Limes - Limiti Potenza Usa In Medio Oriente

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IL BUIO OLTRE GAZA

I LIMITI DELLA POTENZA AMERICANA IN MEDIO ORIENTE

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Shlomo AVINERI

Obama impari dai successi e dai fallimenti del passato nell’approccio alla risoluzione delle crisi regionali. Prima fra tutte quella israelo-palestinese. Spronare le parti in causa a dirimere da sole le più spinose fasi negoziali potrebbe risultare decisivo.

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1. ON L’ENTRATA IN CARICA DEL NUOVO presidente alla Casa Bianca, il prossimo 20 gennaio, è del tutto naturale che si sentano sempre più forti gli appelli affinché gli Stati Uniti si adoperino per il conseguimento di un definitivo accordo di pace fra israeliani e palestinesi. Un’intenzione senza dubbio degna di lode. Ma se si vuole veramente evitare che si ripetano i tanti fallimenti a cui abbiamo assistito in passato, sarebbe bene trarre alcune lezioni dalla lunga storia del coinvolgimento americano nei processi di pace in Medio Oriente e cercare di comprendere quali siano i reali limiti di quanto Washington è in grado di ottenere nella regione. L’idea che gli Usa siano onnipotenti e che sia sufficiente una chiamata a raduno perché la loro volontà di pace venga immediatamente accolta è un errore semplicistico che può portare a risultati pericolosi. A un attento esame del ruolo avuto dagli Stati Uniti nel corso degli ultimi decenni nei tentativi di risolvere il conflitto arabo-israeliano risulta ben chiaro che non c’è alcuna garanzia di successo. Si possono definire due tipi di scenari in cui gli Usa hanno enorme influenza quando decidono di far sentire tutto il loro peso, anche se in assenza di questi gli sforzi americani risultano vani e talvolta perfino controproducenti. L’analisi di questi casi, sia dei successi che dei fallimenti, può servire d’aiuto al futuro presidente per evitare di incorrere negli errori commessi in passato. 2. Il primo tipo di scenario in cui la potenza americana ha ottenuto ottimi risultati è quando è in corso una guerra che minaccia di espandersi e di coinvolgere altre potenze regionali o internazionali. In casi del genere, un fermo impegno americano a far uso della propria influenza è rapido ed efficace, poiché implica un obiettivo chiaro, a breve termine e verificabile (l’interruzione dei combattimenti o la prevenzione di una loro escalation), richiede risposte veloci ed è difficile resistergli.

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Diamo alcuni esempi che illustrano il fenomeno. Negli ultimi giorni della guerra del Kippur, Israele era riuscito a rovesciare i suoi iniziali arretramenti. L’esercito aveva attraversato il Canale di Suez e circondato la terza armata egiziana, aveva raggiunto il chilometro 101 sull’autostrada Suez-Cairo ed era sul punto di infliggere una schiacciante sconfitta all’Egitto di Sadat. Un rovesciamento simile era avvenuto anche sul fronte siriano nelle Alture del Golan. La politica americana, portata avanti astutamente dal segretario di Stato Henry Kissinger, non vedeva positivamente un risultato così nettamente sbilanciato. Alcuni duri scambi di opinioni fra Washington e Gerusalemme, intorno al 22-23 ottobre 1973, fermarono l’esercito israeliano evitando che questo portasse a termine una vittoria di maggiori proporzioni e venne così imposto un cessate-il-fuoco proprio nel momento in cui Israele voleva continuare la sua vittoriosa campagna ancora per alcuni giorni. Il susseguente blocco delle ostilità ha poi aperto la strada a una serie di accordi ad interim, ha prevenuto un possibile intervento sovietico, ha portato alla definitiva rottura del rapporto di dipendenza dell’Egitto da Mosca e ha poi creato quel contesto che portò, cinque anni più tardi, al trattato di pace israelo-egiziano. Durante l’invasione israeliana del Libano nel 1982, avvenuta dopo che il presidente eletto Basˇør Ãmayyil, il quale aveva il supporto degli israeliani, venne assassinato da agenti siriani, Israele era sul punto di irrompere nella parte est di Beirut abitata dalla popolazione musulmana. Così facendo, avrebbe rischiato di portare la Siria all’interno di quella che, fino a quel momento, era stata un’operazione israeliana limitata e circoscritta, condotta contro l’Olp nel Sud del Libano. Washington guardava a tutto ciò con grande apprensione e alcune dure telefonate fatte dall’allora presidente Ronald Reagan al primo ministro Menachem Begin bloccarono l’esercito israeliano già pronto nei suoi camion, impedendo di fatto ad Ariel Sharon, allora ministro della Difesa, di mettere in atto il suo «grande piano» di ristrutturazione della politica libanese. Durante la prima guerra del Golfo nel 1991, quando dozzine di missili iracheni colpivano obiettivi civili israeliani e le forze aeree americane non riuscivano a neutralizzare le capacità di lancio irachene, Israele aveva iniziato a pianificare la propria offensiva contro i siti missilistici di Baghdad. Gli Usa, nel timore che un coinvolgimento israeliano nella guerra contro Saddam potesse ledere o perfino rompere la coalizione arabo-americana, misero in chiaro a Israele che non avrebbero tollerato una tale operazione. Poiché gli israeliani non avrebbero tecnicamente potuto portare a termine un attacco del genere senza il tacito assenso americano, il governo del primo ministro Yitzhak Shamir cancellò gli attacchi pianificati. Ciò che tutti questi casi hanno in comune è che sono avvenuti in una drammatica situazione di guerra e il coinvolgimento americano è risultato nel richiamo a un chiaro, inequivocabile e verificabile insieme di misure da prendere: in meno di 48 ore sarebbe stato possibile sapere se Israele aveva o non aveva obbedito a Washington. È in questi momenti che la potenza statunitense si è espressa al massimo. Le penalizzazioni per chi non avesse dato retta al richiamo della Casa Bianca erano altrettanto chiare. Inoltre, l’emergenza permetteva al

