MITOLOGIEDELLARETE
i discorsi
dei media
divulgazione
Internet:
siano a tal punto
incisivi
da produrre
un cortocircuito
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tra
e ricerca.
un problema di oggettiuazione
delle scienze umane e sociali?
Quest'ultima osservazione ci consente di introdurre la seconda categoria di discorsi attraverso i quali l'immagine della Rete si afferma socialmente, cioè quelli delle scienze che di essa, dai diversi punti di vista, fanno oggetto di riflessione. Nell'odierna società della comunicazione e delle reti telematiche, la ricerca esce dal mondo dell'accademia e della letteratura scientifica e trova ospitalità da parte dei giornali, della radio e della televisione. Le forme sono diverse: la rubrica fissa (come accade per le «bustine» di Eco sull'Espresso), il commento ai fatti (emblematico il ricorso allo psicologo per '
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e lo spettacolo è reale. Questa alienazione reciproca è l'essenza e il fondamen to della società esistente. (Debord, 1992, pp. 18-19)
Chiaramente Debord pensa al dispositivo spettacolare dei media, alle rappresentazioni dei media, ma non è improprio ricondurre alla sua prospettiva anche le analisi delle scienze sociali che di quel dispositivo, come sopra accennavamo (la sociologia da talk show, la psicologia da periodico illustrato), spesso divengono parte. Il meccanismo di doppia alienazione che lo studioso francese descrive è chiaramente riscontrabile in questa categoria di discorsi: quando il sociologo in televisione o sulla carta stampata descrive Internet come il futuro, o come uno strumento che agevola (o inibisce) la comunicazione e che può quindi portare a una società cooperante (o incomunicante), di fatto -per usare le parole di Debord -sta «facendo sorgere» la realtà nello spettacolo, perche le sue parole disegnano uno scenario che in qualche modo determina la reale ricezione e gli usi concreti della Rete; contestualmente, lo spettacolo verbale del suo discorso è assolutamente reale, cioè perde la propria natura di discorso e assume concretezza. Realtà e rappresentazione cortocircuitano. Come dice laconicamente Debord: «Nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso» (Debord, 1992, p. 19). La progressiva rarefazione della realtà e la costituzione dell ' ordine simbolico a nuova forma di realtà è al centro anche dell'esperienza di pensiero di Jean Baudrillard. In un percorso che muove da Lo scambio simbolico e la morte (1976), in cui il simulacro viene analizzato come l'ultima tappa della emancipazione dell'immagine dal suo referente, e che passa attraverso la riflessione etica sugli effetti che questo processo produce sul soggetto (1987) e quella sociologica sulla costruzione della realtà nell'informazione televisiva,12 il filosofo francese giunge a individuare il meccanismo che sta alla base del rapporto tra immagine e realtà, fatto e informazione, nella società dei simulacri: Il delitto perfetto consiste in una realizzazioneincondizionata del mondo attraverso l'attualizzazionedi tutti i dati, mediante la trasformazione di tutti i nostri atti e di tutti gli eventi in pura informazione. Insomma: la soluzione finale, la risoluzione anticipata del mondo tramite la clonazione della realtà e lo sterminio del reale e del suo doppio. (Baudrillard, 1995, p. 31)
[2 Baudrillard (1991) in un saggio divenuto celebre riflette sul significato del rapporto tra la Guerra del Golfo e la sua copertura mediatica, giungendo alla conclusione che quella guerra non è mai stata combattuta. Baudrillard gioca sul paradosso. Non intende dire che la Guerra del Golfo a non essere mai stata combattuta è quella reale, ma quella che il telespettatore e il lettore della carta stampata hanno potuto ricostruire. Quella guerra esiste solo nella rappresentazione discorsiva che i media ne h;lnnn rJ;ltn
