Limes - Medio Oriente Barrieri Invisibili

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IL BUIO OLTRE GAZA

MEDIO ORIENTE LE BARRIERE INVISIBILI

di

Giovanni PARIGI

I confini statuali non servono a capire la costituzione geopolitica dei paesi arabi e islamici. Panarabismo e panislamismo, così come i vari nazionalismi, soccombono sempre ai poteri locali, ossia ai clan. Una storia che comincia con la fine dell’impero ottomano. Poi, i giorni dell’impero arabo ebbero fine. Le prime generazioni che avevano cementato il potere arabo e fondato il dominio degli arabi, erano scomparse. Il potere venne preso da altri, da non arabi come i turchi nell’Est, i berberi nell’Ovest e gli europei cristiani nel Nord. Con il loro scomparire, intere nazioni cessarono di esistere, le istituzioni e i costumi cambiarono; la loro gloria fu dimenticata e la loro potenza non preoccupò più nessuno 1. Ibn Œaldûn

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1. UTTI RICORDANO IL DISCORSO DI BArack Obama, il 24 luglio scorso, a Berlino, in cui il candidato presidenziale democratico invocava la «caduta dei Muri». È curioso notare che, proprio il giorno prima, il senatore dell’Illinois fosse in visita a Gerusalemme e Råmallåh. Qui la Realpolitik e i muri di cemento e ideologie hanno consigliato dichiarazioni di ben altro tenore. A Sderot, «l’amico americano», dietro le carcasse dei razzi Qassåm piovuti da Gaza, ha ripetuto che «Gerusalemme sarà la capitale di Israele». Abu Mazen si è invece dovuto accontentare di un vago e non impegnativo «i palestinesi hanno diritto a uno Stato in grado di vivere». La realtà è che in Medio Oriente parlare di muri è come parlare di corda in casa dell’impiccato. I blocchi in pietra del Muro del Pianto o i t-wall in cemento della West Bank Barrier israeliana o i reticolati di Gaza altro non sono che monumenti viventi di un Medio Oriente diviso da frontiere territoriali incerte, invalicabili barriere religiose, accesi antagonismi geopolitici e aspri confronti ideologici, oltre che naturalmente da una competizione economica mondiale incentrata sugli idrocarburi. Paradossalmente, ad accomunare tutti i paesi arabi sono problemi come la disoccupazione, l’esponenziale crescita demografica, le paurose disparità sociali, la dipendenza politico-economica dall’export petrolifero, il tutto condito da pervasi1. Dall’introduzione di al- Muqaddimah, «Introduzione alla Storia», di Ibn Œaldûn (1332-1406).

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va corruzione, incerte riforme e conflittualità sul ruolo dell’islam. Inoltre, non c’è Stato mediorientale le cui strutture politiche non siano fragili e, indipendentemente dalla struttura formale delle stesse, il cui potere non sia nelle mani di un’oligarchia autocratica o cleptocratica. L’alternanza politica è una chimera. Il ricambio del potere avviene solo per linee dinastiche o attraverso traumi violenti. Ad aumentare la complessità geopolitica mediorientale sono poi da aggiungere linee di attrito e divisione internazionali quali, solo per citarne alcune, il continuo stato di conflitto israelo-palestinese, le tensioni egemoniche e nucleari iraniane nel Golfo Persico (e le contromosse saudite e americane), la questione siro-libanese con la sua appendice Õizbullåh, oltre che l’instabilità irachena con il corollario curdo. Il tutto, intriso e aggravato dall’estremismo jihadista. In definitiva, ne emerge il quadro di un’area composta da Stati fragili, litigiosi, instabili. Eppure ci fu un tempo storico – un tempo mitico – in cui tutti i pezzi del puzzle mediorientale sembravano combaciare. Storicamente, pur peccando di estrema approssimazione e superficialità, si può dire che l’unità politico-territoriale del mondo arabo musulmano, ossia di quei paesi che oggi intendiamo parte del Medio Oriente, fu raggiunta, o quasi, solo due volte. Nel VII secolo, dai primi quattro califfi 2 successori del Profeta. Successivamente, durante l’apogeo dell’impero ottomano, tra il XVI e il XVII secolo. In realtà, la brevissima epoca dei califfi Råsˇidûn 3, seppur satura di estese conquiste quanto di lotte intestine, ha un valore soprattutto ideale: a tutt’oggi viene infatti considerata come il periodo d’oro dell’umma 4 musulmana, un archetipo da restaurare. In quell’epopea ora rimpianta, mitizzata e idealizzata, alla pretesa unità della comunità dei credenti viene associata l’espansione territoriale, grazie agli imperi sasanide e bizantino, associata all’affermarsi concreto dell’islam nella sua forma più pura. Ma una più duratura e solida unità dei territori e delle popolazioni mediorientali si ebbe con la dominazione ottomana. Per secoli, combinando soft e hard power, sottile diplomazia e sanguinario terrore, la Sublime Porta governò su pressocché tutto il Medio Oriente, con l’esclusione della Persia. Ovviamente non mancarono mai rivolte interne o bruschi arretramenti di frontiere, ma il sultano rimase sempre un punto di riferimento e d’identità per la comunità islamica sunnita 5, e comunque un sovrano per le comunità di altre fedi. L’impero ottomano fu come un prisma multicolore di etnie e religioni, tenuto insieme con armi, azione di governo e religione. La Kalemiye 6 ottomana, nelle amministrazioni locali dei sanjiak o provinciali

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2. Abû Bakr 623-624, ‘Umar bin al-Œa¿¿åb 634-644, ‘Uñmån ibn ‘Affan 644-656 e ‘Alø ibn ‘Abø ¡ålib 656661. 3. «I benguidati»: così sono noti i primi quattro califfi. 4. Per umma si intende la comunità ideale di tutti i credenti musulmani. 5. Il titolo di califfo, legato alla figura del Profeta, era utilizzato saltuariamente e senza pretese di autorità universale; costituiva però il presupposto religioso dell’esercizio del potere. Inoltre, i sultani si fregiavano del titolo di difensore delle frontiere dell’islam nonché di «servo dei due santuari», ovvero dei luoghi santi alla Mecca e a Medina.