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presidente di essere coinvolto direttamente. È quando si esprime in pressioni dirette, pittosto che in lunghi processi diplomatici, che la politica americana raggiunge il massimo dell’efficacia. 3. L’altro scenario è l’esatto opposto del primo. Vi si può assistere, ad esempio, quando un processo di pace è già bene avviato e le due parti hanno dimostrato la propria volontà di portarlo a termine. A quel punto, entrambe hanno già pagato il prezzo politico interno relativo all’accordo e hanno già trovato un’intesa sulla maggior parte delle questioni in gioco, ma restano in sospeso alcuni problemi di difficile soluzione, punti di disaccordo irrisolti, che minacciano di far crollare l’intero negoziato. È in una situazione del genere che gli Stati Uniti, portando a sostegno il potere presidenziale e operando anche in questo caso nell’ambito di un tempo limitato, possono esercitare efficaci pressioni sulle due parti. Anche in questo caso, porteremo alcuni esempi. La visita a Gerusalemme del presidente Anwar Sadat, che ebbe luogo nel 1977, non fu un’iniziativa di Washington. Al contrario, l’amministrazione del presidente Jimmy Carter guardò inizialmente con sospetto e ostilità alla visita, che giungeva proprio nel momento in cui si stava tentando di convocare una conferenza internazionale sul Medio Oriente su linee proposte dai sovietici. Infatti, Zbigniew Brzezinski, il consigliere per la Sicurezza nazionale del presidente Carter, mise persino in guardia sul fatto che la mossa di Sadat avrebbe sconvolto il delicato status quo nell’area. Dopo la visita di Sadat, Israele ed Egitto condussero negoziati bilaterali per quasi un anno e riuscirono a risolvere la maggior parte delle questioni in discussione (la fine dello stato di belligeranza, il ritiro di Israele dal Sinai, l’instaurazione di relazioni diplomatiche, la creazione di una struttura per un’autonomia palestinese eccetera). Ma in ultima analisi, le due parti non erano riuscite a trovare un accordo su alcune questioni di rilievo e ciò rischiava di far naufragare l’intero processo. È stato a questo stadio che l’amministrazione Carter, che aveva abbracciato il processo malgrado i dubbi iniziali, decise di intervenire. L’invito del presidente americano, rivolto tanto a Sadat quanto a Begin, a riunirsi a Camp David preparò il terreno per una riuscita conclusione dei negoziati. L’abile uso fatto da Carter del bastone e della carota indusse ambedue le parti a fare al presidente degli Stati Uniti quelle concessioni che avevano trovato difficile fare l’una all’altra. Ma la maggiore iniziativa e spinta dei negoziati fu rappresentata dalla volontà politica delle due parti, che costò loro un pesante prezzo politico: Sadat subì l’ostracismo pressoché totale del mondo arabo (rottura delle relazioni diplomatiche, trasferimento della sede della Lega Araba dal Cairo a Tunisi) e l’alienazione di una parte significativa dell’opinione pubblica egiziana, fatto questo che portò poi al suo assassinio. Begin, da parte sua, soffrì per una dolorosa divisione all’interno del proprio partito, il Likud. Uno scenario simile si verificò nei negoziati del 1993 fra Israele e Olp, che portarono ai cosiddetti accordi di Oslo. Le due parti condussero trattative segrete con un limitatissimo coinvolgimento norvegese, e all’insaputa degli Usa, i quali perfino punirono il primo ministro Yitzhak Rabin per averli tenuti all’oscuro. Solo

