La Giustizia Militare 1800-1815

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Virgilio Ilari

LA GIUSTIZIA MILITARE IN ITALIA DURANTE LE GUERRE NAPOLEONICHE Regno d’Italia 1796-1814 (capitolo 14 della Storia Militare del Regno Italico)

Regno di Napoli 1806-1815 (Capitolo 10 della Storia Militare del Regno Murattiano)

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Da Storia Militare del Regno Italico, vol. I, t. I, pp. 317-378 14. GIUSTIZIA MILITARE E DISERZIONE

A. I Consigli di guerra La giurisdizione militare cisalpina L’art. 289 della costituzione cisalpina assoggettava la forza armata a leggi particolari per la disciplina, per la forma dei giudizi e per la natura delle pene. Il 15 ottobre 1797 i comitati riuniti approvarono il codice militare provvisorio, con un solo grado di giudizio riservato ai consigli di guerra interamente composti da giudici militari. La legge francese 9 ottobre introdusse altri due gradi di giudizio, sottoponendo le sentenze a controllo di legittimità e rinnovo del giudizio presso diverso organo giudiziario. Furono pertanto istituiti tre distinti organi giudiziari, tutti composti da militari nominati in via permanente dal comandante della divisione attiva o della divisione militare competente per territorio: -

il primo consiglio di guerra, giudice di merito; il consiglio di revisione, giudice di legittimità; il secondo consiglio di guerra, giudice di rinvio in caso di annullamento della sentenza per difetto di legittimità.

Oggetto del controllo di legittimità erano: a) regolare composizione del collegio giudicante; b) competenza per qualità del delitto e del reo e per territorio; c) osservanza delle procedure di informazione e istruzione; d) conformità della pena alle previsioni di legge. Accogliendo la richiesta del generale Brune di equiparare le garanzie processuali dei militari cisalpini a quelle dei francesi, con legge cisalpina del 25 maggio 1798, che recepiva in via generale la legislazione militare francese, furono espressamente adottati anche il diritto e la procedura penale militare francesi, sostituendo le norme provvisorie italiane. L’esclusione dei militari francesi dalla giurisdizione cisalpina La legge francese 1° agosto 1797 sottrasse i militari e gli impiegati civili delle forze francesi all’estero alla giurisdizione civile e criminale

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dei paesi d’occupazione o di stanza (lo stesso principio in vigore nella NATO). Il 14 giugno 1798 il ministro della giustizia Luosi sollevò la questione col collega degli esteri Birago, sostenendo che la norma, pur “giustissima”, aveva dato luogo a “gravissimo abuso dei comandanti francesi”, ma il rilievo non ebbe alcun seguito. I Consigli di guerra e di revisione In base alla legge franco-italiana, i consigli di guerra erano composti da 7 giudici, di grado adeguato a quello del reo. Nei processi contro militari di truppa, sottufficiali e ufficiali inferiori, il consiglio era presieduto da un capobrigata e composto da un ufficiale superiore, due capitani, un tenente, un sottotenente e un sottufficiale. Se il giudizio riguardava un generale, un ufficiale superiore o un appartenente all’ispettorato alle rassegne o al commissariato, il consiglio era presieduto da un generale di brigata e i 3 ultimi membri erano surrogati da tre altri del grado dell’imputato. Uno dei due capitani aveva funzione di relatore, con un sottufficiale di sua scelta per cancelliere. Nelle divisioni dell’interno i giudici dei consigli erano tratti dagli ufficiali riformati o in ritiro, con trattamento pari all’ultima classe del grado. Era garantito il diritto alla difesa. Le sentenze erano pronunciate in pubblica sessione, previo dibattimento. Il consiglio di revisione divisionale era composto da 5 ufficiali; un generale di brigata presidente, un capobrigata, due capibattaglione e un capitano relatore, più un cancelliere e un commissario di guerra con funzioni di commissario del potere esecutivo (poi regio procuratore). Il consiglio rivedeva le sentenze su istanza delle parti o dei loro difensori ovvero su richiesta del procuratore, il quale procedeva d’ufficio in mancanza di “decreto di provvedersi”. Le spese di giudizio (carta, lumi, legna e indennità dei testimoni) erano liquidate dal commissariato e pagate sopra mandato dell’ordinatore divisionale. L’unico generale italiano assoggettato a giudizio fu Teulié per il caso Ceroni (v. P. I, §. 3A). Non fu però giudicato dal consiglio di guerra, ma dalla consulta di stato, eretta per la prima e unica volta in alta corte di giustizia. Il senato del Regno, surrogato alla consulta, non esercitò mai tale prerogativa. La Commissione militare della Guardia Reale (D. 21 ottobre 1804) Con decreto del 21 ottobre 1804 la guardia del presidente (poi reale) fu sottoposta alla giurisdizione esclusiva di un proprio consiglio di guerra, con poteri di “commissione militare” e sentenze inappellabili,

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presieduto da 1 generale di brigata e composto da 1 colonnello, 1 capobattaglione, 2 capitani, 1 tenente, 1 sottotenente e 1 capitano relatore col suo cancelliere. Il commissario di guerra della guardia faceva le veci di regio procuratore. La commissione militare non aveva però giurisdizione sul peculato e la “dilapidazione”: come abbiamo visto il giudizio nei confronti del colonnello Viani, che si fece scrivere la memoria difensiva da Foscolo fu infatti devoluto al consiglio d’amministrazione generale della Guardia (v. P. IIA, §. 2). La cognizione dei reati coscrizionali e comuni (D. 25 agosto 1804) La giurisdizione militare si estendeva ai civili per favoreggiamento o correità nei reati commessi dai militari. Le contravvenzioni alla legge di coscrizione del 13 agosto 1802 (mancata iscrizione nelle liste di leva, renitenza, negligenza e favoreggiamento) erano in compenso devolute alla giurisdizione ordinaria. A questa fu inoltre devoluta, con decreto 25 agosto 1804, la cognizione dei reati comuni commessi dai militari fuori servizio. Lo stato civile dei militari (D. 27 marzo 1806) Con decreto del 27 marzo 1806 le funzioni di stato civile per i militari all’estero furono attribuite agli ispettori alle rassegne, commissari di guerra e quartiermastri, incaricati di tenere i registri di nascite, matrimoni e morti per ogni corpo d’armata fuori del Regno e di trasmettere i dati al registro centrale del ministero, competente per il rilascio delle relative certificazioni. Il servizio fu poi regolato con circolari del 29 febbraio 1808 e 25 maggio 1812. Con decreto 14 aprile 1811 fu attribuita ai podestà e sindaci la speciale tutela dei diritti e delle proprietà dei militari assenti. I Consigli di guerra speciali per diserzione e renitenza Ferma restando la giurisdizione dei consigli di guerra sui reati di diserzione, le contravvenzioni alle legge di coscrizione del 13 agosto 1802 (mancata iscrizione nelle liste, renitenza e favoreggiamento doloso o colposo) furono devolute ai tribunali penali ordinari. Inoltre la diserzione dei requisiti prima dell’arrivo al corpo fu sanzionata in modo più lieve (tre mesi di reclusione, multa e doppio servizio) della diserzione ordinaria. Malgrado l’emergenza verificatasi nell’estate 1803 con la prima esecuzione della leva, Melzi non ritenne opportuno estendere in Italia il decreto imperiale del 12 ottobre 1803 che inasprì le

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pene (condanna a morte, alla “palla” o ai lavori forzati da 3 a 10 anni in rapporto alle circostanze del delitto) e adottò la procedura sommaria per i casi di diserzione, con sentenze (in contraddittorio o contumaciali) emesse entro tre giorni, sottratte ad appello, revisione e cassazione, eseguite entro le ventiquattrore e pubblicate con affissione nelle strade e piazze principali del luogo d’esecuzione. I giudizi erano deferiti a consigli di guerra “speciali”, nominati per il singolo caso dal comandante d’armi o di divisione attiva. Erano presieduti da un ufficiale superiore e composti da 4 capitani e 2 tenenti appartenenti alla guarnigione o alla brigata del reo ma (possibilmente) non allo stesso corpo (e comunque con esclusione dei diretti superiori gerarchici del reo autori della denuncia), più il relatore (possibilmente un ufficiale di stato maggiore o di gendarmeria del grado almeno di tenente) e il cancelliere. Era comunque garantito il diritto di difesa: il reo poteva scegliere il difensore o difendersi da solo e i suo parenti o affini entro il terzo grado non erano ammessi come testi a carico. Alla vigilia della partenza per le coste della Manica, Pino chiese la facoltà di istituire commissioni straordinarie (analoghe ai consigli di guerra speciali) per giudicare i militari che avrebbero disertato durante la marcia, con potere di emanare condanne capitali. Melzi rifiutò seccamente, spiegando nella lettera del 17 novembre a Marescalchi, che la misura richiesta da Pino sarebbe apparsa “dura”, dal momento che le leggi italiane “comunque cattive, non infligg(eva)no la pena di morte al soldato”: senza contare la questione di costituzionalità (“si dubiterebbe molto che io avessi facoltà di decretarla”). Nel 1806, di fronte alle 12.000 diserzioni verificatesi nel 1803-05, il ministro Caffarelli chiese l’adozione dei consigli di guerra speciali anche in Italia. Il progetto di legge, discusso a lungo dal consiglio di stato, fu infine approvato con decreto del 18 novembre 1807, ma l’estensione alle truppe italiane mobilitate era già stata disposta dal principe Eugenio, nella sua qualità di comandante in capo dell’Armée d’Italie, con ordine del giorno del 17 ottobre. Per le truppe dell’interno i consigli di guerra speciali furono attivati solo con circolare del 18 maggio 1808, in vigore dal 1° giugno. Con decreto del 14 ottobre 1811 furono aboliti i processi contumaciali, deferendo la persecuzione dei disertori al direttore delle rassegne e coscrizione (v. P. IIA, §. 1E). La giustizia militare marittima (D. 23 aprile e 8 settembre 1807) Autonomo era anche l’ordinamento disciplinare e penale della Reale Marina, regolato inizialmente dalle norme austro-veneziane e poi da un

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decreto provvisorio del 23 aprile e altri tre definitivi dell’8 settembre 1807, per i quali rinviamo al Tomo III, P. III, §. 6A.

B. Le Commissioni militari La Commissione militare per i moti di Bologna (D. 26 luglio 1802) In base agli artt. 60 e 61 della costituzione di Lione spettava alla consulta proclamare lo “stato di tumulto” e autorizzare il governo a porre in essere le misure necessarie (o ratificare quelle disposte in via d’urgenza). Tra queste misure rientrava la facoltà di sospendere le garanzie giurisdizionali e far “processare militarmente”, secondo le leggi vigenti e senza ricorso a cassazione, “i perturbatori della pubblica tranquillità”. Una prima commissione militare fu istituita con decreto 26 luglio 1802 della consulta di stato per reprimere l’insurrezione di Bologna, innescata dalla carestia, dalle violenze della truppa e dalla “rabbia popolare” contro i francesi e il nuovo prefetto ma infiltrata da gruppi dell’opposizione “anarchica”. La commissione, nominata dal governo, presieduta dal capobrigata Fontanelli e composta dai capibattaglione Bertoletti e Foresti e dai capitani di gendarmeria Masi e Villata, comminò pene molto severe. Le commissioni militari contro la resistenza alla leva (1803-04) Il 25 giugno 1803 Trivulzio chiese di applicare lo stesso regime nei casi di resistenza collettiva o armata alla leva – ricadenti sotto la legge 16 termidoro anno V (3 agosto 1797) che prevedeva la pena capitale – istituendo tribunali militari itineranti per giudicare senz’appello né ricorso in cassazione gli autori e complici delle sedizioni e tumulti. Malgrado le riserve espresse il 2 luglio dalla 1a divisione (personale) dello stesso ministero della guerra, che riteneva controproducente tanta severità, il 14 luglio la proposta fu approvata dalla consulta (contestualmente con un’amnistia per renitenti e disertori) e il 18 il governo nominò due “commissioni militari” con giurisdizione di qua e di là del Po. Presiedute da un capibrigata (Fontane e Viani), erano composte da 1 capobattaglione (Ferdinando Rossi e Masi) e 1 caposquadrone della gendarmeria (Belfort e Fantuzzi), due capitani (dei veterani, del 2° e 1° ussari e di gendarmeria) e un capitano relatore (Baranzoni e Salvi).

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Commissari di governo presso le commissioni erano un famigerato poliziotto ex-giacobino (il piemontese Giovanni Mulazzani) e un sostituto commissario presso il tribunale di cassazione. La commissione Fontane pronunciò 3 condanne capitali (di cui una eseguita) per il tumulto di Seregno, mentre la commissione Viani fu più mite (due parroci che avevano minacciato di suonare la campana a stormo per impedire la coscrizione, furono condannati a due anni e a un anno e mezzo di reclusione). Contestualmente all’amnistia del 18 settembre 1804, le commissioni militari furono abolite, restituendo la competenza ai tribunali ordinari. Melzi dispose tuttavia di non pubblicare il decreto, per non dare segnali di debolezza ai malcontenti. Le commissioni militari contro il brigantaggio (D. 12 luglio 1805) Del resto le commissioni militari furono ripristinate nove mesi dopo, con decreto del 12 luglio 1805, anche se limitatamente alla repressione del brigantaggio in base alla legge stralcio del febbraio 1804 sugli omicidi, le ferite e i furti, che puniva gli omicidi qualificati con la morte per decapitazione, disponendo nei casi più gravi l’esposizione “esemplare”, per un giorno, della testa del reo inastata su un palo. Le sentenze della commissione militare non erano appellabili, ma quelle capitali, se non eseguite entro le ventiquattrore, erano commutate in ergastolo. Il brigantaggio era endemico in tutto il Regno (nel Pavese si ebbero nel solo 1811 ben 350 rapine a mano armata, incluse 100 con omicidio o ferimento), ma le bande più famigerate operavano nei dipartimenti del Serio (Paolo Rossi e “Pacchiana”), Reno (Lambertini e Mazzetti), Panaro (“Cemini” e Peri), Basso Po (Baschieri), Rubicone (“Falcone” e “Rapettino”) e Musone (“Peccio” e “Capitanaccio”). Il Tribunale speciale per la difesa dello stato (1805-1807) Con decreto n. 124 del 26 settembre 1805, tutti i delitti contemplati nella legge del 1797 furono sottratti al giudice ordinario, istituendo in Milano un tribunale speciale permanente, con sentenze inappellabili ma impugnabili in cassazione. Il collegio era composto da sette membri, cinque civili (incluso il presidente Francesco Predabissi e il relatore) e due ufficiali di gendarmeria (il caposquadrone Scotti e il capitano Bianchi). Le funzioni di regio procuratore erano attribuite allo stesso direttore generale di polizia del Regno, l’ex-giacobino Giacomo Luini,

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che durante la Cisalpina era stato primo presidente della corte di giustizia civile e criminale di Milano e nel 1799 era stato deportato a Cattaro dagli austro-russi. Il Tribunale speciale fu soppresso l’8 gennaio 1808, ripristinando le corti criminali eventuali di nomina regia. Le commissioni militari del 1809 A seguito delle insorgenze del 1809, collegate con l’offensiva austriaca e poi con l’autonoma resistenza tirolese ed estese in 16 dipartimenti con un bilancio di 2.000 morti e 2.675 arrestati, il 18 maggio 1809 furono istituite commissioni militari per giudicare con rito sommario gli insorgenti italiani e tirolesi: sotto la stessa data fu però concessa l’amnistia ai sudditi che avevano seguito gli austriaci in ritirata, a condizione di rientrare in Italia. Le commissioni emisero 150 condanne a morte, almeno metà delle quali eseguite. Non però quella dell’eroe nazionale tirolese: tradotto a Mantova dopo l’arresto, Andreas Hofer fu infatti giudicato da un consiglio di guerra francese e fucilato il 29 febbraio 1810.

C. Codice penale militare, delitti, castighi e mancanze Il progetto di Codice penale militare italiano (1801-1812) Come si è accennato nell’esercito cisalpino si applicava il codice penale militare francese del 22 agosto 1790, recepito con legge del 29 novembre 1798. Tuttavia, in connessione col progetto di codificazione del diritto civile deliberato nel 1800 dalla consulta legislativa, il ministro Teulié propugnò la compilazione di un “codice militare cisalpino” (v. IIA, §. 1A-B). Con decreto del 31 luglio 1801 fu a tal fine istituito un apposito ufficio, la cui IV sezione era incaricata di elaborare le norme disciplinari e penali: vi lavorò anche Foscolo e tra i suoi scritti resta appunto un abbozzo di codice penale militare. La codificazione italiana, autonoma da quella francese, era prevista dall’art. 120 della costituzione di Lione: e con la Repubblica l’incarico di elaborare i progetti dei codici penale e civile passò al ministro della giustizia Bonaventura Spannocchi e al suo segretario, il giureconsulto valtellinese Alberto De Simone. Con decreto n. 106 del 18 settembre 1802 fu inoltre istituita una commissione, composta dai giureconsulti Mozzini e Glisenti e dal capitano relatore Salvi, per la compilazione di

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un progetto di codice penale militare. Il decreto inviava “gl’illuminati militari” a far pervenire alla commissione, tramite il ministro della guerra, le loro “riflessioni”. Il progetto di codice penale (in 443 articoli) fu presentato nel marzo 1803 al consiglio legislativo e nel febbraio 1804, data l’urgenza di superare, almeno per i delitti più gravi, il particolarismo normativo dei vari territori confluiti a formare lo stato italiano, con una legge stralcio furono messi in vigore i 74 articoli relativi al furto, all’omicidio, alle lesioni e al regime delle prove e delle pene. Quanto al codice civile, il progetto fu presentato all’inizio del 1804, ma Napoleone lo congelò assieme a tutti gli altri e il 10 maggio 1805 presentò al consiglio di stato il codice civile francese che portava il suo nome, facendolo poi inserire nell’art. 55 del III statuto costituzionale del Regno. Il codice Napoleone entrò in vigore il 6 gennaio 1806 nella traduzione italiana. L’imperatore autorizzò invece l’elaborazione autonoma degli altri codici: commerciale, marittimo, penale, penale militare e di procedura penale, ma solo l’ultimo (elaborato da una commissione presieduta da Gian Domenico Romagnosi e giudicato “perfetto” dall’arcicancelliere dell’impero Cambacères) fu promulgato da Napoleone (l’8 settembre 1807). Radicalmente rivisto da Romagnosi e approvato dal viceré nel novembre 1807, il codice penale fu trasmesso a Parigi solo nel maggio 1810 e in agosto Napoleone preferì estendere all’Italia quello francese. Analoga decisione era già stata presa nel 1808 per il codice penale militare. Dopo aver fatto raccogliere un testo unico delle disposizioni sulla leva, nel 1812 Fontanelli ideò un’analoga raccolta anche per il diritto penale militare, rimasta però allo stato di progetto (Raccolta di leggi, decreti e decisioni relativi alla giustizia militare per l’Impero francese (…) con l’aggiunta dei regolamenti vigenti nel Regno d’Italia). Tra gli sviluppi successivi del diritto penale militare franco-italiano, ricordiamo la devoluzione alla giurisdizione militare del furto di effetti d’artiglieria (decreto 25 aprile 1806), la pena di morte per i disertori colti con le armi alla mano nelle file nemiche (31 agosto1810), il principio di non eseguibilità delle sentenze capitali nei confronti del militare “divenuto pazzo” (6 aprile 1811), l’abolizione dei processi contumaciali per i reati di renitenza e diserzione (14 ottobre 1811) e il divieto di trattare alcuna capitolazione in aperta campagna (1° maggio 1812). Ricordiamo infine la sanzione accessoria (irrogata nei confronti dei soli sottufficiali e militari di truppa) del ritiro delle decorazioni (con sospensione degli assegni connessi) per tutto il tempo delle punizioni disciplinari disposta da Fontanelli con circolare del 15 luglio 1813.

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Italiani brava gente La mancanza di statistiche giudiziarie non può essere supplita dalla ricerca d’archivio. Dalle fonti disponibili si potrebbe però ricavare una casistica ben più ricca e interessante di quella che, nell’economia generale del presente lavoro, siamo in grado di offrire al lettore. Gli indicatori di cui disponiamo sono tuttavia impressionanti: in 17 mesi, dal luglio 1803 al novembre 1804, l’esercito perse 455 uomini (uno su quaranta) per ragioni disciplinari (49 condannati e 406 cassati dai ruoli, incluso 1 fucilato in Francia). In un anno e mezzo (1805 e primo semestre del 1806) i soli consigli di guerra dell’interno giudicarono 14 omicidi, 31 risse con feriti, 133 furti e 41 atti di insubordinazione. Nel solo 1807 transitarono nelle carceri di Foro Bonaparte ben 3.057 militari, di cui 373 giudicati (in maggioranza per aggressioni e furti con scasso). Nel 1810-11 il 13% dei reati contro la persona commessi a Milano erano opera di militari. Nel 1812, escluse le truppe in Russia, l’esercito ebbe 2.977 condannati, di cui due terzi (2.070) dai consigli di guerra speciali per diserzione (220 alla palla, 1.830 ai lavori pubblici e 20 a morte). “Diverse” sentenze capitali si ebbero, secondo Zanoli, anche fra gli altri 907 condannati (722 dai consigli di guerra permanenti, 51 da commissioni speciali militari e 134 da tribunali ordinari). Risse con civili sono testimoniate nel dicembre 1803 (Castelsenio e Ravenna; a Langres, in Francia, i borghesi aggrediscono gli ufficiali della 2a MB leggera); Natale 1804 (uno Zappatore ucciso da civili a Calais); aprile 1805 (la polizia segnala continue risse tra militari e borghesi a Milano); novembre 1805 (Chiari e Imola); gennaio 1808 (ad Avignone e Perpignano gli abitanti, costretti ad alloggiare la Divisione diretta in Spagna, chiamano i soldati “foutus italiens”); febbraio 1813 (con gli studenti di Pavia). Omicidi: novembre 1804 (l’uccisione di un granatiere della guardia imperiale da parte di un granatiere della guardia reale italiana provoca un richiamo di Napoleone a Fontanelli); giugno e agosto 1807 (tre dragoni Napoleone giudicati per omicidi commessi a Norimberga); gennaio 1808 (cinque civili assassinati da soldati italiani nel villaggio di Trebiz presso Wittemberg). Quanto a rapine, furti e maltrattamenti a danno di civili, per il 1802 abbiamo le cronache della 2a MB di linea (Lechi). I disordini a Como vanno imputati alla “località”, all’“aria” e alla “cattiva volontà” delle autorità civili che non hanno impedito le provocazioni; ma il III/2a è responsabile di “horreurs et vols”, a Modena “l’indiscipline et le

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désordre est à son comble”, continui i furti e le risse. In novembre, a Bologna, i soldati si spendono tutta la paga in un giorno solo all’osteria e tutta la brigata è consegnata in caserma, obbligata alla lettura del codice militare – una copia per ogni compagnia – e al contrappello 4 volte al giorno. Le sentenze: 10 giorni d’arresto e pagamento dei danni agli ufficiali che fanno pascolare i cavalli su terreni privati; 15 giorni a 2 sottufficiali per minacce a mano armata contro un civile, radiato il collega che non le ha impedite; scarcerati per insufficienza di prove 1 caporale e 8 volontari accusati di furto. Nel luglio 1806 disertori graziati e assegnati al 2° leggero fanno man bassa di pollame durante la marcia: il comandante li fa proseguire incatenati e scortati dalla gendarmeria. Nel maggio 1807 il consiglio di guerra di Milano commina 24 anni di ferri a 7 soldati, rei di rapina. In giugno una guardia d’onore bresciana approfitta del servizio alla Villa Reale di Monza per rubare una borsa addirittura alla viceregina. Il 10 agosto 1813, a Padova, alcuni dragoni della Regina aggrediscono una ragazza che passeggia con la madre e il fidanzato, soldato del treno: l’intervento di un carabiniere del 2° di linea la salva dallo stupro, ma le strappano gli orecchini. Non manca il falso nummario: nell’agosto 1807 sono arrestate a Milano due guardie reali; il 30 giugno 1811, da Mantova il generale Julhien riferisce che alcuni soldati hanno alterato col mercurio monete da 1 centesimo per spacciarle come monete da mezza lira, obbligando in ogni caso i commercianti ad accettarle in pagamento. Lettera di Napoleone al viceré del 31 marzo 1807 da Ostenda : « La Division italienne (a Colberg) est un peu pillarde, mais du reste je suis assez content d’elle et l’on m’en fait d’assez bons reports ». Rapporto a Caffarelli del 15 dicembre 1807: « les troupes italiennes de la Division Pino continuent à se livrer aux excès les plus condamnables (…) les routes sont couvertes de traîneurs qui se répandent dans la campagne et en désolent les habitants par des véxations inouïes ». Nel 1809, durante la marcia in Spagna, il 6° di linea, formato da disertori graziati, commise tali sopraffazioni contro i civili, che nel luglio 1810 il procuratore generale presso la corte di giustizia di Milano propose l’istituzione di una commissione militare con poteri capitali; il ministero della guerra espresse tuttavia parere contrario. Lettera di Napoleone a Eugenio, da Colditz, 6 maggio 1813: « mettez un peu d’ordre dans votre corps, qui en a grand besoin. Les Italiens surtout, commettent des horreurs, pillent et volent partout: faites-en fusiller un ou deux ». Non risultano ammutinamenti per ragioni politiche. L’unico caso in cui la polizia ebbe qualche sospetto avvenne il 21 dicembre 1810,

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quando gli artiglieri del castello di Milano spararono salve di cannone per la nascita del figlio del loro capitano, parodiando con palese sarcasmo il saluto fatto il giorno prima per la nascita della principessa di Bologna.

Le mancanze disciplinari Le mancanze disciplinari più lievi erano punite, secondo la legge francese del 24 giugno 1793, dal superiore, quelle più gravi dal consiglio correzionale del corpo, presieduto dal comandante. Dalle cronache della 2a MB di linea (Lechi) nel 1801-02 emerge un quadro delle più frequenti mancanze disciplinari (tab. 26): Tab. 26 – Questioni disciplinari nella 2a MB di linea (1802) Questioni Reclamo per il soldo Insubordinazione Bastonatura Saluto militare

Negligenza Simulata infermità Assenza arbitraria

Ubriachezza Gioco Uniforme o tenuta fuori ordinanza Norme di tratto

Regole e sanzioni Minacce del comandante contro chi si lamenta di ritenute o chiede soldo arretrato (verrà tradotto al consiglio di guerra per essere fucilato) 15 gg. di cachot e 1 mese di sospensione al furiere che ha risposto al capitano. Deferimento al consiglio di guerra di un caporale che ha dato un colpo di sciabola a un sergente. 10 gg. d’arresto a U che ha bastonato un SU. L’obbligo di saluto agli U deve essere letto alla truppa per tre giorni. Il SU porta la mano al cappello, la truppa, in più, deve fare fronte al superiore. 10 gg. di prigione a chi non si cava il cappello di fronte a un U e altrettanti all’U che non pretende il saluto 10 gg. di prigione di cui 5 a sola carne e destituzione dall’incarico all’U che ha lasciato la MB senza pane e legna. 10 gg. all’U che ha lasciato fuggire un prigioniero. 5 gg. d’arresto a caporale per simulata infermità. Ufficiali: 5 gg. d’arresti per una breve assenza senza permesso. 10 gg. per un’assenza di 3 gg. o per assenza al contrappello (se recidivi arresti di rigore e pagamento del fazionario). Un mese per esser “rimasto a casa” un mese. 15 gg. sala di disciplina, in parte a pane e acqua. Se i casi sono numerosi, tutta la MB consegnata in caserma. Solo il vivandiere può vendere vino in caserma (9 novembre 1802, Bologna). 5 gg. prigione ai soldati (9 maggio 1801 a Codogno); 10 gg. a pane e acqua e sospensione dal grado per un mese (7 luglio 1801 a Como).. 5 gg. di prigione a soldati che il 29 gennaio sciupano uniforme e cappotto indossandoli in quartiere. 5 gg. a U trovati in calze di seta e scarpe da ballo o senza spalline o con spada in mano anziché al fianco. Ammoniti i SU che non indossano i distintivi di grado o portano la spada in mano a uso di bastone. E’ disdicevole per gli U darsi del tu in pubblico, fumare fuori della propria casa, tenere discorsi troppo liberi o libertini nei caffè o in presenza di civili.

Il Regolamento per il metodo correzionale e punitivo della guardia del presidente (poi reale) approvato con decreto 21 ottobre 1804 (tab. 27), prevedeva 37 fattispecie di “colpe”: 16 per i militari di truppa e 8

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per i sottufficiali e 15 per gli ufficiali (8 “lievi” e 7 “gravi”). Le colpe “gravi” erano deferite al consiglio correzionale. Alla seconda recidiva specifica le colpe della truppa e dei sottufficiali e quelle “lievi” degli ufficiali erano considerate “gravi”. Tab. 27 – Mancanze disciplinari (regolamento della Guardia, 21.10.1804) Categorie Truppa

Sottufficiali

Ufficiali (colpe lievi)

Ufficiali (colpe gravi)

Colpe (lievi le prime due volte, gravi alla II recidiva) a) negligenza di tenuta, vestito, armamento o proprietà individuali; b) trascuranza di istruzione; c) esecuzione inesatta dei propri doveri; d) alterco clamoroso con camerati o civili; e) ostentazione di poco rispetto verso i graduati; f) disobbedienza, se non costituisce rifiuto deciso; g) ritardo all’appello al rancio, all’ordinario; h) ritardo alla ritirata i) assenza per una notte (la prima volta); j) risposta in tono sconveniente a un graduato; k) disprezzo e dispetto per qualche correzione; l) ubriachezza fuori servizio; m) dissipamento di oggetti di casermaggio; n) induzione delle reclute a frequentare bettole e luoghi diffamati o) assenza momentanea dal posto di guardia; p) slacciarsi gli abiti, levarsi la sciabola o la giberna durante la guardia. a) giocare a carte o a dadi coi subalterni; b) asprezza inopportuna nell’istruzione delle reclute c) discorsi di disprezzo verso i superiori alla presenza di subalterni; d) ingiurie contro i subalterni; e) inesattezza agli appelli; f) ogni mancanza in servizio che non porti disordine. a) inosservanza del regolamento di polizia interna del corpo; b) inesattezza di libri e registri; c) mancata sorveglianza dei sottufficiali; d) assenza o ritardo all’esercizio o alla parata; e) mancata presenza ai corsi previsti essendo di servizio; f) mancato controllo dell’esattezza dei pagamenti di soldati; g) negligenza nell’adempimento dei propri doveri; h) ubriachezza fuori servizio. a) espressioni animose conto i superiori in presenza di inferiori; b) punizioni arbitrarie o ingiuste; c) sussurri e discorsi maliziosi se non costituiscono reato più grave: d) violazione delle consegne inflitte per punizione: e) ubriachezza in servizio se non ne derivano inconvenienti; f) condotta sregolata e debiti disonoranti; g) liti indecenti con civili (senza uso di armi o bastoni e senza feriti).

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Tab. 28 – Punizioni disciplinari (regolamento della Guardia, 21.10.1804) Categorie Truppa

Sottufficiali

Ufficiali

a) b) c) d) e) f) a) b) c) d) e) a) b) c)

Punizioni per colpe lievi servizio di camera o di quartiere; consegna alle porte della città; consegna fino a 15 giorni; sala di custodia da 3 a 4 giorni; 4 giri davanti alla guardia montante con 5 fucili o 3 selle sulle spalle; prigione per una settimana con 2 o 3 giorni a pane e acqua e 1 o 2 giorni di guardia. consegna per un mese alle porte della città; sala di custodia per un mese; arresti semplici nella propria camera per un mese; sala di custodia per un mese; 10 giorni di prigione di cui 4 a pane e acqua. arresti semplici per un mese; idem con divieto di ricevere visite; 10 giorni arresti forzati in camera con sentinella alla porta.

Le pene corporali Benché l’abolizione delle pene corporali fosse un vanto della Rivoluzione, di fatto era frequente il ricorso a percosse, bastonate e varie forme di degradazione fisica, tanto da essere notoriamente considerato una delle cause principali di diserzione. Assieme alle frodi sulle paghe, le sistematiche bastonature praticato nella Divisione italiana in Francia furono denunciate ai generali francesi da vari soldati e sottufficiali italiani, provocando l’ispezione di Napoleone e la sua dura lettera di richiamo del 13 agosto 1804 a Melzi. Giustificandosi con Trivulzio, il 23 gennaio 1805 il generale Bonfanti riferiva che i “modi severi” erano cessati dopo la pubblica destituzione di alcuni sergenti e il deferimento del tenente Giasterli al consiglio di guerra. Ma accertare la verità era difficile, da un lato per l’omertà (i soldati, da lui “continuamente” interrogati, stavano zitti per timore di ritorsioni) e dall’altro perché «l’appiglio ai cattivi trattamenti (era) divenuto il comune pretesto di tutti i malcontenti». Certamente, «se non si tiene mano forte si bastonerà ancora – aggiungeva Bonfanti – non è per persuasione ma per forza che si è desistito in tutto o in parte dall’impiegare punizioni cui nessuno dei capi ha diritto. Si vorrebbero menare i soldati come bestie, perché quando il soldato è avvilito, è vittima paziente. Questo è il principio che per disgrazia regna nei capi dei nostri corpi e io li considero tutti intinti nella medesima vernice». Con varie circolari del giugno-luglio 1807 Caffarelli raccomandò ai corpi di impedire i maltrattamenti e gli abusi a danno dei soldati, indicati dalla maggior parte dei disertori come il motivo del loro delitto. Tra le varie misure, il ministro proibì a ufficiali e sottufficiali

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di portare la canna e dare piattonate. Il 10 settembre 1808 il ministro fece un richiamo al comandante dei cacciatori Principe Reale, perché alcuni ufficiali avevano strapazzato e percosso con pugni e bastonate i soldati romani aggregati al reggimento. In una lettera anonima del 19 marzo 1810 inviata al ministero, alcuni dragoni del 4° squadrone Napoleone di stanza a Novara scrivevano: “tutti i giorni si dà la ciavatta per piccole mancanze e nervate peggio della galera”. In settembre 5 ufficiali e sottufficiali furono arrestati per maltrattamenti e sevizie nei confronti di un soldato. Nel 1812 vi furono numerose punizioni di subalterni e sergenti per percosse ad inferiori, ma in dicembre un coscritto refrattario dell’Adige morì in ospedale per le percosse ricevute da un tenente. Anche il capo del collegio degli orfani fu ammonito per l’uso delle “ciabatte”.

Il matrimonio dei militari Gli ufficiali dovevano infatti rendere conto non solo delle loro debolezze, ma anche del matrimonio, L’8 marzo 1793 la convenzione aveva liberalizzato il matrimonio dei militari ma il 30 aprile aveva vietato di alloggiare mogli e figli in caserma. Richiamandosi a quest’ultima legge, il 19 febbraio 1799 il ministro Vignolle ordinò di allontanare tutte le donne non addette all’armata come lavandaie o vivandiere. In compenso fu lanciato un fondo nazionale per sovvenzioni alle famiglie dei caduti e con legge cisalpina del 18 aprile si accordò alle mogli dei militari la mezza razione di pane, più ¼ di razione per ogni bambino. Nell’estate del 1801 Teulié invocò leggi a favore del matrimonio dei militari e propose di creare un “convento militare” per le mogli e i figli minori di 5 anni. La legge francese del 26 luglio 1800 aveva però attenuato la libertà dei militari di contrarre matrimonio, prescrivendo l’autorizzazione del corpo di appartenenza, norma estesa da Tordorò all’esercito cisalpino. Nel 1804 Lechi segnalava gli inconvenienti verificatisi nella sua Divisione per matrimoni affrettati con ragazze pugliesi senza dote. Nel novembre 1804 Bonfanti propose di rimpatriare il sottotenente Cavicchioni del 1° leggero, “pessimo ufficiale”, “sepolto nella miseria, nella crapula e nella letargia”, i cui “impegni con una donna per la quale (era) perduto lo (avevano) sempre reso sordo alle correzioni e ai principi di militare”. Non è chiaro se fosse persona diversa da costui l’aiutante maggiore del 1° leggero, rimpatriato da Teulié l’11 aprile 1806 “onde togliere lo scandalo prodotto dal medesimo unendosi in matrimonio con un’attrice del Teatro di Boulogne”.

