Quindicinale - 22 giugno 2009 - Anno 18 - Numero 9 il Ducato online: www.uniurb.it/giornalismo
il Ducato Periodico dell’Istituto per la formazione al giornalismo di Urbino
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Il sindaco rieletto e il nuovo rettore affrontano i problemi della città e il suo futuro
Corbucci e Pivato, le nuove sfide Le grandi opere fondamentali per lo sviluppo. L’Ateneo deve superare le angustie economiche Franco Corbucci e Stefano Pivato si preparano alle nuove sfide. Sono i protagonisti della vita di Urbino, in una fase in cui la città tenta di risolvere gli antichi problemi e di rilanciarsi. Corbucci è stato eletto sindaco per la seconda volta. Il suo nome è uscito dalle urne al primo turno, anche se questa volta ha sfiorato il ballottaggio. L’opposizione è arrivata al 45 per cento dei voti. Le interviste del Ducato.
Ulisse sbarca alla rotonda
Le mille facce che nascondono la Grande Mela a pagina 14
Beirut
Dice il sindaco: “Bisogna puntare ancora sulle grandi opere, perché Urbino ha bisogno di una serie di robuste infrastrutture”. Impegno convinto per allevare la nuova classe dirigente. Fra i primi progetti, l’idea di abolire la commissione consiliare che si occupa di edilizia: “Inutile”. Il lavoro per arrivare alla formazione della giunta. Dice il rettore: “C’è ancora la questione dei finanziamenti, ma ci sono molte cose da fare”, Secondo Pivato, storico e appassionato di Medio Oriente, “gli studenti non sono clienti, devono sentirsi a casa”. Proporrà a Corbucci che uno studente prenda parte al Consiglio comunale, senza diritto di voto. Carlo Bo? “L’ho conosciuto. Lui era un mito”. alle pagine 2 e 3
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uesto è un “Ducato” diverso. Di solito a giugno il giornale non c’è. Le lezioni si interrompono e gli allievi lasciano Urbino per spostarsi nelle redazioni dei quotidiani, dei settimanali, delle radio e delle televisioni. Abbiamo, invece, deciso di essere presenti, prima dell’estate, per partecipare a un nuovo inizio della città che prende corpo proprio adesso. E’ stato appena eletto nuovo Rettore dell’Università Stefano Pivato e i cittadini hanno rimesso, con il voto, al governo del Comune, Franco Corbucci. Il primo porta un progetto di un orizzonte più aperto. Il secondo ha la pos-
New York
Minigonne e Hezbollah a pagina 12
Londra
Mick Jagger e il tesoro del gelataio on c’è sirena che tenga. Con L’ “Ulisse” scolpito da Giuliano Vangi Urbino non può perdere l’orientamento. La statua in granito realizzata dal Maestro fiorentino domina, da qualche tempo, lo spazio espositivo ideato dagli stilisti Piero e Giacomo Guidi alla rotatoria tra la strada statale e viale Di Vittorio. Punto di riferimento per la scultura contemporanea, dal 2005 ha ospitato, a rotazione, le opere dei più importanti maestri del Novecento.
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Quando il giornale si fa diverso sibilità di alzare l’asticella di un progetto civile. E intanto spira su Urbino un vento favorevole sotto le ali di Raffaello. Si esce dall’orizzonte domestico, con successo, proprio quando altrove davanti alla crisi economica ci si chiude. Mentre la cultura e il sapere, la scuola e l’università, perdono risorse, qui si concretizza il contrario. E’ come se Urbino scoprisse in sé, nel proprio passato e nel proprio
presente, la forza di parlare lontano. Propone un modello? Forse. Viene in mente lo sbarco della Fiat nell’America di Obama. Anche in quel caso un capovolgimento rispetto alle vecchie formule. Lavori in corso per una economia diversa. Non è poi un caso se gli articoli che leggerete in questo numero sono scritti da altre città italiane, da capitali estere a opera di chi si sta formando a Urbino. E a questo “Ducato”
più largo hanno lavorato anche allievi degli anni scorsi che così tracciano fili che vanno e vengono tra Urbino e i centri del giornalismo. Non sappiamo se il nuovo rettore e il nuovo sindaco saranno capaci di scalare il cielo e riportare giù, nella vita quotidiana delle persone, l’utopia di Urbino. C’è un vantaggio: qui non si sogna, ma si parte dal reale. Non appare impossibile avere una comunità dove nessuno resta indietro e nessuno ha paura del futuro. Anche gli ultimi. Certo, se questo si farà, si potrà mostrare una strada agli altri. Fuori dai confini del Ducato.
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a pagina 13
Industria
A Fabriano l’azienda felice a pagina 7
L’Aquila
Dopo-terremoto tra pessimismo e rassegnazione a pagina 15
Banca Marche
Parla Michele Ambrosini a pagina 6
il Ducato
Franco Corbucci, rieletto sindaco, parla dei primi progetti. “Servono giovani validi”
Il futuro nelle grandi opere “Sono sempre più convinto che la città abbia bisogno di forti infrastrutture”. Già al lavoro per la Giunta GIORGIO BERNARDINI
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o stesso entusiasmo di quattro anni fa. Quando la sua vita cambiò e smise di lavorare per sei ore al giorno come farmacista. Dall'estate del 2004, periodo della sua prima elezione, Franco Corbucci cominciò ad impiegarsi per il doppio del tempo: "Dodici ore al giorno", come dice lui, "al servizio di una città che amo". E la città lo ha ricambiato al primo turno, votandolo e riconfermandolo. "Sono davvero contento perché questa vittoria è importante per tanti motivi, è un ciclo che si completa". Il sindaco, gli urbinati, lo chiamano tutti per nome: Franco. Del resto lui non smettte di esprimere la sua appartenenza alla città in ogni modo: le sue passeggiate per il centro e quelle parole in dialetto che si fa scappare quando sa di parlare con i suoi concittadini lo rendono affabile, meno distante di altri politici. "Un successo", dice commentando la sua rielezione. E a chi gli fa notare che è arrivato a pochi passi da un ballottaggio lui replica schietto: "Considerando l'arretramento del Pd a livello nazionale e dovendo combattere con una lista per così dire interna, questo risultato si può considerare ottimo". La lista "per così dire interna" è quella di Maurizio Gambini, che si è candidato contro di lui al ruolo di primo cittadino dopo una lunga permanenza nel consiglio comunale urbinate nelle file del Pd. Ma alla fine l'ha spuntata lui, "Franco", che ha raccolto più della metà dei voti ancora una volta. Quando ha preso possesso delle chiavi della città per la prima volta i suoi sogni erano le grandi opere. Oggi di pari passo con quell'entusiasmo che dice non essere mutato, cresce la sua convinzione, vero punto di scontro con le due liste civiche che siederanno in consiglio comunale. "Il mio progetto è chiaro e ne sono sempre più convinto: le grandi opere possono garantire un futuro di crescita per la città, quell'Urbino che io sono orgoglioso di rappresentare. C'è anche la prospettiva di dotarsi di infrastrutture fondamentali per l'accoglienza dei turisti, che va di pari passo con l'esigenza di una struttura commerciale nuova. Santa Lucia, la Fornace e l'ex Consorzio agrario". La voce del sindaco si fa più debole quando ripete la filastrocca delle tre opere che per lui sono una vera e propria missione. Lo avrà ripetuto mille volte, il suo slogan ed il suo sogno coincidono ancora con gli obbiettivi del nuovo mandato: realizzare questi grandi punti nevralgici per la città. "All'orizzonte ci sono anche altre sfide, come quella che cercherò di combattere per il migliora-
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mento dell'efficienza della macchina comunale, ci vuole di sicuro meno burocrazia. Poi, guardando più in là, vorrei tanto lavorare per realizzare un nuovo grande piano regolatore". E c'è anche un primo intento pratico: "Voglio eliminare completamente la commissione edilizia, le sue lungaggini servono obiettivamente a poco. Il parere degli uffici può in questi casi essere più che sufficiente per dirimere questioni urbanistiche, naturalmente tenendo conto dei pareri della soprintendenza all'interno del centro storico". Sulla composizione del nuovo governo della città "ha le idee chiare", dice. Ma non fa neanche un nome, anche perché nonostante l'ostentata tranquillità c'è un il solito grande trambusto attorno alle poltrone di giunta. Sicuramente l'assessorato alla cultura e turismo, avamposto cruciale nelle logiche cittadine, non sarà più guidato dalla professoressa Lella Mazzoli, unica tecnica del primo governo Corbucci, che ha pubblicamente rinunciato pubblicamente a ricoprire ancora questo ruolo nei prossimi quattro anni. Alla fine, accompagnato da un sospiro e un tono di sollievo, il sindaco lancia un messaggio alle nuove leve: "Il mio compito da oggi è soprattutto quello di fare da traghettatore per la nuova classe dirigente della città: farò di tutto per fa sì che i giovani validi emergano e lavorerò col cuore perché possano assumersi responsabilità importanti".
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Il sindaco Franco Corbucci durante la campagna elettorale. Ha vinto al primo turno (Foto LUCA TONI)
Per la prima volta fuori dal Consiglio comunale l’estrema sinistra
L’opposizione è più agguerrita F
alce, martello e scudo crociato vanno in soffitta. Per la prima volta dal dopoguerra rimangono fuori dal consiglio comunale urbinate gli eredi diretti dei partiti di massa della prima repubblica: neanche un seggio per Rifondazione e Pdci, stessa solfa per l’Udc. Questa la squadra del consiglio comunale: undici consiglieri indossano la casacca del Pd e compongono la maggioranza assieme a un socialista e a un verde; l’opposizione è composta da 4 consiglieri della lista “Per Urbino” (che raccoglie anche il Pdl) e 3 di “Liberi per cambiare”, guidata dalla new entry del dissidente Pd Maurizio Gambini. Proprio l’exploit della sua lista è il dato più sorprendente di queste elezioni comunali: il 17% dei cittadini ha votato per una lista civica nata a pochissimi giorni dall’inizio delle elezioni. La lista “Per Urbino”, che raccoglieva anche le istanze politiche della precedente opposizione di centro-destra, si è ferma-
Bonelli: “Spingeremo la maggioranza, oggi siamo più forti” ta poco sotto il 24%: il candidato sindaco Bonelli non è comunque riuscito a portare Franco Corbucci al ballottaggio. Da parte sua il sindaco ha registrato il 54% delle preferenze raccogliendo i frutti dell’alleanza con Verdi, Idv, socialisti e comunisti. Questi ultimi, PdCi e Rifondazione, avevano addirittura unito le forze associando i propri candidati sotto un unico simbolo. Ma non è servito a nulla: nonostante facessero parte della coalizione vincitrice delle elezioni il 3,4% conseguito (316 voti in totale), non è stato sufficiente a garantire un seggio alla sinistra radicale. L’Udc correva da solo per la prima volta,
ma anche al leader del centro Campogiani non è riuscito di superare il 3,6%, rimanendo inesorabilmente fuori dai giochi. Questo non impedisce a Campogiani di dire la sua sul futuro dell’amministrazione: “L’insieme delle candidature di opposizione sfiora il 45%, di questo l’amministrazione dovrà tenere conto nelle scelte del prossimo futuro”. Il leader di “Liberi per Cambiare” Maurizio Gambini si candida invece a l ruolo di garante: “Sappiamo che i cittadini sono con noi, quello ottenuto è un risultato esorbitante. E per non tradire la fiducia che la gente ha riposto in noi, ogni due mesi faremo un resoconto su ciò che non verrà realizzato in base alle promesse fatte dalla coalizione di Corbucci in campagna elettorale. Sarò un notaio”. Bonelli è laconico: “Ho contribuito a far perdere 19 punti percentuali a questa maggioranza. L’opposizione, che sarà adesso più forte, metterà il governo della città di fronte a tutti i problemi”. (G.B.)