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dei vilayet, si pose quale veicolo tra i poteri locali e il potere centrale del sultano. I sudditi si relazionavano col potere centrale per via della propria comunità religiosa, il millet 7, ma anche in base alla categoria di censo o alla corporazione di arti e mestieri cui appartenevano. Ciascun millet aveva forti poteri di autogoverno, con un’estesa autonomia nella gestione dei propri affari sociali, legali e religiosi. Ogni comunità confessionale aveva le proprie scuole, luoghi di culto, ospedali e tribunali, e si autoamministrava tramite le sue leggi confessionali. Per lo Stato ottomano non esistevano i concetti di «nazionalità» o «appartenenza etnica», in quanto era l’identità religiosa a individuare lo status dei sudditi 8. In ogni caso, almeno per le popolazioni musulmane, non dev’essere mai dimenticata la forza coesiva rappresentata dall’islam sunnita, su cui vegliava il sultano, a titolo di califfo dei credenti. Questo pluralismo confessionale, sulla base del quale si fondavano le dinamiche interne all’impero, impedì un’omogeneizzazione cultural-religiosa o un’unità politico-nazionale della popolazione. Al contrario, ogni comunità mantenne le proprie peculiarità economiche, sociali e religiose. In altri termini, da parte degli ottomani, sino alla vigilia del primo conflitto mondiale non vi fu la tendenza a «turchizzare» la popolazione; piuttosto si creò una classe di «ottomani locali», ovvero di funzionari civili e militari che si insediarono definitivamente nelle diverse aree dell’impero, integrandosi con i notabili locali e dando vita alla classe degli effendi, omogenea élite urbana locale, diffusa in quasi tutto l’impero. È quindi da sottolineare come il potere fosse diffuso a livello locale, nelle mani di feudatari, capi tribù, oligarchie urbane o comunità religiose, che costituivano così le pedine base delle dinamiche politiche. Né le guarnigioni né i funzionari sparsi per l’impero riuscivano a imbrigliare le province nelle mani del sultano 9. In gran parte di esse l’azione di governo ottomana consisteva nel cooptare i gruppi di potere locali, manipolandone gli equilibri interni 10. Sebbene modo di governare ed estensione dell’autorità del sultanato variassero in funzione del luogo e del momento storico, da Istanbul vi fu sempre l’obiettivo di allineare gli interessi del governo centrale, dell’amministrazione ottomana provinciale e delle élite locali. Infatti, prestigio dei capi locali, potere degli ‘ulamå’ 11 e ricchezza delle famiglie di commercianti erano garantiti dal riconoscimento del sultano, dalla legittimazione del califfo e dalla sicurezza fornita dall’esercito. Nel contempo, per il governo ottomano la fedeltà dei potentati locali significava introiti fiscali e leva militare. 6. Ceto dei burocrati ottomani, formato in apposite scuole. 7. Sino all’epoca delle riforme ottocentesche, i millet principali erano quelli delle comunità ebraica, armena, greco-ortodossa, siro-ortodossa; allo scoppio della prima guerra mondiale i millet erano 17. Da notare che i musulmani non sunniti, come sciiti, alauiti e yazidi, non ebbero propri millet ma furono considerati come assimilati ai sunniti. 8. All’inizio del XX secolo si stima che la popolazione non musulmana nell’impero ottomano fosse circa il 25% del totale. 9. Allo scoppio della prima guerra mondiale si stima che solo il 5% delle tasse fosse prelevato direttamente dallo Stato; il restante era riscosso tramite notabili locali, in appalto. 10. Ad esempio, in Iraq gli ottomani assegnavano terre agricole agli sceicchi fedeli o realizzavano canalizzazioni idriche per i centri urbani dove il clero sciita era meno ostile; in altre province assegnavano il diritto di riscuotere le tasse alle famiglie dei notabili locali ritenute più vicine al governo. 11. Ceto dei religiosi.

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Dev’essere però evidenziato come l’effettivo potere del governo ottomano variasse notevolmente da provincia a provincia. Al di là delle singole evoluzioni storiche, mentre in alcuni vilayet il sultanato riuscì a esercitare un diretto controllo, diffuso ed effettivo, in altri il potere venne esercitato indirettamente tramite dinastie locali, o fu solamente nominale. Ad esempio, i vilayet siriani di Aleppo, Damasco e Tripoli, importanti per il commercio e il flusso dei pellegrini, o le coste della Palestina furono amministrati direttamente e con continuità da Istanbul 12. Invece l’Egitto ebbe sempre la tendenza a emanciparsi dal potere ottomano, in quanto troppo ricco e avanzato per non essere di volta in volta preda di dinastie militari come i mamelucchi, governatori come Muõammad ‘Alø 13, o potenze straniere come gli inglesi 14. Di fatto, nelle province più lontane come l’Iraq, meno ricche come lo Õiãåz, o più riottose come il Maghreb, il sultanato attuò, per scelta o necessità, la politica dell’indirect rule: a dinastie e potentati locali veniva riconosciuto l’esercizio di un potere di fatto autonomo, chiedendo però in cambio l’accettazione formale dell’autorità centrale, il pagamento di tasse e, talvolta, la fornitura di truppe. Parimenti, uno status particolare di autonomia venne spesso riconosciuta a sceicchi capi delle tribù nomadi più importanti, magari chiedendo loro di garantire sicurezza di commerci e movimenti sulle strade dell’impero. Così in Iraq, terra di confine col nemico persiano, lo Stato ottomano aveva il controllo solo dei principali centri urbani – Baghdad, Mosul e Bassora. Nel resto del paese il potere era nelle mani di sceicchi tribali arabi e curdi, nonché delle comunità religiose sciite di Naãaf e Karbalå’. Nello Õiãåz, gli unici segni del potere ottomano erano un governatore nella città costiera di Gedda e il pellegrinaggio annuale nei luoghi santi guidato da un funzionario turco. Peraltro, La Mecca e Medina erano amministrate in maniera semiautonoma dagli sceicchi locali, discendenti dal Profeta. Lo Yemen, di fatto, rimase sempre autonomo. In definitiva, l’equilibrio tra governo centrale e poteri locali fu sempre precario, e la tendenza a spinte centrifughe molto accentuata. In particolare, a partire dalla fine del Cinquecento tutte le basi dell’organizzazione statale andarono progressivamente in crisi. I giannizzeri, da militari si trasformano in una casta rapace e feudale, spesso riottosa al sultano. I poteri locali progressivamente si aggregarono intorno a interessi politici ed economici, mirando all’emancipazione. In tal modo nacquero Stati nello Stato, ed emirati di fatto indipendenti. Questa crisi sociale, economica e politica si accentuò irrimediabilmente col confronto militare ed economico con le altre potenze europee, nonostante gli sforzi di modernizzazione delle tanzimat 15.

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12. Naturalmente vi furono numerose ribellioni locali, come quella nello Sˇuf libanese di Faœr al-Døn (morto nel 1635), che fu esule nel Granducato di Toscana. Inoltre, in Palestina e a Damasco vi furono comunque famiglie che riuscirono a instaurarsi come dinastie di governatori locali. 13. Nella prima metà dell’Ottocento fu inizialmente governatore ottomano dell’Egitto, ma in seguito cercò di emancipare il paese dal potere del sultano turco arrivando a invadere la Siria; il suo progetto venne ridimensionato dall’intervento inglese. 14. L’Egitto divenne protettorato inglese nel 1882. 15. Insieme di leggi attuate intorno alla metà dell’Ottocento e dirette a riformare l’amministrazione statale, i commerci, l’istruzione e gli affari religiosi.

