Sfida Casertano

  • May 2020
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  • Words: 3,315
  • Pages: 13
Di Stefano Casertano Edito da Francesco Brioschi Editore Distribuzione PDE Codice EAN 9788895399225

“Sfida all’Ultimo Barile” ripercorre tutta la storia della Guerra Fredda dal punto di vista del petrolio e delle risorse.

Si tratta di una chiave di lettura importante per comprendere l’assetto strategico attuale che contrapponte Russia e Stati Uniti.

Il libro si divide in 6 scenari che coprono tutti gli eventi principali dal 1945 a oggi.

Presentiamo qui estratti da quattro scenari.

Buona lettura!

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SCENARIO 1

Scontro per l’Iran Anni: 1945-1953 Luoghi: Iran e Medio Oriente – Terminata la seconda guerra mondiale, nel Nord dell’Iran rimane l’Armata Rossa: è il ricatto di Stalin verso Teheran, per ottenere concessioni petrolifere e una presenza stabile nel quadrante mediorientale. – La Gran Bretagna, iniziatrice dell’industria petrolifera in Iran, si allea con gli Stati Uniti per convincere i russi a tornare in Urss. – Inizia la Guerra fredda: Mosca non collabora più con Washington e Londra. Gli Stati Uniti riescono così a inserirsi in Medio Oriente, dove vengono visti come potenza anticoloniale e liberatrice, preferibile non solo all’Unione Sovietica, ma anche alla Gran Bretagna.

L’ospite di Suez

Franklin Delano Roosevelt spinse il pulsante di arresto dell’ascensore. Rassicurò i suoi collaboratori: non c’era nessuna emergenza, voleva solo accendersi una sigaretta. A nessuno parve strano che avesse scelto quella cabina chiusa per tirar fuori il pacchetto. Era costretto a fumare di nascosto: il suo ospite a bordo dell’incrociatore USS Quincy, il re saudita Ibn Saud, era un fedele osservante delle regole islamiche più pure. Tabacco e alcol erano vietati e, quel 14 febbraio 1945, eccezioni non potevano essere fatte neanche per il presidente degli Stati Uniti. Non si trattava di un incontro ordinario, e ciò fu chiaro ai marinai statunitensi fin dall’arrivo del sovrano arabo sulla nave. Il re aveva chiesto di imbarcare una corte di circa duecento persone, tra cui numerosi omaccioni con scimitarra alla cintola. Il capitano della nave di appoggio lo aveva convinto a limitarsi a quarantotto accompagnatori, lasciando peraltro a terra una nutrita schiera di mogli. Tra gli argomenti più efficaci, il capitano aveva ricordato che una nave piena di soldati in mare aperto da mesi non era il posto migliore per delle signore. Saud aveva poi richiesto di portare con sé un gregge di un centinaio di pecore come provvista alimentare. Il capitano aveva garantito che a bordo c’erano già abbastanza riserve da sfamare tutti per almeno due mesi, e che il vivace contingente di ovini poteva essere tranquillamente ridotto. Qualche parola fu spesa per chiarire il concetto di «cibo congelato». I sauditi non potevano però rinunciare del tutto alle loro ricette tradizionali, e sette sfortunate pecore sfilarono sulla passerella dalla terraferma alla nave. Giunti infine sulla USS Quincy, gli arabi allestirono un campo beduino sul ponte; alcuni degli animali vennero macellati alla maniera tradizionale islamica, che prevede particolari operazioni di sgozzamento e drenaggio del sangue. Sotto gli occhi preoccupati dei marinai, la carne venne pericolosamente arrostita vicino a un deposito di munizioni. La nave era ancorata nel Grande Lago Amaro, un bacino nel mezzo del Canale di Suez. Il presidente americano si era spinto fin nel lontano Egitto per incontrare questo personaggio che, a molti, sembrava poco più di un capo tribù. Re Saud dichiarava perfino di non sapere quale fosse la sua età, per quanto il suo corpo imponente e stanco, segnato da varie ferite di battaglia, e il grosso volto scalfito dal caldo del deserto, suggerivano che fosse vicino alla settantina. Era chiaro che Roosevelt doveva avere ragioni molto importanti per invitarlo a un incontro personale su una nave militare: era un’occasione diplomatica generalmente riservata solo ai leader di Stati ampiamente riconosciuti negli ambienti internazionali.