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La riflessione di Baudrillard consente di comprendere nello stesso processo il meccanismo di certificazione tipico della copertura mediatica (l'evento inizia a esistere solo nel momento in cui ottiene una visibilità nei media, altrimenti non esiste) e quello della virtualizzazione introdotto dallo sviluppo dei nuovi media e in particolare proprio della rete Internet: l'informazione (intesa sia come notizia che come insieme di bit) si sovrappone alla realtà fino a costituirsi essa stessa a nuova forma di realtà; il risultato è che non esistono più la realtà e il suo doppio, ma solo un ordine di cose in cui l'uno e l'altra si confondono fino a vedere annullata ogni loro differenza. L'analogia con il funzionamento di quelli che abbiamo definito i «discorsi di accompagnamento» alla penetrazione sociale della tecnologia è forte: anche in quel caso, infatti, ci troviamo di fronte a una rappresentazione discorsiva che impone le sue ragioni alla realtà dei fatti fino a sostituirsi ad essi. L'immagine socialmente condivisa di Internet è prodotta dalle esperienze reali della Rete che gli individui possono avere o dal sistema di interpretazioni, istruzioni per l'uso, previsioni che attorno ad essa si affollano? E che peso hanno le scienze umane e sociali nella costruzione di questi quadri d'uso? La risposta a queste domande viene dalla riflessione che Vattimo (1987) sviluppa proprio sul rapporto tra la società della comunicazione e le scienze umane. Si tratta di un rapporto strutturale, nella misura in cui queste scienze «non sono solo un modo nuovo di affrontare un fenomeno "esterno" [...l ma sono rese possibili, nei loro metodi e nel loro ideale conoscitivo, dal modificarsi della vita individuale e associata, dal costituirsi di un modo di esistere sociale che, a sua volta, è direttamente plasmato dalle forme della comunicazione moderna» (Vattimo, 1987, p. 21). Senza la presenza di comportamenti collettivi che richiedono processi estesi di comunicazione sociale non vi sarebbe spazio per la socioIogia; l'antropologia non sarebbe pensabile senza le scoperte e l'allargamento dell'orizzonte oltre i confini dell'Europa (un processo che ha trovato uno straordinario veicolo nella globalizzazione mediatica dell'immaginario); allo stesso modo difficilmente si potrebbe pensare allo spazio pubblico (Habermas, 1983) e alla nascita dell'idea stessa di opinione pubblica se non a partire dai media. D'altra parte le scienze umane e sociali sono ciò che concorre alla definizione di questa stessa società. Infatti, dal punto di vista epistemologico, il modo di procedere di queste scienze è caratterizzato da quello che Kant e Wittgenstein hanno definito Darstellung e che si può rendere nella lingua italiana parlando di una «presentazione configurativo-immaginativa dell'oggetto» (Borutti, 1999, p. 106). Se la rappresentazione (Vorstellung) è restituzione, sia pure connotata dall'apertura immaginativa e attraversata dall'intenzionalità del soggetto che si rappresenta qualcosa, la Darstellung è piuttosto finzione, non nel senso della simulazione, dell'illusione di verità, ma della costruzione formale della realtà. Le scienze umane e sociali
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producono conoscenza per modellizzazione, cioè costruiscono il loro oggetto in termini simbolici: L'oggetto non è dato naturalmente, ma diventa accessibileattraverso processi di organizzazionee "incorniciamento», che selezionanoe rendono pertinenti le informazioni a più livelli. (Borutti, 1999, p. 129) Vattimo esprime la stessa idea recuperando l'idea heideggeriana secondo cui la modernità deve essere pensata come epoca delle immagini del mondo; quest'idea non si riferisce al fatto che tutto si riduce a punti di vista soggettivi, ma «alle immagini costruite e verificate dalle scienze, che si dispiegano sia nella manipolazione dell'esperimento, sia nella applicazione dei risultati alla tecnica, e che, soprattutto (il che Heidegger non esplicita, peraltro), si concentrano alla fine nella scienza e nella tecnologia dell'informazione» (Vattimo, 1987, p. 26). Quindi si profila un doppio rapporto tra i media, le tecnologie di comunicazione e Internet, da una parte, e le scienze umane e sociali dall'altra. I media garantiscono le condizioni perche queste scienze possano esistere; quest'ultime contribuiscono a definire l'esistenza e i significati dei media: se Internet non ci fosse non si potrebbero scrivere libri o articoli su Internet, ma allo stesso tempo il modo in cui Internet esiste dipende proprio dai libri e dagli articoli che su Internet vengono scritti. La conferma di questa ipotesi di lettura viene dagli esiti del ragionamento dello stesso Vattimo. La costruzione della «società della comunicazione» in cui le scienze umane e sociali sono impegnate, infatti, risponde a una ben precisa intenzione utopica. Tale intenzione, implicita nel programma ideologico dell'llluminismo, risulta chiara nella riflessione di alcuni filosofi contemporanei come Anel e Habermas. Recuperando categorie kantiane, essi indicano nella comu icazione u di ideale no. ..., ne fon are un'etica con ivisa ne garantire la convivenza civile: