Limes - Usa Conviene Parlare

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IL BUIO OLTRE GAZA

PARLARE CON TUTTI CONVIENE ALL’AMERICA

di

Daniel LEVY

Obama dovrà affrontare i drammi mediorientali nel loro insieme, trattando anche con l’Iran e con Õamås. E coinvolgendo gli alleati. L’importanza del nodo palestinese e le lezioni di Gaza. È necessario adottare un linguaggio diverso.

L’

1. ULTIMA CRISI DI GAZA HA DIMOstrato ancora una volta, se mai ve ne fosse stato bisogno, quante ripercussioni abbia, non solo su scala locale, una questione irrisolta come quella palestinese e quanto sia suscettibile di creare tensioni esplosive per gli Stati Uniti. Già da candidato, e poi ancora da neopresidente, Obama ha dichiarato più volte di essere consapevole della centralità di questo problema e di volerlo affrontare rapidamente. Quando ha presentato al mondo intero i responsabili da lui prescelti per la politica di sicurezza nazionale, il 1° dicembre scorso, ha fatto apertamente riferimento alla pace fra israeliani e palestinesi come uno dei tre temi di maggior rilievo. Analogamente, quando ha rotto brevemente il silenzio sulla crisi di Gaza durante il periodo di transizione, ha assicurato che avrebbe lavorato alla soluzione del conflitto fra questi due popoli fin dall’inizio della sua amministrazione. Durante la campagna elettorale, in un’intervista particolarmente interessante rilasciata a Jeffrey Goldberg del magazine The Atlantic, l’allora senatore dell’Illinois aveva dichiarato: «Penso che questa ferita aperta, questa piaga sanguinante, infetta tutta la nostra politica estera. La mancata risoluzione di questo problema fornisce una scusa ai jihadisti militanti antiamericani per perpetrare azioni imperdonabili. Trovare una via d’uscita è dunque un interesse vitale per la nostra sicurezza nazionale, come per quella di Israele, poiché credo che lo status quo sia insostenibile». Ovviamente, il nuovo presidente dovrà affrontare molte questioni, non ultime una crisi economica senza precedenti e due guerre in corso. Ma, diversamente dal suo predecessore, sembra intenzionato a metter mano al conflitto arabo-israeliano. La domanda decisiva allora non è tanto se o quando avvierà un processo di pace, bensì come e con quali strumenti. La tentazione sarà quella di riprendere i negoziati di Annapolis iniziati da Bush nel novembre del 2007 e proseguire su quella strada. Ma è un terreno su cui sa-

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rebbe sconsigliabile inoltrarsi. L’insuccesso di quelle trattative non si deve tanto alla sfortuna e alla scelta del momento sbagliato, quanto piuttosto al fatto che esse avevano rivelato tutti i difetti dei precedenti colloqui di Oslo aggiungendone altri (gradualismo, misure inefficaci per accrescere la fiducia reciproca, eccessivo affidamento su negoziati bilaterali, aggravamento delle divisioni fra palestinesi). Il Medio Oriente che eredita Obama sarà molto diverso da quello consegnato a George W. Bush da Bill Clinton. Gli strumenti politici impiegati da quest’ultimo (efficaci rispetto a quelli del suo successore, anche se si tratta comunque di un metro di giudizio molto relativo) dovranno essere ridefiniti alla luce delle nuove realtà regionali. Durante la crisi del Libano del 2006, Condoleezza Rice, per spiegare l’insistenza dell’America nel rinviare i tentativi di giungere a una tregua (su iniziativa dell’allora ministro degli Esteri italiano Massimo D’Alema) usò una frase infelice e che oggi appare infame, parlando di «dolori del parto di un nuovo Medio Oriente». Obama si troverà per molti aspetti di fronte a un fenomeno del genere, ma non necessariamente a una situazione come quella che l’ex segretario di Stato americano sperava prendesse forma. Le divisioni e le rivalità regionali sono state esasperate fino al punto di rottura. Come traspare a volte dalla situazione interna in Libano e in Palestina. L’immagine di due campi contrapposti, moderati ed estremisti, è inadeguata. I cosiddetti moderati, infatti, non appaiono affatto tali agli occhi dei loro oppositori interni, mentre i cosiddetti estremisti spesso includono nel loro fronte riformatori popolari, laici e democratici. Ed è proprio il campo moderato quello attualmente più sulla difensiva, nonostante una convinzione sempre più diffusa nella regione. Detto più semplicemente, gli alleati dell’America non stanno dalla parte vincente. La loro legittimità, inoltre, è debole e peccano di gravi insufficienze democratiche. In questo quadro composito, l’Iran si è rafforzato, paradossalmente, grazie alle politiche di Bush. Grazie alla neutralizzazione dei suoi vicini rivali (i baatisti in Iraq e i taliban in Afghanistan) da parte degli americani, ha potuto volgere maggiormente la sua attenzione e le sue mire alla sfera regionale. L’esperimento dell’inclusione politica dei fondamentalisti islamici nella vita democratica palestinese e la successiva vittoria elettorale di Õamås sono stati due fenomeni che l’Occidente (Europa inclusa) non ha saputo affrontare, contribuendo così a dividere il campo palestinese, nel quale è ormai quasi impossibile gettare le fondamenta di uno Stato indipendente. Anche Israele, sia pure in modi meno drammatici, sembra attraversare un periodo di profonde difficoltà politiche e qualsiasi processo di pace che ignori questo fattore corre seri rischi. Il premier uscente, Ehud Olmert, forse il più coraggioso di tutti i suoi predecessori nel comprendere quanto fosse urgente e vitale la necessità per il suo paese di dar vita a uno Stato palestinese, lascerà l’incarico dopo aver assistito non già all’avvio di un processo di pace e all’evacuazione dei Territori occupati, bensì a due guerre e a una continua espansione degli insediamenti ebraici.