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Nel XIX secolo l’impero ottomano diventa il «grande malato» d’Europa, ormai territorialmente mutilato dalle insurrezioni autonomiste balcaniche e greca, dall’occupazione francese dell’Algeria e da quella britannica di Egitto, Cipro e Aden. Le conseguenze di questa crisi si fanno sentire anche sul piano interno: il movimento laico e nazionalista dei Giovani Turchi, nel 1908, prende il potere, con lo scopo di riformare il paese. Ma nel 1913 un colpo di Stato instaura un triumvirato 16 di nazionalisti oltranzisti riuniti nel Comitato per l’unione e il progresso, che esautora parlamento e sultano trasformando il paese in una dittatura militare. Intanto, con le guerre balcaniche del 1912 e 1913, gli ottomani avevano definitivamente perso i popolosi possedimenti europei, annessi da Bulgaria, Grecia, Serbia e Montenegro, salvo una ridotta porzione costiera in Tracia. Di fatto, alla vigilia della prima guerra mondiale, la Sublime Porta era ridotta a protettorato europeo e a scacchiera del grande gioco delle potenze occidentali. Ma fu solo alla fine del conflitto che l’agonia del «grande malato» terminò. 2. Dopo un interminabile balletto diplomatico, con ogni genere di sgambetti e colpi bassi, tra le potenze dell’Intesa e quelle della Triplice Alleanza, nel 1914 la Turchia entrò in guerra a fianco di Vienna e Berlino. A dire il vero, agli ottomani non interessava una guerra contro Francia e Inghilterra, potenze che in passato l’avevano difesa. Senonché il miraggio di riconquistare i Balcani e pareggiare i conti con l’acerrima nemica Russia la spinse a unirsi ad Austria-Ungheria e Germania. Così, il 29 ottobre 1914 navi turche e tedesche bombardavano i porti russi nel Mar Nero. Meno di un mese dopo, la Mesopotamia Expeditionary Force inglese sbarcava a Bassora. Gli obiettivi strategici inglesi erano proteggere il Canale di Suez, cordone ombelicale con l’India, rafforzare la propria posizione in Persia e mettere un’ipoteca su eventuali espansioni territoriali in Medio Oriente a discapito degli ottomani. Con lo sbarco a Bassora si apre così un terzo fronte, oltre a quelli occidentale e orientale in Europa. Ma l’anno dopo, visti gli insuccessi nelle paludi mesopotamiche, gli alleati cercano il colpo gobbo sbarcando sulla soglia di casa ottomana, a Gallipoli, sui Dardanelli. Kemal Pasha, il futuro Atatürk, infligge loro un’umiliante sconfitta e Churchill, fautore dell’iniziativa, ci rimette provvisoriamente la carriera. Anche l’anno seguente, il 1916, gli inglesi subiscono una cocente sconfitta ad alKût, vicino a Baghdad, dove perdono quasi 20 mila uomini. Dopo i disastri di Gallipoli e al-Kût, solo sul Sinai egiziano la guerra resta in stallo. Non certo una bella prospettiva per gli anglofrancesi, nel frattempo dissanguati e impantanati nelle Fiandre. Ma è proprio nel 1916 che, come in una commedia di Shakespeare, comincia la vicenda di una guerra in cui un ambizioso re sogna un impero ma conquista un regno per perderlo quasi subito; e dei suoi due figli, di cui uno prende un trono 16. Enver Påsˇå, ministro della Guerra, ¡ala‘at Påsˇå, ministro dell’Interno, e Ãamål Påsˇå, ministro della Marina.

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per poi vederselo scambiare con quello promesso al fratello, mentre quest’ultimo si accontenterà di un regno dimezzato ma sarà l’unico a tramandarlo ai figli; e poi c’è anche un loro amico, che fa una promessa che poi non potrà mantenere; e due diplomatici che spartiscono le spoglie dei vinti, tra due imperi, quando ormai l’età degli imperi era finita. I primi abboccamenti tra gli inglesi e lo sceriffo hashemita Õusayn 17 sono del 1914. Ma è solo nell’estate 1916 che viene dato il via libera alla Grande Rivolta Araba. Dopo un inizio ben poco promettente 18, fu con Lawrence D’Arabia, e molti soldi 19, che divenne militarmente tangibile. Õusayn non era l’unico dei capi tribù dell’area sul quale gli inglesi avrebbero potuto puntare, ma era quello che sembrava avere maggiori chanche di successo. Infatti, quale discendente del Profeta, aveva l’appeal islamico, mentre quale nobile arabo era una leva per il nazionalismo laico arabo. Dal canto suo, Õusayn inizialmente era intenzionato solo ad avere maggiore autonomia dagli ottomani. Ma nel favorevole evolversi della situazione cominciò ben presto a mirare a un’indefinita «indipendenza araba». Colui che in pectore sperava di diventare «il re di tutti gli arabi», pensava così a un immenso regno esteso dalle coste dello Yemen alla Cilicia turca, dai confini del Sinai fino a quelli persiani. In realtà, la causa araba aveva ben pochi sostenitori, cominciando proprio dagli arabi stessi 20. I movimenti nazionalisti arabi 21, concentrati a Damasco, si rivelarono inconsistenti. E così, Hussein, invece di diventare il campione di un inesistente nazionalismo arabo, divenne un re a caccia di un regno. In fondo, più che a un sogno nazionale arabo, lo sceriffo pensava a un suo personale sogno imperiale. Con buona pace di Lawrence d’Arabia, la rivolta ebbe successo militarmente per il solo fatto di essere inserita in un quadro strategico di riscossa alleata contro i turchi, e geopoliticamente perché serviva agli inglesi per legittimare il proprio alleato arabo. Infatti gli inglesi, sconfitti i turchi in Palestina e Iraq, per ragioni geopolitiche lasciarono che i primi a entrare a Damasco fossero gli arabi di Fayâal, figlio di Õusayn, sebbene la città fosse stata conquistata dagli australiani. Ma se Õusayn vedeva le terre arabe dell’impero ottomano come il suo futuro regno, le potenze occidentali le consideravano colonie da spartirsi in modo bipartisan. Gli autori di questo accordo furono il console francese a Beirut, François-Georges Picot, fautore della politica coloniale, e il pragmatico colonnello britannico Sir Mark Sykes. Durante le trattative tra Parigi e Londra furono disegnati diversi scenari, compresa l’inclusione del vilayet di Mosul nella sfera d’influenza francese e l’inclusione

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17. Õusayn Ibn ‘Alø, degli hashemiti, nel 1908 era stato nominato protettore dei luoghi santi proprio dal sultano. 18. La città santa di Medina resistette agli anglo-hashemiti sino alla fine della guerra. 19. Oltre a un consistente appoggio militare diretto, gli inglesi spesero 11 milioni di sterline in favore della rivolta hashemita. 20. Gli sceicchi filobritannici del Kuwait e quelli della penisola araba, tra cui Ibn Sa‘ûd, a un appoggio formale non fecero seguire alcun appoggio concreto né mai intesero associarsi all’impresa di Õusayn. 21. Al-‘Ahd, al-Fatåt e al-Fårûqø erano le principali, anche se di fatto si trattava di società segrete composte soprattutto da militari. In realtà, nelle province arabe più che l’indipendenza si voleva maggiore autonomia.