una società che non coro= è una SOCle[acne n~n puu prallcare la gIustIzIa (perche essa dipende dalle pari opportunità di comunicazione dei soggetti) e che non conosce la solidarietà (possibile solo sulla base di una mutua disposizione dei soggetti alla dialogicità reciproca). Il modello di società che ne consegue è una società trasparente a se stessa. È questa proprio grazie alla connessione in rete una delle principali idee che accompagnano il radicamento sociale di Internet, cioè la convinzione che non vi sia più nulla di coperto o di interno, ma tutto divenga esplicito ed esternalizzato. Questa autotrasparenza, osserva Vattimo, «in qualche senso, realizza quell'assolutezza dello spirito che in Hegel restava un puro fantasma ideologico, una assolutezza che, nella sua "idealità" manteneva con il reale rnnrreto auel rapporto di trascendenza "platonica" tipico delle essenze metafisi-
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che con tutte le loro implicazioni anche, in largo senso, repressive (nella misura in cui restavano necessariamente trascendenti}' (Vattimo, 1987, p. 33). Il problema è che la «costruzione del mondo» in cui le scienze umane e sociali sono impegnate (insieme ai media, i cui discorsi, come abbiamo visto, cortocircuitano con esse) invece di favorire I'autotrasparenza predispone la sua negazione. Invece che procedere verso I'autotrasparenza, la società delle scienze umane e della comunicazione generalizzataha proceduto verso quella che, almeno in generale, si può chiamare la "fabulazionedel mondo.. Le immagini del mondo che ci vengono fornite dai media e dalle scienzeumane, sia pure su piani diversi, costituisconol'obiettività stessadel mondo, non solo interpretazioni diverse di una "realtà. comunque "data». "Non ci sono fatti, solo interpretazioni., secondo il detto di Nietzsche,il quale ha anche scritto che «il mondo vero alla fine è diventato favola..13(Vattimo, 1987, p. 38) Arriviamo al fondo del problema e tocchiamo il punto attorno al quale questo primo capitolo ruota: nel!' odierna società dei media e della comunicazione, le analisi giornalistiche e scientifiche della tecnologia nei suoi sviluppi e nei suoi usi sociali sono parte integrante della realtà che esse intendono descrivere. Se questo è in parte giustificato dallo statuto epistemologico di scienze che, come quelle umane e sociali, consistono nel proporre modelli di costruzione simbolica del mondo, d'altra parte non si può negare che nel caso dei media e dei discorsi che intorno ad essi proliferano assuma i contorni di un fenomeno profondo e diffuso. A cosa ci riferiamo realmente quando parliamo di Internet? Quando definiamo la Rete un mondo parallelo a quello reale ne stiamo descrivendo un carattere strutturale o stiamo prestando fede a uno dei racconti che su di essa circolano socialmente? Probabilmente, come indica 10 stesso Vattimo, occorre fare esercizio di sospetto emettere tra parentesi questi racconti recependoli nella loro natura di racconti: Se non possiamo(più?)illuderci di svelarele menzognedelle ideologie raggiungendo un fondamento ultimo e stabile, possiamo però esplicitare il carattere plurale dei «racconti», farlo agire come elementodi liberazionedallarigidità dei racconti fonologici, dai sistemi dogmatici del mito. (Vattimo, 1987, p. 40) Se i discorsi delle scienze umane e sociali sui media funzionano come racconti, se la loro attività è un'attività sostanzialmente fabulatoria, allora occorre adottare ai fini di una loro comprensione la categoria del mito: la critica sociale della letteratura scientifica e non scientifica relativa ai media e a Internet è in fondo mitologia. 13Nietzsche intitola così uno dei caDitoli del CreDuscoJo deali idnli
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COSTRUTT/VISMO E PRAGMATlCA DELLA COMUNICAZIONE ON L/NE
Mito e media: il dispositivo semiotico La costruzione simbolica della realtà, l'attività mediante la quale con la parola e l'immagine si vestono di simboli le cose, trova nella categoria del mito una significativa opportunità di categorizzazione e apertura interpretativa. In questo paragrafo cercheremo di mostrare l'eziologia e il funzionamento di tale categoria, muovendoci tra l'interpretazione sociale e l'analisi semiotica della cultura. L' obiettivo è di ricavare una griglia interpretativa grazie alla quale tornare sui «discorsi di accompagnamento» della Rete per mostrarne la natura profondamente mitologica e, attraverso questa operazione, metterne in agenda la decostruzione e il superamento.