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2. Quando Obama si occuperà del Medio Oriente, scoprirà una regione in cui la credibilità e la posizione dell’America sono state drammaticamente minate. Ciò si deve non solo alla guerra, ma anche all’evidente indifferenza degli Stati Uniti verso i grandi problemi regionali e in particolare verso la questione palestinese. Tutto questo ovviamente ha creato un ambiente sensibile alla propaganda dei jihadisti più fanatici, di al-Qå‘ida e di altre organizzazioni consimili. L’America, già provata sul piano economico e militare, dovrà così entrare in questa mischia. Spesso Washington è stata tentata dall’autoemarginazione, con la conseguente rinuncia, da parte dell’amministrazione Bush, a utilizzare anche canali indiretti. Il vuoto che si è venuto a creare è stato in parte riempito da altri. La Turchia, ad esempio, ha svolto un ruolo di mediazione nei negoziati di pace fra Israele e la Siria. Il Qatar ha proposto un compromesso per assicurare la riconciliazione interna del Libano. I sauditi hanno cercato di dar vita a un governo di unità nazionale palestinese alla Mecca nel 2007, e gli egiziani hanno mediato gli accordi di tregua fra Israele e Õamås. Ma scoraggiando qualsiasi contatto con quest’ultimo movimento, gli Stati Uniti non solo non hanno favorito questi processi assicurando il loro appoggio, ma li hanno di fatto ostacolati. A volte, lo scarso impegno diplomatico americano nella regione ha offerto nuove opportunità all’Europa, per esempio con i negoziati Ue-3 con l’Iran, le aperture della Francia alla Siria e le iniziative italiane durante la guerra del Libano nel 2006. Anche la Russia è tornata a svolgere un ruolo nella regione e mentre la Cina continua a interferire solo marginalmente in Medio Oriente, non sarà sfuggito a nessuno che ha inviato la sua prima spedizione navale all’estero partecipando alle operazioni di pattugliamento contro la pirateria nelle acque somale, verso la fine del 2008. Ma gli Stati Uniti restano protagonisti indispensabili. I tentativi di mediazione di altri paesi, in assenza del sostegno americano, il più delle volte falliscono. Così è stato nel caso del Libano nel 2006, in quello dell’Iran, delle trattative di pace fra Israele e Siria, delle divisioni fra palestinesi e via dicendo, e così è ancora nel caso della crisi in corso a Gaza. Per ristabilizzare il Medio Oriente, raggiungere un nuovo equilibrio e far avanzare il processo di pace non si potrà fare a meno dell’America al tavolo dei negoziati, spesso con un ruolo guida. Ma in questo quadro fosco, ci sono anche due buone notizie. Innanzitutto, vi è un crescente consenso, negli Stati Uniti, riguardo agli insuccessi delle politiche adottate da Bush verso il Medio Oriente. Si avverte l’esigenza di favorire un nuovo corso. Ma la cosa decisiva è che da ciò deriva il riconoscimento che la ristabilizzazione del Medio Oriente e l’avvio di un effettivo processo di pace sono di vitale importanza per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Già nel dicembre del 2006, il rapporto dell’Iraq Study Group del Congresso, presieduto da James Baker e Lee Hamilton, dimostrava ampiamente il nesso fra il successo degli americani in Iraq e la necessità di creare un nuovo assetto regionale, specialmente attraverso un maggior impegno americano con diversi attori e favorendo la pace fra arabi e israeliani. Un altro rapporto, pubblicato lo scorso dicembre da due dei principali istituti di ricerca di Washington – il Council on Foreign Relations e la