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Il 5 gennaio 1805 fu prescritta, come misura temporanea, l’autorizzazione ministeriale: nel giugno 1806 fu resa permanente per gli ufficiali superiori e generali, bastando per gli ufficiali inferiori il permesso del colonnello e per i sottufficiali quello del capitano. Nel 1808 l’autorizzazione ministeriale fu però prescritta per tutti i gradi, con obbligo di produrre un attestato di buona condotta e l’assenso dei parenti della sposa e, per gli ufficiali, anche l’attestato di un certo reddito. Dal censimento dei militari coniugati, disposto il 15 novembre 1808 dal viceré, risultò che tra gli ufficiali erano dal 12 al 40% a seconda delle armi (minimo in fanteria, massimo fra i veterani, ma anche fra i dragoni Regina), mentre tra i sottufficiali e la truppa erano al massimo il 4% (la media totale era tra il 2.1 e il 7.8%). I coniugati avevano in media 1,2 figli. Il matrimonio senza autorizzazione poteva costare l’espulsione (o il trasferimento dai granatieri della guardia reale al 6° di linea come accadde al tenente Brioschi nel 1810). Si ammisero però sanatorie per i matrimoni contratti all’estero (ad esempio da A. Lechi in Spagna): inoltre, per incentivare i militari a prolungare la ferma oltre i cinque anni, si concessero delle doti alle ragazze povere che li volessero sposare. Nel 1811 furono almeno 112 i militari di truppa che beneficiarono delle doti concesse per festeggiare la nascita del Re di Roma. Adulterio, concubinato, vivandiere e attendenti La società napoleonica era, com’è noto, una società borghese: vizi privati, pubbliche virtù. Costumi sessuali e relazioni extra-coniugali degli stati maggiori napoleonici hanno fatto letteratura. I pappataci d’alto rango, ricompensati a spese dell’erario per l’oculata gestione dei vezzi e favori di mogli e sorelle titolate, destavano, almeno in Italia, più invidia che riprovazione. La severità del giudizio era infatti commisurata al rango sociale della donna. Le relazioni adulterine erano ammesse solo con signore coperte da mariti compiacenti; quelle con donne libere, specialmente le “attrici” (infamiae notatae quanto più desiderate e irraggiungibili) erano biasimate. Il generale Menou, che almeno aveva avuto la coerenza di convertirsi all’islam, non era certo il peggiore, ma i suoi ultimi mesi di vita, trascorsi a Venezia tra debiti di gioco e donne di teatro, non destarono pietà. Quod licet Iovi, non licet bovi. Il Giornale Italico del 23 aprile1803 pubblicò un fattaccio di cronaca nera solo perché vi era coinvolto un ufficiale, il tenente di cavalleria Luigi Bartozzini (ma nei ruoli del 1° ussari figura solo un sottotenente Antonio Bertuccini), amante della

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signora Lani. Il tradito s’era umiliato a supplicare il rivale, che per tutta risposta l’aveva sfidato a duello: ma a morire era stata lei, uccisa dal marito. Più spesso finiva in farsa: il 18 aprile 1810 fu riammesso in servizio l’aspirante di marina Lorenzo Conte, assolto dall’accusa di aver “rapito” la moglie del signor Montebelli di Venezia. L’insegna di vascello Dabovich, che s’era impegnato un collier sottratto ad una “ragazza” (=prostituta?), se la cavò con 10 giorni d’arresto (26 marzo 1807) e fece poi parte del tribunale di marina. Il sesso femminile era ammesso in caserma: ma solo mogli e figlie, che spesso ricoprivano anche i 4 posti consentiti per reggimento (2 vivandiere e 2 lavandaie). Nel 1801, quand’era di stanza a Codogno, Teodoro Lechi aveva vietato i matrimoni nella sua mezza brigata. Il 6 gennaio 1802, a Monza, istituì un certificato (rilasciato dal capitano e controfirmato dal capobattaglione) di identità, buoni costumi e matrimonio contratto anteriormente al divieto di Codogno. Le donne trovate in caserma senza certificato dovevano essere rapate e scortate 10 miglia fuori città: all’uomo erano promessi 15 giorni d’arresto, al capobattaglione punizioni imprecisate per omessa vigilanza. Il capitano d’ispezione doveva inoltre controllare che non vi fossero vivandiere oltre le due autorizzate. Il 15 ottobre, alla vigilia della partenza per Milano, Lechi dispose un’ispezione notturna in quartiere: le donne senza certificato dovevano essere rapate e consegnate alla polizia per essere avviate a Milano. L’11 aprile 1808 il viceré approvò un ordine del giorno che vietava il concubinaggio anche agli ufficiali, abuso tollerato dai comandanti dei corpi, soprattutto in Dalmazia. Nel 1811 furono segnalati come concubini, con prole, pure due cappellani. Attendenti, capelli, baffi, distintivi di lusso e teatri Con ordine del giorno del 6 agosto 1808 si ribadì per l’ennesima volta il divieto di “tenere presso di sé dei soldati sotto titolo di ordinanza per commettere ai medesimi la cura dei domestici servizi”. Erano consentiti solo 1 ordinanza al comandante del corpo, 1 piantone all’ufficio del maggiore e 1 a quello del quartiermastro. Con ordini del giorno del 10 e 12 luglio, 10 ottobre 1801 e 14 dicembre 1801, Lechi prescrisse il taglio dei capelli “à l’avant-garde”, ossia rasati sul davanti, con coda di 8 pollici legata vicino alla testa e nastro fermato con spilla quadrata identica per tutti con la cifra “2”, corrispondente all’ordinativo della mezza brigata. Se il taglio delle basette identificava i detenuti per diserzione (liberi di farsi crescere la barba), ai refrattari si rasava il cranio. Il decreto del 23

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settembre 1810 vietò a tutti gli italiani di portare i baffi, dando incarico al direttore di polizia di presentare un relativo progetto esecutivo. L’esercito fu però escluso da questa disposizione e i baffi furono anzi adottati come distintivo delle compagnie scelte. Il capitano della guardia reale Pino fu incaricato di far provvedere al taglio dei baffi tra i non militari della casa reale (palafrenieri, domestici e civili al seguito della Guardia). Con circolare del 30 gennaio 1811 fu vietato l’abuso dei colonnelli di adottare oggetti di lusso come distintivo del reggimento, che determinava “emulazione” tra i corpi e costringeva gli ufficiali inferiori, scarsamente retribuiti, a indebitarsi per poterli acquistare. Tra le usanze dei comandanti c’era quella di portare a teatro ufficiali e soldati a prezzi scontati. Il 27 dicembre 1802, a Bologna, Lechi dava notizia di aver stipulato col capocomico Belloni un abbonamento per ufficiali e consorti, riservando una sola fila di sedie a prezzi scontati di 8 paoli per i subalterni e 5 per le signore. Era inoltre in analoghe trattative col “teatro in musica”. Naturalmente nessuno era obbligato ad andare a teatro: ma, naturalmente, se non ci andava, restava consegnato in caserma … Anche il comandante del 4° squadrone dei dragoni Napoleone li portava a teatro, a Senigallia, a gruppi di 50.

D. La diserzione La diserzione abituale (1800-1806) I due sistemi di reclutamento impiegati dall’esercito italiano – volontario fino all’estate 1803, obbligatorio in seguito – producevano due tipi diversi di disertori. All’opposto dei coscritti, che disertavano per odio della vita militare, i volontari l’amavano tanto che cercavano di sperimentarla presso il maggior numero possibile di datori di lavoro. I volontari erano infatti in maggioranza disertori esteri e spesso si arruolavano col proposito di disertare di nuovo alla prima buona occasione, non appena ricevuto l’ingaggio e l’equipaggiamento, per ripetere l’operazione in un altro esercito. Si può dire, in sostanza, che il numero dei disertori corrispondeva tendenzialmente a quello degli arruolati, dedotta l’aliquota che man mano si radicava mediante la promozione a gradi o incarichi convenienti o mettendo su famiglia. Il traffico dei disertori abituali, organizzato da vere e proprie agenzie di reclutamento illegale (“subornatori alla diserzione per conto di

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potenze estere”) era al tempo stesso combattuto e favorito da tutti i governi, incluso quello italiano. Per questa ragione era possibile tenere sotto controllo il fenomeno, non stroncarlo, se non cambiando sistema di reclutamento passando alla coscrizione obbligatoria. La legge di coscrizione non ebbe però cuore di gettare sul lastrico i poveri subornatori, che anche loro tenevano famiglia. E infatti ne favorì la riconversione in onesti sensali di volontari comunali e “cambi” individuali, procacciati (a prezzi di mercato ma sempre estorsivi) tra la feccia della società, col patto tra gentiluomini di non disertare prima di una data convenuta. Il tasso di diserzione dei “cambi”, calcolato su 5 corpi (2° e 4° di linea, dragoni Napoleone, artiglieria a cavallo e Zappatori), fu in tre anni e mezzo (secondo semestre 1803 e 1804-06) dell’83 per cento (470 su 565). Nel dicembre 1802, a Bologna, alcuni granatieri della 2a MB di linea denunciarono e fecero arrestare un paio di subornatori alla diserzione per conto di potenze estere. Altri due furono arrestati nel Vallese nel dicembre 1803, mentre offrivano ingaggi ai soldati della Divisione Pino in marcia per la Francia. Passata la frontiera, i coscritti non disertavano più, non sapendo dove andare e come sopravvivere: per i volontari, adusi al mondo, era invece un’occasione d’oro. I corpi francesi davano ricetto ai disertori dei corpi italiani, ma accadeva anche l’inverso. Perfino un generale francese (Jean Antoine Verdier, che aveva comandato la piazza del Cairo) si arruolò come fuciliere del 1° leggero e col nome di “Guillaume” Verdier (la ragione è ignota ma, poiché apparteneva allo stato maggiore di Murat, è lecito supporre che fosse stato incaricato di controllare Teulié e cercare di incastrarlo). In ogni modo, dopo lo scambio d’incarichi tra Pino e Trivulzio, Verdier chiese il congedo, ma Teulié (forse informato della sua identità e per ritorsione) glielo negò, costringendo Berthier a rivelargli ufficialmente (il 2 ottobre 1804) la vera identità del fuciliere e a sollecitarne il congedo (l’imperatore – aggiunse ad ogni buon conto Berthier – non gradiva l’arruolamento di francesi nella Divisione italiana).

La diserzione dei coscritti: le pene miti in vigore nel 1803-1808 La legge di coscrizione del 13 agosto 1802 (titolo VI) differenziò la diserzione dei coscritti da quella abituale. Ferme restando le pene previste per la diserzione qualificata e per la recidiva, l’art. 70

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comminava per la prima diserzione soltanto tre mesi di carcere, col prolungamento degli obblighi di servizio o coscrizione per altri 4 anni. La condanna in contumacia importava inoltre una multa di lire 600, riscossa per le vie di giustizia ordinaria, inclusa la vendita di un equivalente di beni mobili e immobili del condannato sino a concorrenza della somma (art. 72). La somma, versata nella cassa distrettuale, era impiegata per finanziare l’istruzione della riserva (art. 73). La semplice negligenza del pubblico funzionario nella ricerca e nell’arresto dei disertori, renitenti e loro complici comportava la destituzione e la multa di lire 300 (art. 74). Il funzionario colpevole di frode, favoreggiamento della diserzione o impedimento o ritardo della partenza dei requisiti era punito con 2 anni di prigione e multa da 600 a 1.800 lire (artt. 75 e 76). Per gli ufficiali incaricati dell’arresto la negligenza colposa comportava la sola destituzione, mentre in caso di dolo a scopo di lucro la pena era di 5 anni di ferri (artt. 77 e 78). Il favoreggiamento semplice (nascondere un disertore o sottrarlo all’arresto, specialmente con false dichiarazioni o falsi certificati) era punito con la multa da lire 600 a 1.800 e con 1 anno di prigione (2 se il disertore aveva armi e bagaglio). Alla stessa pena soggiaceva chi l’avesse accolto in casa come domestico senza averne informato le autorità comunali – a loro volta responsabili per negligenza in caso di mancato accertamento mediante interrogatorio ed esame delle carte (artt. 79-82). Con decreto n. 130 del 14 ottobre 1805 i refrattari furono equiparati ai disertori e i “padri conniventi” assoggettati al pagamento della multa. Il ricetto del latitante fu a sua volta equiparato all’istigazione alla diserzione, punita dall’art. 8 della legge 13 febbraio 1798 con sanzioni più gravi del semplice favoreggiamento. Fattispecie e presunzioni legali (decreto del 18 novembre 1807) Con l’introduzione dei consigli di guerra speciali (ordine del giorno 17 ottobre, decreto del 18 novembre 1807 e circolare del 18 maggio 1808) fu meglio precisala la fattispecie del reato nonché le presunzioni legali per la dichiarazione d’imputazione. Le assenze arbitrarie inferiori alle 72 ore in pace o alle 24 (o 48) ore in guerra erano punite in via correzionale. Trascorsi tali termini il militare veniva dichiarato disertore (praesumptione juris tantum) e deferito al consiglio di guerra. La stessa imputazione si applicava anche al militare che non rientrava al corpo entro 15 giorni dalla sua

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dimissione dall’ospedale o dal termine del congedo temporaneo. La norma fu poi attenuata, dando facoltà al comandante di dichiarare “assenti”, anziché disertori, i militari scomparsi “dopo un giorno di battaglia, dopo marce lunghe e sforzate, in paese nemico o infestato da banditi”, quando, trovandosi da lungo tempo sotto le armi, avessero dato prova di “attaccamento al servizio” e a giudizio del capitano non fossero sospettabili di “essersi dati vilmente alla fuga”. L’inasprimento delle pene (dal 1° giugno 1808) Le pene per le diserzioni commesse dopo il 1° giugno 1808 furono fortemente inasprite, prevedendo, a seconda delle circostanze, da 3 a 10 anni di lavori pubblici (semplici o con palla) o anche la morte mediante fucilazione, con le pene accessorie della multa di lire 1.500 (con esecuzione forzata sui beni del reo) e della pubblicazione infamante (“parata” del reo davanti al suo reggimento e affissione della sentenza nel luogo di emanazione). La pena per la prima diserzione, all’interno e senza aggravanti, saliva da 3 mesi di reclusione col raddoppio del servizio a 3 anni di lavori pubblici, col beneficio però di poter essere inclusi nelle revisioni fatte semestralmente dal comandante della Divisione di Mantova per scegliere i condannati meritevoli di amnistia e di invio ad un corpo di linea (sistema adottato, con decreto 20 agosto 1808, anche per i refrattari detenuti in deposito: v. P. IIB, §. 6C). In caso di aggravanti (in fazione o in servizio; con scalata delle mura, o con complotto o con trafugamento di cavallo, o di baionetta o di sciabola o di commilitone; dall’Armata o da una piazza di prima linea; all’estero o al nemico) il disertore era condannato a 3 anni “di palla” (ossia a speciali lavori in fortezza in condizioni di particolare durezza, tra cui tenere il cranio rasato e la barba incolta ed essere incatenati ad una palla di 8 libbre). Anche i condannati alla palla erano ammessi al beneficio della revisione semestrale, ma potevano essere assegnati soltanto ad un corpo di punizione (Battaglione coloniale di stanza all’Elba o 4° RI leggiere destinato in Dalmazia). La recidiva semplice era punita con 10 anni di lavori forzati, ovvero 10 di palla se si trattava di evasione dal lavoratoio, dal deposito dei refrattari o da unità punitive. La recidiva aggravata era invece punita con la morte, da eseguirsi nelle ventiquattrore successive. L’accordo (“complotto”) fra almeno 3 militari per commettere il reato era punito anche se la diserzione non si verificava, con la morte per il promotore e 10 anni di palla per gli altri.

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La diserzione all’estero La legge franco-italiana non faceva differenza tra la diserzione all’interno con successivo espatrio e la diserzione commessa fuori del territorio nazionale. Era infatti presuntivamente dichiarato disertore all’estero il militare trovato fuori dei limiti di presidio a meno di 2 leghe dall’ultima frontiera. Nell’agosto 1807 fu stipulata una convenzione internazionale con la Baviera e con l’Impero per la consegna reciproca di disertori e renitenti. Tuttavia solo con decreto del 24 maggio 1812 i disertori italiani arrestati nel territorio dell’Impero (inclusi i dipartimenti italiani confinanti col Regno d’Italia) furono formalmente equiparati ai disertori all’estero. Il 22 dicembre Napoleone vietò inoltre, sotto pena di reclusione, il procacciamento di “cambi” francesi (inclusi i “nuovi francesi” dei dipartimenti italiani) per i coscritti italiani e dispose la consegna ai rispettivi governi dei disertori italiani e napoletani arrestati in territorio imperiale (particolarmente numerosi in Toscana, Umbria e Lazio). Al contrario dei mercenari, i coscritti disertavano soprattutto in territorio nazionale, in particolare alla vigilia della partenza per il fronte e durante la marcia al confine. In mancanza di statistiche, vari indicatori fanno tuttavia ritenere che il tasso di diserzione restasse occasionalmente molto elevato anche all’estero. Nel maggio 1807 i cacciatori bresciani (volontari) ebbero 100 disertori durante la marcia per il Tirolo (da dove sapevano come tornare a casa). In giugno un battaglione complementi di 1.047 uomini ne perse 213 tra Brescia e Innsbruck. Il 2 novembre 1808 Pino segnalava dalla Spagna che, malgrado una doppia linea di sentinelle, le diserzioni continuavano e si disertava pure dagli avamposti: nel maggio 1809 il suo capo di stato maggiore Jan Dembowski attestava però che il numero era ormai assai limitato. Nel luglio-agosto 1811 la Divisione Severoli ebbe 515 disertori (il 5.7% della forza, 8.955 uomini) di cui 180 alla vigilia della partenza per la Spagna e 335 nella marcia fino a Tolosa: il colonnello Pisa scriveva da San Giovanni di Moriana che il 2° di linea era pervaso da “un maniaco spirito di diserzione”. Non pochi passavano al nemico, come fece a Tarragona, il 5 luglio 1812, anche il capitano d’artiglieria Pansiotti, con 12.000 franchi della sua compagnia. Nel febbraio-aprile 1812 la 3a Divisione Pino ebbe 382 disertori (il 2.8% della forza, 13.788 uomini) durante la marcia per raggiungere la

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Grande Armée a Glogau. Tuttavia, confermando la regola valida per i coscritti, il numero diminuiva con l’aumento della distanza fisica e socio-culturale con l’Italia: 165 nelle prime due settimane, 118 nelle due successive e poi 40, 36 e 23. Passato il Niemen, nessuno era più in grado di cavarsela da solo, a meno di non darsi prigioniero. Nel dicembre-gennaio 1813, durante la marcia in Germania, la Brigata Zucchi ebbe 335 disertori (4.6% della forza, 7.408 uomini), di cui 250 prima della frontiera e 85 in Baviera. Anomala era invece la diserzione da Ragusa a Cetinje o Trebinje per arruolarsi negli eserciti russo o turco (sotto ispettore alle rassegne Stefano Gelmi, 23 novembre 1811): il colonnello Vandoni del 4° leggero riteneva che andavano dai montenegrini per ingenuità (7 novembre 1812) e dai “turchi” (bosniaci) per “golosità” (8 maggio 1813). Bastava poco, per star meglio che a Mantova o a Ragusa. Le dimensioni del fenomeno: denunce e condanne I disertori delle “leve Melzi” (1803-05), indultati il 5 maggio 1810, furono circa 18.000. Il calcolo si ottiene sommando i dati noti (4.199 dall’11 giugno 1803 al 31 gennaio 1804 + 3.120 dal 1° febbraio al 30 ottobre 1804 + 4.003 nel 1805) e integrando il risultato con una stima delle diserzioni verificatesi nel bimestre “scoperto” (ultimo del 1804). Nel 1806-10 furono altri 21.000. Per questo periodo i dati noti sono: 2.582 nel 1804, 4.104 nel 1807 (meno dicembre), 17.750 nel 1807-10 (meno l’ultimo bimestre del 1810). L’entità delle diserzioni italiane suscitò un rilievo di Napoleone al viceré (lettera del 2 marzo 1811, con allegato il prospetto dei disertori italiani del 1809-10). Eugenio gli rispose il 4, rilevando che nel 1810 erano diminuiti rispetto al 1809 e unendogli lo “stato” dei disertori francesi in Italia, peggiore di quello italiano. In giugno non mancò poi di segnalare all’imperatore che nel 1811 le diserzioni francesi erano aumentate: durante la marcia aveva disertato quasi un quarto dei coscritti spediti a reclutare i reggimenti dislocati in Italia (128 su 538, con una punta del 32.5% nel contingente dell’Alta Garonna). Dal 1° settembre 1811 al 31 dicembre 1812 si verificarono, secondo Zanoli, 7.339 diserzioni. Applicando lo stesso tasso agli otto mesi “scoperti” (i primi del 1811) il totale del biennio salirebbe a 11.000. Si ricava così un totale di 50.000 diserzioni dal 1803 al 1812. Si deve però tener conto che le cifre si riferiscono alle denunce e non agli individui e per sapere quanti effettivamente disertarono bisognerebbe avere qualche elemento sull’incidenza della recidiva. In mancanza si

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può al massimo avanzare l’ipotesi che le recidive si compensino con le diserzioni del 1813-14, sicuramente superiori al tasso del biennio precedente e ritenere dunque un totale di circa 50.000 disertori. Quanto alle statistiche giudiziarie, nel biennio 1805-06 e nel primo semestre del 1807 i consigli di guerra permanente giudicarono 3.713 disertori, con 94 assoluzioni (2.5%) e 3.619 condanne: 2.405 al doppio servizio (66.4%), 912 a tre mesi di reclusione (25.2%) e 344 ai ferri (9.5%). Su cinque condannati quattro erano contumaci (2.863) e uno presente (756). I giudizi rappresentano solo il 44 per cento delle diserzioni verificatesi nello stesso periodo. Nel primo semestre 1811 i consigli di guerra speciali giudicarono 2.554 disertori, di cui 803 in contraddittorio (31.4%) e 1.751 contumaci (68.6%), con 258 assoluzioni (10.1%) e 143 condanne a morte (5.6%) di cui però 123 di contumaci e solo 20 eseguibili (2.5% dei presenti). Altri 238 (10.4%) furono condannati alla palla e 1.912 (83.3%) ai lavori pubblici, in maggioranza assegnati direttamente ai reggimenti 2° (240) e 3° leggero (317) e 3° (188) e 6° di linea (239). Nel terzo quadrimestre 1811 e nel 1812 vi furono 2.070 condanne: 20 a morte (1%), 220 alla palla (10.6%) e 1.830 ai lavori pubblici (88.4%).

E. Il bastone e la carota Incentivi alla costituzione spontanea dei latitanti (amnistie) Dal 1803 furono concessi ai disertori 8 amnistie condizionate alla presentazione entro un mese (spesso prorogato), 1 indulto assoluto e incondizionato (5 maggio 1810) e 1 arruolamento volontario di guerra (11 novembre 1813). La I amnistia fu accordata il 14 luglio 1803 (con proroga del 14 agosto); la II il 18 settembre 1804 (con 258 presentati al 7 novembre); la III il 22 maggio 1805 (per l’incoronazione di Napoleone), la IV il 24 novembre 1805, la V nell’aprile 1808, la VI il 13 settembre 1808, la VII il 30 dicembre 1809 e l’VIII il 15 settembre 1812. La Divisione italiana in Francia beneficiò inoltre dell’amnistia francese del 2 giugno 1804. La VII amnistia (30 dicembre 1809) fruttò la presentazione di circa un terzo dei disertori latitanti (536 su 1.633, cifre riferite però a soli 9

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dipartimenti: Adda, Olona, Mella, Serio, Mincio, Basso Po, Reno, Brenta e Tagliamento). L’indulto del 5 maggio 1810 fu concesso a tutti coloro che avevano disertato anteriormente al 1° gennaio 1806 (circa 18.000), estinguendo le pene pronunciate dai consigli di guerra permanenti e sciogliendoli da ogni ulteriore obbligo di servizio. Altre due amnistie riguardarono gli italiani al servizio austriaco. La prima (19 settembre 1806) a coloro che avevano continuato a servire nelle file nemiche dopo il trattato di Campoformio. Chi non si avvalse dell’amnistia cadde sotto i rigori del decreto del 10 agosto 1807. L’altra fu concessa il 18 maggio 1809 (contemporaneamente alla nomina delle commissioni militari contro gli insorgenti italiani e tirolesi) ai sudditi che avevano seguito gli austriaci in ritirata, a condizione di rientrare in Italia. Sistemi di deterrenza: lettura delle norme e “parata” del reo La circolare del 18 maggio 1808 ripristinò il sistema – in vigore negli eserciti d’antico regime e brevemente adottato anche dalla Cisalpina nel 1801 – della periodica lettura in caserma delle sanzioni contro la diserzione. Se ne dovevano fare due al mese, la prima e la terza domenica (una a tutto il corpo riunito, l’altra per compagnie). Sempre per dissuadere la diserzione, la circolare disponeva che il giorno successivo alla sentenza questa fosse letta di fronte alla guardia del giorno: i condannati dovevano ascoltarla in ginocchio, con la casacca da forzato e bendati e tutto il reggimento doveva poi sfilare davanti a loro (“parata”). Secondo Enrico Giuseppe Bozzolino, maggiore del 1° leggero, la “parata” era controproducente, perché i condannati ostentavano “baldanza e tracotanza” dichiarando di preferire la condanna ai lavori pubblici alla vita militare (Trento, 11 giugno 1812). Il comandante del 4° leggero, colonnello Carlo Vandoni, confermava che perfino i suoi soldati, che avevano provato la durezza dei lavoratoi o del deposito refrattari, preferivano correre il rischio di tornarci condannati alla palla piuttosto che servire in Dalmazia: scappavano in Bosnia, allettati dai reclutatori russi e turchi o ingannati da trafficanti che li rivendevano come schiavi ai contadini montenegrini (Ragusa, 7 novembre). Nel 1813 il reggimento dette infatti pessima prova: ma bisogna anche dire che era sparpagliato in piccoli distaccamenti isolati, i quali, salvo rari casi, passavano al soldo inglese solo dopo essere stati catturati.

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L’estensione della pena di morte (31 agosto 1810 – 8 aprile 1812) Il 31 agosto 1810, da Saint Cloud, Napoleone decretò la pena di morte per i disertori presi con le armi in pugno nelle file nemiche (decreto esteso all’Italia il 15 ottobre). Il 23 novembre 1811 la morte fu estesa ai graziati che disertavano nei primi 6 mesi dall’assegnazione al 4° leggero o al battaglione coloniale o nel viaggio di trasferimento a tali corpi e il 12 gennaio 1812 ai graziati assegnati ad altri corpi che disertassero entro l’anno in corso. L’11 marzo 1812 il giudizio sui sudditi italiani presi con le armi in pugno nelle file o a bordo di navi nemiche fu devoluto a consiglio di guerra speciale, con applicazione dell’art. 75 codice penale. Furono inoltre raddoppiate le pene per i marinai disertori recidivi (4 febbraio) e comminata la morte agli italiani catturati a bordo di legni da guerra o da corsa nemici, con giudizio sommario a bordo dei vascelli (8 aprile). Incentivi all’arresto e alla delazione dei disertori Con legge cisalpina del 20 settembre 1798 era stato istituito un premio di 30 lire per la cattura di un disertore e 15 per la delazione seguita da cattura, esclusi ovviamente i militari che la effettuavano per servizio. Con decreto del 21 agosto 1801 il premio fu portato a 6 e 3 scudi, ma ebbe scarso effetto perché (come spiegavano al ministero, il 27 luglio e il 21 dicembre 1803, i prefetti dell’Olona e dell’Agogna) il sistema di pagamento era troppo macchinoso. Una quota del premio era infatti a carico del comune del reo e anche se il ministero in seguito se l’accollò interamente, la riscossione restava laboriosa e problematica. Nel gennaio 1804 furono pagati premi per la cattura di 214 disertori (76 requisiti, 31 supplenti, 32 forzati della legione italiana, 63 militari di incerta categoria e 3 allievi dell’orfanotrofio). I reclami per ritardi nei pagamenti erano tanto numerosi che l’impegno dello stato dovette essere riconfermato con decreto del 3 agosto 1805. Le istruzioni sulla leva del 14 luglio 1805 accordarono ai coscritti requisiti che facevano arrestare un disertore un premio al tempo stesso più economico per lo stato e più prezioso per i beneficiari, vale a dire la concessione del congedo definitivo. Con decreto del 13 ottobre 1804 il premio fu esteso anche a gendarmi e guardie nazionali, di finanza e forestali, segno evidente del loro scarso impegno. Il 10 agosto 1810 il premio d’arresto fu elevato da 20 a 30 lire e la circolare del 19 settembre sveltì le procedure di pagamento. Il 15 maggio 1812 il viceré destinò a tal fine i proventi

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delle tasse di coscrizione (£. 86.675). Nel febbraio 1813 l’entità del premio fu provvisoriamente raddoppiata sino al 15 aprile. Compellenza: garnisaires e addebito al contingente comunale Notoriamente la maggior parte dei coscritti disertava per tornare a casa e dunque lo faceva soprattutto finché si trovava all’interno del paese. I disertori vivevano indisturbati grazie al sostegno dei parenti e alla connivenza delle autorità, non sempre disinteressata: accadeva ad esempio che il sindaco, ricco possidente, proteggesse i disertori non per filantropia o pacifismo ma per sfruttarli come braccianti nei propri poderi. Per rompere il muro d’omertà si rispolverò uno dei più odiosi sistemi dell’antico regime, quello di alloggiare un militare (garnisaire) in casa (“in tansa”, ossia in stanza da letto) dei presunti favoreggiatori, a cominciare dai genitori, con l’obbligo di mantenerlo ad esosa tariffa. Già nel luglio 1803, durante l’emergenza creata dalla prima leva, si era fatto ricorso alle colonne mobili e alla tansa. L’istituto fu poi usato su larga scala nel 1812-13, soprattutto in Romagna e nelle Marche, su disposizione prefettizia e con indennità commisurate al grado del militare, da £. 1 a 3.50 per truppa e sottufficiali e di £. 5.50 per gli ufficiali (ne erano esclusi i gendarmi). Il 30 ottobre 4 fucilieri del 6° di linea in tansa a Montemilone (Pollenza) furono attaccati da una banda di disertori, che ne uccisero uno e ne ferirono un altro. In novembre sia Cortese, direttore delle rassegne e coscrizione sia Polfranceschi, ispettore della gendarmeria, espressero riserve sull’opportunità di una misura così severa, in parte revocata dopo le gravi alluvioni per non infierire sulle famiglie più bisognose. L’istituto fu poi regolato e limitato con decreto del 23 giugno 1813. Il cantone (e dal 3 febbraio 1807 il comune) era tenuto a rimpiazzare i renitenti, ma non i disertori. Solo il sostituito era tenuto a rimpiazzare il sostituto in caso di diserzione. Le istruzioni sulla leva del 14 luglio 1805 obbligarono i comuni a rimpiazzare i propri disertori rientrati nel circondario, ma era assai difficile, per non dire impossibile, provare la presenza, ancorché presumibile o notoria, di un latitante. Nel maggio 1812 il ministero mise allo studio un progetto per addebitare ai comuni tutti i rispettivi disertori, ma si preferì soprassedere e procedere con le “perlustrazioni”. I rastrellamenti del 1809-13 (colonne mobili e “perlustrazioni”) Il sistema più efficace per la cattura dei latitanti era infatti quello dei rastrellamenti a tappeto e delle spedizioni mirate (“colonne mobili” e

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“perlustrazioni”). L’ambiente fisico era poco propizio per mancanza di strade e quantità di aree impervie (paludi, montagne), ma l’ambiente sociale era meno negativo. Inizialmente, è vero, la gente di campagna aiutava spontaneamente i latitanti, ma le bande s’erano col tempo date al brigantaggio, accrescendo la domanda di sicurezza e di repressione. Non solo per denaro, ma anche per odio e “patriottismo” si trovavano perciò abbastanza facilmente guide e confidenti in grado di indicare i nascondigli; ma il problema erano le forze. Le truppe di linea erano raramente disponibili, vuoi per effettivi impegni vuoi per la contrarietà dei comandanti a fare un lavoro “da sbirri”. Gendarmi e guardie di finanza, campestri e boschive, oberati dai normali servizi d’istituto, erano sparsi in piccoli presidi e per formare squadriglie, pattuglioni e posti di blocco si doveva ricorrere alla guardia nazionale e alle compagnie di riserva. Costoro, essendo da un lato inesperti e dall’altro radicati sul territorio e perciò spesso pieni di parenti e conoscenti dei latitanti, davano un contributo minimo quando non facevano fallire la sorpresa avvisando i ricercati. La lotta contro l’insorgenza del 1809 costrinse però il governo a potenziare le forze di sicurezza interna e accrebbe l’esperienza. Con le “perlustrazioni” di dipartimento, in Alto Adige furono catturati 183 latitanti nel 1809 (110 dalla guardia nazionale e 73 dalla gendarmeria) e 171 nel maggio 1810 (ma solo 14 furono inviati ai consigli di leva, gli altri furono quasi tutti rilasciati, 22 perché riconosciuti innocenti e 72 per insufficienza di prove). Nel settembre-ottobre 1809 furono catturati nel Reno 172 disertori italiani, 34 stranieri e 29 refrattari. Nel marzo 1810, grazie alla delazione di una donna, la gendarmeria annientò presso Budrio l’intera banda Baschieri (le teste furono esposte a Bologna sul palco della ghigliottina). La banda Muzzarelli (“Cemini”), forte di un centinaio di elementi, fu annientata nel 1812 e il capo ghigliottinato nella piazza grande di Modena. Con decreto 2 giugno 1811 furono aggregati alla gendarmeria 905 “ausiliari” di linea (inclusi 400 francesi e 40 dalmati). Nel 1812 le catture salirono a 7.078, di cui 900 in perlustrazioni nei dipartimenti con maggior numero di latitanti (Alto Adige, Lario e Bacchiglione) e 6.178 in una perlustrazione generale condotta dal 15 settembre al 15 novembre. Erano però retate indiscriminate, in cui poteva incappare chiunque. Si deduce dal fatto che un’Istruzione generale, emanata lo stesso 15 novembre, tolse ai sindaci la convalida degli arresti riservandola ai giudici di pace o ai viceprefetti. La gendarmeria la prese male: fece sapere che i contadini facevano capo solo al loro sindaco e col nuovo sistema non collaboravano più; che il giudice di

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pace, impegnato in altre faccende, faceva aspettare giorni e settimane prima di decidere e intanto bloccava le altre operazioni, obbligando i gendarmi a custodire gli arrestati. Alla fine, il 21 luglio 1813, la convalida fu restituita ai sindaci. Nel dicembre 1812 la colonna mobile del Musone fece solo 4 arresti. Nel marzo 1813, nel Mincio, i disertori presi furono 130; il rastrellamento di Varese, in aprile, fu diretto da Luigi Balza, futuro capo della polizia austro-lombarda. L’8 aprile Melzi osservava che la diserzione, pur inferiore a quello che si temeva, bastava già per dare problemi di ordine pubblico. Il 5 maggio l’ispettore della gendarmeria, Polfranceschi, dichiarava “inaffidabili” le compagnie dipartimentali di riserva; il 12 segnalava che i disertori di Bormio, Ponte e Tirano rifugiati nei Grigioni s’erano portati al confine, pronti a collegarsi con gli insorti di Merano. Ma la gendarmeria coglieva un successo, uccidendo in conflitto a fuoco, presso Menaggio, il famoso Carlo Pisolo, capobanda di disertori e a fine mese le colonne mobili bonificavano il confine toscano e umbro. Le fucilazioni per diserzione In mancanza di statistiche, si deduce dal complesso delle fonti che la pena di morte nei casi di diserzione fosse eseguita assai raramente. Il 27 novembre 1808 toccò ad una guardia d’onore, Andrea Brunori di Corinaldo, “per pensata e non effettuata diserzione” (cioè quale capo complotto): ma fu un caso eccezionale, voluto dal viceré per dare un esempio e che gli fu poi virtuosamente messo in conto nel 1814 dai topi, fino ad allora osannanti dal formaggio, per giustificare il trasloco dalla nave in procinto di affondare. Nel primo semestre del 1811, quando era ancora ammesso il processo contumaciale, le condanne a morte furono 143 (6.3% del totale), ma 123 riguardavano contumaci e solo 20 (2.5% dei presenti) poterono essere eseguite. Nel 1812 le esecuzioni capitali per questo reato furono solo 20, meno dell’un per cento del totale dei condannati, tutti presenti (2.070). Il 21 marzo 1813, ad Ala, il vecchio generale Fresia fece fucilare per diserzione il cacciatore a cavallo Veronese, minacciando di costringere i prossimi 8 disertori a giocarsi la vita ai dadi per sorteggiarne due da fucilare. Tuttavia fu solo in maggio, col ritorno del viceré dalla Germania, che si cominciò a fucilare davvero. Il 6 giugno il generale Bianchi d’Adda, incaricato del portafoglio della guerra in assenza di Fontanelli, suggerì al viceré “misure di clemenza”, evitando nuove esecuzioni nelle città in cui s’erano già dati degli esempi. Ma il saggio

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consiglio fu spiazzato dall’impennata delle diserzioni verificatasi alla vigilia della guerra con l’Austria. La diserzione in massa del 3° di linea (7-8 agosto 1813) Quanto a diserzione, i reggimenti peggiori erano il 3° leggero e il 3° di linea. Il 26 giugno tre disertori del 3° leggero furono fucilati in piazza a Udine, ma dal reggimento si continuò a disertare per tutto luglio. Il 3° di linea, formato da coscritti del Reno, Rubicone e Metauro, si era già reso famoso l’anno prima (il 27 e 29 luglio 1812, a Treviso) quando 80 uomini avevano scalato le mura forzando le sentinelle: gli ufficiali li avevano fermati spada in pugno, ferendone 11, ma due giorni dopo altri 50 erano riusciti a scappare. Il 23 giugno 1813, in partenza da Este per Padova, 2 battaglioni del reggimento rifiutarono il rancio: 18 riuscirono a scappare, gli altri furono trattenuti a stento dalla gendarmeria e dagli ufficiali. Ma la notte del 6-7 agosto, a Conegliano, ne disertarono 445, spargendosi in bande di 20-25 per il paese. Qualcuna fu intercettata dalla gendarmeria del Brenta, il cui capitano aveva avuto la presenza di spirito di bloccare i ponti con la poca gente che aveva sottomano e con 40 riservisti, vi furono anche alcuni scontri a fuoco fra i canneti, ma il grosso riuscì a farla franca. Pena di morte e rimprovero alla gendarmeria (17-20 agosto 1813) Al colmo dell’ira, il 16 agosto il viceré scrisse a Fontanelli da Udine di essere “estremamente malcontento della gendarmeria” e con ordine del giorno del 17 equiparò la diserzione dai battaglioni e squadroni di guerra alla diserzione al nemico, punita con la morte. Polfranceschi la prese male: il 20 emanò a sua volta un ordine del giorno in cui scaricava il rimprovero sui suoi dipendenti, esortandoli a “maggior Zelo” contro i disertori che “traversa(va)no baldanzosi interi dipartimenti senza cadere negli agguati della gendarmeria”. Ma al tempo stesso scrisse a Fontanelli che in diciotto mesi (fino al 30 giugno 1813) la gendarmeria aveva arrestato 17.801 persone, di cui 3.463 disertori o refrattari italiani o esteri (e 1.395 solo nel primo semestre dell’anno) e 437 “fautori di diserzione” (ossia parenti conniventi e favoreggiatori), più 8.615 oziosi, vagabondi e mendicanti “validi” (e perciò sospetti di diserzione o renitenza). Dal 1° agosto, poi, i disertori arrestati erano 218, di cui 126 del 3° di linea (il 28% di quelli disertati a Conegliano). Il risultato, ammetteva, era ancora

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insufficiente: ma era dipeso dall’“onerosità” del compito, dalla “gioventù” e “inesperienza” di una parte del personale, dalle paghe “basse” degli ufficiali (ma se erano strapagati, in confronto agli altri!) che li “aliena(va)no dal loro stato” (bella giustificazione!). La colpa maggiore ricadeva però sulla “connivenza” della popolazione. Fucilazioni a settembre, amnistia a novembre A fine agosto Bianchi d’Adda propose un’amnistia, ma il viceré la rifiutò, suggerendo invece di far circolare “sous main”, a cura dei prefetti, la promessa di avviare direttamente al deposito del 4° leggero a Venezia, sena processarli, i disertori costituitisi spontaneamente. Il 4 settembre, intanto, furono ghigliottinati a Padova tre disertori recidivi arrestati undici mesi prima e il 19 furono fucilati in piazza del Castello due disertori croati. Il 27 il cronista Luigi Mantovani annotava nel suo diario: “il viceré ne fa fucilare parecchi”. L’esempio serviva ormai a poco: dal 7 a1 10 ottobre disertarono a Milano perfino 21 veliti reali. Finalmente l’11 novembre l’amnistia la fece Fontanelli, mascherata ipocritamente da arruolamento volontario di guerra, alla faccia non solo dei fucilati ma dei coscritti che erano stati tanto stupidi o paurosi da farsi vincolare a 4 anni di ferma. Infatti, come abbiamo visto, ai disertori che si arruolavano volontari veniva garantito non solo il perdono ma anche il congedo entro tre mesi dalla “cacciata” del nemico (v. supra, §. 6E). Il 23 il generale Villata scriveva da Mantova che “l’impunità dei disertori scoraggia(va) i militari alle armi”. In dicembre una colonna di 558 refrattari del Musone e Tronto perse 141 disertori nella marcia per Bologna. Intanto i disertori del Veneto si arruolavano nei battaglioni volontari austriaci, quelli delle Marche e della Romagna nell’esercito murattiano e altre bande scorrevano Adda, Serio, Mella, Panaro e Reno, fucilavano le spie del governo a Urbino, Pesaro e Fermo e attaccavano i posti di finanza in Valtellina col sostegno della gente. L’ultimo rimprovero alla gendarmeria italiana, accusata di non fare il suo dovere e di lasciar circolare impunemente i disertori, lo fece il generale Vignolle, l’antico ministro della guerra cisalpino, nel suo ordine del giorno del 1° marzo 1814, dal quartier generale di Volta Mantovana.

