氣 ideogramma KI = Essenza Individuale
COACHING PER L’ECCELLENZA di Marco Poggi
Con la linea IDEOGRAMMI Mida si propone di pubblicare le sue ricerche, intese come risultato di studi, pensieri, interpretazioni che gli autori traggono dalla diretta esperienza sul campo. Ma non solo. I contributi sono anche frutto del desiderio di raccontare l’approccio peculiare di Mida alla professione attraverso i suoi stessi protagonisti.
COACHING PER L’ECCELLENZA di Marco Poggi Mai come oggi nelle aziende è forte l’esigenza di supportare le persone in modo che esprimano il meglio di sé e delle loro risorse con efficacia e benessere. Tra i possibili interventi di formazione e sviluppo utili a questo scopo, da qualche tempo il coaching si sta affermando come uno tra i più interessanti e promettenti. In quest’articolo illustriamo in modo approfondito gli elementi distintivi e le caratteristiche dell’approccio Mida al coaching.
Risorse scarse e tempi in accelerazione
Le aziende di tutto il mondo si stanno misurando con livelli di complessità e difficoltà molto elevati. L’effetto combinato della competizione globale e della crisi economica segna una marcata discontinuità anche solo rispetto al passato più recente che era già caratterizzato da un quoziente di incertezza molto alto prodotto dall’accelerazione dei processi di globalizzazione. Oggi prosperare, ma anche semplicemente sopravvivere, sono diventati obiettivi tutt’altro che scontati per tutte le aziende del mondo. In un contesto di questo tipo, a tutte le persone che lavorano sono inevitabilmente richiesti standard di prestazione decisamente elevati. Qualsiasi manager di una qualsiasi azienda vive quotidianamente l’esperienza di investire una grande quantità di energia fisica e mentale nell’analisi di scenari in
costante mutazione, nella presa di decisioni complesse, nell’azione rapidissima, nella guida e nella gestione di persone sempre più disorientate. Sono inoltre comparsi due ulteriori elementi con cui fare i
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conti che costituiscono, a loro volta, una novità radicale del contesto attuale:
le risorse economiche da investire sono ridotte all’osso,
i tempi per produrre risultati si sono fatti strettissimi.
Coloro che si occupano di persone all’interno delle organizzazioni - i responsabili del personale, gli HR Manager, i formatori - si trovano davanti ad un passaggio cruciale: c’è una crescente esigenza di favorire comportamenti eccellenti, ma la maggior parte delle modalità classiche di intervento finalizzate all’incremento dei livelli di prestazione rischiano di rivelarsi inefficaci o irrilevanti sia per l’inedita altezza dell’obiettivo, sia per le condizioni organizzative che impongono la ricerca di soluzioni in grado di produrre effetti rilevanti e visibili in brevissimo tempo. La nostra idea è che la profondità e la radicalità del cambiamento in atto richiedano accanto all’utilizzo di pratiche formative tradizionali, di pensare, costruire e sviluppare un nuovo paradigma formativo, un paradigma finalizzato all’attivazione di comportamenti eccellenti.
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Nuovi paradigmi formativi
Personalizzazione Per definire un nuovo approccio occorre comprendere e considerare alcuni elementi di fondo. Il primo di questi, secondo noi, è la dimensione fortemente singolare e soggettiva dell’esperienza lavorativa. L’esperienza è singolare, più di quanto lo sia mai stata, perché la peculiarità dei contesti in cui si opera tende ad accentuare le differenze piuttosto che a evidenziare le somiglianze: i problemi di un direttore marketing di un’azienda manifatturiera che esporta nel far east, per fare un esempio, hanno una natura molto differente da quelli di un suo omologo che opera in un grande azienda mediatica. Ma l’esperienza è singolare anche perché l’elemento culturale più significativo della nostra epoca, che i processi psicosociali degli ultimi vent’anni hanno fatto esplodere in tutta la sua dirompenza, è l’emersione della soggettività ovvero la tendenza fortissima delle persone a pensarsi come individui unici e irripetibili. La comunicazione, il marketing, la vendita, persino i servizi amministrativi sono sempre più orientati al riconoscimento e alla valorizzazione della soggettività.
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Quindi l’esperienza di partecipare, per esempio, ad un corso sulla leadership per capi, ovvero ad un intervento pensato per un ruolo aziendale, quando questo intervento è stato progettato in modo superficiale e decontestualizzato, può essere vissuta dalle persone, come astratta, lontana dai propri bisogni e dai propri desideri. Un intervento finalizzato alla produzione di comportamenti eccellenti deve essere il più possibile congruente con la dimensione soggettiva dell’esperienza di lavoro e quindi deve essere pensato in una logica di forte personalizzazione. Gli interventi pensati in modo personalizzato:
considerano sia la peculiarità dell’esperienza aziendale, quindi le specificità del contesto di mercato, dell’azienda, del ruolo, gli obiettivi, le altre figure coinvolte, sia la dimensione personale, ovvero il modo con cui le persone interpretano ciò che accade, i loro pensieri, le loro emozioni, i loro desideri; creano spazi nei quali è possibile prendere in carico non temi predefiniti, ma qualcosa che risulta importante per la persona in quel momento e che quindi può avere a che fare con il desiderio di raggiungere uno specifico risultato o con quello di risolvere un problema o con il bisogno di essere aiutati in un momento di empasse o di difficoltà; comportano un’attività di approfondimento, di scoperta, di sviluppo di nuove consapevolezze, un’attività ricca e molto distante da quelle operazioni di somministrazione
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di soluzioni preconfezionate che talvolta sembrano essere
la risposta prevalente alla richiesta di risultati incisivi; possono essere centrati sulla richiesta di un manager (o di un gruppo direttivo) di essere aiutati a risolvere uno specifico problema di business. E per far sì che questo risultato venga raggiunto l’intervento abbraccerà sia le implicazioni economiche e organizzative del problema, sia gli elementi psicologici soggettivi investiti nella relazione delle persone con l’oggetto di lavoro.