Mentre il fumo delle sigarette riempiva l’angusta cabina dell’ascensore, molti pensieri affollavano le mente di Roosevelt. L’incontro con Saud non era solo un’occasione formale, era il delicato punto di arrivo di una politica di avvicinamento degli Stati Uniti verso il Medio Oriente, avviata anni prima. Era il culmine di una strategia diventata sempre più necessaria da quando Washington aveva scoperto che l’Arabia Saudita possedeva una quantità enorme di qualcosa che in America stava finendo: il petrolio.

Nasce così la “corsa al Medio Oriente petrolifero”, che vede come primi contendenti l’America di Truman, la Russia di Stalin e la Gran Bretagna di Churchill. Fu una competizione “segreta”, che rimase nascosta agli occhi del mondo, concentrati sui colloqui diplomatici di Jalta e di Potsdam.

SCENARIO 2

La parabola americana in Medio Oriente Anni: 1956-1980 Luoghi: Suez (Egitto), Europa, Medio Oriente – Gli Stati Uniti erano visti da molte potenze mediorientali come una «forza liberatrice», che proteggeva dall’espansionismo sovietico e dall’instabilità. In poco più di vent’anni questa visione cambia radicalmente. – Tra il 1956 e il 1980 il quadrante è scosso da tre conflitti araboisraeliani, da rivolte in vari paesi, da colpi di Stato in Egitto, Iraq e Siria, e infine da un’epocale rivoluzione islamica guidata dall’ayatollah Kohmeini. Ogni evento è un’occasione per lo scontro tra russi e americani, che cercano di conquistare influenza. – Con l’arrivo di Kohmeini a Tehran il piano di Washington crolla: cacciato lo scià iraniano, alleato dell’America, i sovietici invadono l’Afghanistan e vi rimangono quasi dieci anni.

L’Italia nel mezzo Il 18 marzo, l’ambasciatore americano a Roma, David Zellerbach, comunicò al Dipartimento di Stato che era necessario agire in fretta per far saltare l’accordo italo-iraniano, facendo pressione sul governo della penisola39. Fonti dell’intelligence americana avevano inoltre riportato testimonianze secondo le quali i tecnici Agip in Medio Oriente si erano vantati di poter contare su contatti di alto livello in tutta la regione, e che presto tutta la situazione sarebbe stata rivoluzionata40. A Washington pochi giorni dopo si tenne una concitata riunione dello staff del segretario di Stato John Foster Dulles. Il segretario al Tesoro C. Douglas Dillon sostenne che gli italiani stavano cercando di guadagnare con il ricatto l’ingresso nel consorzio iraniano. Altri ritenevano che Mattei stesse perseguendo una via autonoma e indipendente, di respiro ancora più ampio. Sul tavolo del presidente Eisenhower giunse poi un report intitolato La minaccia di Enrico Mattei agli obiettivi della politica degli Stati Uniti: Mattei era stato bollato come nemico pubblico. Il 9 aprile, venne ordinato all’ambasciatore americano a Tehran di affrontare la questione direttamente con lo scià, per far lui presente che la «formula Mattei» avrebbe destabilizzato il mercato petrolifero, con il rischio di provocare un tracollo dell’economia iraniana: i nazionalisti e i comunisti ne avrebbero guadagnato. Nonostante tutto, Eisenhower non si convinse fino in fondo che Mattei fosse così pericoloso come lasciava intendere lo staff della Casa Bianca: ritenne che non fosse necessario intraprendere azioni estreme per eliminarlo dal giro. Di lì a poco l’Eni avrebbe concluso un accordo con la Libia, sempre con il 75/25, che avrebbe coperto 27.000 chilometri quadrati nel Fezzan, al confine con l’Algeria. Il locale primo ministro Mustafa Ben Halim venne però licenziato dal re prima che l’accordo definitivo venisse firmato. Si è parlato spesso di un intervento americano in questo senso. Giovanni Buccianti, in Enrico Mattei. Assalto al potere petrolifero mondiale, sembra certo di quest’ipotesi, e parla di una delegazione statunitense inviata a Tripoli per l’occasione, guidata dall’ambasciatore James P. Richards, assistente speciale di Eisenhower, e dal console americano a Roma John D. Jernegan. Tra le altre operazioni estere dell’Eni, spicca il caso singolare dello Yemen. Nell’aprile del 1959, l’Imam Ahmad, capo dello Stato, decise di recarsi in Italia per urgenti cure mediche, provocando le dimissioni dei medici sovietici presenti a San’a: lo Yemen era allora sotto il protettorato di Mosca. Quella era la sua prima visita ufficiale all’estero. Nel giro di un mese, tra grandi speranze occidentali, l’Imam migliorò, e l’Eni decise di giocare a suo vantaggio l’elemento della presenza di vari famigliari e accompagnatori dell’Imam in Italia. Il fratello di Ahmad e il suo ministro degli Esteri vennero portati in visita agli impianti petrolchimici Agip di Gela. Si posero le premesse per una collaborazione, che portò mesi dopo alla firma di un trattato di cooperazione.

