Ilari – Reclutamento e coscrizione 1800-1815
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Virgilio Ilari
RECLUTAMENTO E COSCRIZIONE IN ITALIA DURANTE LE GUERRE NAPOLEONICHE Regno d’Italia 1798-1814 (capitoli 10 e 11 della Storia Militare del Regno Italico)
Regno di Napoli 1806-1815 (Capitolo 5 della Storia Militare del Regno Murattiano)
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Da Storia Militare del Regno Italico, vol. I, tomo I, pp. 205-266
10. L’ARMATA NAZIONALE Il modello francese Sulla storia e la tipologia dei sistemi di reclutamento corrono idee e pregiudizi del tutto erronei. Forse il più diffuso, perfino tra gli storici militari, è di credere che la coscrizione obbligatoria sia stata istituita dalla Rivoluzione francese. In realtà tra le altre istituzioni d’antico regime soppresse il 4 agosto 1789 c’era anche l’obbligo di milizia (una servitù personale risalente al Cinquecento, ossia l’epoca della “rivoluzione militare” ispirata al modello delle legioni romane, parallela alla creazione dello stato “moderno”, definito “antico” dopo il 1789). La “guardia borghese”, istituita l’8 luglio su proposta di Mirabeau e in seguito trasformata in “nazionale”, non era concepita come forza per la difesa esterna o base di reclutamento dell’esercito, ma come “force publique du dédans”, con funzione di “frein et contrepoids” politico della “force publique du dehors” a disposizione del sovrano. Inoltre anche la guardia era reclutata su base volontaria. Il 16 dicembre l’Assemblea respinse il progetto di coscrizione universale obbligatoria presentato dal generale Dubois Crancé e caldeggiato dal famoso scrittore militare Guibert, sull’assunto che “serait une atteinte à la liberté des pères de famille”, ma il 5 luglio 1792 ripristinò di fatto l’obbligo di milizia, disponendo che la guardia nazionale designasse per votazione un’aliquota dei propri iscritti destinati a “marcher”, secondo i contingenti richiesti dal potere legislativo quando quest’ultimo avesse dichiarato “la patrie en danger”. La norma autorizzò le deliberazioni straordinarie del 24 febbraio (quando la Convenzione dichiarò “en état de réquisition permanente” fino al completamento della leva i celibi dai 18 ai 40 anni) e del 23 agosto 1793 (la cosiddetta “leva in massa” dei requisiti dai 18 ai 25 anni). L’art. 286 della Costituzione dell’anno III (1795), base di riferimento delle costituzioni giacobine italiane, stabilì che “l’armée de terre se forme par enrôlement volontaire, et, en cas de besoin, par le mode que la loi détermine”. Fu solo nel luglio 1798 che il Consiglio dei Cinquecento affrontò la questione del sistema di reclutamento dell’esercito, approvando il 5 settembre la “loi relative au mode de formation de l’armée de terre” proposta dal generale Jean Baptiste Jourdan, detta “loi de conscription”. Formata da 55 articoli raggruppati in 4 titoli (principi generali, arruolamenti volontari, obbligo di coscrizione e modalità esecutive), la legge Jourdan ispirò le analoghe leggi cisalpina e romana del 1798 e italiana del 1802 e rimase in vigore sino al 1818, consentendo il reclutamento delle armate napoleoniche mediante leva selettiva tra 5 classi(21- 25 anni) e ferma quinquennale.
A. Il reclutamento nella I Cisalpina L’insufficienza dell’arruolamento volontario Analogo al modello francese, l’art. 286 della costituzione cisalpina prevedeva come sistema ordinario di reclutamento dell’esercito (“guardia nazionale attiva”) l’arruolamento volontario, mentre l’art. 9
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consentiva l’arruolamento degli stranieri. La legge 15 novembre 1797 ordinò ai cittadini cisalpini che servivano in eserciti stranieri diversi da quello francese di rientrare in patria entro un congruo termine, pena la confisca dei beni. Concesse inoltre l’amnistia ai disertori, sospendendo le procedure contro i detenuti e accordando ai contumaci un termine di 3 mesi per tornare ai loro corpi. Il beneficio fu peraltro negato nei casi di diserzione con passaggio al nemico. Il 7 gennaio il ministro Vignolle istituì 9 centri di reclutamento (a Pavia, Milano, Varese, Morbegno, Brescia, Faenza, Bologna, Modena e Massa), raccomandando ai capilegione di destinarvi ufficiali capaci e di non rifiutare le reclute straniere, tanto numerose che il 18 gennaio il ministro propose di aprire centri di reclutamento anche a Roma e Venezia. Ma il gettito (in media 100 reclute al mese per deposito) non bastava neppure a bilanciare le perdite per diserzione, mortalità e congedo. Nel rapporto del 18 febbraio al direttorio il ministro scriveva: «nous n’avons point réellement une armée nationale cisalpine. Il faut déduire (...) six mille polonais et environ deux mille vénitiens. Le reste n’est qu’un composé de déserteurs français, ou allemands ou piémontais. Il y a au plus deux mille cisalpins». Il gettito dei volontari non era in grado di completare gli organici delle unità nazionali e venete (33.708), che al 18 febbraio presentavano un deficit del 58 per cento (con 13.979 effettivi), salito in settembre a 64 (12.146 effettivi). Il reclutamento volontario (27 dicembre 1797-29 aprile 1798) Come tutte le reclute, anche quelle cisalpine approfittavano della “marcia rotta” dal deposito al corpo per disertare e vendersi la montura, con grave danno dell’erario; o almeno per rapinare e scroccare a danno dei civili. Per reprimere tali abusi, il 27 dicembre Vignolle ordinò di avviarli a plotoni di 25 o 30, con scorta di 1 ufficiale e 2 sottufficiali e di presentarne lo stato ai comandi delle piazze attraversate, con nota degli eventuali disertori e vidimazione degli attestati di buona condotta rilasciati dalle municipalità, sotto la personale responsabilità dell’ufficiale per le diserzioni, le licenze e i disordini commessi dalle reclute nelle città di passaggio. L’iniziativa ministeriale urtava però le prerogative costituzionali, perché il piano di regolamento per l’accettazione e la polizia delle reclute, sottomesso il 17 gennaio all’esame del direttorio, comparve il giorno stesso sotto forma di proclama. Chiamato a giustificarsi in gran consiglio, il 22 Vignolle scaricò la colpa su un
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funzionario, il capoburò Lancetti, che a sua volta, nella seduta del 23, coperse il ministro, dichiarando di aver disposto la pubblicazione per eccesso di zelo. In ogni modo le norme urgenti furono emanate con circolare ministeriale del 18 marzo. Disponevano di interrogare le aspiranti reclute per accertarne la provenienza e di arruolare a preferenza nazionali o francesi (purché muniti di regolare congedo o in grado di dimostrare di non essere emigrati), escludendo i forestieri privi di certificato di buona condotta o sospetti disertori da eserciti esteri. Le reclute dovevano essere accettate solo dopo visita medica. Il premio di ingaggio era di 15 lire, di cui 3 all’eventuale intermediario. Gli ingaggi dovevano essere annotati su apposito registro numerato e sottoscritti dalla recluta (se era in grado di farlo), informandola che la ferma era di almeno 3 anni consecutivi. Vitto e soldo spettavano dal momento dell’ingaggio, ma il deposito doveva consegnare solo camicia e scarpe, mentre il resto del corredo e la montura erano consegnati al corpo. In attesa della partenza i sottufficiali del deposito provvedevano ad istruire le reclute negli esercizi militari e nei doveri del soldato. Assieme all’ordinamento su 40.000 uomini, il 29 aprile il corpo legislativo approvò un regolamento organico sull’arruolamento volontario, fissando i seguenti requisiti: • • • • •
età minima 17 anni, massima 36 (ridotta a 31 per la cavalleria); possesso di carta di residenza non anteriore a tre mesi o certificato equipollente per i forestieri (con allegata dichiarazione di volersi stabilire nel territorio cisalpino e prestare il giuramento delle truppe cisalpine); certificato di sana e robusta costituzione e idoneità al servizio militare rilasciato dal chirurgo dell’ospedale militare (confermate da ulteriore visita medica di controllo da parte del chirurgo del corpo); non essere reo di azioni criminose o disertore o fuggitivo dalle truppe cisalpine; istruzione elementare (ma soltanto a partire dall’anno XII della Repubblica, 1810).
I forestieri potevano essere arruolati solo in fanteria, fino ad un massimo di 1 ogni 10 uomini per ciascuna compagnia. Alle altre armi erano assegnate soltanto reclute nazionali, preferendo in artiglieria i più robusti, gli alfabeti e gli artigiani qualificati (fabbri, muratori, legnaioli e scalpellini) e in cavalleria i sellai e maniscalchi. Dal 1810 l’immissione nelle due armi era riservata esclusivamente ai soldati con almeno un anno di servizio in fanteria, scelti dai capitani delle due armi.
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La ferma aveva durata non inferiore ad un triennio, con gratifica di 15 lire (20 in cavalleria) e possibilità di successive rafferme annuali o triennali sino al 45° anno di età (40° in cavalleria), con aumento di un quarto della gratifica per ciascuna rafferma triennale. La durata della ferma o rafferma già contratta restava invariata anche in caso di successivo passaggio in artiglieria o cavalleria, salvo l’adeguamento della gratifica e del soldo. La capitolazione, annotata in apposito registro numerato e vidimato dal ministero, doveva essere sottoscritta dalla recluta, se necessario mediante croce e attestazione di autenticità da parte di due testimoni, con rilascio del relativo certificato individuale (carta di capitolazione). Erano nulle le capitolazioni forzate o insidiose, punite con 6 mesi di lavori forzati. Le norme sulla diserzione e i congedi (21 aprile-10 ottobre 1798) Il 21 aprile fu concessa l’amnistia ai disertori nazionali, con un termine di presentazione di due mesi, prorogato di altri due il 25 luglio. Ai disertori che si fossero arruolati in altro corpo cisalpino era concesso di restarvi, a condizione di dichiarare al capitano l’epoca della diserzione e il corpo di provenienza. I forestieri erano invece banditi dal territorio cisalpino, a pena di arresto e condanna a 3 anni di lavori forzati. Con ordine permanente del 2 maggio, il capo di stato maggiore dell’Armata d’Italia dispose l’arresto e il deferimento ai consigli di guerra degli arruolatori di potenze estere rei di istigazione alla diserzione, reato punito con la pena di morte dall’articolo 1, titolo IV, del codice francese dei delitti e delle pene. L’8 maggio fu sospesa la concessione di permessi e congedi, ma in cambio il 15 maggio fu accordato un premio in denaro ai militari confluiti per primi nell’esercito cisalpino. I requisiti e le modalità di concessione dei permessi e congedi furono fissati con circolare dell’8 agosto. Il 21 agosto il ministro della guerra rivolse un appello per l’arresto dei disertori, seguito da disposizioni ai comandi di corpo sulle misure preventive (22 settembre) e da una circolare sulle modalità d’arresto (4 ottobre). Con legge 21 settembre fu istituito un premio di 6 scudi per l’arresto di un disertore. Il 10 ottobre il ministro ordinò ai depositi di interrogare le reclute e controllare l’autenticità dei congedi esibiti, deferendo i sospetti disertori al consiglio di guerra competente. Se risultavano disertori da
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un corpo cisalpino dovevano essere riconsegnati e restituire l’ingaggio illecitamente percepito mediante ritenute sulla paga. L’incorporazione dei 234 patrioti piemontesi (26 agosto 1798) Dopo il fallimento della spedizione di Domodossola, i prigionieri di nazionalità cisalpina riconsegnati dalle autorità sabaude furono subito incorporati nelle truppe cisalpine. Altri 389 patrioti di diversa nazionalità (347 piemontesi, 37 francesi e 5 tedeschi) che si erano rifugiati in territorio cisalpino, furono posti invece alle dirette dipendenze dell’Armée d’Italie e il 3 agosto, ridotti ormai a 234 (inclusi 30 ufficiali), furono messi a disposizione dell’esercito cisalpino. Inizialmente si pensò di destinarli in blocco all’esangue battaglione dei cacciatori bresciani, ma il 26 agosto si decise piuttosto di distribuirli fra tutti i corpi di fanteria. Otto ufficiali furono destinati alle due legioni venete e ai cacciatori bresciani. A seguito dell’incorporazione delle truppe piemontesi e svizzere nell’Armée d’Italie, il 13 dicembre il ministro dette disposizioni di rafforzare i controlli per evitare l’arruolamento di personale disertato da tali corpi.
B. La leva del 1798 La campagna a favore della coscrizione obbligatoria Essendo evidente che lo scarso gettito dei volontari comprometteva alla lunga la sopravvivenza degli 866 posti da ufficiale di fanteria, si formò presto un gruppo di pressione a favore della coscrizione obbligatoria, un istituto del tutto estraneo alla maggior parte della società cisalpina, dato che la Lombardia austriaca e il Mantovano, già gravati da una forte contribuzione militare, erano stati esclusi dalla coscrizione introdotta dieci anni prima negli Stati ereditari asburgici. Si deve però tener conto che nei dipartimenti meridionali e orientali l’obbligo di milizia non era caduto in desuetudine e che ancora nel 1793-96 erano stati soggetti alle leve pontificie e veneziane. Proprio ad un notabile veneziano, il decrepito generale Salimbeni, toccò magnificare in gran consiglio, il 28 gennaio 1798, il potenziale militare della Cisalpina, coi suoi 800.000 cittadini atti alle armi. Nel rapporto del 18 febbraio Vignolle sollevò formalmente la questione
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della leva, unico modo per completare le 8 legioni nazionali e i 2 reggimenti di cavalleria. Il ministro vi tornò il 6 maggio, in un rapporto riservato a Bonaparte, dove sosteneva «la nécessité d’adopter tout autre mode de recrutement que celui qu’a eu jusqu’ici, c’est à dire d’exclure définitivement du service cisalpin les déserteurs étrangers et d’adopter en principe que l’armée se completera par une réquisition forcée de cisalpins, seul et unique moyen d’organiser une armée républicaine et nationale». Analoghi concetti nel rapporto del 16 maggio al direttorio esecutivo: «non si può sperare che la legge del (29 aprile) sugli arruolamenti accresca il gettito (...) non avremo giammai (...) una truppa nazionale senza una requisizione se fosse possibile di purgare tutte le legioni di tanti forestieri e malviventi che son causa della indisciplina e di disordini che in alcuni corpi sono frequenti». Gli faceva eco il ministro elvetico a Milano Albrecht Haller (in seguito richiamato su rapporto di Trouvé), che il 18 agosto scriveva al suo governo: «je ne connais pas d’armée dans le monde qui soit aussi abominablement composée; c’est l’écume de tous les coquins de l’Italie. Il n’y a de Cisalpins, que les officiers, qui se conduisent assez bien». Intanto le restrizioni all’arruolamento degli stranieri disposte dalla legge del 29 aprile avevano fatto crollare il gettito dei depositi (come il 5 giugno segnalava quello di Massa, che dopo aver arruolato 300 reclute in 4 mesi, aveva praticamente cessato di funzionare). E da febbraio a settembre la forza alle armi era diminuita del 13 per cento. In una nota riservata del 6 settembre Vignolle ne dava la colpa al direttorio e al corpo legislativo, che, invece di introdurre la leva, avevano bloccato l’arruolamento degli stranieri e stabilito per legge «que les citoyens ne peuvent etre forcés par la constitution à servir dans les troupes et que ceux qui se destinent à ce service doivent recevoir un prime». La leva di 9.000 coscritti (legge 11 dicembre 1798) Tuttavia già durante l’estate si cominciarono a predisporre gli strumenti amministrativi per poter attivare la coscrizione obbligatoria senza dover ricorrere alla dubbiosa collaborazione dei parroci. Con circolare del 24 agosto alle centrali dipartimentali il ministro di polizia dispose infatti la registrazione municipale dei cittadini atti alle armi, con trasmissione delle liste al governo. Secondo il rapporto del 6 ottobre pervennero però solo pochi registri “imperfetti e mal regolati”
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e pertanto si decise di ripartire il contingente sulla popolazione presuntiva anziché sugli atti alle armi. Infine, con un parlamento addomesticato dai colpi di stato francesi, fu possibile varare la coscrizione e, con legge 30 novembre e regolamento ministeriale del 12 dicembre, fu disposta la leva di 9.000 celibi o vedovi senza prole dai 18 ai 26 anni, pari al 2.5 per mille della popolazione (3.585.543). I contingenti dipartimentali erano determinati dalla legge, per arma e in rapporto alla popolazione. La determinazione delle quote comunali era riservata alle centrali di concerto con gli agenti militari all’uopo nominati dal ministero, sempre in base alla popolazione e accorpando le comuni inferiori ai 300 abitanti. Le operazioni di leva erano delegate alle municipalità, le quali dovevano: • • • • • •
provvedere a propria cura e spese ai locali e al casermaggio dei depositi; determinare i cittadini soggetti alla leva ai sensi dell’art. 20 della legge (sotto la penale prevista dall’art. 21); procedere al sorteggio con l’opportuna assistenza della truppa di linea e guardia nazionale; corrispondere agli estratti i primi 3 giorni di paga; vigilarne la presentazione al deposito; trasmettere al ministero copia del verbale di ripartizione del contingente dipartimentale fra i diversi distretti, del catalogo generale dei cittadini, di quelli estratti a sorte, di quelli già arrivati al capoluogo e di quelli mancanti o fuggiti.
Era vietato agli enti locali concedere dispense se non per malattia cronica o cattiva conformazione del corpo certificata da medico o chirurgo e vidimata dall’amministrazione municipale. Non erano ammessi cambi e l’art. 28 consentiva la sostituzione soltanto tra fratelli. Tuttavia l’art. 24 concedeva sconti di ferma e altre provvidenze a chi si arruolava volontario prima del sorteggio. Le centrali dovevano mantenere a numero il contingente dipartimentale, attingendo man mano i rimpiazzi dei disertori dalle corrispondenti liste di estrazione. La ripartizione del contingente per dipartimento e per arma La selezione per arma avveniva al deposito, con l’intervento degli ufficiali di sanità, cavalleria e artiglieria spediti dal ministero e con facoltà degli idonei di offrirsi volontari per la cavalleria. Il contingente di fanteria corrisponde esattamente all’organico dei sottufficiali e militari di truppa di 2 mezze brigate: ciò indica che
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serviva a costituire la 4a e 5a MB di linea, unità “quadro” previste dall’ordinamento del 29 novembre, formanti la cosiddetta Divisione dell’Interno. I coscritti di cavalleria dovevano raddoppiare la forza dell’arma, costituendo 6 nuovi squadroni, 2 (5° e 6°) di cacciatori a cavallo (ex-1° ussari cisalpini) e 4 (3°-6°) di dragoni. Il contingente d’artiglieria oltrepassava invece le esigenze di completamento dei nuovi organici dell’artiglieria (2.454 gregari) e delle truppe del genio (468) cisalpini, il che lascia supporre che fosse in parte destinato alle corrispondenti armi francesi. Tab. 1 – Ripartizione del contingente di leva 1798 Dipartimento
Deposito
Comandante
Olona Adda e Oglio Serio Mella Mincio Alto Po Crostolo Panaro Reno Basso Po Rubicone Totale
Milano Morbegno Bergamo Brescia Mantova Cremona Reggio Modena Bologna Ferrara Forlì 11
Lorot Morosini Balathier Bossotti Guérin Endris Baranzoni Moroni Vandoni Milleville Levier 11
Fant. 1186 349 788 725 528 742 363 323 534 353 349 6240
Cav. 200 20 30 50 50 75 40 75 180 50 150 970
Art. 400 40 60 100 100 150 80 150 360 100 300 1840
Tot. 1786 409 878 875 678 967 483 548 1074 503 799 9050
Il fallimento della leva (10 gennaio - 22 aprile 1799) La commissione di leva del Panaro si riunì a Modena il 10 gennaio 1799, presieduta dall’agente militare Diofebo Cortese e composta da 2 deputati della centrale e 2 municipalisti del capoluogo. Il 16 gennaio il ministro annullò gli incentivi ai volontari, deliberati da varie commissioni di leva per ridurre la quota da sorteggiare e con proclama del 24 esortò i giovani a non sottrarsi alla leva. La ripartizione comunale del contingente dell’Olona fu pubblicata il 17 gennaio. A Milano l’estrazione si svolse il 28, nelle chiese di Santa Marta, San Giovanni alla Conca e del Giardino. Dedotto buon numero di latitanti, le reclute furono rinchiuse nel seminario ambrosiano, ricevendo l’uniforme soltanto dopo tre settimane. La “negligente custodia” favorì le fughe, con 81 disertori al 1° marzo. Con lettera del 9 febbraio la municipalità di Modena chiese di rinviare la requisizione di animali, che aggiunta a quella dei coscritti, rischiava di provocare sommosse. I nomi degli iscritti modenesi furono imbussolati il 12 febbraio, ma l’estrazione si svolse il giorno successivo (a pensar male si fa peccato ...) nel palazzo ducale,
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presidiato da 150 guardie nazionali con 2 cannoni francesi. Il contingente della città e del distretto era di 138 unità: dedotti 13 volontari, uno speranzino settenne in uniforme cisalpina estrasse 125 palle e il pubblico salutò con applausi di scherno la lettura dei nomi ebraici. Ma i genitori trepidanti scoppiavano in lacrime udendo il nome del figlio. Il Panaro reclutò il 51 per cento del suo contingente (280 su 548). Nel deposito allestito nell’ex palazzo ducale, sede della scuola militare, furono inviati anche 100 coscritti ferraresi (un quinto del contingente), arrivati il 17 febbraio sotto scorta dei dragoni piemontesi. I 5 dipartimenti cispadani dovevano fornire 990 artiglieri: all’atto pratico furono solo 300, accasermati al convento Sant’Eufemia di Modena, dove affluirono anche 100 “milanesi” e 50 valtellinesi. Il 13 marzo, sempre a Modena, scoppiò una rissa tra reclute e fanti francesi della 21e DB, che ebbero la peggio. I rispettivi comandi piazza risolsero la faccenda di buon accordo, facendo arrestare 8 cisalpini e 35 francesi, tosto liberati. Il comando francese riconobbe che la provocazione era partita dai suoi uomini. Il 12 marzo il direttorio propose una nuova coscrizione, bocciata però dal gran consiglio dal momento che non si era in grado di provvedere al contingente già arruolato e che, oltre alle crescenti diserzioni, gli ufficiali dei depositi vendevano congedi di favore alle reclute più danarose. Non sono noti a noi (e forse neppure al direttorio cisalpino) né il bilancio definitivo della leva né l’impiego operativo delle reclute nella caotica situazione determinata dall’offensiva alleata. Lo possiamo però immaginare dalla delibera direttoriale del 22 aprile, la quale, con linguaggio da “ultima raffica”, ammetteva pubblicamente che “alcuni dei requisiti” avevano “vilmente” disertato, contrapponendo ad essi il generoso slancio dei patrioti volontari di guerra, arruolati cioè senza capitolazione di ferma né premio di ingaggio fino alla completa liberazione della patria dai nemici esterni e interni. La condanna al militar servigio durante l’occupazione austriaca Come si è accennato, durante l’inverno 1799-1800 gli austriaci apersero una campagna di arruolamento nei territori italiani da loro occupati, con l’obiettivo di reclutare 20.000 complementi, senza badare a nazionalità e precedenti. Neanche in tale occasione estesero la coscrizione alla Lombardia e al Mantovano, ma ripristinarono l’istituto detto in Toscana del discolato e a Napoli del “truglio”: infatti
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il 5 settembre 1799 il governo militare della Lombardia dispose la condanna al militar servigio degli inquisiti per reati non infamanti e non politici. In ogni modo anche numerosi detenuti politici ottennero l’impunità arruolandosi nelle truppe austriache.
C. La riforma Melzi “I vagabondi dell’Italia senza onore e amor di patria” L’esercito cisalpino fu ricostituito nel giugno 1800 sulla base del Bataillon italique e della Legione italica costituiti a Digione coi militari che avevano seguito la ritirata francese, rientrando in Italia con l’Armée de Riserve. Riprese subito il reclutamento volontario ma in modo caotico e arbitrario. Il 16 novembre, in vista della ripresa delle ostilità, i depositi esistenti furono soppressi e ricostituiti con un organico di 24 teste (3 ufficiali, 1 chirurgo, 1 sergente maggiore, 1 sergente, 1 furiere, 4 caporali, 1 tamburo e 12 fucilieri); fu resa obbligatoria la visita medica, vietato l’arruolamento di stranieri e riservata la prima scelta delle reclute all’artiglieria e la seconda alla cavalleria. Il 6 dicembre furono destinati ai depositi i sottufficiali in soprannumero e fissata una ricompensa di 6 scudi per l’arresto dei disertori. Il sistema dei depositi era però troppo lento e, data l’urgenza, il 16 dicembre si fece ricorso a quello più antico della “compagnia di leva”, spedendo in giro per i paesi nuclei di arruolatori composti da 1 ufficiale e 3 sottufficiali. Il 9 gennaio furono infine emanate norme sui congedi temporanei e definitivi. Echeggiando la polemica machiavelliana contro i mercenari, Teulié sosteneva che la truppa della seconda Cisalpina, caduti o tornati ormai a casa i volontari che avevano combattuto nel 1796-1801, era soltanto il ricettacolo “dei vagabondi dell’Italia”, dei disertori francesi o austriaci, “degli individui senza onore e amor di patria”. Il tasso di diserzione nella minuscola all volunteer force cisalpina (appena 8.078 uomini al 1° novembre 1801) era davvero drammatico. Per dare un’idea, nella 2a MB di linea si arrivava al punto di non distribuire camicia, scarpe e cappello alle reclute che a giudizio del capitano stavano meditando di disertare. Nel dicembre 1802 tre granatieri della 2a MB di stanza a Bologna denunciarono e fecero arrestare uno dei tanti reclutatori stranieri che convincevano i soldati a disertare offrendo condizioni migliori in un altro esercito. Dovendo passare per Bologna un reparto di truppe parmensi in cui si sospettava
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vi fossero vari disertori della 2a MB, il ministero ordinò agli ufficiali di non riprenderseli con la forza, limitandosi a segnalarli, in modo che la questione potesse essere risolta con un accordo tra i due governi. Ormai fuori tempo massimo, per scongiurare in extremis riforme militari più radicali, lo stesso comitato di governo cisalpino tentò di porre qualche rimedio emanando, con decreto del 4 febbraio 1802, un abborracciato regolamento sull’arruolamento volontario. L’aspirante doveva essere munito di una lettera di presentazione del suo sindaco, “mallevadore” verso lo stato del comportamento del soldato. Le reclute non potevano più essere accettate direttamente dal corpo, ma solo da un deposito centrale a Milano. I corpi di fanteria dovevano distaccare ogni dieci giorni un ufficiale per scegliere le reclute e, quando arrivavano a 100, dovevano avvertire i corpi di cavalleria, i quali distaccavano a loro volta un ufficiale per sceglierne 10. Se le diserzione superava un certo livello, erano comminati gli arresti ai capitani e capibrigata e ai disertori era comminata la galera con palla al piede nella fortezza di Mantova, la più insalubre e micidiale di tutte. A seguito delle proteste dei comandanti i depositi furono però decentrati ai corpi e fu abrogata la disposizione di leggere più volte al giorno le pene per i disertori. Il progetto Teulié e la legge sulla leva (29 maggio-30 ottobre 1801) Il punto qualificante del ministero Teulié (23 aprile – 28 luglio 1801) fu il progetto per l’introduzione della coscrizione obbligatoria, presentato il 29 maggio. Il progetto differiva però radicalmente dal modello Jourdan, ossia un’armata di coscritti rinnovata annualmente di un quinto: Teulié voleva invece reclutare in blocco 20.000 cittadini, sorteggiati non su 5 ma su 18 classi di età (dai 18 ai 36 anni), esclusi i sostegni di famiglia e con facoltà di rimpiazzo. L’obiettivo non era solo di completare gli organici e di aumentarli da 14.000 a 20.000 uomini per poter ridurre i francesi a soli 15.000, ma anche di epurare l’esercito dai disertori abituali. Il progetto, estremista e mal congegnato, fu modificato dal nuovo ministro Tordorò in funzione del nuovo ordinamento approvato con legge 21 settembre 1801, che elevava gli organici da 14.000 a 22.124. (ma già l’indomani, con ordine del giorno n. 70 del 22 settembre, la 5a MB di linea e la 2a leggera, per un totale di 4.320 uomini, pari ad un quinto della forza e al 28 per cento della fanteria, furono collocate in posizione quadro, riducendo gli organici provvisori a 18.804). Per poterli completare era necessaria una leva di 15.000 uomini. Questa fu
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effettivamente disposta con legge del 30 ottobre, ma il 19 novembre l’esecuzione fu sospesa a tempo indeterminato.
I comizi di Lione (3-25 gennaio 1802) In realtà, come sempre, la riforma militare presupponeva la riforma costituzionale, la definizione della natura e della ragion d’essere dello stato, prima ancora dei suoi obiettivi e delle sue priorità. Avocando la riforma politica e spostandone la sede di elaborazione da Milano a Lione, Bonaparte pose le condizioni per la riapertura della questione militare. Nell’Orazione a Bonaparte per i comizi di Lione, Foscolo definì l’esercito cisalpino «una larva di milizia, se nazionale o mercenaria non so, soldata d’uomini non per legge deletti né per età, ma o disertori de’ principi confinanti, o fuoriusciti a’ quali non restava che vendere il corpo e l’anima, o prigioni alemanni dallo squallore convinti e dalla forza e dalla disperazione delle lontane case natie». Il fatto era notorio e la critica indifferente. Si poteva ancora tollerare l’accenno alle altrettanto risapute dilapidazioni degli “infiniti questori” a causa delle quali “nudo, non pasciuto, e col diritto quindi al misfatto, sudava l’infelice soldato”. Veramente pericolosa era però la stoccata ai “tanti ufficiali francesi ridottisi a questi stipendi”; non potevano recare “grande onore o eccitamento”, perché “colui il quale dalle vittrici gloriose libere insegne rifugge della propria repubblica, scarsa laude può mercare e della patria ch’egli abbandona, e da quella che elegge”. Anche il generale veneto Milossevich approfittò dell’occasione per pubblicare a Parigi un opuscolo sulle condizioni dell’esercito che approfondiva e circostanziava le critiche espressa da Foscolo in forma più generale e letteraria. Sentendosi ormai assediato, il comitato di governo tentò di stroncare la fronda militare e il 3 gennaio 1802 destituì Milossevich collocandolo “in riforma” e dichiarando che l’opuscolo era “lesivo dell’onore nazionale e odioso a varie potenze estere”. La delegazione militare ai comizi (3 rappresentanti per ciascuno dei 10 corpi dell’esercito), non fu di puro ossequio. La loro semplice presenza consentì ai generali Trivulzio e G. Lechi (presenti a Lione nelle delegazioni civiche milanese e bresciana) di diventare i naturali portavoce dell’esercito. Lo stesso Bonaparte li accreditò ricevendoli con la muta rappresentanza militare. Li accompagnava anche Murat, loro superiore gerarchico quale comandante in capo in Italia, ma
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Bonaparte ne approfittò per una delle sue solite sceneggiate, dicendogli, di fronte agli italiani, di essere stupito che nell’armata cisalpina ci fossero ancora, nonostante i suoi ordini, 300 ufficiali francesi, quando “le Romagne e le valli Bresciane offr(iva)no ottimi soldati”. Era il via libera alla riforma militare, attuata dal governo Melzi, con Trivulzio ministro della guerra. La battaglia per l’Armata nazionale Il 13 marzo, un mese dopo il suo insediamento alla vicepresidenza, Melzi sospese l’arruolamento volontario e il 18 vietò ai comandanti di riammettere al corpo i disertori e di “cacciare” i soldati resisi “indegni della divisa”, anziché deferirli ai consigli di guerra. In caso di mancata ottemperanza i capibrigata dovevano essere severamente puniti dal comandante divisionale, facendone rapporto al ministro. Il 17 Melzi confidò a Marescalchi l’intenzione di aumentare l’esercito (mediante coscrizione) per ridurre le truppe francesi. Nelle sue Considerazioni sulle relazioni politico-diplomatiche della Repubblica italiana, date a Melzi il 21 aprile, Giuseppe Compagnoni, “promotore” ufficiale della pubblica istruzione, sviluppava l’ideologia della coscrizione obbligatoria come fattore di potenza e “scuola” della nazione. L’autore proponeva infatti di introdurre l’educazione militare nella pubblica istruzione e di levare ogni anno 15.000 coscritti con ferma triennale, riunendoli in nuovi corpi “onde non a(vesser)o a corrompersi amalgamandosi coi soldati che abbiamo” ed eliminando man mano i mercenari. Con l’ingenuo ottimismo dell’ideologo senza piedi per terra, Compagnoni proclamava che la coscrizione avrebbe fatto cessare le diserzioni e che “ad ogni bisogno la Repubblica (avrebbe avuto) una difesa formidabile”. Le Idee sull’organizzazione dell’armata della Repubblica Italiana, pubblicate a Milano nel 1802 da Martinengo, già ufficiale della cavalleria prussiana, affrontavano la questione della coscrizione soprattutto sotto l’aspetto del vantaggio economico. In ogni modo il progetto slittò all’estate sia per la priorità accordata alla riforma del sistema logistico (necessaria per finanziare il raddoppio della forza alle armi) e all’epurazione degli ufficiali (da parte di una commissione istituita il 10 maggio), sia per la decisione di Bonaparte di mettere stabilmente a carico del tesoro italiano le truppe ausiliarie polacche. Melzi lo giudicò un “cattivo regalo”: l’onere assorbiva infatti gran parte dei risparmi ottenuti nel settore logistico. Facendo di necessità virtù, Melzi ne approfittò se non altro per spurgare l’esercito e con decreti del 29 aprile prese i polacchi al soldo
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italiano e vietò di arruolare stranieri (inclusi i francesi) nei corpi italiani. In tal modo gli stranieri furono mandati nel corpo polacco, subito infettato dalla piaga delle diserzioni abituali. La legge di coscrizione: a)le norme sulla coscrizione Ottenuto l’assenso di Napoleone e insediatosi il 30 giugno il corpo legislativo, Melzi poté finalmente avviare l’iter costituzionale per l’introduzione della coscrizione. Il progetto (di 84 articoli in 6 titoli) aggiungeva all’armata attiva di 22.000 uomini prevista dalla legge 21 settembre 1801 una riserva di 60.000 uomini, da formare in cinque anni a partire dal 1° ottobre. Armata e riserva “si forma(va)no e si completa(va)no colla coscrizione militare” (tit. I, artt. 1-3). Soggetti alla coscrizione erano i nazionali dai 20 ai 25 anni compiuti al 1° ottobre (5 classi), esclusi i militari già alle armi o congedati, gli ammogliati anteriormente alla legge o vedovi con prole e i ministri della religione di stato e gli inabili (artt. 4-7). Gli esclusi con rendita annua superiore a lire 1.000 erano soggetti a tassa militare del 6, 8 o 12 per cento a seconda del reddito (per scaglioni superiori a 1.000, 2.000 e 3.000) sino ad un massimo di lire 1.500 (art. 8). nelle liste distrettuali di coscrizione (per classi di età e data di nascita, cominciando dagli ultimi nati) aggiornate annualmente al 1° ottobre (artt. 10-13). I soggetti avevano l’obbligo di presentarsi per l’iscrizione: (qualora identificati) i “morosi” erano “portati” nella lista della I classe tra i nati il 1° ottobre (art. 15). Figli unici, fratelli di militari alle armi e ammogliati dopo l’entrata in vigore della legge erano iscritti in coda alla lista della propria classe (art. 14). In caso di cambio di residenza il soggetto era iscritto in entrambi i distretti, ma dopo un anno poteva ottenere, col consenso del comune, la cancellazione dalle liste del distretto d’origine (art. 16). Le liste erano esposte nel capoluogo del distretto con diritto di reclamo entro un mese al consiglio distrettuale (artt. 20-21). Per assumere pubblici uffici e ricevere pubblico denaro i soggetti alla coscrizione dovevano dimostrare di aver adempiuto agli obblighi militari (art. 62). Il relativo certificato era rilasciato annualmente dal consiglio distrettuale con visto del prefetto (artt. 53-54). I coscritti trovati fuori del loro distretto sprovvisti di carta di residenza erano portati fra i morosi (artt. 63-64). Per ragioni di lavoro o gravi motivi il prefetto poteva autorizzare l’espatrio, ma su cauzione e con rilascio del passaporto: in caso di mancato rientro nel termine il coscritto era
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dichiarato “disertore all’estero” (art. 65). Gli artt. 69-83 disciplinavano le sanzioni per diserzione, favoreggiamento e negligenza dei pubblici ufficiali nell’identificazione e arresto dei disertori. b) le norme sulla leva, requisizione, ferma, rafferma e riserva Soggetti alla leva (“requisibili”) erano tutti i coscritti (art. 23). La leva era determinata per legge nel contingente necessario a compiere l’armata attiva, ripartito fra i dipartimenti in ragione della popolazione e fra le 5 classi di età secondo aliquote stabilite di volta in volta dal legislatore. Il contingente dipartimentale era ripartito fra i distretti, levando l’aliquota spettante secondo l’ordine di iscrizione nelle liste, cominciando perciò dai “morosi” (artt. 24-28). I volontari, anche se di classi non soggette alla coscrizione, erano ammessi a sconto del contingente (art. 29). Entro tre giorni il requisito poteva presentare un “sostituto” o “supplente” purché idoneo e minore di 30 anni, pagando la tassa militare ridotta di un terzo e restandone garante. In caso di diserzione era chiamato a completare la ferma, potendo surrogarne un altro alle stesse condizioni. Il supplente era arruolato col suo nome, assumendo però quello del rimpiazzato per soprannome, con il quale era “militarmente designato” (artt. 30-31 e 56-61). In tempo di pace la ferma legale era di 4 anni per tutte le armi, sia per i coscritti che per i volontari, ma, tenuto conto delle rafferme (due obbligatorie per i volontari) e dell’aumento di 2 anni imposto come condizione per ottenere il trasferimento volontario dalla fanteria alle altre armi (artt. 36-38), si calcolava una ferma media di 60 mesi. (Con decreto del 26 febbraio 1803 la ferma fu elevata a 6 anni anche per i coscritti destinati d’autorità in cavalleria, artiglieria e genio). In tempo di guerra la ferma aveva durata illimitata (“quanto la sicurezza della Patria lo richiede”). Il coscritto requisito per rimpiazzare un disertore era soggetto soltanto alla ferma residua (art. 61). A fine ferma il consiglio d’amministrazione del corpo rilasciava il certificato di adempimento degli obblighi militari, vistato dal sotto ispettore alle rassegne, con diritto del militare di optare tra il congedo assoluto e la rafferma (art. 55). I riservisti, destinati “unicamente a portare l’Armata al piede di guerra”, erano soggetti a ferma quinquennale, con residenza alle loro case e obbligo di istruzione militare “nelle stagioni in cui meno si lavora nei campi” e di non assentarsi dal dipartimento senza permesso dell’istruttore. In cambio erano esenti da ogni tassa personale e, nei luoghi in cui era sostituita da imposta di consumo, ne ricevevano “un proporzionato compenso in denaro” (tit. IV, artt. 43-52). In caso di
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richiamo per istruzione, i riservisti percepivano lo stesso trattamento dell’armata attiva, finanziato coi proventi della tassa militare e delle multe per diserzione e favoreggiamento (artt. 50, 72 e 83). Il fabbisogno previsto dagli organici di pace era di 15.000 requisiti (4.1 per mille degli abitanti) per l’armata attiva e 60.000 riservisti. Una volta portato il sistema a regime, occorreva dunque reclutarne 15.000 all’anno, di cui 3.000 (0.8 per mille) per l’armata attiva e 12.000 (3.3 per mille) per quella di riserva. Tuttavia per impiantare la linea e rimpiazzare i volontari trasferiti nella gendarmeria (1.326) e nella guardia presidenziale (raddoppiata da 234 a 500) era necessario, per la prima volta, chiamare 18.000 uomini (5 per mille) assegnandoli tutti all’armata attiva e cominciando a formare la riserva a partire dalla II leva (art. ). L’iter costituzionale della legge n. 65 Anno I, 13 agosto 1802 Il 13 luglio il consiglio legislativo dette parere favorevole, ma il 14 il progetto fu bocciato dalla consulta di stato. Secondo la consulta il consenso era puramente passivo ed esposto all’opinione, la «massa dei facoltosi, spogliata di diritti talora reali e più spesso immaginari, non (aveva) ancora deposto gli antichi pregiudizi», mentre «esagitati e pervertiti dalla licenza de’ tempi» calunniavano la moderazione e seminavano il malcontento e «le massime della politica più riprovate». Pensare di potersi difendere con un’armata di coscritti era illusorio «in una terra per secoli allontanata dal mestiere delle armi»: non c’era alternativa al mantenimento di una “forza imponente” francese, sulla quale il governo poteva contare con sicurezza per “contenere” l’“opposizione” interna. Il 18 luglio Melzi replicò che la “politica esistenza” e la “sicurezza” dello stato e il riconoscimento internazionale della sua “qualità di potenza” dipendevano solo dall’avere esercito, fortezze e legazioni all’estero. Il 21 dette un segnale di determinazione richiamando in servizio attivo Milossevich e il 24 ripresentò il progetto di legge al consiglio legislativo. Il 28 intervenne Bonaparte, con un messaggio al corpo legislativo (formalmente in risposta all’indirizzo di saluto rivoltogli il 30 giugno dall’assemblea), nel quale lo invitava ad esaminare la proposta della legge di coscrizione, dichiarando che “solo un’armata nazionale p(oteva) assicurare alla Repubblica la sua tranquillità interna e l’esterna considerazione”. Richiamato l’esempio del Piemonte, “che non aveva né la popolazione né la ricchezza” del nuovo stato italiano, Bonaparte ammoniva il corpo legislativo a non dimenticare che la Repubblica doveva “essere il primo Potentato
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d’Italia”. Il 3 agosto il consiglio legislativo dette il via libera e il 5 il governo trasmise il progetto alla camera degli oratori. Su invito del corpo legislativo, il 10 agosto il governo pubblicò il messaggio di Napoleone sul Foglio Officiale della Repubblica Italiana e il 13 la camera degli oratori approvò la legge a scrutinio segreto. La rivolta del Basso Po, il proclama Melzi e i pensieri di Trivulzio L’esecuzione della legge fu tuttavia ostacolata e ritardata di un anno dall’attrito sociale, dalla scarsa collaborazione delle autorità locali, dal sotterraneo sabotaggio di Murat, fermamente contrario alla creazione di un’armata nazionale italiana che avrebbe ridotto lo strapotere dei circoli militari e affaristici di cui era il referente e il protettore nonché da alcune incongrue richieste del primo console. Quanto alla resistenza sociale, già il 10 settembre, a meno di un mese dalla legge, Melzi informava Marescalchi che nel dipartimento del Basso Po si era manifestata un’opposizione armata alla coscrizione peraltro conclusa con l’arresto dei presunti capi, aggiungendo di prevedere “moltissimi imbarazzi all’esecuzione della legge”. Alla fine di settembre Melzi pensò di rivolgere un proclama ai giovani soggetti alla coscrizione per esortarli ad adempiere ai loro obblighi. «Chi vuol patria – scrisse – altari, proprietà, pace, sicurezza invano dimanda i suoi diritti, se colla spada non è pronto a difenderli … Se voi accorreste men pronti tra le file dei soldati cittadini, esse o rimarrebbero rade ed aperte, o sarebbero riempite da petti vuoti di ardor nazionale». Il proclama sottolineava l’esenzione di “padri”, “sposi”, “addetti alla religione dello stato”, “indisposti all’armi” e dei “giovinetti che da’ primi anni l’ingegno alle scienze e alle belle arti consacrano”, rimarcando così incautamente proprio l’iniquità sociale del sistema. Secondo le regole stereotipe di stesura dei proclami, seguivano in chiusa le minacce, col richiamo alla severità della legge contro i trasgressori. Tuttavia, saggiamente, il 14 ottobre il consiglio legislativo espresse parere negativo alla sua pubblicazione, sostenendo che sarebbe stata controproducente. Il 18 Melzi si appellò a Bonaparte, chiedendogli di aiutarlo ancora una volta a introdurre la coscrizione e a rafforzare l’esercito italico e il 20 la 1a Divisione del ministero replicò agli argomenti del consiglio legislativo, osservando che «la coscrizione militare (era) una istituzione quasiché nuova per la Repubblica, tranne l’imperfetta e infruttuosa ch’ebbe luogo nello scorso triennio”. Alla fine, in ogni modo, il proclama non fu pubblicato.
