare capirlo, di portarvi con organismi della il contributo positichiesa italiana, negli vo di un messaggio ambiti della scuola e più che millenario. della cultura. Il Vescovo Onisto è Coltiva filosofia e uomo mite, guarda arte. Promuove un lucidamente la realradicale ripristino tà, non evita i condel palazzo delle fronti difficili con i opere sociali. Della potenti, con parola sua acuta sensibilità Monsignor Nonis, il precedente pacata predica la e generosità resterà Vescovo di Vicenza giustizia. E’ Vescovo il segno nel futuro pastore di una chiemuseo diocesano, sa che si fa più un’operazione alla debole, più dialogante, per stare quale ha dedicato anni di impepiù vicina ai deboli. gno, a salvaguardia del grande Pietro Nonis viene dal mondo patrimonio artistico della chiesa della cultura, dal prestigio dell’uvicentina.
Pietro Nonis ha incontrato le nuove impetuose trasformazioni sociali, il massiccio arrivo di uomini di diverse culture e tradizioni, il nuovissimo talvolta inquietante confronto con l’Islam. Non ha mancato di ricordare ai cristiani i doveri del dialogo, dell’accoglienza. Nel pieno di questa nuova storia è arrivato il Vescovo Cesare Nosiglia. E’ un tempo che pone aspri interrogativi e sollecita e pretende risposte. Lui viene da forti esperienze, soprattutto nella complessa diocesi di Roma. Qui trova una chiesa diocesana con molti problemi e molte potenzialità. E aspettative in una società che non vede chiarezza nel futuro, e cerca ancoraggi più rassicuranti. Giorgio Sala
la nostra inchiesta
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osiglia per discutere sul ruolo della Chiesa ondo. Ai cattolici dico di tornare alla politica”
il Vescovo Non lasciamoci travolgere da quel pezzettino di storia che stiamo vivendo. Nel momento in cui la si vive, la storia sembra eterna. Certi “imperi” sembravano infiniti, oltre il tempo. Alla fine sono tutti crollati. Allora, bisogna imparare a guardare avanti. Nella pratica, questo “esercizio di speranza” deve trovare applicazione nella famiglia che ha grandi risorse che mi sembrano oggi come soffocate. E, ancora di più, ci tengo molto a precisarlo, è necessario puntare sui giovani. Dobbiamo, devo, stare con loro, “perdere tempo” con loro. Sono fondamentali. Ci indicano varchi possibili per una nuova cultura della Chiesa. Riescono così bene a conciliare modernità e valori cristiani! E soprattutto, ci riescono in maniera assolutamente naturale. I giovani hanno bisogno di spazi d’ascolto. Di dialogo. E, noti bene, non mi aspetto che siano loro a cercare me. Io mi sono messo in cammino. Li vado a “stanare”. Tutti, anche quelli che non frequentano la Chiesa. Ho partecipato a diverse assemblee studentesche. Insomma, mi metto in gioco. Poi, dò loro facilmente la mia e-mail. Ne ricevo circa 10 al giorno. Hanno estremo bisogno di parlare. Perché la nostra società mette a disposizione tanti servizi, ma ha pochi educatori. Pochi “padri”. E lei risponde? Sì, sempre. Trovo un po’ di tempo la sera tardi. Magari non ce la faccio a scrivere lunghe mail. Ma almeno dò il segnale che ho ricevuto il loro appello. Insomma, ciò che scrivono non passa nell’indifferenza e nel silenzio. Allora, il suo messaggio è: puntare tutto sui giovani? Non solo ovviamente. Non dimentico che i giovani, senza gli anziani, perdono la memoria. Così come, viceversa, gli anziani senza i giovani perdono il futuro. Forse la speranza. In definitiva, le parole d’ordine sono sempre le stesse: dialogo, confronto, scambio. Anche nei confronti di chi cattolico non è? Guardi, nell’intera provincia ci sono 185 scuole di
matrice cattolica. Molti bambini, studenti, vengono da altri paesi. Come vuole che ci si rifiuti di dialogare con loro? Ognuno è portatore di risorse e culture diverse che vanno tenute ben presenti. Lo stesso dicasi per i laici. Quindi? Quindi sono per partire dalla nostra identità per costruire una società aperta. Identità non significa contrapposizione. Ma affidarsi a ciò che si è per aprirsi agli altri. Se proprio vuole che mi inventi uno slogan: sono per una identità aperta. In che rapporto si pone rispetto al suo predecessore? lei sembra più riservato... Rispetto al lavoro di Monsignor Nonis credo di essermi posto in un rapporto di grande continuità. Quando sono arrivato a Vicenza ho raccolto e proseguito molte delle sue iniziative. Su tutte: il percorso di educazione alla fede “Cristiani non si nasce, si diventa”. Poi, rispetto alla mia supposta riservatezza... Sa, siamo uomini. Ognuno di noi è diverso. A ciascuno il suo stile. Il mio è quello di stare in mezzo alle persone, fuori dal palazzo, dall’episcopio. Poca ufficialità e tanta gente. Lo dico sempre ai miei parroci: ‘finita la messa, non rifugiatevi in sacrestia. Scendete in mezzo al vostro gregge, guardatelo negli occhi!’ Con ciò, sia del tutto chiaro, non sto alludendo in alcun modo al mio predecessore. Sto parlando di me: io sono così. Se vuole definire questo mio stile ‘riservato’, faccia pure. Monsignore, visto che lei è il vescovo della ricca Vicenza, una provocazione: è ancora vero che è più facile che un cammello passi per la cruna dell’ago piuttosto che un ricco ascenda al regno dei cieli? Guardi, proprio Vicenza, pur nelle sue contraddizioni, è un esempio di come si possa conciliare il benessere con una fede vera. In silenzio, si fa moltissimo per gli “ultimi” ma, come le dicevo prima, con estremo pudore. Insomma, poche parole e molti fatti. Non dimentichi che oggi siamo sì ricchi, ma in passato queste terre hanno vissuto in grandissima povertà. La gente, ne sono sicuro, non ha dimenticato. Le voglio fare ancora un esempio. Vicenza è tra le città più impegnate d’Italia nelle adozioni a distanza. Non le pare un dato significativo? Lei parla spesso di vera fede. A tal proposito, quali dovrebbero essere, oggi, le virtù di un buon cristiano? Quelle di sempre, ma vissute in maniera intima e, appunto, vera. Perseveranza, coraggio, coerenza. Umiltà nel porsi in posizione di ascolto. Impegno nel vivere la carità nella solidarietà. E l’obbedienza? Anche. Perché no? E’ una virtù sempre necessaria. Senza legalità, regole, morale, etica sarebbe il caos. Obbedienza significa anche rispetto. Non accetto, ad esempio, che un padre mi dica ‘sono amico di mio figlio’. Ma quale amico? Un padre è un padre. Siamo una società senza padri, molto, troppo materna, comprensiva, accogliente a prescindere da tutto. Ma il ‘padre’, inteso in senso simbolico non certo come genere sessuale maschile, non resta neutrale di fronte al bene e al male. Credo che il Papa rappresenti al meglio questa paternità e maternità simboliche. Accoglie, abbraccia, ama profondamente ma, al tempo stesso, indica la via, si esprime senza mezzi termini, sceglie. Non accetta compromessi né neutralità. Monsignore, una domanda che credo si pongano – da sempre - molti laici, ma anche i cristiani. Dov’era Dio ad Auschwitz? Dov’è Dio laddove regnano inconstrastati, oggi come allora, violenza e dolore? Senza fede è difficile comprendere, ma Dio era lì. In mezzo a quella sofferenza infinita. Anche a Gesù sulla croce dicevano: ‘Se sei davvero figlio di Dio, scendi da lì...’ Ma lui è rimasto dov’era, ad affrontare il martirio. Dio partecipa pienamente del dolore. Anche il più immenso. E’ un Dio che costringe la sua gente a compiere un gesto come quello di padre Kolbe: sacrificarsi al posto di un altro. Anche il ladrone, crocifisso a fianco di Gesù Cristo, decide di affidarsi a lui. Si fida di uno che si trova nella sua stessa situazione. Apparentemente, uno come lui. Eppure il ladrone sceglie Cristo. La sua persona. Ed è alla figura di Cristo che bisogna ritornare. Tornare a legare indissolubilmente il messaggio alla sua persona. Il Papa è molto amato non solo per quello che dice, ma perché è lui, quell’uomo che è Giovanni Paolo II, a dirlo. Riscoprire Gesù Cristo significa tornare a comprendere lo ‘scandalo’ che è stata la sua persona. Che è ancora. Un messaggio ai vicentini per concludere? Puntare, con vera fede, sull’uomo. Abbandonarsi, cedere alla speranza. Ce la faremo. Davide Lombardi