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quando l’accordo venne raggiunto su una base bilaterale, anche in questo caso con alcune questioni rimaste in sospeso, il presidente Bill Clinton intervenne. Invitando alla Casa Bianca Rabin e Peres da una parte e Arafat dall’altra, fu capace di chiarire i notevoli disaccordi e di portare a termine l’intesa finale. Anche in questo caso i negoziati furono il risultato della volontà politica delle due parti che ne pagarono il prezzo politico per aver parlato con antichi nemici e fatto le necessarie concessioni (cosa questa che nel caso di Rabin portò al suo assassinio). Anche l’accordo di pace fra Israele e Giordania, firmato l’anno successivo, è stato frutto dei negoziati bilaterali fra i due paesi, senza alcun coinvolgimento americano (e anche in questo caso con una certa iniziale insoddisfazione da parte degli Usa). Solo alla fine Clinton prese parte alla cerimonia della firma dell’accordo di pace, al passaggio di frontiera Aravà, che divide il Sud di Israele dal Sud della Giordania.

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4. Al di fuori di questi due scenari, i tentativi americani di pacificare le parti sono stati dei fallimenti. Il vertice di Camp David del 2000, quando Clinton fece incontrare il primo ministro Ehud Barak con il presidente dell’Olp Arafat, fallì perché venne a mancare ad almeno una delle due parti (Arafat) la volontà politica di raggiungere un accordo. Clinton, malgrado l’enorme influenza che aveva acquisito come presidente degli Stati Uniti, non riuscì a convincere o a esercitare la giusta pressione sul leader palestinese perché fosse più accomodante. Molti osservatori potranno discordare sulla suddivisione delle colpe fra i partecipanti, ma una cosa risulta chiara a tutti: in mancanza di una volontà politica delle parti, i tentativi degli Stati Uniti non riescono a produrre risultati. Lo stesso si può dire della road map del presidente Bush e del più recente incontro di Annapolis, avvenuto nel novembre del 2007. Mentre sembrava che gli americani avessero ottenuto il supporto verbale di tutte le parti coinvolte, dovevano ancora mostrare risultati concreti. E le due parti in causa hanno messo a confronto la propria mancanza di volontà, o capacità, politica. Se gli attori non intendono partecipare alla rappresentazione, nessuna pressione americana potrà portarli in teatro. In questo contesto va ricordata la conferenza di Madrid tenutasi nell’ottobre 1991, che viene talvolta acclamata come tentativo di pacificazione americano ben riuscito. A dispetto di alcuni pareri convenzionali che la ritengono un successo, giudizio questo diffuso principalmente da alcuni dei promotori americani dell’iniziativa e dei partecipanti, si è trattato, in definitiva, di un fallimento. Non ha conseguito alcun accordo fra Israele e i paesi confinanti, né tanto meno la pace globale che si era prefissa come scopo. A dire il vero, non è stata molto più di una glorificata opportunità fotografica, con alcuni discorsi memorabili e altri meno. Vennero istituite numerose commissioni, bilaterali e multilaterali, e centinaia di diplomatici hanno accumulato innumerevoli ore di volo per un certo numero di anni. Ma in ultima analisi, e ciò va sottolineato, tutto questo non ha portato a nessun accordo, nessun trattato di pace e neppure a una intesa informale. La funzione di Madrid è stata di mantenere la promessa fatta dagli americani ai propri partner arabi nella