E per quanto riguarda i tempi, fattore sempre più ansiogeno per i progettisti di formazione? Un lavoro personalizzato e approfondito non richiede necessariamente tempi lunghi: anzi è assolutamente possibile far convergere velocità e profondità a condizione che chi lo gestisce sia dotato delle sensibilità e delle competenze necessarie. Talvolta può capitare che un lavoro personalizzato e profondo sia visto con diffidenza e sospetto da parte delle persone che si occupano di Risorse Umane in forza di un pregiudizio sostenuto dalla convinzione che la personalizzazione e la profondità abbiano a che fare con la vita privata ed emotiva delle persone e siano separate dall’attività professionale nuda e cruda. Noi pensiamo invece che approcci ispirati ad un lavoro personalizzato e profondo oggi risultino essere molto più in sintonia con una generale e diffusa attenzione alle pratiche
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di cura di sé di quanto non lo siano alcuni interventi formativi che si limitano a prescrivere comportamenti ritenuti astrattamente efficaci, in special modo quando si tratta di formazione manageriale rivolta a persone che hanno già una solida esperienza e che quindi non hanno certo necessità di modelli semplificanti una realtà vissuta come complessa. Potenziamento del sé Un secondo elemento che occorre considerare, accanto a quello della personalizzazione per costruire un nuovo paradigma formativo finalizzato alla produzione di comportamenti eccellenti, è quello del potenziamento del sé. La formazione aziendale tradizionale lavora per sviluppare specifiche competenze di natura prevalentemente manageriale come la capacità di prendere decisioni, risolvere problemi, delegare, orientare la prestazione dei collaboratori, ecc. La possibilità che le persone mettano in atto comportamenti coerenti con queste competenze è strettamente legata alla presenza, a livello mentale, di pensieri costruttivi, speranzosi, aperti, flessibili e, contemporaneamente, ad un discreto equilibrio emotivo. Al contrario, convinzioni rigide e limitanti, pensieri svalutativi e depotenzianti, ruminazioni, schemi emotivi automatici e ripetitivi, agiscono come altrettanti blocchi
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all’apprendimento e all’introiezioni di nuovi comportamenti coerenti con il ruolo aziendale. Quindi l’efficacia di un intervento formativo è legata alla presa in carico dagli schemi mentali impliciti attraverso i quali le persone interpretano ciò che accade, fornendo loro strumenti di consapevolezza e di ristrutturazione delle loro eventuali e ricorrenti abitudini mentali depotenzianti. Gli interventi finalizzati a produrre comportamenti eccellenti lavorano dunque ad un livello più profondo rispetto alla formazione tradizionale ed hanno l’obiettivo di sviluppare “meta competenze” come la capacità di ristrutturare le proprie e le altrui convinzioni limitanti, la capacità di gestire le emozioni, la capacità di relazionarsi in modo sano e costruttivo con gli altri, la capacità di resilienza, la creatività. Ancora una volta l’esperienza formativa si connota come un’occasione di approfondimento della conoscenza di se stessi che, in modo del tutto naturale e coerente con la cultura del nostro tempo, si affianca a tutte le altre esperienze di lavoro su di sé che le persone ricercano e frequentano.
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La via del coaching
Un nuovo paradigma formativo fondato sulla personalizzazione, e quindi sul riconoscimento e la valorizzazione della soggettività e sul potenziamento del sé pare dunque essere quanto di più coerente ci sia con le esigenze di eccellenza poste in essere dai nuovi contesti in cui si misurano le aziende. E tra le modalità d’azione che si affacciano sulla ribalta, ce n’è una che ci sembra essere più di tutte le altre coerente con gli elementi di fondo che possono costituire un approccio nuovo ed efficace: il coaching. Di fatto in questi ultimi tempi si registra un interesse consistente da parte delle aziende per il coaching e una crescente tendenza a rivolgersi a professionisti e società di consulenza specializzate per mettere in campo programmi per i loro manager. Come tutti i fenomeni sociali che emergono all’attenzione generale una quota dell’interesse di cui il coaching è fatto oggetto è sicuramente riconducibile all’effetto “tendenza”; ma come tutti i fenomeni di “tendenza” proprio perché “tendenza”, il coaching intercetta, in vario modo, esigenze
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reali percepite in modo magari non del tutto nitido e consapevole:
anzitutto la metafora sportiva ed agonistica a cui la parola fa esplicito riferimento risulta particolarmente adatta ad evocare immagini e suggestioni coerenti con il vissuto aziendale. Il coach, come noto, è l’allenatore del team o del singolo atleta e il suo compito è proprio quello di preparare al meglio gli sportivi alla competizione. La preparazione riguarda al tempo stesso tanto la dimensione tecnica della prestazione, quanto quella mentale. Chi meglio di un coach può occuparsi della preparazione dei manager di oggi gettati affannosamente nella gara quotidiana della
vita organizzativa? In secondo luogo gli interventi di coaching che si realizzano nelle aziende sono dedicati o a singoli individui o a piccoli gruppi di persone che hanno ruoli omogenei. Quindi la modalità di lavoro consente quel livello di personalizzazione che incontra sia l’esigenza di trattare in modo specifico la realtà organizzativa di ciascuno, sia quella di prendere in carico la dimensione soggettiva dell’esperienza. E ancora: la promessa di un programma di coaching è solitamente quella di produrre, velocemente, effetti di potenziamento delle risorse personali a livello di meta competenze. Quindi il setting e le metodologie di lavoro che si riconducono a questa peculiare modalità d’azione sembrerebbero del tutto coerenti con un nuovo approccio adeguato alla produzione di comportamenti eccellenti.
