La Sfida E Le Occasioni

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Lapo Bechelli

25 Febbraio 2009

La sfida e le occasioni La politica estera della nuova amministrazione statunitense sembra essere basata su due parole chiave: dialogo e responsabilità. L’amministrazione Obama pretende un maggiore impegno da parte del Presidente afghano Karzai nella lotta alla la corruzione, al traffico di oppio e migliorare la qualità della vita della popolazione afghana, perché fintanto che Karzai non si impegnerà a fondo i talebani continueranno ad avere l’appoggio di parte della popolazione. Lo stesso errore che l’amministrazione Bush stava compiendo in Iraq: combattere più terroristi possibile senza avere un piano politico ed economico di stabilizzazione del paese. Da parte sua Karzai si è lamentato ripetute volte per l’alto numero di vittime civile causate dagli attacchi statunitensi. Per controllare meglio il territorio il Presidente afghano, durante la Conferenza sulla sicurezza tenutasi a Monaco di Baviera agli inizi di febbraio, ha addirittura fatto appello ai talebani “moderati”, chiedendo loro di rientrare in Afghanistan per prendere parte alla riconciliazione nazionale in vista delle elezioni della prossima estate, legando allo stesso tempo il loro rientro a due condizioni: la rinuncia della violenza e l’accettazione della Costituzione afghana. Nel frattempo gli alleati europei hanno promesso un maggiore impegno militare in Afghanistan in questa fase di preparazione verso le elezioni. Nel dialogo aperto dalla nuova amministrazione americana con il mondo musulmano l’Iran ricopre un ruolo determinante. Sull’Iran, il vicepresidente Biden è stato chiaro durante la Conferenza di Monaco sulla sicurezza: “Si vuole parlare con Teheran e offrire una scelta estremamente chiara: continuare su questa strada e subire costante pressione e isolamento o abbandonare il programma nucleare illegale e il sostegno al terrorismo per ottenere incentivi significativi.” Dopo aver fatto la voce grossa subito dopo il discorso inaugurale di Obama, il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad si è detto favorevole a colloqui con gli Stati Uniti basati sull’uguaglianza e sul rispetto reciproco. Come mai questo cambio di approccio da parte iraniana dopo un mese di amministrazione Obama, e dopo anni di contrasti e minacce con la precedente amministrazione Bush? Probabilmente le elezioni presidenziali iraniane, previste per il giugno 2009, hanno portato Ahmadinejad ad aprire agli Stati Uniti per cercare di ottenere il voto dei moderati. Questa apertura al dialogo porterà l’Iran a rinunciare al nucleare? Difficile da prevedere. Intanto l’Agenzia atomica delle Nazioni Unite ha affermato che l’Iran possiede già una quantità sufficiente di uranio arricchito per creare una bomba atomica entro un anno, e certamente Ahmadinejad ne ha fatto un pilastro della sua politica e una delle chiavi del suo successo, quindi rinunciarvi dopo un eventuale dialogo con gli Stati Uniti potrebbe far guadagnare al Presidente iraniano il voto dei moderati, ma perdere quello di tutti gli altri. Il dialogo con l’Iran può rappresentare per Obama un terreno scivoloso, se l’apertura di Ahmadinejad sarà solo temporanea per vincere le elezioni essa potrebbe soltanto far perdere tempo e potremmo assistere ad un Obama sotto tiro da parte degli avversari politici dopo le elezioni iraniane per essere stato ingenuo ed aver aperto al dialogo con un individuo pericoloso per la sicurezza mondiale. Il dialogo con il mondo arabo è influenzato anche dal tipo di relazioni che Obama intraprenderà con Israele. Dalla soluzione del problema israelo-palestinese passa la vera svolta dell’insieme dei rapporti col mondo arabo in un momento in cui le tossine dell’estremismo sono ancora forti nei vari schieramenti. Nel paese alleato storico degli Stati Uniti si sono appena svolte le elezioni, con le quali il popolo israeliano si è spostato più verso destra, e gli elettori del partito laburista hanno preferito votare il partito moderato Kadima, vincitore delle elezioni. Ma al momento nessun partito è in grado di fare un governo contando solo su sé stesso. Il tipo di coalizione che verrà fuori dovrà portare avanti il processo di pace con i palestinesi, ed il tipo di processo di pace che verrà sarà caratterizzato dal tipo di governo messo in piedi. Tutto questo dopo una pesante e tragica offensiva militare causata dal continuo lancio di razzi contro il territorio israeliano. E il grande problema di