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del Libano nel «regno arabo». Ma se la ferma pretesa di Picot su Libano e Siria venne accettata facilmente, le due potenze europee si scornarono circa il futuro della Palestina. Alla fine, fu raggiunto l’accordo salomonico di dividerla in tre, ponendo una parte della regione sotto amministrazione internazionale, mentre una parte sarebbe stata assegnata ai francesi e una terza parte sarebbe stata inclusa nel «regno arabo», o in una più vaga «confederazione di Stati arabi». La nuova entità araba sarebbe stata indipendente solo formalmente. Infatti, alla suddivisione geografica dei confini dei nuovi Stati nascenti dallo smembramento ottomano, si sovrapponeva una più effettiva ma invisibile lottizzazione geopolitica concordata tra Londra e Parigi. Essa sanciva le rispettive zone d’influenza, diretta o indiretta 22, sull’entità araba indipendente, Stato unico o confederazione che fosse. Inoltre, tutti i restanti territori geograficamente non ricompresi nei confini dell’entità araba indipendente sarebbero stati divisi in una Zona Blu di diretto controllo francese, comprendente l’area compresa tra la Cilicia a nord-ovest, la frontiera persiana a est e la Palestina quasi sino ad Acri a sud, includendo la fascia costiera sirolibanese e la Galilea del Nord. Agli inglesi sarebbe invece andata la Zona Rossa, che comprendeva il vilayet di Baghdad e l’odierno Sud Iraq 23, oltre che il Kuwait e i porti di Acri e Haifa in Palestina. In base all’accordo, anche lo zar russo avrebbe avuto la sua parte di impero ottomano, tra il Mar Nero e il vilayet di Mosul, comprendendo Erzurum, Van e Trebisonda. La questione degli insediamenti ebraici in Palestina venne però completamente ignorata. Di fatto l’accordo Sykes-Picot rendeva l’indipendenza araba un problema virtuale. Non a caso, lo sceriffo Õusayn venne a sapere dell’accordo solo 18 mesi dopo la sua stipula definitiva, nell’aprile del 1916. E se gli anglo-russi-francesi leggevano la mappa appena tracciata sulle linee delle rispettive zone di influenza, Õusayn, di fronte alla medesima mappa, seguiva invece il tratteggio dei confini nazionali, scorgendovi l’abbozzo del suo regno. Ciò era conseguenza del fatto che Londra, vero deus ex machina dell’accordo, cercò di bilanciare le rigide pretese francesi e le proprie esigenze neocoloniali con i sogni di potenza hashemiti, lasciando però forti ambiguità di fondo. Certo, per quanto con sovranità menomata, era prevista la nascita di una grande nazione araba formalmente indipendente 24, comprendente le città di Damasco e Aleppo, strenuamente volute dai francesi, oltre che gran parte del sangiaccato di Gerusalemme. Ma il castello di carte Sykes-Picot fu subito sottoposto a vari scossoni geopolitici. Nel novembre 1917, i bolscevichi russi, in nome della lotta all’ancien régime colonialista, resero pubblici i termini dell’accordo. Inoltre, anche i figli di Õusayn si misero di mezzo; Fayâal, effettivo leader militare della rivolta, e ‘Abdallåh, suo 22. Con tale termine si intendeva il diritto esclusivo di sviluppo commerciale e finanziario, nonché quello di fornire consiglieri militari e di governo, se richiesto dallo Stato arabo. 23. Con il controllo di Bassora e del Kuwait erano così garantiti gli interessi inglesi in India. 24. In ogni caso, parte della penisola araba era comunque esclusa dal regno arabo, in quanto destinata a Ibn Sa‘ûd, già alleato con gli inglesi.

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fratello maggiore, volevano un regno, ma uno a testa. In particolare, il primo mai nascose le sue mire per la Siria. Poi, a scombussolare le carte intervenne anche, sempre nel novembre 1917, la celebre Dichiarazione Balfour: il governo inglese, dietro pressione del movimento sionista, si pronunciava per la costituzione in Palestina della «national home» del popolo ebraico. A guerra finita, con il trattato di Sèvres nel 1920 e il successivo mandato britannico sulla Palestina, questo formale impegno inglese si trasformò in uno spinoso obbligo 25, di cui Londra si sbarazzò solo nel 1948 e senza aver levato le castagne dal fuoco che ormai divampava. I termini del trattato di Sèvres confermavano la lottizzazione anglo-francese di Siria, Libano, Iraq, Palestina e Giordania, prevedevano la nascita del regno arabo dello Õiãåz, l’indipendenza dell’Armenia e la spartizione tra i vincitori di gran parte dei territori ottomani, Anatolia inclusa 26. In particolare, la Grecia avrebbe avuto il riconoscimento della sua amministrazione sull’enclave di Smirne, di fatto già militarmente occupata. Inoltre, era previsto un referendum che decidesse il futuro del Kurdistan, sebbene inteso solo come comprendente le aree curde dell’odierna Turchia. Il trattato rimase sulla carta. Non venne mai ratificato né dagli ottomani né dai greci, mentre gli americani rifiutarono il mandato sull’Armenia. Inoltre, la violentissima reazione turca, guidata ancora una volta da Kemal Atatürk, portò allo scoppio della cosiddetta guerra d’indipendenza turca: il movimento nazionalista turco esautorò il sultano 27 e si oppose con le armi agli alleati, confrontandosi coi greci in Anatolia e minacciando gli inglesi a Mosul. Intanto, in Siria, Iraq, Egitto vi furono sollevazioni popolari contro inglesi e francesi. Così, tre anni dopo, nel 1923 a Losanna, venne firmato un nuovo trattato di pace 28 che, in particolare, definì il contenzioso tra Grecia e Turchia, tracciando i confini tra i due Stati e regolando l’esodo delle rispettive minoranze 29. Quel trattato sancì poi, per la Turchia, la definitiva perdita delle province arabe ottomane, così separando i destini geopolitici di arabi e turchi. Sicché gli accordi Sykes-Picot furono radicalmente modificati «in corso d’opera» da vari trattati, tra cui quello di Losanna, che rispondevano ai mutati rapporti di forza sul terreno. 3. Tra il 1920 e il 1923, dunque, l’intero quadro geopolitico mediorientale venne ridefinito da un insieme concorrente di diversi eventi e accordi. Vi fu anche la definizione della frontiera russa sul Medio Oriente. I confini territoriali furono delineati nella costituzione dell’Urss (1922), mentre i confini di influenza politica si de-

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25. L’articolo 95 del trattato chiedeva infatti agli inglesi di porre concretamente in atto il contenuto della dichiarazione Balfour. Rimaneva comunque il problema della non chiara definizione dei confini del nuovo Stato ebraico. 26. All’Italia veniva assegnata la zona costiera di Antalia e Konia. 27. Il califfato venne abolito nel 1924, con voto del parlamento turco. 28. La Turchia fu l’unico paese sconfitto nella prima guerra mondiale che ottenne la revisione del trattato di pace. 29. La sorte del vilayet di Mosul fu invece demandata a una decisione della neonata Società delle Nazioni.

