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La sicurezza ai nostri giorni
APPROFONDIMENTI
APPROFONDIMENTI
Televisione: intreccio di potere e violenze — a pagina 6 —
Il medio oriente e la morale della morte
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di FRANZ TURCHI
Credo che in questi ultimi periodi, il vero problema che non fa dormire le famiglie, oltre al fattore economico (mancano i soldi in casa), sia la Sicurezza. Si continua a vedere ogni giorno un bollettino di guerra di reati incredibili e drammatici, che arreca ad ognuno di noi angoscia e sconforto. Senza parlare poi dello stupro subito a Roma da una donna indifesa, che ha colpito tutti profondamente. Ritengo che su queste materie non ci sia colore politico o bandiere da parte di uno schieramento, ma ritengo che tutti debbano unitamente fare di tutto e di più per arginare e ridurre ai minimi termini tutto questo. Bene ha fatto il Governo, anche se ha provocato polemiche, intanto, ha mettere i militari nelle città, così ha permesso alle forze dell’ordine di avere più mezzi e persone a disposizione ma anche a dare visivamente più sicurezza in alcune cose (vedi il napoletano e la Sicilia) alle persone. Di più si può fare, mettendo forse più militari sul territorio ma anche dando più risorse a Carabinieri, Polizia, Guardia di Finanza e forze dell’ordine in generale, continuando anche nell’essere a tolleranza zero sull’immigrazione clandestina e sui fenomeni di criminalità organizzata. Continuerei nel dire di rafforzare il poliziotto di quartiere, come anche la polizia municipale e locale o, meglio, puntiamo ad intensificare quello che abbiamo senza perderci in strade molteplici ed, in alcuni casi, inefficaci.
Sotto il segno delle riforme Le tre più alte cariche dello Stato spronano la classe politica ad approvare le riforme L’ultimo scorcio di 2008 e l’inizio dell’appena sorto 2009 sono stati caratterizzati dagli accorati appelli che prima il Presidente della Repubblica, poi quelli del Senato e della Camera hanno rivolto al mondo politico nostrano riguardo l’impellente necessità di ratificare - in tempi che siano i più brevi possibili - delle riforme istituzionali e strutturali che permettano al sistema Italia di tornare ad
essere competitivo rispetto a quelli dei Paesi economicamente più evoluti. A dare il “la” a questo “coro istituzionale” è stato Giorgio Napolitano, il quale, nel consueto messaggio a reti unificate che ogni Presidente della Repubblica rivolge agli Italiani l’ultimo dell’anno, ha toccato - tra altri - il problema delle riforme. Infatti Egli, dopo essersi auspicato che le forze politiche italiane pos-
sano trarsi fuori finalmente dalla logica di sterile scontro, si è augurato che, nonostante le criticità economiche che il Paese sta attraversando, la politica riesca a riguadagnarsi la fiducia dei cittadini, impegnandosi al raggiungimento condiviso delle riforme che già sono all’ordine del giorno nell’agenda parlamentare. Obiettivo che, sempre secondo il Presidente Napolitano, deve essere raggiunto
Ecofin 2009 I messaggi al sistema finanziario e alle economie europee La riunione dei ministri dell’economia dell’Unione Europea tenutasi a Bruxelles il 20 gennaio, ha focalizzato l’attenzione sui punti più importanti che i ministri hanno affrontato sul tavolo dell’Eurogruppo, in particolare quelli relativi all’attuale crisi economica. Il nostro Ministro dell’Economia Giulio Tremonti, al termine dell’Ecofin, in un incontro con i giornalisti ha dichiarato che “abbiamo preso atto delle stime economiche della Commissione europea, un PIL del 2009 a -2% è un dato di consenso generale, penso che lo recepi-
remo nel programma di stabilità aggiornato”. Tremonti ha indicato di conoscere già da qualche giorno la stima di un pil nel 2009 a -2%. Quanto alla polemica sulle previsioni economiche fatte dalla Banca d’Italia, che nei giorni scorsi lo stesso Tremonti aveva indicato di ritenere come “congetture”, il ministro ha invitato a tenere conto del fatto che essendo quella attuale non una “crisi normale” bensì caratterizzata da forte discontinuità, le variabili sono troppe e troppo intense per poter guardare alle stime senza dubbi. A proposito del 3,8% di deficit nel 2009, (livello stimato dal-
la Commissione europea), “ se corretto per gli effetti del ciclo economico, ha detto Tremonti, è come se fossimo sotto il 3%”. Le cifre della Commissione europea indicano “che abbiamo adottato le politiche giuste e questo è sostenuto anche dall’Esecutivo europeo”. Per quanto riguarda l’eventuale procedura per deficit pubblico eccessivo da parte della Commissione europea, Tremonti ha indicato che “è troppo presto per scendere in discorsi su questo tema”. In ogni caso il direttore generale del Tesoro Grilli, ha indicato Segue a pag. 4
attraverso l’impegno di tutte le componenti della nostra società e dall’insieme di ogni cittadino, dell’intera collettività nazionale: un invito ad un patto generazionale che porti ad una unica vitale reazione che permetta alla Nazione di superare la congiuntura internazionale di crisi . Nei giorni seguenti all’intervento televisivo della più alta carica dello Stato, anche i Presidenti Schifani
e Fini hanno proseguito nel solco tracciato da Napolitano attraverso delle dichiarazioni che ruotavano intorno alla stessa tematica: le riforme. Il Presidente del Senato, all’indomani dell'epifania, ha rivolto a tutti i rappresentanti dei partiti del panorama parlamentare un invito attraverso il quale proporre la creazione di un tavolo comune su giusSegue a pagina 2
Ricco, continuamente aggiornato: arriva finalmente sul web il nuovo punto di riferimento per i giovani e per un nuovo modo di fare politica in Italia
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Una Piazza di confronto aperta al dibattito su tutti i temi dell’agenda politica e sociale per valorizzare nuove idee e nuovi contenuti
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La Piazza D’Italia - Interni Le tre più alte cariche dello Stato spronano la classe politica ad approvare le riforme
Sotto il segno delle riforme Dalla Prima tizia, federalismo costituzionale, crisi finanziaria e infrastrutture, attuando in tal modo l’autorevole richiesta di Napolitano di superare finalmente gli steccati che dividono il mondo politico italiano operando quindi per il bene del Paese. Sempre secondo Schifani è attraverso l’autonomia delle Camere che si possono cercare le opportune convergenze su tali importanti tematiche, passando quindi dalla teoria ai fatti: così come attraverso il lavoro parlamentare si sta giungendo ad una definizione concertata del federalismo fiscale così si potrebbero presentare e discutere i testi per riformare giustizia, per affrontare la crisi economica e le infrastrutture all’interno delle Commissioni apposite riportando quindi i vari confronti nell’alveo istituzionale del Parlamento, lavorando finalmente sui contenuti e fermando gli anatemi ed i veti di ogni sorta.
Da parte sua, il Presidente della Camera Gianfranco Fini, in occasione dei festeggiamenti per il 212° anniversario della creazione del primo Tricolore a Reggio Emilia - ribadendo un concetto espresso già qualche settimana fa dal Primo Ministro Berlusconi - è tornato a “bomba” sul tema delle riforme istituzionali affermando che secondo lui pur rimanendo tuttora validi ed intangibili i principi fondamentali della Costituzione Italiana non deve suscitare scandalo la possibilità di modificare la Carta costituzionale laddove essa tocca il funzionamento delle Istituzioni, dando quindi un sostanziale via libera alla riforma in senso federalista - ed in seguito presidenzialista - della Repubblica Italiana. In sostanza l’ex presidente di Alleanza Nazionale ha voluto mettere sotto gli occhi dell’opinione pubblica e della politica italiana il fatto che a distanza di 60 anni lo schema istituzionale scaturito
dalla Costituzione è oramai vecchio e non risponde più alla necessaria funzionalità che l’architettura di uno Stato moderno necessita. Insomma, le norme costituenti non sono certo i 10 Comandamenti e in alcuni casi si può, anzi si deve, agendo celermente , modificarle per il bene del Paese. Ed è proprio in questo rinnovato clima di decisionismo che pervade il mondo politico italiano che lo stesso Presidente della Camera dei Deputati ha inviato una lettera aperta al Corriere della Sera intervenendo direttamente nel dibattito riguardante l’importante tema della riforma del sistema giudiziario italiano. Oltre a ribadire l’auspicio già fatto da Napolitano, quello cioè di una riforma ampiamente condivisa in Parlamento dalla gran parte delle forze politiche, l’ex presidente di A.N. punta il dito contro il crescente sentimento di sfiducia nei confronti della
“Giustizia” italiana che serpeggia tra i cittadini a causa delle lungaggini che affliggono chi vi ricorre. La strada maestra da seguire, per Fini, deve essere quella che porterà alla restituzione di efficienza - per tutti - all’intero sistema. Insomma non ci si deve occupare della “ Mala Giustizia” solo a causa dei casi eclatanti che riguardano gli uomini politici ma perché il meccanismo si è inceppato a tutti i livelli . Se una tale riforma verrà poi messa in cantiere, sempre secondo Fini, non si dovranno modificare solo le norme che regolano l’utilizzo delle intercettazioni - senza però privare la Magistratura di uno strumento efficace per combattere le mafie, il terrorismo ma anche la malversazione della Cosa Pubblica - ma si dovrà pure porre mano a riformare il CSM per superare definitivamente le logiche correntizie che finora hanno screditato e bloccato tale importantissime istituzione. Il Presidente della Camera ha
proseguito il suo discorso soffermandosi poi sulla separazione delle carriere dei magistrati: tale riforma ipotizzata per garantire l’effettiva terzietà dei Giudici, non può avvenire a discapito dell’autonomia e dell’indipendenza dei PM. E’ necessario quindi dividere i ruoli ma facendo rimanere il PM subordinato sempre e solo al potere giudiziario. Inoltre ha continuato Fini nella sua lettera aperta al “Corriere della Sera”, sentiti Parlamento e Procura generale della Cassazione, si dovrà valutare a quali reati dare la priorità di trattazione, visto che l’obbligatorietà dell’azione penale negli anni - e il malfunzionamento del sistema in generale - ha portato ad un numero di carichi pendenti esorbitanti, tanto che di fatto il PM discrezionalmente sceglie quali sono i reati da perseguire e quali no. Tale eventuale modifica del metodo ad ogni modo non deve diventare regola ma deve essere attuato per un
ben definito periodo di tempo entro il quale restituire efficienza alla giustizia. Più che le parole, le teorie o le semplici convenienze di bottega, dovrebbero essere i numeri a convincere la politica dell’importanza di far riformare rapidamente tutto il sistema giudiziario italiano: a tutto il 2006 in Italia il numero di controversie civili arenate davanti ai tribunali di primo grado erano circa 4 milioni, contro le quasi 600 mila della Germania , le 800 mila della Spagna o il milione circa della Francia. Andando nel campo del “penale” la situazione non migliora: più di un milione e 200 mila procedimenti giacenti nel primo grado, contro i 70 mila del Regno Unito, i meno di 300 mila della Germania e i circa 200 mila della Spagna. Anche il debito “pubblico” della Giustizia italiana aspetta di essere colmato al più presto. Giuliano Leo
Berlusconi e Fini definiscono insieme l’assetto del nuovo PDL
Lavori in corso Dopo aver varato in Parlamento le norme messe in campo dal Governo per tentare di frenare la crisi economica e in attesa che in Senato si inizi tra pochi giorni la discussione riguardante il federalismo fiscale, il Primo Ministro Berlusconi e il Presidente della Camera Fini si sono incontrati a Montecitorio per un “pranzo di lavoro” in cui hanno discusso soprattutto, ma non
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solo, dell’oramai vicinissima nascita del PdL. Durante questo “rendez vous” a quattro occhi, i due sono convenuti sul fatto di mettere nero su bianco - entro un mese - la bozza di statuto che regolerà il nuovo partito: un vero e proprio impegno formale che dà un utile colpo di acceleratore al processo costituente del PdL. Il Presidente della Camera ha quindi sottoposto a Berlusconi quelle che secondo Lui dovranno essere le linee guida da seguire per garantire il funzionamento della nuova formazione di centro destra e la sua democrazia interna: lo statuto infatti dovrà assolutamente prevedere delle regole chiare che permettano oltre che lo scorrere fluido della “vita” del PdL anche le modalità di scelta dei candidati alle elezioni future e dei rappresentanti del territorio all’interno dell’apparato del partito. Secondo i bene informati, organi principali del nuovo soggetto politico del centro destra - che nascerà il 27 Marzo prossimo, una settimana dopo l’ultimo congresso di AN - saranno l’assemblea nazionale, costituita da circa un migliaio di delegati, una direzione formata da un centinaio di membri, un “gabinetto” ristretto composto di circa 20 persone e tre coordinatori sotto le dirette “dipendenze” del Presidente del partito che come ovvio sarà il Premier Berlusconi.