Israele è anche l’Iran di Ahmadinejad che continua il suo programma nucleare e tempo fa dichiarava che Israele sarebbe dovuto scomparire dalle mappe, un binomio minaccioso per la sicurezza di Israele, che ha portato ad un incremento delle tensioni nell’area e che Obama dovrà riuscire a rasserenare. La politica americana di dialogo in Asia, in particolare con Iran e Cina, rischia inoltre di mettere in contraddizione gli Stati Uniti sul tema dei diritti umani. Durante i colloqui in Cina, il segretario di Stato Hillary Clinton ha affermato che al momento il problema dei diritti umani in Cina non può interferire con il dialogo per una maggiore cooperazione per affrontare la crisi economica, la lotta al cambiamento climatico e le sfide per la sicurezza mondiale, rimandando quindi il tema dei diritti umani al futuro. Inoltre a Washington si stanno svolgendo piccole, al momento, manifestazioni davanti alla Casa Bianca per ricordare all’amministrazione Obama il problema dei diritti umani in Iran. Una piccola palla di neve che col tempo può trasformarsi in valanga, anche perché sono state proprio le speranze suscitate da Obama a spingere verso la difesa con fermezza dei diritti umani. Ma la crisi economica globale rischia di porre tutto il resto in secondo piano, rischiando di causare un corto circuito per l’amministrazione americana. Il nuovo approccio statunitense sta producendo effetti anche sull’inquilino del piano di sotto, il Sudamerica. Il Presidente Chavez si è dichiarato disposto a dialogare con il Presidente Obama per riparare le relazioni con gli Stati Uniti. E da riparare c’è molto, visto che con la precedente amministrazione Bush la posizione di Chavez era molto netta, avendo espulso l’ambasciatore statunitense lo scorso settembre 2008 gridando pubblicamente: “Andate al diavolo, yankee di m…”. Come mai questa apertura da parte del grande nemico degli Stati Uniti in America latina? Probabilmente tutto ruota intorno al petrolio, risorsa sulla quale sta puntando il Venezuela per la sua crescita economica e che rappresenta il 93% delle esportazioni venezuelane, ma con il crollo del prezzo dell’oro nero e la nuova politica statunitense di indipendenza energetica il Presidente Chavez rischia di vedere crollare il proprio export e mettere a repentaglio i programmi sociali che aveva previsto. Al momento l’unico americano a fare la voce grossa nell’area è colui che al momento non ha né la forza fisica, né quella politica per farlo: Fidel Castro, il quale pretende che gli Stati Uniti rendano Guantanamo a Cuba. Durante il recente conflitto tra Israele e Hamas, Castro ha accusato il presidente statunitense Barack Obama di "condividere il genocidio contro i palestinesi". Le posizioni aggressive da parte di Castro non sembrano aver alcun effetto sulla Casa Bianca. Dopo il suo insediamento, Obama dichiarò che Guantanamo sarebbe rimasta agli Usa se vi fosse stata una qualunque utilità sotto il profilo militare, e un'eventuale restituzione della Baia sarebbe stata legata ad un cambiamento di sistema politico a Cuba. Oltre a questo, il Sudamerica dovrà affrontare la crisi economica come il resto del mondo. In Brasile le imprese quotate in borsa hanno perso la metà del valore dall’inizio dell’anno. La Commissione Economica per l'America Latina e i Caraibi ha previsto una sorta di effetto domino della crisi economica sull’America latina: gli Stati Uniti importeranno meno dalla Cina, la quale importa meno dai paesi dell'Asia e del Pacifico, i quali compreranno meno materie prime dall'America Latina. Dalla crisi economica si potrà uscire solo tramite la concertazione tra i maggiori produttori al mondo, Stati Uniti ed Europa in testa. Nel vecchio continente sembra essere ormai chiaro ai governanti che per uscire dalla crisi ogni stato non dovrà rifugiarsi nel protezionismo, ma trovare nuove regole per l’andamento del mercato. Il clima più sereno in ambito europeo è dato anche da un calo delle tensioni tra Stati Uniti e Russia, la quale ha deciso di non installare le basi missilistiche a Kaliningrad, dopo otto anni di attriti con la vecchia amministrazione americana. La crisi economica sta investendo tutto il mondo, chi più chi meno. Oltre a spingere i paesi che determinano l’andamento dell’economia mondiale verso un coordinamento nel campo economico, questo momento di instabilità e insicurezza economica potrebbe far cambiare le relazioni internazionali, creare nuove alleanze e portando i paesi economicamente avanzati sempre più verso

una minore dipendenza dal petrolio. Le prospettive future per Obama potranno essere insidiose se l’amministrazione americana aprirà al dialogo con soggetti imprevedibili, sottovalutando o mettendo in secondo piano i potenziali rischi per il futuro, ma la nuova politica americana di dialogo e responsabilità rappresentano anche una grande opportunità per ridare stabilità alle relazioni mondiali.

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