Sviluppo Sostenibile E Bioregione

  • May 2020
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LUCIANO IACOPONI

SVILUPPO SOSTENIBILE E BIOREGIONE: IL METODO DELL’IMPRONTA ECOLOGICA LOCALIZZATA 1. Introduzione L'articolo tratta una questione agraria importante - la visibilità sociale dell'agricoltura nelle società sviluppate - e si propone di indicare un linea di ricerca per favorirla. Dalla visibilità sociale dell'agricoltura dipende, nei paesi avanzati, la continuità del sostegno al settore ed al suo "sistema di conoscenza" (ricerca, istruzione e divulgazione), oltreché la pianificazione del territorio. La visibilità dell'agricoltura regredisce nei paesi avanzati a prescindere dai risultati statistici (produzione vendibile, valore aggiunto, investimenti, addetti), perché la globalizzazione dei mercati e le politiche commerciali della WTO aumentano la distanza fisica e psicologica tra i bisogni alimentari dei consumatori e le produzioni agricole, non solo locali, ma anche nazionali. Gli economisti agrari hanno tentato vari approcci per perpetuare l'antico stato di grazia della visibilità sociale dell'agricoltura: dall'agribusiness al sistema agroalimentare, dalle filiere alimentari ai distretti agroindustriali, dall'azienda-famiglia ai suoi "dintorni", dai prodotti di nicchia ai marchi di qualità, dallo sviluppo rurale all'agricoltura cosiddetta multifunzionale. Pur avendo la PAC seguito (in molti casi anticipato) tali impostazioni e sebbene tali nuovi indirizzi di politica agraria abbiano avuto un buon successo, destando nell'immaginario collettivo di una società urbanizzata interesse per l'agriturismo, per i prodotti biologici e per le tradizioni enogastronomiche, la visibilità dell'agricoltura non è migliorata di molto, presso il grande pubblico e la stessa classe politica. Dal punto di vista della teoria economica la perdita di visibilità sociale dell'agricoltura è facilmente spiegabile. Nel breve periodo, gli equilibri di mercato dei prodotti di massa non avvertono più di tanto le nuove tendenze dei consumatori, mentre nel lungo latitano le forze innovative (capacità imprenditoriali e finanziarie) per l'introduzione delle nuove tecnologie. Come direbbe Schumpeter, in agricoltura predomina la ripetitività dei cicli economici, che non esige né elevate doti imprenditoriali, né grossi mutamenti sociali, né straordinarie risorse umane - fatti che richiamerebbero attenzione per il settore - mentre lo "sciame innovativo", che spinge il sistema "fuori dall'orbita del ciclo", è modesto, o non allettante. L'innovazione è relegata a due segmenti: i prodotti-servizi dell'agricoltura multifunzionale, che si aprono la strada in nicchie di mercato limitate ai consumatori più ricchi del mondo sviluppato, ed i nuovi prodotti e/o processi produttivi legati agli OGM, che riguardano per ora soltanto alcune coltivazioni. Non si può escludere che, in futuro, detti segmenti innovativi si amplino a tal punto da focalizzare sull'agricoltura nuovi consensi economici, politici e sociali: si dovrebbe però ammettere che nei paesi più sviluppati i consumatori, desiderosi di qualità e di sicurezza alimentare e consapevoli dei limiti ambientali dell'agricoltura convenzionale, rivolgano domande di massa ai prodotti-servizi dell'agricoltura multifunzionale e, nei paesi meno sviluppati, a causa dell'alto numero degli abitanti e del loro basso reddito pro capite, i consumatori rivolgano domande di massa ai prodotti transgenici, rinunciando alle tradizioni agricole e alimentari. Sarebbero due modi di dare maggiore visibilità sociale dell'agricoltura, che riproporrebbero una grande questione economica: il persistere delle disparità dello sviluppo, che vedono i paesi sviluppati sempre in cima alla scala del benessere e i paesi arretrati sempre fermi sui primi gradini (ovvero, ammesso che gli uni

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e gli altri salgono la scala, la velocità di avanzamento dei primi è sempre maggiore di quella dei secondi). Gettando lo sguardo su questo "lato oscuro" dello sviluppo, il 2° paragrafo affronta il tema, già sollevato agli inizi del XIX° secolo da Sismondi, degli "ostacoli" che lo sviluppo incontra nella sua diffusione nello spazio e nel tempo e che fanno perdere allo sviluppo stesso la sua capacità di creare, sempre e dovunque, un più alto benessere. Gli ostacoli che lo sviluppo incontra nella sua diffusione sono nel 3° paragrafo messi in relazione all'espansione delle esigenze di risorse ambientali dell'economia sviluppata, misurate con il metodo dell'"impronta ecologica" (superficie ecologicamente produttiva necessaria per i consumi di un abitante medio). Il metodo rivela che la globalizzazione economica ha il suo "duale" nella globalizzazione ecologica: la prima può moltiplicare e accelerare lo sviluppo, diffondendolo, pur con gli ostacoli anzidetti, dai paesi ricchi a quelli poveri; la seconda lo potrebbe frenare, impedendo ai secondi di realizzare i livelli di benessere dei primi perché, con le attuali tecnologie di produzione e di consumo, lo sviluppo dei paesi ricchi ha già occupato tutto lo spazio ecologico del pianeta. Il metodo dell'impronta ecologica, apparso recentemente in letteratura, trova accesi sostenitori e altrettanto accesi detrattori: per i primi il metodo conferma oggettivamente la progressiva insostenibilità ambientale dello sviluppo; per i secondi il metodo porta a conclusioni errate per eccesso, perché si basa su ipotesi estreme. Entrambi i punti di vista sono, almeno in parte, veri: se lo sviluppo determina inevitabilmente la crescita dell'impatto ambientale dell'economia, tale impatto non è quantificabile ipotizzando una totale sconnessione tra l'economia e le risorse ambientali locali. Nel 4° paragrafo viene esposta una diversa versione del metodo che divide l'impronta ecologica "totale" in due componenti: l'impronta ecologica "localizzata", che grava direttamente sulle risorse ambientali locali, e l'impronta ecologica "trasferibile", che può essere scaricata - per vie naturali o con gli scambi commerciali - sulle altre realtà territoriali. Il metodo, proposto dall'autore, mette in rilievo il ruolo di equilibrio ambientale che l'agricoltura continua a svolgere nelle economie sviluppate. L'auspicio di Sismondi che il fine dell'economia e della politica, tra loro unite nella "scienza di governo", sia la "maggiore felicità della specie umana su uno spazio determinato" e che quindi ogni società difenda la sua "ricchezza territoriale", è discusso nel 5° paragrafo attraverso il concetto di "bioregione", che si richiama alla necessità che lo sviluppo economico sia sostenibile in primo luogo rispetto alle risorse ambientali locali. Il 6° paragrafo espone la verifica empirica del concetto di bioregione, con il metodo dell'impronta ecologica "localizzata", in provincie toscane. Partendo dal ruolo positivo che l'agricoltura svolge nei territori ad economia sviluppata, il 7° paragrafo discute le modalità con cui la nozione può essere acquisita dall'opinione pubblica, come conoscenza socialmente condivisa, per le scelte cooperative in materia ambientale. L'8° e conclusivo paragrafo, riflettendo sul contrasto tra l'importanza reale e la scarsa visibilità sociale dell'agricoltura, ne attribuisce la colpa all'espulsione della natura dalla teoria economica. La questione è vitale per gli economisti agrari, che si vedono sottrarre dagli economisti ambientali temi un tempo ad essi familiari: si invitano gli economisti agrari pertanto a cercare le motivazioni della visibilità dell'agricoltura nel ruolo che essa mantiene nelle società sviluppate, per il corretto uso delle risorse naturali e territoriali, anziché nella costruzione di macro o micro sistemi economici, poco capiti dalla gente e dagli stessi agricoltori (paghi di una PAC ritenuta un inderogabile dovere per la società ed un sacrosanto diritto per loro stessi).

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2. Il "lato luminoso" e il "lato oscuro" dello sviluppo economico Il "lato luminoso" dello sviluppo economico è fuori discussione. Dalla seconda metà del XVIII° secolo a oggi la popolazione mondiale è cresciuta da 1 a 6 miliardi di unità ; tra il 1870 e il 1976, negli USA la popolazione è cresciuta di 5,4 volte e il Pil di 38, con un aumento del Pil pro capite di 7 volte: un aumento simile si è registrato in Canada, Francia, Germania e Austria; di poco minore in Olanda, Belgio, Regno Unito, Svizzera e Italia; doppio in Giappone. Il "lato luminoso" dello sviluppo non si esaurisce in questi macroscopici effetti quantitativi, ma riguarda anche gli aspetti civili: la libertà politica e economica; la laicità delle istituzioni; la possibilità data a tutti di avanzare nella scala sociale; la diffusione generalizzata del sapere (sebbene per questi aspetti sia difficile separare gli effetti dalle cause dello sviluppo). Anche il "lato oscuro" dello sviluppo è, se si osserva bene, altrettanto evidente. Alla parità di diritti dei cittadini non corrisponde quasi mai un'effettiva parità di benessere e la non equa distribuzione della ricchezza, tra paesi e/o classi sociali, non è piccola né è decrescente nel tempo. Nord America, Europa ed Oceania hanno nell'insieme il 20% della popolazione mondiale, ma producono più del 50% del Pil mondiale e dette aree continentali, tutte formate da paesi che per primi hanno intrapreso lo sviluppo , non solo mantengono le loro posizioni di primato, ma aumentano anche il distacco dai paesi più arretrati. Negli stessi paesi ricchi, tuttavia, si registrano sacche di sottosviluppo, in alcune aree territoriali e per certe categorie sociali , mentre cresce la preoccupazione per fenomeni sociali incontrollabili e il malessere per le esternalità ambientali negative . La teoria economica considera rilevante solo il "lato luminoso" dello sviluppo, perché l'economia: a) è assurta ad importante campo scientifico con lo sviluppo economico; b) si è imposta come scienza con la teoria dell'equilibrio economico generale che considera lo sviluppo un fenomeno dovuto a fattori esogeni; c) si è espressa in materia di sviluppo con teorie più di tipo normativo che positivo . 1

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Nei precedenti 10.000 anni, grazie alla rivoluzione agraria, l'umanità era passata da 5 milioni a 1 miliardo di unità, con un aumento medio annuo di circa il 2% (contro circa il 3% dal 1750 al 2000). 2 La Gran Bretagna appartiene alla prima classe di decollo (1783-1802); alla seconda classe (1830-1850) appartengono Stati Uniti, Francia e Germania; alla terza (1870-1901) Svezia, Giappone, Russia, Italia, Canada e Australia; alla quarta (dal 1933 a oggi) i paesi del Centro e Sud America (Messico, Argentina, Brasile) e dell'Asia (Cina, India e le cosiddette "tigri", Taiwan, Corea del Sud, ecc.) 3 "Durante gli anni Ottanta e Novanta la fame e la povertà sono riemersi come importanti problemi sociali in cinque tra i paesi industriali più ricchi e con avanzate forme di sicurezza sociale: Australia, Canada, Nuova Zelanda, Regno Unito e USA. In Canada 2,5 milioni di persone ricevono ogni anno il cibo dalla carità delle "banche del cibo"; negli USA si stima che 30 milioni di persone non siano in grado di acquistare cibo… e un bambino su cinque soffre la fame… La fame nei ricchi paesi occidentali è stata depoliticizzata, con profonde conseguenze personali, morali e sociali". (Riches, 1997, p. 1-2). 4 Tra i maggiori stati di preoccupazione dei paesi ricchi si ricordano la droga, la criminalità minorile, la disoccupazione giovanile e/o di lunga durata, il problema degli anziani, i conflitti tra etnie, il terrorismo. 5 Un diffuso malessere per fenomeni di esternalità negative locali si deve all'esplosione di un traffico sempre più caotico, inquinante e dannoso per la salute umana. 6 Le teorie positive dello sviluppo sono rivolte all'analisi del trend (Harrod-Domar, Kuznets, Schumpeter e Solow) e alla "fisiologia" del ciclo economico (Kondrat'ev, Kaleki, Schumpeter e Keynes); le teorie normative si concentrano sulle fasi negative del ciclo, viste come "patologie" da curare nel breve periodo stimolando i consumi (funzione negativa del risparmio). Le teorie positive dello sviluppo si ricordano per le loro implicite ricette politiche: la teoria dell'imprenditore innovatore di Schumpeter detta una ricetta liberista per favorire l'introduzione delle innovazioni; il modello di Harrod-Domar suggerisce ricette per politiche economiche a favore della ricerca scientifica, per aumentare la produttività del lavoro, e del risparmio, per avvicinare il tasso reale di sviluppo a quello potenziale (funzione positiva del risparmio).