L’incontro - definito dal Leader di Alleanza Nazionale utile ed amichevole - sembra, se non chiudere definitivamente le polemiche tra esponenti di Forza Italia e di quelli di AN riguardo l’assetto definitivo del PdL, dare finalmente il colpo di reni necessario al raggiungimento del traguardo che i politici di centro-destra si erano riproposti non più di qualche mese fa. L’auspicio dichiarato dai due leaders , oltre a quello di vedersi più spesso al fine di concordare insieme una programmazione condivisa della vita politica, è quindi quello di far decollare definitivamente il “progetto PDL” entro la fine di Marzo. Accantonate quindi pure le polemiche dovute alle ricorrenti voci che davano un Presidente della Camera preoccupato riguardo il suo futuro politico più immediato: infatti rispondendo ad una domanda a tal proposito Fini ha affermato che “prima viene il futuro del Popolo della Libertà”. Nei giorni precedenti l’incontro tra i due massimi esponenti del centro destra italiano, erano stati proprio i fedelissimi di Fini, Ronchi e La Russa, a sollecitare un intervento diretto del Presidente della Camera allo scopo di rimettere in equilibrio il baricentro attorno al quale si sta organizzando il PdL, al momento troppo sbilanciato, sempre secondo ampi settori di Alleanza Nazionale, su
Forza Italia. L’attuale reggente di AN, La Russa, infatti, chiariva - alla vigilia del colloquio tra Fini e Berlusconi - che il nuovo partito dovrà essere moderno e “leggero” come Forza Italia ma che sia saldamente radicato al territorio come Alleanza Nazionale e che preveda in ogni caso un ruolo importante per Fini. Insomma per iniziare bene - sempre secondo il Ministro della Difesa - non bisognerà nascondere i problemi sotto il tappeto come succede al PD di Walter Veltroni bensì affrontare subito le criticità: organizzazione centrale e periferica, linee guida, modelli di operatività condivisi, intesa politica generale concordata dai due capi dei partiti. Per questa ragione, ha continuato il “reggente” di Alleanza Nazionale, è inderogabile che i due si incontrino con maggior frequenza di quanto sia accaduto nel recente passato allo scopo di affrontare quest’inizio di “percorso” politico del PdL nella maniera più congeniale possibile. Sulla stessa lunghezza d’onda erano state le dichiarazioni del ministro di AN, Ronchi, il quale si sentiva in obbligo di ribadire il concetto che al partito di Fini non interessava fare un operazione di marketing politico - o meglio lifting - a costruire cioè una Forza Italia allargata in cui Alleanza Nazionale si sarebbe sentita succube del più grande compagno di strada. L’”Aennino”
inoltre ribadiva, con una formula ancora più incisiva rispetto alle dichiarazioni di La Russa, che al momento mancavano nel progetto generale dell’ossatura del nuovo partito le indicazioni per individuare i luoghi di discussione, le regole, le strutture organizzative attraverso le quali discutere le problematiche politiche di un grande partito moderato. In soldoni al Ministro delle politiche comunitarie - e crediamo, a parecchi all’interno della sua stessa compagine politica non andrebbe affatto giù la creazione di un partito troppo “leggero” che non sia niente altro che un comitato elettorale, senza dialettica interna e regole ben definite, oltre che senza l’indispensabile parità di importanza tra le varie anime costituenti. A quanto sembra, il “concerto” orchestrato dagli esponenti di AN prima, e dal Presidente della Camera poi, sembra essere arrivato alle orecchie delle persone “giuste” se è vero che il giorno dopo l’incontro tra Fini e il Presidente del Consiglio, il coordinatore di Forza Italia, Denis Verdini, si è premurato di definire giuste le rivendicazioni del leader di Alleanza Nazionale assicurando nel contempo che quando sarà varato il regolamento del PdL, esso conterrà norme atte a garantire la massima trasparenza e democrazia all’interno del Partito sia riguardo agli organi di ges-
tione del soggetto unitario che in riferimento al tesseramento e alle scelte chiave comuni in vista delle prossime scadenze elettorali. Insomma Verdini, dopo le prese di posizione comuni degli esponenti di AN, ha assicurato tutti che si sta continuando a lavorare fianco a fianco con gli alleati per dar vita ad un nuovo sodalizio politico che sia più vicino alla gente e tenga conto delle differenti identità ed esigenze delle varie formazioni politiche che lo compongono. Vedremo quindi tra poche settimane se e come le esigenze dei politici e degli elettori di Alleanza nazionale saranno state recepite al momento del “parto” di questo benedetto PdL. Il Paese in questa fase di recessione economica e di crisi evidente in ogni settore produttivo non sopporterebbe la creazione di un altro “pasticciaccio brutto” come il PD, ed infatti gli ultimissimi dati riguardanti le intenzioni di voto degli italiani assegnano al partito guidato(?) da Veltroni il 23% dei consensi contro più del 50% che otterrebbero i partiti ora al Governo. In definitiva l’Italia adesso non può permettersi l’esistenza contemporaneamente di due “zombie” politici: un’opposizione inesistente e inconcludente ed una maggioranza di Governo imperniata su un partito che per faide interne implode su se stesso.