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coalizione antirachena della prima guerra del Golfo. Questa è stata la sua importanza politica. Ma come veicolo di pacificazione, vale a dire per il suo obiettivo dichiarato, è stata un fallimento. E anche in questo caso, le ragioni di tale fallimento sono indicative e istruttive: mancava la volontà di Israele, sotto la guida di Shamir, il quale non voleva andare a Madrid e vi è stato trascinato di forza. Similmente, la Siria non era pronta a fare le necessarie concessioni e l’Olp era di certo riluttante a contribuire al successo di un processo in cui non era coinvolta direttamente. Perfino all’apice della sua potenza, dopo la vittoria nella prima guerra del Golfo, l’America di Bush padre non è stata in grado di portare all’acqua i cavalli recalcitranti. 5. L’analisi qui proposta intende suggerire che gli Stati Uniti hanno un’enorme forza e influenza come vigili del fuoco e nella funzione di levatrice, ma non come promotori di iniziative. Con tutte le fondamentali differenze esistenti fra i due positivi scenari sopra descritti, c’è un aspetto che questi hanno in comune: sono strettamente circoscritti nella loro cornice temporale. Ciò significa che il diretto coinvolgimento del presidente americano, che sembra essere cruciale per il successo degli sforzi Usa, è efficace perché egli può concentrarsi intensamente sulle trattative per alcuni giorni e determinarne il corso, esercitando talvolta pressioni per interrompere o evitare un’azione militare. Per contro, piani di pace dettagliati dei quali Washington si è fatta promotrice (la road map, il processo di Annapolis e numerose simili iniziative americane negli anni Settanta e Ottanta) prevedono un processo stratificato, dai molti stadi, che talvolta si estende su un periodo di due o tre anni. Nessun presidente americano può dedicare la sua esclusiva attenzione a un’opera di pacificazione nel Medio Oriente per un lasso di tempo così lungo, così come nessun presidente può essere così direttamente coinvolto nell’esplorare e negoziare le centinaia di minuzie presenti in un trattato di pace. E se tutto ciò viene lasciato ad altre figure ufficiali, anche se si tratta di segretari di Stato (a meno che non abbiano de facto la funzione di presidente, come era nel caso di Kissinger nei mesi finali della presidenza Nixon), questi non possono esercitare quel peso che spetta solo al più alto rango del potere americano. E ugualmente non possono fare da baby-sitter a un processo di pace che funziona a periodi alterni. Visite di due-tre giorni nella regione possono risolvere questioni di minore centralità ma non possono coprire le distanze derivate da problemi di dimensioni storiche. In questo il Medio Oriente non è speciale: con tutta la loro potenza e la loro influenza, gli Stati Uniti non sono riusciti a risolvere neppure altri conflitti simili, come Cipro, Bosnia e Kosovo. Ciò che tutte queste crisi hanno in comune è la loro multidimensionalità: pur avendo tutti una dimensione territoriale, questi conflitti non riguardano solo territori. Sono guerre che coinvolgono movimenti nazionali che combattono per sovranità e indipendenza, autodeterminazione e identità storiche, che vengono a scontrarsi fra loro. Coinvolgono aspetti di occupazione, resistenza, terrorismo, guerriglia e coloni. E se pure non sono di per sé conflitti religiosi, posseggono dimensioni religiose che li esacerbano e li infiammano ulteriormente. Anche se il conflitto arabo-israeliano è forse il più intenso (anche perché di