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Le considerazioni pessimiste sulla base sociale della coscrizione furono poi sviluppate da Trivulzio. «La mollezza della educazione – scrisse il ministro – figlia delle forme de’ governi caduchi che esistevano sul suolo della Repubblica italiana, le lunghissime paci che snervavano poi il coraggio de suoi abitanti, gli usi della lor vita commerciale e agricola; i pregiudizi, le innovazioni, le circostanze e le vicende di succeduti provvisori governi, le guerre sempre gravose, e funeste sempre, massime agli Stati nascenti che le sopportano, e non le fanno, presentar potevano a un politico osservatore l’aspetto di una massa di ostacoli forse impossibili a superarsi, per dare alla Repubblica nostra, nella sua infanzia, un’armata di cittadini». La Legione Italiana e la Gendarmeria (settembre 1802) Altro colpo all’avvio della coscrizione fu inferto dalla richiesta di Napoleone di fornirgli un contingente per la spedizione a Santo Domingo. Mandarci i coscritti significava seppellire definitivamente il progetto di un’armata nazionale: ma, com’era avvenuto in aprile a proposito della presa in carico delle truppe polacche, Melzi seppe trarre profitto dall’emergenza. Come contributo immediato, propose di mandare a Santo Domingo metà dei polacchi, gli elementi peggiori che provocavano continui disordini con la popolazione dell’Emilia, dov’erano stanziati. Inoltre pensò di “liberarsi dell’immenso numero di malviventi” (lettera del 15 settembre a Marescalchi) arruolando a forza i disertori amnistiati che non accettavano la ferma quinquennale dell’esercito, i “forestieri ammoniti dalla polizia” e i “nazionali oziosi e sospetti mancanti di mezzi di sussistenza” in uno speciale corpo di disciplina nazionale. Per attuare l’arruolamento forzato non occorreva del resto una nuova legge, dal momento che la legge di polizia del 20 agosto aveva appena autorizzato la costituzione di case di lavoro forzato e, con una certa buona volontà, il corpo di disciplina militare poteva esser fatto rientrare nella categoria (La “Legione italiana” fu poi effettivamente costituita a Ferrara con decreto del 16 aprile 1803, ma, essendo nel frattempo cessata l’esigenza Santo Domingo, fu tanto fortunata da essere spedita all’Elba, nelle infernali caserme infettate dal tracoma venuto dall’Egitto). Cinque anni di guerra avevano moltiplicato le bande di malviventi (“balossi”) e disertori che infestavano le campagne taglieggiando i cascinali. Era prevedibile che al momento della requisizione di leva sarebbero divenute il centro naturale di aggregazione dei renitenti, aumentando le dimensioni e la pericolosità sociale del fenomeno. Già il 1° maggio Melzi aveva ricevuto una segnalazione che le forze di
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polizia civili (sbirri e satelliti) si rifiutavano di affrontare bande organizzate e armate, mentre la colonna mobile di guardia nazionale assoldata che si era tentato di riorganizzare a Bologna aveva dato pessima prova. L’arruolamento forzato nella Legione italiana e la leva nell’esercito richiedevano misure di polizia militare (nella lettera del 7 novembre a Marescalchi Melzi accennava a “cordoni alle frontiere” per impedire l’emigrazione di massa dei coscritti). Per questo motivo, con proclama del 9 settembre, Melzi attivò la gendarmeria, prevista nella legge di ordinamento del 30 dicembre 1800 e istituita, ma solo sulla carta, con legge dell’8 aprile 1801. Lo svuotamento dei corpi di linea e la fine del volontariato Se il passaggio alla legione polacca aveva purgato l’esercito dai disertori stranieri e la legione italiana l’avrebbe liberato da quelli nazionali, il reclutamento di 1.300 gendarmi (e il contemporaneo raddoppio, richiesto da Bonaparte, della Guardia del Presidente) avrebbero a loro volta drenato gli elementi migliori, annientando così del tutto i corpi di linea, ridotti ai soli ufficiali. Per frenare l’emorragia di sottufficiali e veterani, già il 28 giugno erano stati sospesi a tempo indeterminato i congedi assoluti (se non per cause sanitarie accertate dalla commissione centrale del ministero o gravi motivi di famiglia certificati dal prefetto). Con decreti del 4 e 7 ottobre i depositi di arruolamento reggimentali furono soppressi e sostituiti da 3 depositi divisionali (quello di Milano con sede a Pavia), custoditi da un picchetto di 21 uomini distaccato a rotazione dai corpi dipendenti, incaricato anche dell’istruzione delle reclute. In seguito la situazione apparve meno drammatica e, in vista dell’imminente chiamata alle armi dei coscritti, con decreti del 27 febbraio 1803 la sospensione dei congedi assoluti fu limitata sino al termine del 31 ottobre, mentre si restrinsero gli arruolamenti volontari, stabilendo la condizione che il volontario dovesse contrarre tre capitolazioni di ferma, ciascuna di 4 anni in fanteria e 6 nelle altre armi (un condizione deteriore rispetto alle rafferme con “alta paga” crescente offerte ai soldati di leva e loro supplenti dall’art. 38 dalla legge di coscrizione).
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D. La leva d’impianto (1803) Propaganda governativa e allarme sociale Archiviata l’idea del proclama governativo, con circolare del 15 gennaio 1803 Trivulzio mollò la patata bollente della propaganda militarista ai prefetti, posti alle sue dirette dipendenze per i servizi di coscrizione e requisizione. Senza rendersi conto che i prefetti avevano il polso della situazione e sapevano cosa dire e non dire e come dirlo quando dovevano far trangugiare una purga ai loro amministrati, il ministro montò in cattedra, affidando la missione impossibile di fare propaganda alla coscrizione ma parlandone il meno possibile, meglio ancora mai. Li invitò a battere sulla “brevità” (!) di questo “servizio alla patria” («in fondo di che si tratta? Quattro anni ed è tutto» arrivò a scrivere un prefetto zelante). Dovevano sottolineare che adempiere agli obblighi di legge era condizione tassativa per poter aspirare a pubblici impieghi e che “il soldato attualmente non è un vile mercenario chiamato a sostenere i capricci del dispotismo ma un cittadino che va a difendere la sua patria, la religione dei suoi avi, le sue leggi, i suoi beni e sé stesso”. Dovevano però farlo “destramente e senza clamore”, avvalendosi dei personaggi autorevoli, “i cittadini più istruiti, i più opulenti e specialmente il clero”. Con circolare del 26 gennaio Trivulzio tornò a raccomandare di non fare pubblicità alla coscrizione, limitandosi agli avvisi indispensabili per notificare agli interessati il giorno d’apertura dei registri di leva. E’ probabile che proprio la mancata assunzione di responsabilità politica, il linguaggio ambiguo, esitante, subdolo tenuto nei confronti della gente abbia contribuito a diffondere ed amplificare il “panico” segnalato in particolare nel Lario e in alcuni distretti dell’Olona (18 marzo), seguito da emigrazioni di massa in Svizzera e perfino in Inghilterra (5 aprile). Il prefetto del Basso Po elogiò l’ardore dei coscritti di Canal Bianco che prima ancora di essere chiamati si erano presentati in massa, cantando e con la musica, a farsi iscrivere nelle liste (7 marzo) e di Cavarzere, dove gli iscritti alla guardia nazionale si erano presentati inquadrati, con in testa i loro ufficiali (8 maggio). Ma il Rubicone tornava papalino, il Lario era in subbuglio e Crostolo, Panaro, Reno e Mincio non sembravano da meno. L’idea diffusa, non priva di fondamento, era che il governo volesse rastrellare la gioventù per consegnarla ai francesi. Con circolare del 20
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aprile Melzi incaricò i prefetti di smentire le voci che la coscrizione avrebbe portato i soldati fuori dai confini della patria. “Distruggete questo inganno – scrisse – affermando altamente che i coscritti non saranno chiamati se non per riempire i quadri dell’armata stabile della Repubblica e farla rispettare all’estero e assicurare la tranquillità all’interno”. Queste erano, sinceramente, le reali intenzioni di Melzi: ma non passò un mese che il 12 maggio Bonaparte ordinò di concentrare 4.000 italiani e 2.000 polacchi in Romagna per mandarli in Puglia: e nel settembre 1805 in territorio nazionale restavano appena 5.066 soldati italiani, a fronte di 60.191 francesi. Circolari, pastorali e seminaristi (7 settembre 1802–9 maggio 1803) Primo ad aprire il fuoco contro la legge di coscrizione era stato, già il 7 settembre 1802, l’arcivescovo di Milano Giambattista Caprara, cardinal legato a Parigi e negoziatore dei concordati con la Francia e l’Italia. Il cardinale protestò perché l’esenzione dal servizio militare era stata accordata ai soli preti, escludendo i seminaristi. Cattolico osservante, ma incline al regalismo, Melzi non voleva cedere: tuttavia, man mano che si avvicinava il momento di decretare la leva, aumentava il potere negoziale della Chiesa. Nella circolare ai prefetti del 15 gennaio 1803 il governo li invitava a far collaborare alla propaganda a favore della coscrizione “specialmente i ministri del culto”. Il 1° marzo, d’intesa con Melzi, il ministro del culto Bovara indirizzò una circolare ai vescovi, diramata anche ai parroci, esortandoli a confutare i “pregiudizi” e le “abitudini” dei fedeli e a dichiarare che la vita militare non era di per sé contraria ai dettami evangelici, come dimostrava l’esperienza storica e l’esistenza degli eserciti in tutti gli stati cristiani d’Europa. In tal modo – sosteneva untuosamente Bovara con l’abituale ipocrisia del burocrate agnostico – la religione avrebbe reso un utile servizio alla patria e l’armata ne sarebbe stata edificata, perché i soldati, “penetrati del dovere per sentimento religioso”, si sarebbero distinti per disciplina e sentimento dell’onore. Il 7 marzo Caprara rispose all’appello, componendo una pastorale fitta di dotte e scontate citazioni, dal centurione alla Legione Tebana. Ancor più dotte le omelie dell’abate Furloni, priore dell’Ordine costantiniano (morto in miseria a Milano nel 1813). Tanto per i destinatari un argomento valeva l’altro: l’antifona la capivano benissimo e cioè che la Chiesa era d’accordo. Ci fece, al confronto, miglior figura il vescovo di Como, denunciato il 9 marzo a Bovara
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dallo zelante capobattaglione Pietro Foresti per essersi lasciato andare a “discorsi beffeggianti” e ironici contestando la pretesa dello stato che la Chiesa si ingerisse nella questione della coscrizione”. Il 10 marzo Melzi scrisse a Bonaparte che la riluttanza del clero era forte soprattutto nelle ex-Legazioni pontifici (in particolare in Romagna, dove in febbraio si erano diffuse voci di una restituzione al papa). A quel punto sui seminaristi conveniva proprio mollare: ma Melzi era un vecchio caparbio e ci volle una lettera di Bonaparte (11 marzo) per costringerlo a concedere, con decreto del 24 marzo, ’sta benedetta esenzione. Nondimeno il 3 aprile Melzi riferiva a Marescalchi che vescovi e curati avevano “corrisposto per forma alla circolare” Bovara e alcuni, come il vescovo di Lodi, avevano “detto apertamente che i sacerdoti non potevano immischiarsi in questioni attinenti alla milizia”. In molti casi, inoltre, i fedeli uscivano in massa dalla chiesa appena il parroco iniziava la lettura della circolare Bovara e a Tirano, il 10 aprile, scoppiò addirittura un tumulto con insulti al parroco, tanto che da Como fu spedita una colonna mobile di 600 uomini comandata del generale di brigata Giuseppe Antonio Mainoni. Il 19 aprile fu il ministro della guerra Trivulzio a scrivere un’altra circolare ai vescovi perché appoggiassero l’imminente requisizione. I consigli distrettuali di coscrizione e requisizione L’allarme sociale era acuito dal protrarsi dei tempi di esecuzione della prima leva d’impianto. Questi erano condizionati dalle impreviste difficoltà di arruolamento della gendarmeria – che due mesi dopo l’attivazione, nel novembre 1802, a parte i 47 ufficiali, aveva appena 178 uomini, un settimo dell’organico – e dall’incompleta formazione dei consigli distrettuali incaricati di procedere alla stesura delle liste di leva ex-artt. 17-19 della legge (la quale prevedeva anche, in caso di ritardo per dolo o colpa, il commissariamento a carico personale dei responsabili). Per accelerare i tempi, il governo presentò un progetto di decreto sulla distrettuazione provvisoria, esaminato il 14 ottobre dal consiglio legislativo e approvato il 14 novembre. Un mese dopo erano costituiti 240 distretti provvisori per un totale di 4.716 comuni e mancavano solo quelli del Rubicone. Con circolari del 17 dicembre e 1° gennaio 1803 il ministero della guerra autorizzò gli ufficiali superiori inviati nei dipartimenti a decidere sul posto, in via provvisoria, tutti i casi di dubbia interpretazione della legge, astenendosi però dall’immischiarsi nelle questioni relative ai redditi soggetti a o esenti da tassa militare di esenzione o sostituzione. Il 3 febbraio Trivulzio si dolse col collega
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dell’interno che cancellieri e amministratori comunali chiedessero di essere esentati dal servizio coscrizionale. Seccato di doversi occupare di un dettaglio irrilevante come l’esenzione dei seminaristi, nella lettera dell’11 marzo a Melzi Bonaparte aggiunse un secco rimprovero (« La République est sans armée, et, à cet égard, elle n’a fait depuis un an aucune espèce de progrès »). Il 3 aprile Melzi si giustificò con Marescalchi, dando la colpa del ritardo alla “tacita mala voglia” dei consigli municipali e distrettuali e dei funzionari locali. Il Decreto n. 27 del 13 maggio e le apprensioni di Murat Il 1° maggio la gendarmeria raggiunse un effettivo di 47 ufficiali e 1.138 uomini (su un organico di 1.432) e pochi giorni dopo – pervenute al ministero tutte le liste distrettuali dei coscritti, tranne quella relativa alla capitale – il governo ordinò ai consigli distrettuali di nominare al proprio interno la commissione di leva. Questa doveva compilare, sulla base dello stato anagrafico, la lista dei coscritti requisibili, depennare gli inabili al servizio e verificare l’idoneità dei supplenti. Dettagliate istruzioni furono inoltre spedite ai prefetti sul modo di ripartire il contingente dipartimentale tra i distretti, impedire l’emigrazione, evitare abusi e frodi belle operazioni di requisizione (da effettuarsi presso i singoli comuni) e regolare l’invio dei requisiti dal comune ai capoluoghi del distretto e poi del dipartimento, per esser qui presi in consegna dagli ufficiali e sottufficiali incaricati di condurli alle bandiere. La leva di 18.000 uomini (“proporzionata al vuoto che offrono i quadri dell’armata”) prevista dalla legge di coscrizione fu disposta con decreto n. 37 del 13 maggio. La leva doveva effettuarsi nel termine di sei settimane, con divieto ai coscritti di uscire dal distretto di residenza. “Primi levati” erano i “morosi”. Il resto del contingente distrettuale, dedotti dal totale gli eventuali volontari, era completato attingendo i requisiti da tutte e cinque le classi (1778-82), in quote proporzionali e secondo l’ordine di iscrizione. L’esecuzione era rimessa a 13 “giurì di leva” dipartimentali, presieduti dal prefetto e composti da un ufficiale superiore di linea e dal capitano della locale compagnia di gendarmeria. Era previsto l’invio di distaccamenti di gendarmeria di rinforzo nei dipartimenti ove si rendesse necessario. Chi aveva scommesso sulla desistenza del governo di fronte agli enormi ostacoli che si opponevano alla coscrizione, si sentì sconfitto. Il 20 maggio Murat scrisse a Napoleone, con evidente dispetto e una punta di rimprovero per aver irresponsabilmente incoraggiato gli italiani a liberarsi della presenza francese:. «On travaille avec activité
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à la levée des conscrits. Je ne pourrais jamais vous rendre cette activité, elle est devenue générale depuis une de vos notes écrite en marge à un certain dépêche de Melzy: ‘On évacuera l’Italie, quand elle aura une armée de quarante mille hommes’. (…) Je suis intimement convaincu qu’il n’est pas de notre intérêt que la République italienne ait une armée, et à l’activité qu’on déploie, on parviendra à en avoir une, si vous n’y mettez accidentellement des obstacles. Quand j’ai dit que l’activité pour la levée était générale, j’ai entendu dire dans le fonctionnaires publics. Les autres, c’est à dire les riches propriétaires, préféraient avoir des auxiliaires à leur solde, parce qu’ils conserveraient de bras à l’agriculture». La costituzione della Legione italiana (16 aprile – 26 maggio 1803) Un « ostacolo accidentale » era la partenza di 4.000 uomini per la Romagna, denunciata lo stesso 20 maggio da Melzi a Marescalchi come un errore che sottraeva i migliori ufficiali e sottufficiali all’inquadramento delle reclute, prevedendo che nei depositi sarebbe rimasta solo “gente di nessun uso quasi se non di far numero e mangiar la paga”. Per tenersi pronto a fronteggiare altre richieste di quel tipo, Melzi aveva però già provveduto ad avviare, contemporaneamente alla leva, la costituzione del corpo di disciplina ipotizzato in settembre. La “Legione italiana” fu istituita su 3 battaglioni con decreto del 16 aprile e l’avviso di costituzione fu emanato il 18 maggio, assieme al decreto di requisizione (in modo da poter rastrellare in una volta sola sia i renitenti alla leva destinati alla linea che gli asociali e i disertori latitanti destinati alla legione). Nel corpo, con deposito a Cremona, erano ammessi solo volontari nazionali dai 17 ai 45 anni di età (esclusi i coscritti) e gli stranieri che avessero già servito nell’esercito italiano. Il 26 maggio il governo decretò l’amnistia ai disertori a condizione di arruolarsi nella legione con ferma quinquennale e ordinò ai prefetti, viceprefetti e giudici delegati di polizia di arrestare tutti i sospetti e disertori, italiani e stranieri per avviarli alla legione in base alla legge di polizia del 20 agosto 1802. Resistenza e pugno di ferro Come si temeva, la leva si trasformò in una questione di ordine pubblico. Il 1° giugno i prefetti del Reno e del Panaro comunicarono che tutti i distretti avevano richiesto l’intervento della forza armata per reprimere i tumulti: il 3 il prefetto del Mella la chiese per fermare
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l’emigrazione. Sulla guardia nazionale – scriveva il 7 quello del Rubicone – non si poteva far conto: era formata dagli stessi requisiti o comunque parteggiava per loro. Il 15 il ministero tirò le somme: nel Lario c’erano “disordini e decisa mala volontà”, in Valtellina fuga generale, nel Mincio solo Peschiera aveva raccolto qualche requisito, mentre a Caprino erano scappati tutti. La municipalità di Milano aveva autorizzato una colletta per pagare i volontari, raccogliendo solo “balossi”, “oziosi” e “senza casa” che pretendevano pure “prezzi esorbitanti”. A Mantova era stata la stessa municipalità a promuovere la sottoscrizione, ma dei 150 volontari presentati il giurì di leva ne aveva ammessi solo 4. I dipartimenti migliori erano Reno, Panaro, Mella e Agogna. Tuttavia nell’Agogna c’erano stati casi di violenza (un agente comunale percosso a sangue dai parenti di un requisito, fucilate contro il cancelliere comunale di Vogogna che dal balcone arringava i coscritti), mentre nei distretti di Montefiorino (Panaro) e Mulazzo (Crostolo) i delegati erano stati minacciati e nel Basso Po (Papozze e Rosolina) s’erano anche viste agitare le armi. Milano era al 9 per cento della quota (49 su 543), ma il resto dell’Olona era all’1 per cento (20 su 1.920). Il 6 e 9 giugno Murat ne riferiva a Bonaparte, osservando che “la coscrizione non produce(va) nulla” e preannunciando “misure di rigore”. Il bastone e la carota (16 giugno – 18 luglio 1803) Surrogandosi alle amministrazioni locali, inerti o incapaci, fu lo stesso governo a disporre l’impiego della gendarmeria, la quale esordì a Milano, la notte dal 16 al 17 giugno, con una retata di circa 400 refrattari, condotti poi al deposito di Pavia. Per alcuni giorni la città fu attraversata da gruppi, talora in catene, di coscritti arrestati nei comuni vicini. Con tutti i rastrellamenti, si era racimolato appena un sesto o un quinto del contingente. Il 25 giugno il ministro propose l’istituzione di “tribunali militari itineranti” per reprimere, ai sensi della legge 3 agosto 1797, la resistenza collettiva o armata alla leva. Il 2 luglio la 1a divisione (personale) del ministero criticò il ricorso ai tribunali, sostenendo che avrebbero accresciuto “il terrore, l’inquietudine e il malcontento”, screditando il governo e alienandogli “l’animo delle popolazioni”. Ignorando queste obiezioni, l’11 luglio si decise di formare colonne mobili nei dipartimenti cispadani per dare la caccia ai renitenti e di ricorrere al sistema dei “garnisaires”, mandando cioè un militare a vivere “in tansa” a casa del renitente, per indurre la famiglia a consegnarlo.
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La scelta fondamentale fu però di usare il bastone e la carota. Così il 14 luglio furono contemporaneamente decretati: a) l’amnistia generale ai disertori e refrattari a condizione di presentarsi entro un mese rispettivamente ai giurì di leva e alle municipalità e b) l’istituzione di 2 commissioni straordinarie (composte da 5 giudici militari, 1 ufficiale relatore e 1 commissario civile del governo), per giudicare, secondo le procedure e le pene previsti dalla legge 3 agosto 1797 contro i nemici dell’ordine pubblico, gli autori e i complici delle sedizioni e tumulti contro la leva. I giudizi erano sommari, le pene severe e le sentenze inappellabili. Vi fu pure una condanna a morte, eseguita, nei confronti del principale responsabile del tumulto di Seregno. In agosto il prefetto del Rubicone segnalava che la truppa, civica o di linea, mandata a requisire i renitenti commetteva danneggiamenti, estorsioni e violenze. Su richiesta del prefetto del Lario, con circolare dell’8 luglio l’esenzione fu accordata anche al figlio di madre vedova con fratelli in età pupillare, purché non fosse possidente e risultasse necessario al sostegno della famiglia. Tuttavia, a causa dell’emigrazione, a Brescia e Chieri si dovettero requisire anche figli unici e ammogliati. Si ordinò poi alle dogane di arrestare gli espatriati man mano che rientravano. In questo modo il 14 luglio il numero dei requisiti raggiunse i 10.000, salendo il 24 a 11.486 (v. tab. 2) e il 16 agosto a 13.500, pari ai tre quarti del contingente. Il 9 agosto si abbassò la statura minima da 5 piedi parigini a 4 piedi e 11 pollici, destinando i più bassi alla fanteria leggera, dotata di carabine, più corte e maneggevoli dei fucili. Tab. 2 – Stato dei Requisiti al 24 luglio 1803 Coscritti Dipartimenti Agogna Lario Olona Alto Po Serio Mella Mincio - Adige Lombardia Crostolo Panaro Reno Basso Po Rubicone Sud del Po TOTALE
Contingente 1.614 1.734 2.463 1.884 1.421 1.557 1.354 12.027 838 933 1.968 1.061 1.373 6.173 18.200
Requisiti 1.302 805 1.613 1.262 1.285 1.318 488 8.053 444 790 1.183 862 154 3.433 11.486
Le richieste collettive di esenzione
Soldo % 80.67 46.42 65.49 66.98 90.43 84.65 36.04 67.12 52.98 84.67 60.11 81.24 11.21 55.61 100.00
Lire 312 929 850 442 136 239 866 3.774 394 193 785 199 1.285 2.856 6.630
%/Tot. 4.70 14.01 12.82 6.67 2.05 3.60 13.06 56.92 5.94 2.91 11.84 3.00 19.38 43.08 100.00
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Dimostrando di non aver ben compreso l’ideologia politica che era alla base dello stato e della legge di coscrizione, alcuni comuni e categorie chiesero esenzioni collettive, come avveniva durante l’antico regime. Il governo respinse il 31 luglio le istanze presentate dai comuni di Papozze (Basso Po), Golasecca (Olona), Castelletto sul Ticino (Agogna) sul presupposto che la maggior parte dei soggetti alla leva erano “pa(d)roni” di barche e all’occorrenza potevano armare le flottiglie lacustri, com’era avvenuto nel 1799 e 1801. Il 3 agosto la commissione distrettuale di Riviera d’Orta chiese l’esenzione per la “somma indigenza” della popolazione, citando quella accordata dai francesi al distretto piemontese della Valsesia. Nel 1803 ben 28 su 40 operai delle manifatture d’armi del Bresciano (Lumezzane e Gardone Val Trompia) erano in età di leva e alcuni furono requisiti per l’artiglieria. Tuttavia a partire dal 1804 gli armaioli requisiti furono messi in congedo condizionale e limitato e così pure i 41 addetti all’Armeria nazionale di Milano e i lavoratori delle saline di Cervia. E, citando le Termopili, Melchiorre Gioia inventava i giannizzeri La Discussione economica sul dipartimento dell’Olona, pubblicata da Melchiorre Gioia nel 1803, non poteva certo esimersi dal trovare la soluzione geniale anche ad una questione all’ordine del giorno come la crisi della leva. L’esperienza dimostrava che il fattore di maggior opposizione alla leva erano i “sentimenti di famiglia”. Ma la leva, invece di privare della famiglia quelli che ce l’avevano, poteva darne una a chi ne era privo! Nell’Olona, calcolava l’economista piacentino, esposti e orfanelli maschi erano in media 861 all’anno: moltiplicati per tre corrispondevano largamente al contingente dipartimentale (2.463). Certo, in futuro si poteva e si doveva nazionalizzare e militarizzare tutta la gioventù italiana: ma perché non cominciare dai senza famiglia, riunendo esposti e orfanelli “in un solo stabilimento per formare un vivaio di soldati e supplire la coscrizione”? In questo caso l’astrattezza della proposta non è scusabile. L’autore la realtà dei convitti la conosceva bene: lui stesso, orfano di entrambi i genitori, veniva dal collegio Alberoni di Piacenza (dove, ovviamente, un talento eccezionale come il suo l’avevano coltivato a giansenismo e assolutismo illuminato). Per quale aberrazione borghese poteva allora spacciare l’orrore quotidiano degli orfanotrofi lombardi per paideia spartana, esaltandosi con gli eroi delle Termopili? “Sottratti dal seno paterno appena nati – scrisse col cuore di piombo – si glorieranno d’avere per madre la sola patria”.
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Tanto geniale, quanto poco originale. L’idea dei soldati bambini (che oggi consideriamo giustamente un crimine internazionale) era infatti il quinto sistema di reclutamento dell’esercito “perpetuo” (permanente) illustrato da Montecuccoli negli Aforismi del 1668-70 (Della guerra contro il Turco in Ungheria, libro III, cap. II, sezioni 7-12): ossia le “accademie militari” (“ad imitazione de’ Giannizzeri del Serraglio”) in cui gli emarginati (orfani, bastardi, mendicanti e poveri alimentati negli ospedali) erano allevati come cani da guerra in cambio della pubblica “assistenza”.
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11. COSCRIZIONE E RENITENZA
A. Le leve del 1804 La leva complementare (25 novembre 1803 – 27 marzo 1804) Per compensare le continue diserzioni, il 25 novembre 1803 il ministro Trivulzio chiese al governo una leva complementare di altri 7.700 coscritti (5.700 per la linea, 400 per la gendarmeria e 900 per la guardia presidenziale), proponendo inoltre di spostare l’onere di rimpiazzare i disertori dai distretti ai comuni. Il ministro imputava infatti le diserzioni, “verme distruttore dell’armata”, al sabotaggio dei comuni, i quali, per favorire i loro coscritti, ingaggiavano volontari fittizi, col patto di non disertare “prima di un breve termine convenuto”, scaricando il rimpiazzo sugli altri comuni del distretto. La modifica avrebbe vanificato il sotterfugio e cointeressato i coscritti a far arrestare (per non doverli rimpiazzare) i disertori, che in genere risiedevano indisturbati nel loro comune. Melzi congelò le richieste del ministro incaricandolo di approntare, in base alle esperienze e ai suggerimenti dei prefetti, un progetto di “articoli addizionali” alla legge. Le modifiche suggerite erano di decentrare la formazione delle liste dai distretti ai comuni, di abolire l’assenso del comune di origine all’iscrizione nelle liste del comune di nuova residenza, di abolire l’esenzione dei seminaristi (dato l’improvviso aumento delle vocazioni spirituali) e di sostituire la supplenza con una sorta di affrancazione (consentendo cioè di ottenere l’esonero pagando una somma equivalente al costo di un “cavallo montato”: col vantaggio per l’esercito di scremare un po’ di feccia e per l’erario di incamerare l’intera somma che la famiglia del coscritto era disposta a spendere per esentarlo dalla requisizione). La situazione al 2 febbraio 1804 presentava un incremento di 16.687 unità (1.952 volontari e 14.555 coscritti) pari al 93.2% del contingente chiamato, con un deficit di 1.313 (inclusi 316 nel Lario e 262 nel Rubicone). Dall’inizio della leva, però, la linea aveva perduto ben 6.300 effettivi (1.631 per passaggio ad altri corpi, 4.199 per diserzione e 470 per altre cause) per cui l’aumento reale si limitava a 10.387 uomini.
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Il governo presentò allora il progetto di leva complementare e articoli addizionali al consiglio legislativo. Quest’ultimo non nascose però la sua irritazione per il tentativo dei militari di scaricare sui comuni la colpa delle diserzioni, osservando che toccava ai militari sorvegliare i soldati e invogliarli alla vita militare. Invece, con i continui trasferimenti di personale alla gendarmeria e alla guardia presidenziale, avevano distrutto lo “spirito di corpo” dei reggimenti di linea. Pertanto il 27 marzo il consiglio respinse le modifiche richieste e ridusse il contingente complementare a soli 6.000 uomini, da reclutarsi un terzo sulla prima classe (1782) e un sesto su ciascuna delle altre quattro (1778-81). I giurì centrali di leva, le istruzioni ministeriali e i difetti esimenti La legge, approvata il 31 marzo dal corpo legislativo, fu integrata dal decreto n. 36 del 12 aprile sui giurì di leva e dalle circolari ministeriali del 7 giugno n. 25 (“istruzioni per la leva del 1804”), 26 (“decisioni sopra dubbi insorti nell’applicazione della legge”) e 27 (“istruzioni riguardo alle malattie o difetti che inducono invalidità pel servizio militare”). Il decreto sostituiva i 13 giurì dipartimentali istituiti il 13 maggio 1803 con 2 giurì centrali alle dirette dipendenze del ministro. Con sedi a Milano e Bologna, i giurì erano presieduti da un generale di brigata (il francese Julhien e il corso Ottavi) e composti da un sotto ispettore alle rassegne (Parma e Cortese) e da un ufficiale di sanità (Cerri e Rima). Le istruzioni disponevano le incombenze del prefetto e dei consigli distrettuali, cui incombeva, pena destituzione e multa, somministrare il proprio contingente entro 40 giorni dal ricevimento delle istruzioni. I volontari e i supplenti dovevano essere originari del distretto e di età inferiore a 25 (volontari) o 39 anni (supplenti). Possibilmente il contingente doveva essere completato esclusivamente coi morosi delle 5 classi. Qualora insufficienti, si attingeva un terzo dalla I classe e un sesto da ognuna delle altre quattro (II-V), cominciando dal primo coscritto iscritto dopo l’ultimo moroso. Il requisito che entro il termine di tre giorni non presentava un supplente decadeva una volta per tutte dal beneficio. La mancata presentazione al giurì centrale nel termine prescritto era denunciata al consiglio di guerra che procedeva per diserzione. I consigli distrettuali rimpiazzavano ogni requisito non presentato o ricusato col coscritto seguente nella sua lista.