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F. Carceri ed ergastoli militari Le carceri ed ergastoli militari Nel febbraio 1811 il sistema detentivo e penitenziario militare del Regno era composto da: • • • • • •

27 carceri militari per gli arrestati e i detenuti in attesa di giudizio – le più antiche al Foro Bonaparte, le maggiori alla Rocchetta del Castello di Milano (240 posti), a Cremona (200), Padova (160) e Ancona (140); 1 casa d’arresto della Marina (a Venezia: regolamento del 29 ottobre 1808); le sale di disciplina delle caserme (previste dal regolamento del 20 dicembre 1810); 3 depositi coscritti refrattari (Mantova, Legnago e Palmanova) istituiti con decreto del 20 agosto 1808; 2 ergastoli militari (Mantova e Legnago) per i disertori condannati “alla palla” o ai lavori forzati (decreto 18 novembre 1807 e circolare 18 maggio 1808); 2 ergastoli militari o bagni penali (Venezia e Ancona) per i forzati addetti alla marina (regolamento del 6 febbraio 1806).

Tutti questi enti erano sottoposti alla polizia del commissariato di guerra o di marina. Per le condizioni igienico sanitarie delle carceri v. P. IIB, §. 8B; per i depositi refrattari v. P. IIA, §. 6C; per la casa d’arresto di Venezia e i bagni penali della marina v. Tomo III, P. III, §§. 6A e 8D . In base al decreto 28 gennaio 1803, in mancanza di locali idonei nelle caserme o in attesa di giudizio presso i consigli di guerra, era inoltre consentita la detenzione di militari nelle prigioni civili. I militari dovevano essere tenuti separati dagli altri detenuti. Le spese erano rimborsate dal ministero sullo stato mensile dei detenuti militari, a tariffa di centesimi 17 e ½ (di cui 15 per il vitto). Soldo, vitto e “benvenuta” dei detenuti in attesa di giudizio Agli ufficiali sotto giudizio competeva un terzo del soldo (ovvero due terzi del trattamento di ritiro o di riforma). Il vitto consisteva in pane di munizione, minestra e legumi, questi ultimi provveduti dai comuni a tariffa di 15 centesimi. Nel 1804 il sergente degli invalidi Giacinto Ghezzi, già segretario del comandante del castello di Milano, fu arrestato per aver sottratto decine di migliaia di razioni ai detenuti di Foro Bonaparte. In teoria i detenuti erano liberi di acquistare cibo fuori dal carcere, ma di fatto era impossibile, perché gli anziani davano la “benvenuta” alle matricole sequestrando loro denaro ed effetti: i carcerieri tolleravano e anzi incoraggiavano, non di rado

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assistendovi di persona, queste rapine, a patto che il ricavo fosse speso per acquistare cibo e liquori da loro, naturalmente a prezzi astronomici. L’ordine del giorno vicereale del 3 febbraio 1809 dava disposizioni per prevenire tali abusi, ma è facile immaginare i risultati. Secondo Zanoli con decreto del 15 dicembre 1811 il vitto dei detenuti fu migliorato, e “con tutto ciò” nel 1812 si ebbe un risparmio di 29.941 franchi rispetto alla media degli anni precedenti. In realtà il decreto si limitava a dispensare i comuni dal provvedere i detenuti militari, dandone l’incarico agli stessi carcerieri, a tariffa ordinaria di 18 centesimi e di 25 per i viaggi sotto scorta. La circolare 7 luglio 1813 censurava ancora le frodi e le estorsioni dei carcerieri: imputabili però, in ultima analisi, alla decisione di ricorrere all’appalto. Il regime dei condannati ai lavori forzati o alla palla Polizia, direzione e amministrazione dell’ergastolo erano attribuiti al commissario di guerra della piazza, al direttore e all’economo o agente dell’amministrazione, che gestiva in appalto i servizi di alimentazione, riscaldamento e illuminazione. Il personale di custodia includeva un brigadiere di gendarmeria e i sorveglianti capisezione. I servizi interni di pulizia e manutenzione erano svolti dagli stessi detenuti. La differenza principale tra i condannati ai lavori pubblici (forzati) e i condannati alla palla era che i primi non portavano catene o ferri se non per temporanea misura di polizia o disciplinare, mentre gli altri erano incatenati a una palla da 8 libbre con una catena di due metri e mezzo del peso di 6 chili. Inoltre, per renderli riconoscibili in caso di evasione, erano sottoposti ogni otto giorni alla rasatura dei capelli, basette e baffi, lasciando invece crescere la barba incolta. Tuttavia il regolamento del 1° giugno 1812 prescrisse che anch’essi, durante le ore di lavoro in fortezza, fossero liberi da catene e ferri, salvo che per sanzione disciplinare. I condannati erano riuniti in sezioni di 12 e queste in “lavoratoi” di 72 (forzati) o 48 (palla), eventualmente impiegabili per lavori esterni. Le sezioni dei forzati erano comandate da un caposezione scelto fra i condannati, con diaria di 10 centesimi; le altre da un sorvegliante. L’orario di lavoro era di 10 ore da aprile a ottobre e 8 negli altri mesi. La “paga” era inferiore di ¼ (forzati) o di ½ (palla) a quella dei “giornalieri ordinari del paese” ed era una pura finzione contabile. Infatti 1/3 era trattenuto a disposizione del ministro della guerra per “spese di servizio”, 1/3 per pagare metà del vitto spettante nei giorni di

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lavoro e 1/3 per formare una “massa individuale di riserva” su cui addebitare le spese di rimpiazzo e mantenimento degli utensili danneggiati dal condannato. Nel caso (assai improbabile) che alla fine della detenzione vi fosse un residuo attivo, questo era – in teoria – liquidato all’interessato. In pratica, però, dall’ergastolo si usciva solo in due modi: o coi piedi davanti (e gli eredi facevano meglio a lasciar perdere, se non volevano rischiare di dover addirittura pagare i debiti del de cujus) oppure per assegnazione ad un corpo di linea: e in questo secondo caso l’eventuale residuo spettava al corpo per la massa di biancheria e calzatura. Vitto e vestiario Il vitto ordinario dei condannati, sia ai lavori pubblici che alla palla, includeva 1 razione di pane di once 7½, 2 razioni di riso o legumi secchi di grossi 6, e ¾ di razione di carne (ossia once 1½). La carne e la seconda razione di legumi non erano però somministrate nei giorni di consegna per punizioni disciplinari né in quelli di lavoro (dovendo in tal caso integrare il vitto a proprie spese, con un terzo della somma guadagnata). Ogni lavoratoio disponeva (teoricamente) di una stufa comune, alimentata per appalto con l’economo in ragione di 900 libbre nuove di legna all’anno. Trovandosi accampate, le sezioni ricevevano in natura il combustibile spettante a un corpo di guardia di 4 uomini, senza lume. L’agente somministrava inoltre l’illuminazione mediante convenzione per ogni lucignolo e per ogni ora, di concerto con l’ufficiale del genio. Il vestiario dei condannati, di colore imprecisato purché scuro, era provvisto dai rispettivi corpi a tariffa di 62 lire. In base alla circolare del 1° giugno 1812 ai condannati ai lavori forzati spettavano: giubba lunga, calzoni, berretta col numero di matricola, 2 camicie di tela robusta, 2 paia di calze di lana, un paio di scarpe grosse chiodate sulla punta e cappotto. Invece della giubba e delle scarpe, i condannati alla palla avevano giubbetto lungo e Zoccoli. Al decreto era unito l’elenco delle tre ditte presso le quali i corpi dovevano acquistare il panno per la confezione del vestiario: due (Gelmi, Bosio & C. e Pietro Testa & C.) riunivano 8 fabbriche gandinesi consorziate, la terza era la fabbrica Carrara & C., bergamasca, consorziata con altre quattro (due di Matelica e due piemontesi, di Torino e Sordevolo). Arbeit macht frei. Vita e morte nell’ergastolo di Mantova

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L’intento dei lavoratoi non era la punizione fine a sé stessa, ma il recupero di personale da spedire al fronte. Li trattavano male non per “redimerli”, ma affinché l’invio ai corpi sembrasse loro, almeno sul momento, una liberazione. Furono graziati e spediti al fronte: -

1000 di rinforzo al 1° leggero e al 5° di linea in Spagna (30 settembre 1809); 500 al 2° e 4° di linea e al battaglione coloniale (20 ottobre 1811); 639 al 4° leggero nel I semestre 1812 (200 il 10 marzo e 300 il 31 maggio).

Non sembra però che la durezza del regime punitivo fosse davvero competitiva con quella del fronte o anche soltanto della caserma. Si è visto che tra i soldati in procinto di disertare per la prima volta era diffusa l’opinione che in fondo la vita ai lavoratoi di Mantova fosse preferibile a quella militare: ma in qualche caso, come nel 4° leggero di stanza a Ragusa, anche quelli che c’erano già stati preferivano tornarci piuttosto che restare in guarnigioni così sperdute e disagiate. Eppure i lavoratoi contribuivano in modo determinante ad elevare il tasso di mortalità dell’ospedale militare di Mantova: solo nel primo trimestre del 1810 (quando l’ospedale era ancora francese) vi morirono 66 condannati e un altro centinaio erano in fin di vita. La spiegazione del comandante della piazza, generale Julhien, era che la maggior parte si ammalava e moriva perché, non essendo addetti ad alcun tipo di lavoro, non potevano acquistare vitto integrativo né biancheria di ricambio. Nel gennaio 1811 i detenuti erano 700, senza stufe né vestiti pesanti e in sovraffollamento. In agosto, con le febbri delle paludi, un quarto erano all’ospedale. Il 15 settembre erano 760 (di cui 642 condannati ai lavori forzati e 118 alla palla). Le evasioni Per frenare le continue evasioni, spesso favorite per denaro dagli stessi carcerieri, con decreto del 22 settembre 1806 la negligenza fu punita con la destituzione e la reclusione da 6 mesi a 2 anni. Ma nel giugno 1807 evasero della casa di forza di Mantova, dopo aver sopraffatto le sentinelle, ben 194 detenuti (uno fu ucciso durante l’evasione, 68 si costituirono entro pochi giorni e 80 furono catturati). Nel maggio 1811 ne evasero 48 a Padova, 4 a Bergamo e 11 nell’Adige e il 5 ottobre altri 63 dal carcere di Vicenza, dopo aver sopraffatto le guardie. A seguito di tali episodi, il 31 dicembre si decretò il deferimento del personale di scorta e custodia negligente alle corti speciali straordinarie. Il 22 settembre 1813 un condannato fu fucilato per tentata evasione.

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Da Storia Militare del Regno Italico, vol. II, pp. 377-392 19. GIUSTIZIA MILITARE, CORSO E PREDE

A. La giustizia militare marittima Il “codice” penale per la Real Marina italiana Inizialmente nella Reale Marina si continuò l’applicazione delle norme penali austriache. Solo con decreto 23 aprile 1807 si stabilì un regime transitorio, istituendo nel porto di Venezia una commissione speciale militare di marina per giudicare secondo il codice penale militare vigente per la truppa di terra del Regno i detenuti per delitti commessi fino all’entrata in vigore delle nuove norme allo studio. La commissione, a composizione permanente, era presieduta da un capitano di vascello o di fregata e composta da 2 capitani di fregata o dei cannonieri marinai, 1 ufficiale addetto ai movimenti del porto e 1 commissario. Con i decreti n. 159, 160 e 161 del 9 settembre 1807 (stampati lo stesso anno a Milano dalla Stamperia Reale col titolo Codice penale per la Real Marina italiana) furono istituiti gli organi giudiziari della marina, fissandone attribuzioni, composizione e procedura. Secondo il rapporto ministeriale dell’aprile 1812 il cosiddetto “codice” penale della marina fu emanato in via d’urgenza, sulla base del codice francese del 22 agosto 1790 e del decreto 26 marzo 1804. Successive modifiche riguardarono la diserzione (d. 4 aprile 1809, 4 febbraio, 11 e 24 marzo 1812), l’evasione dei forzati (5 settembre 1809) e il furto (31 dicembre 1811). Nel 1812 fu pubblicata a Venezia la traduzione italiana (fatta dall’ufficiale relatore Jehand) del Trattato di Jean Marie Le Graverend sulla procedura criminale dinanzi ai tribunali marittimi d’ogni specie. L’ordinamento giudiziario militare marittimo L’ordinamento prevedeva un solo collegio giudicante permanente (tribunale di polizia correzionale) competente per i reati minori e vari di nomina eventuale costituiti secondo la legge (tribunale marittimo criminale, consiglio di revisione, consiglio di giustizia e consiglio di guerra a bordo delle navi, consiglio marittimo a terra, tribunale

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marittimo speciale per le ciurme, consiglio di guerra speciale per i reati di diserzione) e uno, la cui nomina era riservata al re, di composizione indeterminata (consiglio di marina). Composizione e competenze dei tribunali e dei consigli sono esposte nella tab. 28. Tab. 28 – Composizione e competenze dei tribunali e consigli della R. Marina Collegi giudicanti Consiglio di Marina (disposto e nominato dal re)

Composizione Determinata dal re (possibilmente con generali se il giudizio riguarda U generali) P: 1 USV. M: 2 USV, 2 C, 1 UI, 2 M del TC1I.

Giudizio su: Condotta dei comandanti in mare relativa alla commissione ricevuta e all’economia delle spese e dei consumi effettuati. Tribunale Marittimo Delitti commessi nel porto e Criminale (nominato dal arsenale contro la polizia e CGM) sicurezza degli stabilimenti e il servizio della marina. Consiglio di revisione P: procuratore del sulla sentenza di revisione (convocato dal CGM) TC1I. M: CGM, pronunziata dal secondo Capo Militare, Ca- Tribunale Marittimo Crimipo Amministraz. nale. Tribunale Marittimo di P: 1 USV. Trasgressioni punite con Polizia correzionale M: 1 UA, 1 C, 1 arresti o prigione sino a 3 UA, 1 UV addetto mesi, o con multa sino a al movimento del 100 lire o privazione della porto paga sino a un mese o con l’espulsione dall’arsenale o dal servizio Tribunale speciale per le P: CGM o vicario Infrazioni a leggi e regolaciurme M: 2 USV, 1 C, 1 menti connessi alla polizia UI delle ciurme. Consiglio di giustizia a P: il comandante. Delitti puniti con le pene bordo dei bastimenti M: 5 UV. della cala o delle gaschette Consiglio di guerra a P: 1 USV I membri dell’equipaggio bordo M: 8 UV per viltà davanti al nemico, (disposto e nominato dal rivolta, sedizione e ogni CGM o dal comandante in altro atto commesso con capo o di divisione o flotpericolo imminente. Gli U tiglia) deferiti solo su ordine reale. Consiglio di guerra P: 1 USV. Delitti di diserzione, istigaspeciale marittimo per i M: 6 UV. zione e favoreggiamento. delitti di diserzione C = commissario. CGM = commissario generale di marina. M = membro. P = presidente. TC1I = tribunale circondariale di prima istanza. UA = ufficiale d’artiglieria. UI = ufficiale ingegnere. USV = ufficiale superiore di vascello. UV = ufficiale di vascello.

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Permanenti e comuni ai diversi tipi di tribunali erano il relatore e il cancelliere. Il primo dirigeva la polizia giudiziaria marittima, inclusa la sorveglianza sulla casa d’arresto, con funzioni di commissario di governo (procuratore del re) nel processo. L’ufficio fu ricoperto inizialmente dal commissario “uditore” (poi “relatore”) Honoré Desplaces, sostituito nel 1811 da 2 relatori (Foscarini e Campitelli). Cancelliere era Pellegrino Pasqualigo, affiancato nel 1811 da Belisario Cinti. Sia i titolari degli uffici (con soldo annuo rispettivo di 4.000 e 1.800 franchi) che il personale esecutivo erano in organico al corpo amministrativo. La giurisdizione dei tribunali era limitata al porto e all’arsenale di Venezia. Negli altri porti le funzioni del commissario generale della marina erano supplite dal capo del servizio della marina, quelle del commissario relatore dal regio procuratore del tribunale circondariale di prima istanza e quelle del cancelliere da un commesso della marina. Provvisoriamente, però, il sistema si applicava di fatto al solo porto di Ancona, perché, fino all’istituzione di altri tribunali marittimi, la giurisdizione degli organi giudiziari di Venezia era estesa agli altri porti e stabilimenti marittimi dalla Cattolica al confine austriaco. Nei porti della costa orientale adriatica (Istria, Dalmazia e Albania), i compiti di polizia giudiziaria marittima erano attribuiti al capo servizio della marina che, assunta l’informazione, rimetteva gli atti al tribunale di polizia correzionale di Venezia ovvero al tribunale circondariale di prima istanza. In ogni caso il giudizio di revisione era rimesso al tribunale marittimo criminale di Venezia. La procedura presso i Tribunali militari marittimi L’organo di polizia giudiziaria marittima competente per territorio (il relatore per i reati commessi sulla costa occidentale adriatica, il procuratore per quelli commessi sulla costa orientale, il capo servizio della marina per quelli commessi ad Ancona) procedeva d’ufficio su denuncia o notizia. L’arresto poteva essere disposto dal capo e dal sottocapo dell’amministrazione, dal capo militare del porto e dagli ufficiali subalterni addetti, con obbligo di immediata denuncia al relatore. Assunta sommaria informazione, interrogato il reo e redatto il verbale, il relatore formalizzava il processo dandone rapporto al commissario generale della marina, il quale procedeva alla nomina e/o alla convocazione del tribunale competente. Il processo si poteva svolgere anche in contumacia, con l’assistenza di un difensore di fiducia o d’ufficio. Il dibattimento era pubblico, con l’interrogatorio dell’accusato, il giuramento e l’escussione dei testi.

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Avverso le sentenze di condanna era ammesso il ricorso del reo, entro il termine di ventiquattrore, al commissario generale di marina, il quale, se ammetteva il ricorso, nominava un nuovo tribunale con membri diversi dagli autori della sentenza impugnata. Avverso la sentenza di revisione era ammesso ulteriore ricorso al consiglio di revisione, convocato dal commissario generale ma presieduto dal procuratore del re presso il tribunale circondariale di prima istanza. Se il secondo ricorso era fondato sugli stessi motivi del primo, la questione doveva essere sottoposta al re in consiglio di stato. I delitti del comandante e il consiglio di marina Il decreto n. 160 sui consigli prevedeva e puniva come delitti le seguenti fattispecie relative all’esercizio del comando di bastimento da guerra o militarizzato o di forza navale: •

il mancato inseguimento (“sospensione della caccia”) di vascelli da guerra o flotte mercantili nemici fuggenti o battuti dalla propria unità navale, se non per causa di forza maggiore (cassazione per incapacità a servire);



il denegato soccorso richiesto da legni anche nemici in caso di naufragio e la denegata protezione richiesta da legno di commercio italiano (cassazione per incapacità a servire);



l’abbandono, in qualsiasi circostanza, del comando del proprio legno per nascondersi, o non per ultimo dopo averne dato l’ordine all’equipaggio o l’aver fatto abbassare la bandiera senza aver esaurito i mezzi di difesa (morte a titolo di viltà);



la resa a una forza inferiore al doppio della propria o se la quantità d’acqua introdotta nella stiva è ancora insufficiente a provocare l’affondamento del legno (morte a titolo di ribellione):



l’abbandono volontario del convoglio che si ha l’incarico di condurre o del quale si fa parte (3 anni di galera);



il mancato adempimento della missione o perdita del proprio bastimento per imperizia o negligenza (decadenza dal comando per 3 anni) o dolo (morte);



la disubbidienza agli ordini o segnali del comandante della flotta, squadra o divisione (privazione del comando), con le aggravanti di aver provocato la separazione del bastimento dalla formazione (cassazione per indegnità a servire) o di aver agito in presenza del nemico (morte);



la mancata esecuzione degli ordini ricevuti da cui derivi la perdita del bastimento (5 anni di prigione);

L’azione penale per i delitti dei comandanti era riservata al re, il quale poteva disporre e nominare il consiglio di marina per giudicare non solo

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la responsabilità in ordine alle fattispecie criminose previste dal decreto, ma in generale la condotta del comandante in rapporto alla commissione ricevuta, l’economia da lui osservata circa le spese e i consumi relativi e la necessità delle punizioni sommarie inflitte a membri dell’equipaggio. La determinazione della composizione del consiglio era riservata al re: tuttavia il decreto stabiliva che fosse possibilmente composta da ufficiali generali qualora il comandante deferito avesse tale rango. Fucilazioni e processi di ufficiali Il 9 marzo 1809 il consiglio di marina condannò a morte per viltà il comandante e il secondo ufficiale della goletta Ortensia, catturata dal nemico il 16 luglio 1808, tenente di vascello Pietro Stalimeni, livornese, e alfiere di vascello ausiliario Simone Abeille. La sentenza fu eseguita l’indomani a bordo dell’ammiraglia del porto di Venezia. Un altro consiglio di marina fu nominato il 22 maggio 1813 per giudicare gli alfieri di vascello Rossi e Occhiusso, comandanti della cannoniera Batava e della mosca Intelligente, per la perdita dei due legni e di un convoglio di barche da trasporto avvenuta nelle acque di Goro il 17 settembre 1812. Il processo fu però subito rinviato per competenza al consiglio di guerra e sospeso per quattro mesi. Tra i casi relativi ad ufficiali, citiamo il complotto capeggiato dall’aspirante Scondella, fallito il 16 maggio 1809 per l’opposizione di due cannonieri e denunciato da due marinai; la pena irrisoria (10 giorni d’arresto) comminata il 26 marzo 1807 ad un alfiere di vascello corfiota (Gregorio Dabovich, probabilmente fratello del giovanissimo tenente di fregata Spiridione, membro del tribunale di marina) per aver impegnato a proprio profitto un collier sottratto ad una ragazza (fatto qualificabile come furto, truffa o appropriazione indebita, mica una marachella); l’assoluzione, con reintegrazione in servizio, dell’aspirante Conto dall’accusa di ratto della moglie del signor Montebelli di Venezia; il trasferimento di un aspirante, per cattiva condotta, al 6° di linea (nel 1810). Le mancanze disciplinari e il consiglio di giustizia di bordo La responsabilità penale e disciplinare a bordo dei bastimenti si applicava non solo allo stato maggiore e agli equipaggi dei legni da guerra ma anche di quelli naufragati, alle truppe di guarnigione o trasportate e ad ogni altro individuo imbarcato su legno da guerra.

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La polizia disciplinare e giudiziaria a bordo dei bastimenti spettava al comandante. Il decreto n. 160 sui consigli di marina, di giustizia e di guerra prevedeva come trasgressioni disciplinari l’ubriachezza senza disordini, le risse senza feriti né armi, la contravvenzione alle regole di polizia e al divieto di portare lumi accesi a bordo, l’assenza all’appello o al turno di servizio (“quarto”) e le mancanze contro la disciplina e il servizio del vascello per negligenza o infingardaggine. Le pene disciplinari erano differenziate a seconda del grado. Agli ufficiali erano comminati gli arresti, la prigione, la sospensione dalle funzioni per un mese, con o senza privazione del soldo, mentre all’equipaggio erano inflitti la diminuzione del vino, i ferri sul ponte e la prigione fino a 3 giorni. Per le mancanze più gravi erano inflitte pene “afflittive”: colpi di corda sull’argano di prua, prigione o ferri sul ponte per altri 3 giorni, riduzione di grado e soldo, cala (da una a tre immersioni in acqua), gaschette (da uno a tre giri di fustigazione tra due file di 15 uomini), galera e morte per fucilazione. La cala e le gaschette importavano la cassazione dal grado di ufficiale marinaio e la riduzione alla bassa paga, la galera l’esclusione perpetua dall’impiego a bordo. Se la trasgressione era commessa di notte la pena era raddoppiata. Le pene disciplinari minori potevano essere inflitte dall’ufficiale comandante il quarto o la guardia nei confronti dell’equipaggio e dello stato maggiore e dal comandante della guarnigione imbarcata nei confronti dei fanti. Le pene degli arresti e dei ferri erano riservate al comandante, la cala e le gaschette al consiglio di giustizia di bordo presieduto dal comandante e composto da 5 ufficiali. Il capitano poteva diminuire di un solo grado la gravità della pena inflitta dall’ufficiale di guardia o dal consiglio. I giudizi del consiglio erano annotati in un registro particolare di bordo. Le funzioni di relatore erano svolte da un tenente di vascello e quelle di cancelliere dallo scrivano di bordo. I delitti e il consiglio di guerra di bordo Il decreto prevedeva come delitti, fissandone la pena: •

il tradimento o la perfida intelligenza col nemico (morte: con esecuzione sommaria senza giudizio se ne deriva “disgrazia pubblica”);



l’aver abbassato la bandiera in combattimento senza ordine (morte);



la diffusione del panico con grida di arrendersi o abbassare la bandiera (3 anni di galera e morte se il panico è effettivamente provocato);



i discorsi sediziosi (6 giorni di ferri sul ponte)

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il complotto contro la libertà o la sicurezza di un ufficiale di stato maggiore (3 anni di galera) o l’autorità del comandante del bastimento o superiore (galera a vita);



la rivolta e il reclamo collettivo avente per oggetto di cambiare la direzione delle forze navali, evitare lo scontro col nemico o sconcertare i piani confidati al comandante (autori, istigatori e latori del reclamo messi ai ferri e consegnati al consiglio di guerra a terra; i promotori passibili di morte, gli istigatori puniti con 10 anni di ferri);



la mancata ottemperanza all’intimazione (fatta individualmente dall’ufficiale) di sciogliere un attruppamento (obbligo dell’ufficiale di dichiarare ribelli i non ottemperanti da lui individualmente intimati, con facoltà di usare la forza per disperdere l’attruppamento e far porre ai ferri i capi, passibili di morte);



l’insubordinazione con ingiurie o minacce o violenza al superiore (cala; se il reo è primo maestro, 5 anni di prigione; se consegue la morte del superiore, il reo è messo ai ferri e giudicato a terra);



il rifiuto di obbedienza dell’ufficiale al capitano punito con 2 anni di prigione o con la morte se ne consegue la perdita del bastimento, o la disfatta o il mancato conseguimento della preda o della vittoria;



la ritardata o mancata esecuzione di ordini (4 giorni di ferri ovvero cassazione dal grado e riduzione per 3 anni alla paga di mozzo): se aggravata da “motivi di dispetto”, punita con 8 giorni di ferri e riduzione alla paga inferiore;



l’omesso intervento dell’ufficiale per sospetto o notizia di sommovimenti (degradazione e 3 anni di prigione);



la mancanza sul ponte al primo suono della campana di bordo o al quarto di guardia (3 giorni di ferri, 6 se si manca al turno di notte);



l’abbandono di posto di giorno (legatura per un’ora all’albero maestro e riduzione alla paga inferiore) o di notte (legatura per due ore e riduzione alla seconda paga inferiore) o in presenza del nemico (morte);



l’assenza arbitraria in rada o in porto (8 giorni di prigione a bordo): se si passa la notte a terra, arresto fino a un mese;



il mancato rientro a bordo entro 4 ore dalla chiamata in porto e città (3 o 8 giorni di ferri, a seconda del ritardo, se il rientro avviene entro ventiquattrore, oltre il termine dichiarato disertore: un mese di arresto se il reo è ufficiale);



l’abbandono del quarto da parte dell’ufficiale di guardia per andare a dormire (riduzione al grado inferiore, con responsabilità per gli eventuali accidenti);



l’imbarco di generi di commercio clandestino (multa pari al doppio del valore delle merci a favore della cassa invalidi); se il reo è ufficiale marinaio o di stato maggiore perde inoltre due anni di servizio sul mare e il diritto all’avanzamento, se è il comandante, perde per 2 anni l’abilitazione al comando e, in caso di recidiva, è cassato dal servizio;



il trasporto clandestino di materie combustibili come polvere, zolfo, acquavite (12 colpi di corda e, in caso di recidiva, la cala): se il reo è ufficiale, è espulso dal servizio;

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l’accensione di fuochi proibiti notturni in tempo di guerra o senza precauzione o omesso o negligente controllo dei fuochi notturni durante il turno di guardia (cala; se il reo è ufficiale, cassazione; se ne deriva disgrazia, 3 anni di galera);



le percosse con armi o bastone (12 colpi di corda) e ferimento con pericolo di vita (cala); se il reo è ufficiale, è sospeso dal servizio e messo in prigione in attesa del risarcimento da liquidarsi in sede civile;



la perdita del bastimento anche commerciale che si è incaricati di pilotare per imperizia o negligenza (3 anni di galera) o dolo (morte);



l’inosservanza degli ordini ricevuti con l’effetto di provocare il fallimento della spedizione, missione o comandata di cui si è incaricati (sospensione dalle funzioni e dall’avanzamento a tempo indeterminato);



il furto semplice a bordo o a terra in territorio nazionale o a bordo di bastimento predato prima della divisione (12 colpi di corda). Sono comminate le pene della cala se il furto è commesso con effrazione o in territorio estero; delle gaschette se il valore supera le 12 lire o in caso di prima recidiva; di 6 anni di galera alla seconda recidiva;



il furto, lo sbarco e la ricettazione di polvere, o di viveri, munizioni e attrezzi pubblici di bordo di valore superiore a 50 razioni o 50 lire, puniti con 3 anni di galera; durata tripla anche per il semplice tentativo di furto di denaro dalla cassa del bastimento o altra cassa pubblica e di polvere dalla santabarbara;



la rapina di vestiario a danno di prigioniero (24 colpi di corda);



il danneggiamento commesso a terra, punito con 12 colpi di corda o con pene afflittive maggiori se il valore era superiore alle 12 lire, salvo il risarcimento del danno da liquidarsi in sede civile.

Nei casi di viltà di fronte al nemico, rivolta, sedizione e ogni altro atto commesso con pericolo imminente, il comandante poteva - sul presupposto della necessità, facendone verbale e rispondendone dinanzi al consiglio di marina – arrestare, punire e far punire in modo sommario i membri dell’equipaggio e gli individui della guarnigione. La cognizione dei delitti commessi dai membri dell’equipaggio o della guarnigione spettava in via generale al tribunale marittimo criminale. Tuttavia il commissario generale di marina, il comandante in capo o della divisione o flottiglia potevano deferirla al consiglio di guerra di bordo, presieduto da un capitano di vascello e composto da 8 ufficiali, di cui uno relatore, con lo scrivano di bordo in funzione di cancelliere verbalizzante. L’arresto degli ufficiali era riservato al commissario generale di marina, al comandante delle forze navali del Regno e al comandante superiore di porto. L’ufficiale poteva essere deferito al consiglio di guerra solo su ordine del re, che poteva nominare direttamente i

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componenti del consiglio o delegarne la nomina al commissario generale oppure al comandante in capo delle forze navali. I consigli di guerra speciali per i delitti di diserzione I consigli di guerra speciali marittimi per i delitti di diserzione, inclusi istigazione e favoreggiamento, erano regolati da decreto particolare (n. 161 dell’8 settembre 1807). Le sentenze non erano soggette ad appello né a revisione. Le fattispecie più semplici erano punite con tre anni di catena e con la fustigazione (giri di “gaschette”). La pena di morte - da eseguirsi eventualmente a bordo del legno di imbarco o della nave ammiraglia - era prevista per i capi di complotto o sedizione, per gli istigatori e i complici di diserzione collettiva di oltre 10 marinai e per le fattispecie qualificate (diserzione con passaggio al nemico, o in presenza del nemico essendo comandato specialmente pel servizio o con asporto di armi o munizioni da bordo o dall’arsenale). I consigli, presieduti da un ufficiale superiore e composti da sette ufficiali inferiori (sei giudici e un relatore) e da un agente contabile (segretario), furono nominati dal commissariato generale nei porti di Venezia, Ancona, Zara e Ragusa, nonché presso ogni divisione navale includente almeno una fregata o un brick. Con decreto 4 aprile 1809 furono estesi alle truppe di marina i decreti sui consigli di guerra speciali istituiti per la diserzione dei militari dell’esercito (decreti del 2 settembre 1803, 8 marzo 1804, 14 marzo e 30 settembre 1805 e 1° maggio 1806). Naturalmente anche i disertori della marina furono inclusi nelle varie amnistie disposte per l’esercito: il 25 febbraio 1810 il termine di presentazione dei marinai fu prorogato al 1° aprile. La carenza di personale era tale che in luglio il ministero decise di sorvolare, una tantum, sul dubbio provvedimento del prefetto dell’Adriatico che aveva liberato dal bagno penale di Venezia, per restituirli alla marina, alcuni disertori già condannati. Ma la diserzione dei marinai cominciò proprio allora a farsi più frequente, incentivata dalla prassi inglese di formare gli equipaggi con i disertori nemici. Una diserzione in massa di 19 marinai (14 della Favorita, 3 del Leoben e 2 altri) è registrata al 15 luglio 1810. Il 28 settembre fu stabilita la pena di morte per i disertori trovati a bordo di navi nemiche e con decreto 11 marzo 1812 furono attribuiti ai consigli di guerra speciali della marina i procedimenti nei confronti di tutti i sudditi catturati con le armi alla mano a bordo di navi nemiche. Il 24 marzo 1812 fu esteso ai consigli di guerra speciali della marina il decreto imperiale 14 ottobre 1811 sull’abolizione dei processi

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contumaciali. Il decreto 4 febbraio 1812 fissò a 10 anni di ferri la pena per la recidiva e al doppio della pena residua quella per l’evasione. Con decreto 16 agosto furono inasprite le pene per renitenza e diserzione (detenzione a palla in luogo della catena e morte in caso di recidiva), con l’obbligo dei comandanti di dare lettura del decreto ogni domenica. Relativamente alla marina, abbiamo accertato solo sei fucilazioni per diserzione, tutte eseguite in Venezia il 27 gennaio 1811 (due marinai veneti, uno dei quali disertore dal Friedland, catturati sul corsaro inglese Merluzzo) e il 12 e 19 dicembre 1813 (due battellanti correi di diserzione e altri due una settimana dopo). Oltre alle diserzioni individuali, nelle ultime settimane del blocco e dell’epidemia di Venezia si verificarono (il 15 febbraio, il 2, 6, 16 e 22 marzo, l’8 e l’11 aprile 1814) sette casi di diserzioni collettive al nemico, sei dei quali compiuti mediante imbarcazioni in servizio di ronda (2 caicchi, 1 piroga e 3 lance), per un complesso di 3 aspiranti e 129 marinai. La casa d’arresto della Marina Il regolamento ministeriale per la casa d’arresto della marina nel porto di Venezia fu emanato il 29 ottobre 1808. La casa doveva avere appositi locali per il ricevimento degli arrestati, l’infermeria e la custodia, muniti di porte con spioncino, letti di tavole attaccati al muro con possibilità di legarvi l’arrestato, anelli a muro e grosse pietre per attaccarvi le catene. La sicurezza interna ed esterna era attribuita ad una guardia militare fornita dall’autorità militare del porto, con 2 sentinelle diurne e notturne. Il personale interno della casa d’arresto - mantenuto dalla cassa della marina, sottoposto all’autorità del commissario relatore e alla polizia correzionale del commissario generale della marina e suscettibile di licenziamento - includeva: •

il custode, incaricato del ricevimento, della polizia e della tenuta del registro di entrata e uscita degli arrestati e del libro dei detenuti in deposito;



un numero di assistenti, in uniforme e con armi di difesa personale, sufficiente ad assicurare una presenza costante di due guardie (incluso il custode) con turni di sei ore (in pratica almeno 7 assistenti);



il personale di fatica occorrente.

Il ricevimento avveniva su ordine scritto e motivato dell’autorità legale. Se il presentante dell’arrestato non apparteneva alla marina, il custode doveva fargli firmare il registro di consegna e prenderne gli

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opportuni schiarimenti e i connotati onde poterlo rintracciare, procedendo al suo arresto se ricusava di dichiararsi. Il custode doveva poi far tradurre l’arrestato dal commissario relatore, dandogli previa informazione. Era riservata al commissario l’autorizzazione a comunicare con l’esterno (“dare notizia di sé ad alcuno”) e a ricevere notizie o visite. Era vietato infliggere “misure aggravanti” la detenzione (es. il letto di contenzione) e usare la violenza se non per urgenza (es. violenze notturne) o pericolo: qualora l’arrestato tenesse un comportamento “caparbio e disubbidiente” poteva essere punito con più giorni di digiuno a pane e acqua o di ferri più o meno pesanti. In caso di recidiva con colpi di corda sino ad un massimo di 50 e previa visita medica. Gli arrestati dovevano essere separati per sesso. Le passeggiate diurne in corridoio erano fatte in drappelli separati. Si doveva impedire ai correi di uno stesso reato di condividere la stessa cella e lo stesso turno di passeggiata. Il custode doveva conservare personalmente le chiavi, assistere alla ferratura o incatenatura degli arrestati verificando che ferri e catene fossero quelli regolamentari, ispezionare ogni giorno le celle, accompagnato da un assistente, esaminando muri, porte, finestre e tavoli per rilevare segni o indizi preparatori di fuga. Era vietato accettare il minimo regalo o entrare in colloquio sulle materie aventi rapporto col delitto imputato. Era vietato l’uso di lumi a fiamma libera (soltanto lanterne). Il denaro e il vestiario non indispensabile dovevano essere ritirati all’atto del ricevimento, tenuti in deposito e custodia e restituiti alla scarcerazione. L’arrestato poteva conservare i propri vestiti o provvedersi a proprie spese di vestiario e di letto, previo controllo da parte del custode. L’amministrazione del porto forniva a proprie spese agli indigenti letto (pagliacci e grossa schiavina), cappotto, sottoveste, calzoni, camicie, calze, scarpe e berretta. Era consentito ricevere soccorsi dall’esterno e procurarsi qualche guadagno col lavoro, ma un terzo del reddito prodotto dentro la casa era confiscato per le spese di mantenimento e il resto tenuto in deposito presso il commissario, essendo vietato all’arrestato il minimo maneggio di denaro. Il vitto della casa includeva soltanto la razione di pane, acqua e minestra calda: all’arrestato era concesso procurarsi vitto di suo gradimento a proprie spese, non però di assumere cibo preparato all’esterno, il che significava in pratica obbligarlo ad acquistare o far cucinare le integrazioni di vitto presso il bettolino della casa, gestito dal custode. Erano in ogni caso vietati il consumo di tabacco e la detenzione di lumi.