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Brookings Institution – intitolato Restoring the Balance: A Middle East Strategy for the Next President, è l’ulteriore dimostrazione di quanto sia ormai diffusa e condivisa questa tendenza di pensiero. Se gli Stati Uniti vogliono riaffermare la loro posizione, rafforzare i loro alleati, creare nella regione un clima favorevole al ritiro dall’Iraq, mettere alle corde gli estremisti islamici e ridurre l’influenza iraniana, allora devono avviare un processo di pace credibile e ottenere soprattutto risultati sul fronte palestinese. In secondo luogo, il Medio Oriente è pronto a guardare di nuovo con favore un’America guidata da Barack Obama e a voltar pagina. La speranza oggi diffusa in gran parte del mondo, che non è antiamericano, ma risente delle politiche di Washington, investe anche il Medio Oriente. Il presidente Obama è popolare e ha una nuova occasione che non dev’essere sprecata.

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3. In quali modi la sua amministrazione potrà sfruttare questo momento favorevole? Ecco sette consigli. A) Contare fino a dieci e ripensare. Una volta superata la crisi di Gaza, si riproporrà con forza la questione palestinese, con conseguenti pressioni per il rilancio dei negoziati di Annapolis e per incanalare l’assistenza dei donatori destinata alla ricostruzione di quel territorio in modo da continuare a interferire nella politica interna palestinese e accentuarne le divisioni. Questo non si deve fare (si proceda pure alla ricostruzione, ma con altri intenti). È invece necessario riflettere seriamente sui motivi dell’insuccesso di Annapolis. Si può pensare di ricostruire l’economia palestinese entro un sistema chiuso che di per sé è il prodotto del conflitto fondamentale irrisolto e della realtà dell’occupazione ancora in corso? Le preoccupazioni degli israeliani per la propria incolumità possono essere sedate creando forze di sicurezza palestinesi che col tempo perderanno credibilità verso i loro connazionali e verranno istigate a volgere le loro armi contro i coloni e i soldati israeliani? Quando si tratterà di affrontare le questioni spinose relative alla creazione di due Stati, esse potranno essere risolte esclusivamente attraverso negoziati bilaterali? Una leadership palestinese che presiede un movimento politicamente e geograficamente diviso e sempre più isolato, con scarso sostegno pubblico, è in grado di concludere un difficile accordo storico? E dopo tutti gli insuccessi passati e lo scetticismo diffuso, Israele sarà disposto a siglare un’intesa senza un consistente complesso di incentivi, il sostegno degli arabi e adeguate garanzie di sicurezza e, dall’altro lato, senza reali disincentivi se non lo farà? La risposta a tutte queste domande è invariabilmente negativa e il primo problema da affrontare sarà quello di procedere a un serio ripensamento politico. B) Trovare un nuovo linguaggio. In Medio Oriente non è soltanto la politica che deve cambiare, ma anche il vocabolario. Nessuno qui si aspetta che gli americani abbandonino il loro alleato israeliano, né questo d’altronde accadrà. Gli Stati Uniti cercheranno sempre in tutti i modi di garantirne la sicurezza. Ma dovranno farlo sviluppando al tempo stesso una genuina preoccupazione per la triste condizione dei palestinesi e per la dignità degli arabi in generale. Questo è senz’altro