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Completato il contingente, il cancelliere distrettuale ne compilava lo stato nominativo indicando la qualità di volontario o supplente e o trasmetteva al prefetto. Nel giorno fissato i requisiti, accompagnati dal deputato del proprio comune, si riunivano nel capoluogo per essere consegnati al consiglio distrettuale, il quale deputava uno o più membri ad accompagnarli tutti insieme o a gruppi a Bologna o a Milano e consegnarli al competente giurì centrale. Il giurì controllava i requisiti, ricusando i non idonei con giudizio definitivo e denunciando al ministro, per misure di giustizia, i casi di sospetta negligenza o frode da parte del consiglio distrettuale. Qualora il contingente non fosse completato nel termine di 40 giorni, il giurì concertava col prefetto l’invio nel distretto di un delegato speciale, con spese a carico personale dei membri del consiglio, salvo denuncia per negligenza. Il presidente del giurì disponeva direttamente l’impiego della forza militare o lo richiedeva all’autorità competente (il prefetto per la forza civica e il comando francese nei dipartimenti in cui la forza era ad esso soggetta). Aveva inoltre alle sue dipendenze un deposito centrale di leva comandato da un ufficiale superiore e con un numero adeguato di ufficiali e sottufficiali. Alquanto lapalissiane le istruzioni sui difetti esimenti: in pratica escludevano solo chi avesse completamente perduto la parola, la vista, l’udito o l’olfatto (evidentemente per la vita militare non occorrevano gusto e tatto, ma la puzza bisognava sentirla). La circolare del 3 agosto menzionò più congruamente pellagra, gozzo, broncocele, ernia, tisi incipiente, insufficienza toracica e la mancanza di un occhio, di tutti i denti incisivi o canini o di dita delle mani e dei piedi (con obbligo di denuncia dei casi sospetti di autolesionismo). Emergenze e provvedimenti dell’estate-autunno 1804 Il 26 giugno fu concessa una terza amnistia (dopo le due del 1803), limitata però ai disertori della Divisione italiana in Francia. Il 9 luglio il comandante delle 2 compagnie Zappatori di Peschiera riferì le voci che la diserzione dei suoi specialisti fosse favorita da arruolatori di una potenza estera, i quali offrivano ingaggi allettanti e organizzavano la fuga a Venezia e l’imbarco per Malta. Il 14 luglio il ministero segnalò che talora erano stati presentati come supplenti perfino dei disertori. Cento gendarmi per dipartimento non potevano badare a tutto. Per poterli concentrare dove e quando occorreva, l’11 luglio Melzi ipotizzò di levare i contingenti dipartimentali uno dopo l’altro, ma il 14 il ministro dell’interno gli fece osservare che non era possibile farlo
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entro il termine di tre mesi stabilito dalla legge. In mancanza di meglio si badava anche al fattore psicologico: il 21 luglio il prefetto del Serio propose di dare una “bandiera d’onore” al 1° contingente in partenza per Milano. Poiché il trattamento ricevuto in caserma era riconosciuta come la causa maggiore delle diserzioni, con circolare del 24 luglio Trivulzio raccomandò ai capibrigata di trattare i requisiti “con tutta l’umanità” e di addestrarli “con maniere oneste e urbane, non con aspre e indecenti”, ricordandosi che non erano “uomini venduti, ma cittadini” e che i racconti dei coscritti sulla vita in caserma influenzavano l’opinione pubblica nei confronti dell’esercito. Il 3 agosto furono inclusi tra i requisibili anche le guardie di finanza e di polizia, suscitando le proteste del ministro dell’interno. Non erano adatti – scrisse – alla vita militare, avendo ormai contratto abitudini incompatibili. Inoltre, essendo odiati dalla gente, non era opportuno esporli al rischio di maltrattamenti da parte dei loro camerati. Il 24 agosto il prefetto del Lario protestò per l’abolizione dell’assenso del comune di vecchia residenza del requisito alla sua iscrizione nelle liste del cantone di nuova residenza. Ciò danneggiava il suo dipartimento a vantaggio di Milano, dove si erano trasferiti per lavoro molti coscritti comaschi e valtellinesi. L’emigrazione nei paesi confinanti (quella in Svizzera puntualmente segnalata ogni anno a fine agosto dal prefetto dell’Agogna) avveniva anche prima della coscrizione, essendo determinata dallo spostamento di mano d’opera e dall’esercizio di determinati mestieri (come quello di carbonaio). La leva incentivò l’espatrio e alimentò la criminalità individuale e organizzata. Il 7 novembre il ministro Pino segnalò al ministero degli esteri la formazione di bande di disertori al confine ticinese e che tale Onorato Calvi di Edolo aveva tentato di promuovere una “sediziosa cospirazione” tra la “gioventù coscritta”. Su richiesta del ministero degli esteri italiano, dall’11 al 13 dicembre il Canton Ticino fece una verifica (“al suono della campana a martello”) di tutti gli stranieri espellendo quelli privi di carta di residenza. La quarta amnistia e il bilancio delle leve Melzi Visto il cattivo andamento della leva, il 4 settembre il ministro propose di ricorrere nuovamente all’amnistia, decretata il 18 con la solita condizione di presentarsi entro un mese. Dal 25 settembre al 15 ottobre le reclute dei dipartimenti transpadani aumentarono di un quarto (da 2.553 a 3.195) riducendo il debito del 45 per cento (da 1.431 a 789). Al 15 ottobre risultavano reclutati 5.071 requisiti (3.195
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a Nord e 1.876 a Sud del Po), con un debito di 929 (789+110), meno di un sesto del contingente. Visto il buon esito dell’amnistia, lo stesso 15 ottobre il termine di presentazione fu prorogato di un mese. Meno entusiasmante era però il saldo tra incorporazioni e perdite. In sette mesi, dal 1° febbraio al 1° novembre, la linea aveva perduto altri 5.612 uomini: 1.053 passati ad altri corpi, 3.120 disertati e 1.439 per altra causa. Tra questi ultimi ben 446 deceduti, pari ad un tasso di mortalità di circa il 5 per cento su base annua e in tempo di pace: un indizio eloquente delle condizioni di vita nelle caserme e delle cause della diserzione. In diciassette mesi, dall’11 giugno 1803, la linea aveva incorporato almeno 22.000 dei 24.000 coscritti richiesti: ma ne aveva perduti più della metà (11.912). Un ottavo delle reclute era servita infatti a rimpiazzare i volontari (2.684) passati nella guardia reale o nella gendarmeria, un terzo (7.419) aveva disertato e il resto era stato perduto per decessi (613), congedi (842) e ragioni disciplinari (49 condannati e 406 cassati dai ruoli). Il saldo attivo (10.000 uomini) aveva consentito l’invio di truppe all’estero (1 divisione in Francia e 2 reggimenti nazionali in Puglia e all’Elba) e il mantenimento in patria di una “Divisione dell’Interno”, ma era ancora la metà dell’obiettivo di forza (18.000) fissato dalla legge Melzi. Tab. 3 – Ripartizione dei contingenti per dipartimento (1803-1805) Contingenti Leve 1803-05 Totale % sulla 1803-05 Popolaz. 1803 1804 1805* Agogna (NO) 349.245 1.614 544 552 2.710 0.77 Lario (CO) 312.978 1.487 584 494 2.942 0.74 Adda (SO) 81.618 247 / 130 / / Olona (MI) 515.718 2.463 826 814 4.103 0.79 Alto Po (CR) 326.483 1.884 505 516 2.905 0.89 Serio (BG) 283.333 1.421 462 456 2.339 0.82 Mella (BS) 297.842 1.557 513 470 2.540 0.85 Mincio (MN) 217.463 1.236 325 344 2.366 1.09 Adige (VR) 149.519 118 225 236 579 0.39 NO,Lombardia 2.534.199 12.027 3.984 4.012 20.023 0.79 Crostolo (RE) 179.380 838 282 282 1.402 0.78 Panaro (MO) 189.216 933 314 298 1.545 0.81 Reno (BO) 379.010 1.968 662 598 3.228 0.85 Basso Po (FE) 257.534 1.061 335 406 1.802 0.70 Rubicone (RA) 256.723 1.373 423 404 2.200 0.85 Sud del Po 1.271.863 6.173 2.016 1.988 10.177 0.80 TOTALE 3.806.062 18.200 6.000 6.000 30.200 0.79 *Di cui metà di riserva. NB Nel 1803 il contingente di Milano era di 543 requisiti. Dipartimenti
Popolaz. nel 1805
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B. Le leve del 1805 e 1806 La 5a amnistia e il blocco dei cambi (5 maggio – 20 giugno 1805) Il nuovo sistema di governo napoleonico esordì con la quinta amnistia ai disertori (decretata il 5 maggio 1805 per l’incoronazione del re) e con il blocco della supplenza. In un rapporto del 3 maggio a Napoleone, il ministro degli interni gli rappresentò che il sistema della sostituzione (detto anche dei “cambi”) era considerato iniquo dai ceti popolari (“in molti dipartimenti, specialmente nel Reno, la gioventù coscritta si mostrò molto indisposta nel vedere che i ricchi potessero sottrarsi con questo mezzo dal prestare un personale servizio alla patria”). Pur senza venir abolito, l’istituto della supplenza fu limitato dal decreto del 20 giugno istitutivo della guardia reale, che vietava di ammettere cambi prima che il dipartimento avesse completato la sua quota di guardie d’onore e veliti reali. L’ammissione nei due corpi era ristretta solo ai giovani con speciali requisiti di ceto e di censo (v. infra, P. IIIA, §§. 3B e 3C), i quali dovevano servire a proprie spese (la retta o “pensione” annua dei veliti era di 153 franchi). Le quote erano incluse nel contingente e, sperando all’inizio di poterle colmare con volontari, si cercò di indurli ad arruolarsi col sospendere il beneficio della supplenza fino al completamento della quota. Non potendo più sottrarsi con la supplenza, gli interessati si ingegnarono di farlo per altra via, in particolare tramite compiacenti (e costosi) certificati medici, riservandosi di giocare la carta della guardia reale soltanto dopo aver esaurito qualunque altro mezzo. Quasi nessun dipartimento poté perciò colmare le sue quote di guardie e veliti, con l’effetto di congelare il beneficio per tutti. Contrariamente al giudizio popolare, non erano solo i ricchi, ma anche i ceti subalterni (domestici, artigiani, contadini) ad avvalersi, sia pure in misura minore, del beneficio. I ceti che ne usufruivano meno erano quelli urbani (plebe e piccola borghesia), non solo per ragioni di reddito, ma perché la rete delle solidarietà familiari e ambientali era in città meno ampia che in campagna (dove la privazione di braccia era un danno collettivo) o in particolari comunità. Ad esempio le comunità israelitiche più ricche, quelle di Ferrara e Venezia, si accollavano, ripartendole fra tutti, le spese per ottenere i cambi a favore dei loro coscritti: ma davano anche aiuti economici alle famiglie dei requisiti (a Ferrara 30 lire mensili) e pagavano la pensione di velite o guardia d’onore (notoriamente i ceti emergenti e le minoranze razziali, etniche,
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religiose, femminili, omosessuali tendono a considerare il servizio militare, specialmente in corpi o ruoli prestigiosi, come un’opportunità per ottenere il riconoscimento e il sostegno dello stato alla loro emancipazione e affermazione sociale). I contingenti del 1805-06 e l’Armata di riserva (14 luglio 1805) Il 20 giugno, contemporaneamente all’istituzione della guardia reale, Napoleone chiese al viceré di aumentare il contingente da 6.000 a 10.000 uomini, metà dei quali riservisti. In realtà il 24 giugno il corpo legislativo approvò, insieme alla leva del 1805, anche quella del 1806, entrambe con un contingente di 6.000 uomini. Il 9 settembre fu però decretata una leva di 1.000 uomini sui coscritti delle leve 180305 esonerati per bassa statura, destinati alle prime 8 compagnie (122) di volteggiatori. Il 14 luglio fu organizzata la riserva e furono emanate le nuove istruzioni sulla leva. All’armata di riserva erano destinati 14 capitani, 34 tenenti, 213 sottufficiali e i fucili necessari. I riservisti formavano un plotone per cantone, una compagnia per distretto e un battaglione per dipartimento. I battaglioni, comandati da capitani richiamati, erano assegnati a coppie a ciascun reggimento di fanteria: Serio e Mella al 1° leggero, Adda e Lario al 2°, Mincio e Adige al 1° di linea, Basso Po e Panaro al 2°, Agogna e Olona al 3°, Alto Po e Crostolo al 4°, Reno e Rubicone al 5°. Era concesso al riservista procurarsi, a proprie spese, l’uniforme del reggimento d’aggregazione. L’istruzione impegnava 40 giorni all’anno: per comune 1 domenica al mese; per plotone 10 giorni ogni semestre; per battaglione 5 giorni a quadrimestre. Le istruzioni sulla leva (14 luglio 1805) Le istruzioni sulla leva riflettevano la riforma gerarchica degli enti locali attuata con la legge 8 giugno 1805, che aveva accresciuto i poteri del prefetto e ripristinato i viceprefetti (aboliti il 27 marzo 1804). La direzione della leva era tolta ai giurì centrali (formalmente aboliti il 1° agosto 1805) e restituita ai prefetti, affiancati da consigli composti da un consigliere prefettizio sorteggiato e dall’ufficiale di gendarmeria. La presidenza dei consigli distrettuali era attribuita ai viceprefetti, mentre la commissione distrettuale di leva era sostituita da commissioni cantonali presiedute dal podestà. Primi a marciare erano i morosi che non si erano avvalsi dell’amnistia. I comuni erano tenuti a rimpiazzare i propri disertori rientrati nel circondario: era accordato il congedo al requisito che faceva arrestare un disertore.
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Emigrazione, indolenza, repressione … e la sesta amnistia Il 19 luglio il prefetto del Reno segnalava, more solito, l’espatrio dai distretti di Castiglione e Terme in Toscana, il 21 quello del Serio dai distretti di Ambria e Brembilla a Venezia (ceraioli e droghieri), in Piemonte (carbonai) e a Genova (dove varie famiglie bergamasche possedevano 200 posti di “caravana” o facchino portuale, utilizzati direttamente o affittati a giornata). Il 18 agosto il prefetto del Serio aggiungeva di non aver abbastanza gendarmi per impedire l’espatrio: inoltre bisognava andarci piano con la caccia ai disertori, col rischio di mandarli a infoltire le bande di “grassatori di strada” e “assassini”. Il 25 agosto il prefetto del Lario ripeteva che a spingere i coscritti alla fuga in Svizzera era “il timore vicendevole che i coscritti precedenti nella lista cantonale fossero evasi” (un’interessante applicazione alla leva del cosiddetto “dilemma del prigioniero”). Con circolare del 28 settembre Pino segnalò ai prefetti che nella maggior parte dei cantoni i funzionari non procedevano col dovuto zelo e impegno, in particolare i cancellieri del censo (segretari delle commissioni cantonali di leva) che trascuravano le indagini opportune all’arresto dei renitenti. Con decreto n. 130 del 14 ottobre i refrattari furono equiparati ai disertori e i “padri conniventi” assoggettati al pagamento della multa. Il ricetto del latitante fu a sua volta equiparato all’istigazione alla diserzione, punita dall’art. 8 della legge 13 febbraio 1798 con sanzioni più gravi del semplice favoreggiamento. Immancabilmente, quaranta giorno dopo, il 24 novembre, arrivò la sesta amnistia … La leva del 1806 e la revisione generale delle esenzioni La leva del 1806 ebbe inizio in gennaio, ma in marzo il ministero registrava che la maggior parte dei dipartimenti era ancora in debito per le leve del 1803-05. Il 15 aprile il prefetto del Mella scriveva che la gendarmeria era incompleta, la guardia nazionale non organizzata per mancanza di fucili e istruttori e la linea inaffidabile (“non sembra orientata a favorire la coscrizione”). Le troppe amnistie avevano “radica(to) la massima che si po(teva) emigrare sicuri di tornare a casa pochi mesi dopo”, le prediche dei preti erano “nulle e inefficaci” e i medici diagnosticavano “l’epistassi che facilmente esenta tutti gli agiati”. Il prefetto non poteva destituire i funzionari negligenti perché non trovava come sostituirli, dal momento che tutto il ceto dirigente
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era antimilitarista (“i facoltosi non amano il sistema militare e non ispirano l’esecuzione della leva ai loro dipendenti”). Il 19 aprile il ministero della guerra informava quello dell’interno che la guardia nazionale si rifiutava di prestarsi alle operazioni di leva o lo faceva “con molta negligenza”. Il 23 marzo a Brisighella la leva era andata a vuoto perché la guardia nazionale si era rifiutata di appoggiare la gendarmeria e i coscritti avevano così potuto scappare tutti in Toscana. Il 19 maggio Caffarelli riferiva al viceré che i consigli dipartimentali non denunciavano i refrattari. Con circolare del 29 maggio chiarì che il premio del congedo per l’arresto di un renitente spettava solo ai requisiti direttamente interessati, non quindi ai veliti e guardie d’onore e ai militari di leva già alle armi. L’11 giugno, da Saint Cloud, Napoleone scrisse al viceré che nessun reggimento italiano arrivava a 2.000 uomini e ancora il 26 gli intimò di rinforzare le truppe italiane, “ridotte a nulla”. Il 4 agosto, insieme ad una leva di mille uomini nel Veneto (v. infra), si decretò la revisione generale di tutte le esenzioni concesse dal 1803. Furono presi di mira in modo particolare coloro che erano stati dichiarati inabili per via del gozzo, allora diffusissimo soprattutto in montagna, ma il 3 settembre il direttore della sanità militare, dottor Rezia, ammonì che il broncocele, anche incipiente, era veramente incompatibile con la vita miliare. Il problema non era il gozzo, ma le visite mediche “superficiali e troppo benevole”, che acquisivano i certificati compiacenti esibiti dai coscritti e non verificavano i casi di simulazione, come rilevava in novembre una circolare del ministro ai comandi di corpo e di deposito. In ogni modo la revisione fu efficace, tanto da ridurre il debito, al 1° gennaio 1807, a sole 1.026 unità (inclusi i dipartimenti veneti). La leva del 1806 in Veneto La legge di coscrizione fu estesa al Veneto il 4 agosto e al territorio di Guastalla il 1° ottobre, non però all’Istria e alla Dalmazia dove la leva era già stata decretata il 31 maggio secondo i sistemi locali (v. Tomo II, P. II, §. 3). Lo stesso 4 agosto fu decretata una leva veneta di soli 1.000 uomini, tenuto conto dell’incerta entità della popolazione e dell’assoggettamento dei comuni litoranei all’iscrizione marittima. L’annuncio della leva provocò tumulti, specialmente in Carnia e nelle vallate tra i Berici e le Prealpi vicentine, con vere insurrezioni nel distretto di Orgiano e nelle valli di Trissino e Valdagno, dove gli abitanti si ritirarono in montagna. Per reprimere i disordini fu necessario inviare circa 9.000 soldati francesi.
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Il consiglio comunale di Venezia fu subito tempestato dalle richieste di esonero individuale e collettivo. Il 29 agosto respinse la petizione presentata a favore ei loro figli da un gruppo di ex-militari veneti, il 10 settembre e il 24 novembre quelle analoghe dei comuni di Burano e Murano in cui si allegava l’“inabilità” e la “mala riuscita nell’uso dell’armi” dei pescatori (a Pellestrina, a fine ottobre, furono le mamme a scendere in piazza contro la leva). Anche il comune di Venezia, però, chiese di essere esonerato dalla requisizione militare, o almeno da quella terrestre, richiesta respinta il 25 ottobre dal ministro della guerra. Venezia ci mise otto mesi per saldare la sua quota di 31 requisiti. Il 22 ottobre il prefetto tentò di mollare la grana al commissario generale di polizia, suggerendogli di convocare i requisiti senza specificare il motivo e farli subito accompagnare al deposito militare, senza dare nell’occhio e usando qualche riguardo alle persone facoltose. Il 4 febbraio il ministro gli scrisse indignato che nel suo dipartimento più d’ogni altro “i soli poveri sono spediti ai corpi”. L’11 la commissione cantonale replicò che non era colpa sua se le “persone più colte” si erano fatte iscrivere mentre “la gente del volgo, o per ignoranza o per negligenza”, era finita nella lista dei morosi primi a partire. Di costoro, peraltro, si ignorava non solo il domicilio e l’indirizzo (indicato talora a pagamento da “confidenti”), ma addirittura l’esistenza in vita, dato il caos che regnava nelle carte di stato civile (50 volumi di “anagrafi di polizia” e pacchi di “specifiche delle parrocchie”). L’11 febbraio, col benestare del prefetto, la commissione deliberò infine, contra legem, di estrarre il contingente solo dai comparsi. Il 22 marzo uno dei medici incaricato della visita di leva si dimise dal “disgustoso e difficile impiego” a seguito delle continue ingiurie rivoltegli dai parenti dei coscritti giudicati abili. Oltre all’“epistassi”, imperversavano tra i ceti abbienti “debolezza”, “mancanza di respiro”, “cefalee”, “dilatazioni dell’aorta”, “tendenza ereditaria alla tisi”, “minacciata nostalgia”, “dolori artritici”. Secondo una lettera anonima al giudice di Chioggia alcuni andavano a Ferrara a farsi innestare “artificial tigna” e munirsi di relativo certificato medico.
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C. L’assuefazione: le leve del 1807-09 Il regolamento sulla leva del 1807 Nel novembre 1806 Caffarelli presentò una proposta di legge per la riforma della leva, ma gli emendamenti proposti dal consiglio di stato finirono per affossarla. Si preferì pertanto attuare la riforma per via di semplice regolamento, approvato con decreto del 3 febbraio 1807 e poi riunito in testo unico con la legge di coscrizione e il decreto del 4 agosto 1806 e pubblicato il 21 novembre 1807. I punti fondamentali della riforma erano: a) il decentramento delle liste dai cantoni ai comuni; b) la riduzione delle classi a due (la I includente i nati nell’anno e la II tutti gli altri) e c) la sostituzione della selezione in base alla data di nascita col pubblico sorteggio, un sistema socialmente percepito come più imparziale e controllabile. In tal modo si cercava di ridurre il più possibile il senso collettivo e soggettivo d’ingiustizia, principale causa e giustificazione della renitenza. Annualmente, in ottobre, il comune ripartiva i soggetti – secondo la situazione individuale e separatamente per ognuna delle due classi – in 5 liste: I esenti per legge, II inabili, III morosi e assenti (“primi a marciare”), IV obbedienti senza eccezione, V figli unici, con fratello alle armi e ammogliati (“ultimi a marciare”). Le liste comunali, tenute esposte per la prima settimana di novembre per consentire i reclami, erano esaminate dalle commissioni cantonali sotto l’ispezione dei viceprefetti, i quali ricevevano i reclami per errori od omissioni, disponevano le opportune visite mediche di controllo (effettuate in pubblico, salva la decenza, da medici “probi e capaci” estranei al cantone) e rivedevano le liste, portando nella III coloro che avessero simulato malattie o difetti, esibito falsi certificati medici o non si fossero presentati alla visita cantonale. Gli autolesionisti erano denunciati al consiglio dipartimentale che li teneva in arresto sino a destinazione a servizi al seguito dell’armata. Il sorteggio doveva effettuarsi il giorno successivo alla restituzione al comune delle liste approvate dal viceprefetto, in presenza delle autorità municipali, dei parroci, del comandante della gendarmeria o di altro militare delegato e degli iscritti alle ultime tre liste debitamente convocati. Il sindaco procedeva poi, per ogni lista e nel loro ordine, alla numerazione progressiva di schede corrispondenti al numero degli iscritti, alla loro introduzione nell’urna e alla loro estrazione, a turno, da parte degli stessi iscritti. Fissato così il “rango” di ciascuno nella graduatoria, si determinava il contingente comunale. Qualora il
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designato non fosse presente all’estrazione, si designava il successivo, inviando però una lettera di requisizione alla famiglia dell’assente. I volontari non erano più computati a sconto del contingente, il termine per avvalersi del beneficio della sostituzione era ridotto a ventiquattrore e il supplente doveva essere scelto fra gli appartenenti alla stessa classe non sorteggiati. Il censimento dei soggetti alla leva e il contingente del 1807 Per la prima applicazione del regolamento, le liste furono approntate dai comuni dal 1° al 20 febbraio 1807, con i seguenti risultati: Tab. 4 - Soggetti alla leva (20.2.1807) Categorie Soggetti alla coscrizione di cui I classe (1788) di cui II classe (1784-87) di cui esenti (I lista) di cui inabili (II lista) Requisibili Requisibili III lista (primi a marciare) IV lista (obbedienti senza eccezione) V lista (ultimi a marciare) III e IV lista sui soggetti alla leva Contingente attivo 1807 sulla III e IV lista Contingente attivo 1807 sulla sola III lista
Numero 181.830 62.082 119.748 25.510 32.431 123.889 123.889 17.620 58.836 47.433 76.456 4.500 4.500
% 100.00 34.14 65.86 14.03 17.83 68.13 100.00 14.22 47.49 38.28 42.00 5.88 25.57
La leva del 1807 fu decretata l’11 gennaio, con un contingente di 9.000 uomini, metà dei quali di riserva, ripartito fra i dipartimenti con decreto del 28 gennaio. L’aumento quantitativo era dato dall’aggiunta del contingente veneto (1.307 attivi), variando di poco il carico dei vecchi dipartimenti (2.245 a Nord e 958 a Sud del Po). Tab. 5 – Ripartizione dei contingenti per dipartimento (1806-1807) Ctg S 1806
Ctg A 1807
Agogna (NO) 326 Crostolo (RE) 168 Adige (VR) Lario (CO) 296 Panaro (MO) 156 Adriatico (VE) 48 Adda (SO) 76 Reno (BO) 353 Bacchiglione (VI) 172 Olona (MI) 482 Basso Po (FE) 141 Brenta (PD) 206 Alto Po (CR) 315 Rubicone (RA) 140 Piave (BL) 282 Serio (BG) 270 Tagliamento (TV) 73 Mella (BS) 276 Passariano (UD) 219 Mincio (MN) 204 Lombardia 2.245 Sud del Po 958 Veneto 1.000 Ctg A = Contingente Attivo (4.510) + altrettanti di riserva. Ctg S = Straordinario.
249 104 227 171 94 189 273 1.307
Dipartimenti
Ctg A 1807
Dipartimenti
Ctg A 1807 Dipartimenti
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Con l’aggiunta del debito precedente (1.026 al 1° gennaio) si trattava di reclutare 5.500 uomini, appena il 3 per cento dei soggetti alla coscrizione, il 4.5 dei requisibili e il 31 degli iscritti nella III lista. Naturalmente, però, nessun iscritto alla III lista era tanto pazzo da presentarsi al sorteggio, con una probabilità su tre (e la quasi certezza, calcolando che gli altri non si sarebbero presentati) di essere estratto, condannandosi così al servizio militare solo per evitare pene future comminate assai raramente. Anche l’“obbedienza senza eccezione” aveva i suoi limiti e così, tra il dubbio di essere estratti e la certezza, non presentandosi, di ricevere la lettera di requisizione, anche gli iscritti alla IV finivano spesso per scegliere la latitanza, con l’effetto di scaricare non di rado parte dell’onere sulla V lista. Alla renitenza si aggiungeva poi la diserzione. Il 27 gennaio il ministero rilevava che un terzo delle reclute disertava ai depositi subito dopo la vestizione, facilitava dalla vicinanza delle frontiere. Sempre in gennaio si segnalava che in territorio pontificio i salari si erano fortemente abbassati, per la concorrenza fatta ai lavoratori locali dai rifugiati italiani. Malgrado ciò il 9 agosto, rispondendo da Monza all’ennesimo sollecito imperiale, il viceré scriveva che la leva, pur restando “bien loin” dai risultati desiderati, era andata meglio del passato. Tanto che l’11 lo stesso Caffarelli suggeriva a Napoleone di mettere in congedo semestrale, a rotazione, un terzo della forza attiva. Naturalmente lo scopo era di risparmiare sulle spese militari, ma una volta tornata a casa la truppa avrebbe toccato con mano che tutto sommato viveva meglio sotto le armi e si sarebbe affezionata alla vita militare. L’invio della prima Divisione in Spagna archiviò la proposta di ordinamento “a larga intelaiatura”. Il 30 ottobre fu decretata la leva per il 1808, aumentando il contingente a 10.000 uomini, metà dei quali di riserva. La leva non bastava però a portare l’esercito al “gran completo” di 44.777 uomini previsto dall’ordinamento 1808: al 15 novembre gli effettivi erano infatti soltanto 33.732, con un deficit di 11.041, oltre il doppio del contingente per l’armata attiva. Resistenza, truffe e benevolenza giudiziaria per la renitenza A Milano non volevano capire le difficoltà dei poveri prefetti. Il 6 marzo il viceré respinse la richiesta di manforte del prefetto del Lario, annotando in margine “il est ridicule de tenir 800 hommes sur pied pour en avoir 200”. A scrivere “ridicule” il povero Eugenio l’aveva
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imparato da Napoleone, a forza di leggerlo in risposta alle scuse e alle richieste che lui gli inviava da Milano. Il 28 aprile la segreteria di stato sollecitò il deferimento al tribunale speciale per la difesa dell’ordine pubblico gli abitanti di Trescore (Serio) che si erano opposti all’arresto di due renitenti e l’8 maggio comunicò l’approvazione vicereale per le misure adottate a Montefiorino (Panaro), segnalando però che a Formignano (Rubicone) si era fatta resistenza a mano armata contro i gendarmi inviati ad arrestare un renitente. In aprile la polizia scoperse a Como una banda di truffatori che prometteva di rimpiazzare i requisiti “a prezzi modici”, facendosi addirittura pubblicità con stampati. Essendo in debito della sua quota di guardie reali, nel Lario le sostituzioni erano bloccate. Per eludere il blocco, la banda aveva pensato di sfruttare la norma che accordava il congedo al requisito che faceva arrestare un disertore: ingaggiava perciò un uomo di paglia tra la teppa milanese, gli faceva assumere il nome di qualche vero latitante e lo mandava dal cliente, il quale doveva consegnarlo alle autorità fingendo d’averlo arrestato. Oppure, più semplicemente, il finto latitante si costituiva alle autorità liberando l’ultimo estratto del comune. Naturalmente, dopo il termine pattuito, il teppista era libero di disertare e acchiapparlo era difficile dal momento che si era arruolato sotto false generalità. Da un’indagine su 5 corpi (2° e 4° di linea, dragoni Napoleone, artiglieria a cavallo e Zappatori) emerse che su 565 sostituti arruolati dal maggio 1803 a tutto il 1806, ben 470 avevano disertato (ottantatre su cento). D’altra parte sottrarsi alla leva non era considerato socialmente riprovevole. Secondo il rapporto della 1a divisione del ministero sulle “operazioni di coscrizione e polizia dal 1° gennaio 1805 al 30 giugno 1807”, i tribunali ordinari competenti per le contravvenzioni alla legge di coscrizione tendevano a considerarle “con occhio di pietà”, anzi “un giusto sforzo per sottrarsi a un indebito carico”. Il 15 novembre si stimavano 12.000 renitenti, ma al 30 novembre le condanne per tale reato erano state solo 1.316 e il 23 il prefetto del Lario testimoniava che, malgrado il gran numero di casi, nessuno aveva mai pagato una sola lira delle multe comminate dalla legge. La leva del 1808 e l’ambigua assuefazione sociale alla coscrizione Grazie anche alla riforma Caffarelli, nel 1808 sembrò che la società italiana cominciasse finalmente ad abituarsi alla leva. Il 10 gennaio la segreteria di stato informò Aldini che le notizie sull’andamento della leva erano “consolantissime”, non essendosi riscontrata quasi nessuna resistenza. Positivo anche il rapporto inviato il 12 gennaio dalla
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provveditura della Dalmazia, dove il grosso contingente di 2.670 decretato nel 1806 fu levato solo nel 1807: quello del 1808 era di 2.050. L’11 maggio la legge di coscrizione fu estesa ai 3 nuovi dipartimenti delle Marche, con un contingente di 1.020 requisiti (585 assegnati al 4° di linea, 266 al 7°, 40 ai dragoni Regina, 60 ai dragoni Napoleone, 20 all’artiglieria e 49 ai veliti). La leva provocò insorgenze e tumulti soprattutto nel Tronto, repressi con 17 fucilazioni (5 ad Ascoli il 18 ottobre e 12 a Fermo l’8 novembre). Fatta la legge, trovato l’inganno, dice un antico proverbio italiano. In realtà la società metabolizzò la leva quando riuscì a consolidare gli ammortizzatori, ossia i sistemi di elusione non traumatici, compatibili con l’interesse primario dello stato, che non era di assicurare equità e uguaglianza, ma soltanto di approvvigionare l’esercito di carne fresca da cannone. Il 29 aprile il prefetto del Bacchiglione segnalava la difficoltà di far osservare l’imparzialità dai pubblici funzionari. In agosto il podestà di Verona scrisse che la coscrizione era diventata “un oggetto di mercimonio” e che i sorteggi erano truccati a favore dei “facoltosi”, rendendo “pesanti” ai coscritti i decreti del governo e “inviso il sovrano legislatore” (cioè Napoleone!). Analoga la denuncia spedita sempre in agosto al viceré dal medico Luigi Bianconcini di Imola: ai soliti temi delle “doviziose famiglie” e dei “falsi attestati di malattie inesistenti”, il medico aggiungeva un tocco anticlericale (“frodi compiute con sottile avvedutezza dai parroci”, formando “capricciosi registri” e rilasciando fedi battesimali con date e nomi alterati). I depositi dei coscritti refrattari Invece di reprimere le frodi, il governo preferì inasprire le sanzioni nei confronti dei refrattari. Con decreto del 20 agosto 1808 furono dichiarati tali i coscritti non presentatisi dinanzi alla commissione di leva cantonale o al consiglio dipartimentale (nel giorno prescritto o nel termine di 20 giorni se legalmente assenti), evasi dal deposito di leva o che avevano abbandonato i convogli di trasferimento. La sanzione era elevata a 5 anni di servizio in uno speciale deposito correzionale e alla multa da 500 a 1.500 lire in rapporto al reddito familiare, rendendo i genitori responsabili del pagamento. La dichiarazione di refrattarietà era pronunziata dal prefetto, con deferimento del giudizio ai tribunali ordinari e pubblicazione della sentenza a spese del condannato.
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I condannati erano tradotti nei 3 depositi dei coscritti refrattari istituiti nelle fortezze di Mantova, Legnago e Palmanova e riuniti in compagnie di 160 divise in 16 squadre comandate da caporali scelti tra gli stessi refrattari dal comandante della piazza sulla terna proposta dal capitano. Il personale di inquadramento (1 capitano, 1 tenente, 2 sottotenenti, 1 sergente maggiore, 1 furiere e 8 sergenti) era fornito dai reggimenti di fanteria, con supplemento pari a un terzo del soldo. La tenuta prevedeva i capelli rasati, l’uniforme della fanteria senza distintivi e con la sola berretta da quartiere e il fucile senza baionetta, il trattamento la razione e il soldo del fuciliere, ma il prest (“danari da tasca”) era trattenuto a “massa” e impiegato per eventuali gratifiche ai caporali meritevoli. Erano alloggiati in caserme speciali con mezze forniture e permanentemente consegnati in caserma, uscendone solo inquadrati per servizio di fatica, esercizi o lavori o, eccezionalmente, da soli ma accompagnati da un sergente. Non prendevano parte agli esercizi e manovre della guarnigione né potevano aver contatti con essa. Le mancanze disciplinari erano punite più gravemente, la diserzione deferita ai consigli di guerra speciali e ogni altro delitto a quelli previsti dalla legge 3 novembre 1797. I coscritti erano impegnati ogni giorno o nell’istruzione o nei lavori in arsenale o di riparazione della fortezza: i migliori erano segnalati al generale di brigata incaricato dell’ispezione trimestrale e ogni semestre il comandate della divisione, in base alle note e al rapporto del capitano ammetteva i migliori a servire nei corpi. Nel febbraio 1810, a seguito di un esposto anonimo dei refrattari di Mantova, al capitano Antonio Castelli, comandante del deposito dal giugno 1809, furono comminati gli arresti per aver arbitrariamente inasprito il regime punitivo, vietando di affacciarsi alle finestre e di acquistare cibo con denaro proprio. Con decreti del 13 settembre e 4 ottobre 1808 le disposizioni sui coscritti refrattari furono applicate anche a quanti non avevano adempiuto agli obblighi relativi all’iscrizione marittima (v. Tomo II, P. III, §. 4B). Per cointeressare i comuni alla cattura dei renitenti, il 13 dicembre si decretò che i catturati fossero defalcati dal contingente comunale. In dicembre furono consegnati al governo francese 114 renitenti liguri catturati in territorio italiano. La leva del 1809 La leva del 1809 fu decretata il 24 ottobre 1808, con un contingente di 12.000 uomini, inclusi 2.346 dalmati. Il 7 gennaio il viceprefetto di
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Aulla (Crostolo) notava che per la prima volta nel suo distretto non si erano registrati renitenti (i 300 renitenti attribuiti a ciascuno dei cantoni di Villafranca e Fosdinovo erano frutto di errori commessi dalle rispettive commissioni di leva). Il lieve ritardo della coscrizione, scriveva il 19 gennaio il viceré, era dipeso solo dalla mancanza di panno per le uniformi. Il 29 gennaio – euforico per il buon esito della leva e per gli elogi di Napoleone ai soldati italiani, che nel 29° bollettino dell’Armata di Spagna erano stati dichiarati degni delle antiche legioni romane – Caffarelli annunciò ai colonnelli che tutti i 6.000 coscritti requisiti per l’armata attiva erano ormai ai corpi o in marcia per raggiungerli e raccomandò di destare l’“ardore marziale” dei nuovi soldati, “spingere e sollecitare” l’istruzione, “renderli sempre più attaccati all’ottimo governo”, “garantire” loro “che questa bella contrada non sarà più il teatro della guerra”, come appunto profetizzava il citato bollettino. Ad essere pignoli il successo della leva non era proprio completo, se a giugno restava ancora un debito di 500 uomini, pari a un dodicesimo del contingente. In ogni modo il 15 febbraio mancavano 13.000 uomini (sia pure coperti dai riservisti) al “gran completo” di 58.564.