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B. Corso e prede Le norme sull’armamento in corso e sulle prede marittime Come si è detto (§. 15C), il 23 maggio 1803 fu esteso all’Italia il decreto del primo console sulla guerra di corsa contro la bandiera inglese. L’8 gennaio 1805, a seguito delle contestazioni relative alle prede fatte dal corsaro Felice (capitano Minoglio), il consiglio di stato decretò l’istituzione, sanzionata il 1° dicembre dal viceré, di una “commissione delle prede marittime”, presieduta da Birago e composta da Testi e Maestri, per giudicare senza appello sulla validità delle prede. Sospesa nel 1810, con decreto 1° luglio 1811 fu sostituita da un “consiglio”. L’Ordinanza austriaca del 1° ottobre 1805, scritta da L’Espine, assegnava il prodotto delle prede marittime interamente alla marina, un quinto alla cassa invalidi e il resto agli autori della cattura, fatta riserva all’arsenale dei cannoni, armi e munizioni da guerra. Due terzi della quota spettante agli autori della cattura (53.3%) spettava all’equipaggio e un terzo (26.67%) agli ufficiali. La ripartizione fra gli individui delle due categorie veniva fatta secondo un punteggio stabilito per ciascun grado e incarico: si divideva il totale da ripartire per il totale dei punti e si calcolavano poi le spettanze individuali moltiplicando il risultato per i punti (detti “parti”) di ciascuno degli aventi diritto (ai capitani di vascello e di fregata spettavano 12 e 9 parti, ai tenenti 6 e 4, ai cadetti 2, agli aspiranti 1 e mezza, allo scrivano e al chirurgo 1; altre 12 parti aggiuntive spettavano però per l’incarico di comandante e 2 per quello di ufficiale al dettaglio. Venti parti toccavano al comandante sottufficiale: 6 ai primi maestri, 5 agli operai, 4 ai secondi maestri, fanti, artiglieri e al sottochirurgo, 3 ai sottoguardiani e caporali, 2 al primo cannoniere, 1 ai marinai e mezza ai mozzi. Il Regolamento della Marina approvato con decreto 26 febbraio 1806 riservava al ministro il rilascio delle patenti d’armamento, tanto in corso che in guerra e mercanzia, previa cauzione (“sicurtà”) dell’armatore commisurata alla stazza del bastimento, a condizione che due terzi dell’equipaggio fossero composti da nazionali, con l’obbligo di inalberare la bandiera nazionale prima di tirare a palla sul legno cacciato, di osservare le norme a tutela dei prigionieri, di condurre la preda in un porto nazionale e di farne rapporto al capitano del porto, incaricato di controllare le carte, il carico e l’equipaggio.

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Erano dichiarati di buona preda non solo i legni battenti bandiera nemica ma anche quelli comandati da pirati o fuoriusciti e quelli non in grado di dimostrare la loro neutralità. I legni predati erano soggetti a vendita immediata, con facoltà di riscatto dei neutrali e di ricorso al tribunale delle prede e con vari divieti volti a impedire al corsaro di trattenere per sé l’intero profitto. Le modalità di liquidazione e ripartizione, con eventuale ricorso alla commissione delle prede del porto di Venezia, prevedevano il concorso dello stato maggiore e dell’equipaggio sull’intera quota spettante agli autori della cattura, con un massimo di 12 “parti” al capitano, 10 al secondo di bordo, 8 ai primi tenenti e via seguendo sino all’unica parte del marinaio e alla mezza del mozzo, con maggiorazioni ai feriti e mutilati e con la rappresentanza dei caduti attribuita alle vedove e agli orfani. Con decreto 4 dicembre 1806 fu confermata la disposizione austriaca che riservava alla cassa invalidi della marina la vigesima sui proventi delle prede marittime e dei riscatti giudicati validi. Il decreto n. 160 sui consigli di bordo dell’8 settembre 1807 vietava la cessione e la vendita anticipata della quota spettante sulle future prede, dichiarate nulle e senza effetti: all’acquirente era comminata inoltre una multa di lire 1.000. Con decreto del 2 dicembre 1808 furono apportate varie modifiche e integrazioni alle procedure per l’amministrazione e liquidazione delle prede e alle competenze spettanti ai predatori e alla cassa invalidi. La ripartizione era complicata qualora la cattura fosse avvenuta col concorso di più unità oppure sottocosta. La ripartizione dei proventi di due prese tra la Comacchiese e il Napoleone fu infine risolta per decreto (del 27 luglio 1810). Le Istruzioni e disposizioni del 1° ottobre 1810 riconobbero infine all’erario un terzo dei profitti delle prede effettuate dai legni corsari, e a questi ultimi metà o un quinto qualora avessero concorso alla cattura insieme a batterie costiere e/o a dogane dello stato (la metà spettava se il concorso del corsaro era stato determinante per impedire la fuga del legno predato, un quinto nel caso in cui il capo di dogana non avesse provveduto, entro tre ore dal preavviso dato dal corsaro, alla cattura di un legno ancorato da almeno sei ore. A tal fine era stabilito ai direttori di dogana, comandanti di porto militare e consoli l’obbligo di rapporto sulle circostanze della cattura. Pur non essendo retroattiva, la disposizione si applicava alle liquidazioni pendenti). La faccenda poteva infatti andare per le lunghe: in attesa della liquidazione dell’ingente preda fatta a Lissa nel settembre 1810, una nota ministeriale del 27 febbraio 1811 suggeriva di dare ai marinai, che ci facevano conto, almeno un piccolo anticipo sulle loro spettanze.

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Le prede fatte dai bastimenti dello stato potevano anche finire davanti al consiglio di marina. Il 14 agosto 1808 al primo capitano dei cannonieri marinai Calamand furono comminati il rimprovero e l’esclusione perpetua dal comando di legni reali per una preda illegittima fatta nel 1807 (un legno russo nel Quarnero); il 2 dicembre 1809 fu deferito al consiglio il primo capitano Francesco Corner, comandante del Lepanto, per aver venduto una preda a Lesina, anziché in un porto nazionale (fu però prosciolto il 21 febbraio 1810 per aver agito in stato di necessità). I corsari italiani Come si è detto, il primo corsaro italiano, lo sciabecco Generoso Melzi di capitan Puricelli, salpò da Rimini per il Levante il 24 febbraio 1804. Tuttavia la base francese più importante per la guerra di corsa in Adriatico era Ancona: tre corsari corsi avevano partecipato alla difesa della piazza nel 1799 e nel novembre 1805 vi si era stabilita una squadriglia mista di tre corsari, lo sciabecco genovese Masséna del celebre capitan Bavastro e due trabaccoli, il corso Pino di capitan Bartolomeo Paoli e il francese Verdier di capitan Prébois. Il 5 dicembre, nelle acque di Lissa, la squadriglia attaccò un convoglio di 2 brigantini e 3 polacche dalmati armati con 28 pezzi da otto, sei e quattro, catturando all’arrembaggio, uno dopo l’altro, il brigantino Superbo e le polacche. Il giorno dopo il corsaro Tigre (capitan Buscia) catturò un altro legno austriaco armato da 12 fanti. Altre 3 prede fatte durante quella campagna da un altro corsaro (Il Corso, capitan Muscilai) furono giudicate legittime il 14 febbraio 1806. Nell’agosto 1806 il corsaro Sans Peur di capitan Giacomo Carli, armato dal riminese Antonio Passano, venne affondato dal nemico dopo aver portato a termine il rifornimento delle Isole Tremiti. Salvatosi con tutto l’equipaggio e ripreso il mare col nuovo corsaro Italiano, il 20 dicembre Carli mise in fuga un corsaro russo, recuperando uno dei 2 legni predati dal nemico. L’Italiano si segnalò ancora nel gennaio 1807, assieme al corsaro Lepre. Il 10 agosto una fregata inglese attaccò presso Trieste il corsaro di capitan Palazzi, che finì arenato a Grignano. Il 4 dicembre l’imperatore ordinò al viceré di armare in corso un legno da guerra e di lanciare una sottoscrizione per armare 2 o 3 corsari a Venezia. Non sembra però che vi siano stati tentativi di fare concorrenza ad Ancona, dove si era stabilito l’armatore Passano. Proprio nel dicembre 1807 i suoi 4 corsari (Carlotta, Fortunata, Traiano e Italiana) catturarono ben 13 prede.

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Nel 1808 operarono in Adriatico il corsaro Vittoria (Oberti) di Civitavecchia, il genovese Diogene (Buonsignore), il sanremese Coraggioso (Pesenti), il napoletano Ardente (Bastelica) e gli anconetani Adria e Vendicatore. Quest’ultimo, comandato dal tenente di fregata Contrucci, venne affondato il 21 maggio, sotto Monte Conero, da una fregata inglese. Nelle cronache navali del 1809 compaiono in Adriatico ancora tre corsari italiani (Sans Peur, Fortunato e l’anconetano Caffarelli di capitan Cassinelli), nel 1810 soltanto uno (Feroce). Risultano invece sempre più numerosi e audaci i corsari siciliani e inglesi: il 14 aprile 1809 fu decapitato a Venezia, in piazza San Francesco a Ripa, Sante Rodin, detto "Francesetto della Giudecca", per aver fatto guerra di corsa contro la sua patria. Nell'’incursione compiuta dalla divisione Dubordieu nel Porto San Giorgio di Lissa il 22 ottobre 1810 furono catturati 3 corsari e altri 9 (con 64 cannoni) incendiati (furono anche liberati 14 legni e 25 prigionieri e affondati o incendiati 33 mercantili nemici). Il 28 ottobre 1810 Passano fu nominato tenente di vascello onorario della Reale Marina. Nel 1813 gli inglesi catturarono 4 mercantili anconetani (S. Antonio, S. Giosafat, SS. Vergine, Invidia), 1 di Magnavacca e 12 barche di Grottammare. L’8 dicembre un corsaro armato da Passano, comandato dal francese Gaspard, colse l’ultima vittoria catturando un trabaccolo inglese nelle acque di Lussino. Bavastro aveva intanto continuato la guerra di corsa nelle acque spagnole, cambiando almeno tre volte il suo corsaro (prima il Giuseppina, poi il Principe Eugenio armato da Balestrieri, infine il Nettuno). Sotto Barcellona, a fine maggio del 1807, fece una preda da 1.5 milioni di franchi (il mercantile inglese da 300 tonnellate Catherine); il 10 giugno, nelle acque di Orano, catturò dopo duro combattimento (3 morti e 6 feriti contro 4 e 9) una corvetta inglese, con a bordo tre ufficiali del 35th Foot, portandola a Tarragona. Il 17 giugno 1808 il Nettuno fiancheggiò la marcia della Divisione italiana Lechi da Barcellona al forte di Montgat, mettendo in fuga le cannoniere del leggendario Lord Thomas Cochrane. Nel dicembre 1812 Bavastro portò a Tarragona anche la Vicissitude. Nel giugno 1813 erano ancorati a Tarragona 3 piccoli corsari italiani (Gauthier, Liberati e Caracciolo) con 60 uomini di equipaggio, che si unirono alla sparuta guarnigione, bloccata per alcuni giorni dalla flotta e dalle truppe inglesi.

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Da Storia Militare del Regno Murattiano, tomo I, pp. 481-538 10. LA GIUSTIZIA MILITARE NAPOLETANA

A. Il codice penale militare (decreto 8 maggio 1807) L’adattamento del codice francese del 1793 Il codice penale francese per le truppe in campagna del 12 maggio 1793 fu recepito nel regno di Napoli ex–art. 1 del decreto 31 ottobre 1806, che estendeva l’intera legislazione militare francese alle truppe nazionali di terra e di mare. L’8 maggio 1807 il re decretò la traduzione in italiano e la pubblicazione del codice, con adattamenti. In particolare furono omessi 8 articoli (13-20) del titolo VII e 7 (18-23 e 26) del titolo VIII, che fu inoltre modificato e integrato. Fu pubblicata in italiano come “supplemento” al codice penale militare napoletano pure la legge 19 vendemmiale XII (12 ottobre 1803). Il codice è incluso nel tomo I, “parte giudiziaria”, del Manuale militare delle Due Sicilie compilato dal capitano Felice Lombardi e pubblicato a Napoli nel 1812 presso Antonio Garruccio, alle pp. 1-23, mentre a fine tomo si trovano due “addizioni” con la traduzione italiana degli articoli mancanti del titolo VII e del testo originario dell’VIII. Il codice originario era in 95 articoli e 8 titoli: I diserzione al nemico (7); II diserzione all’interno (8); III tradimento (9); IV reclutamento e spionaggio a favore del nemico (3); V saccheggio, devastazione e incendio (10); VI scorrerie e furti di campagna (12); VII furto ed infedeltà nell’amministrazione e manutenzione di beni dello stato (20); VIII insubordinazione (26). Le novelle riguardavano gli artt. 13-20 del titolo VII e gli interi titoli VIII (insubordinazione) e I/II (diserzione). Per le norme sulla diserzione rinviamo al paragrafo C di questo capitolo. Tradimento, reclutamento e spionaggio a favore del nemico Nel tradimento rientravano: a) atti tesi a provocare il panico in presenza del nemico; b) omissioni e false consegne in grado di compromettere la difesa di un posto, in presenza del nemico; c) la rivelazione della parola d’ordine o dei piani di difesa; d) la corrispondenza con l’armata nemica; e) il sabotaggio di artiglierie o

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affusti; f) il distacco del traino [col “taglio delle tirelle” per fuggire dal campo di battaglia]; g) (per il comandante di una piazza) la resa senza parere o con parere contrario del consiglio di guerra, prima dell’apertura della breccia o di aver sostenuto un assalto; h) (per l’ordinatore) l’omessa distribuzione di viveri e foraggi e l’omessa informazione al comandante sulle carenze logistiche. In tali casi, come pure per il reclutamento e lo spionaggio (inclusa la levata di piante militari) a favore del nemico, era prevista la pena di morte. Saccheggio, devastazione, incendio, scorrerie e furti di campagna Era comminata la pena di morte per la devastazione a mano armata o in truppa e per l’incendio, commessi senza ordine scritto del generale o altro comandante in capo, nonché per il saccheggio a mano armata o in truppa, l’attentato alla vita di abitanti disarmati, l’omicidio o mutilazione a scopo di spoglio e lo stupro seguito dalla morte della persona offesa. Lo stupro era punito con 8 anni di ferri, aumentati a 12 se commesso con altri o su vergine di età inferiore ai 14 anni. Per lo spoglio di cadaveri la pena era di 5 anni di ferri e di 10 per lo spoglio di feriti commessi da militari: il doppio se erano commessi da vivandieri o altri non militari. Le spoglie oggetto del reato erano vendute e il prodotto rimesso al reggimento, tenuto a versarlo alle rispettive famiglie qualora lo richiedessero. Gli effetti dei condannati per spoglio o ricettazione erano confiscati e venduti a beneficio degli ospedali e ambulanze dell’armata: il vivandiere condannato era inoltre scacciato da tutte le armate. La “scorreria” [detta “busca” nel gergo dell’Armée d’Espagne], ossia il furto di bestiame, commestibili e foraggi in case o proprietà recintate, era punito con l’esposizione del reo, costretto a percorrere il quartiere o il campo di fronte alla truppa schierata in armi, con l’oggetto rubato e un cartello con la scritta “scorridore”, aumentando l’esposizione di un’ora se c’era stata scalata di muro o effrazione di porta. La pena era di 5 anni di ferri se il reo era recidivo, se aveva persistito nonostante l’ordine dell’ufficiale, oppure era un vivandiere o altro individuo al seguito dell’armata, e di 8 anni se il furto era stato commesso a mano armata. Il sottufficiale e l’impiegato erano inoltre destituiti dal grado. Se il reo era un ufficiale, la pena era di 2 anni di prigione, elevata a 10 anni di ferri se il fatto era stato commesso con altri subalterni e alla morte se vi aveva condotto la truppa al suo comando; sempre con la degradazione e la decadenza dalle ricompense e dal diritto a pensione. L’ufficiale che non si opponeva o non denunziava subito i rei al superiore, era punito con 3 mesi di prigione e la destituzione.

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“Furto e infedeltà” nell’amministrazione e nelle forniture (tit. VII) I primi 12 articoli del titolo VII del codice francese riportati in quello napoletano riguardavano solo il peculato e le frodi negli stati di rivista e nelle forniture della sussistenza. In particolare comminavano 3 anni di ferri per la falsa attestazione di stati di forza al fine di ottenere fondi e forniture indebiti, e 5 anni al commissario di guerra connivente, come pure ai magazzinieri, dispensieri e trasportatori per la distrazione e la vendita di generi ed effetti in loro custodia, e ai munizionieri e fornai per la vendita o l’alterazione di farina. La pena era di 3 anni di ferri per la fornitura di carne di spaccio vietato, 20 per la macellazione di animale infetto, 2 per l’infedeltà di peso o misura di farina, pane, carne, legumi e foraggi forniti all’armata attiva o nelle piazze in stato d’assedio: in tal caso era comminata anche un’ammenda pari al quadruplo delle razioni da fornire nella distribuzione sanzionata, salva, in tutti gli altri casi, la riparazione del danno. Il munizioniere che per sua negligenza lasciava deteriorare farina, legumi e foraggi ne rispondeva col rimpiazzo e 6 mesi di prigione: 3 mesi erano comminati al munizioniere della farina anche nel caso in cui l’avaria non fosse dipesa da sua colpa. Gli art. 13-20, omessi nel codice napoletano, punivano con 10 anni di ferri il furto nell’alloggio fornito dall’abitante, con 6 il furto a danno di camerati (effetti e denaro per il vitto ordinario) e – paradossalmente – solo con 3 il furto di forniture di casermaggio, effetti di accampamento o d’artiglieria, polvere, palle o munizioni. Erano inoltre comminati 5 anni per la vendita di armi, abbigliamento, equipaggio e cavallo (se forniti dal governo e non provvisti a proprie spese). Le consumazioni a scrocco di bevande e alimenti erano punite con 3 mesi di prigione, elevati a 6 se il fatto era stato accompagnato da minacce e a 2 anni in caso di violenza. L’attentato alla sicurezza o alla libertà dei cittadini era punito con 6 mesi di prigione, con 2 anni se il fatto era accompagnato da furto o vie di fatto e con la morte in caso di assassinio. Insubordinazione (titolo VIII) Il titolo VIII del codice francese puniva con la morte il comandante di posto che mutava la consegna; la sentinella addormentata agli avamposti o che violava la consegna producendo effetti funesti; i capi di rivolte e complotti e tutti coloro che, prendendovi parte, non obbedivano all’ordine del superiore di sciogliere l’attruppamento; l’abbandono di posto in guerra; la mancata esecuzione di ordini di fronte al nemico; la violenza verso il superiore. Erano comminati 10 anni di ferri a chi

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partecipava ad una rivolta senza esserne capo; 6 a chi si arrendeva o buttava le armi; 5 a chi, in una piazza presa d’assalto, abbandonava i ranghi per darsi al saccheggio; alla sentinella addormentata non in prima linea; agli arruolati sotto falso nome; a chi falsificava il foglio di congedo. La pena era 3 anni di prigione per le percosse a un subordinato (salvo che per impedirne la fuga di fronte al nemico); 2 per le minacce a un superiore, o l’insulto alla sentinella (raddoppiata o triplicata se il fatto era commesso da un sottufficiale o da un ufficiale). La versione napoletana, più articolata, comminava la morte anche per il rifiuto di obbedienza agli ordini in presenza del nemico e per la rivolta, la “disobbedienza combinata” e la semplice istigazione degli abitanti di un paese nemico occupato. Inoltre equiparava alla “rivolta” (punita con la morte per i capi e gli ufficiali che non si fossero opposti) l’abbandono collettivo di un posto e l’opposizione con qualunque mezzo all’arresto, giudizio o esecuzione del reo di un delitto militare; e alla “disobbedienza combinata” (punita con 10 anni di ferri) ogni violazione collettiva di consegna generale. Se non si trovavano i capi complotto, gli ufficiali, o, in mancanza, i sottufficiali o i sei soldati più anziani erano puniti con 10 anni di ferri, mentre per le violazioni individuali della consegna ne erano comminati 6. In caso di fuga di un detenuto dovuta a negligenza della scorta o custodia, i superiori e i 4 soldati più anziani erano puniti con la stessa pena comminata per il reato del detenuto. In compenso il codice napoletano dimezzava a 3 anni di ferri la pena per la resa individuale in combattimento e sostituiva la pena di morte comminata dal draconiano codice del 1793 alla sentinella addormentata agli avamposti e al comandante di posto per il cambio arbitrario della consegna, con 2 anni di ferri nella prima fattispecie e 6 mesi di prigione nella seconda. Riduceva inoltre a 1 anno di prigione, con degradazione, la pena per percosse all’inferiore (allargando l’esimente alla legittima difesa e all’intervento per impedire spoglio o saccheggio). L’assenza all’adunata, punita dal codice francese con 3 mesi di prigione per tutti i gradi e la radiazione in caso di recidiva, era punita da quello napoletano con la prigione da 1 a 3 mesi a seconda del grado e con 2 anni di ferri in caso di recidiva. La condanna ai ferri comportava la degradazione. Non erano infine riprodotti nel codice napoletano l’art. 26 del francese che autorizzava il generale in capo ad emanare bandi penali militari, né gli artt. 18-23 relativi all’“imboscamento” (arruolamento sotto falso nome del disertore da un altro corpo dell’armata) e alla responsabilità dei commissari di guerra per omessa denuncia, abbandono di posto e prevaricazione nell’esercizio delle sue funzioni amministrative (punita con la morte se comprometteva la sicurezza dell’armata o i successi delle sue operazioni di guerra).

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L’alto tradimento e il codice dei delitti comuni commessi da militari L’alto tradimento, il reclutamento e lo spionaggio a favore del nemico erano previsti, e puniti con la morte, dagli artt. 77-91 del codice penale ordinario, emanato con legge N. 43 del 20 maggio 1808: ne trattiamo nel capitolo 30 [v. tomo III]. Le norme penali contenute in provvedimenti particolari, specie in materia di diserzione e renitenza, nonché il mantenimento del foro militare per i delitti comuni commessi da militari, mettevano i collegi giudicanti, oltre tutto privi in genere di cognizioni giuridiche di base, in gravi difficoltà. In un rapporto al re del gennaio 1812, il ministro della guerra Tugny annunciava la prossima presentazione di un «code pénal complet, tant pour l’armée de terre que pour l’armée de mer. Ce code (était) réclamé par tous les chefs de corps, par tous les militaires amis de l’ordre et de la discipline, surtout par les conseils de guerre et les tribunaux militaires, trop souvent embarrassés dans le dédale des lois, qu’ils sont obligés de consulter et qui en peu d’accord entre elles, faites pour d’autre temps et d’autres lieux, sont aussi difficiles à bien interpreter qu’à bien appliquer». Ciò che il ministro artigliere chiamava codice era in realtà un testo unico; probabilmente si riferiva al Manuale del capitano Lombardi, pubblicato appunto nel 1812, senza però alcun crisma di ufficialità. Alla fine il ministro si accontentò di un decreto (N. 1256 del 27 febbraio 1812, da San Leucio) che, “volendo supplire alla mancanza del codice per le nostre truppe, relativamente ai delitti comuni, che commettonsi da’ militari”, dichiarò applicabile ai militari il codice penale ordinario. Nel riprodurlo nel Manuale, Lombardi vi appose la nota che il decreto non faceva «che confermare l’art. 22 del titolo VIII del codice penale militare», il quale recitava: “ogni delitto militare non preveduto dal presente codice, sarà punito conforme alle leggi precedentemente emanate”.

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B. La procedura penale militare I – Il procedimento nei delitti militari (legge N. 140 del 3 giugno 1807) La legge Cianciulli del 3 giugno 1807 Secondo il rapporto al re del 12 settembre 1806, dopo la conquista del regno era stata provvisoriamente mantenuto l’ordinamento giudiziario militare preesistente [i tribunali militari provinciali, il supremo consiglio di guerra, composto di generali e magistrati, e perfino l’udienza di guerra e casa reale, con nomina di un fiscale ancora nel marzo 1806], e lo stesso codice penale militare borbonico, limitandosi a sopprimere la pena delle “bacchette”, non in uso nell’esercito francese [v. Le Due Sicilie nelle guerre napoleoniche, I, pp. 348-50]. Solo in seguito, su progetto del ministro della giustizia Cianciulli, la procedura penale militare fu riformata sul modello francese, con legge N. 140 del 3 giugno 1807 [Manuale, cit., I, pp. 93-118], in 89 articoli e 10 titoli: I tribunali militari e loro competenza (1-5); II formazione dei consigli di guerra (611); III (12), IV (13-14), V (15-17), VI (18-24), VII (25) composizioni particolari dei consigli per il giudizio di ufficiali superiori e generali; VIII procedura (26-58); X consigli di revisione (59-79); X consigli di guerra e di revisione nelle piazze assediate (80-84); XI soldo dei membri e spese dei tribunali militari (85-89). La competenza dei tribunali militari I tribunali militari comprendevano i consigli di guerra e i consigli di revisione (dei processi di primo grado), permanenti presso le divisioni militari dell’interno e temporanei presso quelle dell’armata attiva e nelle piazze assediate. Erano sotto la loro giurisdizione esclusivamente i reati, comuni o militari, commessi da soli militari in servizio effettivo e i reati militari commessi dai civili equiparati: in caso di concorso di “pagani” in reati commessi da militari o equiparati la cognizione spettava infatti alla giustizia penale ordinaria. Come si vede, la legge limitava, senza però abolirlo del tutto, l’antico privilegio del “foro militare”, ossia il diritto dei militari di essere giudicati da tribunali militari anche per reati comuni commessi contro civili. In compenso, le categorie di civili soggetti alla giurisdizione militare erano assai estese: oltre agli “individui attaccati all’armata o al di lei seguito”, includevano infatti i reclutatori e gli “spioni” per conto del

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nemico nonché in genere gli “abitanti dei paesi nemici occupati dalle armate” [e quelli delle piazze e province dell’interno dichiarate in stato di guerra]. Erano “individui attaccati all’armata” tutti gli addetti ai servizi amministrativi (stati maggiori e intendenza), sanitari e logistici (sussistenza, trasporti, casermaggio, maestranze reggimentali), alla leva e coscrizione e all’esazione delle contribuzioni comunali, inclusi gli incaricati municipali e gli agenti e impiegati dei fornitori. Come diremo meglio nel capitolo 30 (tomo III), i cittadini del regno erano inoltre soggetti alla giurisdizione speciale istituita con legge N. 131 dell’8 agosto 1806 (tribunali straordinari misti) e alle commissioni militari istituite con decreti N. 116 e 125 del 14 e 31 luglio 1806 per Napoli e le Calabrie in stato di guerra, e ancora nel 1809 (decreto N. 447 del 1° luglio). Abolite il 10 giugno 1810, le commissioni militari furono ripristinate in Calabria, Basilicata e Abruzzo per la repressione del brigantaggio e della carboneria, oltre che per casi particolari (evasione dai lavori pubblici, contravvenzioni al cordone sanitario). Composizione dei consigli di guerra e di revisione I consigli di guerra [divisionali o marittimi] erano composti di 7 giudici (colonnello, tenente colonnello, 2 capitani, tenente, sottotenente o gradi equivalenti della marina), quelli di revisione di 5 (generale, colonnello, tenente colonnello, 2 capitani di almeno 36 anni di età e 6 di servizio) e presieduti dal giudice di grado più elevato. Ai consigli di guerra erano addetti 2 capitani, uno relatore senza voto e uno con funzioni di procuratore regio, più un cancelliere scelto dal relatore. Nei consigli di revisione le funzioni di relatore erano attribuite ad uno dei giudici scelto dal presidente, che nominava inoltre il cancelliere: le funzioni di procuratore erano svolte dall’intendente o sottointendente addetto alla divisione. Giudici, relatore e procuratore regio dovevano essere “assolutamente” ufficiali in attività e non essere parenti o affini tra loro, né dell’accusato: in tal caso dovevano essere rimpiazzati. Quelli dei consigli permanenti erano destinati dal comandante la divisione; quelli dei consigli temporanei (istituiti presso le divisioni attive e nelle piazze assediate), dal comandante in capo dell’armata o della piazza. Il generale destinante poteva rimpiazzarli in ogni momento, ma non dopo l’inizio di un’istruttoria. La ricusazione dell’incarico, salvo che per comprovati motivi di salute, era punita con tre mesi di arresti, comminati dallo stesso consiglio.

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In caso di giudizio di ufficiali superiori o generali i due o i tre giudici di grado inferiore del consiglio di guerra erano surrogati da parigrado o superiori dell’accusato, e la presidenza assunta dal più elevato in grado più anziano, il quale designava come relatore un tenente colonnello: fungeva da procuratore l’intendente o sottointendente. I surrogati del grado di generale erano destinati dal comandante in capo dell’armata fra i più anziani, esclusi quelli della divisione o brigata dell’accusato. Il consiglio di guerra per giudicare il comandante in capo era nominato dal ministro fra i generali più anziani, quattro di divisione (di cui uno con esperienza di generale in capo presidente) e tre di brigata. Norme particolari erano previste per i consigli di guerra e di revisione nelle piazze assediate (v. tabella). Per le funzioni di giudice non spettava alcuna indennità, salvo il cavallo e il foraggio per eventuali spostamenti agli ufficiali che già non ne godessero in virtù del loro grado. Al relatore erano assegnati 4 ducati al mese per spese di cancelleria e segreteria, e al cancelliere 3 ducati per ciascun processo verbalizzato, incluse le copie e minute degli atti. Composizione dei consigli di guerra e di revisione (Legge 140 del 3 giugno 1807) Grado del reo

Presidente Giudici * Relatore Procuratore A. Consigli di guerra divisionali permanenti da soldato Colonnello 1 TC, 2 capitani, 1 tenente, capitano * capitano * a maggiore 1 sottotenente, 1 sottufficiale Ten. Col., Col., Colonnello . 2 parigrado del reo ten. col. ** sottoint. * Aiut. Com. 1 TC, 2 capitani, 1 tenente Sottointendente Colonnello 2 SIM di 1a classe, 1 SIM di capitano * capitano * 2a classe, 1 TC, 2 capitani Intendente Colonnello 1 Intendente, 2 SIM di 1a capitano * capitano * classe, 1 TC, 2 capitani, Gen. di Brig. o Div. (il Generale 3 generali parigrado °, ten. col. ** Intendente ° + anziano) 1 colonnello, 1 TC, 2 capitani Generale in capo Generale ^ 3 generali di div. e 3 di brig. ^ AC o col.** Intendente ^ B. Consigli di revisione divisionali permanenti Tutti i gradi Generale * 1 colonnello, 1 TC, 2 capitani cancelliere Intendente o (di cui uno relatore) * # ** SIM 1a cl. * C. Consigli di guerra e di revisione nelle piazze assediate Nominati dal comandante in capo tra gli U e SU della piazza. In caso di rinvio da parte del consiglio di revisione, i membri del consiglio che ha emesso la prima sentenza non possono far parete del secondo consiglio. Le copie legali degli atti indirizzate prima possibile dal presidente al ministro della guerra. Note * Nominati e rimpiazzati dal generale comandante la Divisione. ** Destinato dal presidente della commissione. ° destinati dal generale comandante l’Armata tra i più anziani, eccetto quelli della Div. o Brigata del reo. ^ destinati dal ministro della guerra in ordine di anzianità di grado: il presidente è il generale più elevato in grado più anziano. # per i giudici del consiglio di revisione sono richiesti almeno 36 anni di età e 6 di effettivo servizio nelle armate di terra o di mare. AC, Aiut. Com. = aiutante comandante. Brig. = Brigata. Cap. = capitano. Col. = colonnello. Cte = comandante. Div. = Divisione- Int. = intendente militare. SIM = sottointendente militare. Stn = sottotenente.. TC = tenente colonnello. Ten. = tenente.

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L’istruttoria (informazione) (artt. 26-37) Il comandante superiore del luogo del delitto faceva mettere l’accusato in stato di arresto e ordinava al relatore di procedere all’istruttoria. Ricevute le eventuali querele formali delle parti lese e le deposizioni dei testimoni e verificate le prove materiali, il relatore interrogava l’accusato sulle sue generalità e sulle circostanze del reato presentandogli le prove. In caso di pluralità degli accusati, gli interrogatori dovevano essere condotti separatamente, ma verbalizzati nello stesso incarto. Il relatore dava poi lettura del verbale invitando l’accusato a firmarlo: in caso di incapacità o rifiuto, ne dava conto nel verbale, che firmava insieme al cancelliere. Invitava infine l’accusato a scegliersi un difensore fra tutte le classi di cittadini presenti sul luogo: se l’accusato dichiarava di non poterlo fare, la designazione era fatta dal relatore, il quale comunicava al difensore gli atti coi documenti favorevoli e contrari all’accusato. Non erano però concessi termini a difesa: “in nessun caso il difensore poteva ritardare la convocazione del consiglio di guerra”. Il dibattimento (artt. 40-45) Una volta riunito, il consiglio non poteva sciogliersi prima di aver emesso la sentenza. Il dibattimento era pubblico, ma era vietato portare armi, canne o bastoni, con facoltà del presidente di comminare ai disturbatori fino a 15 giorni di arresti. La legge richiedeva, a pena di nullità del processo, che il presidente facesse deporre sul tavolo una copia della legge di procedura, facendolo constare dal verbale. Fatta dare lettura degli atti istruttori dal relatore, il presidente faceva introdurre l’accusato, libero senza ferri né scorta e con accanto il suo difensore, e lo interrogava, invitandolo a rispondere anche alle domande poste dai giudici: le risposte potevano essere date anche dal difensore. La parte querelante, se presente, era ammessa al contraddittorio. Infine, richiesto all’accusato e al difensore se avevano qualcosa da aggiungere, il presidente faceva ritirare le parti, il relatore, il cancelliere e il pubblico, restando in camera di consiglio solo il procuratore. La formazione del giudizio (artt. 46-54) A porte chiuse, il presidente formulava il quesito di colpevolezza dell’accusato per lo specifico delitto e raccoglieva i voti cominciando dal giudice di grado inferiore e terminando col suo. Per la condanna occorrevano 5 voti su 7: su istanza del procuratore, il presidente leggeva

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allora la pena prevista dal codice e raccoglieva i voti sull’applicazione: se non si raggiungeva la maggioranza di 5, si adottava il parere più favorevole all’accusato. Fatte riaprire le porte, il presidente leggeva ad alta voce la sentenza e i relativi articoli del codice e applicava la pena pronunziata dal consiglio: il verbale, redatto dal cancelliere, doveva contenere la motivazione (“giudizio ragionato”) ed essere firmato dai giudici e dal relatore e procuratore. In caso di assoluzione, la sentenza disponeva il rilascio dell’accusato e la reintegrazione nelle sue funzioni. La procedura di revisione (artt. 66-79) La sentenza poteva essere impugnata entro 24 ore dal condannato, dal querelante e dal procuratore, ma solo per i vizi di nullità previsti dall’art. 73: a) composizione del consiglio difforme dalla legge; b) incompetenza eccepita dall’accusato riguardo alla qualità propria o a quella del delitto; c) incompetenza propria dichiarata dal consiglio; d) inosservanza delle forme prescritte: e) applicazione di una pena difforme dalla legge. Il consiglio di revisione non poteva entrare nel merito. I giudici del consiglio di guerra che aveva emesso la sentenza non potevano far parte del consiglio investito della revisione. Gli atti del consiglio di guerra dovevano essere trasmessi a quello di revisione entro 24 ore dal ricorso. Il giudizio di revisione aveva luogo immediatamente. I difensori delle parti, se si presentavano, erano ammessi a fare le loro osservazioni dopo la lettura della relazione e poi sulla requisitoria del procuratore. Il consiglio deliberava a porte chiuse a maggioranza di 3 voti, motivando la decisione. In caso di conferma della sentenza, rinviava gli atti al consiglio di guerra per l’esecuzione della sentenza. Se annullava per incompetenza, inviava gli atti al tribunale competente, negli altri casi al consiglio di guerra più vicino. Se anche la seconda sentenza era impugnata per lo stesso gravame, la questione era rimessa al re, che decideva in consiglio di stato. Il consiglio di stato ritenne poi ammissibile un secondo ricorso al consiglio di revisione (e un terzo giudizio di merito) se i vizi della seconda sentenza impugnata erano diversi da quelli della prima (v. estratto del 30 aprile 1814). L’esecuzione della condanna a morte e le spese di giudizio Il relatore leggeva la sentenza all’accusato in presenza della scorta e chiedeva all’ufficiale, in nome del consiglio, di predisporre l’esecuzione. La sentenza di morte era eseguita entro 24 ore mediante fucilazione, con le modalità stabilite da un decreto francese del 12 maggio 1793. Il reo era condotto sul luogo da un picchetto di 50 uomini, di fronte alla truppa

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schierata senz’armi, possibilmente del corpo di appartenenza, dal quale era tratto anche il plotone d’esecuzione, formato da 4 sergenti, 4 caporali e i 4 soldati più anziani, e schierato su due righe: il fuoco era comandato da un aiutante, in presenza di uno dei giudici che avevano emesso la condanna. Entro tre giorni dall’esecuzione il relatore trasmetteva copia della sentenza al reggimento del condannato per la cancellazione dai ruoli, controruoli e stati di soldo, masse, forniture e deconto. Le minute erano trascritte su un registro segnato e contrassegnato: le copie dei processi erano inviate mensilmente al ministro, il quale, entro 15 giorni dalla ricezione, comunicava le sentenze ai sindaci del comune di domicilio del condannato per la comunicazione alle famiglie. La legge N. 306 del 27 maggio 1809 stabilì che le spese di giudizio (indennità di viaggio per i testimoni di 3 grana per miglio, di 6 carlini a sessione per gli interpreti e di 24 carlini a processo per il cancelliere) fossero anticipate dal corpo di appartenenza del reo. II – La procedura per i delitti di diserzione La procedura per diserzione (Supplemento al codice penale mil., tit. I) Il titolo I (artt. 1-23) del Supplemento al codice penale militare stabiliva una procedura abbreviata per i delitti di diserzione. Sotto pena di 15 giorni d’arresto o altra maggiore a seconda delle circostanze, il comandante d’armi, o di corpo o distaccamento era tenuto a denunziare entro 24 ore i casi di diserzione: la denunzia (“ricorso”) doveva indicare le generalità del disertore e il suo domicilio all’epoca dell’arruolamento, ed essere trascritta in copia sul registro delle deliberazioni del consiglio d’amministrazione del corpo. L’inoltro al relatore del consiglio di guerra era però subordinato all’autorizzazione del comandante d’armi o del generale di brigata, che poteva dichiarare il non luogo a procedere. Ricevuto il ricorso, il relatore compiva l’istruttoria entro 3 giorni, anche in contumacia del reo, raccogliendo le prove, interrogando il reo se in stato di arresto, citando i testimoni e trascrivendo le deposizioni su uno stesso quaderno, una di seguito all’altra, firmate dal cancelliere in caso di incapacità o rifiuto del teste. In caso di diserzione multipla, si doveva compilare un quaderno separato per ciascun imputato. Se il consiglio riteneva incompleta l’istruttoria, poteva ordinare un supplemento entro 48 ore. Se derubricava il fatto, assolveva il reo dal delitto di diserzione e lo rinviava all’autorità competente per le sanzioni