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possibile e nessun presidente potrà farlo meglio di Barack Obama. Si tratterà di usare toni più sfumati e meno asseverativi. La nuova amministrazione verrà giudicata fin dalle sue prime dichiarazioni al riguardo. C) Coinvolgere gli alleati regionali e globali dell’America. Prima di imbarcarsi in una nuova politica, l’amministrazione Obama dovrà condurre un giro di schiette consultazioni con i suoi alleati, nel Medio Oriente e altrove. Agli amici del mondo arabo andrà detto che l’America tende oggi a calmare le acque e trovare soluzioni, anziché esacerbare le tensioni regionali. E lo farà coinvolgendo le parti con cui tratta e incoraggiando altri a venire a patti. Continuerà inoltre a promuovere la democrazia, mediante la diffusione della legalità e delle libertà civili, anziché insistere ossessivamente sulle elezioni. Gli Stati Uniti dovranno inoltre sollecitare un apporto consistente da parte degli arabi all’avanzamento del processo di pace e tener conto delle loro iniziative in atto. Ma per ridurre le tensioni e i conflitti interarabi, dovranno cominciare a costruire un sistema di sicurezza regionale inclusivo. Analoghe consultazioni dovrebbero aver luogo con Israele. La convinzione di fondo di Gerusalemme che gli Stati Uniti siano interessati al risultato finale della pace più che al suo processo, e che parteciperanno direttamente al negoziato, blocca il dialogo con Israele su tutte le questioni chiave che esso ritiene legittime (la sicurezza, i confini definitivi e il riconoscimento della sua legittimità e del suo diritto all’esistenza). Ma il governo israeliano resta propenso alla ricerca di una soluzione, con la conseguente liberazione dei Territori occupati e la nascita di uno Stato palestinese indipendente. Gli Stati Uniti, infine, dovrebbero prospettare questo nuovo orientamento al Quartetto per il Medio Oriente (formato da Onu, Unione Europea, Stati Uniti e Russia) e in particolare agli alleati europei, in previsione di un loro forte sostegno – diplomatico, finanziario e d’altro tipo – al progresso delle trattative. D) Ripensare anche il conflitto israelo-palestinese. Nel cercare di affrontare le preoccupazioni principali delle due parti in campo, gli Stati Uniti dovranno far meno affidamento su negoziati bilaterali e prospettare proprie soluzioni quando questi negoziati si arenano. Ciò significa proporre soluzioni anche riguardo a questioni chiave. Gli accordi sulla sicurezza dovrebbero prevedere, almeno inizialmente, un ruolo decisivo per le forze internazionali (come ad esempio quelle della Nato, in modo da garantire che nella fase post-occupazione non si crei un vuoto né una situazione di anarchia), garanzie arabe in materia di eventuali contenziosi e il riconoscimento di Israele e dei suoi nuovi confini, nonché un meccanismo internazionale per il reintegro dei profughi palestinesi, compreso il riconoscimento della storica ingiustizia da essi subita. A ciò andrebbe aggiunto un complesso di benefici e di incentivi che solo una coalizione internazionale potrebbe assicurare. Infine, gli Stati Uniti dovrebbero incoraggiare la riconciliazione interna fra i palestinesi e creare una divisione internazionale del lavoro mediante la quale aprire canali di comunicazione con Õamås attraverso interlocutori regionali ed europei (anziché americani) e verificare e incentivare in tal modo la sua propensione ad abbandonare la resistenza armata per adottare metodi esclusivamente politici.