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Quale coaching?
Come tutte le discipline ibride che nascono al crocevia di differenti filoni teorici e prassi operative eterogenee, i presupposti e le modalità di lavoro con cui vengono proposti oggi gli interventi di coaching costituiscono un quadro assolutamente variegato. Il punto è: quali, tra le modalità di azione che in vario modo si richiamano all’universo del coaching, producono concretamente effetti positivi in termini di generazione di comportamenti eccellenti? Qual è la differenza che fa la differenza tra un coaching di qualità e interventi che oscillano tra una psicoterapia camuffata fuori contesto e una ridondante esortazione ad applicare comportamenti di semplice buon senso? In questi ultimi anni, in Mida, abbiamo iniziato ad occuparci molto attivamente di coaching. Seguendo un’inclinazione che caratterizza la nostra comunità umana e professionale, ci siamo messi a studiare e a riflettere sulle esperienze che ciascuno di noi aveva concretamente vissuto e realizzato. Abbiamo quindi approfondito i dispositivi di lavoro e le tecniche utilizzabili per favorire il potenziamento delle
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risorse delle persone e la produzione di comportamenti eccellenti. Siamo consapevoli di essere ancora in cammino rispetto alla conclusione della nostra ricerca, ma abbiamo fatto un po’ strada e desideriamo ora raccontare a chi si occupa di persone nelle aziende ciò che abbiamo acquisito e il punto in cui ci troviamo. Le pagine che seguono sono quindi un’illustrazione dell’approccio Mida al coaching.
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L’approccio Mida
La trattazione del tema prende l’avvio dalla nostra definizione di coaching e dalle più tipiche esigenze organizzative che possono essere soddisfatte da interventi di coaching; quindi prosegue descrivendo il processo di coaching in tutti i suoi passaggi, approfondisce i dispositivi e le tecniche di potenziamento e infine si sofferma sulla forma, anche contrattuale, che è opportuno dare all’intervento. Cos’è il coaching? Parlare di coaching vuol dire addentrarsi in un tema complesso, definito da un parola metaforica che viene utilizzata in ambiti anche molto diversi tra loro e con diversi obiettivi. In un territorio così vasto e indefinito è forte il rischio di perdere l’orientamento, quindi vogliamo iniziare l’illustrazione dell’approccio Mida da una definizione. Per noi il coaching è: “un processo basato su una relazione tra il coachee e il coach guidato da un contratto esplicito finalizzato al raggiungimento di risultati eccellenti in uno specifico ambito organizzativo e a una specifica identità di ruolo attraverso
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l’accelerazione dello sviluppo delle risorse potenziali del cliente”. In questa definizione sono presenti elementi importanti che caratterizzano l’approccio e che è utile evidenziare.
Anzitutto le figure coinvolte. Da una parte c’è un coachee che ha uno specifica identità di ruolo aziendale e che opera all’interno di un ambito organizzativo, che ha esigenze di produrre risultati eccellenti e quindi di accrescere la sua performance. Ciò significa che lo stato di coachee si definisce in relazione a una specifica cornice organizzativa (ruolo, ambito, esigenza di risultati); quindi anche se accadrà che gli effetti del coaching si riverbereranno nella vita complessivamente intesa del coachee, il coaching ha senso solo in quanto nasce e si sviluppa in forte relazione con il contesto organizzativo. L’esigenza del coachee può essere legata al perseguimento di uno specifico obiettivo di performance, un progetto da realizzare, un area di comportamento da
migliorare, un problema da risolvere, un salto di qualità da effettuare, ecc. Dall’altra parte c’è un coach che è competente del processo di coaching e che quindi è in grado di guidare il processo per facilitare il raggiungimento dei risultati desiderati. La competenza del coach è una competenza molto specifica: non può essere coach chi è esperto solo di organizzazione perché il potenziamento è il risultato di un processo soggettivo che richiede la comprensione dei processi mentali e relazionali. Al tempo stesso, non può
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essere coach chi possiede solo competenza psicologica perché la comprensione dello specifico organizzativo e della relazione tra questo e i vissuti soggettivi del coachee hanno una grande rilevanza sul processo. Quindi il coach deve possedere una competenza originale che è data sia dalla presenza di background psicologici e organizzativi, sia dalla capacità di comprendere e elaborare le relazioni sistemiche tra i sistemi soggettivi e i
sistemi organizzativi. Al centro del processo c’è la relazione tra coachee e coach che è il luogo in cui il cliente apre il canali della sua consapevolezza, entra in contatto con se stesso, con i suoi desideri, con i suoi bisogni, dove può esaminare in modo lucido il suo rapporto con il contesto, dove può elaborare feedback, dove può entrare in rapporto con le sue risorse e con il loro utilizzo. La relazione ha anche una dimensione formale che è il contratto di coaching. Il contratto di coaching appartiene alla fattispecie psicosociale dei contratti a tre mani, in questo caso i suoi contraenti sono: l’azienda, il coach e il coachee. Lo scopo di un contratto esplicito è di responsabilizzare i soggetti coinvolti e di preservare il rapporto dalle ambiguità che nelle situazioni complesse, come tipicamente sono quelle organizzative,
frequentemente possono generarsi. Durante il lavoro si produrrà un’accelerazione dello sviluppo delle risorse potenziali del coachee volte al raggiungimento dei risultati. Il setting classico prevede una dimensione di lavoro a due, con il coinvolgimento, come vedremo, in specifiche
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fasi del processo di altri attori organizzativi. Ma è possibile anche progettare e realizzare interventi di coaching per piccoli gruppi di persone accomunate dal ruolo e dalla specifica esigenza di accrescimento della performance. Quali esigenze organizzative può soddisfare? Così definito, il coaching si manifesta come un luogo di convergenza tra gli interessi dell’azienda cliente e gli interessi dei manager coachee. Quindi appartiene a quella tipologia di strumenti operativi aziendali che attuano una visione del rapporto individuo-organizzazione ispirata ad una filosofia “win-win”, di reciproco vantaggio. Il vantaggio dell’azienda è quello di produrre concretamente un aumento del livello di performance dei suoi manager che è anche il risultato di un riallineamento mentale ed emotivo e quindi che ha una ricaduta positiva sul benessere delle persone. Il vantaggio dei manager coinvolti nei programmi di coaching è quello di beneficiare di un’esperienza di evoluzione personale che consentirà loro di lavorare e vivere in modo più fluido e più felice. Per le persone delle funzioni di HR il coaching costituisce l’occasione per rendere concreta e operativa un’attenzione personalizzata alle risorse aziendali e per qualificare il proprio ruolo nella direzione della produzione di effettivi rilevanti di potenziamento.