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Al "lato oscuro" dello sviluppo è rivolta la letteratura del sottosviluppo, che lo collega a due motivazioni principali: l'incapacità dei paesi arretrati a assumere i comportamenti virtuosi, individuali e collettivi, che caratterizzano la storia e la realtà dei paesi avanzati; la dipendenza politica dei paesi sottosviluppati, visti come classe subalterna o il grande proletariato dell'economia sviluppata (contestazione del "popolo di Seattle" ai vertici dei "grandi paesi"); risolti i nodi politici dei paesi subalterni nei confronti di quelli egemoni, la teoria della dipendenza non vede tuttavia seri ostacoli al pieno sviluppo dei primi. Le teorie economiche dello sviluppo e del sottosviluppo si ispirano tutte a una tesi, o teoria, che si può definire della "convergenza". Lo sviluppo è uno strappo da condizioni economiche e socio-istituzionali preesistenti, che crea disparità tra regioni e/o categorie sociali nei paesi sviluppati e tra questi ed i paesi arretrati; ma, poiché la forza propulsiva dello sviluppo è inarrestabile, l'eccedenza di ricchezza, creata nei luoghi di origine dello sviluppo (regioni e/o gruppi sociali), tracima, prima o poi, in tutti gli altri. Premesso che il sottosviluppo non si noterebbe, se in qualche parte del mondo non si fosse avviato lo sviluppo, per la "convergenza" il mezzo per aiutare i paesi sottosviluppati è accelerare (non rallentare, né arrestare) processi più generalizzati di sviluppo. La tesi o teoria della "convergenza" è un patrimonio ideologico della professione dell'economista, sul quale non conviene fare facili abiure, perché i fatti storici e la cronaca quotidiana sembrano, a chi vede il "bicchiere mezzo pieno", dare ripetute conferme. Poiché dette conferme a chi vede il "bicchiere mezzo vuoto" non sembrano così generali, si può anche argomentare che la "convergenza" è discontinua nello spazio e/o lenta nel tempo, o non esiste affatto (discontinuità, lentezza o assenza di "convergenza" sono il "lato oscuro" dello sviluppo). A fronte di questa disparità di opinioni il problema teorico non è provare empiricamente l'esistenza o l'assenza del "lato oscuro", ma dare a esso, sebbene sia oggettivamente o soggettivamente poco visibile, una plausibile giustificazione analitica. "Lato luminoso" e "lato oscuro" furono individuati entrambi dai primi teorici dello sviluppo, gli economisti classici, ai quali si devono concetti quali: i limiti della crescita della popolazione di Malthus, ripresi dal rapporto del Club di Roma (Meadows et alii, 1972); le condizioni dello sviluppo, intuite da Smith e teorizzate dagli economisti nei secoli successivi (divisione del lavoro, "mano invisibile" ed ampliamento dei mercati); i fattori di freno e accelerazione dello sviluppo, analizzati da Ricardo e considerati anche dalle moderne teorie dello sviluppo (la caduta dei tassi di profitto dovuta all'aumento dei salari di sussistenza, a causa della scarsità delle terre fertili, è superabile investendo in innovazioni tecnologiche); la visione pessimistica di Marx, per il quale la tendenziale caduta dei tassi di profitto può coesistere con l'accumulazione del plusvalore perché i capitalisti, sebbene abbiano nel loro codice genetico la tendenza a trasformare il capitale "variabile" in "costante", falliscono nella loro missione di classe, portando il sistema capitalistico alle sue "inevitabili" crisi. Poiché le moderne teorie dello sviluppo, con la rilevante eccezione di Keynes , sono mutuate dall'economia classica, non è fuori luogo approfondire il tema del "lato oscuro" 7

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Keynes concentra l'analisi sul breve periodo e sui comportamenti speculativi, cambiando profondamente l'analisi classica dello sviluppo rivolta alle variazioni delle combinazioni dei tradizionali fattori economici (terra, capitale e lavoro) e quella neoclassica basata sul ruolo di un progresso tecnico esogeno. Keynes dimostra che l'equilibrio economico può convivere con la non piena occupazione dei fattori produttivi, cadendo in fasi di stagnazione che associano disoccupazione ed inutilizzazione dei capitali fissi: Keynes elabora una teoria più generale dell'equilibrio, inserendovi i fenomeni di sottoccupazione, ma non generalizza la teoria economica spiegando, insieme, equilibrio e sviluppo. Muovendosi nei quartieri alti dello sviluppo, pur straordinariamente acuto nell'individuare cause e cure del temporaneo appannamento del "lato luminoso" dello sviluppo, Keynes non analizza lo sviluppo economico nel suo complesso.

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dello sviluppo richiamandosi a un classico dimenticato: il Sismondi dei “Nuovi principi di economia politica o della ricchezza nei suoi rapporti con la popolazione” (Sismondi, 1819), che ci consente di spostare l'analisi del "lato oscuro" dai punti più bassi (fasi di recessione e sottosviluppo) ai punti più alti (fasi di prosperità e trend dello sviluppo). Sismondi parte da un punto di vista desueto per l'economista moderno, assumendo che l'economia politica faccia parte di una più ampia "scienza di governo" . L'economia non è autonoma, perché "l’aumento della ricchezza non è lo scopo dell’economia politica, ma il mezzo di cui dispone per procurare felicità a tutti” (Sismondi, 1819, p. 9), e la politica si rende necessaria perché "lo scopo del governo non è l'accumulazione della ricchezza nello stato, ma la partecipazione di tutti i cittadini ai piaceri della vita fisica, rappresentati dalla ricchezza" (Sismondi, ib., p. 23) . Vivendo in una società tradizionale, Sismondi teme che lo sviluppo eroda le basi del benessere e, contro l'eccessiva crescita della ricchezza "commerciale", auspica la difesa delle "ricchezze territoriali" ; da ciò le sue idee “sulla formazione del reddito e sul modo in cui questo deve limitare il consumo e… la produzione, sullo sviluppo che è conveniente dare alla ricchezza territoriale, sugli effetti di una concorrenza senza freni e quelli dei progressi delle macchine” e l'esortazione a ricercare “la combinazione e la giusta proporzione fra popolazione e ricchezza capaci di garantire la maggiore felicità della specie umana su uno spazio determinato” (Sismondi, ib., p. 5). Dopo avere visto "la produzione aumentare mentre il benessere diminuiva" il giudizio di Sismondi sullo sviluppo, promosso dalla prima rivoluzione industriale, è lapidario: “L’Inghilterra dimenticando gli uomini per le cose, non ha forse sacrificato il fine al mezzo?” (Sismondi, ib., p. 11) . Ritenere che la critica allo sviluppo come mera crescita della “ricchezza mercantile” e l'abbozzo di una teoria dello sviluppo umano sostenibile, mirante alla “maggiore felicità 8

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"La scienza di governo si propone… per scopo la felicità degli uomini riuniti in società. Essa ricerca i mezzi per assicurare loro il più alto grado di felicità compatibile con la loro natura; nello stesso tempo cerca i mezzi per far partecipare a tale felicità il maggior numero possibile di individui. (Sismondi, 1819, p. 19)... La scienza del governo si divide in due grandi rami, in base ai mezzi che impiega per raggiungere il suo scopo, cioè la felicità in generale... La felicità morale, nella misura in cui dipende dall’azione di governo… costituisce l’obiettivo dell’alta politica… Il benessere fisico dell’uomo, nella misura in cui dipende dall’opera del governo, è oggetto dell’economia politica.” (Sismondi, ib. p. 22). 9 Sismondi rifiuta il potere regolatore della "mano invisibile" perché: "... è proprio per regolarizzare (la) distribuzione della ricchezza, per renderla più giusta, che invochiamo quasi di continuo quell'intervento del governo che invece Adam Smith respingeva. Noi vediamo nel governo il protettore del debole contro il forte, il difensore di colui che non può difendersi da solo, il rappresentante dell’interesse permanente e pacato di tutti, contro l’interesse effimero, ma violento del singolo." (Sismondi, 1819, p. 47). 10

Per Sismondi tali ricchezze “sono le più necessarie perché dalla terra nasce la sussistenza di tutti gli uomini e perché forniscono la materia prima per gli altri lavori.” (Sismondi, 1819, p. 101). 11 Parlando della concorrenza internazionale Sismondi nota che “le nazioni diventano rivali tra di loro; la prosperità dell’industria dell’una significa la rovina delle industrie altrui; un solo paese prevalendo sugli altri riuscirebbe ad aggiudicarsi tutti i benefici della libertà di commercio mentre gli altri sarebbero costretti a difendersi da una attività che cerca di annientare la loro... La nazione inglese ha creduto più economico nutrire gli Irlandesi solo di patate, cosicché ogni packet-boat scarica in Inghilterra legioni di Irlandesi.” (Sismondi, 1819, pag. 11); e riferendosi alla stessa Inghilterra: “il commercio, malgrado la sua immensa estensione, ha smesso di attrarre i giovani che cercano di far carriera: tutti i posti sono occupati e, sia ai livelli superiori che a quelli inferiori, offrono invano il loro lavoro senza riuscire a trovare un salario. Nelle campagne non ci sono più contadini (e) nelle città gli artigiani e i piccoli imprenditori indipendenti sono quasi scomparsi.” (Sismondi, 1819, p. 10).

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della specie umana su uno spazio determinato”, siano un'eredità fisiocratica o la parte sentimentale e più caduca del pensiero classico di Sismondi fa un grave torto alla sua grandezza di economista. Se gli economisti classici vedono il "lato luminoso" dello sviluppo nella sua potenza produttiva, dovuta all'innovazione organizzativa del "processo di fabbrica" (GeorgescuRoegen, 1982, p. 182), e il suo "lato oscuro" in un'eterogenea serie di fattori limitanti, Sismondi, pur non negando la potenza produttiva dello sviluppo, vede in essa la matrice stessa del suo "lato oscuro". La maggiore produzione creata dallo sviluppo eccede il consumo dei produttori e deve riversarsi in altri sistemi economici , trasferendovi gli aspetti positivi - divisione del lavoro e specializzazione produttiva - e quelli negativi migrazione e disoccupazione dei lavoratori - con uno "scarto", però, tra i due aspetti: nella sua diffusione lo sviluppo trova "ostacoli di tempo e di spazio" che ne disperdono la potenza produttiva, impedendogli di ricomporre ad un maggiore livello di benessere, sempre e dovunque, gli equilibri distrutti: “alla fine della circolazione la produzione crea effettivamente il consumo. Ma ciò soltanto se si fa astrazione dal tempo e dallo spazio… facendo astrazione cioè da tutti gli ostacoli che possono interrompere questa circolazione.” (Sismondi, ib., p. 502). 12

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Il riferimento alla fisiocrazia - esplicito nella sua opera giovanile "Il quadro dell'agricoltura toscana" (Sismondi, 1801) e implicito nella sua più matura opera "Nuovi principi di economia politica" (Sismondi, 1819) - si spiega con la formazione di Sismondi come economista agrario, della quale egli mantiene fermi alcuni principi: a) il sistema economico governato da leggi naturali (da cui il celebre motto fisiocratico “laissez faire, laissez passer”); b) la natura ciclica della produzione e della distribuzione del reddito, che è riprodotta nel tableau économique e in cui Sismondi, come già Quesnay, nota l'effetto moltiplicatore dei consumi: “La ricchezza nazionale segue un movimento circolare. Il reddito nazionale deve regolare la spesa nazionale e questa deve assorbire nel fondo di consumo la produzione totale” (Sismondi, 1819, pag. 80); c) la terra come base della ricchezza, perché è la base della vita: “La prima fonte della ricchezza è la terra, la cui forza spontanea, sempre tesa a produrre, ha bisogno di essere rivolta a vantaggio dell’uomo: questo avviene attraverso il lavoro. La seconda fonte è il capitale che serve per pagare il salario del lavoro. La terza è la vita, che dà la capacità di lavorare.” (Sismondi, ib., p. 75). Sismondi anticipa Marx nel denunciare il baratto tra la ricchezza materiale e la vita dei lavoratori: “…la crescente divisione del lavoro è la principale causa dell’aumento dei suoi poteri produttivi… questa divisione fa constatare che, essendo ormai l'operaio divenuto una specie di macchina, effettivamente può essere sostituito da una macchina… Ma attraverso la divisione del lavoro l’uomo ha perduto in intelligenza, vigore fisico, salute, allegria tutto ciò che ha guadagnato in capacità di produrre ricchezza.” (Sismondi, ib., p. 235). La reazione a Marx ha espulso la vita della teoria economica, condannando Sismondi all'oblio e togliendo all'economia agraria quello status scientifico che le derivava (e potrebbe derivarle ancora) dallo studio della trasformazione della "vita naturale", quanto più e meglio è possibile, in "vita umana". 13

“Alla produzione per la produzione Sismondi contrappone uno schema ideale di assetto sociale. Esso si basa su una limitazione alla libera espansione produttiva delle capacità umane in vista di un accresciuto e diffuso benessere sociale. Per quanto sentimentale questa opposizione possa apparire, resta a Sismondi l’indubbio merito di aver messo in evidenza la natura antagonistica fra lo sviluppo della ricchezza attraverso gli individui e la non fruibilità di questa ricchezza da parte degli stessi individui… (sicché Sismondi è) uno dei più lucidi precursori dei quell’umanesimo economico che sarà recuperato e continuato in specie da filantropi e riformatori socialisti e cattolici.” (Barucci, ib., p. XXXI). 14

“Io vedevo in questo un eccesso di produzione o una sproporzione fra la produzione e il consumo... La maggior parte degli uomini di stato… si sono proposti di incrementare progressivamente la produzione dei propri paesi, non per consumarla all’interno sibbene per esportarla. Così il governo inglese ha voluto fare dell’Inghilterra la manifattura dell’universo; ha voluto che i popoli dell’Europa, dell’America e dell’India diventassero clienti dei mercanti inglesi e a ogni progresso dell’industria nazionale corrispondesse l’apertura di un nuovo mercato estero.“ (Sismondi, 1819, p. 495-496).