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finirono nei trattati bilaterali stretti dai sovietici con Turchia, Iran e Afghanistan. Con la Russia sovietica fuori dalla mischia, per quanto riguarda le province arabe ex ottomane, Inghilterra e Francia fecero così la parte del leone e del demiurgo instaurando e deponendo re, tracciando i confini dei rispettivi regni e naturalmente imponendo il proprio controllo indiretto tramite protettorati o amministrando direttamente i nuovi Stati. Il tutto, ufficializzato tramite mandati della Società delle Nazioni e accordi bilaterali coi nuovi governi. Infatti, con le conferenze di Sanremo e Londra furono poste le basi di diversi mandati internazionali, tramite i quali la Francia si aggiudicò integralmente Siria e Libano 30, mentre Londra ottenne l’intera Palestina, Transgiordania inclusa; nel 1922, stipulando un trattato bilaterale con Baghdad, Londra ottenne anche il protettorato della Mesopotamia, compreso il vilayet curdo di Mosul. E il grande Stato arabo? Scomparve, insieme all’idea di uno Stato curdo. Il sogno di Õusayn fu ridotto allo Õiãåz, ben presto perso per mano di Ibn Sa‘ûd, che conquistò e unificò gran parte della penisola arabica. Quest’ultimo, se non ci fossero stati gli inglesi, si sarebbe preso anche Kuwait, Giordania e Oman. Ma Londra, sempre nel 1922, gli impose gli attuali confini dell’Arabia Saudita con Iraq e Kuwait e nel 1927 lo riconobbe come regno indipendente. La scomparsa del progettato grande regno arabo fu quindi dovuta all’emergere della dinastia saudita, ai precedenti accordi inglesi con lo sceicco al-Idrøsø del Kuwait, ma soprattutto al fatto che MacMahon 31 intese gli accordi con Õusayn come non inclusivi di Palestina e Iraq, oltre che di parte della Siria 32 in quanto non «puramente araba». Il tutto era ben lungi da quello che sembra sia stato il progetto o la promessa di Lawrence, che intendeva invece instaurare Õusayn come re d’Arabia (l’odierna saudita), i figli ‘Abdallåh e Zayd rispettivamente re di Bassa e Alta Mesopotamia, mentre a Fayâal sarebbe spettata la Siria. Il nuovo assetto delineato dagli anglofrancesi fu sin dall’inizio privo di un duraturo ed effettivo equilibrio, presentando problemi insormontabili. Innanzitutto era mutato radicalmente il quadro internazionale, con la nascita dell’Urss e l’ascesa politica degli Stati Uniti. Le due future superpotenze volevano cambiare le regole della politica internazionale: non si poteva più giocare con quelle del colonialismo. E fu il presidente americano Wilson a dettare le nuove regole, enunciandole nei 14 punti illustrati al Congresso nel gennaio del 1918. Tra questi c’erano alcuni princìpi alquanto irrealistici, come la fine degli accordi diplomatici sottobanco, o altri che sancivano la fine del monopolio politico delle poten30. La Francia separò il Libano dalla Siria in modo da garantire uno Stato controllato dai cristiani maroniti, loro tradizionali protégés dall’Ottocento. 31. Alto commissario britannico al Cairo che nel corso di una corrispondenza con Õusayn, diversamente da quanto effettivamente o maliziosamente inteso tra questi e Lawrence d’Arabia, seppur con reciproca poca chiarezza aveva prospettato allo sceriffo meccano uno Stato arabo dai confini più ridotti. 32. Segnatamente i distretti di Mersin e Alessandretta, oltre che a Palestina e parti della Siria a est di Damasco, Õamåh e Õimâ. È da sottolineare che il testo originale della lettera di MacMahon era estrememante ambiguo e passibile di contraddittorie interpretazioni.

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ze colonialiste 33. Ma, soprattutto, vi era un espresso richiamo alla situazione mediorentale 34. Qui i nuovi assetti avrebbero dovuto essere realizzati non più in forza delle ambizioni imperialistiche anglofrancesi, ma in base al principio di autodeterminazione dei popoli. Era l’inizio della fine del colonialismo. All’atto pratico, i princìpi wilsoniani sulla carta erano meno anticoloniali degli accordi Sykes-Picot. Infatti, mentre questi ultimi avevano previsto la nascita di un’entità araba indipendente, la politica americana vagheggiava un non meglio definito «diritto allo sviluppo autonomo», che non significava univocamente indipendenza e autonomia politica. Ma mentre Wilson intendeva il sistema dei mandati della Società delle Nazioni come un mezzo per sottrarre il Medio Oriente agli appetiti coloniali europei, il primo ministro inglese Lloyd George li considerava il mezzo per svincolarsi dagli accordi Sykes-Picot e per affermare l’influenza inglese nell’area. Il secondo ordine di problemi che rese ancor più traballante l’assetto mediorientale anglofrancese fu di natura interna. Infatti, gli elettori inglesi vedevano le nuove conquiste in Medio Oriente come un buco nero vorace di soldi e truppe. L’opinione pubblica preferiva che le risorse disponibili venissero impiegate per migliorare la situazione in patria, stremata dalla guerra appena terminata, piuttosto che investirle nell’azzardo di una ulteriore espansione coloniale 35. Perciò, i politici inglesi, nelle loro decisioni, furono sempre condizionati dall’esigenza pressante di cercare soluzioni che comportassero la riduzione dei costi e il ritiro delle truppe impiegate. Un terzo ordine di problemi riguardava la necessità di strutturare le nuove nazioni arabe, quasi fossero scatole vuote, sia dando loro un’«anima» politica attraverso la nomina di un re, sia dotandole di un’amministrazione statale. A prendere l’iniziativa per cambiare l’assetto deciso dalla diplomazia anglofrancese furono proprio gli hashemiti. Infatti, se Õusayn aveva accettato, suo malgrado, che gli alleati gli cambiassero all’ultimo minuto le carte in tavola dandogli un regno risicato invece di un grande impero, Fayâal cercò di mandare all’aria il tavolo e la partita. Innanzi alla Società delle Nazioni aveva infatti già da tempo iniziato a caldeggiare la causa di una pretesa indipendenza e unità siriana. In realtà, cercava di ritagliarsi i contorni del suo regno, a discapito del progetto di un unico grande regno arabo. La Siria però, autentico mosaico di razze, religioni e poteri locali, aveva avuto una sua cornice solo all’interno dell’impero ottomano 36. Inoltre, la sua spinta nazionalista e indipendentista era assolutamente irrilevante e anzi un