PRIMO PIANO
Il nuovo rettore Pivato, una vita per la storia
“Qui gli studenti si sentano a casa” Finanziamenti e collaborazione con il Comune, queste le priorità
FEDERICO FORMICA
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mpegnatissimo. Nonostante al suo insediamento manchi ancora qualche mese, per il rettore Stefano Pivato il lavoro è già partito da tempo. Mentre lo intervistiamo nel suo studio, al pianterreno della casa dove vive con la famiglia a pochi passi dal lungomare di Rimini, Pivato riceve diverse telefonate da Urbino. Dopo il nostro colloquio l'ormai ex preside di Lingue e Letterature straniere andrà a Pesaro per parlare, neanche a dirlo, di università. Ci parla delle sue passioni al di là dello studio, i complimenti ricevuti via Facebook da allievi ed ex allievi. E confessa: “Con il mio predecessore Giovanni Bogliolo mi sento spesso. È normale e giusto chiedere consiglio a un uomo con otto anni di rettorato alle spalle”. La sua visione di università, naturalmente, è sempre quella riassunta nello slogan “Cambio di
passo”. Le tre parole con le quali ha convinto il 64% dei votanti a scapito del prorettore Mauro Magnani. La campagna elettorale è finita, e si avvicina il momento di trasformare le parole in fatti, le bozze in progetti concreti. Ora che è stato eletto, quale sarà il primo obiettivo che tenterà di raggiungere? La priorità è quella di ottenere più finanziamenti dallo Stato. Almeno al livello delle altre università marchigiane. Per essere considerati “virtuosi”, gli atenei non possono usare più del 90% del Fondo di finanziamento ordinario per assumere personale di ruolo. Urbino è al 102%. Su questo c'è ancora molto da lavorare. Pensa che la riforma dell'università del ministro Gelmini possa limitare ancora di più le risorse della Carlo Bo? In realtà è ancora presto per capire quali conseguenze avrà la riforma. Spero che non siano previsti tagli al nostro ateneo,
ma ancora non sappiamo nulla. Come si raggiunge quella sinergia tra ateneo, città ed Ersu di cui ha parlato così spesso in campagna elettorale? Un buon terreno potrebbe essere quello dell'edilizia. Faccio un esempio: quando finiranno i lavori di ristrutturazione, la Data diventerà un importante centro culturale di Urbino. Perché non riservare uno spazio anche all'università? Poi penso ai collegi e alle sale studio, che potrebbero rimanere aperte anche di sera per favorire la socializzazione tra i ragazzi. Con il Comune, poi, ho un paio di idee e ne sto parlando con il sindaco Corbucci. Penso a un rappresentante degli studenti che assista alle sedute del consiglio comunale. Questa figura non avrebbe diritto di voto ma potrebbe intervenire durante le sedute per farsi portavoce delle istanze degli studenti. Allo stesso modo penso a un delegato del Comune che si occupi dei rapporti con l'università. Le due istituzioni di Urbino devono parlarsi di più. Negli ultimi anni il numero degli iscritti è calato. L'impressione è che questa città non abbia più molto da offrire a uno studente. È anche una questione di mentalità. Gli universitari non devono essere solo “clienti” ai quali vendere prodotti e servizi. Chi viene a Urbino per studiare, spesso da città lontane, deve anche sentirsi un po' a casa. Noto che il giovedì sera è sempre meno tollerato dalla cittadinanza. Ma i ragazzi non possono solo studiare, hanno anche altre esigenze tra cui lo svago. Internazionalizzazione: un'altra parola chiave del suo programma. Quali strumenti utilizzerà? Anzitutto partiamo da quello
Stefano Pivato nella sua casa di Rimini. Il nuovo rettore si insedierà a ottobre
che già c'è e miglioriamolo. I progetti Socrates ed Erasmus, ad esempio, funzionano bene ma hanno bisogno di una spinta in più. Un buon modo per attirare gli studenti stranieri è quello di attivare alcuni corsi in lingua inglese. Pensiamo a un ragazzo tedesco che deve scegliere tra Urbino, dove si insegna solo in italiano, e un ateneo del nord Europa, dove l'inglese è la lingua corrente. Lei conosceva piuttosto bene Carlo Bo. Che prova, oggi, a ricoprire la sua stessa carica? Se mi sentissi un successore di Bo commetterei un grave errore, un peccato di presunzione. Lui era un mito. Con lui avevo un rapporto di ammirazione ma non posso negare che mi sentissi in soggezione di fronte a lui. Sono diventato preside nel 2000 e ho fatto a tempo ad assistere solo a qualche seduta del Senato accademico presieduta da Bo. Dopo la sua vittoria come hanno reagito gli studenti?
Ci tenevano molto a congratularsi con me. Ma la cosa più piacevole l'ho vista su internet: alcuni ragazzi hanno creato un gruppo su Facebook che si chiama “Gli amici di Stefano Pivato” e lì mi hanno scritto una cinquantina di messaggi di complimenti. Mi ha fatto un enorme piacere. Quali sono gli hobby e gli interessi del nuovo rettore? Ho sempre dedicato molto tempo allo studio e alla ricerca. Per me la storia contemporanea non è solo un lavoro ma una grande passione. Nei prossimi mesi, comunque, penso che avrò poco tempo per dedicarmi a questa materia. Mi piace molto anche viaggiare. Il Medio Oriente è la mia meta preferita. Israele, Libia ma soprattutto il Marocco: uno dei pochi paesi che non mi fa sentire un turista. Non mi sono mai piaciuti i viaggi organizzati. Quando sono a Rimini, poi, amo fare passeggiate in bicicletta.
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il Ducato
Cambierà la busta della spesa nei supermercati
Va in pensione il killer di plastica Alternative al sacchetto: biodegradabile, di carta, o da usare sempre SILVIA SACCOMANNO omodo e resistente. Ma nemico dell’ambiente. Il sacchetto di plastica è nato negli anni ‘70 e con lui la stagione dell’usa e getta non si è più conclusa. Gli affezionati non possono farne a meno e c’è chi riesce a portarne tre o quattro per mano. A tutte queste persone forse dispiacerà sapere che il loro compagno di acquisti non avrà lunga vita. Se non per legge, per coscienza ecologica dei consumatori. E non a torto. Basti pensare che in Italia ne consumiamo due miliardi al mese, 400 a testa in un anno, un quarto di quelli che si producono in tutta Europa e con i quali si potrebbe ricoprire la Valle D’Aosta. Per fabbricare queste quantità servono 430 mila tonnellate di petrolio: il consumo di 160 mila automobili che percorrono 30 mila km. Ragionando con numeri più piccoli il calcolo è ugualmente spaventoso. Servono 10 chili di petrolio per 100 sacchetti da 10 grammi l’uno. Ma le particolarità non si esauriscono con la modalità di produzione. E’ altrettanto interessante pensare che come oggetto utile dura circa 12 minuti, poi diventa un rifiuto che inquina l’ambiente per 200 anni. Meno di tre su dieci sono riciclati e per smaltire gli altri pompiamo nell’atmosfera 200 mila tonnellate di anidride carbonica all’anno. Proprio per queste ragioni, l’ultimo governo Prodi aveva pensato di eliminarli dal commercio a partire dal 1° gennaio del 2010 rispettando la scadenza suggerita da una direttiva comunitaria. Poi niente. Nessun decreto attuativo ha definito i modi o previsto sanzioni. Per ora ognuno fa un po’ come crede seguendo la propria coscienza ecologica. Ma che succederà nei supermercati di Urbino? Sembra proprio che i cittadini dovranno lentamente adeguarsi a veder scomparire il piccolo killer di plastica. Nella gara alla salvaguardia del pianeta, Auchan è in testa a tutti. Dal 1° luglio alle casse si troveranno solo le 4 alternative salva-ambiente. Sacchetto biodegradabile al 100% fatto con amido di mais, grano e patata. Più fragile e dispendioso, ma molto meno dannoso. Poi quello di carta, quello di tessuto resistente e gli scatoloni di cartone. L’alternativa di Conad per ora è lo shopper in plastica riutilizzabile all’infinito, ma da luglio comparirà anche il mater-bi (da patate, mais e grano) che dopo l’uso va riciclato nel-
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l’umido. “Siamo avvantaggiati spiega Giulio Boccioletti, posizione organizzativa per i rifiuti - A Urbino c’è un impianto di compostaggio: serve a trasformare l’umido, ossia la componente organica, in terriccio vegetale riutilizzabile in natura. Non tutti hanno la certificazione per uso biologico come noi”. Quanti sacchetti in mater-bi vengono effettivamente riciclati oggi? “Riusciamo a smaltire circa 10 mila tonnellate di umido all’anno che è composto da scarti di cucina uniti alle potature degli alberi _ spiega Renato Dini, responsabile ufficio tecnico della Comunità montana -. Anche i sacchetti di baterbi vanno riciclati come umido, ma ancora non ce ne sono molti in mezzo ai rifiuti. A volte invece troviamo plastica o vetro in mezzo all’umido. E’ abbastanza raro perché la maggior parte dei cittadini sa far bene la raccolta differenziata. Noi abbiamo comunque una convenzione con le società per cui richiediamo un 5% di purezza dei rifiuti altrimenti li inviamo indietro o li smaltiamo nelle discariche normali a prezzo mag-
giorato”. I sacchetti, però, sono una minima parte degli imballaggi che andrebbero eliminati perché nocivi e costosi. Le iniziative ecologiche dovrebbero essere finalizzate anche ad altri prodotti, come i pannolini, altri serial killer ambientali e tutto il packaging di plastica che utilizziamo, dalle vaschette ai flaconi e barattolini. Ma se a livello nazionale la situazione è ferma, si può fare qualcosa nel locale? «Con il nuovo assessore all’ambiente sicuramente valuteremo come agire, ma credo che le soluzioni migliori siano la comunicazione, il buon esempio e la formazione – spiega Boccioletti - Le sanzioni non servono. E poi qualcosa si sta già muovendo». Carrefour ha già tutte le alternative e se un sacchetto ecologico si rompe, rifornisce il cliente gratuitamente. Coop Adriatica entro la fine dell’anno arriverà a eliminare il polietilene. Crai e Despar hanno anche shopper ecologici ma fanno scegliere al cliente. Esselunga ha addirittura 19 alternative. Gs è in coda: l’intento è quello di
proporre soluzioni diverse, ma per ora alle casse c’è solo il sacchetto killer. Le alternative ecologiche purtroppo sono svantaggiate e costano. Da 80 centesimi a un euro perché si tratta di una produzione di nicchia. Inoltre un
tempo si usciva da casa con una borsa in tessuto, pronta per essere riempita di spesa. Oggi al supermercato si va di corsa e ci si scorda di portare qualcosa con sé. Il classico sacchetto è davvero utile in questi casi.
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La piccola rivista è stata pensata per i lettori di Internet
Open House, il web è in stampa MATTEO FINCO
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n progetto nato come tesi di laurea nel settembre del 2008. Un piccolo gruppo di tre creativi, giovani e volenterosi: il laureando e padre del progetto, il grafico e l’addetta al settore commerciale. Dopo 4 mesi e molto lavoro, il 21 gennaio il primo numero di Openhouse veniva distribuito in tutta Urbino. Siamo a giugno, e i numeri usciti di questa rivista, dal formato insolitamente piccolo (10x15 cm, tascabile), sono ormai tre. Alta la tiratura: 5.000 copie a ogni uscita. Ormai la distribuzione travalica le mura della città ed è arrivata nei poli accademici di Pesaro e Fano, in provincia, e si sfruttano le occasioni particolari: eventi culturali, mostre, sagre, concerti e festival. Ma ancora prima della rivista cartacea, il progetto ha preso forma online, dove si possono trovare tutti i contenuti dell’edizione stampata. E proprio sui social network, tramite facebook e myspace sono arrivate le richieste di collaborazione di molti dei nuovi autori di Openhouse. Trovare le risorse economiche per una rivista non è facile, soprattutto se alle spalle non c’é editore né budget. “Abbiamo provato - dice Tano Rizza, ideatore del magazine - a chiedere una mano alle isti-
tuzioni ma non abbiamo avuto riscontri. Per coprire le spese di stampa andiamo alla ricerca di sponsor, ed è dura. Con i commercianti che inseriscono la pubblicità si trovano spesso anche altre forme di collaborazione: diventano partner del progetto, li coinvolgiamo negli eventi che organizziamo, diamo loro una mano ad essere visibili e presenti online”. L’organizzazione del lavoro è semplice, nonostante ormai i collaboratori siano una cinquantina. “Una volta al mese c’è la riunione generale. Ci si vede al centro Golem e si buttano giù le basi per il numero successivo. Ognuno porta le sue idee, liberamente, e si cerca una linea comune. Stabilite le tempistiche, il resto del lavoro si svolge online tramite la mailing list della rivista. Quando i pezzi sono pronti si scelgono le foto. Il tutto poi viene spedito al grafico che si occupa dell’impaginazione”. Un aspetto particolare, insieme al formato ridotto, è la grafica. “I lettori - prosegue Tano - sono abituati ormai ai tempi di lettura del web, e il nostro formato permette di ritrovare le caratteristiche del web su carta. Volevamo che la grafica rispettasse i canoni tipici del web: accattivante e con pochi fronzoli”. Alto l’interesse per le attività culturali. Da subito è nata la collaborazione con la web radio d'Ateneo, Urca, poi a marzo
con l'Ersu, con cui i ragazzi della rivista hanno ideato il concorso musicale Mau Festival. A breve un nuovo rapporto, con la web tv Apes.tv, creata dai ragazzi dell'Accademia di Belle Arti. Tano, facciamo una valutazione fino a questo punto? “Dopo tre numeri, Openhouse ha una sua identità specifica. La visuale di partenza è sempre la realtà urbinate, con l’attenzione alle problematiche e alle iniziative degli studenti. Poi però è fondamentale l'attualità, raccontata attraverso le interviste e gli approfondimenti. Finora abbiamo intervistato Michele Serra, Ascanio Celestini, Peter Gomez, Antonio Albanese. La realtà della città ducale è atipica, e crediamo che la nostra missione di raccontarla e aprire un confronto tra residenti e studenti sia apprezzata”. Cosa ti aspetti dal futuro? “L'idea è quella di crearsi un lavoro. La speranza, di portare avanti il progetto a Urbino, perché qui è nato e qui le potenzialità della popolazione universitaria potrebbero e dovrebbero essere sfruttate al meglio. Crediamo che ci sia un potenziale di cultura e partecipazione che non ha ancora trovato la sua giusta valvola di sfogo. Openhouse vorrebbe esserlo, ma ancora la strada è lunga”.