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Dunque da un punto di vista generale è ragionevole affermare che, date le tendenze dell’attuale panorama organizzativo ed economico, in qualsiasi contesto aziendale può essere utile proporre, in modi congruenti con le specifiche caratteristiche dell’azienda, programmi di coaching. Tuttavia è possibile individuare alcune definite circostanze in cui lo strumento costituisce una risorsa particolarmente appropriata ed efficace:
a livello generale, il coaching è sicuramente molto utile quando l’azienda attraversa fasi di particolare e rilevante discontinuità, di cambiamento: ristrutturazioni, forti difficoltà di mercato, passaggi di proprietà, ecc. In questi casi l’esigenza di potenziamento è innescata dall’esigenza organizzativa di ottenere comportamenti attivi, lucidi, efficaci a fronte di un diffuso sentimento di spaesamento e dalla percezione di grande difficoltà. Ad un livello più puntuale il coaching si rivela particolarmente efficace tutte le volte in cui una persona (o un gruppo): - prende in carico un progetto molto importante e complesso, - vive un’esperienza di cambiamento: di ruolo, di contesto, di risorse, di capo, - si trova coinvolta in difficoltà improvvise, - si trova esposta a situazioni emotivamente intense e stressanti, - vive un momento di demotivazione, di calo di energie,
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- sente l’esigenza di fare un salto nella sua performance o non riesce a raggiungere risultati che si propone da tempo, - ha la possibilità e il desiderio di valorizzare il proprio talento, - e, naturalmente, anche tutte le volte in cui l’obiettivo del coaching è aiutare i manager a gestire persone che vivono casi come quelli elencati. Vale infine la pena di evidenziare che un ulteriore vantaggio del coaching è la diffusione, a livello aziendale, di una cultura manageriale ispirata al coaching: i manager che vengono coinvolti in programmi di coaching apprendono, a livello “meta”, un modello di relazione e supporto finalizzato al potenziamento che potranno utilizzare con le loro risorse.
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Il processo di coaching
Secondo il nostro approccio il coaching è un processo che si sviluppa su due livelli: il primo livello è quello organizzativo, in cui sono attivati tutti gli attori aziendali coinvolti, il secondo livello è quello relazionale, in cui sono coinvolti solo il coachee e il coach. Da un punto di vista cronologico le fasi del livello organizzativo sono collocate all’inizio e alla fine, nel mezzo, al cuore del processo, ci sono gli incontri tra il coachee e il coach. Una struttura tipica di intervento può essere così concepita:
1° incontro di ingaggio: colloquio tra la funzione HR e il consulente coach sull’esigenza di far partire un intervento nei confronti di una specifica risorsa a fronte di una specifica esigenza, 2° incontro di ingaggio: colloquio tra il coach e il capo gerarchico della risorsa individuata per approfondire i suoi obiettivi e il suo punto di vista, 3° incontro di ingaggio: colloquio con la funzione HR, il capo, la risorsa e il coach per condividere gli obiettivi, per valutare l’interesse e la motivazione della risorsa a partecipare al percorso e per prendere atto della sua decisione di andare avanti.
Questi primi tre momenti, che potranno essere ovviamente strutturati con modalità diverse in ragione delle
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caratteristiche del contesto, appartengono organizzativo alla fase di avvio del processo e culminano con l’atto formale della stesura di un contratto di coaching nel quale vengono descritti gli obiettivi e definiti i passaggi successivi del percorso. Elemento fondamentale di questo impianto logico è la libertà del coachee che deve essere libero di scegliere se accettare la proposta o rifiutarla e di condividere o meno gli obiettivi proposti. A questa prima fase seguono gli incontri di coaching in senso stretto tra il coachee e il coach che si configurano come uno spazio protetto e riservato: solo il coachee può, se ritiene, fornire informazioni al di fuori su ciò che accade. Gli incontri vengono calendarizzati direttamente dal coachee e dal coach con una cadenza che varia in funzione degli obiettivi ma che tendenzialmente prevede di distanziare un incontro dall’altro al massimo di un mese. Gli incontri sono da un minimo di tre a un massimo di sei, anche qui in ragione degli obiettivi con la possibilità di prolungare il percorso al termine del processo, dopo aver valutato risultati conseguiti, se tutti gli attori sono d’accordo. Ciascun incontro dura circa due ore. Al termine degli incontri di coaching in senso stretto c’è la fase di valutazione che conclude l’intervento e che, a sua volta, appartiene al livello organizzativo del processo.