A quel punto, gli yemeniti pensarono fosse giunto il momento di sbilanciarsi di più verso l’Italia. Si chiedeva il versamento di due milioni di dollari quale anticipo sullo sfruttamento del greggio futuro, che nell’immediato avrebbero estinto i debiti contratti con l’Urss. L’Eni mise a disposizione mezzo milione di dollari, poi lasciò perdere l’opportunità: sembra non si fidasse delle proposte yemenite. Accordi vennero chiusi anche con il Marocco, il Sudan, la Tunisia e la Nigeria. Ma tutto questo lavoro diplomatico, a conti fatti, portò a poco. In Iran l’Eni si vide assegnare dei lotti di sfruttamento molto poco fortunati: le scoperte di petrolio furono inferiori alle aspettative. Del resto, sul finire degli anni Cinquanta per l’Eni non c’era più un’Arabia Saudita da scoprire, e per Mattei era ben difficile trovare delle fonti affidabili di petrolio. Mattei provò perfino a chiedere una partecipazione al 3 per cento nel consorzio saudita dell’Aramco, ma senza successo. Il petrolio sovietico era l’unica via percorribile. Bastava avere ambizione e propensione al rischio. Nel 1958, il responsabile degli esteri per l’Eni Giuseppe Ratti venne incaricato da Mattei di seguire il negoziato con i sovietici. Per iniziare, l’azienda italiana partecipò a una mostra dell’industria pesante italiana a Mosca; la delegazione incontrò anche Chrusˇcˇëv. Vennero stabiliti degli accordi per l’importazione di un milione di tonnellate di petrolio in cambio di forniture di gomma da parte dell’Anic, un’azienda del gruppo Eni41. Si trattava di un accordo la cui portata economica era ancora limitata, ma il cui valore politico era dirompente: un paese come l’Italia, così strategico per il Patto atlantico, stava scendendo a patti con i sovietici.