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La Piazza D’Italia - Economia Nel corso di ogni inverno vengono a galla tutte le mancanze di un sistema energetico insufficiente
La battaglia del Gas Incipit doveroso: a Mosca si spara. L’ “erede” di Anna Politkovskaya - Anastasia Baburova - è stata uccisa in un agguato assieme a Stanislav Markelov, un avvocato impegnato della lotta per i diritti civili in Cecenia. L’obiettivo principe sarebbe in realtà stato l’avvocato che si era battuto contro il rilascio anticipato del colonnello Yuri Budanov, l’ufficiale più alto in grado a essere condannato per crimini di guerra da un tribunale russo. Abbiamo e sempre di più avremo a che fare con questo tipo di mostro di cui ci diciamo amici. Ma come si fa ad essere amici di quelli da cui si dipende così tremendamente. Parliamo di energia, ovviamente. La dipendenza dell’Italia dalle importazioni di gas è molto forte e la Russia è il nostro secondo fornitore dopo l’Algeria. Ma mentre dell’Algeria nessuno sa, della Russia tutti ne parlano visto che tale dipendenza comporta conseguenze poltiche ben più serie. Nel 2007 sono stati importati 73.882 miliardi di metri cubi, complessivamente l’87% del gas immesso in rete. Dopo Algeria (33,2% del gas totale importato) e Russia (30,7%), a garantire il gas richiesto sono la Libia (12,5%), l’Olanda (10,9%) e la Norve-
gia (7,5%). Il restante 5,2% del gas importato proviene da altri Paesi. Dalla Russia arrivano nel nostro Paese 60 milioni di metri cubi di gas al giorno. Ma che non siamo soli in quest’imbarazzo è confermato da ulteriori dati che fanno di questa realtà un problema a dimensione europea. Alcuni Paesi dell’Unione dipendono fino al 100% del loro fabbisogno dal gas fornito dalla Russia. E se l’Italia copre il 27% dei suoi consumi con il metano di Mosca (dati Agenzia Internazionale dell'Energia) si inguaia ad ogni “capriccio” di Gazprom - il 30,7% secondo i dati del ministero dello Sviluppo economico – la situazione di Estonia, Finlandia, Lettonia Lituania e Slovacchia, che importano dalla Russia il 100% del gas di cui hanno bisogno, rasenta il tragico. È poi la volta di Bulgaria (90%), Grecia (81%) e Repubblica Ceca (78%), anche loro gravemente dipendenti. Una dipendenza importante anche per Austria (67%), Ungheria (65%) e Slovenia (51%), mentre Polonia (46%) e Germania (39%) si abbassano a livelli più “umani”. Vicinissima all’Italia, la Romania (31%) mentre Francia e Belgio guardano il fenomeno Gazprom con ostentato distacco,
coprendo solo il 16% e il 4% dei propri consumi di gas con forniture russe. Assieme a Gran Bretagna, Danimarca, Irlanda, Lussemburgo, Olanda, Portogallo, Spagna, Svezia, Cipro e Malta, che possono dirsi orgogliosamente svincolati da Mosca. Il quadro, a parte gli ultimissimi casi, è tetro e vede Mosca tentare di far valere la propria posizione non solo economicamente, ma anche e soprattutto politicamente. La monopolista Gazprom, in mano al governo, è un vero ed efficace srumento di pressione, in grado di mettere in ginocchio popoli, governi ed economie. E quando l’inverno si affaccia minaccioso – in particolar modo sui paesi dell’est – uno spettro di nome Gazprom s’aggira per l’Europa e molti tremano, non solo di freddo. Insomma, se negli anni bui della guerra fredda si poteva a ragione parlare di “pericolo rosso” oggi si può non a torto ragionare sul “pericolo russo”: una vocale non cambia la sostanza. La gran parte del metano russo arriva attraverso l’Ucraina. Per questo motivo ad ogni crisi russo-ucraina l’Europa dipendente rischia di farne le spese. E la Russia, che chiudendo un
rubinetto manda in tilt l’Unione, gongola beandosi della propria potenza. Due piccioni con una fava dunque, tanto da lasciar credere che l’accusa di rubare gas rivolta alla Ucraina sia assolutamente pretestuosa, mirante da un lato a mettere in guardia l’Ucraina dalle proprie ambizioni di affrancamento e avvicinamento politico all’occidente (nota l’aspirazione a Ue e Nato), dall’altro a spedire messaggi trasversali all’Europa. Il vecchio continente fatica a porre in essere strategie che puntino all’indipendenza energetica. Emblematico il caso dell’Italia, incapace persino di istallare un inceneritore. E i dati restano impietosi: secondo Eurogas, la federazione che riunisce le compagnie del gas europee, nel 2007 i Paesi Ue hanno consumato 505 miliardi di metri cubi di gas naturale. A fronte di ciò, l’offerta di gas europeo è in costante calo. Ecco il trend: entro il 2020 non dovrebbe più arrivare a un terzo dei consumi, per scendere a un quarto entro il 2030. Sarebbe fatale. Assolutamente da evitare, attraverso la ricerca e l’attuazione di canali alternativi di approvvigionamento, come il gasdotto Nabucco, che dovrebbe portare in Europa metano del Mar Caspio da Azerbaigian,
Turkmenistan, Kazakistan e, forse, Iran. Tale progetto però, subisce il costante boicottaggio della Russia che attraverso una certosina opera di persuasione – con metodi tutti russi – rallenta incredibilmente il tutto. Un’altra strada è costituita dallo sviluppo di gas naturale liquido, che però richiede la costruzione dei “famigerati” rigassificatori, che richiedono aspre lotte con le comunità locali – in Italia ne abbiamo avuto un saggio. Tornando all’attualità, che si incastra perfettamente con l’analisi fatta sinora e lascia intravvedere gli scenari fututi, la società statale dell’energia ucraina Naftogaz ha ripreso a ricevere gas in transito dalla Russia verso l'Europa, dopo la firma con Mosca. L'ordine di riprendere le forniture di gas è stato corredato dalla firma di un contratto di
dieci anni tra Mosca e Kiev. Ma i trattati, si sa, quando c’è di mezzo la politica di potenza non sono che pezzi di carta... Intanto, un anno fa, il gabinetto bulgaro ha deciso di consentire al gasdotto South Sream di passare attraverso il proprio territorio nel percorso che va dal Mar Nero all’Europa Meridionale. Questo progetto è però rivale del suddetto Nabucco, sostenuto da Unione Europea e Stati Uniti. C’è da considerare che il South Stream sarà sviluppato da Gazprom congiuntamente alla italiana Eni. Tali complicati intrecci dagli imperscrutabili esiti descrivono tutto il male della dipendenza, rafforzando una convinzione: cominciare a far da sé tentando di provvedere a se stessi. Francesco Di Rosa
I messaggi al sistema finanziario e alle economie europee
Ecofin 2009 che a Bruxelles si procederà prima sui Paesi che si trovano in deficit pubblico sopra il 3% già nel 2008. Si tratta di Irlanda, Grecia, Spagna, Francia e Malta. Il 18 febbraio la Commissione europea presenterà i rapporti su tali Paesi, un secondo gruppo di paesi, invece, sarà al centro dell’analisi comunitaria successivamente. Anche se ai fini di una dinamica interna tali previsioni incidono minimamente, dal punto di vista della situazione complessivamente considerata nell’ambito dell’economia europea, occorre sottolineare che gli altri Paesi stanno peggio. L’intera Europa è in recessione, la locomotiva tedesca farà anche peggio dell’Italia, con un secco -2,3% e a tal proposito non manca un apprezzamento per il piano anticrisi predisposto dal Governo italiano. E’ sufficiente accontentare le istituzioni europee per uscire dalla crisi? Oppure è solo un modo per rispettare degli obblighi vincolistici? Rispondere a queste due domande significherebbe prender atto di una drammatica realtà: non è sufficiente soddisfare le richieste di stabilità dell’UE e non è altrettanto risolutivo rispettare i parametri europei su deficit e PIL, però le politiche da adottare al fine di poter percorrere la strada di uscita dal
tunnel della crisi economica sono quelle che soddisfano comunque i vincoli europei. Come dire i governi europei si trovano sulla buona strada se nel corso di questa crisi riescono a rispettare i parametri del deficit e del debito pubblico, in modo da tenere sotto controllo la crescita e i conti pubblici. Ma quello che realmente occorre alle economie europee è uscire di forza e al più presto da una crisi lunga e logorante. Quindi, bene ai governi che rispettano il patto di stabilità, bene anche a quelli che li rispetteranno in forza di una crisi aggressiva che magari attecchisca di più in alcuni paesi e meno in altri. Insomma la flessibilità nel rispetto dei vincoli è doverosa per quei Paesi che non riescono a contemperare politiche di riequilibrio dei conti pubblici con quelle delle crescita. Un minimo di tolleranza le istituzioni europee comunque debbono averla, e debbono concederla alle economie che trovano maggiori difficoltà nel risalire la china; comunque gli obiettivi del contenimento del debito e del disavanzo sono indispensabili per limitare i danni della crisi che con sé ha già fisiologicamente prodotto notevoli difficoltà nei vari sistemi economici distorcendone le dinamiche di crescita e di sviluppo. In linea con gli altri Paesi eu-
ropei, l’Italia non ha ancora presentato a Bruxelles le sue previsioni. Sono in via di ulteriore limatura, osservano i collaboratori del ministro dell’economia, e in ogni caso non si discostano di molto da quelli della Commissione europea: il PIL in flessione tra l’1,7 e il 2% e il deficit attorno al 3,8%. L’aggiornamento del programma di stabilità dovrebbe comunque essere inviato a breve, per l’esame in uno dei prossimi Ecofin. L’esposizione per ora è verbale, con un focus particolare sugli interventi messi in campo finora attraverso il decreto anticrisi all’esame del Senato, e soprattutto sulle ulteriori misure in cantiere. Il confronto con Bruxelles sui fondi aggiuntivi pari a circa 8 miliardi da utilizzare per gli ammortizzatori sociali è in corso. Si tratta di risorse europee, parte del Fondo sociale. Se come sembra non incontreranno obiezioni da parte della Commissione, farebbero parte del pacchetto che il Governo si appresta a discutere con le parti sociali e con le Regioni. La partita sarà di non semplice definizione, soprattutto dal punto di vista della concreta allocazione dei fondi, diretti in gran parte con vincolo di destinazione alle Regioni del Sud e alle aree svantaggiate del Paese. Vista la situazione della finan-
za pubblica e dell’economia in generale, è necessaria una combinazione equilibrata di incentivi e prudenza. Questa combinazione sembra del resto già esistere nelle misure attuali. Come ha sottolineato il cancelliere tedesco Angela Merkel quella in atto è la prima crisi mondiale nella moderna globalizzazione. La Germania ha messo in campo un maxipiano da 80 miliardi che si aggiunge ai massicci interventi già disposti alla fine del 2008. Ogni Paese cerca la sua strada in una “cornice” europea. C’è la partita dell’auto, e ora dopo il via libera di Bruxelles, si ragiona concretamente in termini di aiuti al settore, Tremonti ha annunciato che su questo fronte l’Italia si allineerà all’Europa. Un appello da parte della Banca d’Italia è stato poi girato al sistema bancario, “le banche si impegnino a far ripartire il credito”. Questo è stato l’appello che è scaturito dall’incontro tra il Direttorio di Palazzo Koch e i vertici delle principali banche italiane. Le banche hanno confermato come la crisi finanziaria internazionale, che ha mostrato punte di particolare intensità nell’ultimo trimestre del 2008, le abbia in questi mesi interessate in misura marginale. Il significativo deterioramento del quadro con-
giunturale, richiede ora alle banche un particolare impegno sul piano del credito. La crescita dei prestiti continua a decelerare. La discussione ha messo in luce che nel corso del 2009 sarà necessaria grande attenzione a preservare la qualità degli impieghi. Ma assicurare un’adeguata disponibilità di credito, evidenzia Via Nazionale, è essenziale per la crescita del sistema economico ed è al centro delle strategie delle banche. L’appello dell’Ecofin: “ora tocca a voi”, ora è necessario insomma che si ritorni a concedere prestiti alle imprese ed alle
famiglie. L’effetto integrato di questi appelli dovrebbe tradursi in una concreta politica dell’unione europea, dove tutti gli Stati adottando politiche di risanamento e di crescita dovrebbero produrre il risultato di uscire al più presto dalla crisi, o quanto meno di attenuare il più possibile gli effetti negativi della stessa. A corollario di tutto occorre anche non fasciarsi la testa, rimboccarsi le maniche ed essere ottimisti; si tratta comunque di lavorare anche sull’aspetto psicologico delle forze produttive di un Paese. Avanzino Capponi
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La Piazza D’Italia - Esteri Per un medio oriente più libero?