D. Le leve del 1810-11 Le insorgenze del 1809 e le apprensioni per la leva del 1810 Inquieto per il crescente impegno in Spagna e per i venti di guerra con l’Austria, il 16 gennaio 1809, da Valladolid, Napoleone aveva scritto al fratello Giuseppe che l’Italia poteva fornire 80.000 uomini, il doppio cioè dei 38.000 effettivi in quel momento alle armi. Tuttavia le vittorie riportate su entrambi i fronti nel corso dell’anno attenuarono l’esigenza di truppe. A preoccupare erano invece le insorgenze scoppiate a ridosso del confine austriaco e in Romagna. Pilotati dagli austriaci o almeno collegati con le loro operazioni, in aprile i primi fuochi di guerriglia si erano spenti a seguito della ritirata austriaca, ma la resistenza tirolese li aveva riaccesi in giugno. Oltre all’insurrezione in Istria e Dalmazia, disordini e scontri si verificarono in un centinaio di località di 16 dipartimenti (quasi tutti quelli a Sud del Po e ad Est dell’Adige, più Lario, Mincio e Serio). A novembre il bilancio era di 2.675 arrestati, di cui 788 giudicati (513 assolti, 150 condannati a morte e 125 ai lavori
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forzati) e 1.500 detenuti in attesa di giudizio. Almeno 64 fucilazioni esemplari si ebbero a Bologna (29), il 18 maggio a Macerata (9), in luglio a Verona (13) e in agosto a Ferrara (13). Ma centinaia di latitanti andarono a ingrossare le bande di briganti che infestavano le strade e le montagne. Il sorteggio dei coscritti, con le emozioni che destava fra la gente e l’occasione di proselitismo che offriva alle bande, appariva un momento critico. Il 15 settembre il ministro inviò una preoccupata circolare ai prefetti invitandoli a vigilare contro i “sordi intrighi che invertono l’ordine della designazione e sotto pretesto d’assenza dei veri requisibili passano avanti”, ammonendo che la maggioranza dei refrattari era fuggita solo per essere stata chiamata quando non le sarebbe toccato. L’allarme era tale che il 19 settembre la 1a divisione del ministero arrivò a suggerire di rimandare di qualche mese la formazione delle liste, prevista per il 1° ottobre. I prefetti, poi, erano i primi a suggerire la massima prudenza. Quello del Reno scriveva il 14 novembre che i coscritti si davano latitanti prima ancora di ricevere la lettera di requisizione, specie “nelle comuni aperte e montane” ove l’avversione al servizio militare era “più decisa e generale” e la coscrizione era “odiosa” e “guardata con occhio d’orrore e disprezzo”. La richiesta di rinvio non fu accolta, ma in ogni modo non si parlò di aumentare il contingente, tanto più che col richiamo delle riserve l’esercito era stato completato e il 1° novembre 1809 contava 48.000 effettivi. Perciò per la leva del nuovo anno, decretata il 28 novembre, Napoleone confermò il solito contingente di 12.000. Respinse tuttavia l’unita proposta del viceré di un’ennesima amnistia. Tanta era la paura, che il 7 gennaio il ministero dell’interno invitò i prefetti a ricorrere nuovamente al clero per convincere i fedeli a dare a Cesare quel ch’era di Cesare. Lo stesso giorno il direttore generale di polizia chiese al ministero della guerra l’invio delle truppe nelle aree più inquiete e il rinvio del sorteggio nei comuni di montagna. La leva era infatti “una delle operazioni che più sogliono cagionare fermento nella generalità del regno”. I ceti popolari “ignoranti” si erano “fatti oltremodo audaci dalle vicende del caduto anno, nel quale dovettero le autorità, prive in gran parte di forte assistenza, mostrare delle debolezze”. I briganti “attendevano da lungo tempo la leva militare siccome un’occasione propizia per accrescersi e spargere più estese turbolenze” e avrebbero sicuramente approfittato “dell’avversione generale dei contadini per soddisfare con maggior animo la loro malvagità”. Con circolare del 12 gennaio il prefetto del Tagliamento ricordò ai parroci che dovevano parlare “in nome di Dio” e “nel suo nome inculcare rispetto, obbedienza, sommessione alle leggi”.
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Le previsioni furono smentite. La leva andò tanto bene che il 7 marzo si poterono concedere congedi all’esercito (esclusi venerei e scabbiosi). Il 3 giugno il ministro autorizzò il ricorso ai garnisaires in Alto Adige e Bacchiglione, dov’erano le bande più pericolose di latitanti e il 14 giugno emanò le istruzioni ai prefetti per preparare la lista generale dei refrattari a partire dal 1802 (quello del Reno rispose di non poterlo fare per la confusione e il disordine delle carte e la mancanza di annotazioni, registri, repertori e archivi). Il 16 agosto fu riformata la concessione dei premi per l’arresto dei disertori. Il 24 giugno la legge di coscrizione fu estesa all’Alto Adige e il 25 novembre furono estratti 231 dei 260 requisiti, assegnati di riserva al 2° leggero (200), al 3° cacciatori (10) e ai coscritti della guardia (21). L’aumento del contingente (19 settembre – 14 dicembre 1810) La questione del contingente si ripropose il 19 settembre 1810, quando Napoleone stabilì per l’esercito italiano un obiettivo di 30.000 combattenti (un decimo della guardia reale) e 3.000 cavalli, con un treno di 104 pezzi, 500 cassoni e 2.500 cavalli. Il 20 ottobre il viceré spedì da Ancona il progetto di decreto sulla leva per il 1811 con un contingente di 12.000 uomini tra armata attiva e riserva più 1.400 marinai, aggiungendo nella lettera di trasmissione che in 4 anni si erano avuti 22.227 renitenti e 17.750 disertori. Erano le reclute a disertare: spediti all’estero e dopo 15-18 mesi di servizio i soldati non disertavano più. Il 27 ottobre Napoleone firmò il decreto aumentando però il contingente terrestre a 15.000. Il tasso ottimale di reclutamento – scrisse al viceré – era infatti del 15 per mille, ossia, con ferma media quinquennale, 3.000 reclute l’anno per milione di abitanti. Con oltre 6 milioni, l’Italia doveva produrne almeno 18.000. Tuttavia l’inasprimento del tasso di reclutamento fu bilanciato dai decreti del 17 e 24 novembre, che disponevano l’invio dei refrattari arrestati non più al deposito di Mantova ma ad un corpo di nuova costituzione (il 4° RI leggero) e la concessione di 4.428 congedi semestrali, ripartiti fra i corpi e assegnati ai soldati meritevoli. Il 5 ottobre era stata inoltre decretata una revisione sanitaria generale di tutti i militari alle armi, da parte di commissioni dipartimentali di 3 o 5 medici: la revisione, conclusa in gennaio, accertò tuttavia soltanto 30 inabili fra tutti i militari di truppa di stanza nel regno. Il viceré non accolse la proposta del ministero della guerra (10 dicembre) di sollevare i cancellieri del censo dai compiti di segreteria delle commissioni cantonali passandoli ai segretari comunali del
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capoluogo. Il ministro delle finanze Prina era favorevole, perché i cancellieri del censo erano oberati di lavoro: ma la ragione per cui il generale Danna voleva sostituirli era che i cancellieri manipolavano le operazioni di leva a favore dei “facoltosi”. Le commissioni di leva furono riordinate con decreto del 14 dicembre e con altro del 20 gennaio agli ufficiali superiori membri dei consigli di leva e a quelli inferiori comandanti delle riserve furono accordate, per il solo periodo delle operazioni di leva, indennità rispettive di lire 7 e 5 al giorno. Con decreto del 14 dicembre la requisizione delle guardie d’onore, veliti reali e coscritti della guardia fu devoluta direttamente ai prefetti, incaricati di curare la formazione delle liste degli idonei e il sorteggio, restituendo i non estratti alle liste cantonali. Gli estratti non godevano del beneficio di sostituzione. Con decreto 17 gennaio 1811 i veliti al 5° anno di servizio furono esentati dalla pensione. La leva del 1811, i renitenti “francesi”e quelli italiani Il sorteggio dei 7.500 requisiti per l’armata attiva si svolse il 1° febbraio 1811. Il 28 il viceré riferiva a Napoleone che nei primi dieci giorni 14 dipartimenti avevano già assolto il debito e che a metà mese 7.000 reclute erano in marcia per i corpi. Era stato però necessario attingere anche alla V lista. I dipartimenti migliori erano Alto Adige, Brenta, Basso Po, Adriatico, Crostolo, Mincio, Panaro, Passariano e Piave. La leva francese nei dipartimenti italiani annessi all’Impero provocò ondate migratorie in territorio italiano. Il 7 gennaio la segreteria generale del ministero informò la direzione generale di polizia che i coscritti del Taro (Parma) scappavano con le chiatte e i battelli del Po. Il 22 febbraio il prefetto di Genova segnalò che numerosi refrattari liguri lavoravano in Brianza come spaccalegna. Sembra che almeno le dimensioni del fenomeno fossero insolite: certo andarono crescendo, se con decreto del 19 luglio le pene previste per la ricettazione dei disertori e renitenti italiani furono estese anche alla ricettazione dei “francesi”. In caduta libera, invece, il tasso di renitenza italiano. Secondo il rapporto “storico” del 20 agosto 1811 sulle operazioni dell’ufficio personale, coscrizione e polizia militare del ministero erano solo 1.537 in 20 dipartimenti (esclusi Metauro, Mincio, Serio e Tagliamento), con punte più elevate nel Lario, Musone, Rubicone e Tronto. Limitato il fenomeno, si passò ai rastrellamenti (“perlustrazioni”), incentivati da premi di lire 27 per l’arresto dei latitanti (decreto 7 settembre).
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In definitiva, tra volontari, veliti, guardie d’onore, disertori graziati e renitenti costituiti o catturati, nel 1811 l’esercito recuperò altri 5.000 uomini, oltre ai 7.500 levati per l’armata attiva, a 7.500 riservisti e 2.000 marinai, per un totale di ben 22.000 uomini. Al 1° agosto 1811 l’effettivo toccò i 54.433 uomini, con un incremento di 9.642 rispetto all’agosto precedente, sia pure scendendo tre mesi dopo a 50.573 (pari all’effettivo del giugno 1809). Tra agosto e novembre fu ridotto del 4 per cento anche il “gran completo” (da 72.248 a 69.249) ma il deficit (solo in parte coperto dai riservisti) aumentò dal 25 (17.815) al 27 per cento (19.000). Tab. 6 – Forza completa ed effettiva al 1° novembre 1811 Armi e Corpi S. M. Guardia F. di linea F. leggera R. Dalmata B. Coloniale Fanteria Cavalleria Artiglieria Genio Gendarmeria Veterani Topografi Trasporti U. Fuori Corpo Totale
Gran Completo Totale (Ufficiali) 238 (238) 6.037 (239) 28.224 (735) 16.128 (420) 3.469 (92) 897 (22) 48.718 (1.269) 5.480 (235) 4.077 (193) 1.124 (74) 2.052 (91) 1.125 (41) 22 (22) 345 (8) 31 (31) 69.249 (3.710)
Totale 238 4.883 18.165 12.115 2.667 872 33.819 4.345 1.838+ 1.030 2.052 1.017 22 178 31 49.453+
Forza effettiva Nel Regno All’Estero 238 4.883 9.534 8.811 5.652 6.463 2.653 14 41 831 17.880 16.119 3.244 1.101 952+ 886 747 283 2.052 1.017 22 178 31 31.244+ 18.389
Cavalli 691 249 36 63 348 3.848 1.389 12 463 315 7.415
Il codice Fontanelli (Istruzione generale del 10 novembre 1811) Con circolare del 22 e istruzioni del 25 settembre Fontanelli: • • • • •
vietò il rimpiazzo (a qualunque titolo) delle reclute che avessero già compiuto 4 mesi di ferma (“per non defraudare l’armata del grado d’istruzione già acquisito dal militare con l’immissione di reclute inesperte”); abolì il computo dei refrattari catturati a sconto del contingente (stabilito il 13 dicembre 1808), con l’effetto di disincentivarne l’arresto da parte del comune; dispose di portare nella III lista (primi a partire) gli ammogliati non conviventi o che avessero contratto matrimonio solo civile o con donne molto anziane; consentì, nel termine di tre giorni, la sostituzione tra coscritti mediante scambio di numero; concesse alle reclute di chiedere il trasferimento all’arma preferita una volta completato il contingente dell’arma di prima assegnazione.
Il ministro fece inoltre redigere un testo unico delle norme sulla leva, emanato il 10 novembre 1811 e poi stampato a Milano il 30 settembre 1812 col titolo Istruzione generale sull’esecuzione della
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legge sulla leva (e nuovamente nel 1813 con aggiunte e modifiche). Lo scopo era di fornire agli organi di leva un repertorio di tutte le norme e della relativa casistica, ma le dimensioni (ben 454 articoli e 60 moduli e tabelle) indicano che il lavoro era un collage più che un codice in grado di semplificare e accelerare l’attività esecutiva. Questa era al contrario appesantita dall’obbligo di trasmettere al ministero, a cadenza trimestrale, mensile e perfino quotidiana una quantità di stati di situazione che superava le effettive possibilità dell’amministrazione periferica. Le osservazioni dei prefetti (inverno 1812) Su richiesta di Fontanelli, nell’inverno del 1812 i prefetti e vice prefetti inviarono al ministero le loro osservazioni sull’applicazione delle istruzioni ministeriali. Circa il funzionamento degli organi di leva, emersero: • • •
a) difficoltà di riunione plenaria degli organi collegiali (commissioni cantonali e consigli dipartimentali); b) difficoltà dei consiglieri del censo, per eccessivo carico di impegni, ad adempiere alle funzioni di segreteria delle commissioni; c) difficoltà pratica dei viceprefetti di esercitare i poteri ispettivi e decisionali.
Tra i modi di evasione degli obblighi di leva: • • • • •
a) connivenza degli ordinari dei seminari con le vocazioni fittizie (ritardo nelle ordinazioni maggiori e uscita al compimento del 25° anno di età, ossia alla scadenza degli obblighi di leva); b) aumento crescente dei matrimoni fittizi, con disordini sociali e con l’effetto, in taluni comuni, di svuotare la IV lista e di dover requisire anche padri e sostegni di famiglia davvero meritevoli d’esenzione; c) spostamento della residenza da piccoli comuni alle città, in modo da diminuire le probabilità di estrazione; d) commissione di lievi reati per trovarsi in carcere al momento della leva; e) autolesionismo (coltivazione o mancata cura di malattie esimenti, in particolare la tigna; amputazione di dita o falangi della mano sinistra).
Tra le misure eccessivamente rigorose: • •
computo delle figlie femmine (considerate dai prefetti solo una “passività”) ai fini dei benefici concessi ai sostegni di famiglia; requisizione indiscriminata degli assenti per motivi di lavoro privi di passaporto o non rientrati nel termine, sia pure raddoppiato nel 1811 da 20 a 40 giorni (ad esempio gli spazzacamini altoatesini si riunivano nel Reggiano per andare poi negli altri dipartimenti; accadeva spesso che genitori e parenti andassero a piedi sino in Toscana e a Napoli a riprendere i congiunti coscritti e
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presentarli alla leva: procurarsi il passaporto era materialmente impossibile per le poverissime famiglie del Veneto); mancata previsione del caso di figli di italiani naturalizzati all’estero e soggetti alla coscrizione francese (molte famiglie di agricoltori si spostavano d’estate dal Reggiano al Parmense per esercitarvi la mezzadria; molte famiglie maceratesi si erano trasferite a Perugia e Foligno, cioè in territorio francese).
Circa la lotta alla renitenza si suggeriva: • • • •
a) di ripristinare gli incentivi ai comuni (computo a sconto del contingente dei volontari e dei renitenti catturati, benefici aboliti nel 1805 e 1811); b) di inasprire le pene (condanna ai ferri anziché al servizio in fortezza); c) di attuare rappresaglie contro la famiglia (ad esempio con sanzioni a carico dei proprietari che accolgano a mezzadria la famiglia di un renitente); d) di rafforzare le misure di polizia (con spedizioni mirate sui nascondigli di montagna e rafforzamento della custodia e scorta).
Altre osservazioni riguardavano infine i gravi disordini sociali creati dall’istituto della sostituzione. Il costo di un supplente, inclusivo delle spese notarili, era mediamente di 1.000-1.400 lire milanesi, versati in unica soluzione o in rate mensili: ma i sensali pretendevano da 50 a 100 zecchini anticipati, quando non approfittavano dell’ingenuità e della disperazione della famiglia per truffe ed estorsioni. Se pagati in unica soluzione, i supplenti sperperavano tutto in crapule e postriboli finendo all’ospedale come luetici oppure disertavano col malloppo. Se il compenso era mensile, una volta congedati cercavano di mantenere il tenore di vita precedente con sistemi criminali. Infinite liti forensi nascevano poi dagli accordi di assicurazione reciproca stipulati tra coscritti alla vigilia del sorteggio per procurarsi un supplente. Quanto alla tassa di rimpiazzo, di fatto era inesigibile, per la difficoltà di accertare il reddito minimo imponibile (1.000 lire annue).
E. Le leve del 1812-13 Le leve del 1812-13: 24.000 coscritti e 8.000 ex-disertori Essendosi decisa la mobilitazione per la guerra contro la Russia il contingente del nuovo anno, decretato il 25 ottobre 1811, fu elevato a 15.000 italiani (9.000 attivi e 6.000 di riserva) e 1.000 dalmati. La leva della parte attiva fu eseguita dal 15 al 31 dicembre. Al 1° gennaio 1812 il debito residuo (1.255) era inferiore ad un sesto del contingente e l’effettivo salì a 62.166 (un mese dopo a 63.120, inclusi 2.550
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ufficiali). La riserva fu chiamata dal 15 al 31 marzo. Il 12 maggio Fontanelli avvisava il viceré che la caduta del tasso di renitenza era bilanciata da un aumento delle diserzioni non appena giunti al corpo. In vista della leva del 1813, l’11 maggio i 18 depositi reggimentali furono così riordinati: • • • • • • • •
Guardia Reale: Foro Bonaparte; Reggimenti fanteria di linea: 1° Como, 2° Mantova, 3° Venezia, 4° Ancona, 5° Padova, 6° Macerata, 7° Bozzolo; Reggimenti fanteria leggera: 1° Trento, 2° Lugano, 3° Vicenza, 4° Chioggia; Reggimento Dalmata: Venezia; Reggimenti cacciatori a cavallo: 1°-4° Lodi; Reggimenti Dragoni: Regina Cremona, Napoleone Milano; Artiglieria: Pavia; Zappatori, Invalidi e Trasporti: Mantova.
Il 22 luglio il contingente attivo di 9.000 uomini previsto per la leva di dicembre, fu così ripartito: • • • • •
750 Guardia Reale (50 guardie d’onore, 200 veliti, 500 coscritti); 5.400 Fanteria di linea (400 al 5° RI, 500 al 6°, 600 al 1° e 7°, 900 al 4°, 1.200 al 2° e 3°); 1.600 Fanteria leggera (400 al 1°, 1.200 al 3°); 600 Cavalleria (400 cacciatori, 100 Regina, 100 Napoleone); 650 Armi tecniche (400 artiglieri a piedi, 50 a cavallo, 100 Zappatori e 100 trasporti).
Durante l’estate vennero effettuate perlustrazioni nei dipartimenti del Bacchiglione, Alto Adige e Lario, che fruttarono 900 renitenti e disertori, riuniti in deposito a Mantova e ad Ancora. Il 9 settembre questi ultimi furono destinati di rinforzo alla guarnigione di Corfù. Visto il successo delle perlustrazioni, ne fu ordinata una generale in tutto il Regno, che si svolse dal 15 settembre al 15 novembre portando all’arresto di altri 6.178 disertori e renitenti e alla costituzione di altri 1.000, per un totale di 8.078 recuperati (nel Brenta erano 67 renitenti e 311 disertori). Il 21 settembre, da Mosca, Napoleone firmò il decreto per la leva del 1813, con un contingente di 15.000 (9.000 attivi e 6.000 riservisti) più 500 dalmati. L’aliquota attiva fu levata dal 1° al 15 dicembre. Il decreto imperiale del 22 dicembre vietò, a pena di reclusione da 3 mesi a un anno, lo scambio di supplenti tra l’Italia e la Francia. Sommando i requisiti del 1812 e 1813 (24.000), i volontari (1.600), i latitanti recuperati (8.078) e i dalmati (1.500) l’armata attiva ebbe a
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disposizione altri 35.178 uomini. L’aumento fu però integralmente assorbito dalle perdite della Russia (20.000) e altrove (14.061). Oltre metà di queste ultime era costituito da diserzioni e cassazioni dai ruoli (7.339), oltre un sesto dai morti (2.419), oltre un quinto dai condannati (2.977, inclusi 20 a morte) e meno di un decimo dai congedati (1.167) o passati al ritiro (159). Al 31 dicembre il completo era di 79.935 uomini per l’esercito e 9.000 della marina, l’effettivo di 71.690 (“non dedotte le perdite avvenute all’armata”) e 7.832. Nell’effettivo figurava ancora la forza partita in primavera per la Russia (20.846). Dedotta quest’ultima, restavano all’esercito circa 50.000 uomini, di cui 15.000 all’estero (10.000 in Spagna, 2.000 nell’Elba e in Corsica, 2.000 a Ragusa e Cattaro e 1.200 a Corfù). La forza presente nel Regno era dunque di soli 35.000 uomini, due terzi reclute e un terzo ex-disertori, dai quali bisognava trarre altre truppe per la Germania. Tab. 7 – Forza effettiva al 1° marzo 1813 Armi e Corpi Guardia Reale Fanteria di linea Fanteria leggera Dep. F. Cremona R. Dalmata R. Coloniale (Elba) Fanteria Cavalleria Artiglieria Genio Trasporti Forze Mobili Cavalli Gendarmeria Veterani Dep. Refrattari G. Prefettizie F. Territoriali Cavalli Totale Esercito Cavalli
Regno 1.926 16.581 6.898 1.257 1.410 26.116 2.964 3.281 412 182 34.911 3.533 2.101 1.813 442 5.382 9.738 709 44.649 4.242
Corfù 819 819 276 122 1.217 23 1.217 23
Ragusa 2.071 2.071 147 2.218 5 2.218 5
Spagna 5.036 2.946 7.982 838 441 206 9.652 874 9.652 874
G. Armée 472 3.935 1.969 5.904 1.526 427 144 179 8.652 2.066 8.652 2.066
Totale 2.398 26.371 13.884 1.257 1.410 2.098 44.990 5.328 4.572 884 361 58.563 6.501 2.101 1.813 442 5.382 9.738 709 68.301 7.210
La leva anticipata del 1814 Il 31 dicembre Melzi scrisse al viceré che l’opinione pubblica considerava lo stato delle cose “molto affliggente” e “la sola idea di una nuova campagna militare spaventa(va) tutti”. Ma era proprio un’altra campagna, stavolta in Germania, che attendeva l’Italia nel primo semestre dell’anno. Per accordo italo-francese, il Regno era escluso dalle leve anticipate. Ma Napoleone stava battendo col piede il suolo dell’Impero: tra autunno e inverno chiamò ben 673.000 uomini,
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inclusi 20.000 dei dipartimenti italiani, aggiungendo alla leva del 1813 (137.000) la leva anticipata del 1814 (240.000), recuperi sulle sei leve precedenti (180.000), la guardia nazionale mobile (78.000) e altre categorie (38.000). Un decreto imperiale del 22 dicembre 1812 vietò inoltre, sotto pena di reclusione, il procacciamento di “cambi” francesi per i coscritti italiani. L’Italia non poteva tirarsi indietro, né bastavano i “doni gratuiti” od “offerte spontanee” da parte delle città, comuni e corporazioni (in realtà sollecitati dal governo con varie forme di pressione). In gennaio Fontanelli propose di chiamare alle armi 30.000 uomini, metà sulla leva anticipata del 1814 e il resto con recuperi sulle leve precedenti. L’intervento di Melzi, che il 13 febbraio ebbe un incontro col ministro, ottenne di congelare per il momento il recupero delle classi precedenti e il 26 Napoleone decretò il solo anticipo del 1814, con un contingente di 15.559 uomini, di cui solo 2.061 di riserva (inquadrati in 24 compagnie dipartimentali). Inoltre fu concesso ai comuni che avevano offerto “cavalli montati” (ossia completi di cavaliere equipaggiato) di computarli a sconto del proprio contingente. Con circolare del 17 gennaio Fontanelli aveva intanto provveduto a regolare il modo di riscossione delle tasse e multe militari. Più tardi fece arrestare una banda di medici e chirurghi che esoneravano “a denari”. Il 23 marzo il direttore generale di polizia segnalò disordini nell’Adda, dove funzionari del governo erano stati minacciati di morte ed erano comparse bande di disertori provenienti dal Tirolo per reclutare i renitenti. Il 28 aprile il generale comandante del Lario, Adda e Canton Ticino segnalò che a Grosio erano stati strappati gli avvisi della leva e a Sondalo c’era tensione. Ma negli altri dipartimenti l’estrazione si fece regolarmente il 22 aprile e il 1° maggio Melzi scrisse al viceré che la leva procedeva abbastanza bene. L’8 Fontanelli comunicò che poteva dirsi conclusa, avendo ormai 14.473 coscritti raggiunto i depositi. Nel contingente dovrebbero essere inclusi anche i 2.016 uomini (con 3.689 cavalli, 3.048 bardature, 2.070 paia di scarpe e 2.323 camicie) che al 1° aprile risultavano offerti dai comuni e che furono reclutati sui base volontaria con premio fino a 1.500 fiorini. (Le altre offerte erano: 574.750 lire, 25.427 libbre d’argento, 1.828 di corame, oltre 1 milione di metri di tela o panno, 100 granate da ventiquattro, 600 palle da cannone, 100 sciabole e 120 canne da fucile). Lo stesso ministero aveva messo allo studio l’ipotesi di creare uffici militari dipartimentali per il reclutamento di supplenti. In giugno (a leva ormai conclusa!) tale Carlantonio Biffi chiese l’autorizzazione,
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non concessa, di aprire un’agenzia di collocamento vigilata (“ufficio indizi”). Il 23 giugno Fontanelli autorizzò invece il ricorso al sistema dei garnisaires in caso di sospetta “connivenza” dei genitori (a carico dei quali erano paga e alloggio del soldato “in tansa”). Accusata di inefficienza, il 30 giugno la gendarmeria comunicò di aver arrestato 3.463 disertori e 437 “fautori di diserzione” in diciotto mesi. L’ordine del giorno del 17 agosto comminava la fucilazione, quali “disertori al nemico” a tutti i militari italiani che avessero disertato a partire da quel momento. L’8 settembre Fontanelli promise ai refrattari costituiti di mandarli al Reggimento Coloniale (1 battaglione all’Elba e 1 nuovo in Corsica) o al 4° leggero (deposito a Chioggia e reparti distaccati in Illiria). La leva straordinaria dell’11 ottobre 1813 Le ostilità con l’Austria ebbero inizio il 20 agosto e dopo alterne vicende in Illiria, il 5 ottobre l’Armata d’Italia ripassava l’Isonzo iniziando il ripiegamento verso la linea dell’Adige. Il 5 ottobre il viceré mobilitò 1.960 riservisti (12 compagnie dipartimentali e 2 di guardie di Milano) e 1.400 reclute di fanteria per formare 3 reggimenti provvisori (1° lombardo, 2° emiliano e 3° marchigiano) da schierare sull’Adige. Ancora una volta Melzi scese in campo: il 10 ottobre ammonì Eugenio che la partenza per il fronte dei riservisti milanesi aveva provocato l’“abbattimento generale”. Era niente, però, rispetto alla leva straordinaria, ormai divenuta inevitabile. Il viceré firmò il decreto l’11 ottobre, dal quartier generale di Gradisca, unendovi un proclama in cui esortava gli italiani a difendere l’indipendenza del Regno nel “sacro nome” dell’Italia. La leva era di 6 uomini per comune, uno per ciascuna delle prime classi delle sei leve 1807-12, incluse dunque le classi 1787 e 1788 che, avendo compiuto il 25° anno di età, non erano più, per legge, soggette alla coscrizione. Era inoltre sospeso il beneficio della V classe. Il sorteggio doveva avvenire entro quindici giorni. Il contingente era di 15.000 uomini di cui: 500 cacciatori della guardia reale, 9.000 fanti, 2.000 cacciatori a cavallo, 800 dragoni, 700 artiglieri, 100 Zappatori, 100 carrettieri, 300 cannonieri di marina, 500 guardie di Milano, 200 di Venezia e 800 dipartimentali. Tuttavia con circolare riservata del ministro della guerra ai prefetti, i contingenti dipartimentali furono aumentati di un quarto (per un totale di 18.170) per compensare la mancata leva in quelli invasi. Il contingente dell’Alto Adige fu ad esempio aumentato da 671 a 783, quello del Brenta da 729 a 911 (145
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Padova città, 179 del distretto, 256, 156 e 175 dei distretti di Este, Piove di Sacco e Camposampiero). Il 16 ottobre Melzi protestò per l’inclusione degli ammogliati. Il 19 il viceré gli rispose che c’era bisogno di uomini e che stavolta la leva non era fatta per “conquistare” ma per “difendere il proprio territorio” e gli ammogliati avevano “un interesse ancora maggiore degli altri” alla difesa del proprio paese. Tuttavia con decreto del 31 i requisiti della V lista furono destinati alle compagnie “stanziali”. Il 23 Melzi scrisse che la coscrizione incontrava ovunque “la più grande repugnanza”. Lo stesso giorno un diarista milanese annotò che il costo di un supplente era salito anche a 5 o 6.000 lire. Le due circolari ai parroci (17 ottobre e 12 novembre) emanate dal ministro del culto ebbero scarso effetto. Il 19 novembre il prefetto del Lario biasimava la freddezza dimostrata dai parroci: qualcuno aveva letto ai fedeli le circolari, ma “con tono equivoco” e sabotando “sordamente gli effetti”. Il 31 ottobre la gente di Piadena (Mantova) attaccò a sassate la scorta a un convoglio di reclute facendone fuggire la maggior parte. Il 6 novembre la direzione delle rassegne comunicò che 30 coscritti di Viganella (Agogna) si erano armati “nel disegno d’opporsi alla leva” andando a far proseliti in Valle Antrona. Il 26 il generale Villata riferiva un ammutinamento del 3° RI di linea: mai – osservava – il coscritto si era dimostrato “più indisposto al servizio”. L’amnistia mascherata da arruolamento volontario di guerra Già con decreti del 30 agosto da Villach e del 30 settembre da Planina in viceré aveva disposto la formazione, a Mantova, di un battaglione di 570 bersaglieri volontari reclutato in tutto il Regno. Per compensare lo scarso esito della leva, l’11 novembre Fontanelli concesse di fatto un’amnistia, offrendo ai renitenti e ai disertori, inclusi quelli della leva in corso, uno speciale arruolamento volontario di guerra, incentivato con la garanzia di essere posti in congedo entro tre mesi dalla liberazione del territorio occupato. Il decreto istituiva a tal fine 2 depositi a Milano e Bologna per quelli a Nord e a Sud del Po. Questo decreto disperato e truffaldino, unto di retorica patriottarda, era uno schiaffo ai requisiti obbedienti, vincolati a ferma quadriennale in tempo di pace e illimitata in caso di guerra. Certo si contava vergognosamente sul fatto che molte reclute, già partite per il fronte, avrebbero tardato a conoscere la beffa; ma quelle del deposito di leva di Bologna lo vennero a sapere subito e giustamente rifiutarono in massa di partire se non fossero stati accettati come volontari di guerra.
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L’effetto sui latitanti fu poi ambiguo: una parte si presentò, ma la maggioranza vide nel provvedimento la conferma che il governo era con l’acqua alla gola e che dunque conveniva aspettare. C’erano però anche spinte contrastanti. Il 19 novembre Paolucci, incaricato di organizzare il 2° reggimento di Bologna, riferiva che, su 930 volontari già arruolati, 58 avevano chiesto di passare alla linea, essendosi sparsa voce che gli austriaci intendevano fucilare i volontari catturati. C’erano anche giovani borghesi di sentimenti patriottici allettati dall’opportunità di arruolarsi solo per il tempo necessario a cacciare il nemico: ma l’8 dicembre il senatore Brunetti segnalava che erano dissuasi dalla decisione di accettare come “volontari” perfino i detenuti condannati a pene infamanti per gravi reati comuni. In definitiva furono formati 4 dei 6 battaglioni volontari previsti, impiegati per la difesa del Sempione. Al 16 giugno 1814, alla vigilia di essere amalgamati con la linea della nuova fanteria “austro-italiana”, risultavano 1.946 arruolati, di cui 216 disertati e 1.245 (inclusi 52 ufficiali e 113 sottufficiali) ancora presenti. Quanto ai bersaglieri istituiti in settembre, il 1° gennaio erano 152 e il 16 giugno ne restavano 127 (con 2 ufficiali e 4 sottufficiali). I “deputati in missione” e le notizie dalle prefetture A Milano avevano davvero perduto la testa. Giocando al senato romano e alla convenzione francese, il 19 novembre il consiglio dei ministri decise di inviare presso i 12 dipartimenti non invasi dieci deputati e senatori, incaricati di animare lo spirito pubblico, stimolare i volontari e armare la guardia civica. Invece di animare la resistenza, l’effetto fu che i rapporti allarmistici dei tremebondi “deputati in missione” demoralizzarono del tutto la classe dirigente. Altrettanto catastrofiche le notizie dalle prefetture. La vicinanza del nemico rende i disertori “pertinaci nel loro delitto” (4 dicembre, Verona). “Il rimbombo del cannone, il passaggio dei feriti” aumentano i renitenti (10 dicembre, Ferrara). Per mancanza di vestiario le reclute sono state rimandate a casa rafforzando l’idea di un cambio imminente di governo (dicembre, Musone e Tronto). Le reclute fuggono dal deposito, 147 disertori su 396 reclutati (19 e 29 dicembre, Cremona). Per formare il contingente è stato necessario ricorrere ai soldati “in tansa” (24 dicembre, Bergamo). Nel Serio 146 reclutati su 1.076 dovuti, senza contare 94 renitenti e 520 disertori delle leve precedenti (10 gennaio, Pietro Custodi da Brescia). Per mancanza di forze riunito solo metà del contingente dell’Agogna, quasi nessuno a Domodossola
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e Arona, male anche a Novara e Vigevano, in passato esemplari (13 gennaio, Novara). Le perquisizioni a Scandiano e Correggio fallite per la fuga dei coscritti (14 gennaio, Reggio). I giovani si sottraggono perché pensano che il governo non abbia la forza di reagire (15 e 16 gennaio, Reno e Serio). In Valle Imagna la gente appoggia i briganti (21 gennaio, Serio). Il contingente francese non stava meglio: “dalmates, croates, étrangers ont tous déserté”, i reggimenti sono stati completati con i coscritti romani, toscani, parmensi e liguri, anche quelli italiani hanno molti disertori (il viceré all’imperatore). La rinuncia alla leva anticipata del 1815 Il 9 e l’11 gennaio Fontanelli inviò circolari ai prefetti per stimolare l’arruolamento volontario e chiedere il loro parere sulla possibilità di chiamare alle armi anche la leva del 1815 (classe 1795). Panaro, Reno e Musone lo esclusero in termini drastici. Intanto, col rientro di 5.778 uomini dalla Spagna (31 dicembre), il 15 gennaio, dedotti 14.473 assediati a Osoppo, Palmanova, Venezia e Legnago e 11.575 feriti e ammalati, l’Armée d’Italie aveva ancora 45.025 combattenti, di cui 19.438 italiani, con 4.100 cavalli e 52 cannoni. Altri 3.000 italiani si trovavano inoltre all’Elba, in Corsica e a Corfù. Con queste forze non indifferenti, appoggiate all piazza di Mantova, il principe Eugenio poté coprire almeno la Lombardia fino all’armistizio del 17 aprile. *
*
*
Bilancio della coscrizione
In definitiva quanti furono i coscritti reclutati dall’Esercito italiano? Il totale è inferiore al totale dei contingenti: ma non di molto, perché, come sappiamo, il debito dei dipartimenti doveva essere comunque colmato. L’unica leva non completata fu quella dell’ottobre 1813. In 11 anni e mezzo, dal giugno 1803, furono requisiti, per l’armata attiva o di riserva, 178.380 coscritti o iscritti alla leva di mare: Tab. 8 – Totale contingenti requisiti 1803-1813 Periodi
Attivi
Contingenti Italiani Riserva Totale
Leva di Mare
% popolaz.