Ermeneutica
del mito
«L'illuminismo prova un orrore mitico per il mito» (Horkheimer e Adorno, 1947, p. 36). In questa sintetica affermazione di Horkheimer e Adorno è condensata l'opposizione netta attraverso la quale, tradizionalmente, l'Occidente legge il rapporto tra razionalità scientifica e mito. Nel lessico concettuale dei due filosofi francofortesi, infatti, l'illuminismo non viene inteso tanto come epoca storica del pensiero (identificabile con il Settecento di Rousseau e del\'Encyclopedie), quanto piuttosto come una struttura culturale che identifica la tendenza tipica della mente occidentale a liberarsi del mito per sostituirlo con la comprensione razionale dei fenomeni: «L'illuminismo, nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso, ha perseguito da sempre l' obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni. [. ..] Il programma dell'illuminismo era di liberare il mondo dalla magia. Esso si proponeva di dissolvere imiti e di rovesciare l'immaginazione con la scienza» (Horkheimer e Adorno, 1947, p. Il) .IIluminismo, nell' ottica francofortese, è la tendenza dell'uomo a piegare la natura al suo volere, è il «riconoscimento del potere come principio di tutti i rapporti» .Questo potere si esprime sia nel lavoro conoscitivo che nello sviluppo della tecnica. La conoscenza, infatti, almeno nella sua accezione diffusa, è pensata sempre come uno sforzo di comprensione dei fatti, cioè come una riduzione della realtà a concetto. Etimologicamente, questa operazione dice di un «prendere insieme» (cum-prehendere), di un ricomporre le cose nell'ordine del pensiero che inevitabilmente si traduce in un atto di imposizione: questo senso di un pensiero che impone (in senso forte) il suo ordine al mondo è ben restituito dal termine tedesco begriff, concetto, che dice di un greifen, di un definire, che è mettere limiti alle cose nel senso del graffio, dell'impronta decisa. Come suggerisce Maffesoli {1996, p. 25) il sapere concettuale «impone, si impone, brutalizza,
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invece di lasciare che le cose si sviluppino liberamente». Si capisce, allora, perche nella tradizione di una parte dell'ermeneutica (da Heidegger a Vattimo) l'idea del pensiero comprendente sia sempre stata tacciata di violenza: la logica della conoscenza razionale, dell'illuminismo, è violenta perche impone alle cose un ordine che non è il loro, costringe la natura a obbedire al pensiero. Da questo punto di vista sono emblematiche rappresentazioni dell'illuminismo tanto il Terrore che l'astuzia di Ulisse. Già Hegel, nella Fenomenologia dello spirito, aveva ben colto che quando l'universale viene affermato come puro concetto, nella sua massima astrattezza, si rovescia nel suo contrario. Questo è quel che succede con la Rivoluzione Francese, quando la volontà generale e i valori della libertà, dell'uguaglianza e della fraternità, nella misura in cui vengono concettualizzati e difesi nella loro assolutezza, si traducono nella loro propria negazione generando violenza. Robespierre si erge a garante della ragione, ne difende il valore sospettando di chiunque sembri minacciarne l' esistenza, traduce il sospetto in azione violenta che mira alla salvaguardia dell ' ordine mediante I' eliminazione di chi pare in procinto di minacciarlo. La logica della ragione illuministica è una logica violenta perche esclude il dissenso: se il concetto è formulato in maniera evidente si impone nella sua verità e non tollera il dissenso, perche il dissenso diviene automaticamente tentativo di far prevalere la menzogna e, quindi, di rovesciare l'ordine generando il caos. La stessa logica di affermazione dell ' ordine razionale su tutto ciò che gli si contrappone (ed è quindi irrazionale) si può riconoscere nella vicenda di Ulisse. «II lungo errare da Troia ad Itaca -si legge ancora nella Dialettica dell'illuminismo -è l'itinerario del soggetto, infinitamente debole, dal punto di vista fisico, rispetto alle forze della natura, e che è solo in atto di formarsi come autocoscienza -l'itinerario del se attraverso i miti. Il mondo mitico è secolarizzato nello spazio che egli percorre, i vecchi demoni popolano i margini estremi e le isole del Mediterraneo civilizzato, ricacciati nelle rocce e nelle caverne da cui uscirono un giorno nel brivido dei primordi. Ma le awenture danno a ciascun luogo il suo nome; e il loro risultato è il controllo razionale dello spazio» (Horkheimer e Adorno, 1947, p. 54) .Gli strumenti attraverso i quali I' eroe afferma questo controllo sono l'astuzia e la parola. L'astuziache consente a Ulisse di passare indenne davanti alle Sirene e di partire da Circe -costituisce la sfida e I'aggiramento nei confronti del mondo mitologico: Ulisse si prende gioco degli dei, cioè afferma l'ordine razionale su quello simbolico. Un'operazione che appare chiarissima nell'episodio di Polifemo, quando l'astuzia si serve del nome per andare a segno: la rivelazione del nome, Odisseo, mentre rivela inganna, perche udeis, in greco, significa Nessuno. Ulisse, mentre usa la parola per designare la cosa
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(dicendo «II mio nome è Nessuno» riferisce il nome a se stesso) contemporaneamente rompe il rapporto mitico tra parola e cosa e afferma la capacità della ragione di usare il nome per trasformarla: «La parola sembra avere un potere immediato sulla cosa, espressione e significato si confondono. Ma l'astuzia mette a profitto la differenza; si attacca alla parola per trasformare la cosa» (Horkheimer e Adorno, 1947, p. 67). Con la figura di Ulisse, interpretata come prototipo della ragione illuminista (astuta, calcolante, impositiva, violenta) ci viene offerta anche la saldatura della razionalità scientifica con la tecnica: il dominio della ragione sulla natura, infatti, così come ad esempio si esprime nell'episodio delle Sirene, passa attraverso la scelta (tecnica) di farsi legare dai compagni all'albero della nave e di predisporre dei tappi di cera perche, non sentendo nulla, essi non vengano ammaliati dal canto sublime e continuino a remare. Il «ponte» concettuale tra l'una e l'altra, tra razionalità scientifica e razionalità tecnica, è la logica del dominio: «La razionalità tecnica di oggi non è altro che la razionalità del dominio» (Horkheimer e Adorno, 1947, p. 127). Rispetto a questa idea della razionalità comprendente, il mito ha sempre rappresentato l'opzione opposta, antitetica, sia dal punto di vista storico-evolutivo, che del dispositivo. Per quanto riguarda il primo aspetto, nonostante proprio nel Settecento illuminista Vico nella sua Scienza nuova avesse indicato la necessità di guardare in termini contestuali alle produzioni culturali delle singole età dell'uomo valorizzando la cultura poetica, l'opinione che finisce per imporsi è quella hegeliana. Se la realtà, e quindi la storia che ne rappresenta il distendersi temporale, devono essere lette come il cammino attraverso il quale l'Idea procede verso la propria autoconsapevolezza, allora è inevitabile ricavarne che ogni tappa di questo cammino costituisce un passo in avanti verso la totale razionalizzazione del reale. E infatti, nell'ultima triade in cui questo processo dialettico si articola, è la Ragione a costituire il punto di arrivo, a realizzare l' Assoluto, non la Religione e l' Arte che la precedono ma che inevitabilmente devono andare incontro al proprio superamento. Il mito, nella prospettiva