Bombe su Hamas Era atteso ma non si conoscevano le reali dimensioni, era stato annunciato ma non si volevano credere le intenzioni.Quello che si è scatenato su Gaza è un intervento dirompente non solo sulla vita di quel lembo di terra governato da Hamas ma anche per quello che ne scaturirà al suo termine. Le preoccupazioni sull’effetto che l’offensiva avrà sul quel popolo di disperati usati come carne da macello da mettere in mostra davanti alle telecamere, al fine di indignare l’opinione pubblica mondiale da parte di Hamas, sono spinte da un giusto sentimento di naturale umanità. Per questo le reazioni nel mondo erano scontate, quello arabo parla di ingiustificata aggressione, fa appello all’ONU e alla comunità internazionale, quelle occidentali invece mantengono una posizione di equilibrio che nel giro di poco comunque saranno a “favore” della compagine palestinese. Il motivo sarà senza dubbio il numero di civili che verranno coinvolti (Hamas ha da sempre posto i suoi siti strategici in mezzo alle case) in questa operazione che Israele aveva programmato da tempo ma che ha avuto il via libera del Governo Olmert solo il 25 dicembre.
Dopo i primi vagiti e moniti da parte dei vari leader arabi sono cominciate però ad arrivare dichiarazioni che dipingono una situazione un po’ diversa: un esempio è la protesta da parte di Abu Mazen per aver raccolto in un luogo a rischio tutti i detenuti di Fatah (arrestati per la disputa sul controllo di Gaza) da parte di Hamas, poi diventati vittime di un bombardamento, oppure la dichiarazione del Ministro degli Esteri egiziano che accusa Hamas di non aver permesso per troppo tempo il transito in Egitto dei feriti tramite il valico di Rafah appositamente aperto, e ancora Fatah accusa Hamas di non aver voluto trattare una nuova tregua e per questo di essere responsabile della reazione israeliana e che è pronta a riprendere il controllo di Gaza. Questo a significare che l’annientamento di Hamas o un suo più realistico indebolimento, sarebbe ben visto da una buona parte di Paesi (Iran e Siria ovviamente esclusi) che per garantire l’ordine al proprio interno, fanno dichiarazioni di facciata contro il piano di Israele. Non è una partita di calcio, non c’è da tifare, ci sono due schieramenti che si contrappongono e per forza uno deve sopraffare l’altro. Non esistono
tregue, non esistono conferenze e dialoghi. Gli equilibri dopo decenni di scontri, più o meno lunghi e violenti, non possono che essere definiti da una resa dei conti tra le parti per porre fine alla contesa. Israele ha lasciato Gaza nel 2005, da quel momento il territorio è stato nelle mani dei palestinesi, prima sotto Abu Mazen, poi, dopo violentissimi scontri fratricidi, Hamas ha messo alla porta Fatah e con esso l’ANP e ha preso il controllo del territorio sancendo così de facto l’interruzione dei colloqui di pace con Israele. Lo Stato ebraico, malgrado incontri e promesse, sa perfettamente che finché ci sarà il feudo di Hamas la pace non si potrà mai realizzare perché il fondamento di tutto è la coesistenza di due stati in pace e in sicurezza e Hamas questo non lo vuole. Come potrebbe essere attuabile un accordo con Abu Mazen e l’ANP mentre Hamas a sud continua a lanciare razzi? Cosa rimarrebbe di un ipotetico accordo al momento di una reazione, in nome del sacrosanto diritto all’autodifesa, per fermare il lancio da Gaza come quello che Israele sta portando avanti? Hamas vuole la distruzione di
Israele. Questa è la situazione che bonariamente il contesto internazionale ha sempre cercato di mitigare, è quindi scontato che non sia possibile alcun approccio che non sia quello armato. Ma la cosa da considerare in ambito mediorientale è che quanto si sta verificando a Gaza il mondo potrebbe doverlo sostenere anche con un Iran che non ne vuole sapere di cedere alle pressioni per l’arresto del processo nucleare. Quello attualmente in atto è lo specchio di un sistema mondiale che sta ultimando il suo ciclo: il prezzo altissimo pagato da tutti i paesi nella seconda guerra mondiale ha imposto giustamente un approccio da parte dell’occidente che scongiurasse quanto più possibile un dispendio di vite. La storia insegna, e molto. Soprattutto mette in evidenza differenze sostanziali su come la cultura di una parte del mondo sia andata in una direzione mentre un’altra non ha fatto lo stesso percorso. Il fatto di continuare a perseguire la distruzione senza se e senza ma, da parte di Stati e organizzazioni come l'Iran, la Siria, Hezbollah e Hamas, pur di vedere alimentato il proprio potere (in barba al bene dei loro popoli) sta portando il nostro mondo
verso quel crinale di sofferenza che speravamo di avere ormai alle spalle. Improbabile che su questo pianeta possano coesistere tutti senza tensioni e guerre quindi bisogna rassegnarsi, pensare ad un oculato intreccio di alleanze
perché solo tramite una complessa rete di accordi tra i Paesi sarà possibile rallentare, interferire e magari bloccare tensioni che andrebbero a toccare interessi comuni tra entità profondamente distanti tra loro. Gabriele Polgar
La devastazione di uno Stato
Ricordando la Somalia Il territorio della Somalia è in gran parte arido e semi-arido ad eccezione del sud, più fertile. La sua povertà è profonda e tragica non solo nell’economia ma anche nelle istituzioni politiche e nella qualità della vita. A tutto ciò c’è una spiegazione: la guerra civile che si scatena da anni con drammatiche situazioni umanitarie e spesso poste in seconde piano rispetto alle più riconosciute zone di crisi come Iraq e Afghanistan. Compiendo un veloce percorso storico, ricordiamone le sue travagliate vicende dalla seconda metà del ‘900. Dopo l’indipendenza (Somalia Italiana e Britannica nel 1960; Stato del Gibuti ed ex Somalia Francese nel 1977), nel 1964 e 1977 ci sono 2 guerre contro l’Etiopia (governata da cristiani) per motivi territoriali: era conteso il territorio rimasto all’Etiopia ma popolato da Somali, in seguito alla divisione delle terre colonizzate, effettuata dalla Gran Bretagna nella seconda metà dell’800. Dal 1961 al 1991 il Paese è governato dal dittatore Siad Barre. Un colpo di stato militare portò al potere il generale e verso la fine degli anni ’70 iniziano a formarsi organizzazioni di guerriglia ostili al regime. Da qui incomincia un periodo di guerra civile
intermittente che dura ancora oggi e vede contendersi diversi protagonisti. Nel ’91 Barre venne estromesso e la lotta per il potere che ne segue coinvolge diversi gruppi tribali con un crescendo esponenziale e drammatico di violenza, il tutto, accompagnato da una terribile carestia. Il conflitto diviene così confuso e atroce che decreta addirittura il fallimento della missione ONU. Gli Americani si ritirarono nei primi mesi del 1994 provocando la capitolazione della progetto UNOSOM. Nel ’95, l’ONU, incapace di far fronte alla situazione e all’evolversi del conflitto Somalo, ritira le proprie forze. Questo periodo è caratterizzato dalle terribili violenze dei “Signori della Guerra”, i temibili capi clan che sottomisero la popolazione e costrinsero alla fuga anche i caschi blu dell’ONU. Alla fine degli anni ‘90 ci sono significativi scambi diplomatici e solo nel 2004 sembra concludersi il processo di pacificazione; viene eletto dall’IGAD (organizzazione politico-commerciale formata dai paesi del corno d’Africa) un parlamento federale e vengono nominati un Presidente ad interim e un Governo, il Governo di Transizione Somalo. Queste istituzioni si mostrano
subito fragili e non in grado di governare il Paese, soprattutto a causa della dura opposizione dei signori della guerra di Mogadiscio, per altro quasi tutti componenti del governo stesso. Così, in seguito alla 14a Conferenza di Pace, proprio per questa loro presenza nel potere, i vari signori decidono di accordarsi per creare un altro governo e Mr Yusuf, il più potente di loro, viene eletto Presidente. Nel 2006 il governo dei Signori avvia un’ambigua guerra ad Al qaeda, colpendo anche molti integralisti inoffensivi con attacchi molto violenti. Nessuno li ferma o è capace di farlo; la popolazione si schiera a difesa dei perseguitati. Inevitabilmente, nel 2006 sopraggiunge una nuova crisi: le milizie controllate dalle Corti Islamiche, cacciano da Mogadiscio, con l’appoggio della popolazione, i Signori della guerra. Per impedire il rovesciamento del Governo internazionalmente riconosciuto, l’esercito etiope corre a dare man forte a quello governativo. Ma i Signori perdono il controllo della capitale e si rifugiano a Baidoa, a circa 250 km dalla capitale. Le Corti stabiliscono una calma relativa nella società somala: dopo 11 anni riaprono persino il porto e l’aeroporto
e scendono i prezzi di molti beni di prima necessità. Tutto questo viene ottenuto però, con esecuzioni sommarie e gravissime riduzioni delle libertà, come anche la chiusura dei cinema. Per chiarire e ricordare, l’Unione delle Corti Islamiche raggruppa le varie corti di quartiere che esistevano a Mogadiscio; fondate e finanziate da uomini d’affari negli anni ’90, esse avevano la funzione di sistemare le contese locali, d’ interessarsi all’aspetto sociale della zona, di combattere il banditismo e l’impunità delle fazioni armate. Tutto questo anche attraverso la creazione di proprie milizie, vista l’assenza di un forte potere centrale. Si uniscono nell’Unione delle Corti dopo le persecuzioni del 2006 da parte dei Signori della guerra. Esse tentarono anche di introdurre la Sharia, la legge tradizionale Islamica, ma non vi riuscirono a causa della forte frammentazione politico-sociale del Paese. Rinunciarono quindi alla creazione di uno stato Islamico e quindi al controllo religioso e si fermarono alla conquista del potere politico. Una Somalia ormai ripiegata su stessa, vede il riacutizzarsi degli scontri tra le corti e i signori nella seconda metà del 2006, quando il Consiglio di Sicurezza dell’Onu approva
la risoluzione 1725, che da il via libera formale (revocando l’embargo delle armi al governo federale) ad una forza internazionale regionale di monitorare e mantenere la sicurezza a Baidoa e, di fatto, permettendo il riarmo alle istituzioni transitorie. L’esercito Etiope, sostenitore delle forze di Baidoa, entra così nella capitale e ne seguono violentissimi scontri che provocano migliaia di vittime. Nel Gennaio del 2007 gli Stati Uniti decidono di entrare militarmente nel conflitto a supporto dell’esercito Etiope; numerosi civili restano vittime degli scontri e l’azione è fortemente criticata dall’Unione Europea e dall’Onu. Nei primi giorni di marzo, giungono nel Pese martoriato le truppe ugandesi della missione di pace dell’Unione Africana, incaricate di controllare la capitale e contrastare il ritorno delle milizie islamiche. Nonostante ciò, gli scontri aumentano ancora d’intensità e la situazione a Mogadiscio precipita di nuovo, come da anni non accadeva. Gli scontri tra le truppe etiopi, il governo di transizione, i signori della guerra e le milizie islamiche devastano il paese. Tra violenze, epidemie e caos, nell’autunno del 2007 la Somalia è in piena catastrofe umanitaria e gli sfollati hanno
raggiunto quota un milione. Nel giugno del 2008 viene concordato un accordo tra governo somalo, parte dell’opposizione e l’Etiopia, esso prevede: la fine degli scontri armati, l’ingresso delle forze internazionali e il ritiro dei militari etiopi. Per pervenire a tale accordo, finalmente sono state coinvolte le realtà moderate collegate alle corti islamiche. Alla fine del dicembre 2008 il presidente Abdullahi Yusuf Ahmed ha rassegnato le dimissioni dichiarando che la sua decisione è dovuta all’impossibilità di portare la Somalia ad una fase seria e vera di pacificazione ed accordo tra le parti. Inoltre ha criticato fortemente la comunità internazionale per il mancato sostegno economico, senza il quale non è possibile formare un esercito in grado di contrastare le corti islamiche e gli altri gruppi che si contendono il potere. E’ di pochi giorni fa la notizia che si è avviato il ritiro delle truppe etiopi dalla Somalia. Di fronte a una situazione così grave e rispetto agli altri conflitti nel mondo degli ultimi anni, sembra davvero ingenuo pensare che la diplomazia e l’intervento internazionale siano stati sconfitti dalla guerra civile che infuria in questo paese.