I vicentini chiedono Camminiamo insieme alla storia nella vita concreta degli uomini Registro con piacere le buone impressioni che il nuovo Vescovo sta suscitando nelle comunità ecclesiale e civile vicentina. La nostra è una collettività composita, rapidamente trasformata in questi ultimi anni, ricca peraltro di valori cristiani ma anche di tradizioni culturali diverse, di potenzialità umane, sociali ed ecclesiali un po’ stanche. Era atteso un Pastore che sapesse risvegliare. Lo dice il suo peregrinare quasi forzato per la diocesi nel desiderio di conoscere persone e situazioni senza preconcetti, i suoi numerosi incontri con le varie componenti e le diverse situazioni umane della società vicentina: dai disabili, agli operatori nel volontariato, a quanti sono impegnati nella vita politica ed economica, soprattutto con i giovani con i quali sembra stia stabilendo un rapporto particolare di fiducia e di dialogo. Ne è stato conferma l’incontro affollatissimo di sabato 1 dicembre in Cattedrale. È semplice e spontaneo il suo modo di porsi e di stabilire rapporti. Perchè lo si possa incontrare ha tolto barriere e ha persino consegnato ai giovani il numero del suo cellulare per favorire il contatto. È chiaro e stimolante il suo parlare sempre ancorato ai testi biblici ma con applicazioni concrete all’attualità; talvolta sembra un condottiero che guida la comunità credente a risvegliarsi per riprendere la sua testimonianza di fede e di servizio adeguato ad un mondo che cambia. Insiste molto sulla necessità di una fede matura, ma incarnata e operante soprattutto in favore dei più deboli. Ha scelto come tema per la riflessione agli operatori politici e dell’economia ‘Giuda e lo scandalo della croce’ e in un passaggio ha detto : “la tentazione di esercitare potere sugli altri e non per gli altri è ricorrente anche in ciascuno di noi che siamo chiamati ad esercitare nella società e nella chiesa una qualche forma di responsabilità e di potere in vista del bene comune. (...) È essenziale che teniamo sempre unite nella nostra coscienza la promozione della giustizia e della solidarietà verso i più deboli ed indifesi. La giustizia passa attraverso la volontà di abbattere le sperequazioni esistenti. (...) I cristiani non possono tacere di fronte alle ingiustizie che ingenerano gravi tensioni tra gli uomini e quando agiscono nel politico e nel sociale debbono farlo salvando il primato dell’uomo e di ogni persona sulle cose.” Cosa possiamo attenderci noi laici, non laicisti, non associati nel mondo cattolico, ma pur sempre partecipi con la nostra fede più o meno sicura di una Chiesa di cui ci sentiamo parte e che vorremmo ancora ispiratrice coraggiosa, audace di valori autentici per la società? Che non si spengano intanto queste prospettive di fiducia che il Vescovo sta suscitando perchè soffocate o frenate da chi ha nostalgie di un passato più lento e tranquillo, non ritmato sulla problematicità del tempo presente. Che ritorni una Chiesa non frenata, più estroversa, capace di camminare con il ritmo della storia e di stare dentro la vita concreta degli uomini con il suo annuncio di speranza e il suo servizio. E soprattutto una speranza: che si ritorni al clima di partecipazione, di fiducia, di apertura vissuto con il Sinodo diocesano. Certamente ciò avrebbe una sua stimolante ricaduta anche sulla nostra società civile vicentina che spesso appare assopita, quasi avviluppata su se stessa. Mario Zocche
La Chiesa e lo Stato, due entità separate ma in relazione Il ruolo della Chiesa era, è e sarà la proclamazione della parola di Dio, dell'Evangelo, cioè della verità cattolica, cioè universale. Il suo messaggio è rivolto all'uomo in quanto tale, alla sua salvezza, non ad una istituzione, la Chiesa è unica nella carità e nella fede e realizza il comandamento dell'amore, che è il bene universale, da attuare in ogni circostanza. Per questo propone e realizza la libertà e la giustizia per la dignità dell'uomo. Il compito non è legato alle situazioni di luogo e di tempo, perché la sapienza della Chiesa non è meramente terrena, ma viene da Dio ed è pura, pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti senza parzialità, senza ipocrisia, come dice San Paolo. La Chiesa è responsabile, non si preoccupa se uno Stato si dice laico, purché non limiti la sua libertà di fede e di evangelizzazione, come è già accaduto. La Chiesa è consapevole della sua differenza dallo Stato, non si confonde con esso (Gaudium et spes), ma sa che deve ispirare e dirigere l'azione politica dei credenti, e ciò senza confusioni di contenuto e di azione con prospettive solo laiche, che sono limitate nell'orizzonte temporale. Italo Francesco Baldo
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Alla European School of Economics di Corso Fogazzaro i conti non tornano
Rispolverato il creazionismo. La scuola insorge
L’Università fantasma ha i giorni contati
Darwin spodestato: la scuola insorge
10mila euro l’anno a studente spariti in un dedalo di società European School of Economics Vicenza ha oramai i giorni contati. Siamo all’epilogo di una storia di mala istruzione, mala gestione e gran confusione tutta all’italiana. In passato si era già parlato molto di questa università privata internazionale: qualche anno fa la Ese ha infatti goduto dell’attenzione della stampa e di trasmissioni televisive come “Mi manda Rai Tre”. All’epoca la spinosa questione riguardava il titolo di studio rilasciato: il Bachelor of Arts (BA), titolo accademico inglese, non riconosciuto in Italia, e venduto dagli esperti di marketing della Ese come equivalente ad una laurea nostrana. Come prima diretta conseguenza gli iscritti maschi si sono dovuti tutti rassegnare a scegliere fra due alternative: interrompere gli studi e partire per il servizio militare, o sobbarcarsi il peso di lunghi ricorsi al Tar. La European School of Economics rilascia il BA, previa approvazione di un’università inglese con tutte le carte in regola: un comitato di controllo qualità supervisiona il lavoro di docenti e studenti e se questi rispondono agli standard stabiliti, convalida percorso e titolo. Una precisazione è dovuta per dovere di onestà informativa: il BA è da tempo riconosciuto come laurea inglese in tutta la Comunità Europea, il problema nel caso Ese era che gli studenti frequentavano i corsi in Italia, quindi presso una sede distaccata rispetto all’università validante. Un vizio di forma, un cavillo che ha però scatenato un putiferio: la Ese è stata accusata di fare pubblicità ingannevole, di vendere un titolo di studio spacciandolo per laurea italiana quando in realtà non aveva nessun valore: in sostanza di vendere fumo. Da qui la causa intentata dalla European presso la Corte Europea per il riconoscimento del titolo, quella contro la Rai per diffamazione, decine di altre querele ad organi
d’informazione e altrettanti dichiarazioni choc e relative smentite sulle pagine dei quotidiani locali. La questione si è risolta il 13 novembre scorso: la Ese ha vinto il ricorso presso la Corte Europea ed ottenuto il riconoscimento del titolo. Ma non poteva essere finita qui, nonostante l’eleganza delle sedi e lo sfarzo delle cerimonie di laurea. Sotto sotto la European School of Economics continuava a puzzare un po’ di fregatura. L’ironia della vita: il motto della scuola, “Visibilia ex invisibilibus”, incarna perfettamente questa sensazione. Letteralmente significa rendere visibile ciò che in realtà non lo è, materializzare l’immaginario, dare forma al sogno: praticamente un gran gioco di prestigio ben riuscito. Però il prestigiatore, quello vero, non rivela mai i suoi, mentre alla Ese i trucchi e le magagne sono venuti alla luce. “La Ese è un’università internazionale, interculturale e pragmatica, una Scuola di Economia, Finanza e Marketing tra le migliori d’Europa. Ha sedi a Londra, Parigi, New York e 10 Campus nel cuore delle principali città italiane…” Questo è quanto si legge nel sito web della European, che ergendosi a fucina dei manager del futuro dovrebbe essere un esempio di ottima gestione aziendale, con bilanci brillanti di una cristallina trasparenza. I suoi dipendenti ce li immaginiamo ben vestiti, sereni e sorridenti, felici di lavorare in un ambiente tra i migliori d’Europa; le sedi Ese dovrebbero essere tutte un brulicare di docenti e studenti, trasudanti di eutusiasmo e internazionalità. E invece Ese Vicenza, in questi giorni, ha un aspetto davvero desolante: pochi studenti, niente docenti, niente dipendenti. Palazzo Valmarana Braga, la sede di Corso Fogazzaro, maestoso ed imponente dalla prima all’ultima colonna, appare tetro, cupo. In una parola: vuoto. La sede non ha ancora chiuso definitivamente i battenti, il cuore
“Senza soldi e senza lavoro dopo mesi di sacrifici” Un ex dipendente di Ese Vicenza, che per ovvie ragioni preferisce restare anonimo, racconta una realtà lavorativa al limite del grottesco.