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Questa prevede:
1° incontro di valutazione: colloquio tra il capo, il coachee e il coach finalizzato a riconoscere i risultati raggiunti;
2° incontro di valutazione: colloquio tra il coachee, il capo e la funzione HR di feedback dell’esperienza.
I risultati raggiunti potranno essere descritti in un report. Questa modalità di lavoro è ispirata dal concetto di derivazione psicosociale di “contratto a tre mani” e consente di:
connettere le esigenze organizzative con i bisogni e i desideri del coachee, coinvolgere e responsabilizzare tutti gli attori coinvolti, definire il rapporto con quel livello sufficiente di formalità che attribuisce struttura e valore al processo mantenendo una indispensabile dimensione di flessibilità.
La relazione tra coach e coachee Il cuore del coaching è fatto dagli incontri tra il coach e il coachee. Questo è il livello in cui si lavora per produrre i risultati. E’ possibile concepire questa parte fondamentale del lavoro come un processo dentro al processo e distinguere quattro macro fasi:
la costruzione della relazione,
la focalizzazione dell’obiettivo, l’attivazione delle risorse,
la valutazione.
Trattandosi di un processo di natura relazionale contraddistinto da complessità e caratterizzato da una
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grande quantità di variabili in connessione sistemica tra loro è evidente che, pena la banalizzazione, le quattro macro fasi non possono essere descritte in senso cronologico sequenziale e rappresentate da un segno lineare. Ogni fase rimanda a ciascuna delle altre e in qualche misura contiene le altre in una forma intricata e complessa che assomiglia più ad un frattale che a una freccia. Per rendere tuttavia il più possibile comprensibile il processo e la sua densa sostanza utilizzeremo, in questa sede, una descrizione lineare per macro fasi. Si tratta di una descrizione estremamente sintetica che non pretende di rendere pienamente conto della varietà e della complessità del lavoro, ma che riteniamo comunque utile fornire allo scopo di tratteggiare le specificità e i retroterra teorici del nostro approccio. La costruzione della relazione Il coaching è un’attività relazionale, così come lo sono la psicoterapia e il counselling, ma anche così come lo è la leadership. La relazione tra il coachee e il coach costituisce l’essenza del coaching: la qualità del coaching è per una quota molto rilevante determinata dalla qualità della relazione tra il coachee e il coach. Il coachee ha conosciuto il coach negli incontri di ingaggio e se ha deciso di aderire alla proposta, ovvero di lavorare con
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quel coach per quegli specifici obiettivi, ha verosimilmente, per una certa misura, accettato la possibilità, e non più che la possibilità, di una relazione con il coach. E’ certo che in questa fase si tratta di un accettazione molto superficiale e condizionata agli esiti del proseguimento del lavoro. Dunque il coachee inizia la relazione sulla base di una tenue disponibilità relazionale e, secondo una modalità del tutto sana e protettiva di sé, con i sistemi difensivi allertati. La condizione di libertà in cui si trova che gli consente di rinunciare eventualmente alla proposta interrompendo il lavoro costituisce un elemento prezioso di qualità relazionale di base. Dopo di che sta al coach generare rapidamente quel livello di sintonia sufficiente che permetta al coachee di sentire una buona possibilità di accoglimento e quindi di aprire progressivamente i canali di comunicazione. In queste prime battute del lavoro il coach invita il coachee a parlare di sé, del suo lavoro, del suo rapporto con l’obiettivo che è stato definito. Le informazioni che emergono sono fondamentali per il coach sia per delineare l’area su cui si lavorerà e sia per iniziare a conoscere il coachee. Ascoltando in modo attivo e profondo, il coach contribuisce a produrre, attraverso un piena presenza e attenzione, sintonia relazionale e, contemporaneamente, coglie nella
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comunicazione verbale e non verbale elementi ricorrenti e rilevanti che costituiscono indizi per leggere la mappa del mondo del coachee. La qualità della presenza e dell’ascolto, il ritmo lento che crea uno spazio di profondità, il livello molto elevato di accettazione dell’altro e il presidio costante del grado di libertà del coachee sono gli ingredienti che consentono al coach di produrre molto rapidamente un clima rilassato e ricettivo. L’ascolto che opera il coach si amplifica e crea la condizione per cui anche il coachee possa iniziare ad ascoltare sé stesso. Verso la fine del primo incontro il coach restituisce con delicatezza al coachee alcuni elementi che ha raccolto connettendo parole e gesti, frasi che esprimono convinzioni e valori, emozioni che sono emerse. Si tratta di feedback riflessivi, ovvero informazioni che non hanno la pretesa di affermare qualcosa di vero, ma più semplicemente materiale che il coach ha colto e che gli è parso interessante. Nel primo incontro l’attenzione del coach è molto orientata alla costruzione della relazione, ma l’ascolto profondo e la costante sensibilità alla qualità relazionale accompagneranno, naturalmente, tutto il processo. La focalizzazione dello spazio-problema Un momento molto importante del lavoro è l’esplorazione dell’area problematica.