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disciplinari. Letti gli atti istruttori e sentiti l’accusato, se presente, poi i testimoni, e infine le conclusioni del relatore e la replica dell’accusato, il presidente formulava due quesiti (se la diserzione sussisteva e se era avvenuta all’interno), in pubblica udienza e in presenza dell’accusato. Il consiglio proseguiva poi a porte chiuse, presente il relatore: il presidente raccoglieva i voti, per iscritto e firmati, cominciando dal grado inferiore. La sentenza, adottata a maggioranza di 4, non era soggetta ad appello o revisione: l’art. 22 si limitava a sancire il divieto, non sanzionabile, di commutare o prevaricare la pena comminata dalla legge. I consigli di guerra speciali per la diserzione (decreto 27 maggio 1809) Recependo il sistema giudiziario francese stabilito con la legge del 19 vendemmiale XII (12 ottobre 1803), con decreto N. 377 del 27 maggio 1809 la cognizione dei delitti di diserzione dei sottufficiali e soldati e delle reclute refrattarie disertate dal deposito di Gaeta fu devoluta a consigli di guerra speciali composti da un ufficiale superiore, 4 capitani e 2 tenenti. Le funzioni di relatore e commissario del governo erano attribuite ad un ufficiale di SM o di gendarmeria del grado almeno di tenente, quelle di cancelliere ad un sottufficiale. I consigli, nominati dal comandante della piazza, si riunivano in casa del comandante e si scioglievano dopo ciascun giudizio. I giudici erano designati a turno, la sera prima della riunione, fra gli ufficiali della guarnigione, i quali non potevano rifiutarsi se non per malattia o altro legittimo impedimento. Il consiglio giudicava i soli delitti di diserzione, con le stesse procedure prescritte per i consigli di guerra permanenti, e poteva irrogare le multe stabilite dagli artt. 2 e 11 del decreto 13 febbraio 1809 (N. 282) e dall’art. 2 del decreto 19 marzo 1809 (N. 320). Con decreto N. 740 del 22 settembre 1810 dal campo reale di Piale, si stabilì che in caso di difformità della multa irrogata dalla misura prevista dalla legge 27 maggio 1809, la cifra fosse rettificata dal tribunale competente per l’esecuzione, senza bisogno di rifare la sentenza. Ex-art. 14 del decreto N. 793 del 16 novembre 1810, il giudizio dei favoreggiatori, ingaggiatori o istigatori alla diserzione era attribuito ai consigli di guerra o ai tribunali ordinari a seconda della qualità militare o civile del reo. Abolizione dei giudizi in contumacia (D. N. 1774 del 21 maggio 1813) Con un provvedimento di clemenza collegato all’amnistia del 18 marzo 1813 e alla recrudescenza della diserzione per il timore di essere inviati in Germania, l’art. 1 del decreto N. 1774 del 21 maggio 1813 abolì il giudizio in contumacia e l’art. 3 sospese l’esazione delle multe

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non ancora pagate quando fossero state comminate in contumacia. L’art. 5 consentì inoltre al consiglio, se lo riteneva a maggioranza dei voti, di raccomandare il condannato a morte alla clemenza del re. In tal caso il consiglio, tramite il comandante della provincia, doveva trasmettere immediatamente al direttore generale delle riviste e della coscrizione una copia della sentenza con l’annotazione dei motivi della sospensione della sentenza: l’eventuale commutazione della pena nei ferri o nei lavori pubblici a vita era decisa dal re su rapporto del ministro. Commissioni militari per la diserzione dalle truppe attive (luglio 1813) Il decreto N. 1846 del 18 luglio dichiarò tuttavia disertore al nemico chi disertava dalle 5 divisioni poste sul piede di guerra e deferì il giudizio degli arrestati a commissioni militari nominate dai comandanti di divisione, con immediata esecuzione della sentenza. Con decreto N. 1851 del 22 luglio a tali commissioni fu attribuito anche il giudizio sui fautori e complici, ancorché civili. Peraltro il decreto N. 1921 del 25 settembre confermò la giurisdizione dei consigli di guerra speciali per i disertori dall’armata attiva che si presentavano spontaneamente: in tal caso, anche se il decreto non lo diceva esplicitamente, il giudizio dei loro fautori e complici civili doveva essere rimesso alle corti criminali ordinarie. Infine, con decreto N. 1971 del 18 novembre, la giurisdizione sui disertori dall’armata attiva fu interamente restituita ai consigli di guerra speciali: erano però mantenute le commissioni militari divisionali per giudicare i fautori e complici dei pertinaci. Queste ultime furono abolite definitivamente il 14 febbraio 1814. I consigli di guerra marittimi speciali (D. N. 1903 del 28 agosto 1813) Con decreto N. 1903 del 28 agosto 1813, considerato che la mobilitazione delle forze navali rendeva difficile la composizione dei consigli permanenti e di revisione della marina, il giudizio sugli uomini di mare in servizio nella reale marina fu provvisoriamente devoluto ai consigli di guerra dell’armata di terra, tranne la diserzione, che, sempre provvisoriamente, fu attribuita a consigli di guerra marittimi speciali. Analoghi a quelli delle piazze terrestri, erano composti da un capitano di vascello o di fregata presidente, 4 tenenti di vascello (di cui uno relatore e commissario di governo), 2 alfieri e un agente contabile con funzioni di segretario cancelliere. I membri erano nominati in Napoli e nel Golfo dal direttore generale della marina, e in mare dall’ufficiale generale o superiore comandante la squadra o la divisione. Questi ultimi, in conformità dell’art. 7 della legge 5 germile XII (26 marzo 1804), si

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tenevano a bordo del bastimento dal quale il reo aveva disertato. Se i bastimenti erano nel porto, si tenevano a bordo della nave ammiraglia o nel locale designato dal direttore generale. III – Norme complementari La grazia sovrana (legge 13 luglio 1807 e decreto 22 maggio 1809) La legge N. 187 del 13 luglio 1807 prescrisse che le grazie di condono e commutazione di pena fossero accordate dal re in consiglio privato, composto dal ministro della giustizia, da altri due ministri, 2 consiglieri di stato e 2 membri della corte i cassazione designati di volta in volta, su rapporto del ministro della giustizia, e con l’assistenza del segretario di stato incaricato della verbalizzazione. Il decreto N. 372 del 22 maggio 1809 prescrisse che le domande di grazia dovevano essere indirizzate al re e contenere la fedele esposizione del delitto e delle sue circostanze, con l’indicazione della pena e della corte che aveva emesso la sentenza. Potevano essere presentate anche da parenti o amici del reo nonché in pendenza di un ricorso in cassazione. In caso di concessione, il ministro della giustizia indirizzava la lettera di grazia al procuratore del re presso la corte che aveva emesso la sentenza, la quale si riuniva in udienza pubblica entro tre giorni dalla ricezione. Il presidente dava lettura della lettera in presenza del graziato, che doveva ascoltarla in piedi e a capo scoperto, e gli rivolgeva poi le ammonizioni ritenute opportune. Su richiesta del procuratore, la corte ordinava la trascrizione della lettera nei suoi registri e la sua annotazione a margine della minuta di condanna. Se il graziato non era sotto custodia, la corte doveva notificargli la concessione della grazia mediante affissione nel comune di domicilio, con l’intimazione a presentarsi entro tre mesi pena la decadenza dal beneficio. La grazia non pregiudicava in ogni caso i diritti delle parti lese. Il regolamento sulle prigioni militari (D. N. 160 del 12 agosto 1808) Il regolamento per il servizio amministrativo delle prigioni militari, emanato con decreto N. 160 del 12 agosto 1808, poneva a carico del dipartimento della guerra esclusivamente la detenzione e la traduzione dei detenuti in attesa di giudizio presso i consigli di guerra o le commissioni militari (inclusi quindi i civili presi con le armi alla mano e comunque soggetti a giurisdizione militare), mentre le spese di custodia relative ai militari condannati erano a carico del ministero dell’interno. Il

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regolamento si applicava comunque sia per la detenzione nelle carceri istituite presso i consigli di guerra permanenti, sia per quella nelle carceri comunali (in cui i detenuti sostavano durante la traduzione). Le spese per la giornata di detenzione includevano una razione di pane nero da munizione, 4 grana per il vitto, 0.89 kg di paglia e 7 calli pagati al carceriere per diritti di giacitura e custodia (comprensivi della fornitura di tini e boccali). Al detenuto spettavano 62 kg di paglia cambiati ogni 10 giorni (8 se la paglia era stata usata da altro detenuto). Il carceriere era sotto la polizia del sottointendente militare incaricato e un gendarme verificava ogni giorno il rispetto delle spettanze di vitto e paglia per riferire al superiore gli eventuali abusi. Le spese, imputate alla massa di accasermamento, erano liquidate sugli stati mensili del carceriere e trimestrali del munizioniere del pane, previa verifica e rettifica dal sottintendente e dall’intendente. Con decreto N. 1781 del 27 maggio 1813 le funzioni di custode delle prigioni furono riservate a militari in ritiro, col godimento del soldo stabilito dal decreto 4 novembre 1809. In attesa di essere sostituiti da costoro, i custodi in servizio continuavano nel loro ufficio, ma con soldo ridotto, di lire 26 mensili per i custodi di carceri provinciali e 17 per quelli delle distrettuali. Norme sulla testimonianza di militari assenti Il decreto N. 1143 del 28 novembre 1811 prescriveva ai relatori dei consigli di guerra, di concerto coi presidenti, di limitare al minimo indispensabile il ricorso alla testimonianza di militari, dato che per ragioni di servizio risultavano spesso assenti. Se era ritenuta necessaria la testimonianza e non anche il contraddittorio, consentiva inoltre di escuterli per rogatoria, inviando al delegato (relatore di altro consiglio di guerra, comandante del corpo, distaccamento o della provincia) l’elenco dei quesiti, eventualmente con un “foglio di lumi” per “regolare l’esaminatore a soggiungere altre domande” a seconda delle risposte. Il decreto N. 2216 del 4 agosto 1814 prescrisse che i militari chiamati a deporre in processi penali, non potessero essere chiamati fuori della provincia in cui prestavano servizio, se non nei casi in cui la legge richiedeva il contraddittorio o il confronto o la corte giudicava essenziale e necessaria la deposizione orale dei militari. Negli altri casi l’escussione del militare era delegata ad un magistrato della provincia in cui prestava servizio.

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IV – Corti speciali e conflitti di giurisdizione La giurisdizione penale per la guardia reale e la gendarmeria In linea di principio la guardia reale e la gendarmeria erano soggette alla giurisdizione militare comune, ma non mancarono deroghe e norme speciali. Con decreto N. 873 del 27 gennaio 1810 fu stabilita una commissione militare speciale e temporanea di 7 ufficiali, inclusi uno superiore presidente e un relatore con voce deliberativa, nominati dal capitano delle guardie, per giudicare i soldati della guardia reale accusati di furto nelle abitazioni dei loro ufficiali, applicando ai rei e ai complici, in conformità al decreto 31 ottobre 1809, le disposizioni della legge francese 29 nevoso VI (18 gennaio 1798). Con decreto N. 664 del 10 giugno 1810 l’abuso di forza commesso da gendarmi o altri militari contro persone in arresto o in custodia imputate di delitto non militare fu attribuito alle corti criminali ordinarie, ferma restando la competenza dei consigli di guerra se l’offeso era imputato di delitto militare, con obbligo di denuncia del fatto da parte del superiore e di arresto dell’accusato da parte di ogni autorità militare o civile. Con parere del 22 marzo 1811 il consiglio di stato approvò peraltro la proposta del ministro della guerra di adottare la norma francese che in tali casi subordinava l’azione penale contro l’accusato di abuso di forza all’autorizzazione a procedere, rilasciata dal ministro della giustizia su rapporto circostanziato del comandante generale della gendarmeria, e in ogni caso dopo il giudizio definitivo dell’arrestato. L’art. 1 del decreto N. 1072 del 12 settembre 1811 attribuì alle corti criminali ordinarie i reati commessi da appartenenti al corpo di gendarmeria relativi ai servizi di polizia giudiziaria e amministrativa, ferma restando la competenza del foro militare se vi fosse concorso di reati militari (art. 2). Le corti speciali miste (decreto N. 993 del 3 luglio 1810) Con decreto N. 652 del 27 maggio 1810 Murat ristabilì il regime costituzionale in tutta l’estensione del regno, abolì le commissioni militari trasferendo le loro competenze alle corti speciali miste create col decreto del 1° luglio 1806 e restituì l’alta polizia alle autorità civili. A seguito di ciò, con o. d. g. del 28 maggio, il capo di SMG Grenier avvisò i comandanti delle divisioni attive e territoriali che dal 1° giugno le loro funzioni erano strettamente limitate agli aspetti militari e che le autorità militari – con l’eccezione della polizia militare della piazza di Napoli e della gendarmeria – non potevano più dare ordini alle autorità civili né far arrestare alcun suddito del re.

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Con decreto N. 693 del 3 luglio 1810 da Scilla, le corti speciali furono riorganizzate con 5 giudici criminali scelti dal ministro della giustizia e 3 militari del grado almeno di capitano nominati dal re su proposta del ministro della guerra, ma soggetti per le loro funzioni alla vigilanza del ministro della giustizia. La presenza dei 3 militari era sempre necessaria, mentre il collegio poteva giudicare anche in assenza di 1 o 2 magistrati civili. Questi ultimi erano suppliti a turno di legge, mentre i militari erano scelti fra gli ufficiali di SM, della guarnigione, della gendarmeria e anche della legione provinciale. Tutti i supplenti, magistrati e ufficiali, erano chiamati dal presidente di concerto col procuratore generale. La cassazione doveva decidere in 8 giorni i reclami sulla competenza delle corti speciali. Le corti procedevano con rito sommario, applicando per le cause di brigantaggio le pene stabilite dal decreto 1° agosto 1809. Erano abolite le istruzioni preliminari e i termini e giudizi preventivi per eccezione di atti nulli e dei testimoni, da proporsi all’inizio del dibattimento, dove gli ufficiali di polizia giudiziaria competenti istruivano direttamente gli atti risultanti dalle indagini. Pubblico ministero e difesa avevano solo 24 ore per la notifica reciproca dei testi e documenti: era nelle attribuzioni della corte limitare i mezzi di prova della difesa, rigettando quelli ritenuti irrilevanti e poteva dispensarsi dall’escussione dei testi se riteneva i fatti sufficientemente provati. Competenza del giudizio sui delitti dei militari (legge 4 agosto 1812) La legge N. 1456 del 4 agosto 1812 disciplinò le competenze dei vari tribunali per i delitti militari e i conflitti di giurisdizione, rinviando in via generale alla legge del 3 giugno 1807 e attribuendo al foro militare anche i delitti commessi da “pagani” nel recinto chiuso delle piazze in stato d’assedio, i delitti commessi da militari in materia di coscrizione (favoreggiamento di disertori e ingaggio a favore de nemico, puniti dal decreto N. 793 del 16 novembre 1810) e gli omicidi, ferite e ingiurie tra militari. Non godevano di alcun privilegio di foro i militari in congedo o in riforma, gli ufficiali in disponibilità e i militari isolati anche in commissione fuori dai limiti della guarnigione. [Con parere del 14 maggio 1813 il consiglio di stato assimilò ai militari isolati quelli che abbandonavano le bandiere del distaccamento in missione: v. estratto N. 1873 del 24 luglio 1813]. Il foro militare non valeva neppure per le contravvenzioni ai regolamenti sulla caccia (di competenza dei tribunali correzionali) e per i delitti di competenza delle corti speciali, ancorché commessi da militari sotto le bandiere e presenti ai loro corpi.

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La competenza era determinata in riferimento alla qualità di pagano o di militare che l’accusato aveva al momento del delitto, senza tener conto di successive variazioni. In caso di concorrenza tra delitti militari e non, l’accusato era sottoposto anzitutto al processo militare e deferito al tribunale civile se restava luogo a pena maggiore. I delitti comuni commessi da più militari erano sempre deferiti al tribunale ordinario nel caso in cui uno almeno di essi fosse privo del privilegio del foro. In caso di calunnia o falsa testimonianza in un giudizio militare, il denunciante, la parte civile o il testimonio pagano era deferito al tribunale ordinario, dopo però la decisione definitiva del processo militare. L’autorità militare doveva dare avviso al giudice di pace del circondario ed entro 24 ore anche al procuratore generale della provincia dell’arresto di pagani per delitti ritenuti di propria competenza. Tranne il caso di flagranza del reato, l’arresto di un militare su mandato dell’autorità giudiziaria ordinaria doveva essere richiesto al comandante del corpo di appartenenza, che era tenuto ad eseguirlo entro 24 ore. I tribunali militari e ordinari potevano rivendicare reciprocamente la propria competenza tramite i rispettivi procuratori e, con dichiarazione all’altra autorità, sollevare formalmente il conflitto di giurisdizione: le autorità giudiziarie inferiori ai consigli di guerra e alle corti criminali potevano però farlo solo per il tramite dell’autorità superiore e del suo procuratore. Gli atti erano rimessi alla cassazione per il tramite del ministro della giustizia. In qualunque momento del giudizio, il tribunale dichiarato competente dalla cassazione poteva, per fatti sopravvenuti, dichiarare motivatamente la propria incompetenza e trasmettere gli atti all’altra autorità. La turbativa dell’altrui giurisdizione con mezzi diversi dal conflitto, era punita con la destituzione del magistrato civile o militare, salve le pene per eccessi di maggiore gravità. I conflitti di attribuzione e la giurisdizione sui legionari ordinari Il decreto della reggente N. 1931 del 2 ottobre 1813 prescrisse che le decisioni della corte di cassazione sui conflitti di giurisdizione e i ricorsi contro le sentenze criminali, correzionali e di polizia fossero prese solo sulla copia autentica della prova generica, sulle delibere motivate delle autorità ricorrenti e sulle eventuali osservazioni dei pubblici ministeri, senza esame degli atti istruttori, salvo il diritto della suprema corte di domandare gli schiarimenti necessari. In merito al conflitto di giurisdizione tra la corte criminale dell’Aquila e il consiglio di guerra permanente della 3a Divisione militare, relativo all’omicidio commesso da un legionario contro un detenuto affidato alla sua custodia che aveva tentato la fuga, la cassazione riconobbe la

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competenza del giudice ordinario, motivando che la legge organica sulle legioni provinciali dell’8 novembre 1808 le aveva sottoposte al foro militare per le sole mancanze disciplinari. La massima fu approvata dal consiglio di stato (v. estratto del 10 maggio 1814); inoltre il decreto N. 2052 del 3 marzo 1814 stabilì formalmente che tutti i reati dei legionari non appartenenti alle compagnie scelte, anche se commessi in servizio, erano di competenza dei tribunali ordinari, salvo il foro militare per le mancanze disciplinari contro il buon ordine del corpo e per i delitti commessi quando si trovassero in attività di servizio militare per decreto reale o per ordine di un generale a ciò specialmente delegato. I consigli di guerra e di revisione di Roma (14 febbraio 1814) Con decreti del 14 febbraio e 7 marzo 1814 da Bologna furono nominati, per i soli dipartimenti di Roma e del Trasimeno, 2 consigli di guerra e 1 di revisione composti, “il più che possibile”, da ufficiali tratti dai corpi romani (SM del governo, battaglione veterani, gendarmeria e guardia doganale e municipale): erano però napoletani i procuratori (commissari di guerra) e il presidente del consiglio di revisione (maresciallo di campo). Al ministro erano attribuite funzioni di gran giudice e la presidenza della corte di cassazione provvisoria, formata dai membri ordinari del consiglio generale e da 6 magistrati e articolata in due sezioni, la I incaricata di giudicare l’ammissibilità dei ricorsi civili e la II quelli ammessi, nonché l’ammissibilità e il merito dei ricorsi militari. La corte poteva inoltre ripartirsi in corti di grazia, sempre presiedute dal ministro e composte da 2 membri laici e 2 magistrati. Furono però costituite anche in seguito commissioni militari e corti speciali miste (4 magistrati e 3 militari); ad esempio a Fossombrone per attentato alla sicurezza dello stato nei dipartimenti delle Marche (o. d. g. del 14 giugno 1814).

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C. Le norme sulla diserzione I. Il “supplemento del 1807 La diserzione al nemico e la diserzione all’interno (tit. I e II CPM) Il codice penale militare puniva con la morte la diserzione al nemico (tit. I): erano equiparati l’aver oltrepassato i limiti del presidio allo scopo di comunicare col nemico, l’uscita da una piazza assediata o investita, l’abbandono di posto in presenza del nemico, l’incitazione a passare al nemico anche se la diserzione non aveva luogo, con responsabilità del più elevato in grado se non si scopriva il capo complotto. La diserzione all’interno (tit. II) era invece punita con 5 anni di ferri, aumentati a 7 se avvenuta da una piazza di prima linea o dall’armata, aggravata a 10 dall’abbandono di posto e a 15 dall’asportazione di armi e bagagli. Con le stesse pene era punito il favoreggiamento da parte di militari, addetti all’armata o abitanti del paese nemico, con 2 anni di ceppi se commesso da “pagani”, aggravati a 2 anni di ferri in caso di asportazione di armi e bagagli. Era reputato disertore all’interno chi mancava per 36 ore da una piazza di prima linea, o oltrepassava i limiti del campo o della piazza dalla parte opposta a quella del nemico o, trovandosi all’armata, risultava mancante all’adunata o al contrappello. La legge francese 19 vendemmiale XII (12 ottobre 1803) sulla diserzione, in 78 articoli, graduava la pena per la diserzione dall’interno, sostituendo alla pena dei ferri quelle del “trascinamento di una palla” da cannone e dei lavori forzati. Come abbiamo già accennato, la legge fu tradotta in italiano con modifiche e adattamenti e pubblicata come “supplemento” al codice penale militare [testi nel Manuale, cit., I, pp. 24-52]. Il supplemento comprendeva 50 articoli riuniti in 10 titoli: I procedura (11-15); II sentenza (16-23); III pene (24); IV pena di morte (25); V pena della palla (26-30); VI pena dei lavori pubblici (31-32); VII applicazione delle pene (33-40); VIII esecuzione della sentenza (41-45); IX cessazione della pena (46-48); X lettura mensile delle norme (40-50). Della procedura abbiamo già trattano nel paragrafo precedente. Riformulazione delle fattispecie (supplemento al CPM, tit. VII) Il titolo VII, sotto la fuorviante rubrica “applicazione delle pene”, in realtà riformulava, articolandole e ampliandole, le fattispecie previste e punite come diserzione. Erano puniti con la morte i disertori al nemico o allo straniero, in servizio di sentinella o con asportazione di armi, i capicomplotto e i condannati alla palla o lavori forzati rei di rivolta. La rivelazione del complotto garantiva l’impunità. Erano puniti con 10 anni

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di palla i disertori all’estero, i disertori all’interno recidivi o con asporto di effetti del governo o dei camerati e gli evasi dai lavori pubblici, con aumento di 2 anni per ciascuna aggravante (diserzione collettiva, in servizio, da una piazza di prima linea o dall’armata, con scalata di bastioni o asporto di effetti del corpo o dello stato). Era considerato disertore all’estero il sottufficiale o comune che oltrepassava i confini o era arrestato a 2 miglia da essi (salvo il caso che vi si trovasse il suo domicilio). La diserzione all’interno era punita con 3 anni di lavori pubblici, aumentati di due per ciascuna aggravante (diserzione collettiva, da una piazza di prima linea o dall’armata, con scalata di mura o bastioni). In guerra era considerato disertore il sottufficiale o comune che abbandonava il corpo senza permesso, o non rientrava dal congedo entro 8 giorni dalla scadenza senza giustificato motivo o restava assente per 24 ore dall’armata o piazza di guerra o per 48 in ogni altro luogo. In pace la diserzione si consumava dopo 3 giorni d’assenza dal campo o piazza di guerra e 8 dagli altri luoghi o 15 dal termine del congedo. Per le reclute con meno di sei mesi di servizio i termini erano di 15 e 30 giorni, salvo il caso di diserzione collettiva, in servizio o con asporto di uniforme. [Il beneficio fu esteso anche ai disertori dalle compagnie provinciali in servizio nelle medesime da meno di sei mesi, con decreto N. 1219 del 23 gennaio 1812]. La pena del trascinamento della palla (supplemento al CPM, tit. IV) La pena di morte era eseguita per fucilazione nelle forme prescritte, previa degradazione sotto le bandiere. La pena della palla – di 8 libbre (kg 2.56), attaccata ad una catena di ferro di 8 palmi (m. 2,10) – comportava la reclusione nelle piazze di Gaeta o Brindisi, con 8 ore di lavoro al giorno d’inverno e 10 d’estate, trascorrendo il resto del tempo incatenati in prigione. Per limitare la possibilità di fuga rendendoli subito riconoscibili, erano prescritti lo stesso vestiario dei presidiari, ma con zoccoli invece delle scarpe, la barba incolta e la rasatura del cranio e dei baffi ogni 8 giorni: era considerato favoreggiamento procurare abiti o rasoi. Le giornate di lavoro erano pagate la metà del salario medio dei braccianti della provincia: un terzo era confiscato dal governo, un terzo trattenuto per la liquidazione a fine pena e un terzo per il vitto ordinario. Il tentativo di fuga era punito col raddoppio della pena o con l’aggiunta di una seconda palla: la misura era irrogata direttamente dal comandante della piazza, dandone però conto al superiore. I delitti più gravi erano giudicati da una commissione militare composta dal comandante della piazza, relatore, e dai 4 ufficiali più alti in grado e più anziani della

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guarnigione. La commissione poteva condannare a morte, a doppia palla o ad un aumento di pena, ma la sentenza doveva essere approvata dal comandante della divisione. Scontata la pena, i condannati a doppia palla erano tenuti a risiedere nel raggio di 10 miglia dalla capitale: l’obbligo era trascritto nel cartellino rosso consegnato a tutti i condannati alla palla all’atto della scarcerazione per fine pena. Avevano però l’opportunità di essere amnistiati per buona condotta e incorporati di nuovo nell’esercito: ogni anno, infatti, erano passati in rassegna da un ispettore ministeriale, che segnalava al ministro quelli meritevoli di indulgenza, accordata dal re su rapporto del ministro. La pena dei lavori pubblici (titolo VI) I condannati ai lavori pubblici, detenuti a Brindisi, erano impiegati in lavori militari o civili secondo l’orario degli artigiani del paese. Come i condannati alla palla, dovevano tenere il cranio rasato e la barba incolta, ma a differenza di costoro conservavano i baffi e le scarpe, e abiti di foggia militare, anche se di colore diverso da quelli della truppa; inoltre erano liberi da ferri, salvo che fossero inflitti per misura correzionale. Erano alloggiati in caserme separate da quelle delle truppe con la mezza fornitura di letto, o in baracche vicine al posto dei lavori con gli utensili d’accampamento. Esemplarità della condanna e misure di sicurezza L’esecuzione della condanna, anche a pena detentiva, aveva carattere esemplare. La sentenza era letta davanti alle truppe schierate, in testa la compagnia del reo, che, vestito dell’abito prescritto, ascoltava in piedi se condannato ai lavori o in ginocchio, e bendato, se condannato alla palla. Quest’ultimo era inoltre condotto in parata lungo lo schieramento, mentre nel primo caso erano le truppe a dovergli sfilare davanti. Gli artt. 49 e 50 prescrivevano inoltre la lettura del regolamento, sia alle truppe che ai condannati, ogni prima domenica del mese. Alla scarcerazione per fine pena, restavano a disposizione del governo per 8 anni e l’obbligo era iscritto nel certificato di liberazione, una cartolina bianca per i condannati ai lavori, e una rossa per i condannati alla palla. Quest’ultima doveva inoltre specificare se fossero o meno soggetti all’obbligo di risiedere entro 10 miglia dalla capitale.

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Le norme francesi integrative Erano applicabili nel regno, in virtù della generale recezione delle leggi militari francesi, anche le norme complementari alla legge del 19 vendemmiale [Manuale, I, pp. 53-88], in particolare le Formule e istruzioni per l’esecuzione del decreto 19 vendemmiale XII, compilate dal ministro della guerra di Francia (A. Berthier, 22 glaciale XII = 14 dicembre 1803). La circolare conteneva 10 formule di atti processuali: I querela di diserzione; II autorizzazione all’informazione del relatore o III non luogo a procedere da parte del comandante divisionale; IV chiamata del teste; V indennità per il teste e l’interprete; VI mandato di pagamento per il cancelliere; VII informazione del relatore; VIII interrogatorio; IX sentenza di condanna; X sentenza di assoluzione. Valevano anche per i giudizi in contumacia, omettendo ovviamente l’interrogatorio e tutto ciò che supponeva la presenza del reo, dando espressa menzione della sua contumacia. Altre norme integrative erano: a) una deliberazione del governo francese del 13 marzo 1804 che escludeva l’aggravante dell’asporto d’armi se il reo aveva disertato con la sola sciabola o baionetta in sua personale dotazione; b) un rescritto del ministro Berthier del 6 giugno 1804 che riteneva applicabile al disertore che avesse venduto le armi o gli effetti asportati la maggior pena (5 anni di ferri) prevista dal CPM (III, 3) per la vendita o l’impegno di armi, cavalli o vestiario militare; c) un decreto imperiale del 30 settembre 1805 che puniva con la morte il capo di un complotto per disertare o, se non era individuato, il militare [o l’impiegato, se il complotto riguardava solo impiegati militarizzati] di grado più elevato più anziano. III. I provvedimenti del 1808-11 La prima amnistia generale del 16 settembre 1808 Con decreto N. 174 del 16 settembre 1808 furono amnistiati tutti i militari che avevano disertato dal 17 febbraio 1806, inclusi i detenuti non ancora condannati: i latitanti erano tenuti a presentarsi entro un mese alle autorità provinciali o ai loro vecchi corpi, sotto pena di essere dichiarati disertori al nemico e passibili di morte: la stessa pena era comminata in caso di recidiva dopo aver fruito dell’amnistia.

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Disciplina dei disertori condannati (D. N. 376 del 27 maggio 1809) Con decreto N. 376 del 27 maggio 1809 ai condannati alla palla fu attribuito lo stesso regime dei “presidiari” (abbigliamento, obblighi di lavoro, polizia). Le spettanze erano una razione di pane da 3 grana e 3 cavalli con ritenuta di 1 grano per massa vestiario, sottoveste e calzoni di grosso panno di lana, berretto, 2 camicie di tela forte di canapa, 2 paia di calze di lana, zoccoli e cappotto. Gli artt. 2-7 confermavano il regime disciplinare e penale già stabilito dal supplemento al CPM, inclusi la possibilità di amnistia annuale, l’obbligo di residenza presso la capitale in caso di condanna a doppia palla o al raddoppio della detenzione, e la commutazione della pena nei lavori pubblici in premio per la denuncia di un complotto. Il titolo II (10-20) organizzava i condannati ai lavori pubblici in reparti (“riunioni”) di 72 uomini su 6 sezioni di 12, incluso il capo, preso tra i condannati e con trattamento particolare di 10 centesimi al giorno. Il reparto era vigilato da una guardia di sicurezza e polizia presa tra i bassi ufficiali e soldati degli zappatori o, i mancanza, nella guarnigione. L’abbigliamento, somministrato dal consiglio di amministrazione, era lo stesso dei condannati alla palla, ma con scarpe chiodate invece di zoccoli, e si specificava che il berretto e il cappotto dovevano essere di color grigio ferro scuro. Nei giorni di lavoro mangiavano pane nero e legumi secchi: nei giorni festivi o di riposo (per indisposizione o per maltempo) spettavano doppia razione di legumi e 3/5 della razione di carne per le truppe. La giornata di lavoro era pagata un quarto in meno del salario dei braccianti del paese: un terzo era confiscato per supplire alle spese di detenzione, un terzo impiegato per migliorare il vitto e un terzo liquidato a fine pena. Era inoltre garantito il ricovero ospedaliero. La rivelazione di un complotto era premiata con la grazia. Le sanzioni disciplinari o di polizia erano comminate dal basso ufficiale incaricato della vigilanza; i casi gravi erano sottoposti ad una commissione composta dal comandante e da 4 ufficiali anziani della piazza che poteva infliggere la morte, fino a 10 anni di palla oppure il raddoppio dei lavori pubblici. Un incaricato del ministro passava riviste mensili per segnalare i meritevoli di clemenza, amnistiati e incorporati di nuovo nell’esercito. Le multe per diserzione e renitenza (legge N. 306 del 27 maggio 1809) L’art. del decreto N. 282 del 13 febbraio 1809 comminava ai veliti refrattari una multa da 100 a 300 ducati, con responsabilità civile del padre e della madre, e l’art. 11 la estendeva anche ai coscritti ordinari. La legge N. 306 del 27 maggio estese la multa ai disertori e ai fautori e complici della diserzione e renitenza, sempre con responsabilità civile di

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entrambi i genitori, e stabilì le relative modalità di esazione e le spese di reclutazione, incluse le spese di giudizio e la gratifica di 3 ducati ai gendarmi e guardie civiche, campestri e di dogana per ogni arresto di disertore o refrattario. Le multe erano da 50 a 300 ducati per il disertore e il refrattario, da 100 a 400 per i pubblici funzionari che ostacolavano la coscrizione o ritardavano la partenza delle reclute e da 300 a 500 per i favoreggiatori, inclusi sanitari, agenti civili e militari che attestavano falsi titoli di esenzione o riforma. Con decreto N. 1169 del 19 dicembre 1811 la misura delle multe fu stabilita in 1.500 lire. L’esazione fu definitivamente sospesa con decreto del 18 giugno 1814. Il deposito refrattari di Gaeta (D. N. 375 del 27 maggio 1809) [Ripetiamo qui, per completezza di esposizione e comodità del lettore, cose già anticipate nel capitolo sulla coscrizione.] Con decreto N. 375 dello stesso 27 maggio, fu stabilito in Gaeta un deposito refrattari, comandato da un capitano e ordinato in compagnie di 160, inquadrate da 4 ufficiali e 10 sottufficiali distaccati a turno dalla guarnigione di Gaeta o dalla DM di Capua. Il consiglio d’amministrazione, presieduto dal comandante della piazza, fu poi disciplinato con regolamento del 28 settembre 1809. I refrattari, riuniti in squadre di 10, incluso un caporale scelto tra di essi dal comandante della piazza su 3 proposti dal capitano, dovevano essere occupati tutti i giorni all’istruzione militare (separatamente dalle altre truppe) o alla riparazione delle opere, senza compenso alcuno. Vestiti con l’uniforme della fanteria, ma senza paramani, colletti e risvolti, e con i capelli rasati, calzavano il berretto di polizia ed erano armati di fucili senza baionetta. Sorvegliati da piantoni, ronde e pattuglie fornite dalla guarnigione, e alloggiati in una caserma particolare, vi restavano in perpetua consegna, uscendo solo in truppa per lavori, esercizi e altri “travagli”, o accompagnati da un basso ufficiale. Godevano del pane e del soldo del fuciliere di linea, ma il prest era interamente trattenuto per la massa di biancheria e calzatura, le minute spese e il vitto ordinario (per un importo di 4 grana e 6 “cavalli” pro capite consegnati ogni cinquina al capo camerata). Ai refrattari era garantito il ricovero in OM. Il regolamento sull’abbigliamento (decreto N. 778 del 2 novembre 1810) stabiliva che il cappotto, abito, sottabito, pantalone, berretto da polizia e buffetterie erano forniti dal magazzino in natura. Il deposito non riceveva perciò la massa d’abbigliamento, ma solo quella di mantenimento di 14 carlini per anno e per uomo, aumentata con la vendita degli effetti dei morti e disertati.

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Le punizioni per le mancanze lievi, irrogate dagli ufficiali e sergenti, erano le stesse previste per la linea, ma di durata maggiore. Le mancanze gravi erano giudicate e punite a discrezione da un consiglio composto dal comandante della piazza, dal capitano e da un tenente. L’assenza dal deposito per oltre 24 ore era considerata diserzione e giudicata dal consiglio di guerra speciale. Il comandante della DM di Capua trasmetteva al ministro, con le sue osservazioni, i rapporti delle riviste trimestrali d’ispezione passate da un generale da lui delegato a verificare l’istruzione, condotta e tenuta di ciascun refrattario, e due volte l’anno passava personalmente l’ispezione del deposito per scegliere, sui rapporti trimestrali e quelli del capitano, i refrattari ritenuti degni di essere incorporati, facendone rapporto al ministro cui spettava ordinare l’invio al corpo. Statistiche dei depositi di Napoli (presidiari) e Gaeta (refrattari) Al 15 gennaio 1807 il deposito presidiari di Napoli aveva 232 effettivi; comandante, custode, 17 capi e 213 “presidiari”, ossia condannati per ai lavori pubblici o alla palla per reati diversi dalla diserzione, addetti al servizio dei forti di Napoli o distaccati in altre piazzeforti. Gli effettivi erano 237 il 9 settembre 1807, e 193 il 1° gennaio 1809, 243 il 1° maggio, 225, 463 e 186 all’inizio del 1810, 1811 e 1812. I movimenti del 1810 furono di 262 ingressi e 24 perdite (morti o disertati); nel 1811 di 240 ingressi e 517 perdite, in gran parte a seguito dell’amnistia del 15 aprile. Con circolare del 18 maggio 1811 ai presidiari dei depositi di Napoli e Gaeta fu attribuita la razione stabilita dal regolamento del 22 agosto 1810 sulle prigioni militari. I refrattari detenuti al deposito di Gaeta (inquadrato da un capitano e 3 subalterni) erano 64 il 1° dicembre 1810, 59 alla stessa data del 1811 e 278 un anno dopo. Gli ingressi furono 316 nel 1810 e 306 nel 1811, ma nel 1810 vi furono 299 trasferimenti nella linea (per la Spagna) mentre non ve ne furono affatto nel 1811. Le perdite per altra causa furono 22 nel 1810 (7 disertori, 7 condannati e 8 morti) e 87 (morti e disertori) nel 1811. Al 1° agosto 1813 i detenuti erano 71. La punizione del favoreggiamento (D. N. 793 del 16 novembre 1810) Le pene per il favoreggiamento della renitenza e della diserzione furono stabilite con decreto N. 793 del 16 novembre 1810, che nel preambolo dichiarava l’urgenza di mettere un freno al dilagare del “facile asilo”, dell’“indulgenza colpevole”, dei “mezzi fraudolenti” e

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degli ingaggi a favore del nemico, dei briganti o di estere potenze. Per gli intendenti, sottintendenti, giudici di pace, sindaci e individui della gendarmeria era sancito l’obbligo di ricerca e arresto, con “diligenti perquisizioni” e rapporti quindicinali all’intendente e mensili al ministro. Il semplice asilo era punito con il carcere da sei mesi a 2 anni a seconda delle aggravanti; l’intralcio colposo alle operazioni di leva da parte di militari, ecclesiastici funzionari o impiegati pubblici era punito con la sospensione dalle funzioni; quello doloso con la destituzione salve le pene per favoreggiamento e falso. L’estorsione di militare, legionario o gendarme, con 2 anni di ferri, la “semplice scrocconeria in materia di coscrizione” con la reclusione da 1 a 3 anni. La certificazione colposa di false infermità era punita con 3 mesi di sospensione dal soldo; se era fatta “per deferenza”, il sanitario era sospeso per tre anni dalle funzioni, e per cinque in caso di corruzione, salve in ogni caso le maggiori pene per il falso. I condannati per favoreggiamento erano inoltre obbligati in solido al pagamento della multa imposta al disertore o renitente e ai suoi genitori. La semplice istigazione alla diserzione era punita con 6 anni di lavori pubblici, l’ingaggio per l’estero con 10 anni di palla, e quello per il nemico o i briganti con la morte. Era considerato ingaggiatore chi, con denaro o altri mezzi, tentava di persuadere un militare a disertare per farlo passare al nemico, ai briganti o all’estero. Come si è accennato, la cognizione era devoluta ai consigli di guerra o ai tribunali ordinari a seconda della qualità, militare o civile, del reo. Le norme sulla diserzione di amnistiati e trugliati (1810-11) Con o. d. g. del 15 aprile 1810 il capo di SMG Grenier raccomandò ai capi dei corpi e comandanti d’arma e di gendarmeria d’inviare sempre ai consigli speciali, insieme con le querele di diserzione, anche i verbali d’arresto, indispensabili per stabilire se l’arresto era avvenuto prima o dopo la scadenza del termine di presentazione accordato dalle amnistie. Con decisione del 30 giugno 1810, notificata con circolare ministeriale dell’11 luglio, il re decise che la diserzione in una provincia infestata dai briganti fosse considerata diserzione al nemico e punita con la morte. Il decreto N. 750 del 15 ottobre 1810 vi equiparò anche la diserzione di amnistiati o destinati al servizio militare per misura di polizia. Con rescritto del 22 gennaio 1812 al comandante della piazza di Gaeta (Caracciolo), il ministro Tugny chiarì che i briganti che si presentavano non dovevano essere fucilati neppure se erano ex-militari, e che la pena di morte doveva essere invece applicata a chi disertava in una provincia tranquilla per passare in un’altra infestata o viceversa.