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Aggiorniamo gli argomenti di Sismondi partendo dalla dimensione spazio-temporale. Tutti i fenomeni economici si svolgono nello spazio-tempo ma, nello stato di equilibrio, la loro normalità (il loro ripetersi ciclicamente) nasconde gli aspetti spazio-temporali, che invece lo sviluppo, rompendo il ciclo, mette in evidenza. L'analisi dello sviluppo e dell'innovazione non trova ausilio in modelli statici (a-temporali) e puntuali (a-spaziali) e deve avvalersi di più complessi modelli dinamici e spaziali. Con essi si osserva che i fenomeni dello sviluppo sono il frutto di "progetti" ideati e realizzati nelle dimensioni temporali e spaziali (Iacoponi, 1996, p. 277-279) . L'introduzione dei nuovi progetti presenta costi finanziari e sociali per l'interruzione dei vecchi progetti rappresentati dai processi produttivi in essere - per perdite di liquidazione dei capitali non ammortizzati, per mobilità e disoccupazione dei lavoratori, per crisi dei commerci - o trova resistenze psicologiche al cambiamento (scatenando gli istinti in difesa della tradizione). La sostituzione dei vecchi progetti produttivi con quelli relativi ai nuovi processi (o prodotti o soluzioni organizzative) avviene nei luoghi originari dello sviluppo e in quelli dove esso si propaga; ma mentre nei primi i costi finanziari o psicologici sono espliciti e fanno parte del bilancio benefici-costi del "lato luminoso" dello sviluppo, nei secondi a detti costi si aggiungono altri costi, impliciti, "oscuri": cioè i ritardi di progettazione e di adozione delle innovazioni. Poiché la progettazione di processi innovativi impone la riorganizzazione delle imprese, per acquisire nuovi diritti di proprietà, nuovi rapporti contrattuali e nuove capacità manageriali per gestire le informazioni (Iacoponi, 1996, p. 292-298), i ritardi sono tanto più gravi quanto maggiori sono le distanze spaziali e temporali (e culturali) che l'onda d'urto dello sviluppo deve superare. I luoghi periferici dello sviluppo non realizzano il saldo pieno dei benefici e dei costi che lo sviluppo realizza nei luoghi centrali, ma sono condannati dalla lontananza e dalle difficoltà di informazione e di apprendimento - non da inferiori razionalità decisionali a posizioni di debolezza competitiva (mercati dei nuovi prodotti già saturi e/o mercati dei nuovi fattori produttivi già sfruttati) oppure a mantenere in vita i processi/prodotti tradizionali, perdenti nella logica dei costi comparati. Toccati tardi dall'onda innovativa, quand'essa già si va smorzando, i luoghi periferici adottano tardivamente le innovazioni (Schumpeter, 1924, p. 158) e, sebbene possano raccogliere alcune briciole del saldo dei benefici-costi dello sviluppo, subiscono i costi-opportunità dell'indebolimento della loro struttura economica e del deterioramento della loro compagine sociale, cioè il "lato oscuro" dello sviluppo, usando l'espressione che sintetizza il pensiero di Sismondi . L'onda d'urto dello sviluppo possiede una "carica espansiva" (Sismondi, ib., p. 76) che dilata le dimensioni spazio-temporali dei processi produttivi nei luoghi originari, provocando la compressione dello spazio-tempo dei processi produttivi, nelle aree dove lo sviluppo si propaga, ed è tale compressione, dovuta allo sviluppo, ad impedire allo 15

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I processi produttivi sono "progetti" che hanno dimensioni temporali, secondo il modello neo-austriaco di Hicks (Hicks, 1971, p. 22-24) e spaziali, per l'allocazione dei fattori-flusso e fattori-fondo (GeorgescuRoegen, 1982, p. 149-151) nello spazio interno (organizzazione aziendale) od esterno (sistema locale e mercato) dell'impresa (Iacoponi, 1996, p. 280-288): per il cambiamento le imprese devono riorganizzare l'allocazione spazio-temporale degli input e degli output (Iacoponi, ib., p. 292-298), ampliando la loro dimensione organizzativa ai fini della gestione dei nuovi input e dei nuovi output. 16 "Ho dimostrato che l'equilibrio tra i guadagni di industrie rivali, su cui gli economisti moderni hanno fondato i loro calcoli, era raggiunto solo attraverso la distruzione dei capitali fissi e la mortalità degli operai occupati nell'industria sconfitta (e) che sebbene l'invenzione delle macchine che aumentano la capacità produttiva dell'uomo siano un vantaggio per l'umanità, la distribuzione ingiusta che noi facciamo dei beni che ne derivano la trasforma in una calamità dei poveri". (Sismondi, 1819, p. 14).

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sviluppo di propagarsi sempre eguale a se stesso nello spazio e nel tempo. Il "lato luminoso" dello sviluppo non comporta oggi solo la dilatazione degli spazi-tempi delle attività produttive, ma anche dei consumi . Poiché gli "ostacoli" dello sviluppo sono l'effetto combinato della dilatazione-compressione degli spazi-tempi di vita, il "lato oscuro" dello sviluppo dovrebbe aumentare per l'aumento degli spazi-tempi di una parte dell'umanità e la riduzione di quelli del resto dell'umanità. Contraddicendo Sismondi e allineandosi con la "convergenza", la globalizzazione sembra colmare più rapidamente e più capillarmente che in passato il "bicchiere mezzo pieno" dello sviluppo. La teoria di Sismondi è obsoleta e da riporre nel cassetto delle idee superate, di cui è lastricato il percorso scientifico dell'economia? Si deve essere cauti, prendendo atto che la spiegazione di Sismondi va ben oltre la posizione dei classici: il limite dello sviluppo non è la ricardiana scarsità delle terre fertili, che può essere superata con il progresso tecnico, ma è la finitezza delle dimensioni spazio-temporali, in cui si collocano tutti i fenomeni fisici (e quindi tutti quelli economici), l'invalicabile limite che impedisce l'incondizionato procedere nello spazio e nel tempo dello sviluppo. L'approccio di Sismondi può essere reso attuale utilizzando i principi di quella "fisica sociale” che è la bio-economia, la quale applica all'economia il secondo principio della termodinamica (Georgescu-Roegen, 1982, p. 58-64). In tale ottica, pur ammettendo che la globalizzazione confermi la tesi della "convergenza", svuotando ogni ipotesi di "lato oscuro" dello sviluppo come disparità di benessere di paesi, regioni e ceti sociali, il moderno "lato oscuro" dello sviluppo (il costo opportunità che c'è, ma non si vede) può essere localizzato nella compressione dei processi vitali degli ecosistemi naturali. Poiché le disparità di benessere continuano ostinatamente a esistere, ad onta di ogni globalizzazione , per chi vede il bicchiere "mezzo vuoto" il "lato oscuro" può essere inteso nell'originaria accezione di compressione degli spazi-tempi di vita di alcuni paesi o gruppi sociali, conseguente alla dilatazione degli spazi-tempi di vita di altri paesi o gruppi sociali, mentre, a chi vede il bicchiere ormai colmo, si può suggerire di tornarlo a vedere "mezzo pieno" nella compressione dello spazio-tempo di vita delle altre specie viventi, con un possibile ritorno negativo ignoto - "lato oscuro" - su una vita umana che si espande "luminosamente" in condizioni di grande incertezza . Sismondi ha concepito 17

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La nozione di innovazione tecnologica accolta nella microeconomia mette in risalto i risparmi di fattori produttivi e dei conseguenti costi di produzione: una delle maggiori economie di costo è la riduzione dei tempi di impiego e dei costi del lavoro. La macroeconomia osserva che il lavoro risparmiato in un settore viene occupato in altri settori, espandendo l'occupazione complessiva od il tempo libero, che ci rinvia al consumo. Anche nelle attività di consumo (domestiche e ricreative) il progresso tecnico crea risparmi di tempi e di spazi e il tempo e lo spazio risparmiati possono essere occupati in altre attività di consumo e ricreative, che dilatano esponenzialmente lo spazio-tempo in cui si svolge la vita dei popoli sviluppati 18 In fisica il principio di von Pauli afferma che lo spazio occupato da una particella non può essere occupato da altre particelle: il principio significa banalmente che in uno spazio si può attuare un solo processo produttivo e che le particelle di materia-energia, impiegate od emesse dai processi in espansione rendono inaccessibili ad altri processi spazi - economici ed ecologici - via via crescenti. 19

Le une e l'altra già previste: "Sono queste infine le conseguenze della concorrenza universale per produrre tutto al minor prezzo possibile, di cui bisogna prevedere gli effetti oggi che tutti i nostri progressi ci inducono a considerare l'universo come un solo grande mercato". (Sismondi, 1819, p. 164). 20

Vedendo la catastrofe del World Trade Center di New York sono stato colto dall'idea che fosse iniziata una guerra senza quartiere tra il lato luminoso e il lato oscuro dello sviluppo (e forse le guerre nascono sempre dal contatto fra i due "poli" antagonistici dello sviluppo). Con la guerra ci si deve schierare e mi schiero con le complessive ragioni del lato luminoso, perché ha dato un colpo d'ala all'espansione della vita umana, ma non ignoro i costi impliciti che questa comporta e che la guerra può rendere espliciti.

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una teoria dello sviluppo, che non rinnega il "lato luminoso" dello sviluppo, ma non ne nasconde il "lato oscuro", come egli rivendica nelle sue conclusioni . 21

3. Il "lato oscuro" dello sviluppo secondo l'impronta ecologica Il metodo dell'impronta ecologica spinge alla "rilettura" di Sismondi perché il metodo è una dimostrazione quasi scolastica del "lato oscuro" dello sviluppo. Il metodo ha una sua storia: nel 1971 Ehrlich e Holdren proposero l'equazione per misurare l'impatto ecologico dell'economia, dove I (impatto) è il risultato del prodotto tra P (popolazione mondiale), A (affluence o reddito pro capite) e T (tecnologia). L'equazione, modificata da Harrison, che ha sostituito le variabili "reddito pro capite" con "consumo pro capite" e "tecnologia" con "impatto ecologico per unità di consumo", è alla base del metodo di calcolo dell'impronta ecologica (Wackernagel e Rees, 1996, p. X). Per calcolare l’impronta ecologica Wackernagel e Rees considerano cinque gruppi di beni destinati all'abitante medio di un dato paese - alimenti, abitazioni, trasporti, beni di consumo e servizi - e quattro tipi di territori, stabiliti dall'Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (Wackernagel e Rees, 1996, p. 63) . 22

Tab. 1 Categorie di territorio 1. Territorio per l’energia

Funzioni del territorio A1- Colture per energia A2- Assorbimento CO2

Usi del territorio Sistemi agricoli o forestali Sistemi naturali o agricoli

2. Territorio inutilizzabile

B - Edificazione

Terreni a uso irreversibile

3. Territorio utilizzato continuativamente

C - Orti, serre D - Terreni arabili E - Terreni da pascolo F - Foreste produttive

Terreni a uso irreversibile Sistemi agricoli Sistemi naturali modificati Sistemi naturali modificati

4. Territorio a utilizzo limitato

G - Foreste vergini H - Aree non produttive

Ecosistemi produttivi Deserti, ghiacciai

La biodiversità è una risorsa territoriale da salvaguardare, non solo per il suo "valore di esistenza" ma anche per il suo "valore d'uso" ai fini dello smaltimento dei rifiuti, e la 21

Mi si è dipinto come se le mie idee di economia fossero contrarie al progresso della società e favorevoli a istituzioni barbare e oppressive. No, non voglio tornare al passato, voglio qualcosa di meglio di ciò che esiste attualmente. … le mie obiezioni non sono dirette contro le macchine, contro le invenzioni, contro la civiltà …sono rivolte contro l’organizzazione moderna della società, organizzazione che, lasciando all’uomo soltanto la proprietà delle sue braccia, non gli dà alcuna garanzia contro la concorrenza, una esasperata competizione che lo danneggia e di cui deve essere necessariamente vittima. Verrà inevitabilmente il tempo in cui i nostri nipoti ci giudicheranno barbari per aver lasciato le classi lavoratrice senza garanzie”.(Sismondi, ib., p. 506-507). 22

La prima categoria - “territorio per l’energia” - è necessaria o per produrre biomasse vegetali o per assorbire la CO2 emessa dall'uso dei combustibili fossili. L'accumulo di CO2 nell'atmosfera, che è causa dell’effetto serra, deve essere compensato da serbatoi di assorbimento: si stima che un ettaro di foresta accumuli 1,8 tonnellate di carbonio/anno, assorbendo la CO2 emessa da 100 Gigajoule di energia prodotta da combustibili fossili. Tranne la prima categoria di territorio, tutte le altre riguardano funzioni note.