Il palladiano palazzo Valmarana Braga in corso Fogazzaro. Sede Ese a Vicenza
pulsa ancora, anche se a fatica. Sugli uffici pende la spada di Damocle di uno sfratto esecutivo: l’ultima proroga scadrà in giugno; mobili e materiali sono stati già pignorati. Alla Ese molti docenti se ne sono andati dal momento che il loro lavoro non è stato retribuito in alcun modo. Di dipendenti nemmeno l’ombra: dopo sei mesi senza stipendio (l’ultima mensilità l’hanno percepita lo scorso ottobre), è stato necessario pensare a come riciclarsi e sbarcare il lunario. Eppure di soldi alla Ese di Vicenza dovrebbero circolarne parecchi: circa 60 studenti per diecimila euro di retta cadauno. Dove saranno andati a finire? m.a.
Ho conseguito un BA in Sociologia all’estero, in Inghilterra. Lavorare per la European School, che proponeva lo stesso titolo di studio, mi sembrava un buon inizio. Nella sede Ese di Vicenza mi occupavo degli scambi culturali con altre università internazionali. Le mie mansioni si sono moltiplicate esponenzialmente, mano a mano che i soldi non arrivavano e colleghi se ne andavano. Ho dovuto dividermi fra scambi culturali e lavoro di didattica, fungevo da receptionist, fotocopiavo le dispense, a fine anno ho fatto anche parte delle commissioni di laurea. In pratica un factotum. Tra l’altro mancava tutto: dal fondo cassa per comperare i francobolli alle linee telefoniche. A noi dipendenti spettava l’onere di trattare con gli studenti e le loro famiglie, cercando di minimizzare e giustificare i disservizi. Dovevamo tranquillizzarli e convincerli a continuare a pagare la retta. Un carico morale notevole, dal momento che ci rendevamo sempre più conto di come funzionavano le cose. I soldi c’erano, diecimila euro l’anno a studente, che venivano regolarmente versati nelle casse della scuola per poi sparire nel buio. Dietro la Ese c’è un complicato groviglio di società e nessun responsabile a cui fare riferimento. Sembra un meccanismo studiato appositamente per far sparire i capitali. Ho lavorato per la European per poco più di un anno: co.co.co, lavoro a tempo determinato e periodi in totale assenza di alcun tipo di contratto. Attualmente avanzo diverse mensilità, sono in cerca di lavoro e, come tutti i miei colleghi, sono nel bel mezzo di una lunga causa legale. m.a.
Con la riforma operata dal ministro Moratti, da quest’anno la teoria dell’evoluzione perderà spazio nei libri di scienze, affiancata dalla prospettiva creazionista. Scienza, religione e politica si incontrano e si scontrano. Da più di un secolo il dibattito tra creazionisti ed evoluzionisti è vivace in tutto il mondo, e nel nostro Paese, come spesso accade, viene strumentalizzato dalle più svariate ideologie politiche e religiose. Dagli scienziati cattolici a Forza Nuova, dagli Hare Krishna ad An, dal Vaticano ai marxisti materialisti ed agli agnostici razionalisti: chiunque dice la sua sull’origine dell’uomo, e naturalmente tira acqua al suo mulino. Il mondo accademico sembra essere nettamente contrario alle nuove direttive ministeriali. “Penso sia un enorme abbaglio scientifico e culturale di cui pagheranno le conseguenze i nostri figli e nipoti. – dice Giovanni Boniolo, titolare della cattedra di Filosofia della Scienza presso l’Università di Padova – quando è la politica che decide che cosa sia scientificamente valido, per un paese è finita. Il problema non riguarda esigenze scientifiche. Non penso nemmeno che siano intervenute influenze religiose. Penso ad un atto di stupidità e arroganza politica. Uno dei molti atti che stanno portando il nostro paese distante da chi fa ricerca e cultura nel mondo. Sono cose del tutto inconcepibili razionalmente”. La politica minaccia dunque l’autonomia della ricerca scientifica e dell’insegnamento. “Se ciò che si insegna è in funzione delle direttive del governo, diveniamo uno stato etico e non uno stato di diritto. Sfortunatamente molti guai sono già stati fatti. Speriamo nelle prossime elezioni e nel fatto che gli elettori si rendano conto di chi e cosa votano”. Il diktat governativo, nonostante le sue linee guide non siano ancora facilmente decifrabili, fa storcere il naso agli insegnanti berici. “Se mi obbligassero a tornare indietro penso che mi rifiuterei”. dice Laura Tizian, insegnante di scienze alle scuole medie. “Il creazionismo ha dignità filosofica e religiosa, ma non può essere equiparato alla teoria dell’evoluzione sul piano scientifico. Ridimensionare una teoria accettata è assurdo”. Silvano Secondin, insegnante di scienze presso il liceo scientifico Lioy, non usa mezze misure: “Non ero al corrente di questa rivoluzione che considero un’isteria pseudo-intellettuale di matrice anglosassone. Il creazionismo è superato, e la decisione governativa è assurda. Se mi imponessero di modificare il programma di insegnamento in prospettiva creazionista, penso che mi rifiuterei di farlo in nome della libertà di insegnamento. Io insegno scienze, e queste speculazioni non mi interessano”. Giuseppe Bertagna, a capo del gruppo di lavoro che per conto del ministero ha formulato la riforma dell’insegnamento, sostiene che Darwin non verrà eliminato, bensì rivisto e criticato. Nonostante queste rassicurazioni, è evidente come le attuali direttive lancino un forte segnale che rischia di contrapporre frontalmente gli organi statali e gli insegnanti, che a loro volta minacciano di ribellarsi. Schiacciati fra l’incudine governativa e il martello dei docenti, gli studenti sembrano avere le idee molto chiare. Marco e Alessandro, studenti dell’ultimo anno del Lioy: “La religione non deve entrare a scuola. Se studi scienze devi fare riferimento a Darwin, se ti interessa la creazione vai a catechismo Nicola Rezzara
RITRATTI VICENTINI
Come dire no a doping e soldi. E vivere felici Francesco Pavan, vicecampione mondiale di mountain bike amatoriale, fa del ciclismo pulito la sua bandiera “Se facessi come gli altri, chissà dove arriverei. Ma lo sport è troppo bello per umiliarlo con queste porcherie” Lui ha sempre detto no. Mentre altri si facevano tentare dalla chimica pur di raggiungere le vette dell’agonismo – fino al punto in cui l’anormalità era non doparsi – lui ha continuato la sua strada. E raggiunge grandi risultati con la sola forza delle sue gambe e del suo carattere. “Con le qualità che ha – dice Marco Sinicato, uno dei suoi preparatori (già allenatore della pallacanestro vicentina maschile e femminile dei tempi d’oro, dell’hockey Bassano e di altri sportivi di grido – potrebbe eccellere anche tra i professionisti. A patto di accettare certe porcherie. Cosa che il nostro Francesco fortunatamente non farebbe mai”. Francesco Pavan, vicentino, ha gambe d’acciaio e cuore da asceta orientale. È riuscito a raggiungere risultati di altissimo livello nel mondo della mountain bike dilettante, godendo allo stesso tempo della fama di campione schierato contro ogni forma di doping. Dev’essere dura, verrebbe da pensare, rendersi conto di avere qualità per cui basterebbe un salto... in farmacia per ritrovarsi sbalzati da un ottimo livello da dilettante a un ottimo livello da professionista. ma questo discorso non vale per Francesco Pavan. “Ho iniziato a correre in bici tardi, avevo già 26 anni. Ma venivo da molti anni di calcio. Ho deciso di cambiare perché preferivo una disciplina individuale. La bicicletta mi ha permesso di realizzare i sogni dell’adolescenza, quelli di vincere molte gare, anche se nel settore amatoriale.” Il suo palmarès è di tutto rispetto: campione italiano juniores nel 2000 e, nello stesso anno, secondo posto assoluto nel campionato mondiale. Nel 2002 poi un clamoroso successo nel campionato europeo. “E non ho finito - dice Francesco - ma attualmente ho abbassato i ritmi di preparazione. Qualche anno fa mi allenavo per due o tre ore al giorno, mantenendo allo stesso tempo il lavoro che mi obbliga ad alzarmi alle tre della mattina.