In seguito si vede com e l’Italia e l’Eni di Mattei siano stati in grado di scardinare gli equilibri petroliferi della Guerra Fredda

SCENARIO 3

Gli anni Ottanta: la riscossa di Washington Anni: 1981-1999 Luoghi: Stati Uniti, Unione Sovietica, Europa – Ronald Reagan inaugura l’epoca del dopo Carter con liberalizzazioni a tutto campo, riorganizzando anche il settore petrolifero. – Il piano degli americani è preciso: togliere ai russi gli introiti tratti dalle esportazioni di petrolio. L’idea di Reagan funziona: la riscossa inizia nel 1986, quando il prezzo del barile scende sotto i dieci dollari. – In poco tempo l’Unione Sovietica è in bancarotta ed è costretta a riorganizzarsi. L’Impero russo si spacca e a Mosca è ora di passare all’economia di mercato, più adatta per allocare le scarse risorse. – Mikhail Gorbacˇëv evita la guerra civile, Eltsin riesce a imporre un piano di ristrutturazione, mentre la Nato americana si avvicina ai confini russi.

Reagan

Quando Reagan entrò alla Casa Bianca lo faceva con la legittimazione popolare di un paese in cerca di riscossa, e ciò gli consentì fin da subito di impegnarsi in una riforma energetica ben più incisiva di quella di Carter. In tema di petrolio e politica internazionale Reagan aveva visioni diverse rispetto al suo predecessore. «The Onion», il famigerato giornale satirico americano, ben descrisse la differenza di vedute pubblicando due finti annunci di campagna elettorale: nel primo, Carter diceva «Parliamo di motori più efficienti!»; nell’altro, Reagan proponeva «Uccidiamo questi bastardi!»8. [...] L’amministrazione Reagan doveva però fare i conti con le rovine dell’architettura diplomatica di Carter e Brzezinski in Medio Oriente, crollata insieme al trono dello scià iraniano. Tanto per iniziare, la nuova amministrazione prese le distanze da quanto era stato fatto dal precedente governo: venne fatto passare il messaggio che la sicurezza energetica nazionale non poteva dipendere troppo dalle questioni interne di un paese così remoto come l’Iran. Le conseguenze di un’alleanza così rischiosa erano sotto gli occhi di tutti: il prezzo al barile nell’aprile del 1980 era arrivato a 39,50 dollari, un record che sarebbe stato battuto solo il 3 marzo del 20089. Così come nel 1973, gli automobilisti americani erano tornati a far la fila ai distributori di benzina. Peraltro, era ormai chiaro che l’aumento dei prezzi aveva fatto il bene della Russia, tanto che i nuovi profitti avevano ridestato l’aggressività sovietica, con l’Armata Rossa in marcia verso l’Afghanistan per colmare il vuoto di potere mediorientale. Washington aveva iniziato a dubitare fortemente di tutte strategie adottate per contenere la Russia fino a quel punto. Lo schiaffo del boom petrolifero del 1979 fece ancor più male quando venne alla luce che gran parte delle attrezzature impiegate per l’estrazione del greggio sovietico erano di fabbricazione americana. Si scatenò un dibattito feroce negli ambienti politici, reso ancora più isterico dall’influenza delle lobby industriali. L’esportazione di tecnologia contribuiva chiaramente al nuovo boom energetico russo, ma per alcuni osservatori riduceva «la probabilità che l’Urss potesse invadere il Medio Oriente per acquisire petrolio che non fosse più stata in grado di produrre in casa»10 senza le tecnologie americane. Venne ordinato di investigare a fondo fino a che punto la tecnologia americana aiutasse i russi a tirar fuori i barili dal sottosuolo, avvantaggiando Mosca sul piano delle politiche petrolifere. Un report governativo rilevò come «non c’è dubbio che la produzione petrolifera sovietica sia stata assistita dalla tecnologia e dalle attrezzature americane […]. Nel 1979, l’Unione Sovietica ha dedicato circa il 22 per cento del suo commercio con i maggiori partner commerciali occidentali (circa 3,4 miliardi di dollari) a