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33. Punto 1: la rinuncia alla diplomazia «segreta»; punto 14 la nascita della Società delle Nazioni, antesignana dell’Onu. 34. Il punto 12 prevedeva che «alle regioni turche dell’attuale impero ottomano dovrà essere garantita una sovranità non contestata, ma alle altre nazionalità, che ora sono sotto il dominio turco, dovrà essere garantita un’assoluta sicurezza d’esistenza e la piena possibilità di uno sviluppo autonomo e senza ostacoli. I Dardanelli dovranno rimanere aperti al libero passaggio delle navi mercantili di tutte le nazioni sotto la protezione di garanzie internazionali». 35. Alla fine della prima guerra mondiale, l’Inghilterra sosteneva il peso economico e politico di 1 milione e 840 mila militari nazionali ed indigeni di stanza in Medio Oriente. 36. Damasco ed Aleppo erano state amministrate separatamente dall’impero ottomano.

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re proveniente dalla penisola araba era un’ipotesi malvista dalla popolazione, soprattutto da quella non musulmana. Ma Fayâal cercò di forzare la mano, profittando anche della rivalità anglo-francese 37. Nel marzo del 1920 un fantomatico Congresso siriano, ovvero un organo autocostituitosi e privo di ogni effettiva presa sulla popolazione, proclamò l’indipendenza siriana. La corona del regno, che tra l’altro comprendeva Palestina e Libano, venne offerta a Fayâal, il quale graziosamente accettò. Poco dopo, un fantomatico Congresso generale iracheno proclamava la completa indipendenza dell’Iraq e offriva la corona ad ‘Abdallåh, fratello di Fayâal. Ovviamente, queste iniziative facevano a pugni con gli accordi di spartizione anglo-francesi. La parola passò alle armi. A Maysalûn i sostenitori di Fayâal vennero sconfitti e il paese fu preso dai francesi. Nel frattempo, in Iraq scoppiava una violentissima rivolta, la al-Ñawra al-‘Iraqiyya al-Kubrå (Grande Rivolta Irachena) che vide clero sciita, nazionalisti laici e tribù uniti contro gli inglesi. Rapidamente questi ultimi si trovarono tanto in crisi da pensare di abbandonare tutto il paese nelle mani degli insorti e ritirarsi a Bassora. Chi cercò di evitare il disastro – bilanciando sogni imperiali ed economia dissestata, promesse ad arabi ed ebrei, re senza corona e pretese americane – fu Winston Churchill, ministro delle Colonie. Il quale celebrò al Cairo, nel 1921, le nozze coi fichi secchi. Nella capitale egiziana Churchill radunò quelli che lui stesso defini «i miei 40 ladroni» 38, ovvero tutti coloro che nell’amministrazione britannica erano stati, sino ad allora, coinvolti nelle decisioni sul Medio Oriente. Il celebre statista inglese dovette innanzitutto forzare la mano proprio al primo ministro Lloyd George, fortemente filoellenico e antiturco; il fatto era che l’appoggio britannico alla Grande Grecia sognata dal leader di Atene Venizelos comportava l’impegno di truppe inglesi in Turchia ed esponeva Mosul agli attacchi degli ex ottomani. In ogni caso, la sconfitta militare dei greci e il disimpegno antiturco degli altri alleati permisero questa inversione politica britannica. La soluzione di Churchill fu quella di un regime arabo che fosse vincolato alla politica inglese, ma che costasse il meno possibile. Così, per salvare la capra dell’impero britannico e i cavoli finanziari, letteralmente riciclò la carta hashemita. Fayâal e ‘Abdallåh, per quanto giudicati dagli alleati l’uno infido e l’altro inetto, rappresentavano comunque le migliori carte nelle mani di inglesi e francesi. Sebbene la Francia si opponesse, Fayâal incarnava il modo più indolore per uscire dalla voragine finanziaria e dall’azzardo politico che si erano aperti con la rivolta irachena del 1920. Legato a circoli nazionalisti iracheni sin dalla rivolta araba, dopo la sconfitta siriana aveva indirizzato le sue mire alla Mesopotamia. ‘Abdallåh, invece, era la soluzione per controllare la Transgiordania, dove peraltro era già insediato. Più pragmatico e meno ambizioso del fratello, avrebbe accettato la corona anche se privata del gioiello di parte della Palestina, mantenuta sotto diretta amministrazione in37. Il paese era occupato militarmente dagli inglesi, ma destinato ai francesi. 38. Oltre a Gertrude Bell e Lawrence, il gruppo era composto sopratutto da funzionari inglesi filo-hashemiti.

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glese; peraltro, proprio la Palestina, che il mandato della Società delle Nazioni aveva ufficialmente reso la terra promessa di un focolare ebraico, si stava già trasformando in un acceso focolaio di tensioni arabo-ebraiche. La decisione di Churchill rappresentava la scelta più pratica ed economica. L’Inghilterra avrebbe avuto un «impero a costo zero», o comunque un impero light, riducendo i rischi politici e di guerra. Inoltre, avrebbe adempiuto, anche solo formalmente, agli impegni richiesti dal mandato della Società delle Nazioni. Fu quindi così che, quali pedine della politica anglo-francese, i due ambiziosi figli dello sceriffo meccano ebbero un regno ciascuno. Fayâal fu incoronato re nell’agosto del 1921, appena cinque mesi dopo la conferenza del Cairo 39. Le due neonate monarchie, data la loro debolezza intrinseca, per sopravvivere avrebbero avuto bisogno di armi 40, soldi e tutela politica inglese 41, rendendole di fatto Stati «clienti», anche dopo la fine dei mandati. In ambedue gli Stati venne rapidamente formata un’amministrazione locale sul modello indiano, anche se i veri centri di potere erano re e governo. Certo, Fayâal puntò subito i piedi, rifiutando le ingerenze inglesi, oltre che le restrizioni sulla sovranità irachena implicite nel mandato della Società delle Nazioni; inoltre, si appoggiò ai movimenti nazionalisti iracheni, nel tentativo di legittimarsi agli occhi della popolazione come indipendente da chi lo aveva, di fatto, instaurato. Ebbe quindi inizio un braccio di ferro tra la monarchia e gli inglesi, che nel 1924 riuscirono a imporre una costituzione modellata secondo gli interessi di Londra, oltre che a sostituire il mandato con un trattato di alleanza anglo-iracheno, che di fatto rese il paese un protettorato britannico. Nel 1932 l’Iraq ottenne l’indipendenza e fu il primo, tra i paesi sottoposti a mandato, a entrare nella Società delle Nazioni. Anche in questo caso si trattava di un’indipendenza formale. Infatti il petrolio e la posizione strategica dell’Iraq erano indispensabili per Londra che, nel 1930, aveva imposto un nuovo trattato bilaterale il quale prevedeva privilegi economici inglesi e la concessione di basi militari. Ma dalla fragile quadratura del cerchio realizzata da Churchill rimasero fuori un paio di cadaveri eccellenti, che avveleneranno sin dall’inizio il quadro geopolitico dell’intero Medio Oriente: la questione israelo-palestinese e quella curda. 4. È interessante notare come, paradossalmente, i confini artificiali imposti con gli accordi e le conferenze del primo dopoguerra corrispondano agli attuali confini nazionali. Infatti, nella fase di decolonizzazione o di indipendenza seguita alla seconda guerra mondiale cambiarono i regimi ma non i confini degli Stati mediorientali. Sola eccezione, i territori persi dagli arabi nelle guerre contro Israele. Del resto, in novant’anni, gli unici tentativi significativi di abbattere le frontiere nazio-