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L’obiettivo che è stato definito nella fase preliminare di ingaggio costituisce un orientamento del processo. Ma spesso capita che quell’obiettivo sia definito ad un livello molto astratto o che sia più il risultato degli effetti percepiti dagli altri soggetti coinvolti, ad esempio il capo, di comportamenti che il cochee sente problematici ad un livello vago e non completamente associato a sé e ai suoi desideri e bisogni profondi. Quindi occorre un lavoro di approfondimento del tema, di vera e propria esplorazione di tutti gli elementi sia organizzativi, sia soggettivi, sia emotivi, coinvolti nel problema. Un dispositivo concettuale molto utile in questo senso è la definizione dello spazio-problema. Si tratta di un dispositivo offerto dal vasto repertorio di strumenti di lavoro della Programmazione Neurolinguistica. Operativamente si costruisce una mappa del problema focalizzandone precisamente e in modo separato, gli elementi costitutivi, e cioè: i sintomi (ciò che succede concretamente alla persona che gli fa dire che quello che porta è effettivamente un problema), le cause, lo stato desiderato. Questo semplice schema di ragionamento aiuta sia il coach che il coachee ad entrare nel problema aumentandone significativamente il livello di comprensione. Procedendo in questo modo, il problema si definisce come uno spazio teso tra uno stato attuale insoddisfacente e uno stato desiderato.
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Lo stato desiderato è il nucleo essenziale dell’obiettivo del coaching. La definizione dell’obiettivo La costruzione dell’obiettivo, intorno a questo nucleo, è un altro passaggio cruciale del percorso. Per orientare e finalizzare il lavoro, per attivare e canalizzare energia, motivazione e risorse è necessario che l’obiettivo sia quanto più possibile definito, e quindi costruito, in modo preciso. Quando l’obiettivo è percepito in modo vago ed etereo e resta sullo sfondo della coscienza come qualcosa di nebulosamente collegato alla semplice mancanza del problema, è molto difficile mettere in movimento il processo evolutivo. Una delle modalità più potenti di definizione dell’obiettivo è quella di far visualizzare al coachee se stesso nel futuro nella situazione desiderata. Così facendo, la mente costruisce dettagli vividi di esperienza connettendo desideri, motivazioni, valutazioni realistiche. In molti casi questa operazione, se vissuta in modo profondo e intenso, attiva da sé sola un processo spontaneo di cambiamento che, a quel punto, deve semplicemente essere accompagnato. Quattro sono i requisiti di base di un buon obiettivo:
deve essere desiderabile e, a questo proposito, la visualizzazione produce attivazione di emozioni positive e energia desiderante,
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deve essere interamente sotto la responsabilità del coachee, nel senso che il suo raggiungimento deve dipendere esclusivamente dal coachee,
deve essere legato ad uno scopo ulteriore significativamente importante per il coachee deve essere ecologico.
Quest’ultimo punto ha una particolare rilevanza rispetto all’intero processo di coaching e alla relazione tra coach e coachee. Rimanda all’idea di considerare il coachee come un sistema costituito da elementi (fisici, cognitivi, emotivi) in relazione e in equilibrio tra loro e in relazione ed equilibrio con gli elementi che costituiscono il contesto esterno. L’attivazione di un cambiamento nel sistema può produrre un effetto positivo ad un livello immediato e superficiale ma, contemporaneamente, può generare uno squilibrio più profondo. Ad esempio l’attivazione di uno specifico comportamento – un comportamento nuovo al posto di uno vissuto come insoddisfacente - ancorché ritenuta desiderabile dal coachee (desiderata a livello superficiale) potrebbe entrare in conflitto con un valore profondamente radicato nel sistema soggettivo. In questo può succedere che l’intelligenza implicita del sistema del coachee ostacoli l’attivazione del nuovo comportamento mantenendo la persona in una posizione di stallo e vanificando l’azione del coaching. Dunque risulta cruciale nella costruzione dell’obiettivo verificarne l’ecologia e qualora l’obiettivo fosse in disarmonia
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con il sistema occorre necessariamente percorrere altre strade. Peraltro una sensibilità continua all’ecologia di ciò che accade nel processo è, dal nostro punto di vista, un vero e proprio presupposto etico del lavoro di coaching. Si tratta dunque di essere concentrati sull’efficacia complessiva del coaching e sul raggiungimento dei risultati concordati durante le fasi preliminari, ma anche di contribuire a produrre cambiamenti in modo equilibrato e ciò si esprime nei termini di un rispetto profondo nei confronti della persona con cui stiamo lavorando e della sua irriducibile e straordinaria complessità. L’attivazione delle risorse Questa è la fase del lavoro in cui convergono le azioni produttive di cambiamento in senso stretto. L’idea stessa di attivazione di risorse esprime con chiarezza il presupposto implicito del nostro approccio e cioè l’idea che gli esseri umani siano portatori di enormi potenziali di risorse che restano per lo più allo stato latente, oscurate e depotenziate da meccanismi mentali inconsapevoli e automatici. Il lavoro del coach non è tanto quello di aggiungere, ma piuttosto quello di “disvelare” e mobilitare.