Faccio il pane: rosette, mantovane, sfilatini... È stato ed è un sacrificio, un impegno serio. D’altra aparte sono solo un amatore, non posso certo lasciare il panificio per la bici.” Oggi è anche trainer all’interno della sua squadra, la Tosetto di Motta di Costabissara. “Non chiedetemi i miei obiettivi per il futuro: non ne ho la minima idea”. Francesco è un grande esempio, in positivo, per tutto il mondo del ciclismo e per una provincia dove moltissimi atleti usano - più o meno consapevoli - sostanze dopanti: a volte sono i loro allenatori, a volte le squadre di cui fanno parte, spesso la loro stessa ambizione. Si sta facendo qualcosa per invertire la rotta? “Devo confessare che quando sei all’apice ti viene naturale chiederti: porca miseria, se prendessi io quelle cose, cosa arriverei a fare? Ma la scelta che ho fatto è quella di prendere lo sport come scuola di vita. Ho fatto sempre leva sul sacrificio; è questo il fattore determinante del successo di un vero atleta, non c’è altro. C’è anche da dire che l’atleta è l’ultimo anello di una catena di interessi più grandi, che inizia dalle case farmaceutiche. L’atleta soddisfa i suoi sogni, ma a scapito della sua salute. Quando il fisico ti dice che non ce la fai ma la mente dice che quella gara la vuoi vincere, può accadere di scivolare. Perché sei fragile. Ma la cosa peggiore è quando la coscienza viene rovinata ai giovani, perché vengono loro richieste sempre più vittorie, ritmi sempre più alti. Lo sport sta vivendo un momento difficile, ma è giusto che sia così: spero che prima o poi venga tutto a galla e che si faccia pulizia. La morte di Pantani è stato uno shock per moltissimi appassionati e sportivi. Che insegnamento si può trarre da questa vicenda? Pantani è stato un personaggio sfortunato. La sua morte deve dare uno scrollone alle coscienze di tanti. Viviamo sognando grandi traguardi ma si tralascia l’obiettivo principale. Che non è la cre-
scita muscolare, i centesimi di secondo guadagnati, le vittorie di plastica. Quello che conta davvero è la maturazione umana. Ho visto con i miei occhi tanti casi in cui la visione costruttiva dello sport viene a mancare. In questi casi, quando crolla l’individuo, ci si accorge che era cresciuto solo l’atleta e non l’uomo. No, tutto questo non fa per me.” Come ti hanno aiutato le due ruote? La mountain bike rispecchia la visione della vita che ho io: fatta di sacrificio e di sudore. Arrivare primi non vuol dire che bisogna sopraffare gli altri. È una lotta interiore che ognuno fa Francesco Pavan con se stesso, che ci aiuta a “La vittoria è soprattutto interiore. Per questo anche non sentirci sconfitti nei se con il doping si può momenti difficili, nei lutti o nelle arrivare primi, si perde delusioni. La bicicletta mi ha contro se stessi” dato soddisfazioni non solo per le vittorie che mi hanno fatto coronare un sogno, giunge questo grado di coscienza, quando capisci ma anche perché ho capito che puoi ottenere tan- la bellezza dello sport, puoi apprezzarlo in tutti i tissimo contando su te stesso e la forza di volon- suoi aspetti: non tifi più per qualcuno, ma per tutti. tà, senza barare. Consigli ai giovani di entrare nel mondo dello Ho visto appese alle pareti, accanto alla croce cristiana, delle foto di santi della tradizione india- sport, nonostante tutto? Tu affideresti tuo figlio a me dopo quello che ti na. Anche questo fa parte della tua filosofia di ho detto? Io ho avuto la fortuna di conoscere delle vita? Da anni pratico yoga e meditazione, il mio mae- persone, che mi hanno seguito nelle prime espestro si chiama Paramahansa Yogananda. È stato rienze, che credevano in uno sport sano. C’è bisoun aiuto anche per lo sport, un altro complemen- gno di persone come queste, che creino un’altra to della mia costruzione interiore. Lo sport stesso visione del mondo sportivo, che insegnino partenè stato un passaggio, una fase di questa crescita, do da buoni principi. Bisogna farlo per i giovani di per arrivare a capire altre cose. Ho scoperto l’esi- oggi: gli uomini di domani. Andrea Fasulo genza di capire qualcosa di me. Quando si rag-
economia e società
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La struttura unisce 52 cooperative e non smette di crescere: “Siamo il futuro dei servizi”
La terza via dell’economia Il consorzio Prisma impiega 2000 persone e fattura 45 milioni di euro. Per gli economisti è una strada vincente tra pubblico e privato Diversamente da un colosso industriale, qui non troverete amministratori in blazer e nemmeno auto blu di rappresentanza. Per il resto Prisma non ha niente da invidiare a una grande azienda: dà lavoro a 2000 persone, fattura 45 milioni di euro l’anno e risponde a bisogni primari del mercato. Né impresa pubblica, né azienda privata: Prisma è un consorzio capace oggi di unire 52 cooperative sociali della provincia di Vicenza. Nato nel 1994 dalla felice intuizione di un gruppo di cooperative che non si sentivano sufficientemente rappresentate, si è posto un preciso obiettivo: contare su una struttura comune che garantisse a tutti più rappresentanza, più servizi, più valore aggiunto ai soci nel mercato del lavoro. Una sfida che in 10 anni può dirsi vinta, stando ai numeri e all’interesse con cui Prisma è osservata dal resto d’Italia. Non sono più di cinque infatti, nel nostro Paese, i consorzi capaci di raggiungere i risultati del gruppo vicentino.