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CITTÀ
“Pineta” snobbato dagli urbinati, ignorato dai turisti italiani, gettonato all’estero
Camping, paradiso degli stranieri La titolare: “Quest’anno previste due novità: la piscina e il solarium. In futuro, idromassaggio e ristorante” KATIA ANCONA
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pprezzato dai turisti stranieri e sottovalutato da quelli italiani il campeggio di Urbino non solo esiste da 32 anni ma ogni estate ospita centinaia di silenziosi visitatori che da una delle colline più alte del Montefeltro dominano l’intera città ducale. Il Camping “Pineta” si trova sui monti delle Cesane in via San Donato. Lo gestisce Ortensia Fini che per questa stagione annuncia sorprese: “I nostri clienti troveranno tante novità al loro arrivo nel campeggio a partire dalla piscina e dal solarium”. Lunga 20 metri per 10 e profonda circa un metro e trenta la piscina, che non è dotata di trampolino, è la prima di una serie di innovazioni che la signora Fini spera di offrire nei prossimi tempi ai campeggiatori: “Probabilmente a breve avremo anche la vasca idromassaggio e nei prossimi anni vogliamo predisporre pannelli solari per scaldare l’acqua della piscina, una serie di bungalow al posto delle piazzole per le tende e spero anche un ristorante”. La struttura è dotata di bagni, lavandini, lavelli, lavatoio, docce calde e fredde, fontane e torrette e ha anche un bar.“Il nostro è un progetto grande e ambizioso, speriamo di farcela”. Il camping passa inosservato. Chi arriva da Pesaro o da Fano trova il cartello marrone con la scritta “campeggio” alla prima rotatoria. Gli urbinati in vacanza vanno altrove: “A volte abbiamo gli scout, poche settimane fa c’è stato il raduno provinciale, sono venuti qui perché avevano bisogno di un posto che li contenesse tutti”. Gli studenti spesso ignorano l’esistenza del campeggio ma la Fini spiega che un tempo non era così: “Quando più di trent’anni fa ho intrapreso questa attività venivano tantissimi studenti. Frequentavano i cosiddetti corsi estivi, che duravano almeno un mese, quindi avevano bisogno di trovare un alloggio economico. Ora i corsi estivi o non ci sono più oppure durano meno e quindi di studenti non ne vediamo più”. Ma allora chi sono i campeggiatori della Pineta? “Sono stranieri, noi lavoriamo soprattutto con olandesi, tedeschi e inglesi – spiega - di solito prenotano dall’anno precedente e poi a febbraio ci danno la conferma. Tra luglio e agosto, ad esempio, arriva un gruppo di olandesi che da noi era già stato l’anno scorso”. La fascia di età è ampia: “Abbiamo dai più giovani agli anziani, il camping è una sorta di rifugio per tutti coloro che hanno bisogno di pace e tranquillità, per quelli che vogliono rilassarsi all’ombra della pineta e per quelli che vogliono fare tappa a Urbino per poi spostarsi sulla Riviera romagnola”. Di italiani, da queste parti, se ne vedono pochi.“Non dimentichiamo che Rimini è a soli 50 chilometri da qui e molti preferiscono passare la vacanza in Riviera, noi non possiamo competere. Qualche italiano viene intorno a Ferragosto. Di solito sono del nord est, Venezia, Tre-
Tavoli e tende nel Camping “Pineta” sui monti delle Cesane. In basso l’Orto Botanico
viso, Sondrio,Trentino Alto Adige”. Alla “Pineta” la colazione è inclusa nel prezzo. In bassa stagione il prezzo è di 8 euro a testa più il prezzo della piazzola per tenda, auto,
camper o roulotte che è in totale di 14 euro. In alta stagione invece si pagano 9 euro a testa più la piazzola a 16 euro. Sono ammessi anche animali domestici per i quali si
paga un supplemento. Per pubblicizzare il suo campeggio la signora Fini ogni anno partecipa alle Fiere del turismo, soprattutto all’estero: “Andiamo in Germania, Francia,
Olanda perché è da qui che arriva la nostra clientela, parliamo della nostra offerta e di Urbino che, in questi posti, è amatissima”.
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Si celebrano i duecento anni dell’orto botanico di via Bramante
Quel giardino antico e nascosto EMY INDINI n giardino segreto nel cuore della città. Un’oasi da scoprire in un viaggio che coinvolge i cinque sensi attraverso un suggestivo percorso tra arte e natura. L’Orto botanico di via Bramante, che compie duecento anni, appartiene all’Urbino nascosta, quella che si cela dietro i portoni, dietro i cancelli, tra le antiche corti e gli stretti vicoli. Quella che, una volta superata la soglia, svela magie rare e bellezze inestimabili. Sono circa 2.200 metri quadrati in cui crescono specie di piante acquatiche e medicinali, esplodono colori e profumi inebrianti, si coltiva e si studia l’orto dei “semplici”, si ergono alberi secolari. Creature che potrebbero raccontare, perchè l’hanno vissuta, la storia della città ducale. L’istituzione dell’Orto botanico, intitolato alla professoressa Piera Scaramella Petri che lo dirisse appassionatamente fino al 1981, risale, infatti, al 1809 ad opera del botanico Giovanni de Brignoli. Fu lui che realizzò il primo grande orto nel convento di San Francesco e la sua fondazione ebbe una grande risonanza nelle vicissitudini della città. E oggi questa antica istituzione ha ritrovato il suo originario splendore. A dirigere l’Orto
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botanico è il professor Antonio Ricci mentre la responsabile scientifica è la professoressa Giovanna Giomaro. Nel “giardino segreto” che cresce all’ombra dei Torricini è possibile trovare oltre cinquemila esemplari di piante disposte in
un’area inclinata suddivisa in tre terrazzamenti. Nel primo, adibito in parte ad arboreto, è presente in posizione centrale la grande serra per il ricovero e la coltivazione di piante che necessitano del riparo invernale. Nel retro si ergono in tutta la loro bel-
lezza alcuni grandi alberi, tra cui un leccio, un acero, un frassino e un tasso. Sono loro i testimoni degli ultimi due secoli di vita della città. Non lontano dai loro tronchi centenari ci sono due piccole serre, due vasche con specie acquatiche e un settore dedicato alle piante medicinali e aromatiche locali particolarmente interessante a scopo didattico nei corsi di studio di Farmacia e Tecniche erboristiche (l’Orto botanico fu ceduto dai frati all’Università degli studi di Urbino “Carlo Bo” nel 1826). Il secondo e il terzo terrazzamento sono strutturati in numerose e strette aiuole dove crescono circa 2.300 piante erbacee di vario genere. Tra i 112 alberi presenti, spicca il Re dell’Orto per età e dimensioni: un magnifico liriodendro. Notevole la collezione di piante grasse che nel periodo estivo viene esposta sul muro di cinta. Oggi l’istituto è diventato un punto di riferimento per gli studiosi ed è dotato, tra l’altro, di un modernissimo laboratorio di gas-cromatografia. Non solo. Punto di forza è anche la collaborazione con le scuole, fortemente voluta e sostenuta dalla responsabile scientifica Giovanna Giomaro. Sono stati proprio l’Isia e l’istituto d’arte a realizzare il progetto grafico della brochure che illustra l’antica istituzione dell’Orto botanico in occasione del bicentenario della fondazione.
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il Ducato
Intervista ad Andrea Montelpare, fondatore dell’azienda di calzature fermana
“Qualità e gioco di squadra” “Basta lamentarsi della crisi. Il piccolo funziona ma occorre un prodotto di eccellenza oppure operare in rete” LUCA MORICONI
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iccolo è ancora bello, ma solo se messo in rete”. Andrea Montelpare, leader dell’omonima azienda calzaturiera fermana, spiega i motivi della crisi del settore: “Da soli non si va avanti, occorre un gioco di squadra”. Se gli parli di crisi lui sorride: “La crisi c’è da 10 anni – risponde - ma nessuno si è mai preoccupato di capire come aggirarla”. Montelpare non ha dubbi: uscire da una situazione di stallo si può, basta smettere di ragionare in piccolo, coltivare “l’orticello sotto casa” (“sono finiti i tempi di chi produceva in garage”), e iniziare a respirare l’aria del mercato internazionale. Un giovane con la mente brillante, le idee chiare, la giusta intraprendenza: tutte qualità che gli hanno permesso di trasformare quella che all’inizio era la piccola bottega di famiglia, in un’azienda leader nella produzione di scarpe di alta qualità per bambini. Tra i suoi clienti Andrea annovera Madonna, Robert De Niro e Maria Grazia Cucinotta. La storia della Montelpare srl parte dal fermano, il territorio della calzatura e dei cappelli, e arriva all’estero con negozi a Parigi, New York, Mosca. Una linea di proprietà, la Bumper, e poi almeno altri sei marchi in concessione, cioè grandi stilisti che si sono affidati a lui per produrre le proprie calzature. Perché è questa la chiave del successo oggi: “Bisogna dare alla gente qualcosa di unico, fare le cose bene e non lamentarsi in continuazione di una crisi diffusa e di banche che non concedono credito ”. Molti suoi colleghi più piccoli però non sono d’accordo con lei. Dicono che la voglia di partire c’è ma poi davanti ci sono mille difficoltà economiche e nessuno disposto a dar loro fiducia… “Diciamo che non hanno sempre ragione. Vede, questa è una crisi che al suo interno ha tante altre crisi. La prima, vista anche la realtà che vivo io - il mondo calzaturiero del fermano - è proprio legata alla dimensione troppo ri-
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dotta delle piccole imprese. Molti hanno fatturati troppo bassi e continuano a intestardirsi nel voler proseguire da soli contro un mercato che, per forza di cose, oggi richiede ben altri sforzi. E’ finita l’epoca dei rappresentanti che girano con i campionari alla ricerca di negozi disposti a comprare. Si devono esplorare nuove strade, respirare nuove forme di mercato, conoscere realtà che fino a ieri pensavamo inesistenti e poi tentare di inserirsi all’interno di esse. E’ cambiato il cliente, sono cambiate le abitudini. Prima si comparava sotto casa, oggi hai mille modi in più di fare acquisti. Se non si aprono gli occhi è difficile poi evolversi”. Se però per fare questo occorrono soldi e le banche non li concedono siamo punto a capo… “Chiediamoci allora perché le banche non si fidano di prestare i soldi. A volte si sentono rivolgere richieste assurde basate su idee vecchie e inutili. Un piccolo imprenditore, quando va a chiedere un prestito, dovrebbe fare un altro tipo di ragionamento: se fosse lui a trovarsi nella situazione di vendere il proprio prodotto a chi poi non paga? Quando si scelgono i commercianti a cui affidare determinate linee di abbigliamento lo si fa anche in virtù della forza economica di certi negozi. Pensi allora a una banca che davanti si trova un’impresa con un piccolo fatturato e una debole capitalizzazione. E’ chiaro che poi non concedano prestiti”. Detta così allora, secondo lei, i piccoli artigiani sono destinati a sparire… “Assolutamente no. Sta qui la vera questione. I piccoli artigiani hanno sempre avuto la soluzione tra le mani ma l’hanno ignorata. Per sopravvivere hanno due strade: o realizzano un prodotto d’eccellenza, una nicchia nella nicchia amo definirla. Oppure fanno la cosa che sanno fare meglio: produrre bene, a costi moderati e poi legarsi a scuderie più ampie. Giocare di squadra senza avere troppa fretta di buttarsi subito sul mercato e poi, inevitabilmente, soccombere. Il piccolo è ancora bello oggi, ma solo se messo in rete. Sono finiti i tempi in cui si faceva da soli all’interno
Andrea Montelpare, 45 anni di Fermo è amministratore unico della Montelpare srl, azienda fondata dal padre, portata da lui al successo internazionale
della propria bottega e poi si vendeva in giro per l’Italia il proprio prodotto. Dobbiamo pensare di collaborare tutti quanti per rilanciare il settore calzaturiero nostrano, ognuno con le nostre peculiarità. Altrimenti ci sarà sempre chi andrà avanti e chi resterà al palo. Per dirla più brutalmente, ci saranno sempre grandi aziende che ormai hanno il loro brand e fanno fatturati stratosferici, e piccole imprese risucchiate ogni anno da questi giganti. Il problema è che poi fa più notizia una fabbrica che chiude che un’azienda che riesce a crescere ”.
Eppure c’è chi dice che ormai anche i grandi hanno smesso di affidarsi ai piccoli e ai locali: molti preferiscono manodopera a bosso costo come quella cinese… “E’ un falso mito. L’Italia è un paese evoluto e ha le carte in regola per fare prodotti di altissimo livello. Dobbiamo puntare su questo e non accanirci nella ricerca impossibile di porre limiti al mercato cinese. La Cina c’è, produce a costi contenuti e questo è un dato di fatto. Ma che vogliamo fare? Non possiamo andare da loro e imporre una nostra visione né
chiudere le frontiere. Possiamo però combattere con quello che di più grande abbiamo, la tradizione del nostro lavoro. Produrre qualcosa di irrealizzabile altrove. Poi anche l’Unione Europea dovrebbe fare un passo avanti e garantirci una reciprocità di trattamento con questi Paesi: va bene Schengen, ma che non valga solo per gli altri che vogliono portare i loro prodotti da noi”. Mi sta dicendo che non esportiamo abbastanza? “No, come calzaturieri non possiamo lamentarci. Ma in mercati che funzionano come la Russia e i Paesi dell’est, ancora riscontriamo molti problemi. Troppa burocrazia. E’ inevitabile che poi si finisca per mollare il colpo”. In sintesi, oggi pensare di creare un marchio che diventi leader nel mercato, come Tod’s o Hogan, è impossibile? “Nulla è impossibile se tanti piccoli aghi, come li chiamo io, si uniscono per formare un grande spillo. Senza perdere la propria identità ma organizzando una catena produttiva davvero funzionale. Sono finti i tempi, mi scusi il gioco di parole, in cui si cercava di farsi le scarpe l’uno con l’altro”.