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commissione Burtland indica di destinare a tale fine il 12% la percentuale di superficie del pianeta. Un ruolo non secondario per la difesa della biodiversità e per l'assorbimento della CO2, è svolto dai mari poco profondi, sopra le piattaforme continentali. L'inclusione della superficie marina tra quelle biologicamente attive è un punto critico del metodo: esclusa dai calcoli relativi al 1991 (Wackernagel e Rees, 1996, p. 73-76) è inserita in un'elaborazione più recente (Wackernagel et alii, 2001), riguardante 5.744 milioni di abitanti (80% della popolazione mondiale), i quali dispongono di un territorio ecologicamente attivo ("biocapacità") di 12,5 miliardi di ettari, producono un'impronta ecologica di 16,4 miliardi di ettari ed hanno un deficit di biocapacità di 3,9 miliardi di ettari (24% dell'impronta ecologica e 31% della "biocapacità" delle superfici terrestri e marine biologicamente attive disponibili). I dati sono riportati nella tab. 2 per i paesi più sviluppati, più popolosi, per quelli dell'Unione Europea e per quelli candidati ad entrarvi (altri importanti paesi, studiati dall'indagine, sono accorpati nella voce "altri paesi") . Il commento alla tab. 2 si presta a due livelli di lettura. Il primo è il "lato oscuro" dello sviluppo di sismondiana memoria: il distacco tra i paesi sviluppati e i paesi poveri. Se si classificano i paesi in "sviluppati" (Pil/abitante maggiore di 15.000 $), "mediamente sviluppati" (Pil/ab. tra 5.000 e 15.000 $) e "sottosviluppati2 (Pil/ab. meno di 5.000 $ pro capite) e si fa pari a 100 il Pil/ab. medio (5.748,3 $), il reddito pro capite dei primi paesi è pari a 467,3, quello dei secondi a 180,4 e quello dei terzi a 17,2. Poiché i paesi sviluppati hanno un Pil/ab. 27,3 volte quello dei paesi sottosviluppati confrontando i singoli paesi le distanze appaiono abissali: la Svizzera, il paese più ricco, ha un Pil/ab. 167,6 volte quello del Bangladesh, il paese più povero - il “lato oscuro” sismondiano si pone con tutta evidenza alla nostra attenzione; esclusi gli "altri paesi" i paesi sviluppati hanno l’80% del Pil e il 17% della popolazione, quelli a medio sviluppo il 6% del Pil e il 3% della popolazione e quelli sottosviluppati il 14% del Pil e l’80% della popolazione. Il secondo livello di lettura è l'aspetto bio-economico del "lato oscuro" dello sviluppo: l'impronta ecologica mondiale è attribuibile per il 41% ai paesi sviluppati, per il 5% a quelli mediamente sviluppati, per il 40% a quelli sottosviluppati e per il 14% agli "altri paesi". I paesi sviluppati con un'impronta ecologica di 8,4 ettari/ab. hanno il 25% della superficie biologicamente attiva e determinano il 90% al deficit totale di "biocapacità"; i paesi mediamente sviluppati, con un'impronta ecologica di 5,3 ettari/ab., hanno il 3,6% di biocapacità e contribuiscono al 9% del deficit; i paesi sottosviluppati più gli "altri paesi" con un'impronta ecologica di 3,1 ettari/ab. hanno il 61,4% di biocapacità e danno il restante 1% del deficit. Ogni abitante del pianeta ha a disposizione una "biocapacità" di 2,2 ettari, produce un'impronta ecologica di 2,9 ettari e determina un deficit 0,7 ettari. Se il bilancio ecologico del mondo è in "rosso" la responsabilità è da attribuire in misura proporzionale al reddito pro capite. La globalizzazione economica avrebbe dunque il suo "duale" di quella ecologica, con un risvolto inquietante: poiché l'impronta ecologica aumenta a ritmi inarrestabili (1,5% all'anno), la seconda è in grado di frenare la prima. 23

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Sono inseriti tra gli "altri" paesi importanti (Russia, Sud Africa, Etiopia, Perù e Venezuela). Russia e Sud Africa sono in deficit di "biocapacità", perché hanno un'impronta di 5,3 e 4 ha pro capite ed una superficie disponibile di 4 e 1,4 ha; Perù e Venezuela sono in surplus, con basse impronte ecologiche da paesi sottosviluppati (1,3 e 2,9 ha rispettivamente) e elevate "biocapacità" da paesi equatoriali (9,3 e 5,9 ha). Come gli altri paesi ex Comecon indicati in tab. 4 (Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria), la Russia unisce ad un reddito pro capite da sottosviluppo (2245 $, meno del Venezuela, che ha un PIL/ab. di 2928 $, e del Perù, che ha un PIL/ab. di 2298 $) un'impronta ecologica da paese sviluppato: ciò spiega alcune ragioni del fallimento dei sistemi ad economia pianificata, che adottavano modelli produttivi, che erano capitalistici nei costi sociali e, soprattutto, ecologici, ma non lo erano nelle performances economiche.

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Tab. 2 Paese (dati del PIL/abitante Impronta Disponibilità di dicembre 2000) ($ pro capite) ecologica (ha) bio-capacità (ha) Argentina 7.905,7 3,7 5,1 Australia 18.626,8 8,5 9,3 Austria 26.890,2 5,4 4,1 Bangladesh 237,2 0,6 0,1 Belgio e Lux. 23.840,8 6,0 2,2 Brasile 3.589,3 2,5 11,5 Canada 19.157,0 7,7 11,2 Cile 4.101,7 3,4 2,0 Cina 604,9 1,8 0,9 Colombia 1.788,4 1,9 5,6 Corea del sud 9.596,1 5,6 0,7 Danimarca 29.770,7 10,5 5,6 Egitto 858,4 1,7 0,6 Filippine 1.028,1 1,4 0,9 Finlandia 20.517,7 8,4 9,8 Francia 24.910,3 7,3 4,3 Germania 27.498,1 6,2 2,4 Giappone 39.465,9 5,9 0,9 Grecia 8.154,7 5,5 2,3 India 366,5 1,1 0,1 Irlanda 14.519,8 9,5 6,6 Indonesia 948,6 1,5 3,2 Israele 15.357,4 5,4 0,8 Italia 18.967,4 5,4 1,9 Malaysia 3.811,4 3,7 4,0 Messico 3.285,2 2,7 1,6 Nigeria 280,2 1,3 0,9 Norvegia 31.124,7 6,1 6,2 Nuova Zelanda 13.885,7 9,5 15,7 Olanda 23.874,8 5,9 2,3 Pakistan 428,3 1,1 0,7 Polonia 2.789,2 5,4 2,3 Portogallo 9.807,2 4,9 2,2 Regno Unito 18.735,5 6,2 1,8 Repubblica ceca 3.876,5 6,3 2,9 Spagna 13.463,8 5,5 2,5 Svezia 23.745,5 7,5 8,0 Svizzera 39.745,5 6,6 2,3 Tailandia 2.693,2 2,7 1,3 Turchia 2.718,5 2,7 1,5 Ungheria 4.155,1 5,1 3,0 USA 26.351,1 12,2 5,5 Altri paesi 3,1 2,5 MONDO 5.748,3 2,9 2,2

Surplus-deficit di biocapacità + 1,3 + 0,8 - 1,3 - 0,5 - 3,8 + 9,0 + 3,5 - 1,4 - 1,0 + 3,8 - 4,8 - 4,9 - 1,1 - 0,5 + 1,3 - 3,1 - 3,8 - 5,0 - 3,2 - 0,3 - 2,9 + 1,7 - 4,6 - 3,5 + 0,3 - 1.0 - 0,4 + 0,1 + 6,2 - 3,6 - 0,4 - 3,1 - 2,7 - 4,4 - 3,4 - 3,0 + 0,5 - 4,3 - 1,4 - 1,2 - 2,0 - 6,7 - 0,6 - 0,7

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L’impronta ecologica dà uno spaccato inquietante dello sviluppo economico mondiale che sembra essere andato oltre la carrying capacity planetaria. Lo sviluppo mondiale è insostenibile perché avrebbe consumato tutto lo spazio ecologico planetario: non solo non ci sarebbero margini ecologici per esprimere lo sviluppo dei paesi arretrati, ma le esternalità ambientali negative inizierebbero a pesare sugli stessi paesi sviluppati . Il calcolo dell’impronta ecologica fa ritenere che il “lato oscuro” dello sviluppo sia destinato a restare tale, cristallizzando le disparità della fruizione della ricchezza e degli spazi ecologici, se non interverranno innovazioni radicali per modificare le tecnologie produttive e di consumo, risparmiando ambiente per unità di beni prodotti e consumati, così che la riduzione dell’impronta ecologica non diminuisca il livello di benessere dei paesi sviluppati – ma anzi lo rafforzi con il progresso tecnico – e consenta di disporre di spazi ecologici per assorbire l’impatto ambientale dello sviluppo dei paesi emergenti e per riprodurre a lungo termine le risorse naturali. L'attuazione del protocollo di Kyoto dimostra quanto sia difficile realizzare quanto ora detto. Nel 1997 a Kyoto i paesi sviluppati si impegnarono a ridurre del 6% entro il 2008 le emissioni di "gas serra", rinviando agli incontri successivi gli aspetti regolamentari. All’incontro dell'Aia, gli USA hanno proposto di ridurre l'impatto ecologico, aiutando i paesi in via di sviluppo a impiantare foreste per assorbire l'eccesso di CO2; a Trieste la nuova presidenza USA ha denunciato l'accordo di Kyoto ed ha proposto che i paesi sviluppati raggiungano i traguardi loro assegnati, non con la compressione dei consumi energetici, ma tramite l'acquisto dei diritti di emissione dai paesi dell'est europeo i quali, a causa degli "ostacoli" (e relative delusioni) incontrate nello sviluppo della loro nuova economia mercato, non li hanno potuti utilizzare a pieno . La forestazione dei paesi sottosviluppati e il commercio dei diritti di emissione sono il segnale della cristallizzazione delle disparità dello sviluppo, che pone una barriera tra il mondo sviluppato, con il suo grande benessere e la sua enorme impronta ecologica, e il mondo in via di sviluppo, con la sua grande povertà e la sua piccola impronta. I paesi ricchi hanno interesse allo sviluppo di tutti i paesi, perché in tal modo crescerebbe il commercio mondiale e il loro benessere, ma temono che lo sviluppo dei paesi arretrati tolga loro gli spazi ecologici di cui godono, facendoli piombare in una crisi ambientale dagli esiti imprevedibili: il monito del Club di Roma (Meadows et alii, 1972), circa un possibile collasso dello sviluppo entro il 2100, pur essendo stato esorcizzato da tutto l'establishment scientifico, è l'incubo che pesa sulla tesi della "convergenza", per la quale lo sviluppo è senza limiti di spazio e di tempo e del tutto privo di "oscurità". 24

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Il "lato oscuro" dello sviluppo dei paesi sviluppati non può essere trattato in dettaglio. Si può tuttavia azzardare una similitudine con l'analisi condotta a livello internazionale: la dimensione dello spaziotempo di produzione e di consumo delle realtà ricche (regioni, distretti, città, quartieri, gruppi sociali, ecc.) è talmente ampia, da essere difficilmente avvicinabile ed assimilabile dalle realtà meno ricche o più decisamente povere (gli "esclusi sociali"): come se, nei tempi moderni, le diseguaglianze sociali avessero ricreato invisibili castelli, difesi da fossati e ponti levatoi, e città fortificate protette da mura inespugnabili. 25 Il Protocollo di Kyoto, mentre stabiliva che gli USA riducessero l'emissione di gas serra da 1807 a 1516 milioni di ton. equivalenti di carbonio (- 291 ton., pari a - 7%), stabiliva che la Russia e l'Ucraina aumentassero le emissioni rispettivamente di 243 e 123 milioni di ton. ammettendo lo scambio di diritti di emissione tra i paesi sviluppati e quelli che non raggiungevano i consumi energetici loro consentiti (tra i potenziali "clienti" dei diritti di emissione russi e ucraini vi sono anche l'Unione Europea e il Giappone, che dovranno ridurre le loro emissioni di gas serra rispettivamente di 42 e 38 milioni di ton. equivalenti di carbonio, pari a -8% e a - 6%. La Russia e l'Ucraina sono state autorizzate a aumentare le loro emissioni perché, a causa del crollo economico dopo la caduta del "muro di Berlino", i loro consumi energetici del 1997 erano minori del 29% (Russia) e del 49% (Ucraina), rispetto a quelli del 1990.