Istria Ctg %
Dalmazia Ctg %
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1803-05 28.200 3.000 31.200 0.82 1806-09 20.030 18.010 38.040 1.921 0.70 1810-12 31.512 24.935 56.447 3.749 0.90 1813 31.818 1.961 33.779 2.397 0.55 Totale 111.560 47.906 159.466 8.067 3.00 * La riserva del 1812 (6.034) chiamata con D. 28 febbraio 1812
61
1.330 1.330
1.5 1.5
7.066 2.500 9.566
3.0 1.0 4.0
Nel totale sono inclusi i contingenti requisiti della guardia reale (571 guardie d’onore, 2.034 veliti e 3.099 coscritti) e 2.016 cavalli montati del 1813. Non sono invece inclusi 2.059 guardie e veliti volontari, i 1.600 volontari del 1812 e la maggior parte dei 2.098 volontari del 1813 e dei 12.078 latitanti catturati o consegnati a seguito delle retate del 1811 e 1812, dal momento che i renitenti e le reclute disertate al deposito dovevano essere rimpiazzati dai cantoni e poi dai comuni. Tale cifra compensa però il mancato completamento della leva dell’autunno 1813 e delle leve dalmate (il cui gettito effettivo è stimato da Zanoli a soli 8.000 uomini). Si può pertanto ritenere che dal 1803 al 1813 siano entrati nell’Armata attiva solo 170.000 uomini, inclusi 8.000 dalmati. Con l’aggiunta di 5.000 ufficiali e dei 10.000 in servizio nel 1803, si ha un totale di 185.000, di cui un dodicesimo esteri.
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Tab. 9 – Contingenti dipartimentali - leve 1806-1809 Anno di riferim.: I classe di leva.: Decreti di leva: Agogna (NO) Adda (SO) Lario (CO) Olona (MI) Alto Po (CR) Serio (BG) Mella (BS) Mincio (MN) Lombardia Crostolo (RE) Panaro (MO) Reno (BO) Basso Po (FE) Rubicone (RA) Emilia – R. Adige (VR) Adriatico (VE) Bacchigl. (VI) Brenta (PD) Piave (BL) Tagliam. (TV) Passariano (UD) Veneto - Friuli Metauro (AN) Musone (MC) Tronto (AP) Marche CTG ATTIVO CTG RISERVA Istriani Dalmati Marina
1806 1786 24.06 1805 552 130 494 814 516 456 470 344 3.776 282 298 598 406 404 1.988 236 236 3.000 3.000 -
1806 1786 04.08 1806 48 172 206 282 73 219 1.000 1.000 770 -
1807 1787 11.01 1807 652 152 592 964 630 540 552 408 4.490 336 312 706 282 280 1.916 498 208 454 342 188 378 546 2.614 4.510 4.510 560 2.670 1.230
1808 1788 30.10 1807
4.500 4.500 2.050 228
1808 1788 11.05 1808 435 322 263 1.020 1.020 -
1809 1789 24.10 1808
TOT. CTG
6.000 6.000 2.346 463
20.030 18.010 1.330 7.066 1.921
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Tab. 10 – Contingenti dipartimentali - leve 1810-1814 Anno di riferim.: I classe di leva.: Decreti di leva: Data d’estrazione: Agogna (NO) Adda (SO) Lario (CO) Olona (MI) Alto Po (CR) Serio (BG) Mella (BS) Mincio (MN) Lombardia Crostolo (RE) Panaro (MO) Reno (BO) Basso Po (FE) Rubicone (RA) Emilia – R. Adige (VR) Adriatico (VE) Bacchigl. (VI) Brenta (PD) Piave (BL) Tagliam. (TV) Passariano (UD) Veneto – Friuli Metauro (AN) Musone (MC) Tronto (AP) Marche Alto Adige (TN) TOT. CTG ATTIVO
1810 1790 28.11 1809 1.2.10
1811 1791 27.10 1810 1.2.11
1812 1792 25.10 1811 1.12.11
6.000
416 102 361 675 424 369 387 276 3.010 215 211 505 214 263 1.408 358 198 384 285 167 311 333 2.036 289 240 180 709 336 7.499 7.501 15.00 0 500 1.001 4.000 -
CTG RISERVA TOT. LEVE
5.440 11.440
Dalmati Marina Amnistiati Cavalli montati Volontari 1813
500 2.748 -
500 123 434 809 509 442 464 332 3.613 257 253 607 256 316 1.689 430 237 463 341 199 374 401 2.445 347 288 215 850 403 9.000
1813 1793 21.09 1812 1.12.1 2 500 123 433 816 509 442 464 332 3.619 244 253 602 256 316 1.671 430 237 463 341 199 374 426 2.470 347 288 215 850 403 9.013
1814 1794 27.02 1813 22.4.1 3 762 171 675 1.060 763 659 697 462 5.249 311 331 923 419 543 2.527 617 449 701 525 267 613 627 3.799 671 438 393 1.502 571 13.648
6.034 15.000
6.000 15.013
1.961 15.609
1.000 -
500 2.397 8.078 - (2.016) -
07-13 1787 11.10 1813 19.10
TOT. CTG
1.076
894
911
783 2.496 18.17 63.330 0 - 26.936 18.17 90.266 0 2.500 6.146 - 12.078 - (2.016) 2.098 2.098
Tab. 11 – I contingenti dell’Ato Adige (1810-14) Leve 1810 1811 1812 1813
Contingente Attivo Ris.va Tot. GR 260 260 21 336 296 632 30 63 403 270 673 16 10 403 268 671 16
Assegnazione Fanteria Altri Corpi 200 R - 2°RILG 10 3°CC 225 A – 1°RILG 30 – 3°CC | 30 – 1°BEM 103 R – CDR 10 – RAP | Art., 1°RILN 315 A – 4°RILN 25 – 4°CC | 29 – DNAP 194 R – 5°RILN 10 – RAP | 6 BZ – 6 EM 287 A – 5°RILN 20 – DG CC 208 R – DG FTR 50 – Treno 60 R – CDR 20 – 1°BEM
Ilari – Reclutamento e coscrizione 1800-1815
1814 07-13 Tot
571
100
783 2.496
1.194
671
- 328 A – 3°RILG 100 R – CDR 783 - 3.690 156 840 A | 665 R
64
100 – DREG 100 – Treno 85 CC, 129 Dragoni
Ilari – Reclutamento e coscrizione 1800-1815
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Tab. 12 – Distribuzione dei contingenti fra i Reggimenti di fanteria (Schneid) Dipartimenti 1805 1806 1807 1808 1809 1810 1811 1812 1813 Agogna 1,2,3,1L 4 1 2 1 3 6 3 3L Adda 1L 1L 3L 1 7 3L 3 3L Lario 2,4,1L,2L 1L,2L 3L 5 7 5 6 5 3L Olona 2,3,1L,2L 3 2,5 1,1L 7 4 3 6 3 Alto Po 1,2,4,1L 4 5 3 3L,5 1L 7 3L 3 Serio 3,4,5,1L,CB 4 1L 3L 3L 1 3 5 5 Mella 2,3,1L,CB CB 2L 2 2L 3 7 2 3L Mincio 1,2,4 2,CB 1L 1L 2 2L 2 3L 2L Crostolo 1,2,4,2L 1 1 1 1L 1L 1L 1L 1L Panaro 1,2,4,1L,2L 1 2L 2L 3 1 1L 1L 5 Reno 1,2,5,1L,2L 5 4 2L 2L 2L 3L 1 2 Basso Po 1,2 5 4 4 2L 2L 2L 1L 6 Rubicone 3,5,1L 1 2 3L 2L 1 4 7 1L Adige 1,2 CB 2 3L 3 3L 2 6 4 Adriatico 3 4 5 4,CI 1 1L 4 2L Bacchigl. 5 2 4 5 4 5 2L 1 Brenta 2 3 1 2 2 4 2L 7 Piave CB 3 3 1 2L 2L 4 1 Tagliam. 3,CB 3L 5 3 7 2 2 2 Passariano 4 4 3 1L 4 5 7 6 Metauro 4 7 1 3 2 Musone 1L 7 4 5 3 Tronto 5 3L 1L 7 2 Alto Adige 2L 1 4 4 1,2,3,4,5,6,7 = Reggimenti di linea. 1,2,3,4L=Reggimenti leggeri. CB = Cacciatori Bresciani.
Tab. 13 – Distribuzione dei contingenti fra i Regg.ti di cavalleria (Schneid) Dipartimenti 1805 1806 1807 1808 1809 1810 1811 1812 Agogna DN .. DR DR,2C DR DR,3C DR DR,3C Adda .. 3C 3C Lario 1C .. C 2C DN,DR DR DR DR,2C Olona DN,DR,1C .. DR,C DN,2C DN,DR 2C,3C 1C DR,1C Alto Po DR .. DN,C DN,C DN 1C 3C DN,3C Serio DR,1C .. DN DR,C DR,1C 3C DR,3C Mella 1C .. DR DR 1C DN,2C 1C DN,3C Mincio DN,DR .. C 1C NP 1C,3C 3C 2C Crostolo DR,1C .. C NP,1C 1C,2C 2C,3C 3C 3C Panaro 1C .. DR DR,1C DN,1C 1C,3C 3C 1C Reno DN .. DN,C DR,2C DN 2C,3C 3C DN,2C Basso Po .. DN,C DR DN,2C 2C,3C 2C 1C Rubicone DN,DR .. DN,C DN,1C 2C 3C 2C 3C Adige DR,C DR,1C DN DN,3C DN DN,1C Adriatico 2C 3C 1C Bacchigl. DR DN,1C 1C 1C,3C 3C DR,2C Brenta DN DN DN,1C DN,3C 3C DR,2C Piave 2C 3C 1C Tagliam. DN,C DN,2C DN,DR 2C DR 1C Passariano DN,C DN,2C DN DR,2C DR DR,3C Metauro DN,DR 2C,3C 2C DR,1C Musone 2C 2C,3C 1C 3C Tronto DR,1C 1C 1C 3C Alto Adige 3C 3C DN,2C DN = Dragoni Napoleone. DR = Dragoni Regina. 1,2,3,4C = Reggimenti Cacciatori a cavallo.
1813 DN DR DR DR,1C DN,C DN DN C C DR DR,C C DR,C DN,C C C DR DN,C C DR,C C C C
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Da Storia Militare del Regno Murattiano, tomo I, pp. 281-337 5. RECLUTAMENTO E COSCRIZIONE (1806-15) *
A. La leva dell’un per mille (1806-08) Le leve borboniche del 1794, 1798 e 1805 Il sistema di reclutamento dell’esercito borbonico era incentrato sull’arruolamento volontario con premio d’ingaggio, integrato dal truglio, ossia il patteggiamento del servizio militare in sostituzione di pene detentive per reati lievi, e dalla leva complementare, in caso di guerra, fra i descritti nella milizia provinciale (cui si era fatto ricorso il 28 gennaio 1792). Le guerre contro la Francia determinarono però l’introduzione della coscrizione obbligatoria nei domini di qua dal Faro. Il 5 agosto 1794 furono disposti l’“allistamento” di 51.000 volontari e la leva per sorteggio (bussola) di un contingente di 16.000 scapoli dai 18 ai 45 anni, pari al 4 per mille della popolazione continentale, cominciando dalle famiglie più numerose ed escludendo gli iscritti nei ruoli dei volontari. Il 17 maggio 1796 furono chiamati alle armi 40.000 volontari allistati. Con regio editto del 24 luglio 1798, considerato “legge fondamentale” del regno, fu introdotto l’obbligo generale e personale di difesa armata della patria, dichiarando “effettivi soldati ascritti ai diversi corpi” i “giovani” dai 17 ai 45 anni, tenuti, se atti alle armi, a prestare servizio militare su richiesta del re, e l’11 agosto fu decretata una leva del 10 per mille (40.000), estesa agli ammogliati e alle famiglie meno numerose, con obbligo delle comunità di corrispondere alle reclute (volontarie o “bussolate”) un premio di 10 ducati (elevato a 15 per i coscritti con familiari a carico). Una nuova leva dell’8 per mille (32.000) sulle classi da 20 ai 40 anni (1785-1766), inclusi gli iscritti nei reggimenti provinciali e senza premio, fu decretata il 4 dicembre 1805. Si può stimare che almeno metà del contingente sia stata effettivamente reclutata nei due mesi successivi, antecedenti all’invasione francese. [v. Le Due Sicilie nelle guerre napoleoniche, I, pp. 216-232].
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Il rapporto al re Giuseppe del 12 settembre 1806 I coscritti trovati dai francesi a Capua, Napoli e Pescara furono rimandati a casa, mentre quelli catturati in marzo a Lagonegro e Campo Tenese furono considerati prigionieri di guerra e deportati in Alta Italia. I sei reggimenti nazionali costituiti in febbraio e giugno (questi ultimi solo per dare una sistemazione ai 200 ufficiali patrioti provenienti dal servizio francese o italiano) dovevano essere formati da militari di carriera del vecchio esercito e volontari, ma, constatata la difficoltà di reclutamento, fu necessario richiamare alle armi parte dei coscritti congedati. Con circolare del 10 settembre 1806 il ministro della guerra prescrisse agl’intendenti d’individuare le reclute delle precedenti leve borboniche. Secondo il rapporto ministeriale al re del 12 settembre, la leva del 1805 aveva apportato ai reggimenti borbonici «une très bonne espèce d’hommes», che, recuperata la loro libertà, erano tornati a casa. Continuavano però ad essere considerati dalla gente («dans le pays») come «appartenants à l’armée», sia per «les suggestions des ennemis» [forse alludendo all’ordine emanato da re Ferdinando il 12 agosto che dichiarava gl’insorgenti “soldati dei Reali Eserciti”], sia per «l’opinion même de l’établissement prochain de la conscription», che li faceva naturalmente considerare come i “primi a marciare”. Il ministro osservava inoltre, con buona dose di cinismo, che le reclute, in maggioranza appartenenti alla «classe des laboureurs et des petits propriétaires», erano anche “ostaggi” dati dalle famiglie allo stato a garanzia della loro fedeltà e sottomissione. Riferiva di aver già fatto partire gli ufficiali di reclutamento e di aver indirizzato ai generali comandanti delle province istruzioni con le principali disposizioni del regolamento francese sul reclutamento per coscrizione, assicurando che gli ordini e le istruzioni non contenevano annunci di nuove leve [per non provocare allarmismo e non alimentare l’insorgenza]. Dopo questa prima esperienza, concludeva il ministro, sarebbe stato facile esigere i contingenti necessari per mantenere i corpi al completo e anche per aumentarne il numero, qualora le circostanze l’avessero richiesto. I risultati furono però assai deludenti. Ordini più pressanti in merito al richiamo delle reclute furono indirizzati dal ministro agl’intendenti con circolari del 6, 12 e 22 novembre, ma infine, con decreto del 22 dicembre e regolamento provvisorio del 1° gennaio 1807, si dovette autorizzare il ricorso al vecchio e oneroso sistema del reclutamento per ingaggio con premio di 10 ducati, mettendo a disposizione degli ispettori di fanteria e cavalleria due modesti fondi di 1.000 ducati, sufficienti per appena 200 reclute. Non ci si faceva però illusioni: il 24 dicembre il ministro Dumas scriveva al capo di SM Berthier che i volontari erano
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pochi e quasi tutti disertavano dopo aver ricevuto il premio e il vestiario, che si affrettavano a rivendere. Partouneaux, che aveva caldeggiato l’amnistia e l’arruolamento degli insorti, dovette presto ricredersi: il 23 febbraio 1807, riferendo a Lamarque sulle loro diserzioni, esclamava «voilà donc le fruit de tant de soins détruit en un moment!» (senza contare l’ammutinamento del 14 marzo, represso nel sangue). L’ambasciatore francese a Napoli propose invece l’idea “filantropica” – caldeggiata nel 1801 a Milano da Teulié e Melchiorre Gioia – di arruolare gli orfani abbandonati. La determinazione del nuovo contingente di leva La ragione principale per cui il richiamo delle reclute borboniche si era rivelato impraticabile era che il contingente del 1805 era stato spalmato su ben 20 classi di età: un richiamo selettivo e casuale come quello delegato alle autorità locali era perciò ancor più arbitrario e iniquo di quanto fosse stato a suo tempo il sorteggio. Si decise perciò di correggere il sistema, restringendo il richiamo ai soli celibi e alle sole classi più giovani e limitando il contingente allo stretto necessario. Escluso il 2° di linea, destinato in Alto Italia e ad essere alimentato con detenuti politici, gli altri corpi nazionali di linea contavano al 15 gennaio 1807 circa 3.800 sottufficiali e truppa, pari in media al 30 per cento degli organici. Adottando una politica di gradualità, si pensò di portarli nel 1807 ai due terzi e di completarli nel 1808, reclutando due contingenti annuali di 4.365 uomini, pari all’un per mille della popolazione. Come si ricava dal rapporto fatto poi a Murat al suo arrivo a Napoli, la popolazione era stimata infatti a 4.263.466 abitanti – correggendo al ribasso le stime trasmesse dalle province, che davano un totale di 4.683.193. Si stimava inoltre che le classi più giovani contassero in media 20.000 celibi: considerando realistico un tasso di leva del 3 per cento (600 uomini) per ciascuna classe, per completare il contingente occorrevano sette classi, due in più delle cinque (20-24 anni) soggette alle leve francesi e italiane. Non volendo chiamare le due classi più anziane (25-26), si preferì operare l’estensione sulle due classi più giovani (18-19), reclutando il contingente del 1807 sulle 4 classi più giovani già assoggettate alla leva del 1805 (1782-85) e sulle 3 seguenti (1786-88). La misura non fu presentata come una nuova leva, bensì come un alleggerimento delle precedenti borboniche. Il Corriere di Napoli del 23 marzo dette notizia che il re, in visita a Manfredonia, aveva fatto liberare 30 ammogliati arruolati dal passato governo e nuovamente “arrestati” dalle autorità locali per servire nell’esercito. Il preambolo del decreto N.
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84, emanato il 29 marzo da Barletta, recitava: “la situazione della nostra armata, e le circostanze in cui ci troviamo, ci dispensano felicemente dalla necessità di continuare l’intero richiamo delle leve ordinate nel 1798 e 1805, per cui l’agricoltura, ed il commercio si priverebbe di circa 60 mila uomini, e si toglierebbero a molte famiglie gli unici loro sostegni; ed abbiamo riconosciuto, che invece di otto uomini a migliajo di anime, che le università debbono attualmente fornire in esecuzione di dette leve, un solo uomo a migliaio di anime è sufficiente al bisogno del nostro esercito”. La leva dell’un per mille (decreto 19 marzo 1807) Il decreto “riduceva” pertanto le due leve del 1798 e 1805 ad “una sola” dell’un per mille sulle sole classi dai 18 ai 25 anni, e concedeva la “restituzione alle loro famiglie” alle reclute [delle 16 classi più anziane] che non fossero già incorporate nell’armata. Il ballottaggio del nuovo contingente doveva essere effettuato dai comuni “in pubblico decurionato”. Erano eccettuati i maritati in epoca anteriore alla pubblicazione del decreto, i vedovi con prole, i figli unici e gli inabili al servizio militare per qualunque imperfezione. Era consentito ai comuni di liberarsi del sorteggio completando il proprio contingente con volontari e ai sorteggiati di liberarsi dal servizio personale mediante rimpiazzo: gli uni e gli altri restavano però garanti, per un quadriennio, dei volontari e dei cambi forniti all’esercito, con l’obbligo di rimpiazzarli in caso di diserzione (i comuni fornendo altri volontari o coscritti, i sorteggiati prestando personalmente il servizio militare). I decurionati erano autorizzati a ripartire tra i cittadini le spese delle operazioni di leva, gli indennizzi concessi ai volontari e la diaria di un carlino spettante alle reclute fino all’ordine di trasferimento nel capoluogo della provincia emanato dall’intendente. Quest’ultimo, verificate l’idoneità e l’insussistenza di eventuali eccezioni, consegnava le reclute all’ufficiale incaricato, che ne rilasciava ricevuta. L’estensione alle classi 1791-92 e la ripartizione provinciale L’impossibilità di eseguire la leva nelle due Calabrie a causa dello stato di guerra, fu compensata (con decreto N. 89 dell’11 aprile) con l’estensione della leva alle due classi più giovani, cioè i diciassettenni (1789) e i sedicenni (1790). Il decreto abolì inoltre, “come ingiusta e disonorevole”, l’immunità di cui storicamente godeva la città di Napoli. Non disponendo di censimenti aggiornati e affidabili, la ripartizione del contingente fra le province venne fatta sulla base della popolazione
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stimata: e poiché le varie stime divergevano anche di un decimo, le province meno popolose finirono per essere gravate più delle altre. L’iniquità della ripartizione era accresciuta dal fatto che la leva era fatta in realtà su una categoria (i maschi celibi delle classi 1782-90) la cui incidenza sul totale della popolazione variava anche di 1/3 da provincia a provincia: rapportando i contingenti provinciali alla stima dei celibi di leva (142.665 nelle province soggette, più 30.077 calabresi) trasmessa nel 1807 a Parigi (nel Tableau de la population du Royaume divisé par provinces selon l’ancienne division) emerge che l’incidenza, pari in media al 3 per cento, era inferiore in alcune province (Basilicata 2.57, Principato Citra 2.64, Bari 2.88) e superiore in altre (Principato Ultra 3.15, Terra di Lavoro 3.20, Distretto di Napoli 3.84). [Abbiamo potuto accertare solo i contingenti delle seguenti province: Terra di Lavoro 650, Principato Citra 473, Principato Ultra 408, Distretto di Napoli 147, Molise 240, Basilicata 410, Trani 350: quelli della Città di Napoli e delle altre cinque province – Abruzzi, Capitanata e Lecce – assommavano a 1.687]. Su 236.459 abitanti dei tre distretti della provincia di Napoli, i giovani in età di leva risultarono 16.435, pari a poco meno del 7 per cento. I requisibili erano però solo 12.617 (poco più dei tre quarti): 768 erano assenti da oltre tre anni, 299 soggetti alla leva marittima, 84 già arruolati, 2 allievi dell’accademia militare e 2.665 esenti a vari titoli (inclusi 3 medici o chirurghi, 47 ordinati in sacris, 507 maritati, 1.546 figli unici e 443 riformati). Il regolamento esecutivo Il regolamento esecutivo, pubblicato sul Monitore del 17 aprile (e poi ancora l’8, 15, 19 e 28 maggio), disponeva inoltre l’inclusione nelle liste di leva dei condannati, escludendo invece i curati, gli ordinati in sacris, gli allievi dell’accademia militare e del bureau topografico, i dottori e chirurghi, gli individui già arruolati (ma non le guardie civiche), gl’iscritti nella leva di mare, gli abitanti assenti da oltre tre anni e i militari in congedo assoluto. Stabiliva inoltre l’altezza minima di 4 piedi e 9 pollici (m. 1,54), la visita medica d’idoneità, l’obbligo dei comuni di rimpiazzare le reclute fuggite durante la marcia al deposito e disciplinava l’accordo privato tra il surrogato e il suo sostituto.
L’assegnazione del contingente ai corpi nazionali di linea Il regolamento assegnava le reclute di Abruzzi, Molise e Basilicata al 1° di linea, quelle di Capitanata, Terra d’Otranto e Principato Citra al 1°
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leggero, di Napoli e Terra di Lavoro al 2°, di Principato Ultra al 1° cacciatori a cavallo e di Bari al 2°. I reggimenti leggeri dovevano però cedere 600 reclute ai corpi tecnici (280 all’artiglieria e 320 agli zappatori), mentre quelli di cavalleria dovevano scambiare le loro reclute più basse con le più alte assegnate ai corpi di fanteria. Con lettera del 23 maggio il re modificò la ripartizione, stabilendo che il 1° leggero reclutasse negli Abruzzi, dov’era di guarnigione, con facoltà degli eventuali volontari di chiedere il congedo qualora il reggimento fosse trasferito in altra regione. Il 2° di linea, già trasferito a Mantova e forte in gennaio di 963 sottufficiali e truppa, era escluso dalla leva perché destinato ad essere completato con detenuti politici e criminali comuni, anche se sul Monitore del 28 aprile comparve un lungo articolo contro la pratica del truglio, in cui si perorava la leva come il sistema migliore di riabilitare lo stato militare agli occhi della popolazione. L’esecuzione della leva 1807 e la rinuncia alla leva per il 1808 Il Diario De Nicola registra al 20 giugno che era cominciata a Napoli «la bussola per la reclutazione dell’1 per mille: il popolino paga(va) 80 carlini l’esenzione, gli altri di più in proporzione alle sostanze». Le liste erano state predisposte dai commissari di polizia di quartiere in base ai soli registri parrocchiali, senza effettuare verifiche e con la palese ostilità dei parroci. Le reclute, frutto di retate notturne di vagabondi più che del sorteggio, furono rinchiuse nell’Albergo dei Poveri anziché allo storico deposito dei Granili, già usato per le leve borboniche, dove venivano invece avviati i contingenti provinciali. Come molte altre città, Sulmona evitò il sorteggio completando con volontari il suo contingente di 7 reclute. La facoltà di dare volontari accordata ai consigli municipali snaturava la coscrizione, risolvendosi in pratica in un decentramento del reclutamento per ingaggio, che sgravava l’erario accollando il costo agli enti locali, ma riduceva il controllo delle autorità militari sulla regolarità dei contratti e sulla qualità delle reclute e provocava enormi malversazioni e iniquità sociali, scaricando sui contribuenti poveri il costo dell’esonero dei figli dei potenti: i sindaci imposero infatti tasse arbitrarie per reclutare ex-briganti e cattivi soggetti che disertavano alla prima occasione o guastavano il corpo di assegnazione. In compenso il 9 aprile 1808 Saliceti chiarì che la prassi dei reggimenti di chiedere ai comuni non solo il rimpiazzo dei disertori, ma anche l’indennizzo del vestiario, era illegale, anche perché avrebbe ridotto l’interesse dei corpi a impedire la diserzione e avrebbe anzi indotto a specularvi.
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Alla fine dell’anno erano state incorporate solo 2.800 reclute, pari al 64 per cento del contingente: ne mancavano ancora 1.565, in ogni modo insufficienti per colmare il deficit di 8.207 mancanti al completo degli organici. La provincia di Napoli dette in un anno solo 208 reclute. Nel timore di disordini, su consiglio del ministro della guerra, il re decise di soprassedere alla leva del 1808. In compenso, con legge N. 97 del 2 marzo 1808, fu introdotto nel regno l’istituto francese dell’iscrizione marittima per il reclutamento degli equipaggi [v. tomo III] e si autorizzò l’arruolamento di detenuti per delitti d’opinione, assegnati ai corpi destinati alla Spagna: nel primo bimestre del 1808 furono spediti a Mantova 620 condannati per ragioni politiche, robusti e abituati alle fatiche. In un rapporto del marzo 1808, Lamarque citava ad esempio della «répugnance pour la discipline militaire», la diserzione di 40 coscritti lucani, unitisi ai briganti. Nel rapporto di aprile dalla subdivisione di Lagonegro, Desvernois sosteneva che non c’era stato ancora un solo sorteggiato tra i figli dei “galantuomini”, dei sindaci, dei decurioni o anche di un semplice proprietario «prépotent par la fortune»: i magistrati preposti al sorteggio non si facevano alcuno scrupolo di non mettere i loro nomi nell’urna e di far così ricadere il peso della coscrizione esclusivamente sui figli dei poveri braccianti, senza che alcuna autorità superiore, civile o militare, intervenisse per far cessare questa «criante et monstrueuse» ingiustizia. L’effetto era di spingere i giovani a darsi alla macchia e unirsi ai briganti che assicuravano loro protezione e benessere, finendo poi impiccati o fucilati, quando avrebbero potuto divenire buoni padri di famiglia se magistrati integri, degni di tale bel nome, avessero condotto il sorteggio con equità e senza favoritismi.
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B. La leva del due per mille (1808-09) Il rapporto di Saliceti al nuovo re Gioacchino (3 settembre 1808) Secondo il rapporto presentato il 3 settembre 1808 dal ministro Saliceti al nuovo re Gioacchino, l’«espèce de conscription» introdotta l’anno prima aveva fruttato in diciotto mesi 3.677 reclute, e ne mancavano ancora 688. Solo le province di Capitanata, Teramo e Chieti avevano completato il contingente; L’Aquila doveva dare ancora 2 uomini, la Basilicata 4, il distretto di Napoli 26, i due Principati 27 (Ultra) e 55 (Citra), il Molise 39, Trani 47 e la Terra di Lavoro 117, per un totale di 337, mentre la provincia di Lecce e la città di Napoli non avevano ancora fornito il rendiconto. Il ritardo era dovuto in parte ai «troubles» verificatisi in Basilicata e Terra di Lavoro, ma anche alla «négligence et faiblesse» degli amministratori, specialmente in Terra di Lavoro. Malgrado il bilancio deludente, Saliceti rappresentava la leva sotto una luce favorevole. Le stime demografiche facevano ascendere i requisibili (maschi celibi) a 189.000, in media 21.000 per ciascuna delle nove classi assoggettate; ed erano probabilmente anche di più, tenendo conto che le quattro province di Chieti, Teramo, Capitanata e Principato Ultra, la cui popolazione assommava a meno di un quarto del totale (1.029.264), ne avevano registrato 48.450, non compresi gli esenti. Applicando la stessa proporzione (4,7%) al complesso del regno si poteva infatti stimare una base di reclutamento di 228.000 individui [il citato Tableau del 1807 indicava però solo 171.700 requisibili, al lordo degli esenti, con un’incidenza del 3,5 sull’intera popolazione]. Sarebbe stato perciò facile completare i corpi nazionali (che avevano un fabbisogno di 9.341 uomini) «et d’avoir par la suite une conscription de 20.000 hommes, 10.000 pour l’armée active et 10.000 pour la réserve». Quanto ai corpi stranieri (corso, svizzero e africano) il deficit (2.685) poteva essere colmato con nuovi ingaggi. Le prime misure di Murat sul reclutamento (settembre–dic. 1808) Gli argomenti del ministro avevano però poca presa sul nuovo re. Nel 1803, quando comandava l’Armée d’Italie, Murat aveva tentato in ogni modo di sabotare la creazione di un’armata nazionale italiana perseguita da Melzi attraverso l’introduzione della leva obbligatoria, cercando invano di mettere in guardia Napoleone dai rischi politici che alla lunga ne potevano derivare per gli interessi francesi in Italia [v. Storia militare
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del Regno Italico, I, pp. 45-47]. Arrivato a Napoli con la ferma intenzione di aumentare il suo esercito e trovatosi a doverlo ricostituire quasi da capo per il trasferimento in Spagna dei due terzi della guardia reale e dei reggimenti nazionali, il nuovo re scartò l’idea di reclutarlo per coscrizione, ritenendola incompatibile con l’obiettivo politico di “conquistare i cuori e le menti” dei sudditi e di “voltare pagina” rispetto al passato. Il primo provvedimento di Murat circa il reclutamento dell’esercito fu così l’amnistia ai militari disertati dopo il 17 febbraio 1806, disposta con decreto N. 174 del 16 settembre 1808, “nella persuasione che la più parte di essi abbiano riconosciuto il proprio traviamento, e che il timore unicamente di vedersi condannati alle pene, che hanno meritato, li trattenga dal presentarsi”. Il decreto accordava un mese per fruire dell’amnistia, pena la punizione come disertori al nemico o capi complotto. L’amnistia era concessa non solo ai latitanti che si presentavano, ma anche ai detenuti non ancora giudicati e perfino a quelli che fossero stati arrestati prima della scadenza del termine. Gli amnistiati dovevano essere riuniti in distaccamenti provinciali e condotti direttamente ai loro reggimenti, se si trovavano nel regno, oppure al deposito di Napoli se i loro reggimenti erano all’estero. Non sembra però che l’amnistia abbia avuto l’effetto sperato, malgrado le circolari degli intendenti che invitavano i parroci a darne notizia. Il secondo provvedimento di Murat fu la leva di 2.000 veliti (1.600 a piedi e 400 a cavallo) per ricostituire la guardia reale, disposta con decreti N. 179 e 180 del 22 settembre. Ai veliti, che erano un corpo attivo da reclutarsi fra i possidenti, si aggiunsero poi 1.400 guardie d’onore [istituite dagli articoli 58-65 della legge dell’8 novembre sulle legioni provinciali], formate da benestanti e soggette a turni di servizio trimestrali. Entrambi questi corpi dovevano essere reclutati con volontari, ma già il 1° dicembre, preso atto che la gioventù del regno non aveva risposto al suo appello, Murat dispose il sorteggio dei veliti e con decreto N. 282 del 13 febbraio 1809 comminò dure sanzioni contro i renitenti [ne trattiamo ampiamente nel II tomo, nella parte dedicata alla guardia reale]. Un terzo provvedimento, disposto con lettere del 22 e 24 novembre a Saliceti, fu il reclutamento dei galeotti e condannati per diserzione che, in occasione delle sue visite all’arsenale e alle carceri di Castel dell’Ovo, gli avevano chiesto di poter combattere in Spagna.
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La decisione di riprendere la coscrizione (22 gennaio-1° marzo 1809) Già il 22 gennaio 1809 l’informatissimo De Nicola annotava nel suo Diario: «dopo la leva dei veliti se ne fa un’altra per gli individui dai 17 ai 25 anni». Il 17 febbraio, quando ancora non era arrivata a Napoli neppure la metà dei veliti, Napoleone incaricava il ministro della guerra imperiale di far sapere al re di Napoli che sarebbe stato “importante” stabilire la coscrizione e aumentare il suo esercito. La coscrizione era caldeggiata anche dal nuovo ministro della guerra napoletano, generale Reynier: «réunit en peu de mois … une jeunesse active, sobre et courageuse, qui, à peine instruite des premières leçons de la discipline et de l’art militaire, s’est faite remarquer en Espagne par sa patience à supporter les fatigues de la guerre et sa valeur dans les combats». Il 1° marzo Murat rispose al ministro di aver deciso di stabilire la coscrizione, ma, ritenendo che il momento non fosse favorevole alla leva, intendeva conseguire il risultato in modo indiretto, avvalendosi della facoltà, accordatagli dalla legge sulle legioni provinciali, «d’en mettre en réquisition la partie active». Pensava di fare una sorpresa ai 14 battaglioni provinciali convocati a Napoli il 25 marzo, genetliaco della regina: non appena consegnate loro le bandiere legionarie, li avrebbe “irreggimentati” con tutti i loro ufficiali: «alors», concludeva astuto, «je n’aurai effrayé personne par le mot de conscription et j’aurai obtenu dix mille hommes». Si può ben immaginare quale deve essere stata la reazione di Reynier a leggere una simile idiozia. Le milizie provinciali, inventate dal governo borbonico, erano il “partito armato” del regime al potere e lo strumento indispensabile per tenere il territorio, minacciato dal “nemico interno” e dalla crociere inglesi. L’organizzazione delle legioni, istituite da re Giuseppe e riformate da Murat, si era rivelata molto più difficile del previsto, proprio per il diffuso timore che fossero una coscrizione mascherata, come il re andava furbescamente strombazzando nelle sue lettere a Napoleone; e si stentava a mettere insieme le delegazioni convocate per il 25 marzo proprio perché i legionari temevano che la gita turistica nella capitale fosse una trappola senza ritorno [trattiamo ampiamente delle legioni provinciali nel tomo III di quest’opera]. Una retata proditoria avrebbe distrutto di colpo sia la coscrizione che le legioni provinciali, ridato fiato alle bande borboniche e intasato l’esercito di ufficiali di cartone e di reclute anziane, ammogliate, ammanicate e furibonde. Fosse repentina resipiscenza o, più probabilmente, una levata di scudi del ministro, sta di fatto che Murat abbandonò subito l’idea, come risulta dalla lettera indirizzata lo stesso 1° marzo a Napoleone, in cui gli comunicava che avrebbe stabilito la coscrizione e la leva di 9-10.000 uomini “in aggiunta” alle legioni
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(«outre les détachements des gardes provinciales qui doivent se rendre à Naples le 25 mars»). La leva del due per mille (7 marzo 1809) e il caveat di Napoleone Con decreto N. 308 del 7 marzo fu dunque disposta una leva del due per mille “secondo le forme prescritte dalla legge del regno del 29 marzo 1807”. Il raddoppio del contingente (implicitamente elevato a 9.000 uomini) era tacitamente giustificato dalla sospensione della leva del 1808. Senza variare il numero delle classi assoggettate, il decreto le faceva slittare di un anno (17-26), rinunciando a chiamare i sedicenni ma prolungando l’obbligo sino al compimento del 26° anno (in pratica, delle vecchie classi di requisibili era liberato solo il 1782 e non anche il 1783, e delle nuove era sorteggiato solo il 1791 e non anche il 1792, come avrebbe dovuto avvenire in base alla legge del 1807). La facoltà dei comuni e dei sorteggiati di liberarsi con i cambi era confermata, però con l’importante restrizione che volontari e sostituti dovessero appartenere allo stesso comune, oltre a non rientrare nei casi d’esonero. Quest’ultimo veniva esteso anche agli impiegati nella corrispondenza telegrafica e ai fratelli dei giovani ammessi a far parte del corpo dei veliti. La ripartizione delle reclute fra i corpi e le armi dell’armata era infine delegata al ministro. Le istruzioni ministeriali disponevano la costituzione di consigli di reclutazione provinciali presieduti dall’intendente e composti dal comandante militare e dal sottointendente militare, che dovevano ripartire il contingente tra i comuni, accorpando quelli inferiori ai 500 abitanti in modo da poter fornire 2 coscritti per frazioni comprese fra 1.000 e 1.500 abitanti. I consigli dovevano poi provvedere alla visita medica e redigere le liste degli ammessi e degli scartati. Il consiglio di Napoli ebbe sede ai Granili, mentre il deposito generale fu trasferito a S. Pietro a Maiella. I comuni dovevano redigere la lista dei coscritti residenti e altre due speciali, una degli assenti e una dei residenti con famiglia domiciliata in altro comune. Erano esclusi dall’allistamento, nonché dal novero dei rimpiazzi, i condannati a pena afflittiva e infamante, anche già espiata, i vagabondi e gli individui pericolosi. Il comune doveva sorteggiare non solo il suo contingente, ma anche altre due “classi di riserva” di pari numero, destinate al rimpiazzo dei refrattari e dei riformati. I nomi di tutti gli allistati dovevano essere scritti su biglietti piegati e inseriti in un’urna (scatola) grande; i primi, secondi e terzi estratti dovevano essere conservati in tre urne piccole, sigillate al pari della prima. Se più fratelli concorrevano alla stessa leva, gli estratti dopo il primo erano “messi in coda al deposito” (destinati cioè a partire solo per rimpiazzo e solo per
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ultimi): se però i fratelli erano almeno quattro, doveva partire anche il secondo estratto. Dimentico di aver egli stesso sollecitato la ripresa della coscrizione e l’aumento dell’esercito napoletano, Napoleone rispose freddamente alla notizia comunicatagli da Murat: «je reçois», gli scriveva il 22 marzo dalla Malmaison, «votre lettre du 13 mars par laquelle vous m’instruisez que vous organisez des troupes. Ayez le plus grand discernement à n’armer que des gens sûrs». La direzione generale della coscrizione (10 aprile 1809) Con decreto N. 343 del 10 aprile, il direttore generale delle riviste Daure fu incaricato, sotto gli ordini del ministro della guerra, della direzione della reclutazione dell’armata, con le seguenti attribuzioni: • •
vigilanza sugli atti e le operazioni relative alla persecuzione, traslazione, giudizio e pene da infliggersi alle reclute refrattarie, ai disertori e ai loro fautori e complici; amministrazione e rendiconto al ministro delle esazioni, spese di reclutazione e multe comminate alle famiglie dei refrattari e disertori.