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39. Invece ‘Abdallåh inizialmente fu nominato emiro della Transgiordania; il paese ottenne l’indipendenza gradualmente, che fu proclamata solo nel 1946. 40. Churchill, lungimirante, propose fin da subito di affidare il controllo militare dell’Iraq sopratutto alla Royal Air Force. 41. Il soft power inglese fu inizialmente esercitato tramite «advisors», teoricamente solo con potere consultivo, in realtà longa manus di Londra.

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nali furono l’effimera Repubblica Araba Unita, che dal 1958 al 1961 legò Egitto e Siria, o i controversi legami di fratellanza tra i governi baatisti di Siria e Iraq. In conclusione, il quadro che in Medio Oriente emerge a pochi anni dalla fine della prima guerra mondiale è quello di un instabile equilibrio di Stati di modello vestfaliano, i cui confini geografici corrispondono alle geometrie degli interessi anglofrancesi. A labile guida di questi Stati non-nazionali, che non hanno una storia vissuta e condivisa nella loro forma attuale, vi sono monarchie senza radici 42. Non c’è quindi da stupirsi se l’evoluzione storico-geopolitica degli Stati arabi sia sin dall’inizio influenzata dalla loro costante avversione alla concezione statuale occidentale, basata sulla sintesi dei concetti di popolo e governo. Oggi non vi è Stato mediorientale la cui popolazione non sia divisa da linee etniche, religiose o tribali. Il solo Libano, grande poco più delle Marche, riconosce ufficialmente 18 diverse comunità religiose. In altri termini, il concetto di «popolo» in tutti i paesi mediorientali trova difficilmente una condivisa e concreta realizzazione. Inoltre, anche la concezione occidentale dello Stato sovrano guidato da un governo, qui è da riconsiderare. In Medio Oriente il potere statuale è spessissimo monopolizzato da minoranze claniche, come i tikriti di Saddam, o confessionali, come gli alauiti in Siria, o ancora tribali, come in Arabia Saudita, senza considerare gli interessi del «popolo». In altri termini, il concetto di Stato nazionale non è familiare in Medio Oriente, mentre è ben conosciuta e diffusa l’idea e la prassi dello Stato come «roba di famiglia». Di conseguenza, le costanti della storia politica mediorientale contemporanea sono l’uso della forza da parte dello Stato – inteso come élite al potere – per controllare la società, e della violenza contro ogni tipo di opposizione; l’uso delle risorse economiche e politiche per tessere una rete di dipendenza clientelare, al fine di indirizzare il consenso e controllare settori della società; l’uso dei proventi petroliferi per garantire all’élite un potere indipendente dalla società stessa; infine, lo sfruttamento delle divisioni etniche, claniche e religiose per rafforzare il potere delle élite. In tal modo, quest’ultimo si articola su strutture informali, socialmente pervasive, e non viene condiviso con parlamenti e aule giudiziarie. Non ci sono logiche istituzionali, ma dinamiche di scambio di lealtà per protezione. La realtà di fondo è che il trauma del passaggio dalla dimensione locale – tribale o confessionale che fosse – a quella «nazionale» e, contemporaneamente, il mutamento dell’orizzonte politico dalla prospettiva imperiale ottomana a quella del singolo Stato, a tutt’oggi non è stato assorbito. In molti paesi siamo ancora di fronte a comunità nazionali immaginate, rimanendo l’identità etnica, religiosa o tribale la vera cornice di riconoscimento e riferimento del singolo. È quindi evidente che un sistema vestfaliano di Stati laici, fondati sul concetto di cittadinanza nazionale, non risponde alle caratteristiche socio-geopolitiche del Medio Oriente. Ma neppure le soluzioni alternative elaborate all’interno del 42. Le monarchie dei grandi paesi mediorientali, tranne quella giordana, ebbero vita breve e tormentata, a partire dall’iracheno Fayâal II rovesciato nel 1958, l’egiziano Fårûq I esautorato nel 1952 e il libico Idrøs I deposto nel 1969. Tutte furono sostituite da regimi militari.