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L’amnistia per la nascita del Re di Roma (D. N. 944 del 15 aprile 1811) In occasione della nascita del Re di Roma, con decreto N. 944 del 15 aprile 1811, fu concessa una completa amnistia ai refrattari e disertori, sia contumaci che detenuti (se non prevenuti di altro delitto), ed ai loro favoreggiatori (esclusi i reati di falso), con condono anche delle sanzioni pecuniarie non riscosse. Il termine di presentazione era del 31 maggio, prorogato al 30 giugno per chi si trovava all’estero. I comandanti delle province erano incaricati di trasmettere al ministro le liste dei presentati. I renitenti e ritardatari amnistiati erano reintegrati nei diritti della loro classe, incluso il rimpiazzo: erano visitati e, se dichiarati idonei, inviati all’armata (in deduzione del contingente provinciale o in soprannumero se il contingente era già stato completato). I refrattari dei veliti e guardie d’onore (che non avevano diritto al rimpiazzo) erano inviati al deposito di Napoli. I coscritti omessi sulle liste subivano un sorteggio speciale. I disertori amnistiati, salvo particolari disposizioni del ministro, erano inviati ai corpi di appartenenza. I refrattari che dopo la presentazione non si rendevano al loro destino erano condannai come disertori e i disertori amnistiati che non raggiungevano i loro corpi, come recidivi. Norme sulla renitenza alla leva di mare e la diserzione in marina Con decreto N. 973 del 19 maggio 1811 le norme contro la renitenza furono estese agli appartenenti all’ascrizione marittima: se non si presentavano entro 3 giorni dalla chiamata, l’intendente doveva spedire la denuncia, col rapporto del sindaco marittimo, al procuratore regio presso il tribunale di prima istanza. Il termine era di 8 o 30 giorni per gli assenti dal comune o dalla provincia: in caso di assenza al regno la decisione era riservata al ministro. La chiamata doveva essere notificata personalmente o alla famiglia nel domicilio di residenza e i condannati erano destinati anch’essi al deposito refrattari di Gaeta. Con decreto N. 1144 del 28 novembre 1811 fu tuttavia concessa l’amnistia ai disertori dell’ascrizione marittima e degli equipaggi, con obbligo di presentarsi entro un mese (o due se si trovavano all’estero), sotto pena di essere puniti come recidivi. Con decreto N. 1197 del 4 gennaio 1812 furono estese alla marina le pene per i disertori recidivi dell’armata di terra stabilite con decreto del 15 aprile 1811. Le guarnigioni a domicilio a carico delle famiglie dei refrattari (1811) Con decreti N. 1131 e 1132 del 25 ottobre 1811 furono emanate le norme e le istruzioni ministeriali (in 6 titoli e 43 articoli) sulle “guarnigioni a domicilio a carico delle famiglie de’ coscritti refrattari”. L’invio dei militari a domicilio era ordinato dall’intendente, che ne

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stabiliva il numero (fino ad un massimo di 4), ma il ritiro poteva essere ordinato anche dal sottointendente ed era riservato al direttore generale della coscrizione autorizzare la permanenza oltre un mese. L’invio doveva essere preceduto da misure di persuasione e dalla pubblicazione nel comune interessato, con 8 giorni di anticipo, della lista dei morosi. Era obbligatorio se il numero dei morosi del comune superava 1/8 del contingente, oppure se il comune dava ricetto a refrattari o disertori, se aveva avuto difficoltà a fornire la quota nelle leve precedenti o se si fossero verificati tumulti durante le operazioni di leva. L’intendente poteva invece dispensarne i comuni in regola con le leve precedenti e con basso numero di refrattari e le famiglie che non avevano in alcun modo favorito “la disubbidienza de’ loro figli”. Le famiglie erano tenute a fornire l’alloggio militare in natura e pagare il soldo commisurato al grado (soldato 34 grana, caporale 39, sottufficiale 50, ufficiale 78) nonché, trattandosi di truppa montata (da inviarsi “in casa di quegl’individui la di cui disubbidienza sarà più manifesta”), un’indennità di 44 grani per il mantenimento del cavallo. Il soldo includeva una ritenuta di 11 grana per un fondo comune a disposizione del direttore generale della coscrizione, impiegabile per coprire il deficit provocato da famiglie in tutto o in parte insolventi. I piantoni non potevano, sotto pena di concussione, esigere nient’altro dalle famiglie ospitanti. All’arrivo del distaccamento, e in seguito ogni 5 giorni, si doveva intimare alla famiglia di depositare entro tre ore nelle mani del sindaco l’importo del soldo e indennità anticipato per 5 giorni. In caso di rifiuto l’usciere delegato dall’intendente provvedeva al sequestro e alla vendita dei mobili ed effetti, con spese a carico della famiglia. Durante la permanenza il distaccamento (di gendarmeria, linea o guardie civiche) era impiegato alla ricerca dei refrattari e disertori. I reclami di privati dovevamo essere indirizzati al sindaco e da questi trasmessi al comandante del distaccamento per la soppressione degli abusi e le eventuali punizioni. Il sindaco aveva il diritto di rifiutare il rilascio del certificato di buona condotta, senza obbligo di informare il comandante dei motivi, rendendone conto al sottointendente. III. I provvedimenti del 1812-14 Il recupero dei renitenti e disertori (D. del 20 febbraio e 9 aprile 1812) L’art. 7 del decreto N. 1250 del 20 febbraio 1812 da Caserta dichiarò decaduti dal diritto al rimpiazzo i coscritti destinati a marciare per primi per aver usato frodi per esimersi dal servizio militare. Con decreto N.

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1317 del 9 aprile 1812 i condannati per diserzione furono amnistiati e incorporati nel reggimento provvisorio (poi 4° leggero) istituito a Capua con decreto N. 1152 del 20 febbraio da San Leucio e reclutato fra i detenuti comuni riconosciuti idonei al servizio militare. La terza amnistia generale del 18 marzo 1813 Con decreto N. 1669 del 18 marzo 1813 i disertori che dopo essersi presentati per fruire dell’amnistia non si rendevano al corpo di destinazione erano puniti come recidivi, e i refrattari come disertori semplici. Gli “addetti al servizio militare” come briganti amnistiati o per misura di polizia che disertavano nuovamente dopo aver goduto dell’indulto erano puniti come disertori al nemico. L’art. 4 del decreto N. 1774 del 21 maggio limitò tuttavia la maggiorazione di pena al periodo di un anno dall’incorporazione. Inoltre il decreto N. 1746 del 3 maggio da Portici prorogò il termine di presentazione al 15 maggio, e al 15 luglio per gli espatriati, eccettuando però i coscritti autolesionisti. Le colonne mobili (decreti N. 1774 e 1775 del 21 maggio 1813) I decreti N. 1774 e 1775 del 21 maggio 1813 sulla disciplina delle colonne mobili per l’arresto di disertori e renitenti, prescrivevano ai comandanti, sotto pena di 10 giorni di arresti, di spedire, entro 24 ore dall’assenza, la filiazione del disertore al direttore generale delle riviste e coscrizione, all’intendente della provincia di domicilio dell’assente, nonché al generale comandante la gendarmeria e al posto di gendarmeria più vicino. In ogni provincia si doveva organizzare una colonna mobile, divisa in distaccamenti dislocati in modo da impedire l’esfiltrazione dei latitanti. Erano raddoppiati il premio per la cattura e l’indennità per i piantoni a domicilio, da suddividersi in parti uguali fra tutti i legionari scelti e i gendarmi impiegati. Inoltre i comuni, distretti, circondari e province erano tenuti a somministrare le informazioni e i mezzi per la cattura e i rimpiazzi di tutti i latitanti che non fossero stati catturati entro due mesi. Ai disertori e renitenti che non si presentavano entro un mese dall’arrivo della colonna nel loro comune, erano estese le maggiori pene previste dall’amnistia per i pertinaci: in compenso erano aboliti i giudizi contumaciali e concesso al consiglio di guerra speciale di raccomandare i condannati a morte la clemenza del re per la commutazione della pena nei ferri o nei lavori pubblici a vita. I parroci dovevano dare pubblicità per 3 festività consecutive alle disposizioni dei due decreti.

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La diserzione dall’armata attiva (D. 18 e 24 luglio e 25 settembre 1813) Con decreto N. 1846 del 18 luglio 1813 le 4 divisioni attive e quella di riserva composta dai terzi battaglioni furono dichiarate sul piede di guerra e la diserzione da tali unità considerata pertanto diserzione al nemico e punita con la morte, estesa ai favoreggiatori. Gli arrestati erano giudicati entro 48 ore da commissioni militari nominate dal comandante della divisione. Con decreto N. 1851 del 24 luglio alle commissioni fu attribuito anche il giudizio sui fautori e complici, inclusi i civili, soggetti perciò alla pena di morte. Con decreto N. 1921 del 25 settembre furono esclusi dalle maggiori pene e dal giudizio delle commissioni divisionali i disertori dall’armata attiva che si costituivano spontaneamente, giudicati dai consigli di guerra speciali e puniti (come i loro fautori e complici) con le pene comminate dalle leggi precedenti. Il decreto N. 1971 del 18 novembre diminuì di un grado le pene per i disertori – sia dall’armata attiva che da quella dell’interno – che si costituivano spontaneamente, ferma restando la morte per i disertori dall’armata attiva pertinaci e per i loro complici e fautori. La quarta amnistia del 12 maggio 1814 e le ammende ai sindaci Nel tentativo di sostituire il reclutamento per coscrizione col recupero dei disertori e refrattari, il 12 maggio 1814 Murat concesse una quarta amnistia generale (decreto N. 2114); il termine era inizialmente stabilito al 31 maggio, ma fu prorogato al 30 giugno e infine al 15 agosto con decreti N. 2129 e 2160 del 2 giugno e 3 luglio. Diversamente dalle precedenti amnistie, i pertinaci non incorrevano nella pena di morte come recidivi, tranne gli amnistiati e gli addetti al servizio militare per misura di polizia. I risultati dovettero essere ben scarsi se con decreto N. 2304 del 20 ottobre 1814 si comminò un’ammenda da 50 a 200 ducati, a beneficio del denunciante, ai sindaci che omettevano di fare rapporto sui disertori e renitenti dimoranti nel rispettivo comune. I sottointendenti erano incaricati di richiedere d’ufficio ai sindaci che nel mese precedente non avessero segnalato la presenza di ricercati per diserzione o renitenza una formale dichiarazione di inesistenza, da valere poi come prova della eventuale omissione.

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Tab. 401 – Leggi penali militari e di procedura penale militare (-diserzione e renit.) Atto



Decreto Legge

140

Legge

187

Legge

143

Decreto

160

Decreto

372

Decreto

377

Decreto

419

Decreto

425

Decreto

873

Decreto

652

O. d. g.



Decreto

664

Decreto

693

Decreto

793

Estratto 1184 O. d. g. – Decreto 1072 Decreto 1143 Legge

1456

Decreto 1256 Decreto 1774 Decreto 1846 Decreto 1851

data 08.0 5 03.0 6 13.0 7 20.0 5 12.0 8 22.0 5 27.0 5 17.0 7 27.0 7 27.0 1 27.0 5 28.0 5 10.0 6 03.0 7 16.11

Rubrica 1807 Codice penale militare (adattamento del codice franc. 12 maggio 1793) Sul procedimento nei delitti militari (consigli di guerra e di revisione) Consiglio privato per le grazie e commutazioni di pena (generale) 1808 Codice penale – (titolo II – Sezioni I e II, artt. 77-91) Regolamento sul servizio amministrativo delle prigioni militari 1809 Modo per chiedere la grazia di condono e commutazione di pena Consiglio di guerra speciale per i delitti di diserzione Amnistia e incorporazione dei sudditi che abbandonano il nemico Amnistia e incorporazione dei militari nemici rimasti a Ischia e Procida 1810 Commissione militare per giudicare i soldati della GR accusati di furto Abolizione delle commissioni militari e ripristino del regime costituzion. Restituzione dell’alta polizia alle autorità civili (capo di SMG Grenier) Giudizio dei gendarmi e altri militari per l’abuso di forza negli arresti Organizzazione e istruzione delle costi speciali (miste)

Art. 14: cognizione dei reati di favoreggiamento alla diserzione 1811 11.05 Parere del consiglio di stato sui procedimenti per abuso di forza 19.0 Divieto di infliggere punizioni corporali (Capo di SMG Grenier) 6 12.0 Competenza sui reati degli appartenenti alla gendarmeria (art. 1 e 2) 9 28.11 Rogatoria di testimoni assenti nei procedimenti militari 1812 04.0 Sulla competenza delle autorità per il giudizio dei delitti dei militari 8 27.0 Applicabilità del codice penale ai militari per delitti comuni 2 1813 21.0 Art. 1: abolizione del giudizio in contumacia per la diserzione 5 18.0 Commissioni militari per la diserzione dalle Divisioni mobilitate 7 22.0 Attribuzione alle commissioni militari del giudizio su fautori e complici

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7 Estratto 1873 24.0 7 Decreto 1903 28.0 8 Decreto 1921 25.0 9 Decreto 1931 02.1 0 Decreto 1971 18.11 Decreto 2052 03.0 3 Estratto 10.0 5 Estratto 30.0 4 Decreto 2216 04.0 8

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Parere del consiglio di stato sulla qualità di “militare isolato” Giudizio provvisorio della gente di mare per delitti militari e diserzione Competenza del consiglio di guerra speciale per i disertori costituitisi Procedura nei conflitti di giurisdizione (decreto della Reggente) Giudizio dei disertori dall’Armata attiva e pene per chi si presenta 1814 Competenze per i delitti commessi da legionari ordinari Parere del consiglio di stato sulla competenza per un delitto di legionario Parere del consiglio di stato sull’ammissibilità di 2° rinvio al consiglio Disposizioni per l’escussione di militari testimoni nei giudizi penali

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Tab. 402 – Legislazione napoletana sulla diserzione e la renitenza Atto



Decreto

data 08.0 5

Decreto

174

16.0 9

Decreto

282

Decreto

320

Legge

306

Decreto

375

Decreto

306

Decreto

377

Decreto

425

13.0 2 19.0 3 27.0 5 27.0 5 27.0 5 27.0 5 27.0 7

Legge O. d. g.



Circol. Decreto

– 740

Decreto

750

Decreto Decreto

778 793

Decreto

944

Decreto

973

Decreto 1131 Decreto 1132 Decreto 1144 Decreto 1169

01.0 1 15.0 4 11.07 22.0 9 15.1 0 02.11 16.11 15.0 4 19.0 5 25.1 0 25.1 0 28.11 19.1 2

Decreto 1197 04.0 1 Decreto 1219 23.0 1 Decreto 1250 20.0

Rubrica 1807 Supplemento al codice penale militare – della diserzione 1808 Amnistia (I) ai disertori dal 17 febbraio 1806 (termine di un mese) 1809 Disposizioni contro i veliti refrattari Proroga di 15 giorni dell’amnistia e aumento delle pene ai pertinaci Multe per diserzione e renitenza – spese di reclutazione Deposito delle reclute condannate come refrattarie Disciplina dei disertori condannati alla palla o ai lavori pubblici Consiglio di guerra speciale per i delitti di diserzione Amnistia e incorporazione dei sudditi al servizio nemico 1810 Amnistia per i veliti refrattari, con termine prorogato fino al 1° maggio Invio ai consigli di guerra dei verbali d’arresto dei disertori (Grenier) Sui disertori nelle province ove esistono briganti (ministro Daure) Difformità della multa irrogata dal disposto della legge 27 maggio 1809 Diserzione di amnistiati o destinati al servizio militare per polizia Regolamento sull’abbigliamento dei coscritti refrattari Favoreggiamento della diserzione 1811 Amnistia (II) per la nascita del Re di Roma (termine 30 maggio) Disertori e refrattari dell’Armata di mare Regolamento sui militari a domicilio dei disertori e refrattari Istruzioni relative Amnistia ai disertori dell’ascrizione marittima (termine un mese) Conversione in lire delle multe e gratifiche per l’arresto di disertori 1812 Estensione delle pene per la diserzione all’Armata di mare Diserzione dalle compagnie provinciali scelte Destinazione dei coscritti che hanno usato frodi per esimersi

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2 Decreto 1252 20.0 2 Decreto 1317 09.0 4 Decreto 1669 18.0 3 Decreto 1746 09.0 5 Decreto 1773 21.0 5 Decreto 1774 21.0 5 Decreto 1793 03.0 6 Decreto 1846 18.0 7 Decreto 1851 22.0 7 Decreto 1921 25.0 9 Decreto 1971 18.11 Decreto 2114 12.0 5 Decreto 2129 02.0 6 Decreto 2160 03.0 7 Decreto 2304 20.1 0

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Formazione di un altro reggimento sotto il nome di “provvisorio” Amnistia e incorporazione di condannati per dis. nel Regg. provv. 1813 Amnistia (III) per i refrattari e disertori (termine di un mese) Proroga del termine al 18 maggio Organizzazione di colonne mobili per la cattura di disertori e refrattari Pene contro i disertori (e abolizione del giudizio in contumacia) Obbligo dei fratelli, benché esenti, di rimpiazzare i coscritti disertori Misure relative alla diserzione dei militari delle 5 Divisioni mobilitate Attribuzione alle commissioni militari del giudizio su fautori e complici La presentazione volontaria esclude le pene comminate dal D. 18 luglio Giudizio dei disertori dall’Armata attiva e pene per chi si presenta 1814 Amnistia (IV) per i disertori che si presentino entro il 31 maggio Proroga del termine di presentazione al 30 giugno Proroga del termine di presentazione al 15 agosto Ammenda ai sindaci per omesso rapporto sui disertori e renitenti

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Appendice 1 Il comportamento delle truppe francesi nel regno di Napoli Le rappresaglie e le stragi del 1806: rinvio Per il comportamento dei francesi nel Salernitano e in Basilicata e Calabria durante la ritirata di Reynier e la spedizione di Masséna, rinviamo il lettore al nostro Le Due Sicilie nelle guerre napoleoniche (t. II, pp. 449 seg., con specchio delle 41 rappresaglie commesse nel 1806, tab. 112 a p. 486). Il comportamento dei generali francesi: rinvio Circa le “dilapidazioni” di Masséna, il richiamo di Lechi, Rusca, Franceschi, Frégéville e Zenardi e la buona fama di Partouneaux, v. cap. 1, §. A. Sulle estorsioni del commissario di guerra Severoli, sul rinvio in Francia di commissari di guerra colpevoli di dilapidazioni a Cosenza e Civitella e il trasferimento nelle prigioni di Mantova di 4 persone innominate, accusate di imprecisati reati amministrativi a Reggio C. [Giuseppe all’AC Dufresne, 19 aprile 1806] v. cap. 6, §. C. Naturalmente abbondano gli attestati pubblici e i rapporti elogiativi, non solo di Partouneaux [il re Giuseppe a Napoleone, da Barletta, 29 marzo 1807: G. all’interessato, 23 maggio 1807] e del suo capo di SM Lamarre [G. a N., 29 marzo 1807], ma dello stesso Masséna [G. a N., 26 febbraio, 7 e 18 marzo 1806], di Espagne [Il Monitore, 23 settembre 1806], Reynier [G. a N., 7 marzo 1806], Donzelot [G. a N., 26 marzo 1807: «remarquable administrateur»], e ancora di Berthier, Cavaignac, Digonnet, Goulus, Chavardès, Thomas, Detrès, Cappi, nonché di interi reggimenti (4e e 6e chasseurs, 10e de ligne, 3° italiano ecc). La disciplina della guarnigione di Napoli nel febbraio-aprile 1806 Il diarista De Nicola, pur di nostalgie ferdinandee, annotava il 17 febbraio 1806: «non si crederebbe che la nostra città abbia da tre giorni ricevuto un’armata conquistatrice», tanto dimesso e tranquillo appariva il comportamento dei francesi. Ma già il 19 aggiungeva che «nella notte, truppe di cavalieri, nell’alto quartiere di Toledo, (avevano) insultato delle donne, forzato porte e turbato il riposo pubblico». L’episodio è confermato da una lettera di Giuseppe Bonaparte a Masséna [“non è stata ancora eseguita la disposizione di far fare ronde notturne miste di

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francesi e italiani: alle 10 di sera di ieri dei dragoni del 1er hanno rapito una donna, maltrattato un uomo e forzato dei magazzini di vino: se non la smettono, rispedire in Puglia il reggimento”]. Il 20 il diarista scriveva che i francesi provocavano continui disordini «per questioni di donne e scrocchi di pranzi». La sera, al mercato, ci furono schiamazzi nei locali pubblici («tapages dans les cabarets»). Partouneaux, comandante della guarnigione, riportò la disciplina con o. d. g. del 23 febbraio, che puniva il mancato rientro in caserma dopo la ritirata, aumentava i contrappelli e vietava agli esercenti di ammettere soldati nei locali pubblici dopo il calar della notte. Era inoltre vietato pretendere la “tavola” dalle famiglie presso le quali si era alloggiati e il 27 febbraio gli alloggi furono ridistribuiti in modo da tenere gli ufficiali il più possibile vicini alle loro compagnie. Ci volle comunque del tempo per ristabilire la disciplina: la notte del 4/5 aprile, ad esempio, 2 soldati furono feriti da civili mentre tentavano di introdursi in case private. Informatone, Giuseppe Bonaparte reiterò l’ordine di tenere, di notte, i soldati chiusi in caserma. Abusi e contrasti con le autorità civili in provincia Gli abusi denunciati dalle autorità locali erano immancabilmente coperti o scusati dai superiori, che accusavano a loro volta i denuncianti di calunnia per malanimo o per depistare dalle proprie mancanze. Così ad esempio Dulauloy difese gli ufficiali dell’equipaggio da ponte che avevano preso a piattonate il sindaco di Roccasecca: se le era meritate, secondo il generale, perché non collaborava a trovare i traini rallentando a bella posta la marcia del convoglio. Anche Frégéville difese Zenardi in un suo contrasto col sindaco di Foggia: invitato a punirlo, gli dette solo 15 giorni di arresti per «légèreté de conduite» (marzo 1807). Solo nei casi davvero gravi si arrivava alla destituzione del comandante: avvenne, ad esempio, nel dicembre 1806 a Bonati (Salerno), per maltrattamento del sindaco, arresti arbitrari ed estorsioni. Ma le cose venivano fuori solo per improvvise rotture dell’omertà, come, ad esempio, nel luglio 1807, quando i comandanti della colonna mobile in Puglia, Goriz e Franceschi, si accusarono reciprocamente di violenze ed estorsioni. Impunite erano sempre le contribuzioni arbitrarie imposte dai comandanti [ad esempio nel giugno 1806 nella provincia di Chieti, in dicembre a Camerota e a Contursi, dove una pattuglia di 12 cacciatori pretese 100 ducati]. In linea di principio erano vietate, ma con la scusa dell’urgenza venivano di fatto consentite. Partouneaux era sicuramente più severo della media, ma anche a lui veniva più facile se i responsabili non erano nazionali. Il 23 febbraio 1807 scriveva a Lamarque che «beaucoup, mais beaucoup de saloperies

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(avaient) été commises dans la vallée de Sulmone»; chiese la punizione del colonnello del 3° italiano Daniele Zannini, poi fece destituire Durand, aiutante di piazza a Pescara, e arrestare Ricci, comandante della Valle. Ma nel maggio 1807, il capitano italiano Casolini, comandante del forte di Civitella del Tronto e in arretrato di otto mesi di soldo, chiamava a testimoni Senofonte, Turpin [de Crissé], Folard, Polibio e Montecuccoli che «alle truppe non pagate bisogna consentire qualche disordine, per evitarne di maggiori».

Appendice 2 Il comportamento delle truppe napoletane in patria e nell’Italia centrale Omicidio, furto, rapina, saccheggio, stupro Sul comportamento delle truppe napoletane in Spagna, e sulla loro fama, non del tutto meritata, di “saccheggiatori”, rinviamo il lettore al capitolo 14 (t. II). Le memorie del generale Bigarré, comandante del 1° e poi del 2° di linea prima del loro invio in Spagna, descrivono, non senza qualche pennellata caricaturale, le reazioni attonite dei babbei svizzeri e quelle furiose dei cittadini mantovani nel vedersi borseggiati di fazzoletti e orologi e le universali proteste dei contadini al passaggio dei galeotti arruolati nei due reggimenti. Il colonnello ricorreva abbondantemente alle nerbate e ciavattate [“donner la savate”, ossia far passare il reo fra due file di camerati che dovevano prenderlo a scarpate], ma nelle memorie riconosceva che non servivano a niente, e che l’unico rimedio relativamente efficace era di far pagare a tutta la compagnia i danni e il valore degli effetti rubati o rapinati. Che poi queste somme fossero realmente rimborsate ai danneggiati, o non finissero invece nelle tasche di chi aveva maneggio di denaro, sarebbe tutto da dimostrare. Gabriele Pepe testimonia la fucilazione, in Provenza, di un soldato del 1° di linea per omicidio. Furono invece concesse le attenuati, a quanto pare, ad un sergente dei cannonieri di marina che il 5 settembre 1807, a Napoli, aveva sgozzato l’amante nell’asserito timore che potesse rivelare “compromettenti notizie politiche”. Nel novembre 1807 il 1° consiglio di guerra permanente di Napoli (composto di sei ufficiali francesi e del capitano Riva, della guardia reale) condannò in contumacia a 10 anni di prigione, per omicidio, 2 operai della sala d’armi. Condannò inoltre a 2 anni un tenente della civica di Napoli, reo di estorsioni e vessazioni, e a soli 6 mesi, uno della civica di Sessa, per estorsioni, vessazioni e stupro,

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assolvendo due suoi colleghi. Ad entrambi i condannati comminò inoltre la destituzione dall’incarico, con l’obbligo di risarcire le vittime. Nell’aprile-maggio 1810 il consiglio di guerra permanente della marina condannò a 2 anni di ferri un custode di marina per l’evasione di due forzati e a 20 anni, per omicidio, un soldato del battaglione: assolse invece un altro soldato accusato di complicità e ancora uno accusato di rissa. Tra i 166 condannati o detenuti in attesa di giudizio c’erano 30 ufficiali e cadetti e 33 guardie reali. In dicembre furono consegnati alla giustizia civile 9 cannonieri litorali di Trani e Barletta che avevano gravemente maltrattato e mano armata marinai del Regno d’Italia. Il Giornale del dipartimento del Metauro dette notizia che il 18 ottobre 1814 un artigliere era stato condannato a 5 anni di ferri per essersi impegnato parte del vestiario di cotone bianco di un camerata. La testimonianza dei cronisti di Macerata, Lucca, Loreto e Modena Annotando il passaggio per Macerata, il 4 gennaio 1814, di 2.000 fanti napoletani, il cronista Salvatore Tartuferi annotò: «che si dicono essere lazzaroni»: si trattava con ogni probabilità del 6° di linea “Real Napoli”, reclutato in origine nella capitale, ma non solo nei famigerati lazzari. «Questa truppa [il 6°] commise molte iniquità con le donne e rubarono molti fazzoletti», aggiunse il 13 giugno. Così anche, generalizzando, il lucchese Sardini: «e siccome erano napoletani, esercitavano a meraviglia l’arte di rubare» (22 maggio). A Loreto, secondo il parroco Murri, i soldati tentarono di portarsi via le statue di bronzo della piazza del santuario. E’ però soprattutto la cronaca modenese di Antonio Rovatti a dare particolari sul comportamento dei napoletani. I contadini non venivano più al mercato nel timore di essere derubati dai soldati (11 febbraio) e protestavano per le rapine e percosse dei soldati (12 marzo). Il comune rivolse una supplica a Murat per far revocare il permesso, accordato dal comando napoletano di aprire una bisca riservata agli ufficiali, causa di gravissimi disordini (18 marzo); e accordò un alloggio alle meretrici che si erano rivolte alla polizia denunciando percosse, brutalità e minacce dei militari (31 marzo). Tartuferi scrive che il 4 maggio 1815, dopo la sconfitta di Tolentino, i napoletani in fuga rubarono polli, bovi, agnelli, panni, ori, formaggio e ammazzarono delle persone verso Scarrocciano: «insomma non vi fu casa che non venisse saccheggiata». Aggiunge però che il giorno dopo fu la volta degli austriaci [di Neipperg], accampati in 12.000 con 2.000 cavalli a Santa Croce e lungo la strada delle Tre Porte fino a tutte le

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mura di San Lorenzo. Nei poderi lungo le mura furono tagliati 200 alberi, i cavalli mangiarono il grano, i soldati saccheggiarono le case e la cantina del convento di Santa Croce, rubando vino, pane, farina, maiali, salumi, grano e granturco, e il 6 partirono per Tolentino «con aver lasciato un lutto generale presso li contadini». Pur non riconoscendosi una responsabilità civile dello stato per i delitti commessi da militari, è testimoniato (dal Monitore del 2 marzo 1814) i almeno un caso di indennizzo (300 lire) alla famiglia di un civile (Domenico Di Napoli), «ferito mortalmente all’occasione del passaggio delle nostre truppe per la città di Spoleto». Ammutinamenti Gli ammutinamenti si verificarono soprattutto nei corpi stranieri o speciali. Ne scoppiò uno a Napoli, all’inizio del 1807, tra gli “africani” che reclamavano la paga, e che contagiò anche i corsi, di passaggio nella capitale. Si ammutinarono anche due compagnie franche, una abruzzese (il 14 marzo 1807 a Teramo) e una calabrese (maggio 1808, a Salerno). L’episodio più grave, avvenuto il 10-11 marzo 1814 a Castellammare, riguardò tuttavia ancora i corsi, e si concluse col rimpatrio di 750 tra militari e civili [v. t. II, capitolo 17]. Si ammutinò ad Alessandria, nel maggio 1814, anche il battaglione dei reduci dalla Spagna. Il 12 maggio 1815, all’ordine di partire per Capua, si ammutinarono a Napoli le guardie prefettizie di Salerno, asserragliate nel quartiere SS. Apostoli, assaltato il 13 dalla guardia di sicurezza. Il 31 maggio si ammutinarono infine a Gaeta il deposito del 10° di linea e i legionari scelti campani. Il 26 giugno, infine, fu scoperto, sempre a Gaeta, un complotto ordito da zappatori e soldati del treno. Risse tra corpi militari e coi civili a Napoli Il diario napoletano di De Nicola segnala in più occasioni gigantesche risse e faide tra differenti corpi militari di stanza nella capitale. Le più gravi avvennero nel 1809 tra veliti a piedi e fucilieri (11, 16 e 31 maggio e 27 novembre, quest’ultima nel palazzo in cui erano esposte le spoglie di Saliceti) e nel 1811 tra guardia reale e 5° di linea (16 luglio, con assalti sistematici ai corpi di guardia dei “cocuzzielli” calabresi e 40 morti e feriti). Una minore, tra cannonieri e linea, il 10 giugno 1811 (al quartiere Monte Oliveto). Altre assai gravi ve ne furono nel 1813 tra guardia reale e civici (11 aprile, 30 giugno, con tentativo di assalto al corpo di guardia, spari e 2 o 3 morti fra gli assalitori), tra veliti e linea (primi di luglio), tra linea e civili a Soccavo (14-18 luglio, con feriti, per

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furto di frutta). E ancora nel 1814 tra corsi e popolani a Borgo Loreto (15 aprile, con morti), tra reduci da Danzica al quartiere Ponte (10 agost, con 20 morti), tra veliti e guardie d’onore (27 ottobre, con feriti); e nel 1815, tra civici e cannonieri di marina (3 aprile). Gli incidenti erano suscitati da provocazioni e sfide, o dall’intervento dei civici per impedire gravi reati, come aggressioni alle donne e ferimenti di civili, oppure alla reazione della popolazione contro i furti e le aggressioni dei soldati, specie nell’estate-autunno del 1813, quando le truppe furono accampata sulle colline da Capodimonte a Posillipo per sottrarle all’epidemia (anche di tracoma) scoppiata in aprile-maggio al campo di Capodichino. Il 22 novembre De Nicola annotava con sollievo la definitiva partenza di «questi incomodi ospiti, che dopo aver saccheggiata la campagna di frutta nell’està, di uva nell’autunno, ora la stavano spogliando di legna per farne fuoco. Gli ufficiali poi vi andavano disseminando il loro libertinaggio e debosciando tutte le figliole che potevano avere tra le mani». La tolleranza del re Il diarista sottolineava, il 1° giugno 1809, che il re sembrava non darsene peso, anzi apprezzasse questa aggressività. In effetti non pare che, nonostante i morti, vi siano mai state conseguenze giudiziarie né disciplinari a carico degli ufficiali che, invece di impedire le violenze, le tolleravano o addirittura le incoraggiavano e perfino capeggiavano. Il 27 agosto 1809 una ventina di ufficiali della guardia, capeggiati da un maggiore, irruppero in un commissariato di polizia e sequestrarono un funzionario che giorni prima aveva arrestato un loro collega mentre, in borghese, maltrattava una signora: il funzionario fu portato a forza in un caffè dirimpetto al Palazzo Reale e percosso per essersi rifiutato di chiedere scusa. Murat scrisse al capitano della guardia di turno e al ministro della polizia di mettere agli arresti tutte le persone coinvolte, poi promosse l’ispettore commissario, degradò l’ufficiale arrestato e retrocesse di un grado i più scalmanati, spedendoli tutti alla Grande Armée, ma li salvò dalle sanzioni ben più gravi previste dalla legge. Il 20 maggio 1810 il re graziò 4 veliti a cavallo della guardia condannati a 12 anni di prigione per aver liberato a viva forza un camerata arrestato, rinviandoli al corpo senza ulteriori sanzioni. Pochi giorni dopo graziò altri 10 individui della guardia condannati ai ferri, sanzionati comunque col trasferimento nel Real Africano.

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Il divieto di punizioni corporali (11 giugno 1811) Con o. d. g. del 19 giugno 1811 il capo di SMG Grenier rese noto il biasimo del re perché vari capi di corpo si erano permessi d’infliggere ai subordinati punizioni arbitrarie contrarie al regolamento, come colpi di bastone e altre pene corporali. Per l’avvenire tali punizioni erano assolutamente proscritte. «Il soldato napoletano – proseguiva Grenier – dev’essere trattato come il soldato francese e l’onore deve essere la sola sua guida: egli non può divenire buono, che per sentimento, mentre al contrario i colpi di bastone, o altre pene corporali avviliscono sia lui, sia chi le ordina». Si ordinava perciò sai generali «d’invigilare con tutta la severità acciò che nei circondari del loro comando non s’infliggano ai militari altre punizioni che quelle prescritte dai regolamenti». Con circolare del 18 dicembre 1811 ai capi dei corpi, il ministro li informò che per volere del re i sottufficiali non potevano essere destituiti dal grado se non su rapporto scritto del capitano, da trasmettersi in copia al ministro e da trascriversi nei registri del corpo. Duelli Benché proibiti, i duelli erano tollerati e imperversavano, non solo per questioni private di gioco e di donne, ma anche per questioni di servizio, o di precedenza, o per l’“onore nazionale”. Nel febbraio 1807, a Capua, il capitano Gabriele Pepe, dei granatieri del 1° di linea, ebbe tre mesi di arresti per aver sfidato il maggiore Pégot. L’8 aprile 1809 il capitano della guardia Decoquevilliers uccise alla pistola, alle Grotte di Posillipo, il tenente dei corsi Giuseppe Zerbi [incaricato dal suo comandante di consegnare di persona un dispaccio al re, Zerbi era stato schiaffeggiato da Decoquevilliers, il quale, di guardia al Palazzo Reale, pretendeva di impedirgli l’accesso]. Lo stesso anno C. Filangieri fu rimpatriato dalla Spagna per aver ucciso in duello il milanese Franceschi Losio, generale di brigata francese e scudiero del re Giuseppe, che si era permesso spezzanti giudizi sui napoletani. Numerosi duelli in difesa dell’onore nazionale si ebbero nell’aprile 1811 a seguito della sorpresa di Figueras, imputata dai francesi e dagli italiani all’inettitudine e alla viltà dei napoletani (in gran parte convalescenti) che si trovavano nel forte. La mania dei duelli si diffuse però anche nella capitale, soprattutto tra veliti e guardie d’onore, come testimonia De Nicola nell’agosto 1809, il quale registra al 30 settembre l’uccisione in duello, a Napoli e Aversa, di 2 ufficiali della guardia. Il 26 maggio 1810, a Nocera, il maggiore Costa fu ferito ad un braccio da Rossarol; era l’undicesimo duello in un mese e si era svolto con la spada non essendo stata permessa la pistola. I duelli

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avevano luogo anche fra sottufficiali e soldati. Il 6 giugno 1811 un sergente dei veliti uccise in duello un parigrado francese che aveva maltrattato una donna. Nel giugno 1812, a Verona, Pellegrino Lise del 5° di linea sfidò il sergente maggiore della sua compagnia.