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REGIONE MARCHE
Michele Ambrosini, eletto presidente di Bancamarche
Piùcredito a ricerca, nuoveidee e progetti L’obbiettivo: energie alternative, territorio e produzione di sapere Michele Ambrosini (Foto CHRISTIAN BALLARINI) LUIGI BENELLI
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na ricetta tutta urbinate quella per uscire dalla crisi, che passa per le università e la commercializzazione di nuovi prodotti. Michele Ambrosini, 61 anni, sposato e padre di tre figli, vive ed esercita a Urbino, dove insegna Procedura penale. E’ stato da poco eletto presidente della Banca delle Marche, ma ha già tracciato il percorso. Presidente della Camera Penale di Urbino, già tesoriere e segretario dell’ordine degli avvocati, Ambrosini anticipa anche una imminente convenzione con la camera di commercio di Pesaro e Urbino che vedrà protagonista il territorio e l’università ducale. Quali sono le linee guida che intende seguire nel suo mandato? “Io credo in una banca che sia la guida della geografia economica del territorio, autonoma e che trovi il supporto delle associazioni di categoria, delle università e dei risparmiatori. Sarà importante poter fare sinergie con le piccole e medie imprese e le associazioni artigiane. Lo slogan potrebbe essere pensare globalmente e operare territorialmente. Non a caso siamo la prima banca in campo nazionale completamente autonoma”. Come interverrà per combattere la crisi? Dobbiamo tener conto delle differenze fra economia finanziaria e quella reale, ovvero quella che passa per lo sforzo produttivo dei lavoratori e delle famiglie. Negli anni l’economia è stata assoggettata alla finanza e in questa trasformazione epocale vanno ricercati nuovi prodotti. Quali? “Non possiamo restare ancorati solo alla produzione di mobili, yacht, scarpe, eccellenze per il territorio, ma va ripensata una produzione su settori diversi come il territorio, le energie alternative, qualità della vita, cultura e la produzione di sapere”. Si spieghi meglio. “Questi sono i nuovi beni che vanno comunicati e commercializzati. Pensiamo al turismo, all’entroterra della regione o alle invenzioni dei piccoli artigiani. Bisogna avere il coraggio di brevettarle e lanciarle sul mercato. E noi dobbiamo essere al loro fianco, indirizzarli, sostenerli con l’accesso al credito agevolato per affrontare il mercato e proporre il marchio di eccellenza per le
Marche. In tutto ciò le università ci possono aiutare creando progetti, strutture per l’ottimizzazione dei processi di acquisto in cui ci possa essere una vendita di un intero pacchetto complessivo. Questo è un modo per superare la crisi insieme alle altre imprese. Le imprese locali chiedono di nuovo liquidità alle banche e meno burocrazia. Intanto bisogna capire che le banche sono assoggettate a normative internazionali. Regole che mal si adattano al nostro sistema economico. Ovvero una ragnatela di pmi (picco-
le e medie imprese) in cui il rischio di credito ai piccoli artigiani per una banca è altissimo. In tutto il mondo il credito è ammalato, per cui dobbiamo intercettare la domanda attraverso i confidi delle associazioni categoria. Possiamo aiutare il tessuto produttivo facendo credito ai confidi che lo rivolgono successivamente alle pmi. E in questo dobbiamo puntare sulla qualità del prodotto e convertire alcune produzioni. Parlava del ruolo delle università… Prima di tutto va detto che fi-
nanzieremo progetti di ricerca sull’innovazione e la sperimentazione tecnologica. E in questo ci terrei che l’università di Urbino diventasse nostra collaboratrice per questo tipo di progetti. Potrebbe pensare a progetti relativi al mobile, la cantieristica, il metalmeccanico. Lo spazio per collaborare c’è e l’università può diventare un centro informatico per coordinare l’insieme delle attività del territorio. Ci sono già progetti concreti? Con Macerata abbiamo già aperto un credito di 4 milioni di euro a tasso agevolato restitui-
bile in 72 mesi. Abbiamo proposto la stessa convenzione con la Camera di commercio di Pesaro e credo che la ratifica sarà questione di giorni. Parliamo di 250 mila euro per ogni progetto in cui imprese, artigiani e università possono inserirsi. La cultura e l’arte come si colloca in questi progetti? Si può analizzare la conoscenza e commercializzarla. Ci sono presenze culturali uniche nelle Marche e Urbino ha enormi potenzialità per comunicare e produrre cultura”.
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All’azienda di Fabriano riconoscimenti in Italia e in Europa
Elica: l’oasi del lavoro felice d’arte che la fondazione Casoli (Ermanno Casoli è il fondatore di Elica) ha donato all’azienda. Una politica che non si ferma agli aspetti esteriori. Per il suoi 2.300 dipendenti Elica ha messo a punto un sistema di a sede dell’azienda si trova proprio all’entrata di Fa“welfare supplementare” garantendo diversi contributi e briano. Dopo aver attraversato l’ingresso, simile alla agevolazioni che, soprattutto in tempi di crisi economica, reception di un albergo di lusso, si apre un’ampia sarendono più facile arrivare alla la, simile a una piazza, che fine del mese. Per contratto soospita un bar, tavolini e divano previste infatti coperture per netti. Alle pareti opere d’arte le spese dei libri scolastici per i contemporanea, seduti a figli dei dipendenti, tessere chiacchierare negli ultimi sconto per la spesa e acquisti in scampoli di pausa pranzo ci sodiverse tipologie di esercizi no i lavoratori del gruppo Elica, commerciali, un contributo in discutono, leggono libri e rividenaro per la nascita del primo ste. Sorridono. Sono i dipenbimbo e permessi speciali per denti più felici d’Italia. madri e padri in maternità. InLa società fabrianese (leader terventi che si vanno ad aggiunnel settore della produzione di gere a quello che è già previsto cappe per cucina, con oltre cinper legge. Una strategia che ha que milioni di cappe prodotte permesso a Elica di aggiudicarogni anno e un fatturato che si anche il premio Etica e Imsupera i 380 milioni di euro) si è presa 2008. Un attestato confepiazzata quinta nella classifica rito da diverse sigle sindacali, del Great place to work instituche hanno riconosciuto all’ate Italia 2009, prima tra le zienda marchigiana il grande aziende tutte italiane, dietro impegno nei confronti dei disolo a sedi di multinazionali pendenti e di miglior contrattastraniere come Fater, Cocacola zione aziendale. e Microsoft. Stessa soddisfaCon dei “padroni” così, anche i zione per quanto riguarda l’Eurapporti con il sindacato non ropa, dove ha ottenuto il ventipoteva che essere ottimo. Annovesimo posto come miglior che quando la crisi ha fatto senposto di lavoro tra le grandi tire la sua morsa: “Abbiamo doaziende del continente, ancora vuto tagliare circa 450 posti – la migliore tra le italiane. Graammette Marco Scippa, diretduatorie che partono per così tore del personale – ma siamo dire dal basso, visto che sono riusciti, tra prepensionamenti proprio i dipendenti, compie ricollocazione a contenere i lando appositi questionari, a disagi. Il tutto senza mezzora di decretarne il successo in quesciopero”. Questo tenuto conto sta speciale competizione. che la sigla sindacale maggiorMa il segreto qual è? Semplice a mente rappresentata all’interdirsi: coccolare i dipendenti, in Dipendenti di Elica nella “Agorà”, lo spazio comune no di Elica è la Fiom, una delle tutti gli aspetti della vita, sia alpiù intransigenti per quanto ril’interno dell’ambiente di laguarda i diritti dei lavoratori. “Per fare un esempio emblevoro che fuori. A cominciare dall’ufficio. La sede di Fabriamatico – conclude Scippa – a Natale abbiamo rinunciato no, ristrutturata di recente, consiste di ambienti ampi, alla festa aziendale, preferendo distribuire 50 euro per le aperti e luminosi. Uno spazio centrale, che ha preso il nospese di fine anno a ogni dipendente”. me di Agorà, luogo di incontro per scambio di idee o per un
[email protected] semplice caffè. Il resto è vetro, superfici moderne e opere
MATTEO MARINI
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il Ducato
La mostra rimarrà aperta fino al 12 luglio
Raffaello supera quota 100 mila Ma per gli albergatori è un successo a metà: “Poca informazione” ANNALICE FURFARI
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rascorsi due mesi dall'apertura della mostra su Raffaello, per Urbino è già tempo di bilanci. Le aspettative erano elevate, soprattutto da parte degli esercenti, fiduciosi nella capacità dell'esposizione di far sentire con minore intensità la morsa della crisi. I numeri parlano chiaro: con un totale di 104.005 visitatori (dati aggiornati al 14 giugno), una media giornaliera di circa 1.500 affluenze e più di 50.000 prenotazioni, di cui circa 39.000 già entrati (al 9 giugno), "Raffaello e Urbino" è una delle mostre di maggior successo in Italia. Nella classifica di Repubblica si piazza al settimo posto, dopo città d'arte del calibro di Roma e Venezia. È un risultato che riempie di orgoglio Lorenza Mochi Onori, curatrice della mostra: "Si tratta di un record assoluto per una città come Urbino. Soprattutto nei weekend, Palazzo Ducale è stato sempre strapieno e non avrebbe potuto ospitare un numero di visitatori più elevato. Sono molto soddisfatta, spero e credo che anche la città lo sia". L'entusiasmo della sovrintendente, però, sembra non aver contagiato gli esercenti. Almeno, non del tutto. I proprietari degli hotel credevano che il successo della mostra avrebbe fatto riempire le loro strutture, risollevandoli da un periodo di magra. Ma le loro aspettative sono state deluse, perché il boom di visite a Palazzo Ducale non è coinciso con un boom di prenotazioni negli alberghi. La colpa è, ancora una volta, del turismo "mordi e fuggi", fenomeno con cui gli esercenti di Urbino fanno i conti da sempre. Uno degli albergatori più ottimisti è Maddalena Montebovi, titolare dell'Albergo Italia: "Nel nostro hotel le presenze, rispetto agli anni passati, sono aumentate dal 20 al 40%, soprattutto nel mese di maggio. Il mio rammarico, però, è che la mostra non sia stata pubblicizzata all'estero. Mentre gli italiani chiamano e chiedono informazioni sull'esposizione, di cui sono già venuti a conoscenza, gli stranieri lo scoprono per caso, quando arrivano qui. Un evento di questa portata va pubblicizzato a dovere in Europa. Non averlo fatto è stato un vero peccato, anche perché avremmo avuto di certo un numero di clienti più consistente". Anche al Mamiani si parla di successo a metà. "Da aprile a ora, abbiamo riempito l'hotel solo nel fine settimana, in particolare nel mese di maggio - dice Martina Paolucci, dipendente
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della struttura ricettiva - e soprattutto grazie a gruppi organizzati. L'incremento totale delle presenze si aggira attorno al 20-30%. Abbiamo avuto, per lo più, clienti provenienti dal Nord Italia, di mezza età o anziani. Nel suo piccolo, la mostra ci ha aiutati a battere la crisi, ma si poteva fare di più. Spero che eventi di questo tipo non siano episodici, mi auguro che se ne organizzino più spesso, in modo tale che Urbino venga pubblicizzata di più. Molti turisti scoprono le nostre bellezze solo una volta arrivati, quasi per caso: una città come questa meriterebbe una maggiore visibilità, in Italia e nel mondo". Pessimista è, invece, Nadia Pec-
ci, madre del titolare dell'Hotel Raffaello: "Rispetto all'anno scorso, c'è stato un calo incredibile di affluenza nel nostro albergo e la mostra ha prodotto un aumento di appena il 10-15%. Non c'è certo paragone con l'esposizione su Piero Della Francesca, ospitata da Urbino nel 1995, che ci aveva regalato un vero e proprio pienone. Questa volta si è fatto un buco nell'acqua. Le presenze a Palazzo Ducale sono determinate soprattutto dalle gite scolastiche o dai viaggi organizzati, che contemplano Urbino come meta di un solo giorno e non incrementano il giro di affari di noi esercenti. La responsabilità di questa occasione mancata va attribuita al-
I visitatori affollano Palazzo Ducale (Foto LUCA TONI) l'amministrazione comunale, che non si è impegnata nel pubblicizzare a dovere la mostra. Eventi di questo tipo vanno promossi con maggiore anticipo ed efficienza. Non si può puntare tutto sulle recensioni dei giornali, perché la gran parte della gente non li legge. Al contrario, una locandina messa nei punti strategici (all'uscita della metropolitana, per esempio) o un catalogo ben fatto colpiscono l'attenzione di tutti. Finché la città continuerà a non avere una mentalità imprenditoriale, la situazione del turismo 'mordi e fuggi' non cambierà e i tesori di Urbino rimarranno nascosti agli occhi del mondo". Anche negli altri hotel le percen-
tuali di incremento delle presenze si attestano intorno al 20%, un 20% che vale un po' di più se si considera che bisogna fare i conti con la crisi. Le conclusioni dei titolari dei ristoranti sono anche più pessimistiche. "I clienti individuali sono aumentati di appena il 10%, mentre l'afflusso dei gruppi non è mutato", ammette Aldo Pasotto, proprietario de La Balestra. Paolo Lonzi, titolare de Il coppiere è dello stesso avviso: "Rispetto agli anni passati, non c'è una grande differenza nel numero dei clienti, eccezion fatta per quelli individuali, durante le festività. Ma mi aspettavo molto di più".