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A giudicare dall’impronta ecologica l’insostenibilità dello sviluppo appare in un’ottica così drammatica, da farci rinunciare a priori ad ogni ipotesi di soluzione per lo sviluppo sostenibile. Se l’insostenibilità dello sviluppo è quella mostrata dell’impronta ecologica, la politica - il sismondiano “interesse pacato e permanente di tutti” - sarebbe inerme per frenare il consumo di "ricchezza territoriale", causato da uno sviluppo non sostenibile, "schumpeterianamente" promosso dall'“interesse effimero e violento del singolo". L'affermazione vale soprattutto per gli spazi urbanizzati. Nella tab. 2 è presente tra gli "altri" uno stato "cittadino", Singapore, che con un'impronta ecologica di 12,3 ettari/ab. e una "biocapacità" di 0,1 ettari/ab. "importa" una superficie biologicamente attiva 83 volte quella disponibile. La dipendenza delle città dall'importazione di beni dai territori esterni (una volta prossimi e oggi lontanissimi) è un fatto noto dall'antichità: la novità è la dipendenza dall'importazione di "biocapacità" e ciò deve fare riflettere sulla crescita inarrestabile dei centri urbani, dove ormai vive il 60% della popolazione mondiale. Gli stessi riscontri si sono ottenuti per la provincia di Livorno, che ha una popolazione prevalentemente urbana. In provincia di Livorno l'impronta ecologica è calcolata con il metodo di Wackernagel e Rees versione 1991. Il dato di partenza è l'impronta ecologica italiana (Wackernagel e Rees, 1996, p. 154), cui è tolta la superficie marina e aggiunta quella terrestre per l'accumulo dell’acqua nelle falde freatiche (Iacoponi, 2001b) . Il consumo di acqua è attribuito alle categorie abitazione, alimenti, beni di consumo e servizi. Poiché la superficie ecologicamente attiva che svolge la funzione di smaltire l’eccesso di CO2 nell’atmosfera può raccogliere l’acqua di falda, si considera ripetuta la superficie che, tra le due funzioni, è necessaria nella misura minore (tab. 3): 26

Tab. 3 Categorie di Impronta ecologica(superficie necessaria) per: consumi energia colture foreste edifici acqua ripetuta 1. alimenti 0,15 0,81 0,03 0,26 0,15 2. abitazioni 0,26 0,13 0,04 0,13 0,13 4. trasporti 0,36 0,02 4. beni cons. 0,20 0,01 0,07 0,30 0,20 5. servizi 0,13 0,15 0,13 TOTALE 1,10 0,82 0,23 0,06 0,84 0,61

totale 1,10 0,43 0,38 0,38 0,15 2,44

L’impronta ecologica di ogni abitante della provincia di Livorno, con i meccanismi di correzione indicati, è 2,44 ettari. La provincia di Livorno, che ha un territorio di 120 mila ettari e un'impronta ecologica di 816 mila presenta un deficit di "biocapacità" di circa 700 mila ettari: il territorio provinciale copre il 15% dell'impronta ecologica e, per trovarsi in accettabile equilibrio ecologico, dovrebbe essere 7 volte più grande . C'è da 27

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Considerate la piovosità media della provincia di Livorno – circa 850 mm./anno – e la conformazione dei bacini imbriferi, si stima che l’acqua di pioggia raccolta nelle falde superficiali sia il 9% di quella caduta in un anno e il volume di acqua raccolto sia mediamente pari a 750 m3 per ettaro/anno. Poiché i consumi civili sono stimati in 100 m3/abitante/anno, la superficie necessaria ad ogni abitante per il consumo di acqua potabile è 0,13 ettari (= 100 m3/abitante : 750 m3/ha). 27 Il comune di Livorno ha la situazione più insostenibile: con una superficie pari al 2,6% dell’impronta ecologica, deve importare una superficie ecologicamente produttiva 38 volte la propria. Il comune di Cecina è in condizioni non dissimili; i comuni di Rosignano e Piombino hanno superfici comunali pari al 16,3 e 15,3% dell’impronta ecologica, così come quelli di Portoferraio e Porto Azzurro nell’Isola d’Elba. Tre comuni (Sassetta, Suvereto e Capraia) su venti hanno un "surplus" di territorio rispetto all’impronta ecologica. I comuni che hanno un surplus di territorio hanno una densità demografica molto bassa. Se da

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scoraggiare ogni migliore volontà della giunta provinciale tesa, come da programma elettorale, verso uno sviluppo sostenibile che nei fatti appare irraggiungibile. Il metodo dell'impronta ecologica giunge a conclusioni disarmanti, perché rappresenta il mondo sull'orlo di una crisi ambientale drammatica, ipotizzando la disaggregazione totale tra i fabbisogni di "biocapacità" e le loro disponibilità locali, cioè che ognuno, agendo secondo la "mano invisibile" nelle sue scelte economiche, si appropri di risorse ambientali ovunque queste si trovino. Il metodo non considera le economie reali dove, esistendo un legame tra produzioni e consumi locali, alcune superfici svolgono funzioni multiple: le superfici agrarie coprono il fabbisogno di alimenti e smaltiscano la CO 2; i mari poco profondi forniscono i prodotti della pesca, assorbono la CO 2 e mantengono la biodiversità; le aree protette svolgono le funzioni ecologiche dei mari e permettono l'accumulo di acqua nelle falde freatiche o negli invasi naturali e artificiali. Il metodo di Wackernagel e Rees non ammette la multi-funzionalità della "biocapacità" del territorio, quando le risorse ecologiche di questo si integrano con le attività economiche locali. L'impronta ecologica è anch'essa espressione della "mano invisibile" che, se da un lato traduce la "miope" visione economica individuale nella "presbite" visione sociale del massimo benessere, dall'altro rischia di tradurre la "miopia" ecologica individuale in una tragica "miopia" collettiva, portando un mondo opulento al disastro ambientale, grazie ai comportamenti non collaborativi dei "free riders" che, isolati nelle loro "celle" e ignoranti dei comportamenti altrui, si ritengono legittimati a produrre la loro massima impronta ecologica. 28

4 . Il metodo dell'impronta ecologica "localizzata" I comportamenti collaborativi e la politica, che di tali comportamenti è l'espressione più genuina, possono essere promossi da una visione meno estremistica (e terroristica) dell'impronta ecologica, che separi in essa due componenti di significato profondamente diverso: il metodo dell'impronta ecologica "localizzata" (Iacoponi, 2001b) considera le stesse categorie di consumo (alimenti, abitazione, trasporti, beni di consumo e servizi), individuando i consumi costretti a usare le risorse locali ("impronta localizzata") e quelli che possono avvalersi delle risorse contenute nei beni importati dalle altre località ("impronta trasferibile", pari alla differenza tra impronta "totale" e "localizzata"). In una località si possono avere tre tipi di ciclo economico: a) il "ciclo chiuso" di beni e servizi le cui attività di produzione, trasporto, conservazione, distribuzione e consumo si svolgono interamente sul posto; b) il "ciclo aperto" di beni e servizi prodotti nel territorio ma esportati nel resto del mondo, per i quali si attuano nel territorio le prime fasi di lavorazione, mentre le fasi di trasporto, conservazione, distribuzione e consumo finale si attuano altrove; c) il "ciclo aperto" di beni importati dal resto del mondo, per i quali si realizzano in loco le fasi di trasporto, conservazione, distribuzione e consumo. L'unico ciclo chiuso che riguardi sicuramente una località è quello relativo al consumo abitativo, sebbene le risorse necessarie non debbano essere presenti tutte localmente: vi devono essere presenti le superfici edificate per case e relative infrastrutture e quelle per assorbire la CO2 prodotta dai consumi energetici domestici e/o per captare l’acqua (ma non quelle necessarie per produrre il legname usato nelle costruzioni). un lato la constatazione conferma il ruolo della ruralità per mantenere l’equilibrio territoriale, dall’altro la sostenibilità ambientale non può essere conseguita senza coinvolgere il mondo urbano. 28 L'immagine che viene alla mente è quella dell'automobilista che, isolato nella sua "cella" (l'abitacolo della sua auto), compie atti non collaborativi, avendo come unico deterrente un'improbabile multa.

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La "biocapacità" non trasferibile, necessaria localmente per abitante, è nettamente più bassa di quella totale: in provincia di Livorno, a fronte di un'impronta ecologica "totale" di 2,44 ettari/abitante, si stima un'impronta "localizzata" di 0,57 ettari, metà dei quali necessari per il consumo “abitazione” e metà per “trasporti” e “servizi” relativi alle fasi finali di cicli economici per “alimenti” e “beni di consumo”, prodotti da attività agricole e industriali esterne al territorio. L’impronta ecologica "localizzata", al contrario dell'impronta "totale" di Wackernagel e Rees, considera esplicitamente le attività produttive. Il passaggio concettuale non crea problemi teorici. Per l’economia la produzione è una trasformazione nella forma, nello spazio e nel tempo di beni a bassa utilità in beni dotati di maggiore utilità: quindi fra i beni intermedi e i beni finali vi è solo uno "iato" di forma, o di spazio, o di tempo: un bene è finale se si trova nella forma, nel luogo e nel tempo ritenuti idonei al consumo; è intermedio se deve subire ulteriori trasformazioni di forma o spostamenti nello spazio o nel tempo, prima di essere ritenuto idoneo al consumo. Poiché le attività terziarie, necessarie per importare beni di consumo e servizi, sono già considerate nell'impronta "localizzata" dei residenti, le attività produttive che hanno cicli aperti del secondo tipo nel territorio sono l'agricoltura, l'industria ed il turismo. Per ogni settore si adottano parametri legati ai fattori produttivi più significativi: l'ettaro di SAU per l'agricoltura; gli addetti per l'industria; le giornate di presenza, tradotte in "abitanti equivalenti", per il turismo. L’agricoltura convenzionale, consumando 30 Gigajoule di energia/ettaro a seminativo o a colture permanenti (Iacoponi et alii, 1988), ha un'impronta ecologica "localizzata" pari al 30% della SAU: il restante 70% della SAU è la "biocapacità" offerta ai consumi dei residenti e alle attività produttive del sistema locale. L’agricoltura irrigua consuma maggiore energia oltreché, ovviamente, acqua. L'impronta ecologica "localizzata" dell’agricoltura è pari 0,31 ettari per ogni ettaro di SAU (0,30 per assorbire la CO2 e 0,01 per le costruzioni), più 1,20 ettari per ettaro irrigabile . Anche l’impronta ecologica "localizzata" dell’industria si basa sulle superfici edificate e sui consumi idrici ed energetici. L'industria livornese è un'industria prevalentemente di base (centrali elettriche e industrie siderurgiche, chimiche e metallurgiche) ed è una 29

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Poiché, negli ambienti della provincia di Livorno un ettaro di superficie raccoglie nella falda 750 m3 di acqua ed un ettaro irrigato richiede 2.500 m3, quest'ultimo richiede 3,3 ettari di superficie per accumulare acqua nella falda. Non tutta la superficie irrigabile è irrigata nell’anno, per l’avvicendamento tra colture irrigue e asciutte: poiché si irriga in media circa il 45% della superficie irrigabile, la superficie di cui un ettaro di superficie irrigabile ha bisogno è pari a 1,5 ettari. Le superfici destinate all’accumulo dell’acqua nelle falde e per lo smaltimento della CO2 ripropongono il problema della superficie ripetuta, risolto come per i consumi degli abitanti.

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forte consumatrice di energia e di acqua: rinviando per i dettagli del calcolo alla nota , l'impronta ecologica "localizzata" dell'industria è stimata in 1,25 ettari per addetto. Per il turismo l’impronta ecologica localizzata dei consumi degli abitanti è riferita ad ”abitante-equivalente”, ottenuto dividendo per 360 il totale delle giornate di presenza turistica. Le statistiche ufficiali registrano le presenze in strutture ricettive (alberghi, campeggi, agriturismi), ma non in seconde case od in campeggi. Considerando i rifiuti solidi urbani, i consumi idrici e i biglietti dei traghetti, si stima che la presenza turistica effettiva sia doppia di quella ufficiale. In base ai calcoli in nota l'impronta ecologica "localizzata" del turismo è circa un ettaro per "abitante equivalente". Sommando l'impronta ecologica "localizzata" degli abitanti e delle attività produttive locali, l'impronta ecologica "localizzata" complessiva della provincia di Livorno risulta inferiore a quella "totale" calcolata con il metodo Wackernagel-Rees. Contro un bisogno di "biocapacità" territoriale di 815.824 ettari per l'impronta "totale", il fabbisogno di quella "localizzata" è di "soli" 274.978: la differenza (540.846 ettari) corrisponde alla "biocapacità" non indispensabile localmente che si può importare. La superficie della provincia di Livorno è tuttavia minore anche dell'impronta "localizzata" (il deficit di "biocapacità" indispensabile è di 155.645 ettari). 30