Con la benedizione della Chiesa (e degli economisti) Gli economisti chiamano queste realtà “terzo settore” e disegnano per loro buone prospettive nel nuovo mondo del lavoro che va costruendosi in questi anni. “Il termine Terzo settore è una visione un po’ residuale – dice Gianni Zulian, presidente del consorzio - perché richiama un’impresa a mezza via tra Stato e mercato. Noi preferiamo il termine “privato sociale”: abbiamo infatti una forma giuridica privata, come le aziende tradizionali, ma finalità sociali.” Ma se fino a oggi queste cooperative hanno avuto dalla loro un
valido sostegno del territorio - a cominciare dalla Chiesa, che ne ha sempre apprezzato il fine sociale – ultimamente anche molti economisti cominciano a guardarle di buon occhio: anche tra i duri e puri del liberismo c’è chi riconosce a queste strutture la capacità di offrire servizi di qualità liberando il settore pubblico, e la sanità prima di tutto, da costi insostenibili o da avventurieri a caccia di contratti facili. “Quello che ci è un po’ mancato in questi anni - dice Gianni Zulian – è la capacità di comunicare. Oggi vogliamo fare un salto di qualità anche da questo punto di vista. Il rischio, altrimenti, è di non essere identificati per quello che siamo. Ad esempio siamo spesso confusi con il volontariato quando siamo invece organizzati a tutti gli effetti come imprese.” Cominciamo dal nome. “Prisma significa Promozione Impresa Sociale Mutualità e Autogestione. Acronimo ben riuscito, perché dà il senso il una realtà dalle molte facce ma con un’anima sola. Si va infatti dalla Cooperativa Insieme, il cui fine è l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate, a cooperative che offrono servizi socio sanitari come l’assistenza domiciliare agli anziani o le comunità terapeutiche.” La Cooperativa Insieme è uno dei fiori all’occhiello del Consorzio perché dimostra che si può lavorare e crescere con mentalità imprenditoriale senza vendere l’anima e perdere per strada i propri obiettivi: lo dimostra l’ottimo risultato raggiunto con la raccolta dei fondi per la costruzione della nuova sede attraverso finanziamenti etici a rendita limitata. Perché Prisma è un esperimento interessante a livello nazionale?
Il presidente Zulian: “Le cooperative sociali sono la miglior soluzione tra due derive: una gestione pubblica sempre più problematica e una privatizzazione selvaggia dei servizi” “Non è il consorzio a rappresentare una novità, ma la sua dimensione. In molte province troviamo addirittura tre o quattro consorzi. Noi siamo un’eccezione perché abbiamo unito più di 50 realtà sotto lo stesso tetto”. Perché gli economisti vi guardano con interesse? “Perché siamo una valida soluzione ai problemi di politica sociale. Non è facile oggi esercitare una pubblica funzione. Noi garantiamo il ruolo delle istituzioni contro due diverse derive: da una parte la difficoltà sempre maggiore del pubblico di gestire i servizi; dall’altra il rischio di una privatizzazione selvaggia.” Giuridicamente privati ma, per statuto, con finalità pubblica. Come conciliate due cose così incompatibili? “Solo incompatibili solo apparentemente. Siamo un’impresa a servizio della comunità, solida e capace. Tant’è che oggi, dopo il grande sviluppo degli anni 90, viviamo una fase di consolidamento. In termini di fatturato e di occupati siamo in crescita.”
Lavoro sicuro Lavoro duro Come spingere i giovani a lavo-
LETTERE Il mondo vira un po’ a sinistra Credo fermamente che tra pochi mesi potremo vedere un’importante modifica nel quadro politico
zo delle cooperative sia una via morbida alla privatizzazione, per abbattere il ruolo delle istituzioni pubbliche con l’unico fine di risparmiare. Rischiate di passare per meri fornitori di manodopera qualificata a basso costo. “Il consorzio è nato anche per rispondere a questo problema. Chi si associa a Prisma deve offrire precise garanzie di qualità del servizio e un ruolo partecipativo nella programmazione dei servizi, oltre che nella gestione. Il marchio Prisma significa essere fornitore qualificato, non intermediatore di manodopera. Stiamo lavorando per costruire il progetto qualità prisma, una sorta di Iso 9001 delle cooperative - e il bilancio sociale consortile.” In due battute: perché associarsi a Prisma? Per acquistare valore aggiunto e qualità riconosciuta. Attraverso Prima la cooperativa promuoverà un’idea precisa di sé e offrirà garanzie per i diritti alla salute e all’assistenza. Inoltre riceverà molti servizi dal consorzio: dalla formazione all’aggiornamento alle consulenze gestionali”.
nazionale e internazionale. Le elezioni in Spagna sono il primo importante segno: la clamorosa e, per la maggior parte dei politici, inattesa sconfitta di Aznar è, a mio avviso, la prima di queste modifiche. Gli spagnoli non volevano la guerra all’Iraq e hanno punito il governo che l’ha fatta. Quanti italiani volevano entrare in guerra? Credo che in giugno Berlusconi se ne accorgerà. Sul fronte americano il senatore Kelly (il caso vuole che le sue ini-
ziali siano Jfk, come il presidente Kennedy) sarà il sicuro candidato alle elezioni di novembre e ha buone probabilità di battere il sia pur ricchissimo Bush. Per questi eventi, in fondo, non mancano che pochi mesi. Mi auguro di essere un buon profeta. Enrico Dini Primario di Ematologia Ospedale di Vicenza
ASSOCIAZIONI D’IDEE
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la città a chiare lettere
Direttore responsabile Matteo Rinaldi Redazione (
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rare in una cooperativa? Chi sceglie questo lavoro deve sentire dentro di sè il senso di ciò che fa. Qui bisogna “intraprendere”. La cultura del lavoro dipendente non paga. Insomma, lavorare è più difficile. Però c’è un vantaggio: più stimoli, più soddisfazioni personali. E un maggiore sbocco professionale.” Anche la scuola si è accorta di voi. È un’altra dimostrazione del valore di questa scelta. L'istituto Boscardin di Vicenza ad esempio, propone un iter di studi finalizzato proprio alle professioni sociali”. Un consiglio per chi intende mettere in piedi una cooperativa. “Fatelo, perché ne vale la pena. Oggi c’è un evidente processo di esternalizzazione dei servizi. A cominciare dall’Uls, che preferisce non sobbarcarsi più la gestione dei servizi ma appaltarli. Saranno richiesti sempre più quei soggetti che danno garanzie organizzative e solidità economico-finanziaria”. C’è anche un rischio: che l’utiliz-
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Nel silenzio di Vicenza, Ozanam è centro di incontro e dialogo