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In un libro la difficile alleanza tra i ducati di Urbino e Firenze
L’età d’oro nei ritratti del Maestro VERONICA ULIVIERI
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na morte prematura e un'unica discendente femmina che non può ereditare il potere pongono fine alla dinastia dei Della Rovere, succeduta nel 1508 a quella dei Montefeltro, e all'autonomia del ducato di Urbino. Nel 1623 il giovane Federico Ubaldo della Rovere viene trovato morto nella sua camera; otto anni dopo, quando anche il padre Francesco Maria II muore, il ducato passa sotto il controllo dello Stato pontificio. Invano i Medici cercano di estendere il loro potere sul Montefeltro. Vittoria della Rovere, unica erede, torna a Firenze con la madre Claudia de' Medici, per sposare un altro membro della famiglia fiorentina, Ferdinando II, e rinsaldare così l'alleanza tra i due casati. Gianluca Montinaro, dottore di ricerca all'Istituto di Filologia moderna dell'università di Urbino, ha ripercorso nel suo libro "Fra Urbino e Firenze. Politica e diplomazia nel tramonto dei della Rovere (15741631)" gli ultimi decenni di vita del ducato, segnati dall'alleanza tra le due città, inaugurata da Guidobaldo II della Rovere, nonno di Federico Ubaldo. Quando il ducato passa ai della Rovere, signori di Senigallia, nel 1508, la famiglia, che non ha legami con Urbino, trasferisce la corte a Pesaro. Per la città ducale inizia un'epoca di graduale e lento declino. " La famosa rivolta degli urbinati - racconta Montinaro - non è causata solo dal'aumento delle tasse, ma anche dal fatto che i cittadini di Urbino si sentono defraudati del loro ducato". Ma com'era il ducato ai tempi dei Montefeltro, quando Raffaello era giovane e viveva ancora a Urbino? "Era una città aperta, accogliente, piena di cultura; basti pensare che fu la corte di Guidobaldo II ed Elisabetta Gonzaga a ispirare a Baldassarre Castiglione 'Il cortegiano', una sorta di gala-
Ritratto di Francesco Maria della Rovere teo per la vita a corte. Castiglione descrive Urbino come 'la città dell'utopia', 'una città in forma de palazzo'". Raffaello ha dato un volto ai personaggi di quell'età dell'oro: suoi sono i ritratti di Elisabetta Gonzaga, di Baldassarre Castiglione e di Francesco Maria della Rovere. E le sembianze di Francesco Maria si ritrovano anche in un personaggio della scuola di Atene, noto dipinto dei Palazzi Vaticani, segno dello stretto legame che univa l'artista al signore della sua città. Urbino porta fortuna a Raffaello. E' Giovanna da Montefeltro, moglie di Giovanni
della Rovere, a raccomandare Raffaello a Firenze presso un illustre personaggio della signoria. E sarà papa Giulio II, fratello di Giovanni della Rovere, ad accogliere Raffaello a Roma, per affrescare le stanze private dei Palazzi Vaticani. "Il pittore - spiega Montinaro - deve la sua fortuna a Roma a Giulio II, che gli offre la possibilità di esprimersi al meglio. E' questo il presupposto per i buoni rapporti con papa Leone X, che veniva dalla famiglia dei Medici". Quando Leone X sale al soglio pontificio, Urbino e Firenze non si parlano ancora. Il papa punta al controllo della città ducale, gioiello rinascimentale e centro di potere, e "impone a Urbino un duca fiorentino, Lorenzino de' Medici, che però rimane al potere per soli tre anni, dal 1516 al 1519, quando tornano i della Rovere". L'anno successivo, nel 1520, Raffaello muore. Ha solo 37 anni. Urbino si avvia gradualmente verso il declino: ormai la corte non risiede più stabilmente nella città ducale, che da fulcro della cultura rinascimentale diventa "attore comprimario" e poi, dal 1631, solo un punto periferico dello Stato pontificio. Come avviene il passaggio dall'atmosfera luminosa della corte dei Montefeltro e di Francesco Maria della Rovere a quella più cupa dei decenni successivi? "E' un passaggio inevitabile spiega Montinaro - che coinvolge tutti gli stati italiani del tardo Rinascimento. Francesco Maria II è cupo, introverso, sospettoso, ossessionato dalla conservazione del potere. Per lui, le cose possono cambiare solo in peggio, per questo bisogna mantenere tutto com'è". Urbino riacquista una posizione di centralità solo durante il pontificato dell'urbinate Papa Clemente XI, nei primi due decenni del 1700. Per un anno, dal 1717 al 1718, Palazzo Ducale ospita un altro sovrano introverso e malinconico, Giacomo III Stuart, in esilio dall'Inghilterra.
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CULTURA E SPETTACOLI
Il centro inaugurato a Varea a maggio è ancora chiuso: colpa della burocrazia
Chi ha fermato la musica? Apertura ritardata per le elezioni e un’infiltrazione d’acqua, in attesa del nuovo assessore competente
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n centro di aggregazione per fare musica e stare in compagnia. È stato inaugurato all’inizio di maggio per essere pronto a far cantare, suonare e divertire i ragazzi. Ma quella che doveva essere la “Casa della musica”, edificio appena ristrutturato in località Varea tra il bocciodromo e la piscina di Urbino, è rimasta chiusa e silenziosa. “Ci sono problemi tecnici alla struttura – sostiene Stefano Gambelli, ufficio politiche giovanili - Perché è comparsa un’infiltrazione d’acqua in un muro che deve essere sistemato. In teoria le attività dovevano iniziare questa settimana, ma fino a quando chi si occupa dei lavori non ci riconsegnerà la struttura, non si possono fare previsioni sull’apertura del centro”. “In realtà il problema è di poco conto – precisa l’architetto Mara Mandolini, ufficio tecnico del centro - si tratta di una banale rottura di un tubo e di una saldatura saltata. L’apertura del centro non è stata rimandata per questo motivo considerando che mi sono accorta di questa infiltrazione solo una settimana fa. C’è già stato un sopralluogo tecnico e il problema sarà presto risolto. Credo che i ritardi dipendano più da problemi logistici e burocratici. Ad esempio ancora non è attaccato il telefono. Poi con le elezioni tutto è stato rimandato”. “Che io sappia il centro doveva essere operativo da metà maggio – spiega Gabriele Cavalera, ufficio stampa del Comune - ed erano previsti 6 mesi di sperimentazione, così che dal 2010 l’attività sarebbe stata indirizzata meglio a seconda delle esigenze e dei problemi riscontrati. Il ritardo credo sia imputabile alle elezioni. Con la Giunta da rinnovare il lavoro è passato in gestione agli uffici tec-
nici che sicuramente avranno temporeggiato in attesa del nuovo assessore competente”. Secondo l’ex assessore alle politiche sociali, Maria Clara Muci, “gli operatori già ci sono e si stanno organizzando per iniziare. Non è stato rimandato niente. Sarà un centro di aggregazione e un punto di riferimento significativo per socializzare. E naturalmente questo spazio sarà a disposizione dei gruppi che vogliono suonare”. A breve quindi la Casa della musica realizzerà le aspettative dei suoi promotori, diventando la risposta alle difficoltà e ai disagi della popolazione g i o v a n i l e . All’interno dell’edificio sono state allestite due sale insonorizzate, una per le prove e una per la regia con strumentazione per la registrazione, una sala di ascolto con 35 posti e tutta la tecnologia audio e video necessaria, un ufficio, una sala di aggregazione e due per le lezioni di musica con tanto di strumentazione domotica. Si tratta di un sistema che permette di gestire la regolazione termica, l’accendimento e lo spegnimento della luce e il caricamento della musica in mp3. Le attività del centro saranno rivolte anche a 40 ragazzi diversamente abili e 60 immigrati: “E’ un centro dedicato ai giovani – spiega Gambelli - ma non è escluso che parteciperanno anche gli adulti. Alcuni corsi saranno gratuiti e altri a pagamento e si dovrà versare una piccola quota per l’uso delle strumentazioni musicali o la sala di registrazione. Potranno partecipare tutti. Per ora abbiamo preso contatti anche con il Centro Francesca che si occupa di ragazzi diversamente abili e con il centro di aggregazione di Ponte Armellina con il quale collaboreremo per far partecipare anche gli stranieri alle iniziative. Si farà o ascolterà musica e questo sarà il filo conduttore”. (S.S.)
La sede della “Casa della musica” a Varea
Sarà un punto di ritrovo per giovani, immigrati e ragazzi diversamente abili
GLI APPUNTAMENTI
Utopia di Raffaello 27 giugno-11 luglio Negli ultimi giorni della mostra, i turisti e gli appassionati potranno conoscere l’artista attraverso i palazzi, le atmosfere e i sapori che hanno legato l’artista alla città dove è nato.
Festival musica antica 18-27 luglio Un appuntamento storico, giunto alla sua 41a edizione, che offrirà un percorso attraverso la storia della musica dal Medio evo in avanti nei suggestivi spazi di Palazzo Ducale e nelle chiese urbinati.
Vacanze musicali 24-30 agosto L’iniziativa offrirà stage, concerti e incontri per approfondire la propria conoscenza musicale. È aperta a strumentisti, cantanti e compositori senza limiti d’età. Quota di partecipazione 60 euro, iscrizioni fino al 31 luglio.
Festa dell’aquilone 6-7 settembre A chiudere l’estate urbinate ci sarà la classica sfilata di aquiloni, una vera e propria tradizione (54 edizioni) che ha il suo momento più emozionante nella gara tra le contrade sui monti delle Cesane.
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il Ducato
ECONOMIA
La mostra è anche un evento economico e aiuta i commercianti a guadagnare
La crisi? La scaccia Raffaello Alcuni settori soffrono lo stesso. Male l’abbigliamento. Quarantatre i lavoratori messi in cassa integrazione SIMONE CELLI i piega ma non si spezza. Soffre ma coi dovuti distinguo. E’ la Urbino della crisi e delle tante facce di una congiuntura difficile ma non troppo. Perché la città ducale ha il suo asso nella manica, e senza nemmeno volerlo lo ha giocato proprio nel momento migliore. Una carta di nome Raffaello. Deterrente, scaccia-crisi. Almeno per certe categorie di commercianti. Quasi nessuno è immune alle difficoltà di questo periodo, e Urbino non è da meno. Ma l’economia ha molte braccia, e ognuna di queste ha le sue caratteristiche e i suoi problemi. “I fattori sono tanti, dare un giudizio uniforme è molto difficile”, afferma il segretario provinciale di Confesercenti, Domenico Passeri. L’abbigliamento incarna da solo tutta la complessità di un sistema fatto di tante differenze. “E’ uno dei settori che più risente della crisi, qualche mese fa abbiamo fatto un sondaggio – precisa Passeri - e tra quelli del centro storico alcuni erano soddisfatti, mentre altri si lamentavano”. Sembra non esistere una regola, anche se pare che a soffrire di più siano i negozianti che trattano articoli più classici. Ma il commercio ha anche la sua isola felice, dove non è comunque facile far crescere i guadagni. Eppure, eguagliare i risultati di un anno fa, quando ancora la crisi non era così invasiva, sembra non essere un’impresa poi così impossibile. Sono gli esercizi pubblici come bar, pizzerie, ristoranti e tutte le altre strutture legate al turismo che in linea di massima si salvano dalla recessione grazie a Raffaello, star della cultura ma anche dell’economia urbinate di questo 2009. Per Egidio Cecchini, segretario Concommercio Urbino, “la mostra permette un sollievo a tutto il comparto, e si tratta di un’iniziativa da non far cadere nel vuoto”. Anche il segretario di Cgil Urbino Luigi Torelli è dello stesso pa-
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rere. “Che la mostra di Raffaello non sia solo un grande evento culturale ma anche economico è un fatto oggettivo, l'enorme flusso di visitatori – afferma - ha certamente dato ossigeno al settore turistico e commerciale, e indica la strada che bisognerebbe seguire per il suo sviluppo: un grande evento internazionale, accompagnato da eventi di qualità distribuiti lungo tutto l'arco dell'anno”. Neanche il mondo del lavoro soffre più di tanto i colpi della crisi. Secondo i dati di Cgil, sono 5 le aziende dell’urbinate che hanno fatto ricorso alla cassa integrazione, per un totale di 43 dipendenti. “In generale – afferma il segretario Torelli - Urbino sta risentendo in modo meno pesante della crisi, in quanto è una città in cui il lavoro dipende in buona parte da enti pubblici. Mentre per quanto riguarda il settore privato, la fabbrica più grande, la Benelli Armi, aveva già da tempo avviato un processo di ridimensionamento del personale”.