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E) Ristabilire i rapporti con la Siria. Gli Stati Uniti non hanno un ambasciatore a Damasco dal febbraio 2005, ma dovrebbero ricostruire i loro rapporti con la Siria partecipando direttamente ai suoi negoziati con Israele, cosa che hanno evitato invece di fare dopo il rilancio di queste trattative attraverso la Turchia. Un accordo fra Siria e Israele è necessario nel contesto di una pace generale fra Gerusalemme e i paesi arabi e della normalizzazione prevista dall’iniziativa araba di pace, ed è certamente un prerequisito per un’intesa fra Israele e il Libano. I vertici delle Forze di sicurezza israeliane sono favorevoli a un accordo con Damasco, con tutto quel che comporterebbe riguardo al ritiro dal Golan, soprattutto per le sue conseguenze positive su scala regionale (ovvero per i rapporti con l’Iran, Õamås, Õizbullåh eccetera). Per procedere su questa strada si può far tesoro dell’esperienza acquisita dalla Turchia e anche da alcuni governi europei, esortandoli a continuare. Un accordo non sarà facile tenendo conto che il dialogo si è arenato in precedenza su alcuni dettagli o a causa di preoccupazioni politiche espresse dagli israeliani. Restano tuttavia buoni motivi per ritenere che, in questa fase, l’offerta di un’ampia serie di incentivi ai palestinesi, ai siriani e al fronte panarabo avrebbe più senso e probabilità di successo e sarebbe persino più interessante per Israele di un processo per piccoli passi, specialmente se questi incentivi sono ben calibrati e abbastanza attraenti. Anche in assenza di una svolta in Israele, gli Stati Uniti dovrebbero ristabilire i loro rapporti bilaterali con la Siria, d’intesa con gli alleati europei, per cercare di spingerla il più possibile a svolgere un ruolo costruttivo nella regione. F) Consolidare il processo politico in Libano. Per evitare il ritorno a un violento conflitto interno in questo paese, è necessario promuovere il suo sviluppo politico. Specialmente prima delle elezioni del prossimo giugno. Tutte le parti in causa andrebbero incoraggiate a partecipare a questo processo, che dipende in parte dai segnali che verranno inviati da altri attori regionali. Gli Stati Uniti dovrebbero scoraggiare i loro alleati e altri paesi con i quali stanno ora cercando di riavvicinarsi (come la Siria) a ingaggiare guerre per procura in Libano. Inoltre, dovrebbero ridurre al minimo i contenziosi con Israele, che possono essere sfruttati per scatenare tensioni, come ad esempio le questioni territoriali delle fattorie di Sˇib‘a e quelle dei sorvoli della sua aviazione. Andrebbe inoltre sollecitata l’applicazione della risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e la smilitarizzazione del Libano (specialmente di Õizbullåh). È interessante osservare che Õizbullåh non ha aperto un secondo fronte contro Israele durante la crisi di Gaza. Ciò lascia pensare che si possano offrire incentivi capaci di influenzare significativamente i calcoli e le azioni di movimenti come questo. G) La sfida dell’Iran. Il brusco calo dei prezzi del petrolio ha prodotto più effetti sull’economia e sulla politica iraniana di quanto non abbiano fatto anni di sanzioni. Le misure indicate sin qui costituirebbero l’equivalente diplomatico di questa caduta. In altre parole, l’influenza politica regionale dell’Iran si ridurrebbe significativamente se esse venissero attuate. L’Iran, dopo tutto, è in grado di sfruttare e alimentare la questione palestinese, le divisioni interne a quel popolo, le

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crisi col Libano e tutte le altre tensioni regionali, comprese quelle derivanti dall’attuale politica della Siria. Man mano che gli Stati Uniti cercheranno di usare la loro influenza, prima e durante i negoziati con Teheran, farebbero bene a considerare questi aspetti della politica regionale come strumenti più efficaci della formulazione di ulteriori minacce. Un impegno diretto degli Stati Uniti con l’Iran è oggi quasi inevitabile. Anzi, già esiste in parte sulla questione irachena (con gli incontri fra ambasciatori a Baghdad) e con la partecipazione del sottosegretario William Burns al recente vertice P5+1 di Ginevra. Per proseguire in questa direzione si potrebbero adottare i seguenti comportamenti: a) dimostrarsi pronti ad affrontare l’ampio spettro di problemi di reciproco interesse, non solo quelli che ci stanno a cuore; b) delineare aree di convergenza, come nel caso delle questioni relative all’Afghanistan e a quelle connesse all’Iraq; c) mostrare pazienza, visto che si tratta di risolvere un lungo contenzioso storico, e che sebbene i negoziati non debbano essere un pretesto, da parte di Teheran, per perdere tempo, non possono neppure esser condotti con un cronometro in mano; d) mantenere le alleanze internazionali e andare oltre; e) trovare soluzioni creative che riconoscano all’Iran i suoi diritti di realizzare, nel quadro del Trattato di non proliferazione, un programma di sviluppo dell’energia nucleare a scopi civili insistendo al tempo stesso sulle massime salvaguardie intese a garantire e verificare che non venga utilizzata a fini militari. Ovviamente, non è detto che ciò funzioni. C’è il rischio di un ritorno a una politica basata esclusivamente sulle sanzioni e mirante al contenimento. Ma la dinamica regionale sarà sempre decisiva, e ci sono ben pochi motivi per continuare ad assecondare la politica di potenza su questa scala geografica. In effetti, il messaggio principale della nuova amministrazione Obama potrebbe essere questo: guardare alla regione nel suo complesso e tener conto delle interconnessioni delle varie questioni. L’amministrazione Bush collegava le singole realtà del Medio Oriente in modo molto confuso. Obama non potrà permettersi il lusso di ripartire da zero. Ma ha una inedita occasione per creare un nuovo equilibrio in Medio Oriente.

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