Parlare fa miracoli Associazioni d’idee è una rubrica che presenta, volta per volta, le associazioni vicentine. Un viaggio nel ricchissimo mondo dell’associazionismo cittadino che continua con Ozanam, gruppo che ha creato una struttura dalla porta sempre aperta dove chi vuole può entrare per trovare un pasto caldo ma soprattutto compagnia. Quando nacque, nella primavera di tredici anni fa, si chiamava il “Mezzanino” ed era situato in un primo piano modesto e ridotto, caratteristico delle vecchie case di Vicenza, in via Lampertico. Il primo passo avanti lo fece scendendo verso il basso: passò al piano terra e aprì un portone su Contrà della Fascina, proprio a due passi dalla Curia vescovile. D’altronde fu proprio il Vescovo di allora, Nonis, a volere questa struttura. Il “Mezzanino” nacque come centro di ascolto per tutti coloro che desideravano una parola di conforto, una segnalazione su come trovare un alloggio o un lavoro, ma anche un posto per chi si sentiva solo e aveva voglia di sedersi due minuti senza timore di essere mandato via, come succede nel parco o nelle panchine di viale Roma. Eppure il “Mezzanino” non è mai un posto triste: gestito da volontari (prima anche da obiettori) è un luogo sempre vivo, dove si creano situazioni paradossali che fanno scoppiare risa improvvise e liberatorie. Dopo gli italiani, a partire dagli anni Novanta, iniziarono ad arrivare gli stranieri, così il centro si colorò di mille sfumature e si animò di mille lingue. Alle volte accontentare tutti era impossibile. Ne sono derivati momenti di tensione, che gli infaticabili volontari - si badi bene, non ragazzini di primo pelo – hanno sempre saputo mediare. Ogni giorno vengono distribuite dalle cinquanta alle ottanta colazioni: caffè, latte, panini, yogurt e dolci preparati dai volontari o offerti da persone amiche. Due volte alla settimana viene offerta la cena. Nel retro, tra profumi di ragù e patate arrosto, sembra di entrare nella cucina di un vero ristorante. “Sarebbe bello poter offrire un servizio quotidiano di cena dice Mariagrazia Cacciavillan, una delle responsabili – purtroppo questa città non è organizzata per dare questo tipo di risposta come riescono a fare Padova e Mestre. Le iniziative in verità ci sono, ma manca un coordinamento di tutte le realtà attente al disagio
economico, psichico, lavorativo. Non voglio dire che Vicenza non è una città solidale. Lo è, ma si fatica a fare qualcosa insieme perché ogni realtà è autoreferenziale.” L’associazione “Ozanam”, regolarmente iscritta nel Registro regionale, prende il nome dal Beato Antonio Federico Ozanam, fondatore della società San Vincenzo de’ Paoli. ”I nostri settori di intervento sono moltissimi e spesso poco conosciuti – dice il Presidente Massimiliano Bressan, poco più che trentenne – a partire dal volontariato ospedaliero, che impegna ben 240 persone. Il problema è che nella nostra realtà sono sempre di più le persone che non possono permettersi una badante o semplicemente qualcuno che le aiuti. Perciò i nostri volontari si occupano dei tanti che hanno bisogno di assistenza anche per fare le cose più semplici: dalla spesa al ritiro della pensione, dalla visita medica alla semplice passeggiata.” In questi ultimi anni si sono aggiunte nuove figure in cerca di una mano, a comincire dai figli di immigrati che avendo entrambi i genitori che lavorano non possono essere lasciati a se stessi per una visita medica o una terapia da seguire. E ancora: la conferenza carcerati, che si occupa di molte cose a partire dal problema del reinserimento lavorativo di chi esce dal carcere. Quello a cui ora i responsabili vorrebbero arrivare è il diritto alla difesa. Qualcosa hanno già avviato con lo sportello giuridico, ma la strada da fare è ancora lunga.” Infine l’assistenza domiciliare: impegna 20 volontari a Sandrigo, presso la Casa di Riposo Diodata e nel territorio. Ma il vero fiore all’occhiello dell’Ozanam è indubbiamente il periodico “Incontri”, che è giunto al sedicesimo anno di vita e che dietro l’apparenza di un giornaletto dall’aria confessionale mette a nudo, con garbo e incisività, temi che di solito non si vogliono affrontare. “Il nostro motto - conclude Massimiliano – è semplice: La verità ci renderà liberi”. Milena Nebbia Associazione Ozanam via Vescovado 1, Vicenza tel 0444 326154 – fax 0444 323072 e-mail
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cultura
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Perché i critici non hanno mai capito la grandezza di Mario Rigoni Stern: uno stile schivo scambiato per provinciale
Il lieve sergente nelle neve In fondo, ho sempre avuto l’impressione che Mario Rigoni Stern – non ho il coraggio di chiamarlo per nome: del resto, ai suoi tempi, al padre si dava del voi – ho sempre avuto l’impressione, dicevo, che non abbia mai goduto di eccessiva stima letteraria, che sia sempre stato considerato uno scrittore ‘minore’, vorrei dire regionale, se non addirittura di genere. Nella migliore delle ipotesi, un vecchio alpino, che con un bicchiere in mano racconta ai nipotini, commosso ma nel fondo fiero, le sue imprese guerresche. Nella peggiore, una specie di vecchio nonno, che narra – ai soliti nipotini – di cosa mangiano i caprioli, o di dove va a nascondersi ‘il’ lepre (ma come parlano strano questi montanari). Sì, insomma, un brav’uomo, senz’altro, e rispettabilissimo, ma dopo che l’abbiamo ascoltato possiamo stringergli la mano, e andarcene, con sulle labbra un sorriso di sufficienza, verso le cose davvero importanti della vita. È spiegabilissimo, anzi è consequenziale e ‘giusto’, un simile atteggiamento, nell’ambiente letterario italiano, dove, salvo rarissime e fulgide eccezioni – Primo Levi, Elsa Morante, Dino Buzzati, Natalia Ginzburg – i ‘letterati’, gli ‘intellettuali’, sono piccoli buddha autoreferenziali, che passano il tempo a contemplarsi l’ombelico, a riflettere sulla propria grandezza, sull’eccezionalità del proprio ‘messaggio’, sull’assoluta originalità della propria ‘sperimentazione’ letteraria, pronti a reagire rabbiosamente e istericamente contro chiunque mostri di non averli compresi e adorati, infoiati di successo, di prime pagine, di visibilità, di potere. Come poteva, questa gente, capire Rigoni Stern? Come poteva capire uno che, dopo la guerra, la ritirata di Russia, e la prigionia, dopo aver conosciuto morte, freddo e fame, dopo tutto questo, torna a casa, in silenzio, quasi temendo di disturbare, quasi paventando un qualche festeggiamento per il ritorno del reduce, e si mette a fare l’impiegato comunale. L’impiegato comunale: non è un lavoro da protagonisti, e neppure da eroi. È un lavoro ‘quotidiano’, semplice: tutti i giorni dalle otto alle quattordici, scrivere, fare i conti giusti, tenere in ordine le carte, tener pulita la scrivania, rispondere – umanamente, senza arroganza – ai bisogni della gente, tornare a casa con la coscienza del lavoro compiuto onestamente. “La consigne c’est la consigne” avrebbe commentato un altro grande poeta degli uomini, Saint-Exupéry. Poi, a casa – la sua casa, la casa in mezzo agli alberi, la casa con i figli e i pochi amici, con gli alveari, col cane, con gli uccelli che passano e il bariletto dei crauti, la casa che vibra di altri suoni e odori che non quelli delle nostre vite di déracinés – il momento del silenzio, del ricordo. Sui suoi quaderni, pian piano, tornava tutto. La giovinezza, la guerra, il freddo, i compagni morti, il ritorno. Ma non solo. Tornavano anche – dalla sua esistenza e da quelle di coloro che l’avevano preceduto – le storie di caccia, di animali, di boschi. Tutto ritornava, lentamente, e l’impiegato, il cacciatore di urogalli, l’ex soldato, stava lì seduto e dava voce a tutti, uno alla volta. Da quel suo ‘esistere’ e riflettere, sono nati i suoi libri, umilmente e ‘naturalmente’. Così nacquero i primi, e così ha continuato a ‘partorirli’, e se pur, ad un certo punto, si è trovato investito di una certa celebrità, si ha sempre avuto l’impressione che il suo editore dovesse quasi strappargli ogni tanto un suo nuovo fascicolo di pagine, quasi che lui se ne schermisse, e poi arrivavano a noi, ed era ogni volta una nuova epifania. Così è stato fino alle sue ultime righe di poco tempo fa, a quella Ultima partita a carte, ultimo cristallo trasparente. Queste mie righe – e spero, anche quelle di altri migliori di me – siano dunque per tributargli onore e rispetto, ed intimissimo affetto.