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L’emittente dell’Accademia punta al web e alla semplicità
Apes.tv, un’informazione diversa U
na tv in rete, appena inaugurata, che sfrutta non solo il sito dell’Accademia di Belle Arti, ma anche i vari canali offerti dal web 2.0. Youtube per intenderci, ma anche Vimeo, e, ovviamente, i social network, Facebook su tutti. Inoltre, una proiezione d’eccezione al festival del cinema di Pesaro: tre minuti, un assaggio del lavoro che ha tenuto impegnate più di venti persone un anno intero. E che le ha portate a realizzare una serie di interviste a riunirle in un documentario di 50 minuti. Il nome del progetto è emblematico. “Apes” significa “scimmie”. Vuol dire che questo è il tentativo di fare un’informa-
zione diversa. Come la scimmia è venuta prima dell’uomo, così l’informazione che Apes.tv vuol fare è essenziale, immediata, semplice e diretta. Soprattutto, che parta dai vissuti, dalle storie vere delle persone. Così hanno fatto gli allievi del professor Emanuele Bertoni. Dopo aver pensato il format e messo a punto il cammino si sono divisi i compiti secondo le proprie attitudini (intervistatore, testi e contenuti, art director riprese e montaggio, fotografie, redazione web) e sono usciti dai laboratori per incontrare la gente di Urbino. Il tema: la crisi economica. Hanno intervistato i cosiddetti esperti ma anche la
gente comune. Poche domande. L’intenzione era capire come la gente percepisce e recepisce l’informazione mainstream e i singoli temi della comunicazione attraverso una rete televisiva sul web. Questa è solo la prima serie di interviste. Altre ne verranno. Nonostante il budget ridottissimo e la stanchezza i ragazzi e il professore sono soddisfatti. “Noi siamo straottimisti” dice Arianna, che ha ricoperto il ruolo di intervistatrice. “Il lavoro è stato interessante, abbiamo imparato moltissimo”. La consapevolezza che i giovani reporter e artisti hanno maturato è chiara: la necessità di un’informazione diversa. (M.F.)
UNIVERSITA’
Dopo gli esami estivi, l’evento chiude l’anno
Fortezza Albornoz, studenti in festa Venti addetti alla sicurezza per evitare problemi come alla Notte bianca al 25 al 27 giugno, tre serate di musica dopo gli ultimi esami estivi. La Festa dello Studente alla fortezza Albornoz, giunta all'ottavo anno, è ormai un appuntamento fisso per gli universitari urbinati. Una full immersion di concerti prima di tornare a casa per le vacanze estive e preparare i primi esami di settembre. Organizzata dalla Confederazione degli studenti, l'edizione 2009 conserverà l'impronta di sempre: un mix tra band emergenti e artisti affermati. "Tutti gli anni riceviamo molte richieste da giovani gruppi musicali che chiedono di suonare in fortezza - dice Roberto Puorro, presidente della Confederazione - la Festa dello Studente ormai è una vetrina piuttosto ambita e noi siamo ben contenti di dare visibilità a chi se lo merita". Il 25 giugno apriranno gli Echotime, un gruppo heavy-metal nato nel 2003. La band si ispira alle sonorità del nord Europa e ai gruppi più virtuosi degli Stati Uniti. Dopo sei anni di attività, gli Echotime si presentano con una nuova formazione e un cd demo alle spalle. La festa di Urbino potrebbe essere un buon trampolino di lancio. Non ha certo bisogno di ulteriore popolarità Stefano Ligi, che dedicherà un tributo a Rino Gaetano, l'artista calabrese e romano d'adozione morto in un incidente d'auto nel 1981. Ligi, che durante la notte del 26 giugno sarà profeta in patria (è urbinate doc), ha già partecipato al festival di Sanremo, ha prodotto l'album "Io e la mia compagna" e ha collaborato più di una volta con Lucio Dalla. Gli ospiti più attesi dagli studenti urbinati sono i Modena City Ramblers, che chiuderanno la festa con il concerto del 27 giugno. La band, attiva dal 1991, ha alle spalle undici album (l'ultimo, "Onda Libera", è uscito nell'aprile scorso) e una serie di successi che l'hanno portata ad essere una delle più amate d'Italia. Gli organizzatori si aspettano di eguagliare il numero di presenze del 2008, quando affluirono (durante le tre serate) 15.000 ragazzi. Insomma, alla fortezza Albornoz sarà grande festa. Anche se l'ultima occasione per fare bisboccia in città non è stata delle più felici. Gli urbinati, infatti, ricordano ancora molto bene la notte bianca dello scorso 23 maggio quando un poliziotto in pensione, infastidito dal chiasso,
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ha ferito due ragazzi di 21 e 22 anni sparando con un fucile ad aria compressa dalla finestra di casa. In più una rissa al Mercatale, una decina di ragazzi ricoverati per rischio di coma etilico e due giovani arrestati per spaccio di droga. Un bollettino di guerra che, tuttavia, non spaventa gli organizzatori: "Nella vita non si può mai dire nulla con certezza - mette le mani avanti Puorro - ma negli ultimi sette anni non si è mai verificato un problema di ordine pubblico e non vedo perché dovremmo cominciare proprio stavolta". Di certo non si faranno le ore piccole: per evitare di disturbare il meno possibile, le tre serate musicali si concluderanno a mezzanotte e mezzo. Per ogni evenienza, comun-
que, venti addetti alla sicurezza (tutti ragazzi del comitato organizzatore) controlleranno che tutto fili per il verso giusto. Saranno aiutati da tre pattuglie: una dei carabinieri, una della polizia e una dei vigili urbani. In più, l'evento sarà coperto da un'assicurazione che garantirà tutti gli spettatori da qualsiasi tipo di danno. Gli organizzatori giurano che il livello di sorveglianza è esattamente lo stesso degli anni precedenti. "Anzi - dicono quest'anno ci sarà anche qualche addetto in meno". Dunque, niente psicosi da disordini. E la casa in piazza delle Erbe di Guido Silli, l'ex agente che aveva sparato durante la notte bianca, è a distanza di sicurezza. (F. F.)
In alto, Daniele Silvestri canta durante la scorsa edizione. Sopra, gli studenti scatenati sotto il palco della festa
Il consorzio favorisce incontro tra i laureati e le aziende in cerca
L’ateneo approda su Alma Laurea GIOVANNI PASIMENI oc, toc. È l’Università “Carlo Bo” di Urbino l’ultimo ateneo italiano e il secondo marchigiano che ha varcato la porta d’ingresso di AlmaLaurea, il Consorzio Interuniversitario nato nel 1994 su iniziativa dell’Osservatorio Statistico dell’Università di Bologna e sostenuto dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. “AlmaLaurea nasce - spiega il direttore Andrea Cammelli, professore di statistica all’Università di Bologna - per fornire in tempo reale la documentazione sul profilo dei laureati e in tempi brevi quella sui laureati in uscita dall’università. Il nostro obiettivo è favorire l’incontro tra domanda e offerta e democratizzare l’accesso dei laureati nel mondo del lavoro, promuovendo la conoscenza delle singole performance delle diverse realtà universitarie italiane che hanno aderito al nostro progetto”. AlmaLaurea mette a disposizione online sul proprio sito internet (www.almalaurea.it) oltre 1.200.000 curriculum vitae di laureati provenienti da 53 atenei italiani. Ma Cammelli avverte che nella banca dati di AlmaLaurea “entrano soltanto gli studenti di università che hanno aderito e dall’anno in cui l’università in questione ha deciso di entrare”. L’ingresso di Urbino - la cin-
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quantatreesima università italiana che fa parte di AlmaLaurea e la seconda delle Marche dopo l’Università degli Studi di Camerino (Mc), primo centro universitario marchigiano entrato in AlmaLaurea nel 2005 - è stato approvato nell’ultima assemblea di Alma Laurea, il 26 maggio. Fra i quattro centri universitari della Regione mancano ancora all’appello l’Università Politecnica delle Marche di Ancona e l’Università degli Studi di Macerata. Entrambe, infatti, al momento non hanno ancora aderito. “Chi ha scelto AlmaLaurea precisa il direttore - vuole rendere trasparente i risultati del
proprio ateneo. Ho inviato una lettera a molte università italiane per invitarle a entrare. Tra queste c’era anche la «Carlo Bo»”. L’Università di Urbino ha accolto l’invito. “Urbino prosegue Cammelli - è un’università di primaria importanza nel panorama culturale nazionale e internazionale. Sarebbe stato un peccato se fosse rimasta ancora fuori. Credo che Urbino - puntualizza Cammelli - non sia entrata prima in AlmaLaurea a causa dei numerosi problemi che ha avuto per completare il lungo e complesso processo di statalizzazione che di recente l’ha vista protagonista”. I 53 atenei che fanno parte di AlmaLaurea
STAGE DI SEMIOTICA Il Centro Internazionale di Semiotica e di Linguistica dell'Università di Urbino organizza dal 10 al 17 settembre 2009 un ciclo di convegni, seminari e tavole rotonde sul tema delle teorie e delle pratiche semiotiche. All’evento parteciperanno studiosi delle università italiane e straniere. L'intero corso costa 70 euro. Un singolo convegno 30 euro. Gli interessati devono inviare domanda di iscrizione (scaricabile all'indirizzo internet http://www.uniurb.it/semiotica/docs2009/Dep.09.pdf) al Centro di Semiotica e Linguistica (Piazza Rinascimento 7, 61029 Urbino) entro il 5 settembre 2009. Le domande di borsa si studio, invece, dovranno essere inviate entro il 15 agosto 2009.
sono sia statali, sia privati. “Non facciamo discriminazioni - spiega il direttore di AlmaLaurea - perché non ha senso precludere l’accesso alla conoscenza della documentazione statistica relativa a ogni università. Per questo abbiamo accolto sia università statali come quelle di Camerino e Urbino, sia private come la Lumsa di Roma o lo Iulm di Milano”. Non sono richiesti prerequisiti particolari per entrare in AlmaLaurea. “Basta spiega Cammelli - la richiesta del Rettore dell’Università che vuole aderire e il consenso degli organi accademici”. AlmaLaurea pubblica due Rapporti annuali: uno sul profilo dei laureati e l’altro sulla loro condizione occupazionale dopo la laurea. I primi dati sull’Università di Urbino spiega Cammelli - con ogni probabilità saranno pubblicati da AlmaLaurea nel 2010, con l’uscita del prossimo Rapporto, il XII°. “È importante - ha concluso Cammelli - che le Marche, come hanno fatto regioni come l’Emilia Romagna, si possano dotare di un osservatorio regionale completo sulla base dell’analisi dei dati statistici di tutte le università presenti nella Regione. Mi batterò sino alla fine dei miei giorni affinché questo Paese ci dia risposte di sistema, altrimenti resteremo sempre ai margini”.