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Gli addetti all'industria in provincia di Livorno sono 30.000 e il consumo industriale annuo di energia è di 1,3 miliardi di kWh, pari a 361.000 Gigajoule, e di 354 milioni di m 3 di metano, a cui si aggiungono i combustili usati per i trasporti, connessi alle attività industriali. Si stima che i trasporti per le attività industriali consumino il 15% del totale dei combustili, pari a 417.000 tep (17,5 milioni GJ): sommando ai consumi elettrici il 15% dei consumi energetici, si calcolano 3 milioni di GJ impiegati dall’industria. Ogni addetto consuma 100 GJ di energia e necessita di un ettaro di superficie ecologicamente produttiva. Se si considera il metano (11.800 m3 per addetto), l’impronta ecologica localizzata dei consumi energetici dell’industria può essere fatta ascendere a 1,10 ha/addetto. Il consumo idrico dell'industria è 30 milioni di m3 all’anno (1.000 m3/addetto). Poiché un ettaro ecologicamente produttivo capta 750 m3 di acqua, sono necessari 1,33 ettari per ogni addetto industriale. Essendo in atto accorgimenti per ridurre il consumo idrico con il riuso delle acque reflue e poiché il risparmio idrico dell’industria si aggira intorno al 10% del fabbisogno, si stima che l’impronta ecologica dei consumi idrici dell’industria sia pari a 1,20 Ha/addetto. Sommando i consumi per l’energia (1,10 ettaro/addetto), per l’edificazione (0,05) e per i consumi idrici (1,20) e sottraendo la superficie ripetuta (1,10), si ottiene il dato di 1,25 ha/addetto. 31 L'impronta ecologica localizzata del turismo ha componenti variabile e fisse: le prime riguardano i consumi energetici e idrici, diretti (abitazione) e indiretti (trasporti e servizi); le seconde le costruzioni. Mentre le prime sono proporzionali alle giornate di presenza, le seconde sono indipendenti. Un posto letto in albergo o in un’altra struttura ricettiva occupa spazio anche se resta vuoto per buona parte dell’anno. Il rapporto presenze/posti letto ufficiali, nell’area studiata, va da un minimo di 19 a Pisa a un massimo di 87 nell’Isola d’Elba, dove maggiore è il turismo sommerso. È ragionevole supporre che la media di presenze per ogni posto letto sia di 30 giorni (media tra la vacanza breve del villeggiante-tipo e la vacanza lunga di chi ha una residenza secondaria). Dalle presenze turistiche ufficiali, maggiorate del 20% per tenere conto del turismo sommerso e divise per trenta giorni di presenza a turista, si ricava il numero delle presenze a cui occorre dare uno spazio fisico di soggiorno e che corrisponde ad un consumo permanente di suolo edificabile di 0,04 Ha. IEL turismo = ABE [(0,57-0,04) + 360/30 * 0,04] = ABE * 1,01

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La provincia di Livorno, creata nel 1925 da una "costola" della provincia di Pisa, non è un caso eccezionale: anche le vicine provincie di Pisa e di Lucca, con l'83 e il 61% di "biocapacità" rispetto alle rispettive impronte ecologiche "localizzate", soffrono di una marcata insosteniblità locale dello sviluppo. La natura amministrativa delle provincie italiane pone senza dubbio il problema di una migliore definizione del territorio; tuttavia l'indagine mette in evidenza che, sebbene dette provincie abbiano una forte presenza di industrie, un dinamico settore terziario, una notevole presenza turistica sia marina (Isola d'Elba, litorali livornese e pisano, Versilia) che d'arte (Pisa, Volterra, Lucca) e un'ancora vivace agricoltura, il 70% dell'impronta ecologica "localizzata" è attribuibile ai residenti e soltanto il 30% all'insieme dei settori produttivi locali . L'impronta ecologica "localizzata", se da un lato sembra mettere a portata di mano la soluzione della sostenibilità locale dello sviluppo, con un'informazione puntuale sulle condizioni ambientali che interessano i cittadini, dall'altro dimostra tutta la rigidità del deficit di "biocapacità" locale che non è dovuto, come di solito si crede, alle attività produttive, che ovviamente consumano anch'esse risorse naturali locali, ma è dovuto soprattutto ai consumi dei residenti ai quali essi difficilmente sono disposti a rinunciare. Una politica che volesse perseguire la sostenibilità "almeno locale" dello sviluppo, forse troverebbe maggiore disponibilità da parte delle imprese per ridurre gli input di risorse ambientali, che da parte dei residenti, fortemente ostili a rinunciare al loro benessere. Se l'impronta ecologica totale rivela il "lato oscuro" dello sviluppo dovuto al consumo planetario di risorse ambientali, l'impronta "localizzata" ne puntualizza un altro non meno importante: l'insostenibilità "locale" dello sviluppo. Tale "lato" ha aspetti negativi e positivi: negativa è l'insostenibilità locale che incide direttamente sulla qualità della vita dei cittadini (carenza idrica, inquinamento ambientale, manomissione dei paesaggi, perdita di spazi verdi); positivo è il fatto che i cittadini possono "toccare con mano" l'informazione ambientale che loro interessa più da vicino e possono promuovere perciò comportamenti collaborativi per proteggere la loro "ricchezza territoriale". Se l’impronta ecologica localizzata non risolve i due grandi problemi dell’umanità – la disparità di ricchezza tra i popoli e l’avvicinarsi della soglia critica della sostenibilità globale dello sviluppo – può tuttavia favorire l’educazione ambientale dei cittadini ardua soprattutto per quanto riguarda i consumatori, ma non impossibile - ed aprirci alla speranza verso una sostenibilità dello sviluppo più solida e generale. 32

5. Bioregione e bioregionalismo La politica auspicata da Sismondi - avete il fine “ garantire la maggiore felicità della specie umana su uno spazio determinato” - trova echi nelle politiche dello sviluppo rurale, in recenti correnti del pensiero urbanistico e nel concetto di bioregione, che 33

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In provincia di Livorno il 30% dell'impronta ecologica "localizzata" dei settori produttivi si deve per il 9% all'agricoltura, per il 13% all'industria e per l'8% al turismo: valori simili si hanno anche nelle provincie di Pisa e di Lucca (l'impronta "localizzata" dei residenti è rispettivamente il 67 e 74% del totale e dei settori produttivi il 33 e 26%, di cui 13 e 4% l'agricoltura, 17 e 19% l'industria e 3 e 4% il turismo).

“La nostra civilizzazione tecnologica, nella corsa a costruire una seconda natura artificiale, si è progressivamente liberata del territorio, trattandolo come superficie insignificante e seppellendolo di oggetti, opere, funzioni, veleni. In un’epoca storica dominata dal fordismo e dalla produzione di massa le teorie tradizionali dello sviluppo, fondate sulla crescita economica illimitata, hanno considerato e impiegato il territorio in termini sempre più riduttivi; questa liberazione del territorio ha prodotto una crescita della ricchezza di natura effimera, accumulando nel tempo in modo esponenziale il degrado ambientale e sociale che ha prodotto l’insostenibilità dello sviluppo e l’obsolescenza del concetto stesso 33

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soddisfa le condizioni per avviare dei processi educativi tesi alla sostenibilità locale e generale dello sviluppo, poiché definisce il territorio in modo da raccordare strettamente i fenomeni socioeconomici a quelli ambientali. La bioregione è un territorio non definito dai confini politico-amministrativi, ma dai limiti naturali degli ecosistemi e dei sistemi sociali e può andare da migliaia a centinaia di migliaia di ettari e cioè corrispondere a un bacino idrografico, a una provincia o a un piccolo stato (World Resources Institute et alii, 1992). La bioregione deve essere ampia abbastanza per mantenere vitali gli ecosistemi e le comunità biologiche, permettendo i cicli nutritivi e il riciclo dei rifiuti, e abbastanza piccola perché i residenti la considerino casa loro. La bioregione deve avere un’identità culturale, in base alla quale la comunità locale abbiano il diritto prioritario di scegliere il proprio destino: diritto prioritario non significa diritto assoluto, ma che i valori, i bisogni e gli interessi locali sono il punto il partenza per le scelte dello sviluppo sostenibile locale. Una bioregione è formata da foreste, aree agricole, pascoli, terre degradate, fiumi, zone costiere, parchi nazionali, aree protette, villaggi, città ed è quindi un mosaico di usi del suolo e delle acque dove ogni elemento del mosaico è un habitat per specie diverse, ognuna delle quali si relaziona con le altre e con l’uomo. Tutti gli elementi del mosaico sono interattivi e dinamici e soltanto l'oculata gestione di una comunità locale può dare alla bioregione la resilienza e la flessibilità necessarie per armonizzare l’evoluzione economica (globalizzazione dei mercati) e ambientale (effetto serra). Studi sull'Adirondacks e sulla Sierra Nevada portano Diffenderfer e Birch ad approcci bioregionali radicali: “Il bioregionalismo si prefigge di cambiare i sistemi produttivi in vista di un futuro sostenibile. Un fondamentale cambiamento nei sistemi di produzione deve coincidere con un concomitante cambiamento in quelle credenze, attitudini e valori che possono interagire con l’ambiente naturale” (Diffenderfer e Birch, 1997). Gli autori ritengono che il cambiamento delle tecniche produttive e dei comportamenti sociali debba essere testato con indici ecologici, economici e educativi e “solo se il sistema di produzione si basa largamente sulle risorse locali e non degrada la biosfera, e solo se la gente considera le implicazioni a lungo termine della produzione, il bioregionalismo può concretizzarsi” (Simonis, 1997, p.67). Diverso è l'atteggiamento europeo perché per “una lunga tradizione di regionalismo, l’amministrazione dei maggiori paesi europei si basa sul principio della sussidiarità e la stessa Unione Europea funziona in base a tale principio” (Simonis, ib., p. 67). In Europa il bioregionalismo è rappresentato da un continuum di approcci, dalle “regioni a rischio”, alla “ri-regionalizzazione”, alla “regione conservativa” e alla “bioregione in commino”: questa espressione dice che la bioregione è in Europa è un “demanding concept” (Simonis, ib., p. 70) cui si indirizzano aspettative, ma non molte iniziative. In Europa sono regioni a rischio il Mare del Nord e le Alpi. Il concetto di bioregione si adatta anche alle regioni oggetto di de-industraliazzazione, come la Rhür in Germania (Simonis, ib.) e alle aree urbane. Molte città statunitensi (Seattle, Denver, MinneapolisSt. Paul e Atlanta) sono state riorganizzate dalle loro municipalità in base a tali principi: la bioregione metropolitana è l'approccio con cui si focalizzano le idee progettuali sulle risorse umane e naturali per favorire le attività delle città e dei loro hinterland (edilizia residenziale, piccola-media impresa anche ortoflorovivaistica, sistemi educativi, servizi sociali e di protezione ambientale): nella bioregione metropolitana è decisiva l'iniziativa di sviluppo.” (Magnaghi, 2000).

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delle imprese no-profit, i cui progetti possono mobilitare, allocare e gestire al meglio le risorse locali, anche con l'aiuto di sistemi creditizi attenti al territorio. La “ri-regionalizzazione” si collega in Europa soprattutto allo sviluppo rurale, ma anche alla necessità di riorganizzare su base regionale il settore industriale, per ridurre i costi dei trasporti su gomma e per contenere il loro grosso impatto ambientale, a causa delle difficoltà di applicare alla produzione industriale decentrata il principio logistico del just-in-time: lo sciopero degli autotrasportatori spagnoli, impedendo il rifornimento delle industrie automobilistiche tedesche delle componenti auto prodotte in Spagna, ha evidenziato i limiti dell'eccessiva diluizione spaziale delle industrie (Simonis, ib., p. 69). La “regione conservativa” corrisponde ai parchi (nazionali, regionali e locali) ed alle aree protette. Vi rientrano anche le “riserve della biosfera” sorte secondo l'indicazione dell'UNESCO (Unesco, 1971) e che sono ormai 300 in 76 paesi con una superficie di 12 milioni di ettari. In Europa il paese con il maggior numero di riserve biosferiche è la Germania, dove ne sono state istituite 13 su 1.250.000 ettari, pari al 3,4% del territorio nazionale. In Germania la riserve della biosfera sono al quarto posto, dopo le zone di protezione del paesaggio (25% del territorio nazionale), i parchi della natura a funzione turistica (16%) e le aree di protezione degli uccelli (6%). Le riserve biosferiche hanno avuto successo in Germania, perché sono una via di mezzo tra la visione americana ed europea di bioregione (Simonis, ib., p. 69) . L'agricoltura multifunzionale stabilisce un ponte tra sviluppo rurale e sviluppo urbano. Per l'Unione Europea l’agricoltura deve restare l'asse portante della società rurale, per garantire la soddisfazione quantitativa e qualitativa dei bisogni della popolazione e la custodia del patrimonio naturale e ambientale, e lo sviluppo rurale è lo strumento atto ad instaurare rapporti di fiducia tra il settore primario e la società, attraverso l’erogazione di aiuti agli agricoltori in cambio di impegni rivolti alla protezione ambientale (CES 952/99). Il documento europeo sostiene la necessità di contenere l'espansione urbana: principio in cui possiamo vedere la massima espressione europea di bioregionalismo . In Italia l’approccio bioregionale è sconosciuto, sebbene elementi di bioregionalismo si trovino nella pianificazione urbanistica e nelle leggi sulla difesa del suolo. La legge urbanistica della Regione Toscana, derivante dalla legge nazionale 142/90, prevede che 34

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L’equilibrio tra la protezione della natura e lo sviluppo socioeconomico è stato ben realizzato nelle riserva biosferica della Rhön che ha una superficie di 200.000 Ha e si estende in tre Lander (Assia, Baviera e Turingia). I programmi politici dei tre Lander e dei comuni favoriscono il mantenimento di spazi aperti in alta quota ed il turismo rurale in aree marginali, con progetti autofinanziati da 4.000 piccoli coltivatori. Dal 1991 nella riserva biosferica della Rhön sono stati realizzati 300 progetti di sviluppo, quali: la creazione di una catena di negozi per la vendita dei prodotti locali; la costruzione di case in stile regionale; la lavorazione artigianale di prodotti di legno; un piano unico di sfruttamento energetico; un sistema interattivo di trasporto treno-autubus. Detti progetti hanno creato numerosi posti qualificati di lavoro e hanno reso popolare il concetto di riserva biosferica presos la popolazione locale e tale popolarità è stata una condizione di successo per i programmi di sviluppo della bioregione.