Il dopoguerra S’impiega al catasto di Asiago. Nasce “Il sergente nella neve” • Anni ‘60 Scrive il soggetto del film di Olmi “I recuperanti” • 1970 Lascia il lavoro. Comincia a pubblicare e a collaborare con La Stampa • 2000 Cura “1915-18: la guerra sugli Altipiani. Testimonianze di soldati al fronte” (Neri Pozza, 2000)
1921 Nasce ad Asiago: famiglia numerosa che commercia i prodotti di malga • Infanzia Fa il garzone nel negozio dei genitori • 1938 Volontario alla scuola militare d'alpinismo di Aosta • 1939 Inviato sul fronte occidentale. Poi albanese e russo • 9 maggio 1945 Ritorno in Altipiano dopo due anni di lager.Ha 23 anni
Gli umili Aedo degli umili, degli ultimi, dei poveri, degli sconfitti, Rigoni Stern conosce quale sia il gusto del sale della terra, e chi con quel sale la renda fertile e viva. I protagonisti delle sue storie sono sempre contadini, montanari, povera gente. Questo non per una scelta ‘politica’, o per meglio dire ideologica; nemmeno per la povera ragione – ché questo sì lo ridurrebbe ad uno scrittore ‘paesano’ – che si tratta della gente in mezzo a cui ha sempre vissuto. No. Rigoni Stern ha raccontato gli umili perché sa che sono essi a costruire il mondo, che loro sono le fatiche, loro i sudori, loro, quando occorre, il sangue. Loro è anche la dignità. I poveri di Rigoni Stern paiono non ribellarsi mai: vanno in guerra, oppure faticano, mangiano il formaggio con la crosta perché hanno fame, patiscono il freddo, muoiono. Ma quella non è viltà, né rassegnazione. È, appunto dignità, quella di chi trova la propria dignità di uomo nel seguire il proprio ‘destino’ (ancora la ‘consigne’ saintexuperiana, che diventa divisa esistenziale) – pur avvertendone benissimo la durezza, e conoscendone le ineguaglianze – e preferisce lasciare agli altri, ai ‘potenti’, agli individui eccezionali, i beaux gestes, i discorsi altisonanti, la ‘gloria’ e, se del caso, la fuga ignominiosa e la vergogna. Sconfitti, dunque, solo apparentemente; in realtà vincitori, operatori nel mondo di giustizia e di bene, inteso come rigore morale, umanità. Un mondo umano e narrativo, dunque, quello di Rigoni Stern, che lungi dall’essere angusto, limitato, particolare, diventa profondamente, imprescindibilmente universale. Gli esseri umani di Rigoni Stern sono quelli che sono già stati, in passato, in culture e società certo più povere ma più essenziali della nostra; sono quelli che dovrebbero essere oggi, se avessero orecchie per udire; sono quelli che dovranno essere, se vorranno salvarsi dalla perdizione.
La guerra Anche il suo approccio alla guerra, la sua posizione ‘antibellicista’, è assolutamente particolare, verrebbe quasi da dire ‘indiretta’. Mai, nei suoi libri, si troveranno proclami, concioni, roboanti discorsi contro la
guerra. Mai egli si impanca a tribuno: ‘non fa per lui’, come direbbe Chaplin. Rigoni Stern non attacca mai direttamente la guerra. Eppure, quant’è profondo ed assoluto il rifiuto che ce ne insegna. Lui guarda alla guerra, ancora una volta, dal basso, dal punto di vista dei minimi. Essi la fanno, a volte, la guerra, perché ce li mandano, perché ce li trascinano – i poveri, da sempre ‘carne da cannone’ – ma la considerano anche, la giudicano, e la condannano, senza appello, senza giustificazioni, senza remore. Vedono sfilare davanti a sé questa macchina violenta e distruttrice, che tritura case, campi e vite, che polverizza in un istante anni e secoli di lavoro umano, che annulla vite, ed ognuna è unica ed insostituibile (nell’Uomo del treno, il recente capolavoro di Patrice Leconte, uno dei protagonisti dice: ‘Più invecchiamo e più diventiamo preziosi’). Vedono davanti a sé le azioni di questo Moloch, e vedono che oltre che barbare esse sono stupide, perché a nessun’altra logica obbediscono se non a quella del potere e della sopraffazione, ovverosia ad una logica ‘biologicamente’ contraria a quella del genere umano, che è quella della solidarietà. Il ‘pacifismo’ e l’antifascismo di Rigoni Stern sono, appunto, ‘biologici’, naturali. Nascono dalle cose, dall’essenza delle cose, sono così perché così dev’essere, e non potrebbe essere altrimenti . È quasi un sillogismo: la guerra ed il fascismo sono antiumani, io sono un essere umano, io sono contro la guerra e contro il fascismo . Anche quando militò – sempre con estrema discrezione – in partiti politici della sinistra, anche quando girava le scuole italiane per tenere discorsi agli studenti, il suo pacifismo non è mai stato ‘politico’, non nel senso settario del termine. La sua voce ha sempre detto no alla guerra perché distrugge le case, perché uccide gli esseri umani, perché nega la solidarietà ed insegna l’odio, perché non è ‘umana’. Quanto più una verità è elementare, tanto più è assoluta.
La prosa Forse ciò che meno è stato apprezzato di Rigoni Stern è proprio la sua prosa, che molti avranno trovato ‘povera’. E così è, in effetti. Rigoni Stern non conosce prosa lirica, voli pindarici, metafore ardite, raffinatezze stilistiche, esercizi retorici: lui conosce la vita. E la vita, per essere raccontata, non ha bisogno di orpelli: basta lasciare che scorra, eventualmente, ogni
tanto, fermandosi a liberare la corrente dalla mille impurità di cui noi stessi l’abbiamo ingombrata. Così lui ha fatto. Rigoni Stern scrive per sottrazione, filtrando e setacciando continuamente la sua prosa, privandola di tutto: intrusioni personali, commenti, giudizi, allusioni. Tutto cade dalla penna, tutto il superfluo se ne va. Rimane l’essenziale: la vita, le cose, gli accadimenti. Vi sono testi di Rigoni Stern semplicemente incredibili (Uomini, boschi e api, per esempio, o Arboreto salvatico), dove la distillazione è stata portata al massimo grado, e dove la pagina vibra, e balugina di colori e luci. Non è più letteratura, è la musica interna delle cose. Questa è la sua ‘povertà’, una povertà adamantina che riesce a pochissimi, solo a coloro che sanno vedere e intendere l’armonia del Creato. C’è poi un’altra sua caratteristica che merita di essere annotata. Il suo è un narrare di tipo aedico. Rigoni Stern non ‘inventa’ storie perché vengano pubblicate sui libri, perché si dica che sono belle o brutte, non ha fini ‘letterari’. Lui è il genius populi. Da che la prima parola scorre sulla pagina, subito la narrazione si alza a livelli vertiginosi. Non sono storie, racconti: sono l’epos, sono vicende universali, che rombano nel tempo, e parlano un linguaggio essenziale. Aedo dei poveri, cantore dei valori fondamentali dell’uomo, Rigoni Stern con la sua opera ha composto un unico poema indiviso.
La natura e la caccia Il senso della natura di Rigoni Stern è profondamente religioso. Vi è, nelle sue opere, una religione della natura che non è cristiana. È – questa sì – figlia della sua terra, delle sue genti, dei Cimbri che l’hanno preceduto e da cui discende, pagana nel senso che si accomuna a quella religiosità naturale praticata da tutti i popoli europei prima della cristianizzazione. La natura in Rigoni Stern è prima di tutto divina nella sua bellezza, e negli innumerevoli modi in cui la manifesta; è nutrice, poiché fornisce, a chi sa cercare ed ascoltare, cibo e riparo; è maestra, poiché insegna a sopravvivere, a superare le difficoltà, a comparare e adattare i suoi ritmi ai nostri; è spettacolo di armonia e di misura. Non è mai nemica. E anche quando può parere che lo sia, anche quando il gelo uccide i compagni, allora è perché noi ne abbiamo violato il regno e le regole. Altrimenti, spira in tutte le sue pagine un profondo misticismo dell’albero e del bosco, una religiosità panica che accomuna esseri umani, insetti, erbe, neve e vento, raccontando quell’unità perfetta e primigenia che abbiamo infranto e che siamo incapaci di ricostruire. Così, il suo rapporto con la caccia è sciamanico. La caccia per Rigoni Stern non è quella falcidie indiscriminata che è oggi, sterminatrice di ogni forma di vita selvatica e trionfo della potenza e della violenza. Il cacciatore di Rigoni Stern è il cacciatore del neolitico, è l’uomo dei boschi, è appunto lo sciamano, colui che si fa bestia, traccia, usta, in un rapporto di stretta colleganza e ‘fratellanza’ con l’animale cacciato, che fornirà a lui ed alla sua famiglia cibo e nuove forze. Il suo cacciatore non odia, non prova rabbia, non agisce per desiderio di conquista: egli adempie un ciclo naturale, ‘necessario’, equilibrato e perfetto, che perciò diventa anche rito . L’ennesimo richiamo al ‘gran cerchio’ che l’uomo ha spezzato, l’ennesima ‘lezione’ del Maestro. Giuliano Corà, 53 anni, vicentino, è traduttore di letteratura francese per gli editori Neri Pozza e Salerno e critico di cinema per cineclick.it e ilcineforum.it. È maestro elementare alla scuola Zanella di Vicenza.