hegeliana, rappresenta l'infanzia della ragione, cioè identifica quel momento dello sviluppo dello Spirito in cui la spiegazione fantastica delle cose surroga temporaneamente la mancanza di una spiegazione razionale: quando tale spiegazione sarà disponibile non occorrerà più il mito. Questo tipo di presupposto condiziona fortemente sia gli sviluppi della scienza tra Ottocento e Novecento che la storiografia filosofica successiva. Infatti, nella cultura del positivismo (si pensi ai «tre stadi» di Comte), la dialettica tra infanzia ed età adulta della ragione -già anticipata da Kant nella sua Risposta alla domanda: cos'è l'illuminismo? -diviene il parametro per distinguere la
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spiegazione ingenua e fantastica del mondo tipica della religione e della metafisica da quella rigorosa e matura della scienza. La logica del «disincantamento del mondo» grazie alla quale Max Weber ricostruisce lo sviluppo razionalizzante dell'Occidente è ben leggibile, qui, nell'idea positivista del progresso inteso come la graduale espulsione del religioso e dell'irrazionale in favore di tutto ciò che è positivo, cioè riscontrabile e misurabile. Una prospettiva analoga viene assunta come criterio di interpretazione storica dalla storiografia filosofica che proprio nell'Ottocento muove i suoi primi passi con La filosofia dei greci nel suo sviluppo storico di Zeller. Il presupposto hegeliano ritorna nell'opera di Zeller e si applica al rapporto tra filosofia presocratica e sistemazione platonico-aristotelica che viene letto nei termini di un progressivo abbandono del mito {che si manifesta nelle immagini naturalistiche dei filosofi ionici come nella visione parmenidea di una dea che rivela al filosofo la «via della verità») verso le forme tipiche del ragionamento filosofico e cioè il concetto e l'argomentazione. Un pregiudizio che viene fatto proprio su larga scala dalla cultura occidentale e diviene criterio di discriminazione tra culture evolute e non evolute, capaci di pensiero razionale le prime, «ferme» al pensiero mitico le seconde. Questa dialettica si comprende se si riflette brevemente sul dispositivo del pensiero mitico. Esso affida all'immaginazione il compito che la razionalità scientifica affida alla comprensione: Il razionalismoche propone un messaggiova dritto allo scopo, seguequella via recta la cui efficacia ci è ben nota. Del tutto diverso è l'agire incerto dell'immaginario. Essoci guida ad un sapere raro. Un sapere che, allo stesso tempo, mostra e nascondeciò che comunque descrive.Un sapereche, dietro agli arabeschidelle metafore, custodisce,agli occhi delle menti raffinate, verità multiple. Un sapere che lascia ad ognuno il compito di svelare, cioè di comprendere da e per se stessiciò che è opportuno scoprire. In un certo senso si tratta di un sapere iniziatico. (Maffesoli, 1996, pp. 30-31) La logica del mito è quella della traccia e dell'indizio, dell'immagine che cela mentre svela: ne sono emblema l'immagine di Eraclito che parla da dietro una tenda o il dire oscuro e densamente simbolico dello Zarathushtra di Nietzsche. Se i confini dell'anima non potranno mai essere trovati perche il suo logos è troppo profondo, come suggerisce Eraclito, forse la modalità più adatta per dirne qualcosa non è quella definitoria del concetto ma quella allusiva della parola poetica, del mito. Mentre la razionalità scientifica persegue l'evidenza, il mito gioca sul chiaroscuro, dove è più ciò che rimane nascosto di quanto non si possa vedere. A partire dal secolo XIX il mito e la cultura che da esso promana vengono sottoposti a svariate interpretazioni, tra cui almeno tre si segnalano per la loro capacità di imporsi nel circuito culturale.