tecnologie ed equipaggiamenti collegati all’energia»11. I russi non erano in grado di produrre attrezzature sufficienti e adeguatamente affidabili per le loro necessità. Il report affermava però che l’impatto dell’assistenza tecnica occidentale fosse meno decisivo per due importanti fattori. Prima di tutto, i russi non avevano gran voglia di importare quantità massicce di prodotti dall’Ovest, un po’ per paura di diventarne troppo dipendenti, e un po’ perché non disponevano di valuta pesante a sufficienza con cui pagare tutto ciò che volevano. A ciò si aggiungeva il fatto che le attrezzature americane impiegate in Unione Sovietica diventavano meno efficaci: gli addetti non ricevevano la formazione di alto livello dei loro colleghi americani, e le imprese esportatrici erano molto lente a fornire assistenza per ricambi e riparazioni. In ogni caso, la Washington del petrolio si trovava a un bivio. [...] L’amministrazione Reagan sfruttò l’azione dell’Armata Rossa nell’unico modo possibile: la trasformò in un’occasione per intensificare i rapporti con l’Arabia Saudita, che più volte aveva palesato di temere un attacco russo. Dal punto di vista militare, Washington s’impegnò per accontentare le richieste degli sceicchi sauditi in merito alle forniture belliche: venne concluso l’acquisto da parte di Riyad di aerei ricognitori radar Awacs e di alcuni caccia di ultima generazione. Ma tentare di respingere la discesa russa con la forza era fuori questione: l’operazione gestita dalla Cia per fornire armi agli afghani contro i sovietici esponeva già Washington abbastanza. Era necessario elaborare una nuova strategia. Si doveva anche agire in fretta. In tutto il quadrante, diverse fazioni politiche sembravano intenzionate a sparigliare rispetto alle linee guida americane. Fu emblematico il caso del Kuwait: l’emirato si affaccia sul Golfo Persico, al confine tra Iran e Iraq, e si sentiva preso in una tenaglia tra i due paesi, coinvolti in una guerra violentissima. Per liberarsi dalla stretta ritenne che fosse necessario chiudere qualche tipo di accordo con una grande potenza esterna. Nel 1981 il ministro degli Esteri kuwaitiano, lo sceicco Sabah, raggiunse Riyad per dichiarare che aveva intenzione di andare a Mosca a chiedere l’appoggio sovietico. Sabah voleva sostenere un’originale linea diplomatica, secondo la quale il Golfo Persico, in realtà, non era minacciato dall’Unione Sovietica, ma dagli Stati Uniti. Ma per andare a Mosca a comunicare questa novità, Sabah aveva bisogno dell’avallo saudita. Ovviamente Riyad rifiutò, ma le intenzioni dei kuwaitiani vennero prontamente comunicate a Washington, che fece in modo di bloccare lo sceicco. [...] Il direttore dell’intelligence Bill Casey raggiunse Riyad per riferire delle nuove idee americane al principe Turki al-Faisal, suo omologo nel paese arabo. Fu un incontro molto cordiale, e Turki sembrò ascoltare con estrema attenzione il progetto americano. Ancora una volta, qualche imprevisto culturale

intaccò l’etichetta diplomatica, quando Casey rifiutò di assaggiare una bevanda a base di latte di cammella. Turki decise però di fidarsi degli americani, e dopo l’incontro consegnò al sovrano saudita Fahd un resoconto molto breve; con poche parole si spiegava che il punto debole della forza militare russa erano i soldi, e che i soldi venivano dal petrolio. Mosca stava finanziando il suo impero tramite le esportazioni di greggio. Era solo per i prezzi del petrolio troppo alti che l’accerchiamento sovietico proseguiva inarrestabile, scatenando la paura saudita, eloquentemente descritta anni prima dalla mano del principe che passava intorno alla mappa dell’Arabia Saudita. Era necessario che Riyad aumentasse la produzione per portare il prezzo del barile a un livello così basso da spingere a secco le casse del Cremlino

Si scoprirà nel seguito del libro che gran parte del crollo sovietico fu dovuto alla deliberata strategia americana: drenare le casse sovietico facendo crollare gli intrioiti petroliferi