Salvo diversa decisione del re, il prodotto delle multe era riservato esclusivamente alle spese di amministrazione della direzione generale e dei depositi di reclutazione, agli indennizzi agli ufficiali di sanità per le visite alle reclute, alle spese di giudizio dei disertori condannati e alle gratificazioni concesse dalla legge ai gendarmi, guardie civiche, campestri e doganali per l’arresto dei disertori o refrattari. La firma dei relativi ordini di pagamento era riservata al ministro, su proposta del direttore generale. In seguito, con la I legge organica della marina del 20 settembre, fu attribuita al direttore generale anche la direzione dell’iscrizione marittima [v. tomo III]. Secondo l’Almanacco di Corte del 1810, il ministro aveva alle sue dirette dipendenze una “divisione delle riviste e della reclutazione”, con a capo il sottoispettore alle riviste Durand, articolata in due burò (1° riviste, 2° reclutazione, iscrizione marittima, persecuzione dei refrattari, coscrizione dell’armata e deposito generale) con a capo Malbouche e Tassoni. Le misure complementari e derogatorie (19 marzo – 28 aprile 1809) Contestualmente al decreto N. 320 del 19 marzo, che prorogava di due settimane l’amnistia ai disertori aumentando le pene ai pertinaci, gli intendenti furono esortati ad impegnarsi per l’applicazione delle rappresaglie contro le famiglie dei refrattari e i loro complici. Il 29
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marzo Murat incaricò Reynier di far sapere agl’intendenti che il loro attaccamento al sovrano sarebbe stato misurato dal successo della leva e gli ordinò di inviare i primi 2.000 coscritti a Nola per attivare il 3° di linea. Lo stesso giorno incaricò il ministro interinale dell’interno Tito Manzi di nominare una commissione, presieduta dal maggiore di piazza della capitale (Grutther) per ispezionare le prigioni e designare i detenuti idonei al servizio militare. Con decreti N. 336 e N. 338 del 7 aprile, i marinai in età di leva in servizio negli equipaggi della flotta o iscritti negli 8 battaglioni dei marinari furono computati nei contingenti imposti ai comuni del litorale soggetti a iscrizione marittima, e furono esentate dal sorteggio le guardie d’onore. Constatato l’alto numero di reclute che una volta arrivate a Napoli risultavano inabili o in difetto di statura, il 16 aprile il re scriveva al ministro di decentrare la visita medica ai capoluoghi di provincia: il maggior costo sarebbe stato compensato dal risparmio delle spese di trasferimento, col vantaggio di guadagnare tempo nella sostituzione degli inabili. Constatata la difficoltà per i sorteggiati di trovare cambi fra i residenti dello stesso comune, il 28 aprile il ministro autorizzò l’intendente di Napoli ad ammettere anche cambi di altri comuni, beneficio poi esteso a tutte le province. Con circolare del 4 maggio il ministro chiariva che i soldati congedati dal vecchio esercito per infermità o per aver fornito un cambio erano esenti dalla nuova leva solo se l’infermità sussisteva ancora o il sostituto continuava a prestare servizio. Il “rallentamento” della leva nel maggio-giugno 1809 Fin dall’inizio renitenza, frodi, truffe e ricorsi rallentarono la leva. Le 4 reclute di Miano, resisi irreperibili i primi estratti, dovettero essere prese sulla II classe di riserva (ricorso della madre del 9° estratto, 4 aprile). Alla capitale ne toccavano 682: il Diario De Nicola registra al 6 aprile che si andavano «prendendo nelle case gli estratti della bussola» e si facevano retate notturne di «persone che si cred(eva)no vagabonde o inutili, tra le quali non manca(va) di inciampare qualche disgraziato creduto tale». Il sindaco di Torre del Greco, che ne doveva 26, fu denunciato da un chirurgo per essersi portato a casa le urne del sorteggio e i sigilli del comune. Al 1° maggio Napoli e provincia, il cui contingente complessivo era di 1.194 reclute, registravano 396 refrattari (di cui 277 solo nella capitale), 344 ammessi e 330 scartati. Del resto neanche la visita provinciale era sempre affidabile: il 10 giugno la direzione generale protestava perché tra le reclute arrivate al deposito ce n’era uno non solo invalido, ma anche evaso da galera.
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La ripresa dell’insurrezione, provocata dalla guerra contro l’Austria e dalla spedizione anglo-siciliana, provocò infine la sospensione della leva. Già il 30 aprile il re autorizzava il comandante in Calabria, Partouneaux, a “rallentare” la leva per non alimentare le bande. Il 5 maggio, informando l’imperatore della rivolta antitasse in Puglia, della sollevazione del Matese, delle agitazioni interne, delle crociere inglesi e dello scarso affidamento delle legioni provinciali, scriveva di aver dovuto «ralentir» la leva, altrimenti avrebbe «infailliblement augmenté le nombre des brigands». Le multe e il deposito refrattari di Gaeta (27 maggio 1809) Con legge N. 306 del 27 maggio, furono stabilite le multe (da 50 a 500 ducati) per i disertori, refrattari e loro genitori e favoreggiatori, le relative modalità di esazione e le spese di reclutazione. Queste ultime includevano l’indennità di 10/15 carlini per ogni visita medica, le spese di giudizio e la gratifica di 3 ducati ai gendarmi e guardie civiche, campestri e di dogana per ogni arresto di disertore o refrattario. Inoltre, con decreti N. 375, 376 e 377 dello stesso giorno, fu disciplinato il trattamento dei disertori condannati al trascinamento della palla o ai lavori pubblici; in deroga alla legge di procedura penale militare, i delitti di diserzione furono demandati ad un consiglio di guerra speciale e, infine, fu stabilito in Gaeta un deposito refrattari. Il deposito, comandato da un capitano e dotato di propria cassa e di un proprio consiglio d’amministrazione presieduto dal comandante della piazza (poi disciplinato con regolamento del 28 settembre 1809), era ordinato in compagnie di 160, inquadrate da 4 ufficiali e 10 sottufficiali distaccati a turno dalla guarnigione di Gaeta o dalla Divisione Militare di Capua. I refrattari, riuniti in squadre di 10, incluso un caporale scelto tra di essi dal comandante della piazza su 3 proposti dal capitano, dovevano essere occupati tutti i giorni all’istruzione militare (separatamente dalle altre truppe) o alla riparazione delle opere di fortificazione, senza compenso alcuno. Vestiti con l’uniforme della fanteria, ma senza paramani, colletti e mostrine, e con i capelli rasati, calzavano il berretto di polizia ed erano armati di fucili senza baionetta. Sorvegliati da piantoni, ronde e pattuglie fornite dalla guarnigione, e alloggiati in una caserma particolare, vi restavano in perpetua consegna, uscendo solo in truppa per lavori, esercizi e altri “travagli”, o accompagnati da un basso ufficiale. Godevano del pane e del soldo del fuciliere di linea, ma il prest era interamente trattenuto per la massa di biancheria e calzatura, le minute spese e il vitto ordinario (per un importo di 4 grana e 6 “cavalli” pro capite consegnati ogni cinquina al capo camerata). Ai refrattari era
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garantito il ricovero in ospedale, mentre il regolamento sull’abbigliamento (approvato poi con decreto N. 778 del 2 novembre 1810) includeva nella dotazione il cappotto e stabiliva una “massa di manutenzione” di 14 carlini per anno e per uomo, formata con la massa generale e col prodotto della vendita della biancheria e calzature dei refrattari morti o disertati e delle uniformi e buffetterie fuori uso e contabilizzata dal consiglio di amministrazione. Le punizioni per le mancanze lievi, irrogate dagli ufficiali e sergenti, erano le stesse previste per la linea, ma di durata maggiore. Le mancanze gravi erano giudicate e punite a discrezione da un consiglio composto dal comandante della piazza, dal capitano e da un tenente. L’allontanamento dal deposito per oltre 24 ore era considerato diserzione e giudicato dal consiglio di guerra speciale. Il comandante della DM di Capua trasmetteva al ministro, con le sue osservazioni, i rapporti delle riviste trimestrali d’ispezione passate da un generale da lui delegato a verificare l’istruzione, condotta e tenuta di ciascun refrattario, e due volte l’anno passava personalmente l’ispezione del deposito per scegliere, sui rapporti trimestrali e quelli del capitano, i refrattari ritenuti degni di essere incorporati, facendone rapporto al ministro cui spettava ordinare l’invio al corpo. Il ritorno all’idea della leva regionale volontaria (estate 1809) Pur “rallentata”, la leva continuò nelle province meno coinvolte dalle operazioni – come dimostra, ad esempio, una circolare del 19 giugno con cui l’intendente di Avellino premeva sulle autorità locali per affrettarla – e riprese immediatamente dopo il ritiro della squadra nemica: già il 5 luglio Murat ordinava infatti al ministro Campredon di «presser par tous les moyens la levée de la conscription». Tuttavia, ricevuta dall’intendente di Cosenza l’offerta del notabilato calabrese di 2.500 volontari in cambio della garanzia di non ritirare la Divisione francese di stanza in Calabria, Murat tornò alla vecchia idea dei volontari provinciali: il 9 luglio incaricò infatti Campredon di presentargli un progetto per levare 2 reggimenti regionali in Abruzzo e Calabria con quadri presi per un terzo dalle legioni provinciali e per il resto dagli ufficiali riformati e dai veliti e guardie d’onore, progetto poi trasfuso nei decreti N. 450 e 461 del 27 agosto e 12 settembre. Nello stesso ordine di idee sono i decreti relativi alla trasformazione delle guardie d’onore da milizia part-time in reggimento attivo (N. 431 del 5 agosto), all’incorporazione dei cacciatori di montagna del Principato Citra nel 1° leggero (25 agosto), all’arruolamento dei militari nazionali
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che abbandonavano le bandiere del nemico (N. 419 e 425 del 17 e 27 luglio) e alla leva di un reggimento municipale a carico della città di Napoli (N. 468 del 26 settembre), come pure l’inclusione dei contingenti provinciali dei veliti in quelli della leva del due per mille (circolare del 15 agosto del direttore generale della coscrizione) e l’idea, subito abbandonata, di amnistiare e arruolare in blocco l’intera banda Scarola per formarne un nuovo corpo leggero da montagna (lettere di Murat a Ferrier del 31 agosto e 6 settembre). [Trattiamo in dettaglio di questi argomenti nel II tomo di quest’opera, nella parte dedicata alla “Fanteria e cavalleria”]. La prosecuzione della leva obbligatoria (estate-autunno 1809) L’aggiunta delle leve particolari (dei veliti, delle guardie d’onore, dei reggimenti regionali, dei cavalli) ingolfò l’esecuzione della leva generale del due per mille. Ministro e direttore generale tempestavano di circolari gl’intendenti, che a loro volta incalzavano le autorità distrettuali e comunali. Partitari e fabbricanti di nitri non erano esenti dalla leva, chiariva il 13 luglio l’intendente della Terra di Lavoro, richiedendo ai sindaci la lista dei refrattari; dovevano fare di più per completare le quote, li pungolava il 15 agosto; il re aveva esentato i fratelli dei veliti, ricordava loro il 27 agosto. Le famiglie di 12 coscritti irpini disertati durante la marcia al deposito erano state condannate a 50 ducati di multa, ammoniva il Monitore del 19 agosto. Dalle province arrivavano reclute cattive, tuonava il direttore generale il 26 agosto, preannunciando l’invio di ispettori ministeriali. Intanto le 15 reclute di Sulmona partivano per L’Aquila con diaria di 2 carlini e un carretto di bagagli, mentre a Chieti si requisivano 17 ferri per legare il convoglio delle reclute provinciali in partenza per Napoli. Dall’Aquila partirono in ceppi 97 reclute e 11 disertori. Bisognava “approfittare delle operazioni contro i briganti”, scriveva il 1° settembre il re a Campredon, “per far eseguire i decreti sulla leva del due per mille, sui veliti e sulla contribuzione dei cavalli”, usando cioè le colonne mobili per arrestare le reclute e scortarle ai depositi entro il 20 settembre (entro il 30 in Abruzzo e Calabria). Ancora un ultimo sforzo per completare la leva di uomini e cavalli, esortava l’intendente di Avellino il 22 settembre. I coscritti abruzzesi saranno riuniti in un solo reggimento, il 4° di linea in costituzione a Capua, assicurava il 25 l’intendente di Chieti. Lo stesso giorno, con decreto N. 465, il re accordava alle reclute, fino all’arrivo al corpo, la razione di pane e fuoco, il soldo di fuciliere (meno la massa di biancheria e calzatura) e il supplemento di tappa.
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Dal 20 luglio al 2 ottobre Napoli e provincia avevano dato altre 356 reclute, portando il totale a 700 (meno del 60% del contingente); ma nello stesso periodo erano stati scartati ben 444 coscritti inviati dai quartieri e dai comuni, portando il totale a 774: indice macroscopico delle frodi e delle parzialità commesse localmente. Il 24 settembre il presidente del corpo civico di Napoli informava l’intendente che mancavano ancora 265 reclute per la difficoltà di ripetere il sorteggio: il ministro sospese provvisoriamente la coscrizione nella capitale e in seguito accordò alla provincia una dilazione sino a tutto gennaio 1810. Il 6 ottobre Murat disponeva il passaggio degli armigeri scapoli nella linea; il 7 scriveva a Napoleone di aver dovuto tenere nascosta la perdita dei magazzini reggimentali subita il 1° settembre sotto Gerona, temendo che la notizia potesse incoraggiare la renitenza. Eppure l’11 riferiva che “la coscrizione non incontra(va) più difficoltà”, e che “la facilità con la quale (veniva) eseguita (era) veramente sbalorditiva”. Secondo il Monitore del 25 ottobre la leva era stata eseguita con molto successo a Napoli e Chieti. Teramo, Otranto, la Terra di Lavoro, i due Principati, avevano quasi completato le loro quote e il re sperava di poter lodare anche le altre province. Si cercavano incentivi per i volontari: i legionari che si arruolavano nell’esercito esentavano un fratello dalla coscrizione, informava con circolare del 1° novembre l’intendente di Capua. Male andava però il reclutamento dei reggimenti regionali: nella guardia municipale di Napoli si arruolavano coscritti malgrado l’espresso divieto del re, mentre il reggimento calabrese continuava ad avere appena 200 effettivi, benché l’intendente di Reggio e l’aiutante generale Colletta millantassero di non aver avuto né un disertore né un refrattario e lo stesso ministro avesse comunicato al re che la coscrizione in Calabria era terminata (lettere di Murat a Daure, del 7 novembre e del 13 dicembre). Al 31 dicembre risultavano incorporati nei corpi di linea di stanza in Italia, nel corso dell’anno, 7.870 uomini (fanteria di linea 5.830, leggera 1.568, cavalleria 472). Alla stessa data erano detenuti a Gaeta 64 refrattari e a Napoli 225 “presidiari” (condannati ai lavori pubblici per delitti comuni o diserzione e impiegati nelle carceri e ospedali militari della capitale). Una circolare del 17 febbraio 1810 intimava agl’intendenti di presentare lo stato dei refrattari entro 15 giorni (20 per le province dell’Aquila, Basilicata e Calabrie e 28 per quella di Napoli). Il reclutamento dei galeotti per la Spagna (1809-1810) Poco dopo il ritiro della squadra nemica, Murat aveva ripreso anche l’idea di arruolare i galeotti. Il 3 agosto aveva ricordato a Saliceti che
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non era stato ancora deciso nulla riguardo ai detenuti giovani che si erano offerti come volontari. Il 1° settembre ordinava l’invio di 250 detenuti al 3° di linea in costituzione a Gaeta e il 17 di 500 briganti del Cilento al 2° leggero di stanza a Roma. Il 21, pur avendo appena comunicato a Saliceti che Napoleone non voleva più galeotti per la Spagna, chiese all’imperatore di autorizzarlo ad inviarne 1.500 come rinforzi, sollecitando la risposta con lettere del 6 e 11 ottobre. Il 6 dicembre, da Parigi, ordinò a Saliceti di fare una retata notturna degli amnistiati. Intanto, il 27 novembre, era partito da Napoli il primo convoglio di 1.000 galeotti destinati di rinforzo al 2° di linea. Il 12 gennaio (o febbraio) 1810 ne partì un II di 1.050 (o 942) per il 1° di linea e il 2° cacciatori, seguito da un III di 980 per il 1° leggero e da un IV, arrivati a Gerona il 4 agosto. Un V, partito il 29 (o 25) luglio, fu fermato alla frontiera italiana e rimandato indietro per ordine di Napoleone. Secondo lo stato di situazione del 31 dicembre 1810, i convogli inviati in Spagna nel corso dell’anno furono tre, di 1.417, 1.182 e 989 rinforzi, per un totale di 3.588, di cui 1.290 disertati durante la marcia o “rimasti indietro” e 2.298 incorporati. Il loro arrivo consentì il rimpatrio di circa un migliaio di veterani, in parte riformati e in parte ammessi nella guardia reale o nella gendarmeria, ma gli ex-galeotti, in massima parte briganti, disertarono quasi tutti in pochi mesi con l’aiuto della resistenza spagnola, che li indirizzava a Tarragona dove venivano imbarcati per la Sicilia, finendo arruolati nell’esercito borbonico o inglese oppure rimandati in Continente per alimentare il brigantaggio [v. tomo II, “Fanteria e Cavalleria”].
C. La riforma della coscrizione e la leva del 1810 La riforma del sistema di reclutamento (D. N. 543, 4 gennaio 1810) Con decreto N. 543 del 4 gennaio 1810, da Parigi, Murat riformò radicalmente il reclutamento dell’armata, adottando, come recitava il preambolo, il “sistema” della coscrizione, “già stabilito nell’impero francese ed adottato in seguito dai Governi confederati ed alleati alla Francia”. La coscrizione era definita “il mezzo più equitativo e più proprio per fare concorrere indistintamente alla difesa dello Stato gli uomini di tutte le classi, e quelli che sono i più interessati alla sua conservazione”. L’art. 2 riduceva le classi soggette alla coscrizione da
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nove a otto, dal compimento del 17° sino al compimento del 25° anno di età – escludendo perciò i venticinquenni (1786) e includendo i diciassettenni (1792) – e le numerava (in cifre romane) a cominciare dalla più giovane. A complicare le cose, le classi includevano i nati dal 1° marzo di un anno al 28 febbraio dell’anno seguente: la I era perciò formata dai nati negli ultimi dieci mesi del 1792 e nel primo bimestre del 1793, la II dal 1791-92 e così via [III-1790-91, IV-1789-90, V-1788-89, VI-1787-88, VII-1786-87, VIII-1785-86]. La numerazione delle classi implicava l’abbandono del sistema napoletano del sorteggio promiscuo fra tutte le classi e l’adozione del sistema francese e italiano, che faceva gravare la leva principalmente sulla classe più giovane (maturata nell’anno precedente), attingendo alle più anziane, in ordine inverso all’età, solo se il gettito effettivo della prima classe non era sufficiente. Ciò accadeva di frequente, soprattutto nei comuni meno popolosi, sia perché il contingente era commisurato alla popolazione e non al numero dei requisibili, sia per effetto delle esenzioni per difetto di statura, infermità e condizioni familiari. Malgrado ciò, l’onere sociale della coscrizione ne risultava fortemente alleggerito e al tempo stesso distribuito in modo più equo sulla popolazione, col duplice vantaggio di renderlo più accettabile e diminuire perciò la renitenza, nonché di militarizzare gradualmente, di anno in anno, una fetta consistente della popolazione. Dal punto di vista dell’organica militare, mutava anche la funzione della leva, non più concepita come misura straordinaria di completamento degli organici di guerra, ma come sistema ordinario di reclutamento dell’esercito, graduabile (in modo più efficace, sicuro e meno oneroso dell’ingaggio volontario) in rapporto agli obiettivi di forza stabiliti annualmente dal governo. Ex–art. 3 e 5, il ministro della guerra era incaricato di presentare al re il quadro del contingente da somministrarsi dalle diverse classi secondo i bisogni dell’armata, un regolamento sulle operazioni di leva e i criteri di selezione, il quadro delle infermità “portanti invalidità assoluta per il servizio”, un’istruzione sulle modalità della visita di leva e sulla certificazione delle infermità, nonché un regolamento sulle indennità da pagarsi dai coscritti riformati per infermità e per l’impiego dei fondi provenienti da tali indennità. [Con disposizione del 19 febbraio l’indennità fu determinata nel raddoppio dell’imposta fondiaria gravante sulla famiglia dell’esonerato]. Erano eccettuati dalla leva di terra gli appartenenti all’iscrizione marittima, a condizione di documentare l’arruolamento in uno degli 8 battaglioni marittimi del regno (art. 4), e i maritati anteriormente alla data del decreto (art. 6). L’arruolamento volontario nei veliti, nelle
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guardie d’onore e nella gendarmeria, nonché i vantaggi accordati con decreto del 1° novembre 1809 ai fratelli dei volontari restavano in vigore sino al 1° aprile. Dopo tale termine non erano più ammessi volontari neppure in tali corpi e gli ammessi che non si fossero presentati entro tale termine decadevano dal beneficio, restando soggetti al sorteggio (art. 7-9). Le istruzioni ministeriali sulle operazioni di leva (28 febbraio 1810) Le operazioni di leva furono regolate con istruzioni ministeriali del 28 febbraio e 22 marzo. Incaricati del nuovo allistamento, per classi di età e per residenza, erano i sindaci, i decurioni e i parroci, con l’assistenza del giudice di pace (o del commissario di polizia per i quartieri di Napoli) e sotto il controllo dei consiglieri d’intendenza. I comuni dovevano completare le liste entro 10 giorni, i quartieri di Napoli entro 20. Ai tre elenchi dei residenti, dei residenti con famiglia domiciliata altrove e degli assenti ne era aggiunto un IV degli esclusi. Le liste dovevano essere affisse per un mese alla casa comunale, e tre copie dovevano essere trasmesse al sottointendente, che ne inoltrava una all’intendente e una al direttore generale della coscrizione [ora Arcambal, essendo Daure divenuto ministro titolare»]. Si dovevano indicare anche le generalità, la residenza e la professione dei genitori, con le opportune annotazioni (“refrattario della leva del …”, “bussolato per velite o guardia d’onore”, “detenuto a … dal giorno …, per il delitto di …”). I reclami dovevano essere indirizzati al sottintendente. Formate le liste, il sottintendente disponeva nel suo circondario la verifica dei titoli di riforma esibiti dai coscritti, da tenersi in pubblica adunanza e dinanzi ad una commissione presieduta da un delegato d’intendenza e composta dal giudice di pace, da suoi aggiunti, dai decurioni e dal parroco delle comuni del circondario. Il sottintendente trasmetteva poi al direttore generale della coscrizione lo stato dei riformati per bassa statura o infermità invalidanti [determinate con istruzione del 21 marzo: trattiamo del contenuto nella parte relativa alla sanità], unendovi i relativi processi verbali. Sulle liste venivano apposte le annotazioni “riformato per causa di taglia” o “incapace di sopportare le fatiche di guerra per (indicando la causa)”. Il sorteggio era fatto presso i comuni, separatamente per ciascuna classe e previa esclusione dei riformati e dei refrattari, questi ultimi dichiarati “primi a marciare”. Per accrescere il controllo di regolarità, si adottava il sistema delle due urne. In una venivano imbussolati, dopo essere stati scritti e contati pubblicamente, i biglietti coi nomi dei coscritti, nell’altra un pari numero di biglietti segnati con numeri
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progressivi. L’estrazione dei nomi era fatta dal parroco, mentre erano gli stessi coscritti, nell’ordine in cui erano chiamati, ad estrarre un numero dalla seconda urna (in loro assenza l’estrazione era fatta dal padre, o dalla madre, o da un altro parente o, infine, dal parroco). Le estrazioni erano subito registrate dal cancelliere del giudicato di pace o del comune e controfirmate dai coscritti, che potevano accordarsi per lo scambio di numero (purché senza pregiudizio degli altri). Tre copie delle liste dei sorteggiati e dei refrattari erano trasmesse al sottointendente, che le inoltrava all’intendente e al direttore generale. Entro tre giorni dal sorteggio i contingenti comunali, completati attingendo progressivamente ai refrattari e ai sorteggiati in ordine di classe e di numero, dovevano essere accompagnati dal sindaco al capoluogo della provincia, e sottoposti entro ventiquattrore a visita medica: i riformati dovevano essere subito rimpiazzati dal comune, mentre gli idonei erano avviati al deposito generale di Napoli, salva la facoltà di presentare un cambio. I chiamati che non si presentavano al capoluogo entro 10 giorni dall’arrivo del contingente del loro comune erano iscritti nella lista dei refrattari, subito pubblicata e trasmessa in copia al comandante militare e al regio procuratore. Il cambio era ammesso alla tariffa di 25 ducati da pagarsi allo stato, rimborsabili in caso di richiamo personale per diserzione del rimpiazzo. I componenti dei consigli di reclutazione rispondevano patrimonialmente della qualità dei cambi da loro ammessi. La chiamata della classe 1791 (decreto N. 586 del 9 marzo 1810) Fin dal 6 gennaio Murat aveva scritto a Daure di levare 10.000 uomini entro il 1° maggio, ma firmò il provvedimento (decreto N. 586) solo il 9 marzo, sul presupposto che sette settimane fossero sufficienti per far affluire ai corpi metà delle reclute. Il contingente, inferiore alle leve del 1809 (9.000 del due per mille più 2.000 veliti), era infatti ripartito in due classi di 5.000, una attiva, da incorporare entro il 1° maggio, e l’altra di riserva (art. 3). Le istruzioni del 22 marzo prevedevano inoltre il sorteggio di una terza classe di deposito per i rimpiazzi delle prime due. L’art. 2 determinava i singoli contingenti provinciali in rapporto alla popolazione stimata, da suddividersi fra i comuni con lo stesso criterio: il contingente più numeroso (1.231) era quello della città e provincia di Napoli, seguita dalla Terra di Lavoro (1.060); il meno numeroso quello di Teramo (349). Il contingente era estratto cominciando dalla II classe, quella dei diciottenni nati nel 1791. Non era più prevista la facoltà dei comuni di liberarsi dal sorteggio con reclute volontarie: restava consentito il “cambio personale”, ma la scelta del sostituto era ristretta
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agli idonei dai 25 ai 28 anni (1786-83), ossia alle quattro classi antecedenti l’VIII (1785). In compenso non era più richiesto che il sostituto fosse dello stesso comune e non rientrasse nei casi di esenzione per motivi sociali (art. 5). L’art. 4 restringeva l’esonero ecclesiastico ai chierici che avessero ricevuto i quattro ordini minori prima del decreto 7 marzo 1809, quello agli operatori telegrafici ai soli impiegati “con soldo”. Confermava invece l’esonero degli alunni delle scuole militari e del burò topografico e i sostegni di famiglia (vedovi con prole, figli unici e ammogliati in data anteriore al decreto del 4 gennaio 1810). Con decreti del 4 e 7 maggio l’esenzione fu estesa ai volontari della compagnia pompieri di Napoli e furono esclusi dagli uffici pubblici, come dalle pensioni, successioni e donazioni, coloro che non potessero provare di aver soddisfatto gli obblighi di leva o di esserne stati esonerati. L’esecuzione della leva (aprile-luglio 1810) Ad edificazione dei funzionari periferici, il Monitore del 13 aprile dette notizia che un capodivisione dell’intendenza di Bari era stato destituito per corruzione in materia di leva. Invece del contingente comunale di 28 reclute, L’Aquila inviò al deposito generale di Napoli 51 amnistiati destinati a «servire come misura di polizia» (25 aprile). Con circolare del 28 aprile, il direttore della coscrizione ordinò, se necessario, di rinforzare le scorte ai convogli dei coscritti e verificare se i luoghi di sosta scelti dai comuni di tappa fossero idonei ad impedire le diserzioni. Altra ministeriale del 3 maggio autorizzò il ricorso al sistema dei garnisaires (come si faceva in Francia e nel Regno italico, dove era detto tansa) contro le famiglie dei refrattari, obbligandole a fornire alloggio, vitto e diaria di 6 carlini ai gendarmi, uno solo il primo giorno, due il secondo e così via fino a quattro, allo scopo di costringerle a consegnare il latitante. Altra circolare dell’11 maggio disponeva di mettere in coda ai convogli di reclute i figli di militari in servizio nella gendarmeria o nella linea, sul presupposto che fossero più affidabili degli altri e disposti a cooperare. Il Giornale dell’Intendenza di Chieti comunicava il 12 maggio che l’indennità di riforma per bassa statura o malattia consisteva nel raddoppio della tassa fondiaria ovvero della tassa personale pagata dal capofamiglia. Il Monitore del 15 (quando il termine di presentazione delle reclute era già scaduto da due settimane) asseriva che l’andamento della leva era buono: Chieti aveva già completato il suo contingente attivo di 243 e 219 erano già arrivati a Napoli. La Capitanata aveva già dato 201 coscritti su 281 e 192 erano già a Napoli, da Salerno ne erano già arrivati 248, da Capua 169, da Matera 107 e dall’Aquila 87. Nel numero del 23 maggio il Monitore dava notizia dell’arresto di tre
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preti, uno di Canzano (TE) che aveva alterato i numeri estratti e due di Polla (SA) che avevano alterato i registri per evitare il servizio militare a cinque giovani, due dei quali loro nipoti. Il 27 maggio il re protestava con Daure, avendo appreso che in alcune province la leva era stata sospesa senza suo ordine. Con circolare del 13 giugno agli intendenti il ministro deplorava i ritardi nell’invio del contingente. Il 19 giugno Pietro Colletta, intendente a Monteleone, giustificava la sospensione della leva con il rischio di alimentare brigantaggio ed emigrazione in Sicilia: inoltre, essendo tutta la linea riunita a Scilla, l’esecuzione sarebbe gravata sui soli legionari, il che poteva dar luogo a disordini, essendo essi stessi soggetti alla leva o fratelli di coscritti. Emerse intanto un altro trucco usato dai giovani delle classi più elevate per dispensarsi dal servizio militare, quello cioè di sollecitare un impiego da ufficiale per chiedere la dimissione dopo pochi mesi. Con circolare del 23 giugno il ministro comunicò una decisione reale del 12 che dichiarava soggetti a coscrizione gli ufficiali dimessi prima di aver compiuto 4 anni di servizio, di cui almeno due come ufficiali. Altra ministeriale del 7 luglio vietò ai consigli d’amministrazione dei reggimenti di arruolare (come stava avvenendo) coscritti sorteggiati per il contingente attivo e destinati perciò al deposito generale di Napoli, “giacché se la scelta de’ corpi dipendesse dal capriccio degl’individui chiamati al servizio” si sarebbe alterata la ripartizione del contingente in base alle priorità organiche e operative stabilite dal governo. Secondo il Monitore, in luglio (con tre mesi di ritardo rispetto ai tempi stabiliti dal decreto) la leva era finalmente quasi completata: da Salerno, Foggia e Matera mancavano solo poche reclute; Avellino, Campobasso e Chieti avevano dato l’intero contingente, Teramo 12 volontari in più e all’Aquila si attendeva il ritorno dei lavoratori stagionali dalla Toscana e dall’Agro Romano per completare la quota. A Bari e Lecce c’erano state iniziali difficoltà «di cui (era) difficile assegnare la cagione»; i Casali di Napoli avevano terminato e la sola capitale era in ritardo. Il Monitore ometteva di sottolineare che, per non rischiare di alimentare il brigantaggio nelle immediate retrovie dell’Armata di Scilla, la leva era stata sospesa nelle due Calabrie (fu poi attuata, come vedremo, nel gennaio-febbraio 1811). Il 25 luglio era al completo anche la quota dell’Aquila, ma la provincia restava in debito dei veliti e guardie d’onore e l’intendente minacciava di mandare i “gendarmi in tansa” nelle case dei refrattari: in compenso informava i più abbienti che potevano sostituire la tassa di esonero per inabilità fisica con una somma una tantum pari al costo di un gendarme montato. Il 1° agosto l’intendente di Avellino preferiva invece esortare
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sindaci e giudici di pace ad attivarsi per snidare i disertori tornati nei loro paesi. I decreti dal campo di Piale (17 luglio, 6 e 27 agosto e 22 sett. 1810) Dal campo di Piale, sulla costa calabrese dello Stretto di Messina, Murat continuò a legiferare sulla coscrizione. Con decreto N. 702 del 17 luglio esentò dalla coscrizione anche gli addetti al polverificio di Gioacchinopoli, vincolandoli però a dieci anni consecutivi di servizio nella fabbrica, con obbligo di servire nella linea qualora la lasciassero anticipatamente. Con decreto N. 717 del 6 agosto assoggettò alla leva ordinaria i giovani già esonerati dalla leva dei veliti e guardie d’onore per difetto della statura stabilita per tali corpi (m. 1,70), con l’effetto di arruolare nella linea quelli con statura superiore al minimo (m. 1,54) e assoggettare gli altri alla tassa di riforma. Con decreto N. 722 del 27 agosto fu inoltre disposta l’immediata cessazione degli arruolamenti volontari in tutti i corpi dell’armata, eccettuati la gendarmeria e i reggimenti della guardia municipale di Napoli e Real Corso, “per essere ammessi ne’ quali si dovrà provare di non appartenere a verun corpo, né essere stato designato dalla sorte come coscritto a far parte d’un de’ corpi della nostra armata”. Con circolare del 5 settembre il ministro invitò i colonnelli a cooperare al rispetto del divieto, avendo il re “riconosciuto che gli arrollamenti volontari (erano) una sorgente di abusi; che i soldati disertori d’un corpo, dov’essi cred(eva)no, o pretend(eva)no di aver de’ motivi di disgusto, (andavano) ad arrollarsi in altri, ove per evitare il rigore delle leggi cambia(va)no di nome”. Il decreto N. 738 del 22 settembre stabilì che i genitori dei coscritti riformati per difetto di statura o infermità, responsabili in solido della tassa di riforma (pari ad una annualità di contribuzioni dirette con un minimo di 6 ducati e un massimo di 300), ne erano sciolti qualora il figlio risultasse legalmente emancipato da almeno sei mesi. In tal modo si offriva ai ricchi una comoda scappatoia per eludere o rendere irrisorio l’importo della tassa con una fittizia dichiarazione notarile. In compenso erano esentate dalla tassa le famiglie che pagavano una contribuzione inferiore ai 3 ducati. Il difetto di statura e l’infermità dovevano essere documentati secondo le istruzioni ministeriali del 21 e 22 marzo e l’obbligo di pagamento decorreva dalla decisione di riforma pronunciata dal consiglio di reclutazione, il quale doveva trasmettere la lista dei riformati al direttore delle contribuzioni dirette della provincia. I ministri delle finanze e della guerra erano incaricati rispettivamente di emanare le istruzioni per la liquidazione delle somme dovute (emanate poi il 15
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marzo 1811) e di presentare al re il regolamento sull’impiego dei proventi. La repressione delle frodi e l’inasprimento delle sanzioni Terminata ingloriosamente la spedizione in Calabria, il Monitore pubblicò varie notizie sulla repressione delle frodi in materia di leva. Un caso di autolesionismo (un coscritto irpino che si era procurato una piaga in una gamba, restando zoppo malgrado le cure) fu punito col risarcimento delle spese sanitarie e l’invio al deposito refrattari (25 settembre). L’arciprete di San Sebastiano di Ortucchio (AQ), che aveva falsificato i registri parrocchiali per esentare 4 suoi parenti, fu punito con la perdita dell’impiego e sei anni di deportazione (29 settembre). Un giudice, un medico, un prete e un altro complice di Calitri (AV) che avevano ammesso tre sostituiti privi dei requisiti fisici, furono condannati per favoreggiamento a un anno di prigione e 25 ducati di multa ciascuno, mentre i tre coscritti furono incorporati nella linea senza facoltà di rimpiazzo (4 ottobre). Tre veliti refrattari di Altavilla (SA) furono condannati, in solido con le famiglie, ad una multa di 50 ducati e inviati al deposito refrattari (3 novembre). Un prete e un medico della provincia dell’Aquila furono condannati a due anni di reclusione per falsificazione delle liste di leva e due giovani che essi avevano favorito furono inviati all’armata «quantunque la loro classe non (fosse) stata chiamata» (8 novembre). Un medico di Campobasso fu condannato a una multa di 100 ducati per aver tentato di sottrarre dei coscritti al servizio militare, mentre i falsi testimoni se la cavarono con qualche giorno di carcere (9 novembre). Un prefetto di polizia di Napoli esortava i coscritti con numeri alti a denunciare i refrattari (13 novembre). In dicembre si biasimavano i metodi illegali impiegati dal sindaco di Gaballino per costringere il fratellastro di un refrattario a rivelarne il nascondiglio; un padre supplicava il congedo del figlio sedicenne indotto con raggiri a offrirsi come cambio. Nel gennaio 1811 gli intendenti di Salerno e di Capua segnalavano iscrizioni fittizie di requisibili fra gli alunni telegrafici e i salnitrari allo scopo di fruire dell’esonero dalla leva. Il decreto N. 750 del 15 ottobre equiparò la diserzione commessa da un amnistiato ammesso al servizio militare per misura di polizia, alla diserzione al nemico, punita con la morte. Il decreto N. 793 del 16 novembre inasprì le sanzioni per il favoreggiamento della diserzione commesso da pubblici funzionari civili o militari. Il contenzioso sugli esoneri per motivi di famiglia
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Alle frodi si aggiungeva il contenzioso sulle esenzioni per motivi familiari. Con circolare del 2 maggio si chiarì che il beneficio per i figli unici si applicava anche agli esposti legalmente adottati. Con parere del 28 settembre (approvato dal re con decreto N. 767 del 24 ottobre da Portici), il consiglio di stato stabilì che l’esenzione dalla leva per gli ammogliati non era applicabile a chi aveva ottenuto la dispensa dall’età minima per contrarre il matrimonio, sul presupposto che “in oggetti di natura così differente la grazia conceduta per l’uno non (poteva) argomentarsi concessa anche per l’altro”. Con circolare del 17 ottobre del direttore generale della coscrizione fu concesso ai fratelli dei caduti il beneficio di essere posti “in coda al deposito”. Il 6 novembre l’intendente della Basilicata trasmetteva la richiesta di esonero di un primogenito con fratello affetto da cretinismo. Con parere del 30 novembre il consiglio di stato stabiliva che l’esenzione spettava anche al figlio unico maschio, non tenendosi conto delle sorelle. Il Monitore del 1° febbraio 1811 rese noto il caso di una donna che, avendo avuto un figlio illegittimo da un uomo che l’aveva poi riconosciuto, non poté ottenere l’esonero per l’altro figlio legittimo e convivente [la reale decisione 22 agosto 1809 aveva infatti riconosciuto esenti anche i figli di famiglia che avessero solo fratelli uterini]. La situazione al 31 dicembre 1810 Secondo lo stato di situazione al 31 dicembre, il totale degli uomini incorporati nel corso del 1810 nei corpi nazionali di linea di stanza in Italia (esclusi artiglieria e zappatori) era di 8.518 (fanteria di linea 6.559, leggera 1.146, cavalleria 813), inclusi però volontari, trugliati e trasferiti da altri corpi. Alla stessa data i presidiari di Napoli erano quasi raddoppiati a 463, mentre il deposito di Gaeta aveva ricevuto nell’anno 315 refrattari, di cui 299 trasferiti poi nella linea e 7 ai presidiari. Il 19 gennaio 1811 l’intendente di Napoli spiegava al ministro le ragioni per cui la leva era particolarmente difficile nella capitale. Le liste erano infatti basate sulle nascite registrate nei libri parrocchiali, ma buona parte riguardavano in realtà abitanti dei “casali”, battezzati nella capitale per far loro acquisire i privilegi civici, oppure persone già decedute o espatriate per la catastrofe del 1799. Inoltre nella capitale c’era un numero di esenti molto superiore al resto del regno, anche per l’alto numero di chierici, iscritti nei battaglioni marinari e discoli arruolati come “supplimento di polizia”. Ne derivava che dei 5.894 iscritti sulla lista della classe di leva (la II), ben 3.630 erano irreperibili, e altri 1.412 esenti o morti. Il gettito reale della classe si riduceva perciò a 852, ed essendo il contingente di 640, risultava un tasso di
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reclutamento pari a tre quarti dei coscritti, quando la media della provincia era di un quinto. I risultati della leva nella capitale erano, all’8 febbraio, di 3.330 ignoti, 1.412 esenti, 88 refrattari, 177 riformati, 48 rivedibili per bassa statura, 478 ammessi e 17 ricoverati all’ospedale. Il resto della provincia aveva avuto 283 refrattari, 104 riformati, 119 rivedibili e 436 ammessi.