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il Ducato
Il ricordo delle bombe israeliane e l’odore del fosforo bianco sono ancora vivi
Beirut dalla doppia identità Macchine sportive e ragazze in minigonna nella città Est, palazzi distrutti e donne con lo hijab a Ovest ERNESTO PAGANO
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eirut, città degli estremi, da Hezbollah al movimento gay. Il pulmino numero 4 attraversa Beirut da est a ovest, allacciando nel suo percorso i due estremi, geografici e culturali, della città: la Beirut est, dalle macchine sportive e le ragazze in minigonna e la Beirut ovest, dai palazzi distrutti e le donne che indossano lo hijab scuro. Al capolinea di Dahye, il quartiere-metropoli controllato dal partito sciita Hezbollah, ci sono ovunque ritratti del leader Hassan Nasrallah – barba e turbante neri – appese a dei fili legati ai balconi delle case. Le elezioni parlamentari del 7 giugno, che hanno deluso Il Partito di Dio che sperava di trasformare in maggioranza la sua coalizione d’opposizione, non hanno intaccato di una virgola la popolarità di Nasrallah tra gli sciiti. Il suo cavallo di battaglia è il concetto di resistenza (sottinteso a Israele), parola mille volte ripetuta durante i suoi discorsi pubblici. Ed è facile, cam-
minando nelle strade senza asfalto di Dahye, capire perché la “resistenza” fa tanto presa sulla gente. Il ricordo delle bombe israeliane e l’odore del fosforo bianco sono ancora vivi nella memoria delle persone. Nella zona del Murabba (il quadrato), già residenza dei vertici di Hezbollah, sorgono gli scheletri dei grattacieli in costruzione. Nel 2006 il quartiere è stato completamente raso al suolo dagli F16 israeliani e adesso è un immenso cantiere tutto a marchio “Waad Ricostruzioni”, la società edile finanziata dall’Iran. “Per mesi in questa zona non ci si poteva avvicinare per la puzza del fosforo bianco”, racconta Zeynab, giovane giornalista del quotidiano “al Akhbar” e simpatizzante del partito sciita Amal, alleato di Hezbollah. “Il governo non ha mai messo piede da queste parti e non ha investito un soldo per la ricostruzione. Siamo i rinnegati della città e ci siamo organizzati da soli” conclude con amarezza. Il quartiere di Dahye è una seconda Beirut, col suo milione e mezzo di abitanti, i suoi ritmi, i suoi martiri di guerra ritratti in
Le elezioni non hanno intaccato la popolarità del leader del Partito di Dio
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divisa nei manifesti, le sue regole e la sua polizia, addestrata e stipendiata da Hezbollah. Il fratello di Zeynab, appena diciottenne, le iniziali del nome tatuate sulla mano, guida con aggressività un fuoristrada dai vetri scuri facendo lo slalom tra le bancarelle del suk e le persone che affollano i vicoli angusti del quartiere. “E’ un combattente” dice Zeynab indicando con ammirazione il fratello alla guida. Fa parte delle milizie sciite dunque? “Milizie non è una bella parola – risponde la giovane aggiustandosi il velo – noi preferiamo la parola resistenza”. “Siamo tutti pronti alla resistenza” le fa eco il fratello mentre tiene la mano premuta sul clacson per far spostare i pedoni. Nel pulmino numero 4 spesso la radio è sintonizzata sul canale di Hezbollah e i passeggeri, studentesse con lo hijab e operai senza denti e con le mani callose, ascoltano con espressione grave gli appelli alla resistenza e alla giustizia sociale proclamati da Nasrallah. Forse nessuno di loro sa che a pochi metri dal capolinea di Hamra, dove ragazze in minigonna e tacchi alti fanno shopping nei negozi alla moda di Hamra street, c’è il teatro d’avanguardia “Babel” dove si parla in altri termini di giustizia sociale. Abolire la legge 534 che condanna i rapporti sessuali “innaturali” è la sfida della comunità gay di Beirut, l’unica in
Medio Oriente ad aver fatto manifestazioni pubbliche e a essersi organizzata in un’associazione legalmente riconosciuta. “Il governo non deve avere nulla a che fare col nostro letto” recita uno dei messaggi affissi ai muri del teatro Babel. Sulle scale all’entrata, un gruppo di ragazzi coi jeans attillati e i piercing su labbra e sopracciglie, scherzano, discutono, si baciano senza vergogna. “Nel nostro paese è normale vedere uomini che tengono in mano una pistola, ma è considerato anormale vedere uomini che si tengono per mano”, dice con un sorriso Rabih, uno dei coordinatori dell’associazione gay Helem, che vuol dire “sogno” in arabo, ma che è anche l’acronimo per associazione libanese per la protezione di gay, lesbiche e transgender. Il movimento gay è uscito allo scoperto quando l’anno scorso due ragazzi sono stati picchiati a sangue e poi arrestati dalla polizia perché sorpresi a baciarsi sotto un edificio di piazza Sassine, nel cuore cristiano di Beirut. “A noi non interessa di che religione sei - conlude Rabih – la nostra battaglia coinvolge cristiani quanto mu-
sulmani”. Ma sono soprattutto cristiani quelli che manifestano più facilmente le loro tendenze sessuali. Come sono in prevalenza cristiani i giovani che affollano i locali notturni del centro e che sembrano vivere in un altro paese rispetto ai passeggeri del pulmino numero 4. “Quando nel 2006 Israele bombardava i ponti di Dahye, a due chilometri da qui, noi guardavamo la guerra in televisione. Era come vedere la partita dei mondiali”, racconta un ragazzo palestrato mentre beve un Cuba Libre. La sua ragazza che ha visibilmente labbra e naso rifatti, non sembra interessarsi minimamente a quello che è accaduto nel 2006, ma ci tiene a dire che i suoi le hanno regalato l’operazione di chirurgia plastica dopo la laurea. Per molti passeggeri del pulmino numero 4, le elezioni parlamentari libanesi del 7 giugno scorso, dovevano rendere meno distanti le due estremità di Beirut, facendo trionfare la causa della “resistenza”. Ma per il momento, l’unica resistenza che sembra trionfare in Libano, è quella al cambiamento.
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In Libano il movimento omosessuale è uscito allo scoperto da appena due anni
DAI NOSTRI INVIATI
Un ambulante napoletano rifiuta di vendere il suo furgone a Mick Jagger
Londra, il tesoro del gelataio “Ho fatto una promessa a mia figlia e non cambio idea neppure davanti a 100 mila sterline dei Rolling Stones” GIULIA AGOSTINELLI
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ifiuta un assegno di 100.000 sterline, quasi 118.000 euro, firmato dalla rock star Mick Jagger perché preferisce tenersi il suo camioncino vintage dei gelati con cui ha promesso alla figlia di accompagnarla all'altare. È successo a Londra e a dire di no al cantante dei Rolling Stones è stato Giuseppe Della Camera, un gelataio napoletano. Giuseppe ha 34 anni, una moglie e tre figli e da 10 anni vende gelati in un parco a sud di Londra con il suo furgoncino Morris J-type del 1954. Se la sua storia assomiglia alle parole della canzone di Lucio Battisti "il carretto passava e quel l'uomo gridava gelati", anche quello che gli è successo qualche settimana fa potrebbe essere raccontato con un'altra canzone. "I can't get no satisfaction" (non posso essere soddisfatto) è quello che, infatti, avrà pensato Mick Jagger dopo che si è visto rifiutare la vendita del camioncino dei gelati. Lui stesso che cantò per la prima volta questa canzone nel 1965. "Stavo lavorando nel parco di Wandsworth Common - ha raccontato Giuseppe Della Camera - quando il signor Mick è arrivato con suo figlio e ha comprato dei gelati. Mi ha detto che si era innamorato del mio camioncino e sono rimasto sbalordito quando mi ha offerto 100.000 sterline per comprarlo. Jagger ha sette figli e ho pensato che probabilmente voleva il mio furgoncino per far giocare i nipoti". Di fronte a questa generosa offerta fatta da una delle rockstar più famose e ricche del mondo, Giuseppe non ha però dimenticato la promessa che ha fatto a sua figlia Alessia. La bambina, che ora ha 12 anni, ha chiesto di essere accompagnata all'altare con il furgoncino vintage del padre e, per questo motivo, Giuseppe non ci ha pensato due volte a rifiutare la proposta. "Devo ammettere che, di fronte a quella cifra, sono stato tentato
Foto grande il furgoncino “conteso” e il cantante Mick Jagger. Foto piccola il gelataio napoletano Giuseppe Della Camera
di venderlo ma poi gli ho detto che era impossibile, non potevo tradire la promessa fatta a mia figlia". Il suo Morris J-type del '54 Giuseppe lo ha comprato qualche anno fa da un contadino inglese che lo usava come pollaio e ha speso ben 35.000 sterline, più di 40.000 euro, per restaurarlo. "Ho iniziato a vendere gelati con un carretto. Poi un giorno - ha raccontato il gelataio napoletano mentre stavo guidando nella campagna vicino a Stonehenge, ho visto in un campo di un contadino questo vecchio camion-
cino dei gelati tutto arrugginito. Era rimasto fermo lì per 28 anni e il contadino lo usava per farci dormire le sue galline. Quando chiesi al signore se lo potevo comprare lui mi rispose che costava sulle 2.000 sterline e che lo avrei dovuto pagare entro il giorno successivo perché stava partendo per le vacanze". "Vendo coni gelato italiani a 1.50 sterline l'uno - ha concluso - ma non potrei sopportare l'idea di vedere il mio amato camioncino al signor Mick, neanche per 100.000 sterline".
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il Ducato
Numerose sfumature differenti si confondono in un solo e unico meccanismo
Le mille facce di New York Tassisti, senzatetto, ragazze in bikini, sessantenni con il giornale elettronico: è lo spirito della Grande mela MANUELA BALDI
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uando ci si prepara a vedere New York per la prima volta, si ha la sensazione di conoscerla già. Si è convinti di aver letto sui giornali o visto in televisione tutto quello che di importante c'è da sapere sulla Grande Mela. In Sex & the City, la popolare serie tv, la protagonista passa il tempo fra negozi d'alta moda e “vernissage” per pochi eletti. Neanche a dirlo, vive a Manhattan e si muove solo in taxi. Ma di chi vede la serie, quanti sanno chi è, che vita fa un tassista medio a New York? Ce ne sono 12 mila, di tassisti, a New York. Quasi tutti afroamericani, indiani, cinesi e coreani. Alcuni ancora non parlano bene l'inglese, ma gli incroci li conoscono come se qui ci avessero sempre vissuto. Uno di questi è Philip, un 52enne di origine cinese che vive qui da quando aveva 6 anni. “Manhattan è facile, non ti puoi sbagliare, sono tutti quadrati. Una volta imparati i quadrati, è fatta. Non sono tutti uguali, ognuno ha la sua natura. Little by little anche tu li distinguerai. E poi orientarsi con il nord e il sud è facile: guarda tutti quei grattacieli. Lì è Midtown. Il cuore della città”. Si parla per “incroci”, a New York. “Portami a Broadway, fra Bleeker e Houston”. Lui capisce al volo. Le vie sono arterie troppo lunghe, e i numeri civici una perdita di tempo. Philip dice che non ha paura di lavorare di notte, che Manhattan è sicura. Ma quando gli parli di attraversare il ponte, magari per andare nel Queens, scuote la testa e dice che fino a lì quando è tardi non vuole andare. Eppure molti newyorchesi sono d'accordo: ormai quella zona, insieme al Bronx, non è più pericolosa come un tempo. Ad aiutare il recupero di queste aree sono state alcune piccole comunità di artisti e
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musicisti, che da Manhattan si sono spostate in periferia trascinando con sé centinaia di giovani alla ricerca delle ultime avanguardie culturali. Gallerie d'arte, locali che suonano musica sperimentale dal vivo, ristoranti etnici: da Soho si è passati a Williamsburg, a due passi dal ponte omonimo, l'anima più hippie di Brooklyn; poi da lì al Bronx. Quando è buio, comunque, non serve arrivare nei sobborghi malfamati per vedere l'altra faccia della città. Nolita (che sta per NOrth of Houston – LIttle ITAly) è un piccolo quartiere, uno dei più alla moda di New York: ristoranti di grido e stilisti emergenti, vetrine coloratissime e perennemente
illuminate animano queste tre o quattro vie del centro. Spring, Prince, Lafayette street. Alle undici di sera non uno, ma decine di senzatetto dormono sotto quelle vetrine illuminate. Sono gli “homeless” di New York: donne, uomini e bambini che vivono ai margini della società. Poi ce ne sono 36 mila che dormono negli shelters, i ricoveri cittadini. Diecimila sono famiglie. Solo negli ultimi sei mesi, anche per via della crisi economica, l'aumento è stato del 13%, i livelli più alti dell'ultimo quarto di secolo. Agli inizi di maggio scorso il Comune di New York aveva cominciato a far pagare l'affitto degli shelters alle famiglie che lavorano, in forza di una legge del 1997 che non era mai stata applicata fino a quel momento. Si sarebbe dovuto versare un importo da valutare in base al tipo di abitazione e al lavoro svolto, e comunque non superiore al 50% dello stipendio. Le proteste hanno attraversato tutta la città, coinvolgendo non solo i diretti interessati, ma anche i gestori dei ricoveri: per una famiglia in difficoltà pagare l'affitto di uno shelter avrebbe significato non uscirne mai più, non potersi mai permettere di risparmiare qualcosa e avere una casa “normale”. Dopo sole tre settimane, il 22 maggio l'amministrazione Bloomberg ha fatto marcia indietro, sospendendo temporaneamente il programma di riscossione degli affitti. Quello che si chiamerebbe un “lieto fine”. In questi giorni però Coalition for the Homeless, una delle più grandi associazioni a tutela dei
A sinistra e in alto, ”homeless” di New York. In fondo, i taxi affollano gli incroci della Grande mela
senzatetto di New York, ha lanciato uno spot che denuncia gli sprechi del Governo e i tagli sui servizi dedicati a chi non ha una casa. Un video fa la parodia della famosa pubblicità della MasterCard: “I due nuovi stadi del baseball di New York (Yankees e Mets, ndr), un miliardo e 300 milioni di dollari; un piano di salvataggio di Wall Street, 750 miliardi di dollari; il taglio sui centri di accoglienza ai senzatetto, non ha pietà”. Un sarcasmo che non va per il sottile, ma che rende l'idea. New York non è solo Sex & the City, questo è certo. Ma nel mare di contraddizioni di una grande metropoli si distinguono anche le sfumature più gioiose. Persone e culture che non sembrano avere nulla, ma proprio nulla in comune fra loro, si “accavallano”. L'abbigliamento non ha regole e conformismi, ognuno indossa quello
che sente. La nuova tendenza? Quando fa caldo le ragazze escono di casa in costume da bagno. Non al mare, ma a Soho, nel cuore di Manhattan. La metropolitana è la sintesi di tutto questo. In un unico vagone siedono uno accanto all'altro il ragazzo del Bronx, tuta acetata fluorescente, scarpe da ginnastica, collanone d'oro e maxi cuffie alle orecchie; il sessantenne in gessato grigio che torna dal lavoro e legge le ultime notizie sul giornale elettronico (il “Kindle”); la modella anoressica vestita all'ultima moda che digita frenetica messaggi sull'iPhone. A nessuno di loro interessa sapere chi è seduto al suo fianco. Eppure per un'alchimia tutta particolare, che forse solo qui a New York esiste, alla fine tante anime differenti si confondono in un solo grande meccanismo.