L’ex presidente Rai parla di tv e di Gasparri a Bassano: lo show di Berlusconi sta per finire
BUONASERA
Così parlò Zaccaria
il locale mai banale
sorprese dietro l’angolo
In pizzeria con Sir Lancillotto
Romanzini d’amore nello studio fotografico
Dalla chiusura di uno dei più conosciuti ristoranti del centro (Scudo di Francia) è nata qualche anno fa questa pizzeria che del vecchio Scudo ha mantenuto tutto il meglio: il Re di Spagna è un susseguirsi di sale e salette che potrebbero ospitare un reggimento, tavoli e sedie di legno così spesso che oggi basterebbe per farci una catena di pizzerie, soffitti e pavimenti da stare ad ammirare. In un posto così potrebbero entrare Lancillotto e i cavalieri di Re Artù e nessuno ci farebbe caso: ci sono perfino spade e armature che pendono dalle pareti. Il Re di Spagna vi propone decine di birre, bruschette, tacos, cocktails, panecillos oltre a 70 diverse pizze. In cucina in effetti sembra di essere alla Fiat. Al listino dunque: potrete perdonare nomi quali “Aumma aumma pane caldo” o “Sboldra”? Avrete il coraggio di assaggiare la “Araiss”, che si presenta con mozzarella, pistacchio, noci, brie e sfilacci di cavallo? E la “Re di Spagna”, che vi tenta con paté di tartufo e prosciutto di struzzo? Noi proviamo la “Riccardo pane caldo” (asiago,
Di grande interesse la rassegna di una trentina di sculture di Paola Romanzini in mostra nello studio fotografico Vajenti. Si tratta di figure singole o di gruppi, tutti di piccole dimensioni, ma con la capacità di imporsi allo sguardo con grande determinazione. Essi si muovono sulla scena da protagonisti, con una gestualità pacata ed elegante. Personaggi che rappresentano archetipi umani, riflessivi e solenni nel compiere le loro azioni, siano esse quotidiane o assolute. Intensamente vibrante è anche la sensualità che pervade in assoluta compostezza le figure della Romanzini: amanti silenziosi, concentrati su loro stessi, usciti dalla terza dimensione dopo aver lasciato fuori dallo spazio fisico ogni tumulto, quasi ponendosi al centro dell’occhio immobile di un ciclone. La capacità della scultrice di sperimentare e di interpolare tecniche diverse è ad ampio raggio e include il rilievo, condotto con una concezione plastica fluida che insiste soprattutto sui valori pittorici ed evidenzia un’attenzione ad alcuni
“Con la televisione si vince. Ma attenzione: non si rivince”. Parola di Zaccaria. Che di nome fa Roberto ed è professore ordinario di Diritto Costituzionale Generale nell’Università di Firenze, ma soprattutto, è stato presidente dell’ultima Rai targata Ulivo prima che il secondo governo Berlusconi facesse piazza pulita. “E’ vero” ha spiegato il professore venerdì scorso a Bassano del Grappa ad un pubblico di un centinaio di persone accorse alla Libreria La Bassanese (www.labassanese.it) per la presentazione del suo volume “Televisione: dal monopolio al monopolio” (Baldini Castoldi Dalai - euro 11.80), “Berlusconi si è giovato non poco della televisione per convincere gli italiani della bontà del suo sogno. Ma il giochino è finito. Semmai, la sovraesposizione attuale del presidente del consiglio – che ultimamente furoreggia oltre misura su tutti i canali Rai e Mediaset (memorabile un suo recente intervento di sedici minuti alla Domenica Sportiva) – potrebbe ritorcesi contro di lui. Insomma, un boomerang. Il leader di Forza Italia è in difficoltà, e per venirne a capo utilizza lo strumento che meglio conosce. Ma in tv, come nella vita, il troppo stroppia. Vale anche per lui”. Chissà se Zaccaria sarà buon profeta. In attesa di verificarlo, i presenti hanno raccolto l’opinione autorevole di chi televisione l’ha fatta per tanti anni, sulla famigerata Legge Gasparri definita dal professore, senza mezzi termini, “una truffa”. Un esempio? Il tanto declamato “moltiplicatore di pluralismo” che dovrebbe essere il digitale terrestre. “Null’altro che uno specchietto per le allodole. Primo perchè per fare tv, digitale o no, ci vogliono comunque un sacco di soldi e soprattutto, il controllo della pubblicità (e in Italia si sa chi si divide la torta: Sipra e Publitalia). In secondo luogo perchè il digitale ce l’hanno - alla lettera - quattro gatti. Ed ecco uno dei tanti trucchetti di questa Legge: entro il 30 aprile l’Authority per le Telecomunicazioni dovrà accertare il mercato esistente nel digitale. Come? In maniera semplicemente ridicola. Verificando se il segnale esiste e, quanti decoder ci sono – attenzione – non presso le famiglie, ma nei negozi! Insomma, i calcoli saranno fatti sull’offerta perché, diciamocelo, la domanda attualmente sta a zero”. “La finzione propria del mezzo televisivo” – ha concluso Zaccaria, “agisce ormai ad ogni livello. Ma insisto: lo show è finito. Gli italiani torneranno a fare i conti con quel che resta: la reality”. d.l.
brie e porchetta con rucola e pomodorini freschi). Ci viene servita chiusa, tipo calzone , con rucola e pomodorini sopra. Dopo due bocconi perdoniamo perfino il nome: la pasta è ben cotta, gli ingredienti calibrati, la mozzarella non disturba. E bevendo un bicchiere di Stones Strong, una rossa spillata alla perfezione, vi sentirete dei re di Spagna a tutti gli effetti. Al momento di pagare il conto poi, vi converrà contare su un budget da sangue blu: 25 euro tra pizza, birra e coperto, 30 se osate chiudere con il dolce. Ma per una pizza degna del suo nome si fa questo e altro. Osvaldo Derocco Pizzeria Re di Spagna Contrà Barche, Vicenza Telefono 0444.112233 Chiuso lunedì Forno aperto fino alle 1:30 Provata il 5 marzo 2004 Pizze: 8/10 Servizio: 8/10 Prezzo: 6/10
testi storici fondamentali della scultura. Del resto molti sono i riferimenti presenti in queste opere ma il carattere del suo linguaggio si definisce per una indipendenza da canoni, regole e tendenze. Si ha la sensazione che l’Artista ami lasciarsi aperte tutte le possibilità, senza chiudere ad alcuna delle soluzioni possibili. Di più: sembra voler affermare l’inesistenza di una risposta definitiva al problema della forma. Rientra in questo suo metodo sviluppare le diverse potenzialità narrative dell’argilla, studiare nuovi morfemi nell’ambito di un neo naturalismo ricco di simbologie personali e cosmiche. E anche in tale specialissimo modo di far poesia risiede la forza della creatività di Paola Romanzini. Tazio Cirri Paola Romanzini: sculture Studio Fotografico Vajenti Corso Palladio 67 La mostra rimarrà aperta fino al 23 aprile con orari da lunedì a venerdì 10-12.30 e 16-19.30