D. La leva del 1811 e le norme sull’incorporazione e la “tansa” La leva dell’8 febbraio 1811 La leva del 1811 fu decretata l’8 febbraio (N. 894), sulla I classe stabilita dal decreto del 4 gennaio 1810 (1792), che aveva compiuto i diciott’anni nel 1810. La II classe (1791), già chiamata nel 1810, era eccettuata dal sorteggio complementare, che doveva perciò iniziare dalla III (1790). Il contingente era lo stesso dell’anno precedente (5.000 attivi e altrettanti di riserva), ma variava la ripartizione tra le province, alleggerendo il contingente di Napoli di 200 unità, ripartite fra altre 10 province, lasciando invariate le quote del Principato Citra e delle due Calabrie. La Terra di Lavoro, con 1.090 reclute attive e di riserva, passava così in testa nella distribuzione del carico. L’aliquota attiva doveva essere alle bandiere entro il 15 aprile. Con decreto N. 902 del 19 febbraio fu stabilita anche una nuova leva di 1.200 veliti, inclusa tuttavia nella leva ordinaria: si comprende che, dovendo costoro possedere speciali requisiti di censo e statura (m. 1,70 per quelli a cavallo e m. 1,73 per quelli a piedi), la loro quota gravava maggiormente sulle classi complementari. L’art. 6 imponeva alle province ancora in debito della precedente leva dei veliti di completare inoltre le vecchie quote; a tal fine era vietato il rimpiazzo, disposta la revisione dei riformati e concessa l’amnistia ai renitenti che si fossero presentati entro il 1° aprile. L’esenzione di particolari categorie di impiegati e legionari Restavano in vigore le esenzioni già stabilite, inclusa quella di chi aveva contratto matrimonio anteriormente al 4 gennaio 1810, e con decreti N. 887 e 889 del 2 e 4 febbraio furono concesse anche ai maestri di posta e gli allievi del real collegio di musica (limitatamente a quelli
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che, per talento e per profitto, fossero giudicati degni di rimanervi da un giurì composto di 5 maestri di cappella o professori di musica nominati dal re su proposta del ministro dell’interno). Con decreto N. 937 del 21 marzo, su rapporto del ministro delle finanze, furono inoltre esentati i ricevitori generali e i percettori di circondario, inclusi quelli di futura nomina: questi ultimi restavano però soggetti al servizio eventuale nelle guardie d’onore. Con decreto N. 1007 del 20 giugno l’esenzione fu infine accordata anche gl’impiegati di maggior rango nella regia delle sussistenze militari (quelli tenuti a dare cauzione) e, con decreto N. 1108 del 17 ottobre, agli ufficiali delle legioni provinciali che si fossero particolarmente distinti nelle spedizioni militari, a condizione di aver servito per 1 anno dalla data del brevetto nelle compagnie scelte oppure per 4 nelle compagnie ordinarie. In compenso, con decreto N. 915 del 27 febbraio, l’esenzione ai fratelli dei veliti e guardie d’onore fu ristretta a coloro che avessero due fratelli al real servizio, di cui uno in tali corpi. Inoltre il ministro dell’interno, con circolare del 22 giugno, proibì agli ufficiali di stato civile di sposare chi avesse fatto voto solenne di celibato o ricevuto gli ordini sacri, sanzionando così chi si fosse consacrato al solo scopo di sottrarsi al servizio militare. Gli intendenti di Salerno e Avellino chiarivano il 31 luglio che ci si poteva esimere dalla leva fornendo 15 cavalli (o 1.200 ducati) anziché un cambio e che i coscritti rimpiazzati non erano esentati dal servizio legionario, «essendo obbligo preciso di ogni cittadino di difendere la propria Patria». Il decreto N. 1117 del 24 ottobre limitò a 4 anni il periodo durante il quale il rimpiazzato doveva rispondere del sostituto. Qualora avesse dato successivamente diversi cambi per effetto della diserzione dei primi, il computo era fatto sui periodi di servizio effettivo di ciascuno, defalcando perciò gli intervalli tra la diserzione dell’uno e l’“incardinazione” del seguente, senza tener conto dei servizi prestati dai rimpiazzi riformati per inidoneità al loro arrivo al corpo. Il sostituito era definitivamente liberato in caso di morte del rimpiazzo, mentre la morte del sostituito non comportava il congedamento del suo rimpiazzo. Il decreto sull’incorporazione dei coscritti (1° marzo 1811) Con decreto N. 921 del 1° marzo (in 11 titoli e 53 articoli) furono emanate farraginose disposizioni sull’“incardinazione de’ coscritti a’ corpi dell’armata” e sulla riforma degli inabili. Abolito il deposito generale e limitata a 48 ore la permanenza nei depositi provinciali, le reclute dovevano essere avviate direttamente ai corpi. Il consiglio di reclutazione doveva pronunciare l’ammissione o riforma entro 24 ore
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dall’arrivo delle reclute, indicando generalità, statura e professione. In base a tali parametri il comando militare provinciale procedeva alla distribuzione delle reclute fra i diversi corpi, secondo le tabelle di ripartizione trasmesse dal ministero, riservando all’artiglieria e agli zappatori gli individui di statura superiore a m. 1,68, alla cavalleria e al treno quelli di statura di poco inferiore a m. 1,65 e ripartendo le eventuali eccedenze tra i corpi a piedi. Sellai e maniscalchi erano assegnati di preferenza alla cavalleria e al treno e fabbri e falegnami alle armi tecniche, fermo restando il requisito fondamentale della statura. Data della partenza, itinerario, composizione dei convogli e delle scorte erano concordati dall’intendente e dal comandante militare. Nel foglio di rotta dovevano essere indicati gli effetti di piccolo vestiario forniti alle reclute sprovviste di scarpe e biancheria: era vietato, a pena di nullità e sotto minaccia d’arresto dell’ufficiale responsabile, concedere giorni di permesso alle reclute in attesa di marciare. Gli ufficiali e sottufficiali conduttori erano responsabili, a pena di destituzione e severe punizioni, dell’esatta somministrazione del trattamento spettante alle reclute, il cui importo era a carico del corpo d’assegnazione. I conduttori accompagnavano il convoglio fino alla destinazione, mentre le scorte, fornite dalla gendarmeria e dalla guardia civica (ed eventualmente dalla linea), erano rilevate di tappa in tappa. Entro tre giorni dall’arrivo al corpo, le reclute che apparissero non idonee erano sottoposte a visita medica del chirurgo reggimentale o, in mancanza, di un ufficiale sanitario dell’ospedale militare o civile più vicino, il quale certificava l’eventuale inammissibilità indicando se l’infermità era anteriore o meno alla partenza dal capoluogo della provincia. Entro cinque giorni il corpo doveva trasmettere al direttore generale delle riviste e coscrizione lo stato dei non ammissibili, che restavano tuttavia provvisoriamente aggregati al corpo ricevendo solo gli effetti indispensabili per vestirli e farli riconoscere come soldati. Nella prima applicazione del decreto, la visita era estesa, con le stesse modalità, anche ai coscritti arruolati nelle leve precedenti. I coscritti risultati non idonei alla visita medica erano sottoposti a controvisita da parte di un diverso ufficiale sanitario. Le controvisite dovevano essere praticate durante la “rivista di riforma” passata da un generale incaricato dal ministro, da svolgersi annualmente entro due mesi dal termine della leva. Nel caso di incorporazioni successive, il ministro poteva disporre riviste straordinarie di riforma. Poteva inoltre, a sua discrezione, incaricare i generali ispettori di esaminare anche i casi di riforma relativi ad “antichi soldati” e le proposte di ritiro o passaggio negli invalidi o nei veterani. I risultati delle ispezioni, corredati dai certificati medici e dai pareri dei generali, erano trasmessi per il tramite del direttore generale al
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ministro, che pronunciava in via definitiva e per la pronta esecuzione. I riformati erano rimandati alle loro case, ma il foglio di congedo era rilasciato solo a coloro la cui infermità era posteriore all’incorporazione, mentre gli altri dovevano ritirarlo presso l’intendenza provinciale, che provvedeva a iscriverli nella lista dei riformati e ad esigere la relativa tassa. Le province erano tenute a rimpiazzare le reclute morte o disertate durante la marcia o riformate per infermità anteriori alla partenza. Gli autolesionisti e i simulatori erano condannati ai lavori pubblici a Brindisi o in altri luoghi. Amnistie, frodi e punizioni Il 15 aprile, termine per l’incorporazione della leva del 1811, il re concesse l’amnistia ai refrattari e disertori a condizione di presentarsi entro il 31 maggio: il decreto, N. 944, fu emanato da Parigi per festeggiare la nascita del Re di Roma. I refrattari e ritardatari amnistiati erano reintegrati nei diritti della loro classe, incluso il rimpiazzo: erano visitati e, se dichiarati idonei, inviati all’armata [in deduzione del contingente provinciale o in soprannumero se il contingente era già stato completato]. I refrattari dei veliti e guardie d’onore (che non avevano diritto al rimpiazzo) erano inviati al deposito di Napoli. I coscritti omessi sulle liste subivano un sorteggio speciale. I refrattari che dopo la presentazione non si rendevano al loro destino erano condannai come disertori. Dal Giornale dell’Intendenza di Salerno del 7 maggio apprendiamo di un divieto di arruolare nei cannonieri litorali giovani in età di leva, ma non siamo riusciti a rintracciare l’atto che lo sanciva. Con decreto N. 973 del 19 maggio le norme contro i refrattari alla leva di terra furono estese agli individui dell’iscrizione marittima che non rispondevano entro tre giorni alla chiamata. Con decreto N. 1144 del 28 novembre fu concessa un’amnistia ai disertori della marina, a condizione di presentarsi entro un mese. Con circolare del 20 luglio l’intendente di Capua minacciava misure di estrema severità contro i sindaci che dessero ricetto o tollerassero la presenza di refrattari o disertori. Il Monitore dette notizia della condanna di un sottotenente dei custodi di marina a 5 anni di reclusione per aver cercato di procurare l’esenzione dalla leva a due coscritti (11 maggio); ad 1 anno di un sergente maggiore per aver estorto soldi ad un coscritto con la promessa di trovargli un cambio (25 luglio); a 880 lire di multa ciascuno di tre medici di Avellino per false attestazioni di invalidità (28
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dicembre); a 3 anni di un imputato di «falsità e scroccheria in materia di coscrizione», e alla stessa pena, per fatti analoghi, di un ex-sindaco di Positano (24 dicembre). Le leve del 1810 e 1811 in Calabria Come abbiamo accennato, la leva del 1810 si tenne in Calabria all’inizio del 1811 e, nel clima psicologico creato dalla repressione del brigantaggio, si svolse con grande rapidità. Nella circolare del 19 gennaio l’intendente di Cosenza, dopo aver sottolineato che i 350 coscritti del distretto avrebbero avuto «la disgrazia di essere gli ultimi a presentarsi» e dovevano «cancellare la macchia» dei «figli traviati» divenuti «satelliti del delitto», minacciava severe punizioni per «qualunque delitto in materia di coscrizione» e rammentava che, se fosse stato costretto, con suo rammarico, a usare la forza, il generale Manhès aveva «pronti 10 mila bravi, a fa eseguire, e rispettare i decreti del re». Annunciava inoltre di aver designato per ciascun circondario i «più benemeriti e istruiti cittadini» per la rettifica delle liste e l’assistenza ai sorteggi. Con avvisi del 28 e 30 gennaio manifestava infine la sua soddisfazione per il compimento del sorteggio al decurionato di Cosenza e al consigliere d’intendenza inviato nei turbolenti distretti di Rogliano e Dipignano. L’11 marzo i 137 coscritti di Rogliano sfilarono per Cosenza inquadrati dallo stesso sottointendente Vanni, sfoggiando la coccarda tricolore e cantando inni patriottici e, dopo essere stati ricevuti al palazzo dell’intendenza, furono consegnati al deposito. Il 25 marzo l’intendente Galdi emanò le disposizioni relative alla leva del 1811 e il 15 aprile scriveva al re che tutti i coscritti dei contingenti attivo e di riserva del 1810 e attivo del 1811 erano «sotto le bandiere». Il 20 aprile un coscritto di Aprigliano, della classe 1787, che si era sottratto alla leva facendosi depennare dalle liste, fu condannato a partire per primo. Con decreto N. 976 del 2 giugno fu concessa l’esenzione agli addetti al lavoro delle mine e delle fonderie della Mongiana, a condizione di restare in tale stabilimento per dieci anni consecutivi, “essendo tenuti di servir nelle nostre armate di terra e di mare se volessero abbandonarlo”. Il bilancio della leva del 1811 e la chiamata della riserva Il 15 ottobre (decreto N. 1101) furono chiamati alle armi i coscritti di riserva della leva del 1811 nelle due Calabrie, che dovevano essere sotto le bandiere entro il 1° dicembre. Il 7 novembre (N. 1130) furono chiamati 3.000 marinai e il 9 gennaio 1812 (N. 1200) i riservisti delle province di Lecce, Bari, Basilicata e Capitanata, con arrivo ai corpi entro
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il 1° marzo. Secondo lo stato di situazione al 31 dicembre, il totale degli uomini incorporati nel corso del 1811 nei corpi nazionali di linea di stanza in Italia (esclusi artiglieria e zappatori) era di 13.464 (fanteria di linea 9.311, leggera 2.535, cavalleria 1.618), inclusi però i trasferiti da altri corpi. Alla stessa data il deposito di Gaeta aveva 278 refrattari, con 306 ricevuti nel corso dell’anno e 87 morti e disertati: da notare che, a differenza dell’anno precedente, nessuno era stato trasferito nella linea. I riformati erano 811, la tassa di riforma aveva fruttato 27.197 ducati: tuttavia due sole province (Bari e Lecce) avevano trasmesso l’elenco dei pagamenti fatti dai riformati. La riserva del 1811 fu chiamata in tre scaglioni: il 15 ottobre quella delle due Calabrie, con incorporazione entro il 1° dicembre; il 9 gennaio 1812 quella della Basilicata e delle Puglie, e il 21 gennaio quella delle province settentrionali, tutte con incorporazione entro il 1° marzo. Avellino fu la prima a completare (il 16 febbraio) l’invio dei suoi 352 riservisti. Ai primi di aprile Capua ne doveva ancora 27 su 545, Napoli 94 su 515. L’intendente di Monteleone giustificava il forte ritardo della sua provincia con l’alto numero dei riformati e degli irreperibili, col sabotaggio del consiglio di reclutazione da parte del comandante militare e con la mancanza di sottointendenti (un posto vacante, uno scoperto per malattia, uno coperto da un novizio inesperto), che a termini di legge non potevano essere suppliti dai giudici di pace. Norme sul recupero di refrattari e disertori (ott. 1811-aprile 1812) Con decreti N. 1131 e 1132 del 25 ottobre 1811 furono emanate le norme e le istruzioni ministeriali (in 6 titoli e 43 articoli) sulle guarnigioni a domicilio a carico delle famiglie de’ coscritti refrattari: ne trattiamo nel capitolo 10, paragrafo C. Il rapporto ministeriale del 24 ottobre aveva tuttavia riconosciuto che la renitenza dipendeva in parte dall’emigrazione temporanea per lavori stagionali in Toscana e negli Stati Romani. Con parere del 22 novembre 1811 il consiglio di stato ritenne perciò congruo ampliare i termini di presentazione concessi agli assenti per motivi di lavoro. Il 28 novembre (decreto N. 1144) fu concessa l’amnistia ai disertori della marina. Il 19 dicembre (N. 1169) furono arrotondati a 1.500, 100 e 12 lire gli importi delle multe conseguenti alla condanna per renitenza e diserzione, dell’indennità di rimpiazzo gravante sui comuni e del premio per la cattura, e a 75 centesimi la gratifica ai sanitari per la visita di ciascun coscritto. Il 4 gennaio 1812 (N. 1197) furono estese ai disertori della marina le pene contro i disertori recidivi dell’armata di terra stabilite con decreto del 15 aprile 1811. Il 23 gennaio (N. 1219) si stabilì
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la punizione in via solo correzionale dei disertori dalle compagnie provinciali in servizio nelle medesime da meno di sei mesi, salvo la ricorrenza di circostanze aggravanti. I coscritti che si erano sottratti fraudolentemente al sorteggio erano condannati a marciare per primi e decadevano dal diritto al rimpiazzo personale. Accadeva pertanto che i comuni, dopo aver effettuato il sorteggio, ritardassero la partenza del contingente nella speranza di scoprire i morosi e inviarli al posto degli onesti. Il decreto N. 1250 del 20 febbraio 1812 da Caserta vietò ogni ritardo e limitò il computo dei morosi nelle quote comunali al solo caso in cui fossero scoperti prima della data stabilita per la partenza. Una volta arrivati al corpo, i coscritti non potevano più essere rimandati a casa e i morosi arrivati in seguito erano considerati aggiuntivi alla quota, né potevano essere portati in deduzione da leve future. Il comune poteva però portarli in deduzione dei rimpiazzi dovuti per i coscritti della medesima leva che, una volta giunti al corpo, erano riformati alla visita medica. Lo stesso potevano fare gli intendenti per i coscritti dovuti da altri comuni dalla provincia impossibilitati a somministrare gli interi loro contingenti (circostanza che l’intendente doveva notificare, con le motivazioni, al direttore generale della coscrizione). Infine, con decreto N. 1252 del 20 febbraio 1812 da San Leucio fu istituito un nuovo reggimento leggero, detto “provvisorio”, con organico di 2.965 teste inclusi 79 ufficiali, da organizzarsi a Capua con detenuti riconosciuti atti al servizio, e, con decreto N. 1317 del 9 aprile, vi furono immessi i disertori condannati ai lavori pubblici o al “trascinamento della palla”, cui si applicava, in caso di recidiva, il decreto del 15 aprile 1810 sugli amnistiati.
E. Le leve del 1812-14 e l’abolizione della coscrizione La leva del 1812 (decreto N. 1319 del 10 aprile) In ritardo di due mesi sulla precedente, la leva del 1812 fu decretata il 10 aprile (decreto N. 1319). Il contingente era quasi raddoppiato a 18.000 uomini, di cui 10.000 attivi e 8.000 di riserva, in rapporto alla necessità di sostituire gli 8.000 in partenza per la Russia. Come nel 1811,
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erano inclusi nel totale degli attivi anche i contingenti dei veliti e guardie d’onore, e inoltre 500 fabbri e falegnami – 300 costruttori navali per gli arsenali di Napoli e Castellammare e 200 operai d’artiglieria (artefici dell’arsenale del Castelnuovo e armieri delle manifatture di Gioacchinopoli) – levati con decreto N. 1282 del 23 marzo 1812. Il decreto N. 1319 confermava inoltre le esenzioni individuali dei figli unici, dei vedovi con prole, degli ammogliati in data anteriore al 4 gennaio 1810, dei minatori e fonditori della Mongiana, degli impiegati con soldo della regia delle sussistenze militari, dei giovani con due fratelli alle armi di cui almeno uno nei veliti o guardie d’onore, degli ufficiali delle legioni provinciali con speciali benemerenze e anzianità di servizio e, in generale, degli addetti alle manifatture reali. La classe chiamata era il 1793, che aveva compiuto diciott’anni nel 1811 e non era stata ancora “allistata”. Tuttavia, come faceva presente il sindaco di Napoli il 25 aprile, i nati nel primo bimestre del 1793 erano già stati soggetti alla leva del 1811 e di conseguenza la leva del 1812 gravò principalmente sui nati negli ultimi dieci mesi del 1793. I comuni dovevano formare a tal fine una nuova lista, includente sia i nati nel 1793, sia i recuperati dalle leve precedenti, ed effettuare il sorteggio entro il 20 maggio, completando il contingente sulle classi I-VI (179287) stabilite dal decreto del 4 gennaio 1810. I recuperi furono disposti con decreti N. 1321 e 1322 dello stesso 10 aprile, mediante revisione dei titoli di esenzione, rettifica dei casi di mancata o doppia iscrizione e revisione dei riformati per bassa statura (stabilendo in via generale che i riformati a tale titolo fossero rimisurati ad ogni leva fino al 21° anno di età). In compenso, con decreto N. 1320, sempre del 10 aprile, i coscritti non chiamati alle armi delle classi VII (1786) e VIII (1785), già compresi nelle leve del 1807 e 1809, furono definitivamente esonerati dagli obblighi militari. L’incorporazione doveva avvenire entro il 1° luglio, con partenze dai capoluoghi di provincia scaglionate al 10, 20 e 30 giugno. Dopo la partenza del I scaglione non erano ammesse sostituzioni per cambio di numero e le reclute partite dopo il III decadevano dal diritto di dare un rimpiazzo (salvo speciale autorizzazione sovrana). I rimpiazzi dovevano appartenere alle classi dai 25 al 29 anni (1782-86), cioè a quelle non più soggette alla leva. La ripartizione del contingente tra le province e i comuni La tabella annessa al decreto stabiliva per ciascuna provincia un contingente attivo pari al totale dei contingenti attivo e di riserva del 1811, aggiungendovi una riserva pari all’80 per cento dell’attivo. I
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consigli d’intendenza dovevano determinare le quote comunali in proporzione alla popolazione entro otto giorni dal ricevimento del decreto. Contraddittoriamente con tale termine, il decreto prevedeva però che la ripartizione provinciale potesse essere modificata di concerto dai ministri della guerra e dell’interno, “atteso i cambiamenti di alcuni comuni di una provincia in un’altra”. La tabella fu infatti sensibilmente modificata con decreto N. 1353 del 23 aprile, che limava il contingente attivo a 9.990 uomini. Restava invariata solo la quota della provincia di Napoli, già diminuita di 200 unità l’anno prima, mentre 118 reclute erano spostate da Avellino a Campobasso: la quota di Chieti aumentava di 36 (Foggia –34 e Teramo –3), quella di Capua di 51 (Salerno –32 e L’Aquila –15), quelle di Cosenza e Reggio di 57 (Matera –43, Bari –13, Lecce –14). La diminuzione percentuale della quota imposta alla Basilicata non sembra aver tenuto conto della protesta inviata dall’intendente il 26 febbraio 1812, in cui si diceva che la provincia, pur avendo già perso 1.700 giovani in età di leva (500 morti per il brigantaggio e 1.200 “briganti dati per soldati”), aveva dovuto dare 3 uomini in più della Calabria Citra (nonostante questa avesse 71.000 abitanti in più della Basilicata). Alle disparità fra le province si aggiungevano quelle fra i distretti e i comuni. Per quanto riguarda i distretti, vediamo ad esempio il caso dell’Abruzzo Ultra I, composta dai distretti di Teramo e Penne. Il contingente provinciale era di 640 coscritti, 358 attivi e 282 (=80%) di riserva: a Teramo ne toccavano 358 (197+161), pari al 3.43 per mille degli abitanti (104.387, di cui 10.041 nel capoluogo). La quota di Penne era di 282 (159+123), pari al 3.48 per mille (81.054 abitanti, di cui 8.151 nel capoluogo). I più penalizzati erano però i sobborghi di Napoli, sui quali si scaricava il deficit della capitale. Nel dicembre 1811 Fuorigrotta e Posillipo protestavano per essere stati aggregati al quartiere di Chiaia, con l’effetto pratico di dover fornire un numero di reclute doppio della media provinciale. La pretesa esenzione collettiva di Napoli dalla leva di terra Con una formulazione decisamente ambigua, il decreto esentava dalla leva di terra le “isole, la costa di Sorrento, Torre del Greco e Napoli”. L’esenzione era presentata come una “conferma” di norme precedenti: la legge sull’iscrizione marittima non aveva però stabilito alcuna esenzione collettiva dei comuni insulari e litoranei: questi ultimi erano inclusi nella ripartizione del contingente di terra, anche se gli iscritti nei battaglioni marinari (ossia solo la gente di mare) erano computati nelle quote comunali. Quanto a Napoli, non c’era mai stata alcuna esenzione
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collettiva della provincia, e del resto anche nella leva del 1812 fu gravata da un contingente di 1.855 coscritti (destinati al 1° e 2° di linea o agli artefici). Solo in sede di ripartizione del contingente provinciale fra i quartieri e i comuni del distretto erano stati esonerati i quartieri litorali e i comuni detti “mediterranei” (Pianura, Soccavo, Barra, Ponticelli, S. Anastasia). Il 17 aprile 1811 il ministro degli interni aveva inoltre respinto il ricorso di Portici e Resina contro la loro inclusione nella leva di terra, osservando che il contingente della città e distretto di Napoli era stato diminuito di 200 unità rispetto alla leva del 1810 proprio per compensare i cittadini soggetti alla leva di mare. Tuttavia il 14 febbraio 1812 l’intendente di Napoli aveva segnalato le iscrizioni marittime fatte al solo scopo di sottrarsi alla leva e aveva proposto di stabilire un limite di età per l’iscrizione (il compimento del 16° anno) e l’obbligo di certificare il mestiere con attestato del parroco o del sindaco. Come abbiamo detto, alla provincia di Napoli fu imposto nel 1812 un contingente attivo pari al totale del 1811; la quota della capitale fu però diminuita di ben 360 unità, a carico del resto della provincia. Giocando sull’ambigua formulazione del decreto, l’intendente sollevò un capzioso quesito, chiedendo di poter compensare le 1.855 reclute richieste per l’esercito con le 1.890 già fornite alla marina, e, in attesa della risposta, sospese la leva. Non appena informato, Murat ordinò di riprenderla, ma era già il 23 giugno, e l’ordine giunse a Napoli dopo la scadenza dei termini per l’incorporazione del contingente attivo. L’esecuzione della leva, l’amnistia e i benefici ai militari Il ritardo di Napoli non fu però determinante, perché il 12 maggio, da Parigi, lo stesso re aveva ordinato di scaglionare la partenza del contingente attivo, limitando a 6.000 quelli da inviare ai corpi entro la fine di giugno. Gli altri 4.000 furono chiamati il 17 giugno, con partenze al 10, 20 e 30 luglio. Questa volta Monteleone inviò il suo contingente nei termini prescritti, col residuo del 1811; Cosenza ritardò di un paio di settimane, perché l’intendente non aveva voluto far partire le reclute sotto le feste pasquali. Vi furono invece problemi in Puglia e a Salerno, il cui intendente rampognava i sindaci, avendo trovato addetti alla leva «tant’ignoranti campestri»: le reclute della provincia erano assegnate al 2° leggero, e nella rassegna passata al deposito di Procida ne furono scartate 130. Murat chiamò la riserva con decreto N. 1555 del 3 dicembre, da Molodetschno, che stabiliva l’incorporazione entro il 1° marzo 1813 per formare i quarti battaglioni reggimentali. Il Monitore lo pubblicò l’11 gennaio, aggiungendo che i comuni morosi erano tenuti al raddoppio del
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contingente. Il 24 portava ad esempio la provincia di Teramo, dove si erano già presentati 200 riservisti su 282. Vi furono invece ritardi all’Aquila, per la necessità di attendere il ritorno dei pastori richiamati dalla transumanza: il comandante della provincia, maresciallo di campo Pinedo, accusò l’intendente di aver largheggiato nella concessione dei passaporti, ma il ministro dell’interno sostenne il funzionario contro le rampogne del direttore generale Arcambal. Tornato a Napoli, il 18 marzo Murat concesse una nuova amnistia ai refrattari e disertori delle armate di terra e di mare (decreto N. 1669), con termine al 1° maggio (prorogato al 18 maggio con decreto N. 1746 del 5). Il decreto N. 1674 del 29 marzo stabilì come condizione per ottenere impieghi pubblici civili o militari, a decorrere dal 1° aprile 1814, il requisito di aver prestato servizio militare per almeno un anno e, con effetto immediato, accordò ai militari la preferenza sui civili nei concorsi pubblici. La leva del 1813 (decreto N. 1687 del 9 aprile) La leva del 1813 fu decretata il 9 aprile (decreto N. 1687), con un contingente di 10.000 uomini, di cui 6.012 attivi e 3.988 di riserva, e con la stessa ripartizione provinciale dell’anno precedente [a titolo di esempio, la provincia di Abruzzo Ultra I doveva dare 357 uomini, di cui 215 attivi e 142 di riserva: al distretto di Teramo ne toccavano 198 (120+78), a quello di Penne 159 (95+64)]. Il contingente attivo doveva essere alle bandiere entro il 1° luglio. Esonerata la VI classe (1787) per aver compiuto il 25° anno di età, la leva gravava sulle classi III-V (1790-88), dai 22 ai 24 anni. Queste classi avevano già concorso, ma solo parzialmente, alle precedenti leve, entrando nei sorteggi promiscui effettuati nel 1807 e 1809 e nei sorteggi complementari del 1810-12. Il sorteggio del 1813 doveva cominciare dalla III classe e dal coscritto col numero immediatamente successivo a quello dell’ultimo reclutato nelle leve precedenti. Quelli coi numeri inferiori che per qualunque motivo non fossero stati incorporati erano però soggetti a revisione, e, qualora non potessero giustificare legalmente la loro esenzione, riforma, congedo, rimpiazzo o altra legittima eccezione, dovevano partire per primi senza riguardo né alla classe né al numero. La stessa misura si applicava anche agli omessi dalle liste, nonché ai coscritti minori di 21 anni riformati per bassa statura nelle leve precedenti che risultassero idonei a seguito di una nuova misurazione. Le reclute così recuperate erano portate in deduzione della quota comunale, sempre che il recupero avvenisse prima del giorno stabilito per la partenza. Se i recuperi e i sorteggi delle tre classi di leva
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non erano sufficienti a completare la quota comunale, il deficit doveva essere supplito dai comuni più popolosi della stessa provincia. Il decreto dava inoltre un giro di vite nei confronti degli irreperibili, sancendo l’obbligo degli individui in età di leva di informarsi del loro destino e dichiarando non esimente l’ignoranza della chiamata, “attesa la pubblicità che dopo molti anni si (era) data alle leggi sulla coscrizione”. La notifica personale era surrogata dalla pubblicazione della lista generale degli irreperibili, da esporsi nei capoluoghi di provincia e di distretto per un mese, trascorso il quale l’iscritto nella lista che non si presentava o non giustificava l’impossibilità fisica di farlo era dichiarato renitente. I parenti dei morti, assenti dal regno e ammalati erano tenuti a presentare al sindaco i relativi documenti, sotto minaccia di incorrere nella tansa. Erano confermate le esenzioni già accordate nelle leve precedenti, ma si ribadiva che i rimpiazzi, sia personali che comunali, non erano più ammessi dopo la data stabilita per la partenza del contingente. In compenso si aumentava di un anno (da 29 ai 30) l’età massima dei rimpiazzi (ferma restando la minima a 25: i rimpiazzi dovevano dunque appartenere alle sei classi 1782-87) e si concedeva inoltre ai coscritti coniugati (quelli maritati dopo il 4 gennaio 1810 erano infatti soggetti alla leva) di poter fornire un rimpiazzo di statura inferiore alla propria. La ripartizione del contingente e la nuova leva di mare La ripartizione dei contingenti fra le province fu stabilita il 18 aprile, con partenza degli scaglioni attivi al 15 e 31 maggio e al 16 giugno. I contingenti provinciali furono ritoccati in proporzione alla popolazione maschile effettivamente soggetta alla leva, dedotte cioè la gente di mare e le altre categorie esenti. La base imponibile della provincia di Napoli diminuiva così di 103.000 unità (28.810 marittimi e 74.218 esenti per cause generali) e il contingente scese a 931 reclute (457 della capitale, 96 del 1° distretto, 206 di Casoria, 44 di Pozzuoli e 128 di Castellammare). A differenza dei comuni, molti quartieri avevano già esaurito la IV classe, per cui il sorteggio si fece in città sulla V. Il 3 luglio il contingente attivo era quasi completato e la sola capitale era in debito di 45 reclute su 269. La provincia era in credito di 27 uomini per la leva del 1811 (avendone dati 1.182 su 1.155) e in debito di 77 per quella del 1812 (1.778 su 1.855). L’esclusione dei marittimi dal contingente per la leva di terra fu compensata dalla leva di 2.500 marinai decretata il 15 giugno [v. tomo III].