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La prima è quella dell'etnoantropologia, secondo la quale (Rivers) il mito appartiene a una fase precedente il tempo della storia, rappresentando la forma caratteristica di espressione della mentalità primitiva. Come specifica Levy-Bruhl si tratta di una forma di pensiero prelogico di cui la contraddizione e l' assenza delle relazioni causali sono le caratteristiche. Attraverso di esso le società a solidarietà meccanica (Durkheim) individuano e codificano un «credo», cioè un insieme di valori e di pratiche condivisi in cui riconoscersi e attraverso cui fondare la possibilità stessa della convivenza sociale (Malinowski). Sull ' origine e la natura del mito dalle rappresentazioni collettive delle società arcaiche lavora anche la psicologia del profondo. Per Freud il mito è una trascrizione dell'inconscio, cioè la traduzione di un conflitto in immagine e la sua proiezione/fissazione in un tempo indeterminato e perciò universale: «[...] il mito greco -scrive Freud a Fliess il15 ottobre del 1897 -si rifà a una costrizione che ognuno riconosce per averne sentita personalmente la presenza. Ogni membro dell'uditorio è stato una volta un tale Edipo in germe e in fantasia e, da questa realizzazione di un sogno trasferita nella realtà, ognuno si ritrae con orrore e con tutto il peso della rimozione che separa lo stato infantile da quello adulto» .Questa accezione «clinica» del mito viene integrata da Jung in una prospettiva culturale di più largo respiro in cui il mito diviene l'espressione emblematica degli archetipi dell'inconscio collettivo, cioè di quelle idee primordiali che accompagnano filogeneticamente l'evoluzione dell'uomo. Che altro sono i miti della «traversatamarittima notturna», dell'«eroe errante»o del «drago-balena» se non la nostra eterna conoscenzadel tramonto e della rinascita, divenuta immagine? Prometeo che ruba il fuoco, Ercole che uccide il drago, i numerosi miti della creazione, il peccato originale, i sacrifici mistici, la maternità della vergine, il perfido tradimento ai danni dell'eroe, lo sbranamento di Osiride e molti altri miti e favole rappresentano decorsi psichici in forma simbolica e figurata. (Jacobi, 1971, pp. 68-69) Infine, la critica marxista (di cui sono espressione i teorici francofortesi che abbiamo già citato) legge nel mito uno strumento di conservazione dei valori propri di una determinata congiuntura socioeconomica. Esemplare in tal senso è l'analisi che Marcuse fa del meccanismo di repressione addizionale all'opera nella società dei consumi. La produzione mitologica, qui, aggiornata attraverso il sistema televisivo e le immagini della pubblicità, costituisce «la base materiale del dominio. [ ...] La creazione di bisogni repressivi è diventata da lungo tempo parte del lavoro socialmente necessario nel senso che senza di esso il modo stabilito di produzione non potrebbe reggersi» (Marcuse, 1964, p. 255). Il mito, dunque, che dovrebbe rappresentare l'espressione dell'estetico, cioè di tutto ciò che si oppone alla razionalità della tecnica e della produzione, funziona da strumento di legittimazione e di rinforzo proprio di quella razionalità.
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Da queste rapide annotazioni si possono trarre alcune conclusioni sulla natura del mito: -innanzi tutto esso costituisce una forma di espressione del tutto diversa da quella della ragione; procede per immagini, similitudini, sopporta la contraddizione, predilige la suggestione rispetto all'argomentazione; -in secondo luogo esso ha a che fare con l'attività attraverso cui l'uomo produce valori capaci di fondare e rendere possibile I' esistenza delle società; in questo senso nel mito ritornano e si materializzano alcune grandi ossessioni che appartengono da sempre alla vicenda umana nel mondo; -infine, proprio in virtù di questo fatto, il mito traduce sempre un 'intenzionalità e rinvia, dunque, a istanze che 10 preparano e lo costruiscono; da questo punto di vista esso costituisce uno spazio entro il quale si giocano il controllo e il potere, a livelli diversi.
Semiotica
del mito
Proprio la linea di lettura indicata da Marcuse e dalla critica marxista costituisce la suggestione a partire dalla quale individuare nel mito un dispositivo fondamentale per comprendere la cultura di massa e le sue manifestazioni (e quindi anche il senso che in questo capitolo abbiamo assegnato alle immagini sociali di Internet). In questa prospettiva, in quanto strumento di comprensione