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La Piazza D’Italia - Approfondimenti Karl Popper contro il potente mass media
Televisione: intreccio di potere e violenze I giovani sono il futuro. Diciamo la verità senza veli, qualcuno potrebbe essere spaventato da questa affermazione, perché generalizzando, a guardarsi bene intorno, i ragazzi di oggi che hanno un’età compresa più o meno tra i 14 e 22 anni spesso e volentieri non mostrano un bel panorama del loro mondo e del loro modo di relazionarsi alla realtà che li circonda e di ciò a volte, pare anche che se ne compiacciano. I motivi di questo sbando sono diversi e piuttosto gravi ma uno li riassume forse un po’ tutti: la fortissima mancanza di modelli buoni. C’è un mezzo di comunicazione di massa che senza ombra di dubbio ha un potere enorme: la televisione. Essa offre tutto ma tragicamente anche dei modelli. Dico “tragicamente” perché se nel secondo dopoguerra ha assunto immediatamente un incredibile ruolo educativo e positivo facendo l’Italia e soprattutto gli Italiani, oggi essa è per gran parte nociva a chiunque posi lo sguardo su di un qualsiasi programma, eccetto alcune trasmissioni. I modelli che essa offre possono rappresentare un pericolo per la giovane mente di un qualsiasi adolescente che la guarda e che si sta formando un’idea di ciò che lo circonda, perché
essi non si pongono il fine di educare civilmente e sono fortemente fuorvianti dalla realtà. Quindi come la TV può insegnare, può anche diseducare, sempre e comunque proponendo, interpretando, intrattenendo e divertendo e visto che essa arriva velocissima a tutti e indubbiamente presenta stereotipi, forma opinioni e presenta modelli, essa ha le sue responsabilità nella dispersione giovanile di oggi. Karl Popper (1902-1994) nella sua incessante produzione filosofica, rifletté anche su questa questione e oggi insieme ne parleremo. Ricordiamo che egli, filosofo della scienza e della politica, è considerato uno dei più grandi teorici del pensiero liberale. In “Cattiva maestra televisione” con la lucidità che lo contraddistingue, ci dice che la televisione potenzialmente così come è una sicura alleata del male, potrebbe essere una preziosa paladina del bene. Ma è improbabile che quest’ultima condizione si venga a verificare perché per prima cosa è terribilmente difficile il compito di diventare una forza al servizio del bene e in secondo luogo, più semplicemente, non c’è gente che possa realizzare per più di 20 ore al giorno materia buona e programmi di valore.
Così è molto più facile trovare persone che producano per tutto questo tempo materia scadente e cattiva. Inoltre, più sono le stazioni emittenti, tanto più è difficile trovare professionisti davvero capaci di produrre sia cose interessanti che di qualità. In ultima analisi, la radice del deterioramento della tv sta nel fatto che le stazioni televisive per mantenere la loro audience, devono produrre sempre più genere scadente e sensazionale e quest’ultimo difficilmente è buono. Popper va oltre e afferma, per quanto strano ci possa sembrare visto che è un liberale, che un altro problema altrettanto fondamentale per la tv è che ci sono troppo stazioni emittenti in competizione. Ovviamente esse competono per accaparrarsi i telespettatori e non per un fine educativo; quindi non fanno a gara per produrre programmi di solida qualità morale, introducendo ai bambini una certa forma di eticità. Questo aspetto è importantissimo perché l’etica si può insegnare ai più giovani solo fornendo loro un ambiente affascinante, per mezzo soprattutto di esempi sani e buoni modelli. La possibilità di poter scegliere tra più canali e più trasmissioni
non equivale dunque al rispetto dei principi della democrazia. Al contrario, anche se il contesto è quello di uno Stato liberale, una maggior possibilità di scelta può comportare un forte abbassamento del livello educativo dei programmi proposti, il perché l’abbiamo visto prima e di questo infernale meccanismo dobbiamo esserne tutti consapevoli. Di sicuro nella democrazia, sostiene Popper, un principio vale su tutti gli altri, ossia la difesa dalla dittatura ma, non c’è neppure nulla che dica che la gente che dispone di più conoscenza non debba offrirne a chi ne ha di meno. Anzi, la dottrina democratica per principio e sua essenza, ha sempre incoraggiato e fatto suo l’innalzamento del livello di educazione. Questa è una sua tradizionale vocazione. A questo aspira perché ovviamente più cose si conoscono e sanno, più si ha un’ educazione seria, più si è in grado di opporsi ai pericoli degli abusi di potere. Le produzioni che mirano forsennatamente all’audience e alla competizione offrono invece livelli sempre peggiori e bassi e pare che tutto dal pubblico venga accettato, purché il condimento sia fatto di violenza, sesso e sensazionali-
smo. Ma il pericolo che deriva da questo circolo vizioso è gravissimo: Popper insegna che più si impiegano questi condimenti, più si educa la gente a richiederne. Non valgono dunque le ragioni di chi a tutto questo risponde dicendo che una persona che non ama un certo programma ha la possibilità di cambiare perché, per prima cosa, abbiamo capito che in una democrazia l’educazione e la qualità delle cose hanno un valore fondamentale, quindi alcuni programmi non dovrebbero neanche essere pensati; in secondo luogo la competizione per l’audience favorisce materiale scadente, quindi anche se si ha la possibilità di girare canale, sempre mondezza si trova e terzo punto fondamentale, la gente deve essere abituata al bello per richiedere cose di qualità, altrimenti come già detto sopra, la quotidianità del brutto chiede sempre più avidamente cattivi condimenti. Le persone che fanno televisione devono capire che hanno una responsabilità enorme: che gli piaccia o no, sono coinvolte nell'educazione di massa che è un tipo di educazione terribilmente potente e importante e tra le tante cose che devono tenere bene a mente una è di base e l’inizio di tutto: i bam-
bini vengono al mondo strutturati per un compito, quello di adattarsi al loro ambiente e insegnare ai bambini e ai ragazzi significa influenzare il loro ambiente in modo che possano prepararsi per i loro futuri compiti: diventare cittadini, lavorare, diventare padri e madri e via dicendo. La soluzione non è nella censura ma sta in un lavoro preventivo su chi vuole lavorare in questo mondo, cercando di responsabilizzarlo il più possibile. Questa è un’operazione urgentissima e assolutamente necessaria per salvaguardare la democrazia stessa. In quanto, dice Popper, la democrazia consiste nel mettere sotto controllo il potere politico; ma ora è accaduto che la tv è diventata un potere incredibile, anzi forse ormai il più importante di tutti e “una democrazia non può esistere se non si mette sotto controllo la televisione, o più precisamente non può esistere a lungo fino a quando il potere della televisione non sarà stato pienamente scoperto” (pag 80). Quando i nemici della democrazia capiranno fino in fondo questa sua potenzialità, allora la useranno in tutti i modi, anche nelle situazioni più pericolose. Ma a quel punto, sarà già troppo tardi. Ilaria Parpaglioni
La preoccupazione del numero uno di Bankitalia Mario Draghi
Divario tra Nord e Sud Non si tratta di una questione certamente nuova e sconosciuta sia a livello politico che a livello sociale. Quella del divario tra Nord e Sud è una problematica che risale alla Seconda guerra mondiale, quando l’Italia comincia a seguire un andamento a due velocità. La dinamica economica settentrionale sembra avere una marcia in più, i tassi di crescita delle Regioni del Nord sono maggiori di quelli delle Regioni del Sud, un’Italia dunque, che presenta una gap che nel corso dei decenni si è progressivamente incrementato a scapito soprattutto della performances complessiva che può esprimere il sistema economico nazionale. Le perplessità dei più attenti studiosi erano proprio riferite non tanto alla possibilità di raggiungere una unità territoriale, quanto quella di realizzare conseguentemente una omogeneità nel livello di crescita e sviluppo. Era ovviamente plausibile, già da tempo, che l’economia meridionale si caratterizzasse per la sua forte vocazione agricola, mentre quella settentrionale avesse, al contrario, una attitudine alla managerialità, al fare impresa. Oggi, quelle perplessità si sono confermate in maniera integrale, anzi,