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Tre pareri del consiglio di stato in materia di autolesionismo Con decreti del 2 maggio (N. 1784), 19 luglio (N. 1847) e 26 agosto furono approvati tre pareri del consiglio di stato in materia di autolesionismo. Il primo dichiarava illegittima la mancata indicazione della durata massima della pena prevista dall’art. 47 del decreto del 1° marzo 1811 (lavori pubblici a Brindisi). Il secondo escludeva la procurata tigna dai casi di autolesionismo, considerato a) che non si trattava di infermità assolutamente incurabile, b) che “il miglior modo di far disparire la tigna volontaria de’ coscritti (era) senza dubbio il non attribuirle l’effetto della esenzione dal servizio militare”, c) che il fatto non era punito dalla “legislazione militare di Francia, che è stata di norma alla nostra”. Il terzo parere bocciava la proposta del ministro della guerra di punire con tre anni di lavori pubblici a Brindisi il cambio che, allo scopo di “lucrare fraudolentemente il prezzo” della sostituzione, avesse tenuto nascosta una infermità inabilitante al servizio militare, atteso che la fattispecie rientrava nel “delitto di scrocco” (appropriazione indebita mediante “uso di falsa qualità”), punita dal codice penale con la reclusione da uno a cinque anni e l’ammenda da 50 a 3.000 lire. L’esecuzione della leva del 1813 e l’impennata della diserzione In aprile il Monitore dava notizia che il sindaco di Cimitile (NA) era stato destituito e arruolato nella linea per falso e corruzione (si era sottratto alla leva nei veliti con la falsa autocertificazione di essere figlio unico e, per denaro, aveva cancellato un coscritto dalle liste). Il 28 maggio lo stesso giornale assicurava che la leva si stava eseguendo con grande celerità: il Molise aveva già completato i due terzi della quota in soli quattro giorni, il 7 maggio Cosenza aveva dato 250 coscritti e a Salerno ne mancavano solo 31. Al 31 maggio la Calabria Ultra aveva già completato il suo contingente attivo di 538 reclute, con 515 giunte al deposito, 11 ricoverate e 13 in servizio alla Mongiana. Il 25 giugno il Monitore ribadiva che la leva si stava svolgendo senza necessità di alcuna misura coattiva ed erano già stati incorporati i 5/6 del contingente attivo; il 21 luglio lodava la provincia di Avellino per essere stata la prima a completare la leva «dei settemila» e aver quasi completato (con 3 uomini mancanti) quella «dei quattromila». Sotto la stessa data, però, una circolare del ministro dell’interno manifestava agli intendenti le doglianze del re per l’elevato numero di reclute che venivano riformate nelle riviste d’ispezione ai depositi. Il relativo successo della leva fu però compensato dalla massiccia impennata delle diserzioni dall’armata attiva verificatasi durante la primavera e l’estate del 1813 per il timore di essere inviati in Germania.
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Già il 21 maggio (decreti N. 1774 e 1775) fu disposta l’attivazione di colonne mobili per la cattura di disertori e refrattari: erano raddoppiati il premio per la cattura e l’indennità per i piantoni a domicilio, da suddividersi in parti uguali fra tutti i legionari scelti e i gendarmi impiegati. Inoltre i comuni, distretti, circondari e province erano tenuti a somministrare le informazioni e i mezzi per la cattura e i rimpiazzi di tutti i latitanti che non fossero stati catturati entro due mesi. Se l’obbligo di rimpiazzo cadeva su un legionario scelto, costui poteva essere esonerato a condizione di aver sempre tenuto buona condotta e di essersi particolarmente distinto nel servizio di colonna mobile. Ai disertori e renitenti che non si presentavano entro un mese dall’arrivo della colonna nel loro comune erano estese le maggiori pene previste dall’amnistia per i pertinaci: in compenso erano aboliti i giudizi contumaciali e concesso ai consigli di guerra speciali di raccomandare i condannati a morte alla clemenza del re per la commutazione della pena nei ferri o nei lavori pubblici a vita. I parroci dovevano dare pubblicità per 3 festività consecutive alle disposizioni dei due decreti. Il 25 maggio, per la sola leva in corso, il periodo di responsabilità personale per la diserzione del rimpiazzo fu ridotto a un solo anno (ferma restando la responsabilità quadriennale per i rimpiazzi ammessi nelle leve precedenti): in compenso, il 3 giugno, l’obbligo di rimpiazzo personale dei disertori con meno di 4 anni di servizio fu esteso ai fratelli, ancorché posti in coda al deposito o esenti dalla leva (N. 1793). Il 18 luglio la diserzione dalle divisioni attive, ancorché dislocate nel regno, fu considerata diserzione al nemico, giudicata militarmente entro 48 ore dall’arresto (N. 1846), e il 22 luglio la giurisdizione delle commissioni militari fu estesa ai complici e fautori della diserzione (N. 1851). Malgrado ciò i soldati accampati sulle colline di Napoli disertavano in massa nascondendosi nella capitale presso parenti ed amici: la notte del 29-30 luglio si fece una massiccia retata con l’impiego della linea e il 1° agosto si dette un esempio fucilando un disertore. Con decisione reale del 24 luglio si consentì, in deroga al divieto generale, l’arruolamento volontario nella gendarmeria reale dei giovani alfabeti diciannovenni a condizione di vestirsi ed equipaggiarsi a proprie spese. Il decreto N. 1887 del 13 agosto stabilì la decadenza dal diritto al rimpiazzo qualora, entro tre mesi dalla sua incorporazione, il coscritto non avesse ottenuta l’ammissione di un cambio idoneo o non avesse rimesso la relativa documentazione alla direzione generale, ovvero, senza legittimo e documentato impedimento, non fosse giunto al corpo nella data stabilita [ma la norma fu subito clamorosamente derogata a favore di Carlo Palmieri, nipote del marchese, direttore del consiglio delle finanze]. L’art. 42 delle istruzioni sulla leva del 22 marzo 1810
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stabiliva che i coscritti non erano obbligati a rimpiazzare i cambi disertati quando costoro fossero stati recuperati entro un mese dalla condanna. L’abolizione dei giudizi contumaciali aveva però di fatto vanificato la decorrenza del termine e svuotato la responsabilità del sostituito; il decreto N. 1888 del 13 agosto stabilì pertanto che il sostituito era tenuto a rimpiazzare personalmente il cambio disertato qualora non l’avesse rimpiazzato con un altro cambio entro un mese dalla notifica della diserzione. Passata l’emergenza, il 25 settembre furono esclusi dall’aggravante i disertori che si fossero presentati spontaneamente (N. 1921), il 18 novembre furono riviste le norme sulla giurisdizione e le pene per i disertori costituiti (N. 1971) e l’8 dicembre fu emanata una circolare sulla presentazione di disertori e refrattari. Norme sugli amnistiati e sull’indennità di riforma Con circolare del 13 marzo 1813 il ministro della giustizia stabilì i delitti e le pene che davano luogo all’indegnità al servizio militare, includendovi i condannati a morte, a pena perpetua o ai ferri nonché i ladri abituali. Refrattari e morosi amnistiati, portati in deduzione del contingente della loro provincia, furono destinati ad un nuovo reggimento provvisorio (divenuto poi 9° di linea) prese il posto del precedente, partito in gennaio per la Germania col nome di 4° leggero. Il 31 marzo il ministro di polizia generale comunicava al direttore generale della coscrizione la decisione del re di completare il reggimento attingendo alla classe dei detenuti. Con decisione reale del 20 maggio si stabilì che gli arruolati in circostanze straordinarie (vagabondi, amnistiati) non procuravano ai fratelli il vantaggio di essere posti in coda al deposito, facendosi però eccezione se si fossero particolarmente distinti per almeno due anni. Il 16 ottobre la direzione generale della coscrizione espresse parere negativo sul computo nei contingenti di leva dei detenuti o marcianti per misura di polizia che fossero sorteggiati come coscritti. Le istruzioni del ministro delle finanze del 20 ottobre chiarirono che l’indennità di riforma era commisurata alla contribuzione effettiva, al netto del contenzioso, e alla quota di beni indivisi goduta dal contribuente; inoltre con non era dovuta dai rivedibili, ma solo dai riformati in via definitiva. La leva del 1814 (decreto N. 2008 del 24 dicembre 1813)
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La leva del 1813 era stata concepita e presentata come un recupero sulle leve precedenti: quella disposta con decreto N. 2008 del 24 dicembre per sostituire le truppe inviate in Alta Italia, fu pertanto presentata come “leva del 1813”, sulla classe che aveva compiuto i diciott’anni nel 1812, ossia i nati nel 1794 che erano in realtà ormai diciannovenni (e i nati nel primo trimestre avrebbero anzi compiuto vent’anni prima dell’arrivo ai corpi). Il contingente era di 12.000 uomini, inclusi 4.000 di riserva: i comuni marittimi erano inclusi della ripartizione, limitatamente però al numero degli abitanti non soggetti all’iscrizione marittima. Erano confermate tutte le altre esenzioni già previste dalle leve precedenti. I consigli di reclutazione dovevano formare e rettificare le liste dei nati nel 1794, sulle quali si doveva operare il sorteggio. Erano però dedotti dalle quote i coscritti delle leve precedenti dichiarati primi a marciare, composti da 5 categorie. Le prime tre, private del diritto di cambio, erano i coscritti la cui esenzione fosse stata riconosciuta illegittima, gli omessi dalle liste e quelli con numero di sorteggio anteriore all’ultimo chiamato. Le altre due categorie, con diritto di cambio, erano i riformati per bassa statura minori di 21 anni e i celibi riformati per infermità che, sottoposti a verifica da parte dei consigli di reclutazione, fossero riconosciuti idonei. Gli irreperibili erano precettati mediante pubblicazione per un mese delle liste distrettuali e provinciali nominative. Il termine d’incorporazione era stabilito al 1° aprile. La partenza dell’ultimo scaglione doveva avvenire entro il 16 marzo: dopo il 10 non potevano essere più ammesse le sostituzioni di numero e dopo il 15 i cambi presentati ai consigli di reclutazione. Restava il diritto, per i coscritti partiti entro il 16, di presentare cambi entro tre mesi dall’arrivo al corpo. Gl’intendenti dovevano inoltre trasmettere entro il 20 marzo al ministero la lista dei coscritti ritardatari per motivi legittimi, che potevano essere ammessi a dare il cambio su decisione del direttore generale della coscrizione. L’età minima dei cambi era abbassata da 25 a 20 anni, ferma restando la massima a 30, aumentando così da 6 a 11 le classi che potevano fornirli (1783-93): i cambi dovevano essere però esenti dalla leva, idonei e di statura non inferiore a quella del sostituito (requisito da cui erano però esentati i cambi presentati dai coscritti ammogliati). Le esenzioni illegali ottenute con mezzi fraudolenti dovevano essere segnalate al direttore generale della coscrizione. Le dimissioni di Pégot e le leve nei territori occupati
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Durante l’esecuzione della leva, Murat dette nella stessa settimana due esempi contraddittori di clemenza e rigore: il 18 febbraio graziò un disertore condannato a morte, il 26 rifiutò la grazia, chiesta dallo stesso colonnello del reggimento di appartenenza, ad un disertore recidivo di 21 anni, fucilato a Napoli. Il 1° marzo, con decreto N. 2051 da Bologna, Murat chiamò alle armi i 4.000 riservisti della leva in corso (con partenze al 15 e 20 aprile). Nella lettera del 3 marzo in cui ringraziava Metternich per la ratifica del trattato di alleanza austro-napoletano, citava a prova della sua lealtà e buona volontà di non aver fino ad allora applicato la leva negli Stati Romani e in Toscana, ma la giudicava indispensabile e avviava che intendeva prepararla, «afin d’abreger les lenteurs, si elle s’exécutera». [Aveva del resto già preso al suo servizio parte dei 17 ufficiali e 524 soldati italiani della guarnigione della cittadella di Ancona che si era arresa il 18 febbraio]. Con decreto N. 2071 dell’8 aprile, sempre da Bologna, Murat soppresse la direzione delle riviste e della coscrizione, lasciata vacante dopo le dimissioni date il 22 febbraio, per non combattere contro la Francia, dal terzo e ultimo direttore generale, maresciallo di campo Pégot. La coscrizione del 1814 in Calabria Ultra secondo Desvernois Prudenzialmente, gli ufficiali e i funzionari francesi in servizio nelle Puglie e nelle Calabrie erano stati sollevati dai loro incarichi e internati a Monteleone, incluso Desvernois, comandante militare della Calabria Ultra dal 13 novembre 1813, che, sospeso dal comando il 14 febbraio 1814, lo riprese il 28 aprile. Le sue memorie, alquanto scarne su questo periodo, si diffondono invece sull’esecuzione della leva in Calabria Ultra, nelle prime sei settimane dell’anno. Convinto che le autorità civili facessero sempre in modo da far cadere il sorteggio sui figli dei “bracciali”, Desvernois volle infatti dirigere personalmente la leva, e, ottenuto dall’intendente il quadro della popolazione divisa per distretti, cantoni e comuni, procedette egli stesso alla ripartizione del contingente e accentrò i sorteggi nei capoluoghi di cantone, in modo da poterli presiedere di persona. Secondo Desvernois l’innovazione rassicurò le famiglie e per la prima volta la leva non produsse né un refrattario né una recluta per le comitive di briganti. Tutti risposero all’appello, tranne pochi giustificati dai sindaci intervenuti al sorteggio in rappresentanza dei loro comuni. Desvernois presenziò, insieme all’intendente, anche alle revisioni degli estratti, tenutesi sempre per cantone otto giorni dopo il sorteggio: in tale occasione i coscritti furono sottoposti a visita medica e gli inabili riformati. I convogli furono affidati ad ufficiali di linea, cui si raccomandò di trattare le reclute con la massima dolcezza e di impartir loro già per strada i primi elementi della disciplina, subordinazione,
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marcia in battaglia, in colonna e al passo «de route». Nessuno disertò durante il viaggio: “erano, se non contenti, rassegnati, perché la più perfetta giustizia aveva presieduto al sorteggio”. Il ministro Tugny ne fece rapporto al re, il quale espresse la sua soddisfazione e invitò i comandanti delle altre province a concertarsi con gli intendenti per adottare dappertutto, nella prossima leva, il “metodo Desvernois”. L’abolizione della coscrizione (decreto N. 2120 del 22 maggio 1814) In realtà non vi furono altre leve, perché, dopo la pace di Parigi, Murat decise di rendere “all’agricoltura ed alle arti le braccia che i bisogni dello Stato ci avevano forzato di distrarre” e, “persuaso d’altronde che l’amore ed il patriottismo” dei sudditi gli avrebbero fatto trovare, se necessario, “delle forze pronte ad accorrere per la difesa del regno”, con decreto N. 2120 del 22 maggio abolì la coscrizione “in tutta l’estensione del regno”. L’abolizione non era però applicabile ai renitenti, ritardatari e refrattari, né ovviamente ai militari alle bandiere, ai quali si promettevano congedi “nel numero ed all’epoche che ci riserviamo annualmente di stabilire”. Per il reclutamento e “rinnovo” dell’esercito si ristabiliva “il metodo delle antiche leve (…) con quelle modificazioni che po(teva)no favorire la popolazione, l’agricoltura e le arti”, incaricando il ministro della guerra di proporre al sovrano i regolamenti sull’esecuzione delle leve e sui congedi assoluti dei soldati in attività di servizio. Gli ultimi decreti murattiani in materia di coscrizione erano stati emanati a Napoli il 10 e 11 maggio: il primo (N. 2103) approvava un parere del consiglio di stato (del 22 aprile) sul privilegio di essere chiamati per ultimi accordato ai fratelli dei militari in servizio attivo, esteso anche agli ufficiali di sanità “brevettati ed in attual servizio dell’armata”. L’altro decreto (N. 2109) disciplinava la certificazione legale dei requisiti per l’ammissione nell’iscrizione marittima e la tenuta dei relativi registri, disponendo la rettifica delle liste nel termine perentorio di sei mesi. Il 18 giugno fu infine abolita la tassa di riforma. Con circolare del 25 maggio il ministro della guerra chiarì agli intendenti che l’abolizione della coscrizione riguardava il futuro e che pertanto le province dovevano completare i contingenti: i coscritti non giunti ai corpi senza giustificati motivi entro il 1° maggio erano del resto considerati refrattari e come tali obbligati a marciare. Con altra circolare del 27 luglio ricordava che le province erano ancora in debito di 2.000 uomini. Al 6 agosto Napoli doveva rimpiazzare 356 disertori e refrattari, al 3 settembre era ancora in debito di 49 uomini e solo il 7 gennaio 1815 saldò il suo contingente di 1.031. Con circolare N. 3 del 25 febbraio
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1815 si stabilì che nei contratti di rimpiazzo si dovevano indicare il prezzo e il garante degli anticipi, da restituirsi in caso di mancata ammissione del cambio: l’esecuzione dei patti convenuti tra le parti era attribuita ai consigli di reclutazione. Gli ultimi reclutamenti murattiani (luglio 1814 – maggio 1815) Abolita la coscrizione, Murat basò il reclutamento dell’esercito sull’amnistia ai disertori, renitenti e briganti (decreti N. 2114, 2129 e 2160 del 12 maggio, 2 giugno e 3 luglio, con termine di presentazione prorogato sino al 15 agosto) e sull’offerta d’impiego ai napoletani che servivano con la qualifica di “esteri” nell’esercito siciliano, con cui intendeva formare un reggimento speciale a Castellammare (decreti N. del 29 agosto e 14 novembre). Con circolari del 9 e 30 luglio agli intendenti il ministro della guerra diffuse il rapporto dell’ispettore della gendarmeria Manhès, il quale imputava il mancato arresto dei disertori e renitenti rientrati alle loro case all’inerzia dei reggimenti che omettevano di trasmettere le filiazioni dei disertori, ma anche all’inerzia delle autorità comunali, alle quali il ministro ricordava le pene stabilite dal decreto 16 novembre 1810 per i favoreggiatori. Con circolare del 7 settembre il ministro comunicò la decisione reale che i disertori appartenenti alla classe degli antichi amnistiati o degli ammessi al servizio per misura di polizia fossero giudicati e puniti come rei di diserzione al nemico. Il decreto N. 2304 del 20 ottobre, da Portici, comminò un’ammenda da 50 a 200 ducati contro i sindaci e pubblici funzionari che omettessero di fare rapporto sulla presenza di disertori o refrattari nel proprio comune. L’unico risultato positivo fu l’accordo di settembre per il rimpatrio dei marinai napoletani al soldo inglese. L’appello agl’intendenti per una leva volontaria dell’un per cento della popolazione, fu invece un fiasco clamoroso: al 7 dicembre Avellino ne aveva dati appena 2; secondo il Monitore del 16 gennaio 1815 i volontari raccolti in 5 province erano solo 284 (Napoli 72, Avellino 47, Cosenza 58, Campobasso 62, L’Aquila 45). L’appello ai volontari fu equivocato dagli austriaci: due rapporti del novembre 1814 (uno di Esterhazy da Napoli, del 10, e uno di Lebzeltern da Roma, del 19) segnalavano a Vienna che era in corso una leva (il cui decreto, secondo Esterhazy, non era stato però ancora pubblicato) per accrescere l’esercito di 15.000 uomini e 6.000 cavalli. Maggior successo ebbe il richiamo dei militari del disciolto esercito italico residenti nella parte delle Marche occupata dai napoletani. Con o. d. g. del sottocapo di SM napoletano del 24 dicembre costoro furono invitati a presentarsi alle autorità comunali, offrendo loro l’ingaggio con
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alta paga di lire 17:60 nei 2 reggimenti in costituzione (11° e 12°). Caduto nel vuoto l’appello, la notte del 20-21 gennaio fu effettuata una retata contemporanea nei principali comuni delle Marche, che fruttò circa 2.000 uomini. Oltre ai tre reggimenti che sperava di reclutare tra i veterani italici, Murat continuava a pensare ai napoletani al servizio siciliano: Desvernois scrive di aver ricevuto in marzo una lettera del re in cui gli veniva ordinato di procurare tutti i mezzi necessari al passaggio dello Stretto «si quelque régiment napolitain en Sicile demandaient à quitter cette île et à rentrer à mon service». Con decreto del 9 aprile da Bologna, Murat richiamò formalmente in attività l’armata disciolta del Regno d’Italia, prevedendo di riformare i vecchi reggimenti. Ma il 28 aprile, in piena ritirata, l’ispettore alle rassegne riferiva al capo di SM che la sperata Divisione Volontari contava appena 618 uomini. Il Monitore del 6 maggio annunciava ancora che i comuni della provincia di Napoli avevano raccolto 126 volontari: ma l’esercito era ormai in rotta e beffardo suonò l’ultimo decreto, emanato il 15 maggio, che richiamava alle bandiere i militari sbandati. I provvedimenti del governo borbonico sulle leve murattiane Il 17 agosto i militari sbandati furono richiamati alle armi anche dal nuovo governo borbonico. Le istruzioni prevedevano di riunirli nei depositi provinciali e avviarli a gruppi non inferiori a 30 individui ai depositi generali della fanteria (Salerno, Cava e Vietri), cavalleria (Nocera) e artiglieria (Capua) comandati dal generale Arcovito, dove dovevano essere sottoposti a visita medica secondo le istruzioni del 21 marzo 1810. Gli sbandati che si presentavano al deposito erano inoltre rimessi nei termini per chiedere l’ammissione al beneficio del cambio. La leva ordinata il 24 dicembre 1813 era dichiarata ultimata, anche se i contingenti non fossero stati ancora completati, fermo restando l’obbligo di rimpiazzare i disertori secondo le istruzioni del 29 maggio 1813. Con circolare N. 15 del 19 agosto del Supremo Consiglio di Guerra furono inoltre rimessi in attività i consigli di reclutazione, per verificare i reclami di esenzione o ammissione al beneficio del cambio da parte dei legionari delle compagnie scelte provinciali e dei coscritti che volessero liberarsi da ogni futuro obbligo militare. Con decreto comunicato con circolare SCG N. 19 del 6 settembre, il reclutamento fu limitato ai volontari, agli sbandati già presentatisi ai depositi generali, ai rimpiazzi delle leve precedenti, ai disertori amnistiati e ai condannati al servizio militare per misura di polizia (tranne i condannati dal cessato governo per reati d’opinione politica). Il
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termine di presentazione, inizialmente stabilito al 6 ottobre, fu poi prorogato al 18 novembre. Con circolari SCG N. 25 e N. 32 del 13 settembre furono richiamati inoltre i militari dell’armata di Sicilia che fossero prigionieri di guerra e furono esclusi dalla categoria degli sbandati i militari murattiani disertati prima del 20 maggio 1815. Fino alla pubblicazione del nuovo codice penale, i militari napoletani che avevano disertato anteriormente al 20 settembre erano giudicati e puniti secondo le leggi in vigore nel territorio occupato dal nemico; quelli disertati successivamente, come pure i militari dell’armata di Sicilia, erano giudicati e puniti secondo la legge borbonica del 1789, comminandosi i giri di bacchette ai disertori riconosciuti come militari anteriormente al 1° aprile 1815. La coscrizione continuò dunque a rappresentare una delle fonti di reclutamento dell’esercito borbonico, che dovette rimetterla poi in vigore per mancanza di volontari. Su rapporto del capitano generale Nugent al re del 3 gennaio 1818, la legge del 6 marzo ristabilì la coscrizione (inclusa la Sicilia), e con istruzioni del 19 novembre fu disposta una leva dell’uno e mezzo per mille nel Continente e dell’un per mille in Sicilia, vale a dire 10.000 uomini (7.500+2.500), gravante sulle classi dai 21 ai 25 anni, vale a dire il 1793 e il 1794 già chiamate nel 1812 e 1814, e il 1795, 1796 e 1797. Un bilancio retrospettivo della coscrizione murattiana Come indichiamo nelle tabelle annesse al capitolo, durante il “decennio francese” furono chiamati alle armi circa 74.000 uomini, di cui 13.000 chiamati nel 1807 e 1809 col sistema borbonico attenuato (sorteggio promiscuo su 9 o 8 classi anziché su 20) e 61.000 nelle cinque leve del 1810-14 attuate col più equo sistema francese (sorteggio principale sulla classe più giovane e complementare sulle 4 classi più anziane). La somma dei contingenti levati nel 1810-14, superiore di un terzo alla maggiore leva borbonica (quella del 1798), corrispondeva ad oltre un terzo dei circa 172.000 requisibili (maschi celibi dai 16 ai 25 anni) stimati nel 1807 e, in media, al 12.6 per mille della popolazione, con sensibili variazioni a favore delle province campane (media 11.3), più popolose, e a spese delle meno popolose (Teramo 15.7, Campobasso e Foggia 15.4). Con oltre due milioni di abitanti, alla Campania furono imposte quasi 23.000 reclute, mentre alle Puglie ne toccarono oltre 11.000: seguivano le Calabrie (9.820), gli Abruzzi (8.413), la Basilicata (5.105) e il Molise (3.554). Se le prime due leve non furono probabilmente mai completate, le altre cinque lo furono certamente, sia pure con ritardi (progressivamente ridotti) e sia pure compensando i
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deficit locali con reclutamenti punitivi extra-quota. La natura frammentaria delle fonti non ci consente di stimare l’entità complessiva degli esoneri, delle riforme, delle sostituzioni e della renitenza, difficile da calcolare per la stessa direzione generale della coscrizione. Secondo Lodovico Bianchini la coscrizione «spiacque oltremodo al popolo, che la riguardò come una contribuzione di sangue; fu con molto rigore eseguita, vennero perseguitati in crudel modo i contumaci, multate le famiglie, puniti i genitori. Pur vedi come a tutto è agevole a costumar il popol nostro! I contumaci alla coscrizione erano in principio di numero di 75 fra cento; a poco a poco sminuirono talchè verso il 1814 appena se ne contavano 5 per 100». Sotto il profilo socio-politico, l’immissione dei coscritti, divenuti preponderanti già nel 1811-12, costituì una vera rifondazione – per quanto non prevista e non capita da Murat – dell’esercito creato da re Giuseppe, e lo trasformò da mercenario e multietnico in nazionale, anche se l’identità era la napoletana, ben distinta e anzi contrapposta all’italiana. Nei pochi anni che restavano ormai al regime murattiano, l’esercito napoletano non poté tuttavia raggiungere una coesione né svolgere un ruolo pedagogico comparabili con quelli dell’esercito italico creato da Melzi nel 1803, agguerrito dalle vittoriose campagne continentali del 1805-1809 e, soprattutto, sempre inquadrato nelle armate imperiali e perciò meno esposto all’incompetenza militare e all’avventurismo politico di cui dettero infausta prova – ogniqualvolta furono lasciati a sé stessi – i generali di entrambi gli eserciti nazionali dell’Italia napoleonica.
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Il giudizio di Pietro Colletta sulla coscrizione murattiana «Dopo allettato in tanti modi, e lusingato il genio delle armi, si pubblicò la legge della coscrizione. Ogni napoletano da’ 17 a’ 26 anni sarebbe scritto nel libro della milizia, dal quale, tirando a sorte due nomi per mille anime, avrebbe l’esercito diecimila giovani all’anno: erano esenti, per giovare alla popolazione, gli ammogliati o gli unici; lo erano per pietà i figliuoli di donna vedova, sostegni delle famiglie, e, per mercede ed impegno di studio, gli estimati eccellenti a qualche arte o scienza. Il servizio non aveva (ed era difetto ed ingiustizia) durata certa. «Quella legge spiacque al popolo, perché suo mal destino è il disgustarsi de’ tributi e dell’esercito, ricchezza e forza dello Stato, mezzi di grandezza, di civiltà, d’indipendenza. La città di Napoli, che aveva il vergognoso privilegio di non dar uomini alla milizia, il perdé [come abbiamo visto era però stato abolito da re Giuseppe il 10 aprile 1807], come il penderono alcuni ceti e famiglie. Più ingrandiva il disgusto al pensare che quei soldati servir dovessero gli ambiziosi disegni dell’imperator de’ Francesi, combattendo per cause che dicevano altrui, in lontane regioni, fra pericoli e travagli, più che della guerra, di genti barbare e climi nuovi. Il qual sentimento era scolpito nel cuor di tutti, così che io stesso lo intesi dalla bocca del re quando lamentavasi della sua dipendenza dalla Francia e del comandar duro del cognato; né il dissuadeva o consolava il mio dire (perché forse sembratagli adulazione ingegnosa) che le guerre dell’imperator Buonaparte erano per la civiltà nuova contro l’antica, e perciò di causa e d’obbligo comune agli Stati nuovi. «Pubblicata quella legge, ne cominciò l’adempimento. Altro distintivo di quel tempo era il far le cose di governo con l’impeto delle rivoluzioni, il qual difetto era spesso aggravato dal cattivo ingegno e lo zelo indiscreto delle minori autorità. Si voleva, per ottenerne merito e premio, compier presto la coscrizione nella provincia dall’intendente, nel distretto dal sotto-intendente, nel comune dal sindaco; e così, fra tanti stimoli, spesso le forme si trasandavano, vi erano ingiustizie e apparivano maggiori; e i coscritti, credendosi scelti non più dalla sorte, ma dall’umana malizia, fuggivano o si nascondevano: fuggitivi, erano chiamati refrattari e perseguiti, la famiglia multata, i genitori puniti. Le quali pratiche inique serbaronsi per alcuni anni, sino a tanto che il governo per miglior consiglio, ed i popoli per maggior pazienza eseguirono le coscrizioni con modi onesti e volontari.» (Storia del Reame di Napoli, libro VII, cap. X).
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Tab. 216 – Tableau de la population (1807) e leva del 29 marzo 1807 Province C. di Napoli D. di Napoli T. di Lavoro Principato C. Principato U. Abruzzo C. Abruzzo U. I Abruzzo U.II Molise e Capitanata T. d’Otranto T. di Bari Basilicata Calabria C. Calabria U. TOTALE
Totale 394.153 123.730 651.322 489.001 371.645 229.559 138.035 230.708 439.132
di cui Uomini 191.303 60.020 318.024 241.784 183.713 115.443 68.997 115.077 216.812
302.792 340.720 380.961 338.596 433.111 4.863.466
150.997 169.911 188.776 167.487 213.700 2.042.049
di cui Maschi Celibi 16-25 90.748 21.570 34.459 6.566 181.540 34.792 134.876 30.710 101.124 22.200 64.148 13.914 40.400 6.850 64.391 12.397 130.580 27.205 88.821 99.947 101.226 91.102 118.339 1.341.730
16-25 celibi 12.583 3.830 20.295 17.914 12.950 9.116 3.995 7.201 15.869
Conting. 29.3.1807 (430) 147 650 473 408 (250) (150) (250) 240 (240) (330) 350 410 – – 4.365
18.510 10.797 20.830 12.150 27.371 15.965 22.062 12.009 30.974 18.068 295.98 171.77 1 2 C. = Citra. C. di = Città di. D. = Distretto. T. = Terra. U. = Ultra. Le cifre dei contingenti provinciali indicate tra parentesi sono approssimative e induttive. Incidenza media del contingente (4.365) sui maschi celibi dai 16 ai 24 anni delle province soggette alla leva (141.695) pari al 3 per cento. Inferiori alla media Basilicata (2.57), Principato Citra (2.64), Bari (2.88): superiori alla media Principato Ultra (3.15), Terra di Lavoro (3.20), Distretto di Napoli (3.84).
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Tab. 217 – Contingenti di leva del 1806-1814 Decreti N. 84 – 29 marzo 1807 N. 179 – 22 sett. 1809 * N. 207 – 8 nov. 1809 ** N. 308 – 7 marzo 1809 N. 586 – 9 marzo 1810 N. 894 – 8 febbraio 1811 N. 902 – 9 febbraio 1811 * N. 1319 – 10 aprile 1812 N. 1687 – 9 aprile 1813 N. 2008 – 24 dicembre 1813 TOTALE * veliti. ** guardie d’onore.
Contingenti Attivo Riserva Totale 4.365 – 4.365 2.000 – 2.000 1.400 – 1.400 9.000 – 9.000 5.000 5.000 10.000 5.000 5.000 10.000 1.200 – 1.200 10.000 8.000 18.000 6.000 4.000 10.000 8.000 4.000 12.000 47.965 26.000 73.965
Termine di incorporazione – – – – 1° maggio 1810 15 aprile 1811 15 aprile 1811 1° luglio 1812 1° luglio 1813 1° aprile 1814
Classi sorteggiate nelle varie leve Classi 04.1 2 1805 1782 23 1783 22 1784 21 1785 20
29.0 3 1807 24 23 22 21
07.0 3 1809 – 25 24 23
04.01 1810
08.02 1811
10.04 1812
09.04 1813
24.12 1813
– – – – – – – – – – – – – – – VIII(24 – – – – ) 1786 – 20 22 VII (23) VII(24 – – – ) 1787 – 19 21 VI (22) VI (23) VI (24) – – 1788 – 18 20 V (21) V (22) V (23) V (24) – 1789 – 17 19 IV (20) IV (21) IV (22) IV (23) – 1790 – 16 18 III (19) III (20) III (21) III (22) – 1791 – – 17 II (18) – II (20) – – 1792 – – – I (17) I (18) I (19) – – 1793 – – – – – 18 – – 1794 – – – – – – – 19 Le cifre in numeri arabi indicano l’età della classe nei vari anni dei sorteggi. Nelle leve del 1805 (borbonica), 1807 (giuseppina) e 1809 (prima murattiana) il sorteggio fu effettuato promiscuamente su tutte le classi. Nel 1810 furono determinate otto classi indicate con numeri romani, cominciando da quanti avevano compiuto 17 anni nel 1809. Le cifre marcate in grassetto indicano la prima classe sorteggiata. Il contingente, determinato in base alla popolazione e non al numero dei requisibili, fu sorteggiato nel 1810, 1811 e 1812 sulla classe dei diciottenni (1791, 1792 e 1793), nel 1813 sulla classe dei ventiduenni (1790) e nel 1814 su quella dei diciannovenni (1794). A causa delle inabilità ed esenzioni, poteva talora rendersi necessario proseguire il sorteggio sulle successive classi di età, secondo l’ordine stabilito dal decreto 4 gennaio 1810, fino al completamento della quota comunale. Le classi stabilite dalla legge del 4 gennaio 1810 (I-VIII) includevano i nati dal 1° marzo di un anno al 28 febbraio dell’anno seguente: la I era perciò formata dai nati negli ultimi dieci mesi del 1792 e nel primo bimestre del 1793, la II dal 1791-92 e così via [III-1790-91, IV-1789-90, V-1788-89, VI-1787-88, VII1786-87, VIII-1785-86]. Le leve del 1812 e 1814 furono fatte invece sui nati nell’anno solare: nel 1812 gravò soprattutto sui nati negli ultimi dieci mesi del 1793 e nel 1814 sui nati dal 1° gennaio al 31 dicembre 1794.
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Tab. 218 – Ripartizione provinciale dei contingenti del 1810-12 e 1814 Province Contingenti Napoli T. di Lavoro C. di Molise Principato C. Principato U. Abruzzo C. Abruzzo U. I Abruzzo U.II T. d’Otranto T. di Bari Basilicata Capitanata Calabria C. Calabria U. TOTALE Attivo Riserva Incorporati entro il Chiamata della riserva
Contingenti Decreto N. 894 Decreto N. 1353 Decreto N. 2008 8 febbraio 1811 24 aprile 1812 24 dicembre 1813 ordinario veliti attivo riserva attivo riserva 1.031 124 1.031 824 747 373 1.090 131 1.141 913 927 463 498 106 616 492 499 249 880 96 848 678 687 343 798 60 680 545 554 276 500 60 536 429 400 200 356 43 353 282 286 142 518 62 503 403 407 203 635 103 621 505 511 255 719 75 706 565 578 288 866 86 823 659 675 387 546 66 512 409 420 210 700 84 734 588 594 296 863 104 886 708 720 360 10.000 1.20 9.990 8.000 8.005 3.995 0 5.000 5.000 1.20 9.990 – 8.005 – 5.000 5.000 0 – 8.000 – 3.995 – 1° maggio 15 aprile 1811 1° lug. – 1° apr. – 1810 1812 1814 ? 15 ottobre 1811 – 3 dic. – 1°marzo e 8 febbraio 1812 1812 1814 D. N. 586 9.3.1810 ordinario 1.231 1.060 478 880 768 486 349 499 622 702 836 526 700 863 10.000
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Tab. 219 – Totale contingenti imposti alle province nel 1810-1814 Province Napoli Terra di Lavoro Cont. di Molise Principato Citra Principato Ultra Abruzzo Citra Abruzzo U. I Abruzzo U. II T. d’Otranto Terra di Bari Basilicata Capitanata Calabria Citra Calabria Ultra TOTALE
1810 1.231 1.060 478 880 768 486 349 499 622 702 836 526 700 863 10.000
1811 1812 1813 1814 1.155 1.855 1.031 1.120 1.221 2.054 1.141 1.390 604 1.108 616 748 976 1.526 848 1.030 858 1.225 680 830 560 965 536 600 399 635 357 428 580 906 503 610 738 1.136 621 766 794 1.231 706 866 952 1.482 823 1.012 612 921 512 630 784 1.322 734 890 967 1.594 886 1.080 11.200 17.990 9.994 12.000 Ripartizione regionale Campania 3.939 4.210 6.190 3.700 4.840 Abruzzo 1.334 1.539 2.506 1.396 1.638 Molise 478 604 1.108 616 748 Basilicata 836 952 1.482 823 1.012 Calabria 1.563 1.751 2.916 1.620 1.970 Puglia 1.850 2.144 3.288 1.839 2.262 * Percentuale sui requisibili sulla popolazione stimata nel 1807
TOT. 6.392 6.866 3.554 5.260 4.361 3.147 2.168 3.098 3.883 4.299 5.105 3.201 4.430 5.390 61.184
%* 1.23 1.05 1.54 1.07 1.17 1.36 1.57 1.34 1.28 1.26 1.34 1.54 1.31 1.24 1.26
22.879 8.413 3.554 5.105 9.820 11.383
1.13 1.40 1.54 1.34 1.27 1.36