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Il repertorio delle tecniche di lavoro a cui attingiamo è ampio e spesso il comportamento del coach, più che l’applicazione scientifica di un dispositivo, è il frutto di un’intuizione che nasce nel flusso dell’esperienza relazionale con il coachee. Tuttavia è possibile modellare il nostro lavoro e individuare una struttura fatta di una macro cornice concettuale e tre direttrici principali di intervento. La macro cornice concettuale è ispirata dall’idea, ormai spesso citata, che “la mappa non è il territorio”, l’idea cioè che noi possiamo separare il mondo com’è dal mondo come ciascuno di noi lo costruisce. Le cose non sono come noi crediamo che siano e separare la mappa dal territorio apre lo spazio del cambiamento. Tutti noi costruiamo il nostro mondo e quindi possiamo costruirlo anche diversamente. Il passaggio immediatamente successivo è comprendere le modalità attraverso le quali costruiamo il mondo e agire su di loro. In questo modo l’esperienza soggettiva si muove, diventa fluida, flessibile, plastica. Per produrre cambiamenti nella nostra esperienza abbiamo bisogno di capire attraverso quali meccanismi mentali inconsapevoli e automatici costruiamo il nostro mondo. Questa comprensione è produzione di consapevolezza.
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Il nostro approccio è in larga misura ispirato dall’idea che la consapevolezza in sé, modificando il rapporto che le persone hanno con la loro esperienza, sia cambiamento. Partendo da questo nucleo concettuale centrale il nostro lavoro si può svolgere, dicevamo, secondo tre direttrici:
la separazione tra il qui e ora e il là e allora, la ristrutturazione, il mental training.
La prima direttrice è quella che consente di aiutare il coachee a riconoscere i bisogni profondi che sottostanno ad un suo comportamento insoddisfacente e a comprendere che quel comportamento è una strategia antica che fu efficace in un altro tempo della sua vicenda personale – là e allora – e che qui e ora è possibile soddisfare quei bisogni con un altro comportamento più sano, più efficace, più adulto. La seconda direttrice (la ristrutturazione) è legata al riconoscimento delle convinzioni profonde intorno alle quali organizziamo la nostra esperienza, convinzioni su di noi, sugli altri, sul mondo e al loro contributo alla generazione e mantenimento del tema problematico su cui si lavora. Attraverso la consapevolezza, le convinzioni si ammorbidiscono e perdono la loro presa, ciò che ci pare ineluttabile e assoluto si relativizza, ciò che ci pare contrastante, e drammaticamente opposto ci si rivela semplicemente coesistente o addirittura complementare.
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Il mental training, infine, è la strada che ci porta ad imparare a riconoscere i nostri meccanismi mentali ricorrenti e automatici, i pensieri depotenzianti che pensiamo, la relazione tra i pensieri e le emozioni dolorose, le interpretazioni con le quali meccanicamente diamo senso alle nostre esperienze. A partire dal riconoscimento degli schemi depotenzianti possiamo imparare e costruire nuovi pensieri e ad attivare stati mentali e fisiologici positivi e potenti. Questi tre possibili percorsi di lavoro sono accompagnati da una costante attenzione alle qualità positive, alle aree di eccellenza, alle risorse del coachee che spesso il coachee stesso nasconde a sé e agli altri nelle banalizzazioni e nelle svalutazioni. Un rilevante effetto di potenziamento è prodotto dal riconoscimento delle risorse e dalla loro restituzione, integrata e connessa con gli altri elementi del sistema soggettivo, alla piena consapevolezza del coachee. Il coach a questo punto del lavoro è tanto più efficace quanto più è presente, in contatto con sé e con l’altro, attento, sensibile, ricettivo e quanto più padroneggia il linguaggio e le parole che utilizza ed è consapevole degli effetti che queste producono.
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In sintonia con le caratteristiche del coachee e con il suo stile mentale prevalente, utilizzerà o un registro linguistico metaforico, evocativo – introducendo dispositivi di lavoro coerenti con questo come visualizzazioni, narrazioni, esercizi simbolici – o analitico digitale e quindi lineare e connesso a strutture logiche di cause ed effetti. La valutazione La valutazione dell’attività di coaching non è solo un aspetto formale e contrattuale: da un lato si lavora per far emergere e riconoscere i risultati, dall’altro, e su un piano più profondo, la valutazione è il momento qualitativo del processo nel quale si attribuisce senso all’esperienza e si costruisce una gestalt psicologica. Attribuzione di senso e costruzione della gestalt sono elementi fondamentali per la qualità dell’intervento ed è opportuno che accompagnino l’intero percorso. Per rinforzare la consistenza dell’esperienza e conferire ad ogni incontro energia e nitidezza è quindi opportuno che ad ogni colloquio sia dedicato un momento finale di sintesi e di valutazione che serva da consolidamento e aggancio sia per il colloquio successivo, sia per attivare un’attenzione consapevole da parte del coachee rispetto alle esperienze che vive tra un incontro e l’altro. Occorre infatti considerare che gli incontri di coaching per il coachee sono esperienze relazionali immerse nel flusso della
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sua esperienza complessiva e, per quanto intense e significative possano rivelarsi, inevitabilmente, nel tempo, rischiano di sfilacciarsi e perdere di consistenza annebbiandosi all’interno di una percezione rarefatta. Questi elementi di valutazione possono anche essere fissati nel report che, in questo modo, diventa una sorta di diario del percorso. E comunque l’ultimo incontro è interamente dedicato alla valutazione. Si ripercorre il percorso partendo dal colloquio di ingaggio e dall’obiettivo che era stato definito insieme agli altri attori coinvolti, si riprendono le sintesi di ciascun colloquio, i momenti significativi attraversati, le scoperte, le acquisizioni, le esperienze vissute tra un incontro e l’altro. L’attenzione del coach è orientata a cogliere le connessioni che spesso il coachee, abituato ad un pensiero che separa, che considera ogni elemento della sua esperienza come isolato, non vede in modo nitido. Quindi il lavoro di valutazione deve tendere a collegare i pezzi: gli elementi elaborati nei colloqui e le esperienze vissute, le modalità nuove e costruttive di rappresentarsi i problemi e i comportamenti agiti. In questo modo diventa possibile restituire al coachee l’esperienza del suo coaching nella forma di una narrazione coerente dotata di senso e significato.