SCENARIO 4

La conquista del Caspio Anni: 1991-1999 Luoghi: Medio Oriente, area del Mar Caspio – L’implosione russa trascina con sé tutto il sistema statale che controllava il quadrante geopolitico del Caspio, e blocca il funzionamento della macchina militare. Il Mar Caspio e le sue risorse diventano terra di conquista. – Nel 1991 l’America può intervenire liberamente in Iraq: è la prima volta che il corpo dei marine opera direttamente in Medio Oriente su scala così grande. – Finché dura il «coma» russo, l’America cerca con la massima urgenza di garantire che le risorse del Mar Caspio prendano la strada dell’Occidente: dalle lusinghe ai nuovi leader degli Stati dell’area, si passa alla costruzione di oleodotti non controllabili da Mosca. – Viene chiuso il progetto per un oleodotto che dalle rive occidentali del Caspio arriva alle coste mediterranee della Turchia, evitando in blocco il territorio russo: la sfida americana è vinta. Ma c’è Putin all’orizzonte.

La strategia di sopravvivenza politica internazionale di Mosca era una dimostrazione evidente di come la Russia non volesse rinunciare all’influenza sull’area del Caspio. Questo atteggiamento era stato suggellato da diverse dichiarazioni pubbliche: già all’arrivo delle prime delegazioni occidentali in visita alle nuove repubbliche centroasiatiche, il ministro russo per l’Energia Jurij Sˇafranik dichiarò a Bill White, vicesegretario americano per lo stesso settore, che «le risorse del Caspio sono state scoperte dai russi, e le aziende russe le svilupperanno. […] Sappiamo tutto di Baku. Fa parte del nostro complesso di petrolio e gas. Lo stesso vale per il Kazakhstan»27. L’Azerbaijan non era sottoposto a un vero e proprio monitoraggio strategico da parte dell’amministrazione Clinton. L’orientamento di Washington era tutt’altro che chiaro. L’apice del disinteresse fu raggiunto nei mesi tra il 1991 e il 1992: un diplomatico occidentale dichiarò di aver visto aggirarsi per Baku quattro americani con cappelli e stivali da cowboy, che secondo i ben informati erano addestratori privati assoldati dalla repubblica per condurre esercitazioni militari28. Il funzionario aveva visto bene. A capo del drappello c’era Richard Secord, un ex generale statunitense noto per la sua implicazione nell’affare Iran-Contra, uno scandalo internazionale che nel 1986 aveva fatto vacillare la poltrona di Reagan. Secord era arrivato sulle sponde del Caspio con «Ponder International», un’azienda di servizi petroliferi che si occupava di attività quali il recupero di attrezzature perse in acqua dalle piattaforme, impiegando sommozzatori e varie tecnologie. Secord era accompagnato dall’ex generale dell’aviazione Harry Aderholt. Quest’ultimo era interessato allo sfruttamento di alcuni impianti petroliferi minori, tra i 35.000 lasciati dall’Unione Sovietica dopo il suo ritiro. Sosteneva di voler impiegare gli eventuali profitti per finanziare ricerche per ritrovare prigionieri di guerra americani dispersi in Vietnam. L’organizzazione che si occupava di questo nobile intento era il Soviet Peace Committee, con base a Mosca. Tale comitato era interessato anche ai contatti che Aderholt dichiarava di avere in Afghanistan, con l’obiettivo di condurre ricerche sui soldati sovietici dispersi nel conflitto degli anni Ottanta. A quanto pare, Aderholt era un maestro della trasversalità. Ad aggiungere mistero al tutto, le operazioni di recupero dei pozzi dovevano essere condotte da una certa Mega Oil, di cui nessuno aveva mai sentito parlare.

In questo scenario di completa anarchia si sviluppa poi la corsa petrolifera per il Mar Caspio, tuttora terreno di confronto tra Russia e Stati Uniti

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