Appendice 3 Cronache della diserzione La diserzione per imboscamento Anche nelle armate napoletane troviamo ovviamente i due tipi di diserzione caratteristici del periodo napoleonico, in cui alla diserzione organizzata tipica degli eserciti mercenari dell’antico regime, si era aggiunta quella individuale dei coscritti “pigliati a forza”. Formata dalla riunione di corpi di origine e reclutamento eterogeneo, l’armata di terra napoletana presenta un alto tasso di “imboscamenti” (embauchages), cioè il dirottamento clandestino di militari, e soprattutto reclute, da un corpo all’altro dello stesso esercito ovvero a spese di un esercito alleato. La pratica, organizzata dagli stessi capi di corpo per completare gli organici e assicurare le promozioni agli ufficiali e sottufficiali a spese dei colleghi di un altro corpo, non era considerata diserzione ed era anche tollerata o addirittura incoraggiata dal sovrano se avveniva a spese dell’alleato. Con o. d. g. del 16 aprile 1807 il capo di SMG napoletano dispose un’ispezione generale per il 1° maggio, per identificare in ogni corpo i militari arruolati sotto falso nome e rispedirli ai reggimenti di origine, ammonendo che gli ufficiali responsabili ne avrebbero “reso conto”. Il 24 marzo 1809 la festa delle bandiere [t. III, cap. 26] fu turbata da un alterco tra i colonnelli dei veliti della guardia e del 10e de ligne che, durante la rassegna ai Granili aveva riconosciuto tra i veliti alcuni disertori del suo reggimento e, chiamatili per nome, li aveva fatti uscire dai ranghi. La questione era grave, perché i veliti dovevano essere tratti dalla “classe dei proprietari” benestanti; premeva però pure al re mettere insieme in ogni modo il reggimento che non riusciva a reclutare. Così, il 30 marzo, decise di tenere nei veliti i sostituti (sia pure ordinando al comandante di farli processare e punire in via correzionale) e di far servire nella linea coloro che li avevano pagati per farsi sostituire. Diverso era il caso dei cavalleggeri e altri corpi stranieri della guardia reale: irritato per il mancato invio dei 500 coscritti francesi promessigli

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dall’imperatore, Murat si rifece con almeno 977 imboscati tratti in gran parte dalle reclute destinate ai 3 reggimenti esteri dell’Armée de Naples, costringendo lo stesso Napoleone, dopo un cartaceo quanto estenuante braccio di ferro, ad accettare il fatto compiuto, salvo un indennizzo al 1er suisse, per i premi d’ingaggio pagati direttamente dalla cassa del reggimento [t. II, cap. 12, par. C]. La diserzione per ingaggio o cattura L’ingaggio a favore di stati esteri, punito, come si è detto, con 10 anni di palla, era largamente praticato a Napoli, in particolare a favore della Spagna che, in ricordo dei bei tempi andati, aveva ancora un reggimento napoletano. Nel luglio 1804 il generale Lechi, allora comandante della Divisione italo–polacca del corpo d’occupazione francese in Puglia, fece fucilare il reclutatore napoletano Giuseppe di Paolo, accusato con deboli prove di aver subornato soldati cisalpini per farli disertare, provocando un incidente diplomatico col governo borbonico. I reclutatori spagnoli continuarono ad operare clandestinamente nel regno fino al 1808, mentre si aggiunsero borbonici e inglesi, che facevano leva sulla dissidenza politica o sui legami di parentela o nazionali (questi ultimi specialmente per corsi, svizzeri e tedeschi), ma soprattutto offrivano premi d’ingaggio, paghe e condizioni di servizio migliori di quelli franco-napoletani. Il passaggio al nemico avveniva spesso a seguito di cattura, ma anche in modo sistematico attraverso i canali del contrabbando con Messina o con le isole in mano anglo-siciliana (Capri fino al settembre 1808, Ponza fino a tutto il 1809, Ischia e Procida nel giugno-luglio 1809). Del resto anche numerosi corsican rangers catturati a Capri passarono nel Real Corso. Nonostante la rivendicazione di sovranità anche sulla Sicilia, ai siciliani catturati non si applicavano le norme sul tradimento. Del resto non venivano fucilati neppure i napoletani catturati nelle file borboniche, nemmeno se disertori. Coi decreti N. 419 e 425 del 17 e 27 luglio 1809, mentre si confermava in teoria la pena di morte per i sudditi napoletani presi con le armi in pugno a combattere per il nemico, si offriva loro di passare o tornare al servizio del re col grado conseguito al servizio nemico e si perdonavano tutti i militari di terra e di mare rimasti nelle isole (Ischia e Procida) abbandonate dal nemico. Pur non potendo quantificarli, sembra che fossero numerosi, e non solo tra gli ufficiali, i prigionieri borbonici che rifiutavano di passare al servizio francese o napoletano. Neppure costoro rischiavano però la morte, per quanto dura fosse la detenzione nelle galere o nelle piazzeforti di Alessandria e Fenestrelle.

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La diserzione in Spagna (rinvio) Nel luglio 1808 il 2° di linea, composto di galeotti, ebbe 70 disertori e 3 fucilati nella marcia da Mantova a Torino e in settembre, in soli tre giorni d’impiego nell’Ampurdan, altri 250 disertori e 5 fucilati. Nei nove mesi seguenti ne ebbe altri 196, per un totale di 516. La diserzione di massa riguardò tuttavia i rinforzi spediti nel 1810, formati da briganti o criminali comuni amnistiati; e fu organizzata dalla resistenza spagnola, che li avviava a Tarragona, dove venivano imbarcati dagli inglesi e portati in Sicilia. Qui erano in parte ammessi nell’esercito borbonico o inglese, ma parecchi tornarono nel continente, in tempo per essere nuovamente catturati e rispediti in Spagna. Nel 1810 i disertori furono circa 3.400, di cui 1.600 tra aprile e luglio, 400 in agosto e 1.400 dal 1° settembre al 20 ottobre, quando la diserzione cessò di colpo, un po’ perché ormai tutti i buoi erano scappati, e un po’ perché il blocco di Tarragona e il trasferimento della divisione napoletana sull’Ebro resero troppo difficile e rischioso cercare di raggiungere un porto d’imbarco. Per i particolari rinviamo il lettore al tomo II, capitolo 14, paragrafo C. La diserzione nelle marce al Nord e dalla piazza di Mantova (1807-08) La diserzione occasionale, individuale o di gruppo, era provocata in genere da nostalgia, maltrattamenti dei superiori, gravi insufficienze dei servizi logistici essenziali, timore di punizioni o di destinazione in paesi dal clima rigido. Dai resoconti delle marce verso Nord, sembrerebbe che il percorso adriatico (Capua – Pescara – Ancona) fosse meno favorevole alla diserzione di quello umbro: passata la frontiera e le paludi pontine, i soldati disertavano soprattutto a Roma e Foligno, dov’erano attesi dagli ingaggiatori, la cui attività si ridusse ma non cessò del tutto neppure dopo l’annessione del Lazio e dell’Umbria all’Impero francese. Passate le Alpi, i soldati della Penisola non avevano più opportunità di disertare, non solo in Germania ma neppure in Provenza: già da Bologna, però, le accresciute differenze di costumi e di idiomi, la maggiore capillarità dei controlli di polizia e la generale diffidenza verso i napoletani tagliaborse rendevano man mano più difficile trovare sostegno e mimetizzarsi tra la gente. Scarso affidamento si poteva fare sulle scorte napoletane: anche se talora i convogli delle reclute marciavano incatenati e la notte erano rinchiusi in chiese o capannoni sorvegliati, riuscivano sempre, in un modo o nell’altro, a seminare un 5 o 10 per cento di disertori, creando vari problemi di ordine pubblico nelle campagne: nell’aprile 1807 il Teramano fu messo a soqquadro da 50 amnistiati disertati dal 2° di linea durante la marcia di trasferimento a Mantova, base intermedia verso i Pirenei.

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Il clima di Mantova era talmente micidiale, soprattutto d’estate, che Napoleone aveva ordinato di tenervi di guarnigione solo truppe di poco conto. Il 6 luglio 1807 venti amnistiati del 2° di linea, tra cui l’intera guardia al bastione Sant’Alessio, disarmarono la guardia di Porta Pradella e scalarono le mura, aiutati da una donna napoletana che aveva procurato loro abiti borghesi. La fuga verso Napoli durò poco: presso Suzzara la guardia nazionale ne riprese 18. In settembre fu fucilato per diserzione un granatiere. Un convoglio di 350 amnistiati, spedito di rinforzo a Mantova e partito il 3 novembre da Napoli, perse 40 disertori in 45 giorni di marcia: la scorta – 30 birri e 100 uomini del 2° leggero – tollerò inoltre che i rimanenti si vendessero strada facendo scarpe e camicie in cambio di viveri. Un altro convoglio partito il 6 marzo 1808, formato di regolari borbonici catturati a Reggio Calabria, seminò per strada 18 disertori. Il 12 maggio il 2° di linea segnalava di aver avuto 72 disertori in 2 mesi e chiedeva il permesso di dare un esempio fucilando i primi due catturati. Nel solo mese di novembre 1807 il 1° consiglio di guerra permanente del governo di Napoli giudicò 20 disertori (17 artiglieri di cui due operai, 1 cacciatore, 2 fanti del 2° leggero e del 3° di linea), con 16 condanne a 12 anni di palla, una a 10, una a 4 e due (gli operai) a 5 anni di ferri. Il manifesto della sentenza relativa ad uno dei rei del 2° leggero, di nazionalità francese, era bilingue. La diserzione dei rimpiazzi e degli amnistiati (1808-12) Nel rapporto al nuovo re del 3 settembre 1808, il ministro della guerra Saliceti spiegava che il richiamo alle armi delle classi più giovani della leva borbonica del 1805 aveva prodotto un nuovo tipo di disertori, ossia i rimpiazzi ingaggiati dai comuni per completare i loro contingenti senza ricorrere al sorteggio. Inizialmente i comuni erano liberi di ingaggiare rimpiazzi anche di altre province: si determinò così un vero mercato, non di volontari ma di disperati i quali, arraffato l’ingaggio e il vestiario dato alle reclute dal governo, si eclissavano alla prima occasione, magari ripetendo il colpo sotto altro nome e in un’altra provincia. Il diritto al rimpiazzo, sia individuale che comunale, fu mantenuto anche dalle leve murattiane, ma limitato prescrivendo che i rimpiazzi fossero presi nello stesso comune. Saliceti aveva avvisato Murat che il fenomeno era “considerevole”. Il 20 giugno 1809 il re scriveva al colonnello del 2° leggero, che in due mesi aveva avuto 110 disertori su 1.726 effettivi, di dire in adunata che gli aspiranti disertori erano liberi di imbarcarsi a Gaeta per la Sicilia, ma che sarebbero stati giudicati in contumacia e, se ripresi, fucilati davanti al reggimento. Il 14 luglio scriveva a Napoleone che il battaglione del 3°

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di linea inviato a Roma aveva avuto 150 disertori su 800 uomini, per la voce che sarebbero diventati ciechi se restavano al servizio dei sovrani scomunicati dal papa. Il 5 settembre aggiungeva però con soddisfazione che il reggimento non aveva avuto un solo disertore su 2.200 uomini in addestramento, pur contando nelle sue file 250 galeotti amnistiati. Il 4 ottobre protestava invece per il disservizio della sussistenza francese in, Italia centrale, che aveva costretto gli ufficiali del 1° leggero a vendersi gli orologi per sfamare i soldati e provocato 30 diserzioni, soprattutto tra Foligno e Spoleto, dove erano state incoraggiate da persone del posto. Le leve murattiane produssero moltissimi renitenti, ma pochi disertori. Anche nel regno e in Italia, come in Spagna, a disertare erano soprattutto rimpiazzi e amnistiati. Uno, disertato nell’aprile 1810, era ad esempio un ex-brigante, amnistiato per aver ammazzato il capocomitiva: promosso informatore della polizia, era finito nell’esercito solo a seguito di nuovi efferati delitti. Nel solo bimestre aprile-maggio 1810, il consiglio di guerra permanente della Marina giudicò 95 disertori: 85 contumaci (tutti condannati a 5 anni di ferri, tranne 2 a “castigo economico per la minore età”), e 10 in contraddittorio, di cui 7 assolti, uno condannato a 5 anni di lavori forzati e due a 3 anni. Il 20 maggio Murat graziò 55 disertori del Real Corso e 46 individui della gendarmeria ausiliaria. La diserzione organizzata dagli ingaggiatori nel regno di Napoli non faceva poi distinzioni di nazionalità. Fu contagiato anche il 22e légère, ultimo reggimento francese rimasto nel regno per controllare la piazza di Gaeta: «cette désertion ne peut avoir lieu que dans le Royaume de Naples», chiosava Napoleone il 16 febbraio 1812. La diserzione per non finire in Germania (1813) Uno dei benefici indiretti della renitenza alla leva, era di scremare i reggimenti di potenziali disertori. Come fra i coscritti francesi e italiani, anche fra i napoletani il tasso di diserzioni crollava dopo sei mesi di servizio, il tempo necessario per l’ambientamento. Diversamente da come ci appare oggi, la prospettiva di essere impiegati in guerra non era di per sé un incentivo alla diserzione: a fare paura non era la morte, ma la fame, il freddo, la prigionia. La partenza per la Russia suscitò più entusiasmi che apprensioni: si pensava che sarebbe stata una gloriosa passeggiata estiva, occasione di svago e di pingue bottino. La Divisione napoletana ebbe pochissimi disertori, quasi esclusivamente fra i veliti a piedi (che, essendo ricchi, avevano maggiore considerazione di sé), e nessuno più dopo il Brennero. La diserzione cominciò invece a serpeggiare fra le truppe rimaste nel regno, alla fine del 1812, un po’ per le cattive notizie dalla Russia, ma

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soprattutto per il peggioramento del sostegno logistico, conseguenza di un esercito molto sovradimensionato rispetto alle risorse disponibili. «Disertai perché scoraggiato e morto di fame», dichiarava un arrestato nel suo interrogatorio del 16 gennaio 1813, aggiungendo di non essersi portato appresso «vestiario o arme, per non averne ancora ricevuto». La diserzione esplose in aprile, con la partenza del 4° leggero e poi del 2° cavalleggeri per la Germania, e col ritorno dei primi rimpatriati da Danzica, i cui racconti sul rigore del clima nordico sparsero il terrore nella truppa. Il 21 maggio, come abbiamo visto, fu decretata, per due mesi, la caccia ai disertori e refrattari in tutte le province del regno. Al 14-18 luglio il diarista De Nicola annotava che c’erano moltissime diserzioni tra le truppe che, per sottrarle ad un’epidemia scoppiata al campo di Capodichino, erano state trasferite sulle colline di Napoli: si diceva inoltre che il re minacciava di punirle con la morte. La notte sul 29 le stesse truppe furono impiegate per effettuare una retata notturna dei disertori nascosti nella capitale, e il 1° agosto furono ritirate negli accampamenti. Il 19 agosto la Reggente – con studiata esagerazione – si giustificava col viceré Eugenio del mancato invio delle truppe richieste per il corpo d’osservazione dell’Adige dichiarando che le truppe, impressionate dai racconti dei reduci sul clima della Germania, stavano disertando in massa, addirittura 750 in 4 giorni, e con armi e bagagli. Inoltre la diserzione «par bandes» aveva inondato le campagne di briganti, che le poche truppe rimaste bastavano a tento a contenere. Il 22 agosto anche l’ambasciatore austriaco Mier scrisse a Metternich che tutto il paese era infestato dai briganti, e che la truppa avrebbe disertato in massa se avesse ricevuto l’ordine di partenza. La diserzione nelle campagne del 1813-14 e 1815 Le diserzioni di massa cessarono in autunno, quando si sparse la certezza del prossimo passaggio del regno nel campo degli alleati. Ve ne furono però ancora alla partenza per l’Alta Italia: il Monitore del 24 novembre scrisse che il re, sdegnato dalle diserzioni verificatesi nel 5° di linea, gli aveva ordinato di restare a Napoli perché indegno di marciare con le altre truppe. Mosso infine alla clemenza dalle proteste e dalle suppliche degli ufficiali, aveva accordato al reggimento di “marciare ai punti più pericolosi”. Secondo il colonnello Tschudy, i disertori del 5° erano appena 26, ed era stato il generale Carrascosa, suo nemico, ad ingigantire la cosa per screditarlo agli occhi del re. Secondo Guglielmo Pepe le diserzioni furono massicce soprattutto nel 9° di linea, composto di renitenti graziati: oltre ad un migliaio disertati nella marcia da Napoli,

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a Fano ne disertarono in gruppo un altro centinaio, armati e facendo fuoco contro la guardia: quattro, riacciuffati, furono subito giudicati e fucilati. Il 4 febbraio 1814 furono arruolati ad Ancona 72 disertori del 6° di linea italiano. Lo stesso giorno, a Modena, un civile implicato in un complotto di diserzione fu condannato a 9 anni, mentre i 7 imputati militari (il più vecchio dei quali appena diciannovenne) furono fucilati in piazza tre giorni dopo. Il 14 febbraio, sempre a Modena, fu perquisito il ghetto nella vana ricerca di 10 disertori, e fu pure arrestato il rabbino. Il 18 Murat graziò un disertore condannato a morte, ma altri due furono fucilati a Modena il 24 e il 25 (un granatiere ventottenne del 1° di linea che si era avventato con la sciabola contro un ufficiale e un calabrese ventunenne disertato dal 3° di linea), e ancora uno, due volte recidivo, a Napoli il 26 (nonostante il suo colonnello avesse chiesto la grazia). Il 22 fu concessa l’amnistia ai disertori italiani che si arruolavano nella guardia dipartimentale del Tronto, ma il 19 l’intendenza di Avellino segnalava di non poter reperire i fucili dei disertori, venduti o nascosti. Il 12 marzo si promettevano ai gendarmi e alle guardie nazionali del Tronto 30 lire di premio per l’arresto di un disertore, ma lo stesso giorno, alla Taverna di Calvano presso Silvi Marina, una banda di 100 disertori armati di fucile liberò 41 coscritti del 6° italiano tradotti da Ancona a Pescara, sopraffacendo la scorta (fornita dal 2° di linea). Il 9 aprile D’Ambrosio segnalava che il 9° di linea aveva avuto 50 disertori in due giorni, tutti con armi e bagagli. Ancora il 22 maggio fu fucilato a Lucca, per diserzione, il lanciere Ferdinando Conca: un’altra esecuzione vi fu a Teramo il 15 luglio, una a Iesi nel febbraio 1815. Gli esempio erano inefficaci, se ancora il 31 agosto 1814 si segnalava un nuovo aumento delle diserzioni. Il 22 e 29 ottobre il ministro austriaco a Roma, Lebzeltern, segnalava a Metternich e al maresciallo Bellegarde che la diserzione delle truppe napoletane non accennava a diminuire, e che era provocata dall’irregolare corresponsione del soldo e da “ripugnanza” al servizio militare. La diserzione nella campagna di Tolentino (1815) Già nella fase iniziale della campagna di Tolentino, l’Armata di Murat fu investita da un’ondata impressionante di diserzioni, cominciate com sempre prima nelle retrovie che al fronte, e sicuramente almeno in parte motivate da dissidenza politica o dalla facile previsione della sconfitta. Già il 1° marzo 1815, “attese le frequentissime diserzioni” in marina, si dava disposizione di trasferire nella linea i marinai ripresi. Il 23 marzo vi

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fu presso Tolentino uno scontro a fuoco, con 2 morti, fra 48 disertori del 9° di linea e finanzieri, gendarmi e soldati leali. Ignorando l’episodio, Dalrymple si stupiva che le colonne in marcia su Bologna avessero avuto pochissime diserzioni: ma le cose cambiarono presto, perché già il 4 aprile, durante il combattimento del Panaro, la 1a Divisione ebbe almeno 300 disertori. Il 7 aprile il comandante della gendarmeria transpadana (l’ex 2a legione della gendarmeria italiana), colonnello Piella, e vari sindaci segnalavano al prefetto del Reno, Agucchi, un gran numero di disertori, quasi tutti della 2a Divisione, che scorrevano le campagne spargendo il terrore. Il 10 aprile il commissario generale Pellegrino Rossi raccomandava ad Agucchi di adoprarsi per l’arresto dei disertori e ordinava alla guardia nazionale di concertarsi al fine con la guardia di finanza. La diserzione dilagava anche nella Guardia, in Toscana: il 7 aprile Nugent ordinò alle autorità granducali di accogliere bene i disertori e avviarli con foglio di via a Livorno. Il 15 aprile Lord Burgersh valutava a 1.200 i disertori della guardia in Toscana: la cifra corrisponde con la forza di 1.518 raggiunta il 6 maggio dalla legione austro-napoletana comandata dal colonnello Church, abbastanza inquadrata e animosa da poter essere impiegata sul fronte del Liri, dove la 4a Divisione di riserva si era sfaldata davanti a pochi partigiani e soldati papalini. Il 7 aprile, da Velletri, il maresciallo di campo Roche scriveva al capo di SMG Millet che molti soldati del 10° di linea disertavano per passare nelle truppe pontificie: l’11 il console napoletano a Roma, Zuccari, confermava che il governo pontificio arruolava i disertori. Il fenomeno si accentuò ulteriormente durante la ritirata da Bologna: il 22 aprile la Brigata Haugwitz rastrellò sugli Appennini 400 disertori delle tre divisioni di linea fuggiti dalla linea del Ronco; lo stesso giorno il generale Bianchi scriveva a Frimont da Montevarchi che la diserzione imperversava sempre di più nell’amata nemica e che ogni giorno aumentavano i disertori che si presentavano alla sua avanguardia. A partire dal 6 maggio, la diserzione si trasformò in sbandamento di intere brigate superstiti della battaglia: i soldati si dirigevano senz’ordine verso casa, frammischiati ai pochi reparti ancora inquadrati. Passando per Teramo, 2.000 superstiti della 1a Divisione vendettero in massa le uniformi in cambio di cibo. I decreti dell’11 maggio da Sulmona e del 15 da Napoli ordinavano agli sbandati di riunirsi a Capua, ma la guardia di sicurezza si preparava a impedir loro l’entrata nella capitale.

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Appendice 4 La condanna a morte di Gioacchino Murat La decisione politica e l’imputazione giuridica (10 ottobre 1815) Impegnato nella pacificazione del regno, il governo borbonico non mancò di cercare un accordo con Murat, che a Bastia e poi ad Aiaccio progettava rivincite e insurrezioni. Nel settembre 1815 il ministro Medici mandò in Corsica, con l’incarico di dissuaderlo, l’ex segretario generale della Capitanata Ignazio Carabelli e il fratello Simone, capitano dei Corsican rangers, ma la missione non mutò le decisioni e il fato di Murat. Informato per telegrafo che la mattina dell’8 ottobre era stato catturato a Pizzo Calabro, il consiglio dei ministri si riunì il 10 alle nove. Alla seduta prese parte anche il ministro inglese A’Court, il quale, contro l’opinione espressagli dal corpo diplomatico, si pronunciò per la condanna a morte del maresciallo, decisa all’unanimità. Secondo lo storico Weil, A’Court era informato che anche Metternich aveva già autorizzato una soluzione di questo tipo. A mezzogiorno fu spedito al comandante della Calabria, maresciallo di campo Nunziante, l’ordine di; a) riunire un consiglio di guerra o commissione militare per giudicare Murat quale «pubblico nemico»; b) procedere all’esecuzione non appena emanata la sentenza e sbrigati i conforti religiosi; c) fare lo stesso per i nazionali catturati insieme a lui e d) attendere ulteriori ordini circa gli stranieri. In termini più precisi, l’imputazione era quella di “cospirazione interna” (art. 87 della legge penale del 20 maggio 1808): un reato che, in base al decreto borbonico del 28 giugno, era giudicato col rito sommario della commissione militare, le cui sentenze erano inappellabili ed eseguite entro 24 ore. L’interrogatorio di Murat a Pizzo Inseguiti e catturati sulla spiaggia dai paesani che avevano aperto il fuoco dai balconi e dalle finestre, i 30 murattisti erano stati presi in consegna, perquisiti e interrogati dal capitano Gregorio Trentacapilli, della gendarmeria di Cosenza, che si trovava a Pizzo in licenza, ospite del fratello Raffaele. Trentacapilli consegnò poi a Nunziante effetti e carte di poco conto, e trattenne invece i documenti più compromettenti che spedì direttamente a Napoli al comandante del corpo Cancelliere: fu anche sospettato di aver preso per sé parte dei 22 brillanti che ornavano il fermaglio di Murat. L’ex re denunciò poi al relatore della commissione

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militare di aver subito violenze durante la perquisizione. Sfuggito a misure di rigore grazie al principino di Canosa, Trentacapilli fu fatto colonnello e commendatore del Real Ordine di San Ferdinando e del Merito, con dotazione annua di 1.000 ducati. Il giudizio e l’esecuzione (13 ottobre 1815) Dopo l’arresto Murat aveva scritto a Ferdinando, a Metternich, alla moglie, al viceconsole inglese di Messina, convinto che tutti sarebbero intervenuti per liberarlo e punire quelli che l’avevano offeso. L’illusione cadde nel pomeriggio del 12, quando Nunziante, ricevuto l’ordine del governo, gli comunicò con vivo dispiacere che l’indomani avrebbe dovuto essere processato per alto tradimento. La commissione da lui nominata era presieduta dal suo capo di SM Giuseppe Fasulo [il quale proveniva dalla gendarmeria ed era stato promosso aiutante generale in aprile]. Gli altri giudici erano il colonnello legionario di Catanzaro, Raffaele Luigi Scalfaro [fatto barone 13 mesi prima dall’imputato], i tenenti colonnelli Tommaso Lanzetta (genio) e Saverio Natoli (marina), il capitano Francesco Devouge ed i tenenti Matteo Cannilli e Francesco Paolo Mortillaro. Pubblico ministero era il procuratore generale di Monteleone (Giovanni La Camera), relatore Frojo, segretario Francesco Paparossi e difensore d’ufficio il capitano Starace. Interrogato da Frojo, Murat negò la competenza della corte, precisò di chiamarsi “Gioacchino Napoleone” e non “generale Murat”, si dichiarò prigioniero di guerra, e rifiutò di comparire, rimettendosi al difensore. In dibattimento, l’incompetenza del consiglio fu eccepita anche da Starace, ma per la sua composizione: dato il grado dell’accusato, doveva infatti essere formato da soli generali. Altri rilievi riguardavano la nullità degli atti istruttori, compiuti di propria iniziativa da un ufficiale in congedo temporaneo; la mancanza del corpo del reato (bandiere, passaporti, carte); l’istituzione della commissione (decisa la mattina del 10) prima della conclusione dell’istruttoria (“spedizione del processo”, avvenuta nel pomeriggio dell’11). Dopo l’escussione di 5 testi sulle circostanze dello sbarco e la requisitoria dell’accusa, fu pronunziata la sentenza già scritta. A Murat fu concesso il tempo di scrivere una lettera d’addio alla famiglia e di ricevere i conforti religiosi amministrati dal canonico Masdea. Fu fucilato nel cortiletto del castello di Pizzo, comandato dal capitano Stratti, che concesse al condannato di comandare lui stesso il fuoco. Pare abbia detto: «Bravi soldati, coraggio, ecco tirate!». Lo spazio era tanto stretto che le canne dei fucili quasi toccavano il suo petto.

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Da Storia Militare del Regno Murattiano, t. III, pp. 183-241 30. LA LEGGE MARZIALE CONTRO BRIGANTI E CARBONARI

A. La giurisdizione militare e speciale sotto re Giuseppe e Saliceti (1806-08) Le nuove autorità di polizia Con editto del 22 febbraio 1806 Saliceti fu nominato “segretario di stato della polizia generale del regno”, organizzata con altro del 28, che incaricava il “ministro della polizia generale” “della pubblica sicurezza, del buon ordine e della tranquillità interna”, investendolo (fino a “diffinitiva organizzazione”): • • •

della sovrintendenza generale sulla posta delle lettere e dei cavalli; del controllo sulla polizia municipale, la sanità e l’illuminazione pubblica; della facoltà di far arrestare e detenere le persone accusate di delitti di stato, concedere le licenze di caccia e di porto d’armi e fare regolamenti sulla stampa e i teatri.

Erano poste agli ordini e alle immediate dipendenze del ministro le autorità periferiche di polizia (a Napoli il commissario generale di polizia e i 12 commissari di quartiere, nelle province i presidi e poi gli intendenti). Il commissario generale (e i presidi) erano incaricati: • • • •

della spedizione dei passaporti per l’uscita dal regno e della concessione delle carte di sicurezza e di ospitalità agli stranieri residenti, esclusi i ministri francesi e gl’impiegati dell’Armata; dell’esecuzione delle norme di polizia relative alle locande e della vigilanza sulle case da gioco e “luoghi di dissolutezza”; della prevenzione e repressione di attruppamenti e tumulti; della prevenzione e dello spegnimento degli incendi;

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della vigilanza sui luoghi e sugli addetti al pubblico smercio (fiere, mercati, piazze, stazioni di vetture pubbliche, rivendite ambulanti) e sull’edilizia pubblica e carceraria.

Dietro autorizzazione del ministro, il commissario generale poteva emanare specifici regolamenti, corrispondeva con l’autorità militare e aveva ai suoi ordini i commissari dei quartieri, gli ispettori delle piazze e dei mercati e quelli dei porti e a sua disposizione la gendarmeria, con facoltà di richiedere l’intervento della forza armata. I commissari di quartiere esercitavano la polizia giudiziaria sui delitti puniti con pene superiori a 8 giorni di detenzione o 12 carlini d’ammenda, con potere di ordinare l’arresto o la comparizione e con obbligo di verbalizzare. Con determinazione N. 50 del 27 marzo furono nominati il commissario generale di polizia (Onorato Gaetani dell’Aquila d’Aragona, 9° duca di Laurenzana) e 12 commissari di quartiere, tra cui “Lamanna figlio”, ossia Gabriele, figlio del giudice Gregorio Lamanna, già “capo subordinato e assessore” per la città di Napoli del capo della polizia borbonica (Troiano Marulli duca d’Ascoli). Gli altri erano Gregorio Muscari, Giuseppe De Stefano, Michele Lopez Fonseca, Francesco Sedati, Francesco Canofari, Pietro Vollaro, Giuseppe Laghezza, Pasquale de Laurentiis, Giuseppe Castaldi, Luigi Trenca e Alessandro Vitale duca di Tortora. Furono inoltre nominati un commissario di polizia nel porto di Napoli (Audibert), uno per le isole e il litorale del Golfo [Monglas, che tredici mesi dopo avrebbe arrestato a Castellammare il presunto attentatore del re] e tre per i circondari di Casoria, San Giorgio a Cremano e Mugnano. Da Genova Saliceti si era portato Antonio Maghella, già referente di Saliceti nel governo della Repubblica ligure e nella sua annessione alla Francia nonché nella leva di 2.000 marinai per la marina imperiale [l’ambasciatore cisalpino a Genova, Giulio Cesare Tassoni, l’aveva definito, in un dispaccio del 19 novembre 1800, «noto per i suoi delitti», mestatore, austriacante, fautore della controrivoluzione.] L’entourage del ministro includeva il corso Cipriano Franceschi [suo intendente personale]; il giureconsulto toscano Tito Manzi [già professore giacobino all’ateneo pisano, poi segretario generale del consiglio di stato e di fatto capo della polizia politica napoletana, divenuto dopo la restaurazione informatore di quella austriaca]; il capuano Alessandro d’Azzia [sostituto procuratore regio presso la corte d’appello di Napoli nonché capo della divisione ministeriale della città e governo di Napoli, che secondo il colonnello borbonico Carbone divenne poi estortore abituale degli incauti trovati in corrispondenza compromettente con Palermo]; e infine l’ex-tenente del corpo reale Pietro Colletta [radiato dall’esercito, sopravvissuto col gioco e con temporanei incarichi civili

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per il prosciugamento delle paludi di Fondi e il terremoto di Napoli sino all’arrivo dei francesi, redattore, dal 1° marzo 1806, del Monitore di Napoli e in predicato come preside di provincia, infine nominato, su raccomandazione di Saliceti, primo tenente della compagnia artisti d’artiglieria e inviato all’assedio di Gaeta, poi capitano del genio, aiutante di campo di Parisi e giudice militare del tribunale straordinario della Campania]. Con determinazione del 31 marzo furono istituiti i comandi militari delle province (“commandances de province”), incaricati dell’alta polizia militare, del mantenimento dell’ordine, della difesa della costa e delle comunicazioni, della formazione delle guardie provinciali e della sorveglianza e polizia degli ufficiali senza truppe residenti o distaccati nella provincia. Con decreto del 26 luglio furono regolati i rapporti tra i comandi provinciali e le Divisioni territoriali. Il controllo delle armi da fuoco (det. 23 marzo e L. 26 agosto 1806) Con determinazione N. 39 del 23 marzo furono revocate le licenze di porto d’armi da fuoco concesse dal passato governo, con obbligo di dichiararne il possesso entro 8 giorni ai commissari di quartiere (a Napoli) o ai governatori (nelle province), sotto pena di tre mesi di prigione e 500 ducati d’ammenda, raddoppiata in caso di recidiva. Le nuove richieste di autorizzazione al porto d’armi dovevano essere indirizzate al commissario di polizia (a Napoli), al commissario di campagna (nella Terra di Lavoro) o al preside (nelle altre province). Con legge N. 158 del 26 agosto 1806 fu vietata anche la semplice detenzione di armi da fuoco nel proprio domicilio non autorizzata dal ministro di polizia generale nel limite di quote massime provinciali, eccettuati i militari in attività di servizio e le guardie provinciali o civiche. Le richieste, corredate da certificato di buona condotta e attaccamento al governo rilasciato dal commissario di polizia di quartiere (a Napoli) o dal sindaco (con visto dell’intendente), dovevano essere presentate al commissario di polizia di Napoli o all’intendente provinciale e inoltrate al ministro tramite il governatore di Napoli o il comandante militare provinciale. Erano autorizzate perquisizioni domiciliari diurne alla presenza del commissario di quartiere o del sindaco. I contravventori erano puniti con la confisca delle armi, tre mesi di prigione e ammenda di 500 ducati, raddoppiate in caso di recidiva. La detenzione non autorizzava al porto d’armi, concesso solo se indispensabile per l’esercizio dell’impiego: il porto non autorizzato era punito in via correzionale ad arbitrio del commissario di polizia di Napoli o dell’intendente provinciale. Fu inoltre bandito un concorso per

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l’illuminazione pubblica della capitale dal tramonto alle 2 del mattino: iniziata il 16 novembre l’installazione dei lampioni nelle strade, fu inaugurata il 15 dicembre. Il controllo delle armi comportava anche la responsabilità per la custodia di quelle regolarmente detenute. Con circolare del 24 ottobre l’intendente dell’Abruzzo Citra comminava ai comuni e ai privati che si fossero fatti disarmare dai briganti senza opporre resistenza un’ammenda pari al triplo del valore delle armi. Le esecuzioni sommarie dei volontari borbonici e le rappresaglie Il 2 marzo, a Sapino (SA), un parlamentare inviato dal maresciallo di campo borbonico Minutolo aveva notificato al generale Compère, comandante dell’avanguardia francese in marcia verso la Calabria, che parte delle reclute e i volontari dei corpi volanti, privi di uniformi, avevano comunque speciali contrassegni militari (in particolare la coccarda o il pennacchio rosso) e dovevano perciò essere considerati legittimi combattenti. Secondo Luigi Blanch i francesi ne avrebbero preso atto, ma nelle sue memorie Compère travisa l’episodio di Sapino, presentandolo come una ridicola e proterva minaccia borbonica di fucilare i prigionieri francesi (v. Le Due Sicilie nelle guerre napoleoniche, I, pp. 367-68), forse col recondito scopo di giustificare gli “esempi” che rivendica di aver ordinato nello scontro di Lagonegro del 6 marzo. Fucilazioni di prigionieri senza uniforme vi furono anche a Campo Tenese, sommariamente giustificate con gli usi di guerra del tempo, per non parlare delle esecuzioni sommarie (spesso all’arma bianca o mediante impiccagione) di civili (spesso inermi, inclusi donne e bambini) presi nei paesi che avevano fatto resistenza (salvo speciali amnistie accordate nei patti di resa dai comandanti di provincia o di corpi d’assedio). La geografia delle rappresaglie (v. Le Due Sicilie, cit., II, p. 486, tab. 112) sembra confermare l’amaro proverbio cilentino “Cristo s’è fermato ad Eboli”: ad eccezione di Civitella del Tronto e di Sora, tutti gli altri 40 paesi e borghi saccheggiati, dati alle fiamme e talora massacrati dai francesi nella fase più acuta dell’insurrezione (dal 9 marzo al 27 dicembre 1806) si trovano infatti a Sud di Eboli (8 nel Cilento, 1 in Basilicata e 31 in Calabria). Comportamento più umano si ebbe invece nelle altre province: il 31 maggio, ad esempio, Saliceti rimproverava il preside dell’Aquila per la distruzione delle case dei briganti a Pacentro. L’illegale condanna del marchese Rodio (25 aprile 1806)

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Grande impressione suscitò nel regno l’esecuzione del marchese Giambattista Rodio, giudicato con rito sommario da una commissione militare. Dal punto di vista giuridico la questione verteva sulla qualità di legittimo combattente di Rodio, in quanto colonnello e ispettore dei corpi volanti alla frontiera. Questi ultimi erano stati disciolti dalla regina con ordine del 3 febbraio, ma l’ordine era stato implicitamente sconfessato dal re, che il 27 febbraio, da Palermo, aveva nominato i direttori dei corpi volanti di Salerno, Basilicata e Calabria. Rodio era stato catturato in Basilicata (in uniforme e insieme al suo stato maggiore e a 31 dragoni) il 14 marzo, pochi giorni dopo la rotta di Campo Tenese. Trasferito a Napoli, rinchiuso a Castel Sant’Elmo, incriminato per cospirazione e dichiaratosi non colpevole, il 25 aprile fu assolto. La sentenza fu però impugnata da Saliceti, il quale fece convocare una commissione di revisione che dieci ore dopo, in base a nuove prove documentali, emise la condanna a morte mediante fucilazione alla schiena. Paul Louis Courier riferì in una lettera l’opinione corrente che la morte di Rodio fosse «un assassinat et une basse vengeance». Il nuovo re, che al momento del giudizio era impegnato nella sua ispezione alle province meridionali e che, nella sua qualità di avvocato, era ben consapevole dell’assoluta illegalità della procedura, scrisse poi a Napoleone che Saliceti l’aveva informato a cose fatte. La sua corrispondenza prova che mentiva: aveva scritto da Catanzaro (il 21 aprile a Masséna e il 24 a Saliceti) di sbrigare la faccenda prima del suo trionfale ritorno a Napoli. Del resto Saliceti mantenne il portafoglio e il 15 maggio fu incluso nel consiglio di stato. La Commissione militare di Napoli (D. N. 116 del 14 luglio 1806) Con una retroattiva sanzione politica alla procedura usata contro Rodio, il decreto N. 116 del 14 luglio attribuì al ministro di polizia generale l’azione penale per i “delitti contro la pubblica sicurezza” (ossia brigantaggio, “assassinio” sulle strade pubbliche, spionaggio, arruolamento a favore del nemico e corrispondenza con esso allo scopo di rovesciare il governo). La cognizione era devoluta ad una commissione militare sedente a Napoli, composta da un colonnello presidente, 1 capobattaglione, 2 capitani di cui uno relatore, 1 tenente e 1 sottotenente, nominati dal governatore generale di Napoli. La commissione comminava le pene previste dal decreto del 1° marzo; le sentenze, inappellabili, dovevano essere eseguite entro ventiquattrore. In caso d’insufficienza di prove, gli indiziati restavano a disposizione del