“La continua estensione dei centri abitati e di insediamenti di ogni genere – con le relative infrastrutture – in zone di fiorenti attività agricole, ha contribuito alla conquista di una spazialità urbana delle superfici naturali con significative sequenze di alterazione del paesaggio, le aree rurali non possono continuare ad essere considerate come riserva di suoli, ma come parti integranti di un unico programma di utilizzazione del territorio, che condizionano il processo di pianificazione a vari livelli, mediante il rispetto delle rispettive vocazioni e destinazioni d’uso in sede di approvazione degli strumenti urbanistici e di ogni intervento edilizio” (CES 952/99). 35

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la trasformazione del territorio venga sottoposta a procedure preventive di valutazione, affinché nessuna risorsa territoriale sia ridotta in modo significativo e irreversibile . Le leggi in materia di acque si avvicinano all'idea di bioregione. L'acqua è l'elemento bioregionale più essenziale (senza acqua non c’è vita) e più facilmente localizzabile e quantificabile. Tranne il Testo Unico sulla bonifica integrale tuttora in vigore, tutte le leggi sono dell’ultimo quarto di secolo: legge Merli (n° 319/76), legge sulla difesa del suolo (n° 183/89) e legge Galli sulle acque pubbliche (n° 36/94). La prima disciplina gli scarichi industriali e fognari; la seconda la gestione dei bacini idrografici, affidata alle autorità di bacino; la terza la gestione del ciclo integrato delle acque, affidata agli ATO, che redigono i bilanci idrici per salvaguardare il “deflusso minimo vitale” dei fiumi. 36

6. Le bioregioni Toscana Costa e Area Vasta di Livorno, Pisa e Lucca L’applicabilità del concetto di bioregione è stata verificata nelle provincie di Livorno, Grosseto, Pisa e Lucca, aggregando i sistemi economici locali (SEL) in esse ricadenti . Tutti i SEL della provincia di Livorno e parte di quelli delle provincie di Grosseto, Pisa e Lucca sono stati uniti nelle bioregioni "Toscana Costa" e "Area Vasta di Livorno, Pisa e Lucca" (d’ora in poi "Area Vasta"). La Toscana Costa è stata definita dalla Regione Toscana per la legge regionale sulla difesa del suolo ed ha una fisionomia ambientale precisa: infatti aggregando i SEL "Val di Cecina-Quadrante Costiero", "Val di Cornia" e "Arcipelago Toscano" in provincia di Livorno, "Val di Cecina-Quadrante Interno" in quella di Pisa e "Colline Metallifere" in quella di Grosseto si ottiene un territorio formato dagli interi bacini idrografici dei fiumi Cecina, Cornia, Pecora di altri corsi d'acqua minori (Iacoponi, 2001b). L'Area Vasta non ha una fisionomia ambientale altrettanto precisa: aggregando i SEL "Area Livornese" in provincia di Livorno, "Val d'Era" e "Area Pisana" in quella di Pisa, "Area Lucchese", "Media Val di Serchio" e "Garfagnana" in quella di Lucca, si forma un territorio che comprende la parte terminale del bacino dell'Arno e il bacino del suo affluente Era più gli interi bacini del fiume Serchio e di altri corsi d’acqua minori. Le due bioregioni hanno nell’insieme 900.000 abitanti su un territorio di 5.650 Km 2, con una densità demografica di 162 ab./Km2: la Toscana Costa ha una densità minore dell’Area Vasta (81,5 contro 245,2 ab./Km2) ed è un territorio tendenzialmente rurale, mentre l'Area Vasta è una realtà più decisamente urbana (Iacoponi, 2001b). La validità ambientale delle due bioregioni è stata testata con il metodo dell’impronta ecologica "localizzata", con risultati contrastanti. La Toscana Costa ha un surplus del 10% della sua "biocapacità" (differenza tra territorio biologicamente attivo disponibile e impronta ecologica "localizzata"). Questo è un buon risultato perché, tranne il SEL "Val di Cecina-Quadrante interno", tutti gli altri SEL della Toscana Costa hanno un deficit di "biocapacità" rispetto all'impronta "localizzata": l'aggregazione dei SEL in base ad una logica territoriale significativa dal punto di vista ambientale ottiene l’effetto di delineare un'accettabile sostenibilità locale (almeno "locale", se non "totale") dello sviluppo, che concilia gli obiettivi di sviluppo delle comunità locali con la sostenibilità rispetto alle risorse ambientali locali (condizione che è l'accezione corrente di sviluppo sostenibile). 37

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Per l'art. 1 la legge mira “… ad assicurare uguali potenzialità di crescita del benessere dei cittadini e a salvaguardare i diritti delle generazioni presenti e future a fruire delle risorse del territorio (cioè) delle risorse naturali (aria, acqua, suolo, ecosistemi) e delle risorse essenziali”. 37 La Regione Toscana ha affidato all'IRPET la suddivisione del territorio in Sistemi Economici Locali (SEL), che sono ottenuti raggruppando comuni con caratteristiche demografiche, sociali ed economiche omogenee. La definizione dei SEL tuttavia trascura ogni riferimento di carattere geografico ambientale.

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L'Area Vasta presenta invece un deficit di "biocapacità", perché il surplus dei SEL "Garfagnana" e "Media Val di Serchio" non copre il deficit di tutti gli altri SEL. L'Area Vasta è deficitaria di superficie ecologicamente attiva, non solo rispetto all’impronta ecologica "totale" (ciò si può dire per la Toscana Costa, per l'intera Toscana, per l'Italia, ecc.), ma anche rispetto a quella "localizzata". Si può affermare perciò che lo sviluppo dell'Area Vasta, avendo superato i limiti della "biocapacità" indispensabile (nei confini di un territorio ambientalmente significativo), potrebbe avere ricadute negative a breve termine sulla qualità della vita delle popolazioni residenti. Il deludente risultato può portarci a concludere che è molto difficile applicare il concetto di bioregione ai territori urbani, perché questi difficilmente possono avere un bilancio in pareggio tra impronta ecologica "localizzata" e "biocapacità" locale. In ogni caso l’aggregazione bioregionale riduce l’impronta ecologica delle aree urbane grazie all'associazione ad aree contigue, ecologicamente complementari: "Val d'Era" assorbe l'impronta ecologica di "Area Livornese" e "Area Pisana"; "Garfagnana" e "Media Val di Serchio" l'impronta di "Area Lucchese"; tutti i SEL lucchesi, nell'insieme, l'impronta dei SEL livornesi e pisani. L'integrazione ecologica dell'Area Vasta segue poi le stesse linee di quella socioeconomica e le due forme di integrazione rendono plausibile, pur fra qualche "toscano brontolio", l’approccio bioregionale anche per l’Area Vasta . Le differenze ecologiche tra le bioregioni Toscana Costa e Area Vasta sono spiegate dalle rispettive caratteristiche socioeconomiche. La sostenibilità locale dello sviluppo è maggiore nella Toscana Costa che nell’Area Vasta, perché ha una struttura economica (rivelata dall'impronta "localizzata") diversa. Nella Toscana Costa l’impronta ecologica "localizzata" è per metà legata ai consumi dei residenti e per metà ai settori produttivi (40% all'agricoltura, 30% all'industria e 30% al turismo); nell'Area Vasta l’impronta ecologica "localizzata" è legata per il 75% ai consumi dei residenti e per il 25% alle attività produttive (25% agricoltura, 70% industria e 5% turismo). La Toscana Costa, che non ha grandi centri urbani, ospita ancora importanti attività produttive; l’Area Vasta, più urbanizzata, ha espulso i settori produttivi tradizionali e si è specializzata nelle attività terziarie. L'espansione abitativa e terziaria dell’Area Vasta preclude lo spazio, non solo per l'espansione, ma anche per la semplice permanenza delle attività produttive tradizionali in specie agricole e industriali: questo è un sintomo inquietante del "lato oscuro" dello sviluppo negli stessi paesi sviluppati, compressi tra le opposte esigenze della concorrenza internazionale per i prodotti delle loro industrie e della loro agricoltura e della qualità della vita dei residenti: la prima spinge verso l'uso di tecnologie sempre più consumatrici di risorse ambientali locali; la seconda verso una maggiore conservazione di tali risorse. In questo contrasto può rivelarsi decisivo il ruolo dell'agricoltura multifunzionale. 38

7. Ruolo ecologico dell'agricoltura e sua visibilità sociale Il metodo dell’impronta ecologica "localizzata" rivela l’impatto dell'agricoltura sulle risorse naturali locali, ma rivela anche che essa impegna ecologicamente una parte, più o meno grande secondo il grado di intensità, della "biocapacità" della superficie agraria utilizzata. L'agricoltura mette a disposizione dei consumi ecologici dei residenti e degli altri settori produttivi il 12% della SAU in provincia di Livorno, il 50% in quella di Pisa 38

Si vedano i corsi universitari, che da Pisa si proiettano nell’Area Vasta; i poli tecnologici previsti in punti strategici; i percorsi turistici (Via Francigena e strade del vino); la connessione tra i poli logistici (porto di Livorno, interporto di Guasticce, aeroporto di Pisa e nodo autostradale di Migliarino-Lucca).

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e il 70% in quella di Lucca (l'intensività dell'agricoltura decresce dalle pianure irrigue livornesi alle colline interne pisane ed alla montagna lucchese). Nelle due bioregioni considerate, l'impronta ecologica "localizzata" dell'agricoltura occupa il 20% della "biocapacità" territoriale nella Toscana Costa e il 10% nell’Area Vasta. La “generosità” del settore agricolo verso il resto del sistema socioeconomico è proporzionale alle sue debolezze di fondo, perché l'agricoltura è più generosa là dove essa è più compressa dalle restanti attività produttive e dall'espansione dei centri urbani . Anziché riesumare il tema abusato della marginalizzazione dell'agricoltura sotto la pressione della modernità, come dice il "Futuro del mondo rurale" riecheggiando i toni e i temi sismondiani della carica espansiva dello sviluppo che si traduce in compressione di spazi-tempi di attività produttive e stili di vita (in questo caso agricole e rurali), qui si vuole rimarcare il punto di vista contrario: anche là dove maggiore è la dilatazione del mondo urbano (periferie, aree vicine ai centri abitati o tra di essi intercluse) l'agricoltura continua a svolgere un ruolo di equilibrio ecosistemico. Questa performance dell'agricoltura può essere valorizzata se inserita in dimensioni territoriali che la possano quantificare in modo opportuno. La bioregione sembra essere lo spazio appropriato per costruire la conoscenza socialmente condivisa sull'importanza del ruolo dell'agricoltura multi-funzionale, non solo da un punto di vista produttivo, ma anche paesaggistico, culturale, ricreativo e, soprattutto, ecologico. L'approccio bioregionale e il metodo dell'impronta ecologica "localizzata" possono dare un contributo per definire i "meriti" della sostenibilità dello sviluppo (settore agroforestale) le "responsabilità" della sua insostenibilità (industria, turismo e, soprattutto, consumi dei residenti). La bioregione è la dimensione territoriale giusta per affrontare, con qualche possibilità in più di successo, il problema della sostenibilità locale dello sviluppo, che non può essere raggiunta dalla "mano invisibile" del mercato ma richiede l’intervento della "mano visibile" della politica, che a sua volta necessita di conoscenze approfondite e socialmente condivise sui rapporti tra economia e ambiente. Il ragionamento che può condurci a ritenere possibile l'acquisizione di un'informazione rilevante nelle decisioni di sviluppo locale sostenibile è alquanto complesso. La scienza ha scoperto che la natura è un "progetto" (Monod, 1970), che è governato da sofisticati meccanismi di monitoraggio che retroagiscono con meccanismi altrettanto sofisticati di feed-back sulla biosfera, secondo l’ipotesi "Gaia" (Lovelock, 1981) . L'uomo non sa se l’ipotesi Gaia sia vera o falsa: esplora, saggia, provoca Gaia (il gigante buono?) e tira le somme dei guadagni e delle perdite dei giochi individuali e collettivi contro l’ambiente. La sostenibilità ambientale è il grande gioco uomo-Gaia che può essere una buona fonte 39

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Nelle aree che più risentono della "pressione del mondo moderno" le aziende agricole diventano prima "destrutturate" e "disattivate", perdendo importanza per l'occupazione e per il reddito familiare del conduttore, poi si frammentano per la vendita di lotti di terreni prossimi a strade e centri abitati, infine abbandonano ogni fine economico, troncando i rapporti con i mercati di prodotti e fattori, per assumere dei meri fini patrimoniali, residenziali e ricreativi. 40

“Gaia” è l’ipotesi avanzata da Lovelock per spiegare le interazioni tra biosfera, atmosfera, geosfera e idrosfera, così strette che i fenomeni fisici e chimici che avvengono sulla Terra non si possono spiegare senza chiamare in causa la presenza della vita; pur nella varietà delle sue componenti, Gaia persegue il fine unitario di mantenere sul pianeta le condizioni atte alla vita: “abbiamo definito Gaia come un’entità complessa comprendente la biosfera della Terra, l’atmosfera, gli oceani e il suolo, l’insieme costituendo una retroazione (feed-back) o un sistema cibernetico, che cerca un ambiente fisico e chimico ottimale per la vita su questo pianeta.” (Lovelock, 1981, p. 24).