«II ~ ~ ~..~ .'~.~.~. ,...] è un sistema di comunicazione, è un messaggio» (Barthes, 1957, p. 191). Se ne ricavano alcune indicazioni importanti che si possono organizzare attorno a tre coppie categoriali: forma/concetto, natura/ storia, parola/immagine. Il mito va, innanzi tutto, pensato piuttosto secondo la forma che non secondo il contenuto; non è il contenuto del mito a renderlo tale (per cui sarebbe mito l'Odissea e non, ad esempio, la Ferrari), ma il modo attraverso il quale quel contenuto viene comunicato. Se, infatti, il mito è parola, allora non si può escludere che sia mito tutto ciò che si può articolare secondo le regole del discorso. Come precisa chiaramente Barthes (1957, p. 191): «II mito non si definisce dall'oggetto del suo messaggio, ma dal modo in cui 10proferisce: ci sono limiti formali al mito, non ce ne sono di sostanziali». Quindi, per restare allo stesso esempio, la Ferrari può benissimo essere iscritta nel mito, nella misura in cui viene resa oqqetto di forme discorsive e di rappresentazione che la rendono tale: i
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racconti giornalistici delle sue imprese, I' investitura che le proviene dai discorsi dei tifosi, I'aura che attorno ad essa viene allestita da questi e da quelli. La pura materia -I' auto rossa, meccanicamente perfetta, esteticamente apprezzabile non sarebbe sufficiente a costituire il mito se non a partire da un uso sociale che di essa viene fatto e che passa attraverso la produzione discorsiva che la riguarda. Se si pensa a questo rapporto che lega la materia del mito e i suoi usi (linguistici) si comprende anche perche, secondo Barthes, il mito si iscrive nello spazio della storia e non in quello della natura. Nella misura in cui l'oggetto mitico è reso tale dalla parola, risulta abbastanza facile comprendere come qualcosa che è mito per un' epoca possa non esserlo per un' altra, che potrà invece sostituirgliene altri: Si possono concepire miti molto antichi, non ne esistonodi eterni; perche è la storia umana che fa passareil reale allo stato di parola, ed essasola regola la vita e la morte del linguaggio mitico. Lontana o no, la mitologia può avere 'solo un fondamento storico, perche il mito è una parola sceltadalla storia: il mito non può sorgere dalla «natura»delle cose. (Barthes, 1957, p. 192) Come la moda, i gusti e le tendenze, anche il mito risente del contesto storico e sociale all'interno del quale viene elaborato; questo è garanzia della sua forte presa all'interno di quel contesto, ma anche del suo carattere effimero e volubile. Infine, la parola di cui il mito consiste non necessariamente deve avere una forma orale o scritta: «II discorso scritto, ma anche la fotografia, il cinema, il reportage, 10 sport, gli spettacoli, la pubblicità, possono servire da supporto alla parola mitica» (Barthes, 1957, p. 192). In linea con una accezione larga del linguaggio in quanto sistema di segni (qualsiasi sistema di segni, anche non verbali), Barthes può così ritenere «parola» allo stesso titolo una fotografia e un articolo di giornale. In questo modo egli ottiene due risultati: di poter estendere la propria analisi «mitologica» anche a quei «miti d'oggi» che, come quelli dell'industria dei media, non prendono corpo nella parola ma nell'immagine; inoltre, di poter far funzionare al servizio di questa analisi gli strumenti che la semiotica aveva già utilizzato per la lingua scritta (di fatto, Barthes ritiene la mitologia una parte della semiologia). In quanto sistema di segni il mito funziona semioticamente secondo il sistema triadico già fissato dalla linguistica. In base ad esso, un segno si può considerare come il '
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(significato), diviene segno di amore e passione; l'altro esempio è quello del sasso nero (significante), di per se privo di senso fino a quando gli viene attribuito un significato (la condanna a morte in una votazione anonima) che 10rende segno di quella condanna. La stessa struttura triadica può essere verificata in fenomeni linguistici molto diversi fra loro, dal linguaggio ordinario, alla letteratura, al linguaggio dei sogni e della psicologia clinica.
Fig.
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La struttura semiotica del segno.
Nel caso del mito, questo dispositivo di triangolazione semiotica lavora a partire da una catena semiologica già esistente. Il mito, infatti, investe di un significato ulteriore parole e oggetti che già posseggono comunque un significato: è, come dice Barthes, un «sistema semiologico secondo» che opera come un metalinguaggio sul linguaggio-oggetto che è costituito dal sistema semiologico primario della lingua. Ciò che nel sistema primario è segno, cioè sintesi totalizzante di un significante e di un significato, costituisce per il sistema secondario del mito il significante di una nuova catena semiologica, come risulta chiaro dalla figura 2.
Fig. 2
La struttura semiotica del mito.14
14 Dato che, in virtù del raddoppiamento
della catena semiologica, ci si trova ad aver a che fare con
due significanti, due significati e due segni, Barthes suggerisce di differenziare la terminologia con cui indicare gli stessi termini nel caso del mito. Così, il significante (che corrisponde al segno sul piano della lingua e definisce il senso della significazione su quel piano) viene definito forma del mito; il significato prende il nome di concetto; il terzo termine viene designato come significazione.