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certo, Nicosia o Mitrovica non sono Gerusalemme), la multidimensionalità rende difficile la risoluzione di tutti questi casi. Per questo gli sforzi internazionali, avvenuti sempre con il sostegno o per iniziativa degli Stati Uniti, non sono riusciti a risolverli: il piano Annan per Cipro, non riuscendo a ottenere il sostegno dei grecociprioti, è un gigantesco fallimento; il rapporto Ahtisaari, pur stabilendo una meritatissima indipendenza per il Kosovo, non è riuscito a risolvere il conflitto, data l’opposizione serba; e gli accordi di Dayton, pur ponendo fine alle brutali uccisioni, agli stupri e alla pulizia etnica, non sono finora riusciti a costruire la desiderata Bosnia-Erzegovina confederata e multietnica. Mentre tutti questi progetti internazionali, mossi dalle migliori intenzioni, sono falliti sul nascere, scontrandosi con la mancanza di volontà politica locale, è significativo notare che nei casi in cui in queste regioni si sono verificati dei progressi, questi sono addebitabili a sviluppi politici locali. Per esempio, i cambiamenti elettorali avvenuti tanto nella Repubblica di Cipro quanto in Serbia hanno portato al potere attori diversi. Si possono già vedere i primi segni di questi cambiamenti, come la riapertura della via Ledra che divideva la città di Nicosia, un approccio serbo leggermente più sfumato verso l’indipendenza del Kosovo, la cattura di Radovan Karadjic´. Tutto questo dà prova di cambiamenti politici interni e non ha legame con alcun intervento politico degli Stati Uniti (o dell’Onu). Questi esempi dovrebbero essere tenuti a mente da qualsiasi presidente americano che si appresti a forgiare la propria politica mediorientale. Nei casi di Cipro, Bosnia e Kosovo, il buon senso ha deviato gli sforzi da piani superambiziosi per la risoluzione del conflitto a tentativi misurati e pragmatici per la sua gestione o contenimento. Si dovrebbe tentare qualcosa di simile anche per i negoziati fra israeliani e palestinesi. Il nuovo presidente americano dovrebbe far tesoro sia dei fallimenti che dei successi dei suoi predecessori. Il problema dell’approccio attraverso il quale si dovranno confrontare i futuri negoziati israelo-palestinesi non è rappresentato solo dall’attuale relativa debolezza delle due leadership (problema questo che non scomparirà tanto velocemente) e neppure dalla frattura del movimento palestinese, oggi diviso in due milizie armate, una che controlla Gaza e l’altra che mantiene il suo debole potere nella Cisgiordania. La difficoltà più profonda è di fatto rappresentata dal significativo divario fra le posizioni dell’israeliano più moderato e quelle dei palestinesi su questioni come i confini, gli insediamenti, i profughi e Gerusalemme. Tali questioni sono tutte intrecciate con una moltitudine di rivendicazioni storiche, normative e nazionali, che non scompariranno. È questa una dimensione che spesso risulta di difficile comprensione per gli americani. A tali condizioni, la prima regola dovrebbe essere l’equivalente politico del giuramento di Ippocrate: non fare mai del male. Il vertice di Camp David del 2000 ha invece provocato un danno enorme, per il preciso motivo che ha aumentato le aspettative in un momento in cui mancava la volontà politica: dopo un tale fallimento, non si torna al punto di partenza come avviene nei giochi al computer. In politica e in storia, fallimenti del genere gettano le parti in fondo all’abisso, o comunque molto vicino ad esso. Dopo il fallimento di Camp David, c’è stata da am-

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bo le parti ancora maggior rabbia, timore e odio. Ripetere un esercizio di questo tipo non è solo sconsigliabile, è pericoloso. 6. Ma allora, cosa andrebbe fatto? L’alternativa non è mai guerra o pace, lo status quo o un regolamento di conti. Come hanno dimostrato Cipro, Bosnia e Kosovo c’è sempre la possibilità di una terza alternativa. Israeliani e palestinesi dovrebbero essere incoraggiati a continuare a negoziare e ad ambo le parti si dovrebbero prospettare una serie di stadi intermedi che possano aiutare a mitigare e minimizzare il conflitto e l’attrito. Da parte israeliana, ciò deve comprendere uno stop assoluto di ogni ulteriore inizio di costruzione negli insediamenti della Cisgiordania e un misurato ma reale smantellamento dei posti di blocco e altri impedimenti al libero movimento dei palestinesi. L’Autorità palestinese dovrebbe essere aiutata in una lunga serie di azioni tra cui quelle indicate qui di seguito sono solo una parte: costruire le istituzioni di un futuro Stato, cosa in cui ha tristemente fallito sin da Oslo per non parlare del periodo precedente; assicurare la nascita di un singolo apparato di sicurezza che goda del monopolio nell’uso legittimo della forza, in sostituzione dell’eccessivo numero di servizi di sicurezza che si sovrappongono l’un l’altro, di milizie e perfino di bande; istituire un sistema fiscale (che è attualmente inesistente); istituire il principio della legalità; abbassare lentamente il livello della retorica relativa al ritorno dei profughi del 1948. Nulla di quanto è stato elencato potrà essere conseguito con facilità. Queste misure, peraltro realistiche, richiederanno uno sprone dall’esterno. Se si riusciranno a realizzare, potranno servire da base per futuri negoziati indirizzati alla risoluzione di questioni più fondamentali. D’altra parte, gesti drammatici il cui intento è di trovare una risoluzione totale al problema, pur attirando plausi e supporti verbali saranno inevitabilmente destinati al fallimento, come è avvenuto nel passato, tanto in Medio Oriente, quanto altrove. Nulla può sopperire alla volontà politica delle parti in causa in una guerra. E questa, come un fiore delicato, deve essere nutrita senza far rumore e con grande pazienza. Non esistono scorciatoie: nessun conflitto nazionale è stato mai risolto dall’esterno.

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* Questo articolo è già comparso in lingua inglese su Israel Journal of Foreign Affairs, vol. 2, n. 3/2008.

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