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Infine coach e coachee scrivono a quattro mani il report conclusivo in modo che possa essere condiviso con gli altri attori coinvolti. Se i risultati complessivamente prodotti dovessero risultare insufficienti o insoddisfacenti sarà necessario evidenziarlo, valutando e concordando la possibilità di proseguire, ad esempio perché si avverte la necessità di un ulteriore lavoro di completamento o, viceversa, considerando comunque conclusa l’esperienza perché si condivide che il lavoro ha prodotto tutto quello che poteva produrre. Il colloquio di valutazione si aggancia al livello organizzativo dell’intero processo e alle sue fasi conclusive. Quindi potrà essere seguito da un incontro a tre – il coachee, il suo capo e il coach – in cui il coachee supportato dal report scritto a quattro mani, racconterà al capo la sua esperienza e illustrerà i risultati prodotti e a sua volto il capo esprimerà il suo punto di vista e i suoi feedback. In questa sede si potrà valutate l’opportunità di un’eventuale prosecuzione del lavoro e le sue modalità. Infine il coachee avrà un incontro a quattr’occhi con la persona della funzione HR che ha seguito il progetto e gli fornirà un ampio e approfondito feedback sull’esperienza. Il processo che abbiamo descritto è quello standard: è possibile immaginare che coerentemente con la specifica
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situazione organizzativa e il tipo di obiettivo su cui si lavora si possano disegnare percorsi anche differenti che includono ad esempio momenti di confronto tra il coachee e il capo con alla presenza del coach, momenti di affiancamento del coach al coachee con puntuale e approfondita restituzione di feedback, assegnazione di compiti specifici tra un incontro e l’altro. Il coach può inoltre supportare le acquisizioni e ampliare le cornici cognitive del coachee proponendo approfondimenti sotto forma di letture di libri, articoli, visione di film, consultazione di siti.
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Oggi
In questi ultimi mesi tutti quanti stiamo prendendo coscienza del fatto che l’epoca in cui viviamo attraversa una fase di mutazione. Gli anni recenti delle nostre vite, delle vite di tutti noi che lavoriamo con e nelle aziende del mondo avanzato, sono stati anni convulsi, frenetici segnati dalla dimensione del fare. Le giornate sono state scandite da una furibonda pressione operativa, l’attenzione è stata tutta rivolta fuori di noi, nella corrente di un agire talvolta frenetico. Quasi senza che ce ne rendessimo conto ad un certo punto, dentro alla grande mente collettiva della nostra contemporaneità è apparsa l’ombra della Crisi. L’instabilità, il cambiamento continuo, la forma liquida delle nostre esperienze professionali e di vita, fino a quel momento vissute e rappresentate come un elemento dinamico della nostra cultura post moderna hanno iniziato a manifestare il loro lato oscuro fatto di ansia, insicurezza, paura. E’ possibile che questa inedita esperienza collettiva con il suo portato di tetraggine porti con sé un ripensamento
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complessivo del nostro modo di vivere, lavorare, fare business. Forse emerge un agire meno euforico, un pensare meno volatile un ancoraggio a terra, una ricerca più profonda del valore delle cose a partire dal valore della vita in sé. Forse, tra segnali contrastanti, inizia a farsi strada una prospettiva complessivamente più ecologica nel senso che a questa parola abbiamo attribuito anche in questo nostro scritto e cioè di attenzione alle relazioni profonde che tengono insieme elementi diversi dell’esperienza. Il disorientamento che la Crisi produce porta con sé il bisogno forte delle persone che lavorano nelle aziende di oggi di crearsi degli spazi di ascolto e di riallineamento. Spazi in cui sia possibile prendersi cura di sé stessi, rigenerarsi, entrare in contatto con le quelle energie vitali profonde che per il solo fatto di esserci ci dischiudono un’esperienza del mondo fiduciosa e aperta alla possibilità. Il coaching, così come lo concepiamo in Mida, ci pare un modo possibile e concreto per incontrare questo bisogno diffuso di benessere e per contribuire alla generazione di realismo e di speranza.
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Marco Poggi Consulente, formatore, coach, partner di Mida. Counsellor certificato in Analisi Transazionale e Master in Programmazione Neuro Linguistica. Si occupa da anni del potenziamento delle persone e delle organizzazioni attraverso l’ideazione, la progettazione e la realizzazione di interventi di formazione, di sviluppo del potenziale di coaching e di consulenza. In particolare ha approfondito e sviluppato i temi legati: all’empowerment, alla creatività, alla leadership, ai gruppi e alla dimensione profonda ed emotiva dei fenomeni relazionali in ambito organizzativo. Ho pubblicato numerosi articoli sui temi del cambiamento, delle culture organizzative e dell’empowerment. E’ autore del libro “Lungo la linea del tempo”, Guerini & Associati 2007, e coautore di “L’Analisi Transazionale e la formazione degli adulti”, F. Angeli 2003.
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In copertina Il termine Ki è presente sia nella lingua giapponese che in quella cinese. Il KI esprime il concetto di energia fondamentale dell'universo, di cui fanno parte la natura e le funzioni della mente umana. Nell'antica Cina era visto come la forza che originava tutte le funzioni fisiche e psicologiche. La possibile traduzione dell'ideogramma KI, è Essenza Individuale, cioè quella peculiare caratteristica che distingue ogni essere da tutti gli altri.