ancora una volta al centro del dibattito politico e parlamentare permane la questione dello squilibrio economico fra Nord e Sud. Proprio oggi, in un pranzo di lavoro a Montecitorio, i due leader, il presidente della Camera Gianfranco Fini, e il premier Silvio Berlusconi, avrebbero avuto un colloquio sulla questione dello squilibrio. Fini avrebbe chiesto al premier di non abusare della decretazione d’urgenza e di coinvolgere l’opposizione nella riforma della seconda parte della Costituzione e della giustizia. Dunque il confronto sullo scenario economico e sulle ricadute sociali della crisi ha portato alla conclusione che il divario tra Nord e Sud risulterà ancor più accentuato. Sul tema è intervenuto anche il Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, il quale indica come via d’uscita dalla crisi il “creare spazio per liberare le forze del Paese che sono in grado di innovare”. Il numero uno di via Nazionale cita le parole dell’ex Governatore: “Non sono sopite nel Paese forze rigogliose che accettano le condizioni nelle quali il genio dell’innovazione si sviluppa in finezza sotto la costrizione dell’aumento del rischio, in un mercato che
si estende fino ai confini del mondo”. Quindi, prosegue Draghi, “chiunque abbia o possa avere responsabilità di comando nella sfera pubblica e nella sfera privata, può creare lo spazio, intelligentemente ordinato, perché queste forze possano agire. Così renderemmo omaggio a un grande italiano e a un grande europeo”. Draghi cita a più riprese passaggi dei discorsi di Guido Carli, fa riferimento in particolare agli appelli rivolti agli imprenditori che “devono ricercare un sistema politico che permetta l’innovazione economica. Un sistema politico che non permette rinnovazione sociale, l’alternarsi tra i gruppi, non ammette neanche l’innovazione economica”. Carli proponeva un tipo di intervento che costituiva una mediazione fra il libero gioco delle forze di mercato e un dirigismo fra i più vincolanti che veniva invocato da alcuni attori politici: le misure messe in atto da Carli passavano comunque attraverso il mercato, erano con esso compatibili e avevano la caratteristica della reversibilità”. Secondo Draghi, “non è inutile” chiedersi come avrebbe reagito un economista con l’esperienza di Carli di fronte ad una crisi come quella attuale: nel novembre
del 1987, ricorda il Governatore, commentò in Senato il crollo di borsa avvenuto a New York nel mese precedente, sostenendo: “è impossibile la coesistenza a tempo indeterminato di un elevato disavanzo del governo federale degli Stati Uniti, di tassi di interesse stabili o sollecitati verso il basso, di un cambio del dollaro stabile”. Il divario tra Nord e Sud, rimarca Draghi, è una delle principali preoccupazioni della Banca d’Italia. Ancora una volta cita Guido Carli, facendo riferimento alla sua denuncia degli squilibri che rilevava nel Paese nel ’69: “gli squilibri non erano solo intersettoriali, ma anche territoriali”, per cui il divario tra Nord e Sud era allora e rimane oggi una delle preoccupazioni maggiori della Banca centrale, commenta Draghi. Quello che occorre rilevare però, è un classico all’italiana: è vero che tutti i principali rappresentanti delle istituzioni politiche e finanziarie del Paese si sono pronunciati con preoccupazione sulla questione annosa del gap Nord-Sud, ma è altrettanto vero che al di là di mere citazioni che hanno sicuramente una valenza storica e sicuramente hanno avuto i loro effetti nei periodi storici di riferimento, oggi, quel che
ci resta di queste citazioni sono ripetizioni formali che non trovano però politiche concrete atte a risolverle. In una economia globalizzata, dove gli Stati con le proprie performances determinano i tassi di crescita dell’economia europea e soprattutto la loro velocità, l’Italia non può permettersi di correre a due velocità, perché è il sistema Paese nel suo complesso a rimetterci. Inoltre, ci sono delle motivazioni di carattere sociale: la disoccupazione meridionale tende a crescere più del doppio rispetto a quella settentrionale, e sempre più i lavoratori del Sud vanno a cercare un posto di lavoro al Nord, costretti a spostarsi anche con intere famiglie. Non preoccupa tanto la mobilità o la flessibilità del mercato del lavoro quanto la sua precarietà, o il fatto di rimanere disoccupati di lungo corso. Ecco la necessità di politiche concrete ed efficaci che sostengano la flessibilità ma che consentano di creare nuovi posti di lavoro in tutta la penisola. E’ vero che l’economia attuale ha bisogno di spazi per creare opportunità di innovazione, ma alla base di un impianto innovativo o di una creatività imprenditoriale c’è sempre il margine stretto di non poterlo fare per ragioni strutturali.
Quello che i cittadini italiani si attendono dal Governo è l’intervento sostanziale e rapido nel mercato del lavoro, dove oltre a prevedere forme di garanzia per i neo disoccupati al fine di poter mantenere un tenore di vita dignitoso, occorre prevedere misure che modifichino le condizioni attuali di accesso nel mondo del lavoro smantellando un sistema baronale soprattutto nel pubblico impiego, ripristinando l’imparzialità nella valutazione delle graduatorie, e introducendo la meritocrazia ovunque, sia nella sfera pubblica che in quella privata. Per cui tutti debbono partire dal medesimo piano, poi chi vale di più ha diritto a far carriera e quindi ad ottenere scatti retributivi che gli consentano di remunerare la propria meritevolezza. Solo attraverso modifiche di questo tipo si può contribuire alla riduzione del gap tra Nord e Sud. Un invito alle istituzioni sarebbe quello di evitare sempre citazioni dottrinarie sui problemi perché rendono l’idea di un significato molto importante e giusto ma un modo per ovviare concretamente alla risoluzione dei problemi. La politica deve fare bella figura non a parole ma con i fatti.
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La Piazza D’Italia - Approfondimenti
Il medio oriente e la morale della morte Quello che giorno dopo giorno matura nella coscienza umana di fronte a una tragedia come quella di Gaza è un sentimento devastante che mette in discussione ogni singola molecola delle nostre certezze, o almeno dovrebbe. Non ha realmente importanza chi muore e chi uccide nel momento in cui una vita innocente viene strappata: quando, agli occhi di tutti, i corpi straziati di innocenti giacciono riversi in quelle inermi gestualità che solo la morte sa dare, è la disperazione che dovrebbe prendere possesso di ognuno di noi. La disperazione che dovrebbe essere vissuta come catarsi di anime sporcate dall’ideologia, qualsiasi essa sia, di sinistra, di destra, religiosa pro o contro chicchessia. Ed è proprio da questo fenomeno che dovremmo partire per poter almeno tentare di dare un senso a ciò che i nostri occhi impietosi ci lanciano dentro la nostra coscienza. Da oramai settimane sentiamo commentatori più o meno autorevoli che ci propinano teorie storico politiche sulle ragioni del conflitto, sulle reazioni e sulle provocazio-
ni, sugli anni di tensioni e soprusi, sulla speranza, sulla paura, sulla rassegnazione. Tutti alimentati dal proprio credo e quindi mai obiettivi per la parte che vorrebbero convincere. Ma dopo oltre trecento bambini morti la ragione e l’orrore si fondono lasciando una macchia unica, indelebile sulle bandiere di chi combatte, la differenza sarà solamente come verrà vissuto alla fine questo peso enorme che ogni popolo dovrà sostenere. Chi piangerà quei morti e non chi li festeggerà potrà definirsi il vincitore. Ma allora perché tutto questo è accaduto, perché non è stato evitato? Scontato era l’uso delle armi dopo il lancio continuo di razzi, scontato era l’uso degli scudi umani, scontati gli errori, le valutazioni e le considerazioni, gli “effetti collaterali” e la presa sulla gente. La risposta la potremmo trovare nei libri di storia o nelle cronache degli ultimi anni ma realmente perché tanti innocenti siano morti non potrà mai trovare una risposta che potrà appagare le nostre coscienze. Forse anche perché tendiamo a relegare l’operato umano come