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DAI NOSTRI INVIATI
Oltre alle case il terremoto ha lasciato ferite profonde anche nelle persone
L’Aquila, così cambiano le anime La scossa del 6 aprile come quelle del 1461 e del 1703: “Da allora, pessimismo e rassegnazione nel capoluogo” ALBERTO ORSINI ov i m e n t o d i terra, certo. Ma è un movimento anche di animi, un terremoto come quelli che hanno colpito L’Aquila quest’anno, o trecento anni fa, o trecento anni prima. 1461, 1703, 2009. Il copione è simile: la scossa colpisce, distrugge edifici e vite umane, poi c’è la ricostruzione. Quello che cambia è però la psiche degli aquilani, che di generazione in generazione e ahimè, di terremoto in terremoto, sono diventati sempre più pessimisti e rassegnati. È questa la tesi di fondo che da tempo porta avanti Errico Centofanti, giornalista e scrittore del capoluogo abruzzese, ma anche in passato fondatore del Teatro stabile d’Abruzzo e direttore del festival “Rinascimenti” di Urbino. Una tesi scritta in un volumetto, “La festa crudele”, uscito nel 2003, a trecento anni esatti da quello che allora era l’ultimo e che invece oggi purtroppo è diventato il penultimo terremoto a colpire pesantemente L’Aquila. “Volevo raccontare - spiega Centofanti - cosa accadde in occasione della scossa del 1703 e soprattutto quali furono le conseguenze. La prima, certo, la distruzione quasi completa della città. Il governo di allora, che era il Regno di Napoli, intendeva abbandonare la zona e rifare L’Aquila altrove, ma per l’opposizione della cittadinanza e della municipalità il pericolo fu scongiurato. La seconda conseguenza fu invece psichica, nella mentalità collettiva degli aquilani. La gravità della distruzione e delle vittime, 2.500 a fronte di una popolazione allora di appena 11 mila abitanti, segnarono le generazioni, che anche dopo non si sono mai riprese. L’Aquila fu ricostruita e anche con magnificenza, ma il carattere degli aquilani ha conservato un’impronta di scetticismo e rassegnazione”. Quella che Centofanti nel libro definisce mentalità del “chi te lo fa fa’?!”: una frase dialettale abbastanza chiara (“Chi te lo fa fare?!”) e che indica appunto lo scetticismo intriso di rassegnazione che spessissimo, perfino nelle generazioni attuali, zavorra ogni buon aquilano che ne veda un altro dedicarsi a qualsiasi attività umana. E le cose nel corso dei secoli sono peggiorate. Tanto è vero che in base alle ricostruzioni storiche
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di Centofanti, il dopo-terremoto nel Quattrocento fu gestito meglio di quello nel Settecento. “Al momento del sisma del 1461 spiega - la città era al suo apogeo economico e culturale, il governo comunale e quello religioso erano di grande qualità. Come poi nel 1703 e anche quest’anno, la sequenza sismica fu caratterizzata da scosse premonitrici, prima di quella rovinosa. Il Comune fu risoluto, vietando dopo i primi terremoti riunioni in luoghi pubblici come le chiese. Quando ci fu la scossa maggiore, la distruzione fu molta ma le vittime furono solo 80”. Diverso il caso del 1703: “La gente - ricorda Centofanti - in quel caso era assembrata proprio dentro le chie-
se: solo in quella di San Domenico ci furono 800 morti, quasi un terzo del totale”. Era la sera della Candelora. E quel Carnevale è diventata la “festa crudele” che dà il titolo al libro di Centofanti. Le similitudini tra il sisma del Settecento e quello del 2009 sono molte. “Proprio come allora - attacca Centofanti - è mancata la prevenzione: l’addestramento della popolazione, l’istituzione di punti di ritrovo, e certo, anche il fare a meno di costruire edifici sopra una faglia. Inoltre le scosse premonitrici sono state ignorate dalla Commissione grandi rischi, con i risultati che ora tutti sappiamo”. Impossibile sapere ora se quest’ultimo terremoto avrà gli stes-
si effetti, materiali e “psichici”, di quello del 1703. “È stato disastroso - spiega Centofanti - devastante e sottostimato. La città dovrebbe essere ricostruita con decine di miliardi di euro, che invece non sono stati messi sul tavolo. Al di là delle fantasie sulla ricostruzione, la città verrà smembrata in dozzine di “villaggetti”. Il centro verrà ristrutturato, ma solo in qualche punto: “funghi” bellissimi in mezzo alle macerie, una Disneyland del terrore. Effetti simili sulla sostanza materiale potrebbero avere una nuova implicazione sulla psiche degli aquilani. Purtroppo al momento tutto va in questa direzione”.
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Da sinistra, vigili del fuoco al lavoro tra le macerie e la Prefettura devastata dal sisma (Foto RENATO VITTURINI). Di seguito, una casa distrutta a Onna
Celso Cioni, commerciante, abitava nel paese più colpito
Via da Onna, salvato dal trasloco Q
uaranta morti su trecento. Con il suo spaventoso bilancio di vittime, il paese di Onna è diventato subito uno dei più noti e tristi simboli del terremoto che lo scorso 6 aprile ha devastato l’Aquilano. Vicinissimo all’epicentro della scossa più forte, quella delle 3.32 del mattino, lo storico centro abitato è stato segnato pesantemente dal sisma: 350 erano gli abitanti prima dell’evento, 41 è il conto esatto delle vittime che ci sono state. “A Onna ci ho vissuto quattordici anni e mai ho pensato potesse accadere una sciagura del genere: di solito quando tornando a casa superavo il passaggio a livello, mi sganciavo la cintura di sicurezza: in mezzo al paese mi sentivo al sicuro”. È uno che Onna la conosce molto bene Celso Cioni, commerciante aquilano, direttore della Confcommercio provinciale ed ex assessore provinciale. È scampato alle scosse, ma di quel paese preso particolarmente di mira dal sisma sa davvero molto. Anche perché è andato via da Onna solo pochi mesi prima del terremoto. La sua famiglia è cresciuta lì, il cuore è rimasto sotto le macerie. “Mia figlia Camilla - ricorda - si trovava a Onna la sera del sisma, visto che spesso ci dormiva e ci è molto legata. Ha frequentato l’asilo delle suore: la figura di suor Alberta per lei è stata importantissima, e poi è cresciuta per i vicoli e la piazza di questo paese. Così nei primi giorni di emergenza ha voluto fare la volontaria”. Un paese che Cioni ricorda ricco di vita: “C’erano - spiega - continue iniziative della pro loco e del centro anziani. Inoltre, anche dopo che io e la mia famiglia ci eravamo trasferiti a Gignano (altra frazione aquilana, n.d.r.), ogni
Le scosse principali del terremoto aquilano
lunedì tornavo per giocare a calcetto con i ragazzi del posto”. Cioni è consapevole che l’aver cambiato casa qualche mese fa, probabilmente, gli ha salvato la vita. Lo confessava sconvolto pochi giorni dopo il terremoto, ai conoscenti incontrati in area di servizio, sulla strada verso la costa. Se ne è reso conto più violentemente tornando a vedere in che condizioni era la sua vecchia casa. “Esternamente - racconta - è rimasta in piedi, ma dentro è tutto crollato. Non so quale sia stata la sorte della nuova inquilina, sorella di una signora che abitava nelle vicinanze è che purtroppo nel sisma è deceduta. Era una casa non grandissima ma con un bel giardino e la casetta per i bambini. Era appartenuta a
una maestra”. Attorno alla casa il paese, in cui ci si conosceva tutti, “tanto che potevi lasciare la chiave infilata nel portone di casa”. Eppure in quell’ambiente ristretto e familiare, c’era qualcuno che ignorava che l’ex assessore provinciale è discendente di una celebre famiglia aquilana di fornai, tanto che ancora oggi esiste un punto vendita omonimo. “Quindici anni fa - ricorda Cioni - durante il mio primo giorno a Onna la signora Dina mi regalò un filone di pane. Quando seppe le mie origini addirittura si scusò, ma le risposi che per me era il miglior regalo possibile; purtroppo neanche lei ce l’ha fatta. In frigo ho ancora le ultime uova che mi aveva dato. Le conserverò per sempre”. (A.O.)
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il Ducato
MASS MEDIA
Il difficile mestiere del cronista che per un mese racconta la corsa in bicicletta
Giro, una lotta tra giornali e tv Nel ciclismo il rapporto tra giornalisti e atleti è più diretto, senza i filtri imposti dagli sport più ricchi LUIGI PERNA
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Nel maggio 2008 il Giro d’Italia è tornato a Urbino con una tappa a cronometro
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n una vecchia foto degli anni Sessanta, c'è il re del quiz Mike Bongiorno che intervista in moto la maglia rosa più celebre dell'epoca: Felice Gimondi. E' passato molto tempo e anche il ciclismo è cambiato. Il Giro d'Italia ha tagliato il traguardo simbolico del Centenario. Oggi sulla moto della Rai, accanto ai cronisti abituali, c'è l'olimpionico Paolo Bettini, che è appena passato dalla bici al microfono. Le uniche voci che si ascoltano sono quelle dei direttori sportivi dalle "ammiraglie", le auto delle squadre. Le interviste in gara ai corridori sono vietate dall'articolo 4 del regolamento: si fanno solo a pedali fermi, cioè prima e dopo le tappe. Al mattino i corridori sfilano sotto il palco per la "firma" del foglio di partenza: quella di solito è la prima occasione. Dopo l'arrivo, invece, scatta il si-salvi-chi-può per cogliere le reazioni a caldo dei protagonisti, che di solito vengono portati al riparo nel box dietro al podio, dove ha accesso per contratto solo la tv di Stato, in attesa di essere dati in pasto a televisioni, radio e giornali, in rigoroso ordine. Raramente i campioni come Armstrong, Basso e Cunego si fermano a parlare, se non sono obbligati dal cerimoniale. Perciò se si vuole cercare qualcosa in più, la cosiddetta "esclusiva", bisogna andare altrove. Dove? Ai pullman delle squadre, in cui i corridori si rifugiano dopo la tappa per una doccia ristoratrice e il successivo viaggio verso l'albergo. Il problema è arrivarci, a questi pullman. Perché possono essere lontani anche quindici chilometri dall'arrivo, se il traguardo è in cima a una salita alpina o dolomitica. Per questioni logistiche, i motorhome si fermano ai piedi della montagna. Allora bisogna industriarsi: saltare al volo su un'ammiraglia che scende a valle, supplicare un passaggio su un'auto qualsiasi della carovana rosa, oppure aspettare la fine della corsa ospiti proprio su uno di questi motorhome, complice la fratellanza di strada con qualcuno dei massaggiatori delle squadre. Rispetto agli altri sport, il ciclismo conserva questo spirito nomade e zingaresco che affascinò scrittori come Achille Campanile e Alfonso Gatto, grandi firme del giornalismo come Aldo Buzzati, Indro Montanelli, Orio Vergani e Gianni Brera. Non ci sono uno stadio o
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Cosa significa seguire i corridori per tanto tempo? Primo: non stare mai fermi. Secondo: non avere orari. Terzo: non considerare la fatica. Il Giro è una prova fisica anche per chi lo racconta
le pareti di un Palazzetto. Si pratica all'aperto, sfidando i capricci della natura. Si segue in auto, anticipando il serpentone dei corridori, mangiando al volo un panino e fiondandosi all'arrivo per vedere le riprese dall'elicottero degli ultimi trenta o quaranta chilometri della tappa. Gli attori che vi recitano sono vivi. Con loro è ancora possibile avere quel rapporto diretto e senza filtri, che è invece vietato nel calcio o in Formula 1. Ma che cosa vuol dire lavorare un mese seguendo questa giostra itinerante? Primo: non stare mai fermi. Secondo: non avere orari. Terzo: non considerare la fatica. Il Giro è una prova fisica anche
per chi lo racconta. Ogni sera un albergo diverso. Ogni giorno una città di partenza, una di arrivo e una in cui dormire. Circa settemila chilometri da percorrere. Nella valigia c'è di tutto: dal moncler al costume da bagno. Perché si va da Plan de Corones a Pizzo Calabro e si può passare, in una sola tappa, dal livello del mare ai 2.600 metri del Gavia. Senza contare il freddo e il caldo, la neve e il sole. Come quest'anno, nella tappa marchigiana con il Monte Nerone, il Monte Catria e l'arrivo a Monte Petrano: una delle più "infuocate" delle ultime edizioni, in cui i corridori hanno bevuto nove litri d'acqua a testa. Al Giro si vive di espedienti. Le sale stampa sono organizzate
nei Comuni, nelle scuole elementari, nei rifugi alpini, perfino nelle case. Una volta, nel 1995, la tappa di Briancon fu accorciata per una slavina sul Colle dell'Agnello e l'arrivo posto a Pontechianale. Lo storico direttore Candido Cannavò e i giornalisti della Gazzetta dello Sport bussarono a una porta e chiesero ospitalità a una signora, che diede loro asilo fino a sera. Quest'anno, sull'Alpe di Siusi, una parte dei giornalisti della Gazzetta (compresi quelli di Internet, che producevano video di notevole complessità) è rimasta a lavorare ai piedi della funivia, occupando i tavoli di un ristorante. In certi casi non si dorme. Come nella notte del blitz di Sanremo
al Giro 2001, quando duecento agenti perquisirono per nove ore le stanze d'albergo dei corridori e la corsa rosa conobbe (mai come allora) l'incubo del doping. In agguato ci sono sempre pericoli e tragedie. L'ultima è stata la morte di Fabio Saccani, 69 anni, uno dei motociclisti più esperti al seguito del Giro, vittima il 19 maggio di un incidente mentre andava al raduno di partenza di Cuneo, dopo il giorno di riposo passato a casa con la famiglia. Il suo corpo è rimasto sull'asfalto, a pochi metri dal percorso. La gara era già partita. Scriverne, per chi l'ha visto, è stato come piangere un amico.
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