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di informazione sulla sostenibilità ambientale, purché i suoi guadagni e le sue perdite tocchino direttamente le collettività umane. Le maggiori crisi ambientali (effetto serra, buco dell’ozono, perdita di biodiversità) mettono in evidenza che non solo gli individui ma anche gli stati tendono ad assumere comportamenti non cooperativi. Se “la teoria dei giochi fornisce il quadro concettuale nel quale si collocano i problemi di interdipendenza strategica che si pongono quando si deve arrivare a risolvere un problema di accordo ambientale internazionale”, quando due paesi devono collaborare per risolvere un problema ambientale comune, la strategia dominante (l'equilibrio di Nash) è tuttavia sempre quella non collaborativa: “alla base del risultato pessimistico del dilemma del prigioniero vi è il fatto che non ci si fida del comportamento cooperativo degli altri” (Musu, 2000). Per indurre i paesi a collaborare un’autorità mondiale dovrebbe modificare, con incentivi o penalizzazioni, i benefici netti dei due paesi rendendo più conveniente una strategia cooperativa. In alternativa le comunità locali dovrebbero essere capaci di sostituire le autorità centrali per gestire in proprio la sostenibilità dei loro territori. La reciprocità equilibrata che è naturalmente presente nei distretti industriali e rurali, è stimolata dalle politiche di programmazione bottom-up (programmi LEADER). L’esperienza dei GAL dimostra che i progetti individuali non scompaiono ma si coalizzano nella programmazione negoziata, che può essere analizzata con la teoria dei giochi cooperativi a più soggetti. L'analisi comporta due fasi: la teoria dei giochi a più soggetti, che può spiegare il passaggio dai comportamenti individuali ai comportamenti cooperativi; la teoria delle decisioni, che può spiegare i comportamenti cooperativi delle comunità locali nelle scelte di sviluppo tese a coinvolgere in modo sostenibile l’ambiente locale (Baumol, 1975, pag. 617-622) . I giochi cooperativi a più soggetti possono funzionare se si impiega una conoscenza contestuale, collettiva e condivisa dopo una selezione: la programmazione negoziata è l’esito finale di un processo decisionale, che impiega la competizione non per eliminare i progetti individuali, ma per selezionare la conoscenza rilevante per i progetti cooperativi. Se la comunità locale assume decisioni collettive nei giochi verso l’ambiente, la conoscenza sugli impatti ambientali e delle loro conseguenze su singoli, comunità e ecosistema locale, è percepita come conoscenza tacita socialmente condivisa. Ai comportamenti solidali di una comunità locale si arriva con percorsi tormentati di scelte cooperative, ora deboli ora forti, con tradimenti e alleanze mutevoli, finché dalla competizione e selezione dei progetti può emergere la consapevolezza della necessità di mantenere uno stretto rapporto fra agricoltura, stato dell’ambiente e qualità della vita . 41

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La teoria dei giochi analizza le scelte che comportano rischio, con valori di utilità noti, e i giochi competitivi e cooperativi in materia di affari; la teoria delle decisioni analizza le scelte in condizioni di incertezza, con valori di utilità non noti, e i giochi cooperativi e non contro l’ambiente. Il meccanismo della teoria dei giochi si applica sostanzialmente anche alla teoria delle decisioni. L’analisi dei giochi a più persone, sebbene la maggior parte dei problemi reali della vita economica rientrino in tale categoria, è estremamente difficile e la letteratura è ricca di suggestioni e di idee, ma povera di teoremi. Per i giochi a più soggetti la teoria distingue quelli di cooperazione e di non cooperazione: Nash dimostra che in un gioco a più soggetti di “non cooperazione” vi è un punto di equilibrio solo se ciascun soggetto dispone di un numero limitato di strategie; in caso contrario i soggetti hanno difficoltà a prendere delle decisioni e diventano possibili dei giochi cooperativi (Baumol, 1975, pagg. 617-622). 42

La reciprocità positiva risponde a tre pulsioni "quella di donare, quella di ricevere e, la più importante di tutte, quella di rendere" (Lacourse, 1987). Le relazioni sociali vanno dalla "reciprocità generalizzata" tra parenti prossimi, caratterizzata da assenza di regole sui tempi e sulle equivalenze dei doni da restituire,

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Nei progetti cooperativi delle comunità locali l’ambiente deve essere visto non come un nemico da vincere, ma come un giocatore, duro e leale, con il quale i membri di una comunità locale desiderano continuare a giocare per lungo tempo ancora. L'agricoltura è da diecimila anni il metodo che l'uomo ha perfezionato per usare, ed al tempo stesso conservare e riprodurre, le risorse naturali. Ogniqualvolta l'uomo giunge ai limiti delle potenzialità che lo sviluppo e le sue innovazioni gli mettono a disposizione, scopre una questione sempre attuale: la valorizzazione dell'agricoltura non solo malthusianamente a livello mondiale, ma anche sismondianamente a livello locale, dove i membri di una comunità locale - in primo luogo gli agricoltori, ma anche gli industriali, gli operatori turistici ed i residenti - dovrebbero possedere una conoscenza condivisa sull'importanza dell'agricoltura locale, dando al settore la giusta visibilità sociale (con l'educazione dalle scuole primarie in poi). Naturalmente il mondo agricolo e rurale, in primo luogo i suoi maîtres a penser, tra cui gli economisti agrari, non dovrebbero attardarsi sul messaggio opposto, quello di un'agricoltura del tutto assimilata ai pregi e ai difetti dell'industria.

7. Conclusioni L'immagine dataci dall'impronta ecologica "totale" di uno sviluppo globale che deve o "cristallizzarsi" nelle sue enormi disparità socioeconomiche, o, per eliminarle, dar fondo a tutte le risorse ambientali, avviandosi, come il "Titanic", contro l'iceberg di un disastro ecologico irrimediabile, esce ridimensionata dall'impronta ecologica "localizzata" e dalla sua applicazione alla bioregione. Due motivazioni ci fanno ridimensionare l'imminenza del "collasso" della popolazione ipotizzato dal rapporto del Club di Roma e confermato dall'impronta ecologica di Wackernagel e Rees: l'impronta "localizzata" mette in luce le ampie possibilità di compensazione tra i fabbisogni di "biocapacità" dei consumi dei residenti e delle attività produttive, qualora vi sia un'integrazione il più possibile stretta a livello locale tra il sistema economico e l'ecosistema (senza ritorni ad un'anacronistica autarchia, ma senza neppure stupidi sprechi di risorse); il concetto di bioregione a sua volta costringe a fare bilanci stringenti fra disponibilità e fabbisogni locali di risorse naturali, la cui concretezza può indurre a passare dall'indifferenza per il problema della sostenibilità "almeno locale" dello sviluppo alla sua "presa di coscienza" da parte delle autorità locali e dei cittadini. L’impronta ecologica "localizzata" e la bioregione confermano i caratteri di territorio rurale - spazio di equilibrio tra società ed ambiente - e di sviluppo rurale - processo di cambiamento conservativo (dell’equilibrio società-ambiente che è il carattere saliente del territorio rurale) - date in altre occasioni (Iacoponi, 1997) e fortemente criticate per il carattere non puramente economico. Nella conservazione degli equilibri ecologici l’agricoltura conserva un ruolo importante, in quanto esportatrice netta di superficie ecologicamente produttiva, mentre tutti gli altri settori sono importatori netti. Poiché il surplus ecologico del territorio rurale è garantito dall’agricoltura, questa deve restare l’asse portante dello sviluppo rurale, che non deve trasformare un territorio rurale da ecologicamente eccedentario in deficitario, poiché questo tipo di sviluppo non sarebbe né rurale né sostenibile, ma un mero fenomeno di crescita economica, teso a omologare il mondo rurale a quello urbano. L'economista generale potrebbe dire (e di solito dice): “ben venga l'omologazione, che può riscattare la ruralità da secoli di subordinazione e alla "reciprocità equilibrata", tra i membri della stessa comunità, in cui le regole indicano tempi più brevi e equivalenze più strette per le restituzioni, e infine alla "reciprocità negativa", quando la distanza sociale è grande e ognuno cerca di prendere ciò che vuole, senza dare niente in cambio.

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di marginalizzazione!”; l'economista agrario spesso si associa, sebbene il suo mestiere dovrebbe portarlo a preoccuparsi dei costi sociali e ambientali di tale sviluppo rurale. Lo sviluppo rurale può essere compreso dalla società nei suoi caratteri differenziali rispetto a quello urbano, se viene collocato nel contesto territorialmente più ampio della bioregione. Sviluppo rurale e bioregionale si sovrappongono ma rispetto a quello rurale lo sviluppo bioregionale presenta elementi di novità, che lo fanno preferire per definire delle politiche di sviluppo locale sostenibile in aree con forti connotati urbani, come le province di Livorno, Pisa e Lucca considerate. La bioregione è un modello territoriale di sviluppo più universale, più duttile e potenzialmente più utile di quello rurale: la separazione del mondo rurale da quello urbano è un’idea “insostenibile” di sostenibilità ambientale. L’ipotesi della bioregione, come uno spazio di pianificazione negoziata fra abitanti dei mondi rurale ed urbano per lo sviluppo locale sostenibile, unita al metodo dell’impronta ecologica "localizzata", se non risolve il dissesto ambientale globale, lo può avviare a soluzione, riducendo l’impatto delle società sviluppate sull’ambiente ed educandole a difendere prima di tutto la loro “ricchezza territoriale”, di cui stanno a poco a poco perdendo memoria. Se l'educazione sui rapporti tra ambienti rurali e urbani per lo sviluppo sostenibile locale, è un punto cruciale per restituire visibilità sociale all'agricoltura, è necessario reintrodurre nei processi educativi a tutti i livelli formativi il concetto di natura. Purtroppo tra i successi dell'economia moderna dobbiamo annoverare anche quello di avere creato una cultura accademica, penetrata a fondo nella conoscenza sociale, che ha rimosso il concetto di "ricchezza territoriale" e di natura relegandoli a fattori produttivi: il termine "capitale naturale", usato da economisti e da ecologisti (i primi contraddittori rispetto alla definizione economica di capitale; i secondi rispetto a quella biologica di processo naturale), dimostra tutta la profondità della rimozione della natura. L'economia è nata identificando la natura come base della ricchezza e lo sviluppo, non come negazione della natura, ma come sua più desiderabile (per l'uomo) esaltazione. Sui motivi della rimozione di queste idee si potrebbero scrivere innumerevoli saggi. Ne cito uno per tutti: la difficoltà del trattamento matematico degli eventi naturali che sono coinvolti - e che a loro volta coinvolgono - gli eventi economici. La difficoltà è presente ai biologi che a loro volta soffrono il disagio dell'abbandono del "dogma centrale" della biologia, cioè la stretta dipendenza dei caratteri dell'individuo dal suo codice genetico, ipotesi che apriva le porte ad un trattamento con la teoria dell'informazione del DNA, passando ai problematici rapporti genotipo-fenotipo-genotipo, molto più difficilmente trattabili anche matematicamente, perché soggetti ad andamenti caotici. L'economia, che vive a sua volta l'abbandono del suo dogma centrale, la dipendenza diretta del successo economico dalla tecnologia, passando a considerare più complessi rapporti ad andamento circolare (o a spirale) tra il DNA tecnologico e il contesto sociale e ambientale, non può restare prigioniera di un'impostazione matematica che le dà solo l'illusorietà della quantificazione econometrica. Tuttavia l'economia ha una chance in più rispetto alla biologia: può indagare direttamente gli attori dello sviluppo e ritrovare una solida base scientifica facendo emergere in loro ciò che ancora non si è reso palese alla loro conoscenza (imperfetta e tacita): il "lato oscuro" delle perdite del gioco "duroma-leale" che l'uomo ingaggia da sempre con la natura e che d'improvviso può rivelare a entrambi i giocatori tutta la gravità della posta in gioco. Ad un tale compito scientifico sembra particolarmente vocato l'economista agrario, purché alla categoria stia a cuore la "visibilità sociale" di se medesima.

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