un percorso maledetto che un qualcosa di non umano dovrebbe correggere o quantomeno spiegare. Probabilmente uno Stato che è minacciato dalla sua nascita deve avere le spalle sufficientemente larghe per poter sopportare l’orrore di tanto sangue come anche il suo popolo. Deve essere capace di sopportare i giudizi di tutti coloro che vedono la sofferenza in TV e che per questo si sentono moralmente maturi per poter esprimere giudizi istintivi dettati da una morale vuota degna dei bigliettini trovati nei dolcetti cinesi o forse peggio. Spesso la gente che legge e vede di sfuggita immagini orribili, non si rende conto di come da quel momento diventa una parte di un’arma potentissima a disposizione di chi fa leva sulla compassione tutta occidentale. Quando quest’arma sofisticata, che gli integralisti hanno, capirà come è stata usata anche questa volta, si troverà a fare una scelta non tra torto o ragione ma di coscienza e di coerenza. Quanti alla luce reale dei fatti, qualora fossero diversi da come sono apparsi in un
primo momento, avranno il coraggio di dire che si erano sbagliati e quanti invece appoggeranno con ancora più forza la causa di Hamas solo per non dire “ho sbagliato”? Ecco la cosa che dovrebbe intimorire più di tante altre. La nostra è oramai una cultura confusa, facciamo riferimenti continui alla saggezza e alla pietà ma guai a chi ci tocca la macchina, che si ancora ai principi fondamentali perché ha rinunciato ad una reale evoluzione interiore,
le domande che ci poniamo sono sempre meno, appaltiamo le nostre riflessioni a qualche commentatore o cantante e nel frattempo reagiamo in modo isterico senza renderci conto di quanto tutto questo ci abbia resi vulnerabili e perfetti per essere plasmati da chi in realtà contabilizza i morti per fini che di umano hanno ben poco. Purtroppo coloro che trattano la morte degli innocenti con tanto cinismo saranno coloro che continueranno ad
usarci, ci renderanno la vita sempre più pesante perché per loro la carne da macello ha un prezzo molto basso e costa meno delle munizioni che dovrebbero sparare per raggiungere il medesimo obiettivo. Una situazione, questa, che ci impone di cercare la verità anche a casa nostra, perché ci sono fior di "soldati" che usano la suddetta arma anche nei nostri media. Gabriele Polgar
Dalla recessione alla depressione? Il timore che l'attuale crisi economia e finanziaria possa caratterizzare ancor più in maniera negativa l'andamento della congiuntura internazionale è diffuso e condiviso, ma che possa addirittura determinare il passaggio critico da una fase di recessione ad una di depressione forse è prematuro assiomatizzarlo. La fiducia dell'America in se stessa è sicuramente molto scossa: il Presidente uscente si chiede se l'attuale crisi economica e finanziaria non sarà peggiore della Big Depression degli anni '30. Ma è sbagliato essere così pessimisti: dopo un brutto 2009, è probabile che nel 2010 l'economia USA, e globale, si riprenda. L'ipotizzare il trend dell'economia nei prossimi mesi non è così scontato come potrebbe sembrare quando il contesto economico non è invaso da una crisi, diventa, invece, più complicato fare delle previsioni attendibili quando lo scenario è caratterizzato da crisi. Nella fattispecie congiunturale, la difficoltà principale risiede nel dovere di registrare passo dopo passo come l'andamento economico negli ultimi mesi abbia seguito un trend estremamente negativo, dove
i tassi di crescita dell'economia hanno fatto registrare segni al di sotto dello zero, a peggiorare poi questo andamento è stato l'effetto moltiplicatore che dall'embrione americano si è diffuso in Europa generando una crisi globale. La permanenza dei tassi di crescita economici al di sotto dello zero è dovuta alla forte crisi finanziaria che ha devastato i mercati azionari. Comunque, oggi, solo una buona dose di sfortuna e di errori potrebbe far degenerare la recessione in una Grande depressione mondiale. Un numero crescente di uomini d'affari incomincia a chiedersi se gli Stati Uniti saranno in grado di raddrizzare sollecitamente la loro economia. Le previsioni maggiormente diffuse evidenziano una crescita negativa del -1,5%, questa sarebbe una dolorosa recessione, ma poca cosa in confronto al crollo del 10-15% della produzione normalmente associato a una vera depressione. Le previsioni, c'è da dire, sono state sbagliate sul fronte dell'ottimismo, ed è quindi normale che la gente ora rimanga scettica. Con il sistema finanziario sotto respirazione artificiale, il prezzo
delle abitazioni in caduta libera, la disoccupazione in crescita, l'economia americana sembra indebolita come mai lo è stata a partire dagli anni '70, e forse dalla seconda guerra mondiale. Inoltre, occorre considerare che una crescita negativa per oltre due anni è un evento piuttosto raro, anche dopo severe crisi bancarie. Il Giappone sembra che abbia avuto bisogno di un'eternità per riprendersi dalla sua crisi infatti, lo ha costretto a ristrutturarsi mentre contemporaneamente doveva assorbire l'enorme contraccolpo imposto dal prepotente emergere della concorrenza cinese. La paralisi politica che ha prevalso durante l'interregno fra il presidente Bush e Obama non è stata sicuramente d'ausilio. Ora si tratta di sperare nella squadra economica del presidente eletto Obama la quale deve saper adottare una linea più coerente. Già la coerenza sarebbe far fare una passo avanti alla fiducia. Il criterio che deve seguire il nuovo governo americano è quello del mark to market per i prezzi degli asset, dalla ristrutturazione e ricapitalizzazione delle banche, e da una nuova regulation
che consente la creatività, proteggendo meglio però il pubblico da alcune follie che hanno imeprato per più di un decennio. Tutti i giornali hanno messo in evidenza come questa crisi abbia una dimensione planetaria, ed abbia posto in discussione i principi cardini dell'economia di libero mercato, l'intervento pubblico dunque, è necessario per risolvere situazioni critiche e negative. Senza lo Stato il mercato non può autonomamente e liberamente creare le condizioni per far uscire il sistema economico da una crisi. Quello però che occorre sottolineare a tal proposito, è la seguente considerazione: la crisi scoppiata negli Stati Uniti ha avuto una natura prettamente finanziaria che a sua volta ha avuto ripercussioni negative sull'economia reale, cioè quella delle imprese, delle famiglie. Visto che l'economia statunitense si fonda per la maggior parte su un sistema finanziario, questo, una volta crollato, ha prodotto una distorsione nel rapporto finanziario tra le famiglie e le banche, il quale bruscamente ha impedito alle famiglie stesse di poter onorare regolarmente i prestiti
causa l'innalzamento dei tassi d'interesse. Questo meccanismo di inadempienza ha spezzato il rapporto fiduciario ed ha innescato una spirale sfavorendo la rinegoziazione dei mutui. Un enorme numero di famiglie americane hanno visto in poco tempo rastrellare sacrifici per acquisire il diritto di proprietà di una casa, e l'impossibilità appunto di poter guardare al futuro con ottimismo. A questa cristi si è aggiunta quella puramente finanziaria, dove gli speculatori hanno rastrellato il mercato di azioni con rendimenti elevati pulendo gli istituti di credito di contante. Quando la moneta non circola all'interno del sistema bancario si rompe il meccanismo del finanziamento, e questo a sua volta determina un arresto degli investimenti delle imprese. Meno investimenti, meno acquisti, tensioni internazionali frequenti e impellenti, il tutto genera timore, contrazione delle crescita e crollo dei mercati. Oggi, ci si chiede se il nuovo Governo americano sarà in grado di uscire dalla crisi, sicuramente questa non si trasformerà in depressione viste le ingenti iniezioni di liquidità che i governi dei vari
paesi si sono già impegnati ad effettuare, quello, invece, che preoccupa sono i tempi di una ripresa che per velocizzarsi probabilmente avrà bisogno di un governo mondiale dell'economia. Ma visto che a livello politico formale il tavolo si potrà pure formare, il problema nasce quando il protocollo degli indirizzi politici inevitabilmente contrasterà con le decisioni e gli interessi dei singoli paesi.. Sinceramente, un governo mondiale dell'economia sarebbe opportuno per prendere misure di imparzialità, laddove gli interessi sono multilaterali, nelle singole fattispecie invece, ogni sistema economico ha la sua struttura e i suoi problemi, e per risolvere quelli dell'economia reale sarebbe meglio che ogni Governo adottasse misure di crescita e rilancio coerenti con le esigenze della propria collettività. Sicuramente occorre sostenere i redditi, ridare fiducia alle famiglie e alle imprese e garantire a tutti un livello di stipendi adeguato al costo della vita. Solo attraverso il rilancio dell'economia del lavoro, e delle imprese i paesi possono riprendere a crescere.