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mondo arabo e musulmano sono riuscite a superare le barriere tra gli Stati, né a risolvere i problemi politici al loro interno. Queste soluzioni «autoctone» concettualmente si allineano in una tensione ideale verso due estremi: il panarabismo e il panislamismo. Si tratta di due ideologie fondamentalmente opposte, che hanno in comune solo il preteso valore universale. Infatti, il panarabismo ha carattere laico, socialista e nazionalista, dove per nazione si intende l’insieme di tutti i popoli arabi, a prescindere dalla loro religione. Nato con il sogno del grande regno arabo di Õussein, si è sviluppato con il partito Ba‘ñ siriano e iracheno, per poi raggiungere zenith e nadir seguendo la parabola politica del leader egiziano Nasser. Il panislamismo invece prescinde dall’etnicità e mira a unire tutti i musulmani dell’umma all’interno di un unica nazione retta dall’islam, come una sorta di nuovo califfato. La dottrina panislamista, o meglio dell’islam militante, fu variamente declinata dal pensiero politico di al-Afôånø, Sayyd Qu¿b, Muõammad ‘Abduh, ‘Alå’ al-Mawdûdø o, per gli sciiti, dall’ayatollah Khomeini e da Ali Shariati. Anche il fondamentalismo dei più noti jihadisti contemporanei, Osama bin Laden e Ayman al-Z.awåhirø, si inserisce in questo filone politico. Non a caso, lo stesso bin Laden ha indicato nella caduta dell’impero ottomano, e del suo califfato, la prima grande disgrazia per la umma musulmana, poi seguita dall’imposizione di usi e politiche occidentali nelle terre dominate, oltre che – naturalmente – dalla nascita di Israele. È evidente come l’idea di un’unica nazione islamica o araba e la realtà concreta dei singoli Stati mediorientali siano assolutamente antitetiche. Inoltre il nazionalismo, fiorito nel secondo dopoguerra ed efficace nel combattere il colonialismo occidentale, non è mai riuscito a cementare efficacemente l’identità del singolo Stato. La spinta rinnovatrice delle ideologie nazionaliste è entrata in crisi con la sconfitta araba nella guerra del 1967 e con l’insuccesso dei movimenti armati laici palestinesi. Lentamente è quindi riemerso l’islamismo radicale, il cui appeal popolare è ben più vivace del trito nazionalismo vetero-anticolonialista o socialisteggiante, percepito come legato a regimi inetti e corrotti. E così, dall’antimperialismo di Fatõ, si è arrivati all’antioccidentalismo di Õamås. Di fatto, al giorno d’oggi, in Medio Oriente le principali spinte di rottura degli equilibri internazionali nonché di riassetto politico statale sono quindi i movimenti jihadisti e le ideologie fondamentaliste come quella salafita. Queste, e la democrazia d’esportazione della dottrina Bush, sembrerebbero le uniche alternative geopolitiche, percorribili o meno che siano, alla situazione attuale.

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5. I termini del problema, o meglio la prospettiva da cui affrontarlo, devono essere cambiati. Innanzitutto i confini tra sacro e profano, politica e religione, nella realtà sono decisamente sfumati: la politica è confessionalizzata – si veda il caso del Libano – e la religione politicizzata – si pensi all’Iran. Anche i confini tra etnicità, religione e nazionalità sono molto labili e spesso si compenetrano. In Iraq, i jihadisti qaidisti stanno perdendo terreno e consenso proprio a causa di un’alleanza – o meglio, tolleranza – tra sciiti e sunniti in nome del comune spirito patriotti-

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co-nazionalista iracheno. Nei taliban afghani, il fervore religioso è legato in stragrande maggioranza all’etnia pashtun. Ahmadi-Nejad, per rimanere a cavallo della tigre rivoluzionaria islamica iraniana, cerca di iniettarvi il sangue del laico nazionalismo persiano, attizzato dalla reazione internazionale alla sua corsa al nucleare. Pertanto, la scacchiera politica mediorientale non è delineata da riquadri e pedine bianche e nere: tutto è intrecciato nel reticolo invisibile delle dinamiche settarie, etniche e religiose che l’attraversano come fiumi carsici. Islam e arabismo altro non sono che minimi comun denominatori dell’identità mediorientale. Non hanno mai avuto la forza di sciogliere i confini degli Stati dove si sono affermati, abbracciando altri paesi in nome di un ideale sovranazionale 43. Insomma, il Medio Oriente sembra una scacchiera senza regole 44. L’affermarsi concreto in un singolo paese di un preteso movimento universalista laico o religioso è sempre dipeso da particolari condizioni locali, nelle quali rimane radicato ma anche dimensionato e vincolato. Esempi ne sono la fedeltà nazionalista ed etnica della popolazione sciita irachena, contro le lusinghe della rivoluzione islamica khomeinista, oppure la scarsissima propensione a lasciarsi assorbire dal panarabismo nasseriano – percepito come imperialismo egiziano – da parte dei movimenti panarabi degli altri paesi. In altri termini, neppure la forza unificante di ideologie universali d’ispirazione panarabistica o panislamista riesce a superare le barriere geopolitiche imposte dalle forze particolaristiche del settarismo, radicato localmente su base tribale, oligarchica o religiosa. Il particolarismo locale prevale sulla globalizzazione. I vincoli locali clientelari, d’interesse o di sangue, sono più forti dei legami religiosi, nazionalisti o etnici. Ciò si spiega col fatto che negli Stati creati artificialmente alla fine della prima guerra mondiale si è innestato il processo già delineato da Ibn Œaldûn nel XIV secolo: singoli gruppi sociali o tribali, legati da uno spirito di coesione comunitaria o clanica, l’‘aâabiyya, si impadroniscono del potere instaurando un’autocrazia dinastica. Gli emiri e i califfi del suo tempo, al pari delle oligarchie claniche, confessionali, militari o cleptoratiche contemporanee, si erano appropriati dello Stato, facendone mulk, ovvero un proprio dominio esclusivo. 43. Ad esempio, la rivoluzione khomeinista non ha attecchito fuori dall’Iran e l’alleanza con Õizbullåh è forse più dovuta a una comunanza di interessi geopolitici che religiosi. Per contro, gli sforzi dei movimenti jihadisti contemporanei di dar vita a un emirato indipendente sono sempre stati frustrati dal mancato sostegno delle popolazioni dove si cercava di fondare l’emirato, come nel caso iracheno. La solidarietà locale è più forte del richiamo universale. 44. E così l’uomo, scrive Adonis, poeta contemporaneo libanese di origine siriana: a volte, è debole e s’interroga balbettando: appartengo, ma a quale luogo? E a chi? Come inizia e da dove? Qual è la sua fonte di appartenenza? Il sangue, la razza e la discendenza? (la società non è più un riferimento) La parlata, la pronuncia, il tono? (la lingua non è più un riferimento) La tribù, la parentela, la famiglia? (il popolo non è più un riferimento) Il quartiere, la zona, la regione? (il paese non è più un riferimento) La dottrina, la via, la confessione? (la religione non è più un riferimento) La fazione, la corrente, il gruppo? (il partito non è più un riferimento) Le pallottole, le bombe, i missili? (l'uomo non è più un riferimento).

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Le barriere mediorientali non sono i confini tra gli Stati. Esse derivano invece dalla difficoltà a creare un sostrato politico neutro alla materia composita dello Stato, che concìli etnie, religioni e tribù. Sembra infatti impossibile realizzare modelli politici diversi dall’autocrazia, laica o religiosa che sia. Ne consegue una competizione intrasistemica statale e sistemica regionale, giocata su potere, petrolio e religione ed esacerbata dalla negazione del diritto all’esistenza di Israele (e di riflesso della Palestina). Ancora oggi la comunità internazionale si trova a dover affrontare l’eredità avvelenata lasciata dalla dipartita del grande malato d’Europa, l’impero ottomano. L’invisibile filo della storia che lega le guerre nei Balcani degli anni Novanta, l’invasione irachena del Kuwait nel 1991, la guerra in Iraq nel 2003, le permanenti crisi in Libano, Cipro e Kurdistan, conduce a Istanbul, sulla soglia della Sublime Porta ottomana.

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