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1-15/16-31 gennaio 2009
La Piazza D’Italia - Attualità
Il buonsenso di Bossi “Con Berlusconi vince sempre il buonsenso”, finisce così la querelle Lufthansa-Air France/Klm ovvero MalpensaFiumicino. Ancora una volta al momento di vedere le carte, di fronte ai piedi puntati del Premier, la Lega Nord dai graffi passa con disinvoltura alle carezze. Con la partenza della Nuova Alitalia e la scelta da parte del CDA di CAI di privilegiare l’unico vettore internazionale, Air France/KLM, che da subito abbia manifestato un reale interesse per l’azienda della compagnia di bandiera italiana, viene scongiurata la nascita di un altro abominio anti-economico, uno di quelli foriero di sicure postume lacrime leghiste magari da piangere scaricando qualche altro slogan contro il complottismo demo-pluto-romano. E’ già perché quando la Lega Nord si mette a giocare al Monopoli del Capitalismo che conta non servono i fucili di mezzo milione di bergamaschi a lasciare sul campo morti e feriti, come dimenticare il fallimento della già Banca della Lega, CredieuroNord, salvata dalla Banca Popolare di Lodi di Fiorani per €2 ad azione
(dagli €28 iniziali) e secondo le valutazione della Banca d'Italia, che fece un'ispezione dal 10 marzo 2003 al 23 maggio 2003, una gestione capace in meno di 4 anni di mandare in fumo 20 milioni di euro tra perdite e crediti in sofferenza. E come dimenticare la lunatica retorica anti-romana all’indomani della corsa della Banca di Roma, imbeccata dall’allora Governatore di Bankitalia Fazio, al salvataggio dal default della BIPOP CARIRE: a dover essere salvata doveva essere la Banca di Roma e in realtà il salvataggio in extremis – nella visione leghista - sarebbe stato a favore della Banca di Roma da parte della BIPOP CARIRE e non il contrario. Cavalcando il peggio del suo populismo la Lega Nord ed il suo Segretario, trasformatisi da tempo da partito liberista in partito propugnatore di un nuovo centralismo Milano centrico (centralismo che per primi al nord nessuno vuole) aveva con i toni lasciato intendere che per il suo movimento lo sviluppo di Malpensa (di recupero non può parlarsi visto che il secondo scalo milanese non è realmente mai partito) veniva prima di tutto, prima
ancora della salvaguardia del traffico aereo e di persone infinitamente maggiore che gravita attorno a Fiumicino. L’aeroporto – con buona pace di tanti – della capitale italiana doveva adattarsi a trasferire a Malpensa parte del traffico di Fiumicino e questo in un ottica “strategica” e per ripagare le colpe del fallimento di Malpensa ovvero il fatto che la maggior parte dei dipendenti dalla responsabilità dirigenziale di Malpensa vivendo a Roma erano pendolari e costavano troppo alla Società. Al di là delle iperboli politichesi, livello occupazionale per livello occupazionale, l’imprenditore brianzolo che va in Cina, bisognava esser certi che vi andasse direttamente da Malpensa senza che avesse a dover patire scali di alcun tipo era una priorità nazionale. Gli imprenditori di CAI, che per fortuna di impresa e investimenti miliardari si intendono e non di campanilismo da poche lire, devono aver da subito tirato giù due statistiche abbastanza incontrovertibili per cassare come antieconomica la strategia leghista e hanno fatto immediatamente
intendere che non se ne parlava, di qui l’amore della Lega per Lufthansa, un vettore interessato al traffico sulla RomaMilano e ad assistere gli utenti tedeschi sulle tratte mitteleuropee più significative. Quanto sia significativa invece per lo sviluppo del Nord la centralità dello scalo di Malpensa è dimostrato anche dalla prossima manifestazione trasversale per potenziare e non abbandonare l’aeroporto di Venezia che Sindaco e Presidente della Regione Veneto hanno indetto spaventati dalla “centralità strategica” di Malpensa per il nord Italia che il Presidente di CAI Colaninno ha sentenziato annunciando l’accordo con Air France/ Klm. Nel 2015 Milano sarà chiamata ad ospitare l’Expò, per quella data c’è da augurarsi che si sia addivenuti ad una razionalizzazione economica e non demagogica del traffico nel nord Italia, una razionalizzazione che passa per la “devoluzione” (questa sì) di traffico da Linate a Malpensa, senza penalizzazione per gli scali di Bergamo, Torino, Venezia e Verona che sono realtà vitali ed essenziali per il tessuto
piccolo imprenditoriale della pianura padana. Il centrodestra e la Lega, l’alleanza al Governo, gode oggi della fiducia e della simpatia degli italiani ed è chiamata a riforme e a scelte che determineranno il mantenimento e la possibilità di recupero della competitività del tessuto economico del Paese, sono scelte troppo serie per essere vendute in nome di qualche voto in più alle europee o per rosicchiare subdolamente un po’ di consenso all’alleato che ci mette la faccia. Bene ha fatto Berlusconi ha chiarire che non esisteva alcuna proposta Lufthansa, che non esiste una politica pronord dal monopolio leghista e che esiste invece una politica pro-nord della coalizione tutta del centrodestra tutto. Il nord Italia è centrale nella strategia politica del PDL come in quello della Lega, ma all’indomani dell’approvazione del Federalismo Fiscale, quando il Carroccio avrà svuotato il caricatore della pistola che tiene puntata contro il sistema da anni, dovrà decidere una volta per tutte se continuare la sua maturazione in partito regionalista respon-
sabile sul modello della CSU bavarese oppure se cavalcare la tigre autonomista e portare avanti una strategia di tensione contro lo Stato centrale, magari ottenendo dagli alleati la candidatura alla poltrona di Presidente della Regione Lombardia. La battaglia su Alitalia anticipa più di quanto sia dato immaginare probabili attriti nei futuri rapporti all’interno della maggioranza e perché questi non si traducano in altrettanti attriti a livello istituzionale dipenderà dalla tenuta e dalla chiara affermazione del PDL come primo partito nel Nord del Paese. Con buona pace della dirigenza locale ciò continuerà a verificarsi se nel futuro prossimo il messaggio spedito tra la gente da parte della dirigenza del PDL non sarà di debolezza, di condiscendenza alle intemperanze leghiste o peggio di fuga in avanti sui temi che il Carroccio di volta in volta propone sul tavolo, poiché si sa in politica la debolezza non paga né riconduce al buonsenso, tanto più se l’interlocutore che si ha davanti è la Lega Nord di Umberto Bossi. Giampiero Ricci
Altro giro di vite (…a vuoto?)
Stragi sulle strade Il problema delle continue stragi sulle strade è noto ormai da anni e dovuto ad una serie di concause che ne hanno fatto assumere a tratti le dimensioni di una vera e propria mattanza. Ad ogni nuovo risalto dato dai mezzi di comunicazione alla questione è sempre seguita da parte dell’esecutivo di turno la risposta attraverso il cosiddetto “giro di vite”, formula caratteristica del modo di comunicare politico e che dovrebbe avere come significato l’inasprimento dell’attenzione del Governo al problema con conseguente programmazione di strumenti e risorse per la risoluzione o, quanto meno, per la riduzione del problema. “Giro di vite” o “pugno di ferro” che sia, tutte le intenzioni degli esecutivi che si sono succeduti da quando il problema si è presentato altro non hanno fatto che manifestarsi in continui inasprimenti della normativa di settore. Non è stato soltanto in occasione del problema dell’alto tasso di mortalità conseguente agli incidenti stradali che tale soluzione è stata adottata ma degli altri ce ne occuperemo in altre occasioni. Come tutti gli esecutivi anche il Governo attuale ha ben pensato di modificare, per l’ennesima volta, le norme del Codice della Strada prevedendo inasprimenti al limite del draconiano. Tutto questo
naturalmente come risposta forte al problema, come vera presa di coscienza delle dimensioni e delle conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti. Con il decreto-legge 92/2008, poi convertito dalla legge 125/2008, sono state, infatti, modificate in particolare le norme riguardanti la guida sotto l’influenza dell’alcool (art. 186 D.lgs. 285/92). La fattispecie si struttura sostanzialmente suddividendo in tre livelli di gravità il fatto: se il valore del tasso alcolemico si attesta tra 0,5 e 0,8 grammi (di alcool) per litro (di sangue) ne consegue la ammenda da 500 € a 2000 €; se il valore invece si attesta tra 0,8 g/l e 1,5 g/l ne consegue la ammenda da 800€ a 3200€ e l’arresto fino a 6 mesi; se, infine, il valore si attesa oltre 1,5 g/l allora la risposta sanzionatoria è data dall’ammenda tra 1500€ e 6000€ e l’arresto da 3 mesi ad 1 anno. A queste si affianca la sanzione accessoria della sospensione della patente che a seconda del livello di gravità incide per un periodo che va dai 3 mesi ai 2 anni nonché la confisca del veicolo. Se in tali condizioni il conducente dovesse poi causare un incidente stradale le pene vengono automaticamente raddoppiate. Nel caso di guida in stato di alterazione psico-fisica per uso di sostanze stupefacenti
l’articolo 187 si allinea verso l’alto alla norma descritta prevedendo l’ammenda da 1500€ a 6000€ e l’arresto dai 3 mesi ad 1 anno. Al di là della considerazione che punire un tasso alcolemico del valore tra 0,5 e 0,8 g/l sembra oltre che irreale quasi illegittimo, atteso che sarebbero sufficienti due bicchieri di vino rosso per trovarsi al di sopra dello stesso (precisando che il tutto sia assolutamente soggettivo stante la totale diversità di assimilazione dell’alcool da organismo ad organismo), quello che più perplime non è il contenuto delle modifiche ma l’utilizzo di uno strumento del genere per combattere il fenomeno in questione. L’inasprimento di una norma non può avere alcun valore se la stessa, già esistente, comunque non trovava applicazione. Quello che permette le continue mattanze sulle strade non è certo la mancata preoccupazione da parte degli utenti della gravità della sanzione quanto e soprattutto la convinzione che tale sanzione non trovi applicazione stante la mancanza dei controlli e delle attività in concreto esercitate sulle strade. Se un individuo è conscio che ad un proprio comportamento potrebbe conseguire una sanzione pesantissima ma è altresì consapevole che l’accertamento della condotta è ridotto a percentuali bassissi-
me (…da vincita al Lotto) è chiaro che tale sanzione non produrrà alcun effetto deterrente. Avrebbe questo effetto una sanzione anche di minore rigore ma sicuramente di costante e frequente applicazione. Se poi si volesse davvero cercare di affrontare la questione della mortalità sulle strade allora sarebbero (anche e soprattutto) altre le vie da seguire. In primo luogo il degrado e la vetustà delle infrastrutture, è sufficiente fare un giro per la Capitale per rendersi conto di come il sistema viario sia assolutamente inadeguato: buche, tombini a sbalzo, brecciolino dovuto a corrosione dell’asfalto, guard-rail killer… A tale inadeguatezza si aggiunga la crescita esponenziale nell’ultimo ventennio del parco macchine in circolazione dovuto alla rincorsa al benessere, alla mancanza di una vera alternativa all’uso dell’automobile e alle abitudini del Paese e dei suoi cittadini. A quanto indicato si sommi anche l’illogica e sporadica organizzazione che permea l’attività di controllo della sicurezza sulle strade volta maggiormente a rimpinguare le (vuote) casse dei singoli Comuni piuttosto che a prevenire gli incidenti sulle strade. Lo stesso utilizzo distorto di strumenti tecnologici quali
possono essere gli autovelox o il cosiddetto sistema “Tutor” non fa altro che alimentare dubbi sulla efficacia degli stessi. Tali sistemi dovrebbero essere utilizzati non per comminare sanzioni pecuniarie ai proprietari degli autoveicoli quanto per evitare che condotte, quali in questo caso l’eccesso di velocità, possano produrre conseguenze tragiche. Se questi fossero utilizzati correttamente dovrebbero permettere a chi di dovere di intervenire per evitare il protrarsi di tali condotte e diminuire il rischio delle conseguenze. Se lasciati semplicemente alla produzione di “autoritratti” e connesse sanzioni amministrative nulla potranno prevenire od evitare. Né si può sempre utilizzare la giustificazione di non aver contestato immediatamente la violazione per l’impossibilità connessa all’intralcio al trasporto pubblico che sarebbe conseguito ad un intervento.
La contestazione immediata non ha soltanto la funzione di permettere al presunto violatore di esprimere le proprie ragioni quanto, ed in particolare, di interrompere quanto prima la condotta pericolosa ed evitare, per quanto possibile, il verificarsi di ulteriori conseguenze. Sarebbe, quindi, auspicabile che un serio programma di intervento nel settore venisse effettuato attraverso una radicale programmazione non, o quantomeno non solo, a livello normativo quanto piuttosto a livello di investimenti sia infrastrutturali che di controllo del territorio: rinnovamento dell’impianto viario principale e secondario, dislocamento di uomini e mezzi allo scopo di prevenire o quantomeno intervenire prontamente in caso di violazione, sanzioni mirate ed effettivamente applicate, programmi di seria educazione stradale e civica. Marcello Grande