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commissario generale di polizia oppure erano rimessi ai tribunali ordinari (che, in caso di condanna, comminavano pene straordinarie). La punizione per l’eccidio di Augusta del 1799 Napoleone aveva ripetutamente intimato al governo borbonico di fare giustizia sull’eccidio di 89 militari francesi (inclusi l’aiutante generale Beauvais, i colonnelli Poitevin del genio e Charbonnel d’artiglieria e il commissario Fournier), molti dei quali feriti o ciechi per oftalmia, compiuto il 10 febbraio 1799 dalla plebaglia nel porto di Augusta, dov’erano sbarcati reduci dall’Egitto. Il governo borbonico aveva sempre risposto che gli autori erano rimasti ignoti e che le prove di colpevolezza delle autorità locali erano equivoche. Benché la strage fosse avvenuta in Sicilia, il nuovo regime si rivalse sul barone del luogo, incautamente rimasto a Napoli, giudicato e condannato a morte come istigatore, insieme al fratello, al curato e al farmacista, tutti impiccati in piazza Mercato. Le Commissioni militari in Calabria (L. N. 125 del 31 luglio 1806) Il 28 luglio, informato dell’insurrezione calabrese, Napoleone scriveva sprezzante e furioso al fratello “troppo buono” di “non perdonare i calabresi”, di farne fucilare seicento, sempre meno dei soldati che gli avevano “scannato”, di distruggere 5 o 6 villaggi e di confiscare 30 patrimoni come indennizzo ai reggimenti. Il 31 luglio, prima ancora di aver ricevuto la lettera, il re proclamò la legge marziale in Calabria. La legge N. 125 dichiarava le due province “in stato di guerra”, poneva le autorità civili e militari agli ordini del comandante in capo della spedizione (Masséna) e lo autorizzava a nominare commissioni militari con sentenze inappellabili da eseguirsi nelle ventiquattrore. Inoltre le truppe erano poste a carico dei paesi “rivoltati”; i beni dei condannati, anche contumaci, erano confiscati e venduti a rimborso delle somministrazioni per le truppe; i proprietari espatriati erano dichiarati nemici dello stato e puniti con la confisca dei beni; la contravvenzione all’ordine di consegna immediata delle armi da fuoco e proibite era punita con la morte. Si disponeva la chiusura dei conventi che entro ventiquattrore non dichiaravano quali religiosi avessero preso le armi, servito da spie al nemico o istigato alla rivolta, con trasferimento degli ultrasettuagenari in altro convento dello stesso ordine ed espulsione degli altri dal regno, sotto pena di morte se contravventori al bando. Era invece garantita l’esenzione da ogni prestazione alle comunità che consegnavano gli autori degli assassinii e i capi della rivolta. I presidi

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erano infine incaricati di formare uno stato dei danni subiti dai privati “attaccati alla loro patria” e un altro dei beni dei ribelli soggetti a confisca. Presieduta successivamente dai colonnelli Desgraviers Berthelot, Goguet, Thullier, Saint Martin, Monneret, de Duret de Tavel, la commissione militare di Cosenza si comportò, secondo uno storico imparziale come Luigi Maria Greco, in modo “sagace e giusto”: un presidente, in effetti, non lasciandosi ingannare dal rinvenimento di tracce d’arsenico nel pane per le truppe, volle andare a fondo e costrinse i testimoni a confessare che si trattava di una falsa prova costruita per incastrare un giovane fornaio, inviso ad un capitano della civica di cui corteggiava la figlia. Greco riferisce però anche il caso di un giovane, costretto dal padre a seguirlo nei corpi volanti, che rifiutò la grazia offertagli a condizione di fare da boia; e scrive che pochissime furono le assoluzioni, poche le condanne al confino, parecchie quelle ai ferri e molte a morte, anche nei confronti di donne, preti, frati e giovinetti, valutando ad oltre 230 le impiccagioni eseguite solo a Cosenza nel secondo semestre del 1806. Per prassi i cadaveri dei giustiziati venivano decapitati: testa e braccia mozzate erano esposte in gabbie di ferro nei paesi d’origine, sia a monito sia per testimoniare de visu l’effettiva morte del reo (col progredire della civiltà, le precarie e inquinanti gabbiette di ferro a circuito locale furono poi rimpiazzate da artistiche fotografie color seppia e infine da comode gabbiette domestiche a tubi catodici e circuito mondiale). Oltre alle condanne “regolari”, continuarono le esecuzioni sommarie ad arbitrio delle autorità militari, spesso in modi raccapriccianti (impalamento, interramento, rogo), senza omettere prassi tollerate come i linciaggi popolari e la lucrosa vendita dei detenuti ai parenti delle vittime (specie durante le traduzioni da un carcere ad un altro e certificando i decessi come abbattimenti durante tentativi di fuga). I tribunali straordinari misti (legge N. 131 dell’8 agosto 1806) Una settimana dopo la proclamazione della legge marziale in Calabria, la legge N. 131 dell’8 agosto istituì una giurisdizione speciale, intermedia tra quella ordinaria e quella eccezionale delle corti marziali. L’azione penale per i delitti contro la sicurezza pubblica commessi nelle province fu conservata alla magistratura e la cognizione deferita a tribunali misti composti da cinque giudici civili, compreso il presidente, e tre militari di grado non inferiore a capitano, con un segretario e un procuratore regio. I tribunali erano 4 (Salerno, Foggia, Cosenza e Chieti), ciascuno competente per tre province (tenuto conto che il Molise

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era ancora incluso nella Capitanata): da notare che anche le Calabrie erano soggette, in via normale, alla giurisdizione speciale, essendo le commissioni militari istituite facoltativamente, caso per caso e solo per la durata dello stato di guerra. I delitti contro la sicurezza pubblica comprendevano gli omicidi e le rapine a mano armata commessi in campagna o sulle pubbliche vie, gli attruppamenti sediziosi e armati, le unioni clandestine e sediziose, le sommosse popolari, la reclutazione, lo spionaggio e ogni altra colpevole corrispondenza a favore del nemico, la diffusione di libelli e di voci manifestamente diretti a turbare la pubblica quiete e perfino il vagabondaggio. Nella giurisdizione speciale erano inoltre assorbiti gli eventuali reati comuni connessi. I tribunali procedevano d’ufficio, su querela delle parti offese ovvero su denunzia, queste ultime ricevute indistintamente dal procuratore regio, dagli agenti di polizia o da qualsiasi altra autorità militare o civile e sottoscritte dal funzionario ricevente e dal querelante o denunziante (ovvero da loro procuratore speciale). Le sentenze erano inappellabili e dovevano essere eseguite entro ventiquattrore (a pena di nullità). Era comminata la pena di morte per i delitti più gravi e per i soli capi e autori degli attruppamenti e sommosse. L’appartenenza alle unioni clandestine, la custodia di depositi segreti di armi e munizioni e la propagazione di libelli sovversivi erano puniti con la detenzione semplice o ai lavori forzati o con l’esilio temporaneo o perpetuo secondo le circostanze del reato. Per i reati commessi anteriormente all’entrata in vigore della legge continuavano ad applicarsi le pene più lievi previste dal decreto del 1° marzo, ma i processi pendenti presso i tribunali ordinari dovevano essere trasmessi entro otto giorni a quelli speciali. La procedura iniziava col sopralluogo, la verbalizzazione dei delitti e l’inventario degli effetti e carte rinvenuti nelle perquisizioni, alla presenza di due testimoni del luogo. Seguivano l’interrogatorio entro ventiquattrore dell’accusato da parte di un giudice delegato dal presidente del tribunale, con obbligo di menzionare le circostanze attenuanti e le prove addotte a discarico; l’interrogatorio separato dei testi, il trasferimento del reo, entro 3 giorni, alle carceri del tribunale; la pronuncia di quest’ultimo, inappellabile, sulla propria competenza (con eventuale trasferimento del processo al tribunale competente); la notifica entro ventiquattrore all’accusato, con trasmissione in copia ai ministri della giustizia e della polizia criminale; la destinazione di un difensore d’ufficio in mancanza di uno di fiducia, con termine di due giorni per l’indicazione di testi a difesa e la fissazione dell’udienza in data tale da consentirne la presenza. L’udienza era pubblica, con escussione prima dei testi d’accusa e poi di quelli a difesa e facoltà del difensore e

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dell’accusato di interrogare i testi a carico. Seguivano la requisitoria del procuratore, le eventuali dichiarazioni dell’accusato e l’arringa del difensore. La sentenza era pronunciata a porte chiuse. Il numero dei giudici doveva essere o di otto o di sei. In caso di impedimento di un giudice militare o civile doveva astenersi il più giovane dell’altra categoria. In caso di parità prevaleva l’opinione più favorevole al reo. Colletta (Storia, VI, xxvii) celebrava il nuovo rito accusatorio: «Si composero quattro nuovi tribunali, e si dissero straordinari, perché restavano cassi alla promulgazione dei codici. (…) Le antiche barbare forme di procedura furono abolite; un’autorità locale raccoglieva le prime pruove, altra maggiore componeva il processo, il pubblico accusatore accusava il reo; e da quello istante divenivano di ragion pubblica le querele, i documenti, i nomi dei denunziatori e de’ testimonii. Il processo non istava nelle carte scritte, ma nel dibattimento, quando l’accusatore coll’avvocato, l’accusato coi testimonii, alla presenza de’ giudici e del pubblico, disputavano, e dalle opposte sentenze scaturiva la verità e s’imprimeva nella coscienza de’ magistrati e del popolo. Erano i giudici di numero pari, acciò nella parità dei voti la più mite sentenza prevalesse; si ammetteva la privata accusa, scritta e giurata, ma l’accusatore falso era condannato per taglione».

Le amnistie di Masséna (1° settembre) e Reynier (14 dicembre 1806) La legge moderatrice fu emanata lo stesso giorno dell’eccidio di Lauria, il maggiore per dimensioni (1.600 vittime) e l’unico effettuato in Basilicata, ritenuto necessario da Masséna per dare un esempio. Tuttavia già il 17 agosto, non appena ripresa Cosenza e rialzate le forche all’ingresso della città, il maresciallo ordinò di cessare le rappresaglie indiscriminate, cominciando a mandare sotto processo qualche militare per incendio, stupro, esecuzioni o assenze arbitrarie. Il 1° settembre accordò l’amnistia «à la partie du peuple calabrais que des intrigants ont entraîné dans la révolte pour se mettre eux-mêmes à l’abri des châtiments qui méritent leurs crimes», promettendo premi per la consegna dei capi. Anche Lamarque scriveva a fine agosto al capo di stato maggiore C. Berthier di aver risparmiato Catona e Pisciotta, quartier generale dei “briganti”, perché credeva che il re volesse pacificare e non distruggere e che non pagava dei francesi per fare delle sue province un deserto; ciò non gli impedì, pochi giorni dopo, di fare 590 morti a Camerota e Vibonati. L’ordine del 17 agosto non fermò infatti le rappresaglie: in Calabria ve ne furono ancora 15 entro dicembre (e altre ancora l’anno seguente). Il 14 dicembre, da Monteleone, Reynier concesse una seconda amnistia, con esclusione dei capimassa e degli “eccitatori di rivolte”. Gli altri, a condizione di consegnare le armi al comando militare del circondario entro il 31 dicembre e di giurare fedeltà a re Giuseppe con

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l’impegno a non turbare più l’ordine pubblico, potevano scegliere tra l’arruolamento nei corpi franchi calabresi e il confino nel loro paese, in questo secondo caso sotto la responsabilità di tre proprietari del luogo disposti a garantire per iscritto la loro condotta futura. Entro il 10 gennaio 1807 le autorità locali (parroci, sindaci, comandanti della guardia civica e governatori) dovevano inviare ai rispettivi superiori (vescovo, colonnello e intendente) lo stato nominativo delle persone del paese assenti dal momento dell’insurrezione, in modo da poter stilare liste provinciali di coloro che avevano ricusato l’amnistia. Le liste dovevano essere affisse nei paesi, “con ordine ai comandanti e governatori di curare l’esterminio dei renitenti” e gratificazioni per il loro arresto. I favoreggiatori (inclusi i governatori, sindaci e notai autori di false certificazioni) erano trattati come complici e fautori e deferiti alle commissioni militari. Per quanto riguarda l’Abruzzo, alla metà di novembre del 1806 si stimava che nelle tre province l’insurrezione avesse fatto, da una parte e dall’altra, 4.000 vittime, malgrado il passaggio di campo dei principali capi della resistenza. La commissione militare di Teramo, presieduta dal colonnello Orazio Delfico e composta dal comandante della piazza (Guasco, del 32e légère franco-ligure) e da tre capitani civici (tra cui Marozzi, successore di Delfico), due francesi e un sergente francese, comminò decine di condanne a morte. Centinaia, secondo il Coppa Zuccari, le esecuzioni extragiudiziali: nel febbraio 1808 tre quarti dei 400 detenuti spediti da Chieti a Napoli per essere giudicati, furono man mano baionettati durante il viaggio: dei 140 partiti dall’Aquila, 96 furono fucilati nel Piano delle Cinquemiglia. La morte di Brouyère e Fra Diavolo (28 ottobre-11 novembre 1806) Una rappresaglia fu attuata nel settembre 1806 anche contro Sora, dove Fra Diavolo si era brevemente fortificato all’apogeo della sua ultima anabasi. Era ormai già in rotta quando, alla fine di ottobre, il colonnello del 4e chasseurs Noël Brouyère, inviato dall’imperatore a Napoli per illustrare al fratello i dettagli della campagna di Prussia, fu sorpreso e ucciso tra Itri e Fondi. Con decreto N. 224 del 28 ottobre, da Portici, furono concessi alla madre un vitalizio annuo di 600 ducati e l’esecuzione, per rappresaglia, di 11 “briganti” detenuti [il Corriere di Napoli del 16 dicembre 1806 annunciò la decisione di erigergli un monumento funebre sul luogo dell’uccisione, con un basamento capace di contenere un corpo di guardia di 20 uomini]. Arrestato sotto falso nome a Baronissi il 1° novembre, riconosciuto a Salerno e tradotto a Napoli il 3, il colonnello Michele Pezza fu giudicato

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in due ore il 10 da un tribunale straordinario speciale, la cui composizione fu segretata distruggendo l’incarto. La condanna a morte, eseguita l’11 per impiccagione in piazza Mercato, fu deplorata dal colonnello Hugo, che chiese invano di incontrare l’uomo al quale aveva dato la caccia per due mesi e che, a suo parere, doveva essere riconosciuto legittimo combattente. Colletta, invece, la giustificò con la distinzione (ideologica, più che giuridica) tra terrorists e freedom fighters: «Frà Diavolo, se veniva nel Regno con grande o piccolo stuolo di soldati a combattere con regole della milizia, fortunato era ammirabile, sventurato e preso era prigione; ma Frà Diavolo, già assassino, di assassini capo, da assassino operando, in qualunque forma era infame e colpevole. Non si confondano popolo armato e brigantaggio: l’uno difenditore de’ suoi diritti, libertà, indipendenza, opinioni, desiderato governo; l’altro fazione iniqua, motrice di guerre civili e di pubblico danno».

Sotto il profilo strettamente giuridico, l’unico argomento rilevante contro Pezza era di aver usato coccarde francesi per camuffare i suoi uomini da guardia provinciale; sembra certo, peraltro, che la maggior parte indossava un’uniforme (blu con calzoni bianchi secondo alcune fonti, bianca con mostre azzurre secondo il Corriere di Napoli), ancorché non sufficiente a farli identificare come soldati nemici. La retata del 22 maggio e la sommossa del 2 giugno 1807 La giurisdizione speciale era limitata dalla successiva estensione dello stato di guerra e delle commissioni militari anche ad altre province. Con decreto N. 83 del 29 marzo 1807 da Trani, fu abolita la commissione militare della provincia di Bari, trasmettendo i processi pendenti al tribunale straordinario. Un incauto sgarbo a Saliceti (la soppressione dell’incarico di comandante d’armi a Sorrento ricoperto dal nipotino Ignace) costò a Miot de Melito l’incarico interinale di ministro della guerra, che il 15 aprile fu assunto dallo stesso Saliceti. La spedizione borbonica di Mileto offerse poco dopo al superministro il pretesto per rafforzare ulteriormente il suo potere con un giro di vite contro l’opposizione. Ricevuta a Napoli la notizia dello sbarco a Reggio del principe d’Assia, la notte del 22-23 maggio la polizia politica arrestò in tutto il regno 84 oppositori, inclusi molti di rango, pazientemente incastrati nei sei mesi precedenti con l’intercettazione della corrispondenza con Capri (tramite il corso Antonio Suzzarelli, contrabbandiere e postino di fiducia del credulo irlandese Hudson Lowe e agente di Saliceti).

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Un tribunale straordinario speciale condannò la maggior parte alla deportazione a Fenestrelle e una dozzina a morte, inclusi due giovani excolonnelli borbonici, il duca Tommaso Frammarino e il marchese Palmieri. Quest’ultimo fu impiccato alla chetichella il 2 giugno, dopo un vano tentativo di fuga reso possibile da una sommossa popolare arringata dallo stesso condannato e dal cappuccino che lo confortava sul patibolo eretto al Largo dei Castelli sotto il cannone del Castelnuovo. Inizialmente sopraffatti, gli svizzeri e i civici, rinforzati da alcuni corsi, inseguirono i rivoltosi in via Toledo, sparando e caricando alla baionetta. Sembra che sul momento vi siano stati 8 morti e 40 feriti: ma la polizia effettuò subito dopo una retata dei presunti capi sommossa e parecchi (forse 42) furono a loro volta giudicati col rito militare e afforcati il mattino seguente (il frate, accusato dal generale Mathieu e fatto ricercare da Saliceti su ordine diretto del re, riuscì ad eclissarsi). Gli indennizzi alle vittime dei briganti (decreti 4 e 16 giugno 1807) Con decreto del 4 giugno fu stanziato 1 milione di ducati per l’indennizzo delle vittime del brigantaggio. Con decreto N. 159 del 16 giugno furono messi a disposizione del commissario straordinario per le Calabrie 100.000 ducati oro per le famiglie dei caduti nell’ultima incursione (ossia la campagna borbonica di Mileto). Un campione di 21 concessioni (decreti N. 248-49, 263-64, 293-95, 316-21/1807, 1819/1808), per un totale di oltre 20.000 ducati, ne registra una di 5.000 (alla famiglia de Curtis di Rocca Gloriosa, Salerno), una di 2.400 (a Vincenzo Bucci di San Severo, Foggia), una di 1.200, una di 1.050, una di 1.000 e 2 di 100 per danni; una di 2.400 (alla famiglia del comandante civico di Montepagano), una di 1.200, una di 1.000, una di 900, due di 800, una di 600, quattro di 500, due di 400 e una di 200 per l’uccisione del capofamiglia. Il processo per il presunto attentato al re (13 giugno–12 luglio 1807) Il 13 giugno 1807 il commissario Monglas arrestò a Castellammare (si disse su denuncia di una ragazza corteggiata, più probabilmente su delazione di alcuni arrestati del 23 maggio) il sedicente colonnello Agostino Mosca, di Gragnano, già difensore di Maratea e agente di Palermo, con l’accusa di progettare un attentato al re durante la sua visita a Salerno (preannunciata in modo tale da far sospettare una trappola architettata dalla polizia). Condannato a morte (su prove documentali, forse falsificate per tirare in ballo personalmente, come mandante, la regina Carolina, e convalidate da una confessione, forse

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dettata da megalomania o estorta con false promesse d’impunità) Mosca fu impiccato il 12 luglio a Napoli, nella sua rossa uniforme siciliana e completamente ubriaco. In segno di magnanimità, con legge del 13 luglio fu stabilito un consiglio privato del re per l’esame delle domande di grazia (condono o commutazione della pena). Il 28 luglio Saliceti diffuse un rapporto sulla cospirazione, in seguito confutato dal principino di Canosa, comandante della base borbonica di Ponza e indicato da Saliceti come organizzatore dell’attentato. La responsabilità dei comuni per i danni dei briganti (27 agosto) La mancata resistenza contro i briganti era sanzionata dalla prassi militare: ad esempio, con o. d. g. del 7 aprile 1807, Partouneaux punì a tale titolo i comuni di Guardiagrele, Palombara e Villamagna con la fornitura di 500 paia di scarpe al 10e de ligne, raddoppiata se non completata entro 10 giorni. La prassi divenne norma con decreto N. 242 del 27 agosto, che dichiarava “responsabile dei danni provocati nel suo distretto dalle loro incursioni” e tenuta a risarcire le vittime “ogni comune convinta di non avere impiegati contro i briganti tutti quei mezzi di difesa, che era in sua facoltà di adoperare”. La ripartizione era fatta inoltre su tutti gli individui, inclusi gli indigenti, soggetti ad esecuzione personale ad arbitrio del comandante della provincia. I beni di chi avesse invitato i briganti nella sua comune o li avesse comunque favoriti erano confiscati a beneficio della comune assalita. Il parroco che non avesse “adoperata tutta la sua personale influenza per incoraggiare il popolo alla difesa o per persuadere i briganti a desistere dall’aggressione” era passibile di arresto e sospensione dall’esercizio delle sue funzioni. Il processo per l’attentato a Saliceti (31 gennaio 1808) Grazie alla sua passione per il teatro, la notte del 30-31 gennaio 1808 Saliceti sfuggì per poco all’esplosione di un ordigno (“macchina infernale”) collocato sotto il suo appartamento privato da Pasquale Viscardi, giunto appositamente da Ponza. L’attentato fece un morto e 22 feriti, inclusi il genero e la figlia del ministro, incinta di sei mesi (incolume il nipote Ignace). La perizia tecnica sulle cause del sinistro fu affidata a Colletta che ne accertò la natura dolosa. Viscardi riuscì a fuggire, mentre fu arrestato il padre Onofrio, farmacista (con bottega al pianterreno del palazzo di Saliceti) e già membro di un’unione realista del 1799, il quale ebbe salva la vita facendosi delatore del figlio Domenico, poi impiccato a Piazza Mercato. Un terzo figlio, Francesco, denunziato da Pignatelli per opinioni antifrancesi, fu condannato a 15

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anni di ferri. In seguito furono giustiziati altri quattro presunti congiurati, incluso il cavalier Talamo, ricco mercante di Napoli. La prefettura di polizia di Napoli (D. 22 ottobre 1808, titolo III) Il decreto 22 ottobre 1808 per la municipalità di Napoli disciplinò nel titolo III (art. 17-22) le attribuzioni del prefetto di polizia di Napoli, posto sotto gli ordini immediati del ministro della polizia generale, cui spettava l’autorizzazione dei regolamenti proposti dal prefetto. Quest’ultimo era incaricato delle seguenti funzioni: •

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(controllo delle persone): rilascio dei passaporti per l’espatrio dei nazionali e il viaggio degli stranieri all’interno del regno; esecuzione dei regolamenti sulle persone sconosciute, i mendicanti, i vagabondi, con facoltà di disporne la reclusione in apposite case di detenzione; ricerca dei disertori e prigionieri di guerra fuggitivi; (prigioni) polizia delle prigioni e delle case di forza e di correzione, con potere di nomina dei carcerieri, custodi e domestici conformemente al decreto del 7 settembre 1808; la polizia annonaria; la vigilanza sulla vendita delle polveri e dei salnitri; (polizia dei costumi): esecuzione delle leggi e dei regolamenti di polizia sugli alberghi, locande, case mobiliate e di piacere; sulla stampa e le librerie per la tutela dei costumi e della pubblica onestà; (polizia dei teatri e feste pubbliche); sicurezza delle persone, prevenzione di incidenti e mantenimento della pubblica tranquillità nei teatri; disposizioni per il buon ordine nelle feste pubbliche; (polizia urbana); prevenzione di crolli (mediante demolizione, riparazione, puntellamento degli edifici pericolanti) e incendi (con comando e vigilanza sul corpo civico dei pompieri); soprintendenza alla conservazione delle pubbliche strade, dei monumenti e degli edifici pubblici; illuminazione e annaffiatura delle pubbliche strade; esecuzione delle norme sulla spazzatura delle strade, piazze, giardini ed edifici pubblici e dei regolamenti sui condotti di scolo delle acque piovane e sulle grondaie.

Al prefetto spettavano inoltre la prestazione del braccio forte per l’esecuzione delle esazioni fiscali e la richiesta all’intendente dei corpi di guardia dei pompieri e della forza del buon ordine. Aveva infine ai suoi ordini, per l’esercizio delle sue funzioni, la guardia civica e la gendarmeria reale e corrispondeva col comandante della piazza per il servizio della guardia civica e la distribuzione dei corpi di guardia. Le commissioni militari in Calabria e l’amnistia Partouneaux (1808) Nel 1808 le commissioni militari di Cosenza furono presiedute dai capibattaglione Simeoni (artiglieria), Monneret (granatieri reali), de

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Duret (Isembourg), Cristophe (25e chasseurs) e Cassan (20e ligne): Greco le definì «precipitose assai nei dibattimenti per provvedere all’urgente bisogno di spurgare le carceri zeppe di borbonici» e focolaio di una mortale epidemia. Furono emesse tuttavia soltanto 54 sentenze, con 39 condanne a morte, 25 ai ferri (tra cui il cappellano del maggiore Necco) e 20 alla custodia cautelare fino alla pace, 2 rinvii al tribunale ordinario e 27 assoluzioni. Il decreto N. 131 del 12 maggio 1808 deferiva alle commissioni militari e comminava la pena di morte agli individui non appartenenti ad un’armata regolare e in particolare i galeotti sbarcati dal nemico “per turbare la tranquillità pubblica” del regno e “organizzarvi l’assassinio”. In compenso, col bando del 19 maggio da Cosenza, già citato, Partouneaux minacciò pene esemplari ai calunniatori e garantì la tutela agli accusati, invitando i cittadini e le autorità a denunciare gli abusi delle guardie civiche. Con decreto del 5 giugno Compère fu incaricato della distruzione dei briganti nelle diverse province del regno, ma i comandanti provinciali conservarono di fatto l’autonomia. Subentrato il 2 giugno a Maurice Mathieu nel comando superiore in Calabria, Partouneaux proclamò l’amnistia, facendola annunciare nei vari distretti con particolari solennità. Il 3 settembre, su ordine del colonnello degli svizzeri comandante la piazza di Palmi, una solenne processione con l’immagine del Venerabile, tutto il clero e i galantuomini, si recò ai vigneti del Cropo a tre miglia dall’abitato, e vari contadini furono spediti ad annunciare alle comitive che era stata concessa l’amnistia: dovevano presentarsi e giurare fedeltà a re Gioacchino, “alleato a re Ferdinando”; avrebbero ricevuto in cambio una diaria da 8 a 18 carlini, con l’obbligo di non dimorare né a Palmi né a Seminara. Era l’ultima chiamata: se non ne approfittavano, se la sarebbero vista con 2.000 soldati già pronti. Dei sette capi comitiva della zona se ne presentarono solo due, ma l’amnistia indebolì anche gli altri, seminando sospetti e discordie. I delitti contro la sicurezza dello stato nel codice Cianciulli (1808) Il codice penale del regno, elaborato dal ministro della giustizia Cianciulli ed emanato con legge N. 143 del 20 maggio 1808, in 287 articoli, era ripartito in tre soli titoli. Il I (disposizioni generali), dava per la prima volta il sistema del diritto penale, con la divisione, classificazione, competenza ed estinzione dei delitti (artt. 1-45) e la natura e applicazione delle pene (46-76). Le fattispecie erano invece ripartite in “delitti contro la società” (titolo II) e “delitti contro gli individui” (titolo III). Questi ultimi comprendevano omicidio (170-201),

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ferite (202-207), ingiurie e diffamazione (208-221), violenza carnale (222-239), furto (240-271), truffa e falso privato (272-287). Il titolo II era a sua volta ripartito in delitti contro la sicurezza esterna e l’ordine interno dello stato (77-91), violenza pubblica (92-122), abuso di potere, corruzione ed estorsione di magistrati, pubblici funzionari ed esecutori (123-136), vilipendio della religione (137-141), delitti contro la salute pubblica (142-143) e contro la proprietà dello stato e la pubblica fede (144-149), inclusi contrabbando, usura e falsità in misure e atti pubblici. I delitti contro la sicurezza esterna e l’ordine interno dello stato, qualificati “alto tradimento”, erano puniti con la “morte esemplare”, che, in deroga all’art. 68 dello stesso codice, era comminata anche al reo ultrasettantenne. Il tentativo era punito come il delitto consumato, purché la mancata consumazione non fosse dipesa da resipiscenza operosa del reo, che, a seconda degli effetti prodotti, era considerata esimente o semplice attenuante di un grado: l’attenuante era concessa anche ai semplici esecutori che non avessero piena cognizione dello scopo degli atti. Le fattispecie previste erano la cospirazione e la corrispondenza col nemico al fine di rovesciare l’ordine costituito o attentare alla vita del re, la corrispondenza criminosa con qualunque nazione estera che avesse progetti ambiziosi sul regno, gli atti ostili come arruolamenti e leve di truppe e depositi di armi e munizioni, lo spionaggio e la rivelazione di segreti di stato, la presa d’armi contro la patria o nazioni alleate, la violazione dei trattati, le offese agli ambasciatori e ministri esteri, la pirateria contro sudditi di nazioni amiche o alleate, le cospirazioni formate con le forze interne dello stato e i libelli, scritti o discorsi diretti ad eccitare il popolo contro il re o il governo al fine di rovesciare l’ordine costituito (quest’ultimo reato era punito con la semplice deportazione e col bando perpetuo se non era connesso ad una cospirazione, e in via solo correzionale se commesso col solo fine di spargere il malcontento, salvo la maggiore pena in caso di recidiva). L’art. 79 considerava “specialmente rei di alto tradimento verso la patria, gli ufficiali, i consiglieri del re o del governo, militari o politici” che si fossero macchiati di tali atti. Ve ne furono non pochi, soprattutto nel 1814-15 tra i generali, ma nessuno fu ovviamente perseguito, mentre le sanzioni contro la prevaricazione dei magistrati disonesti costarono a Cianciulli il ministero.

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B. Tra pacificazione ed emergenza (1809) La cessazione dello stato di guerra e la missione di Saliceti a Roma Saliceti era stato l’unico civile inserito tra i primi 8 dignitari delle Due Sicilie nominati da re Giuseppe alla vigila della partenza per la Spagna e il direttore generale della polizia Laurenzana uno dei due civili (l’altro era il barone Nolli) fra i primi 57 commendatori. Alla spedizione di Capri Saliceti aggregò anche due commissari di polizia (de Stefano e Laghezza) incaricati di istruire i processi politici contro la popolazione che parteggiava per gl’inglesi. Quest’ultima fu però salvaguardata dal patto di resa convenuto il 16 ottobre 1808 tra Lamarque e Hudson Lowe e che lo stesso Saliceti convinse Murat a ratificare. L’8 ottobre, mentre ancora si combatteva a Capri, Briot e Poerio, di ritorno da Napoli alle loro intendenze, caddero in un agguato nella terribile conca di Campo Tenese e furono salvati in extremis dalla colonna legionaria accorsa da Castrovillari. Malgrado la brutta esperienza, in dicembre Briot trasmise al nuovo re, col suo parere favorevole, la petizione delle popolazioni calabresi che chiedevano la fine dello stato di guerra, sul presupposto che i briganti erano fuggiti in Sicilia per arruolarsi nei Calabrian Free Corps oppure avevano approfittato dell’amnistia. Murat aggiornò di suo pugno la richiesta dei cosentini e anzi mandò a Reggio [come tenente di re, e perciò ritenuto localmente superiore allo stesso comandante provinciale Cavaignac, che pure era divisionario] un “duro” come il colonnello Manhès, il cui primo atto fu il confino a Napoli dell’arcivescovo e la sua sostituzione con un servizievole canonico profrancese. Rinforzato dalla presa di Capri, che Saliceti considerava un suo successo personale, il ministro accrebbe ulteriormente il suo potere: il 7 novembre Laurenzana fu nominato intendente di Napoli e Maghella lo sostituì come prefetto di polizia. Il 14 dicembre furono sostituiti tutti i commissari di polizia di quartiere tranne uno (Pasquale de Laurentiis). La magnitudo del terremoto fu tale da essere registrata dall’osservatorio di Parigi e da provocare un intervento dello stesso imperatore, che il 20 gennaio 1809 scrisse direttamente al suo vecchio commissario politico dell’Armée d’Italie: «un roi qui laisse dans de maines comme les vôtres deux portefeuilles de telle importance il ne peut pas régner, il abdique». Richiamato a Parigi, ma destinato poi a Roma a presiedere la commissione per la riforma amministrativa dei territori pontifici annessi all’impero, Saliceti partì il 6 febbraio, dopo aver restituito il portafoglio della guerra, e supplito temporaneamente da Manzi in quello della polizia generale. Fu perciò a Manzi che il 25 febbraio Murat ordinò di

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far perquisire le case degli aderenti al “partito patriottico” che sognava “la riunione di tutta Italia”; lo stesso giorno ne scrisse a Napoleone, aggiungendo che i «bureaux de correspondance» dei patrioti erano le logge massoniche, finanziate dagli inglesi. Tornato da Roma a fine aprile, Saliceti riassunse il ministero di polizia. L’ordinanza di alta polizia per la Calabria dell’8 marzo 1809 In realtà (come abbiamo visto a proposito della riorganizzazione della gendarmeria) anche Murat intendeva dichiarare la pacificazione del regno a partire dal 1° febbraio 1809. Tuttavia il re concepiva la pacificazione in un modo del tutto diverso da Briot e dal notabilato calabrese: costoro la vedevano come una semplice presa d’atto che l’emergenza era ormai superata, mentre per Murat era un obiettivo politico da conseguire con un’ulteriore stretta di freni, per farla finita una volta per tutte coi briganti. Ciò spiega l’apparente contraddizione tra la dichiarazione di cessazione dello stato di guerra e la successiva ordinanza di alta polizia dell’8 marzo, valida per la sola Calabria, che anticipava i draconiani provvedimenti in seguito disposti col decreto del 1° agosto. L’ordinanza estendeva e quantificava la responsabilità dei comuni per i delitti pubblici non impediti commessi dai suoi abitanti o sul suo territorio e quella dei possidenti e padroni per le persone da loro dipendenti, gravandoli dell’indennizzo dei furti subiti dal procaccio, dai viaggiatori e dai corrieri, del pagamento di un premio di 50 ducati ai militari o civici di altri comuni per la cattura o uccisione di un brigante del luogo, nonché di ammende (applicate con ordinanza dell’intendente) di 200 ducati per ogni paesano datosi al brigantaggio dopo l’8 marzo e di 1.000 per ogni militare ucciso nel territorio comunale, riscattabili solo con la consegna del reo vivo o morto. L’eventuale concessione del perdono era riservata esclusivamente alle più alte autorità civili e militari della provincia. Ai briganti erano accordate ventiquattrore per costituirsi, pena la persecuzione fino allo sterminio. L’ordine di ucciderli era esteso ai “buoni cittadini”, dando incarico agli intendenti di assoldare e organizzare una “forza armata straordinaria”, composta sia da colonne mobili per dare la caccia ai briganti che da agenti segreti (reclutati tra i pentiti) per spiarli e ucciderli. La forza doveva essere finanziata dai proprietari con sottoscrizioni volontarie, anche segrete, che garantivano l’immunità dalle ammende.

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Corti speciali e commissioni militari (decreto 1° luglio 1809) La spedizione anglo-siciliana nel golfo di Napoli provocò ulteriori misure repressive sull’intero territorio del regno. Con decreto N. 447 del 1° luglio la competenza dei tribunali straordinari misti, di fatto aboliti, fu ripartita tra le corti criminali del regno (composte solo da magistrati) e le commissioni militari. Le corti criminali erano però autorizzate a procedere “quali speciali e delegate” (ossia con la stessa procedura sommaria introdotta dal decreto dell’8 agosto 1806). Fino a nuove disposizioni, erano di loro competenza i delitti di cospirazione e corrispondenza col nemico, cospirazione interna contro lo stato e l’ordine pubblico e diffusione di libelli e stampe sediziosi, nonché quelli di brigantaggio, attruppamento e “incesso” (incursione) per le campagne, furto su pubbliche strade o in case di campagna commessi da almeno tre persone. Erano invece deferiti alle commissioni militari gli arruolamenti e la diserzione a favore di nemici e ribelli, lo spionaggio militare e i procedimenti contro gli emigrati che avessero preso le armi contro lo stato. Erano inoltre riservati alle commissioni i casi flagranti e certi di brigantaggio e attruppamento (cattura con le armi in pugno o con documenti inequivoci), e generalmente tutti i delitti di brigantaggio “quando l’urgenza del bisogno” facesse giudicare al re “necessaria questa misura di rigore”. Un decreto del 16 dispose la confisca dei beni degli emigrati in Sicilia con vendita all’asta a beneficio in parte del fisco e in parte delle vittime e dei militari distintisi nella repressione, nonché per il finanziamento di taglie di 20-25 ducati sui singoli briganti e di 500 sui capi. Con decreto N. 419 del 17 fu concessa l’amnistia ai sudditi napoletani che abbandonavano le bandiere del nemico, con facoltà di essere ammessi al servizio di Murat col proprio grado, e sotto minaccia di giudizio militare e pena capitale se presi con le armi in pugno. Con altro del 27 (N. 425) i militari nemici rimasti nelle isole evacuate furono invitati a presentarsi entro otto giorni al prefetto di polizia di Napoli, con promessa di perdono della loro emigrazione e ammissione col loro grado e qualità, e sotto minaccia di essere altrimenti trattati come “spioni del nemico”. L’8 agosto fu approvato anche l’arresto cautelare dei parenti dei principali emigrati (duchi d’Ascoli e del Gesso e principe di Canosa), liberati poi dietro fortissimi riscatti. Il decreto antibrigantaggio del 1° agosto 1809 Nominato in giugno commissario straordinario in Basilicata e Calabrie, con ordine del giorno del 18 luglio da Palmi Poerio notificò le restrizioni al commercio con la Sicilia e le nuove misure repressive

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(incendio dei boschi in cui si rifugiassero briganti, arresto dei sospetti di connivenza senza riguardo alla posizione sociale). L’art. 11 del decreto N. 430 del 1° agosto disponeva che entro un mese dalla pubblicazione “non (dovessero) più esistere briganti nel regno”. Apposite commissioni, nominate dall’intendente e dal comandante militare, dovevano redigere la lista provinciale dei briganti in armi e dei capi notori, pubblicata mediante affissione nei capoluoghi di circondario. Chi si trovava iscritto aveva 8 giorni per presentarsi personalmente all’autorità civile o militare, restando in stato d’arresto sino a verifica del reclamo. Spirato tale termine gli iscritti erano dichiarati “fuorgiudicati” (cioè condannati a morte e a confisca dei beni), con premi di 25 ducati per la loro cattura e di 20 per la loro uccisione, o di 500 se erano qualificati come capi, e con arresto immediato delle famiglie dei capi e dei briganti più noti. In caso di cattura i fuorgiudicati erano deferiti alle commissioni militari, con esecuzione immediata per quelli presi con le armi in pugno e differita, per gli inermi, fino ad accertamento (entro tre giorni) della loro identità e verifica della loro eventuale qualità di capi comitiva soggetti a taglia di 500 ducati. Unico temperamento alla sommarietà della procedura era l’obbligo delle commissioni, qualora sedenti nello stesso luogo del tribunale criminale, di sentire il parere del procuratore generale del re. Nel confermare i perdoni e le amnistie già concessi, si revocava alle autorità civili e militari la facoltà di concederne altri, salvo che ai pentiti i quali avessero preventivamente concordato la cattura o l’uccisione di un capo (e ai quali spettava anche la taglia di 500 ducati). I favoreggiatori volontari erano trattati come i fuorgiudicati: gli aiuti estorti dai briganti dovevano essere denunciati entro sei ore alle autorità locali, pena il deferimento ai tribunali competenti. Colletta (che nel 1809-11 partecipò personalmente alla repressione del brigantaggio calabrese, coi metodi di Manhès) nella Storia del reame di Napoli commentò così il provvedimento: «La facoltà di incarcerare le famiglie dei fuorgiudicati produsse miserevoli arresti; ma si aveva almeno alla crudeltà la certa guida del parentato: la facoltà d’incarcerare i promotori e gli aderenti, vaga, arbitraria, facile agli errori ed agli inganni, produsse mali smisurati ed universale spavento. Tal rinacque il rigore, che se la benignità del re non avesse temperato in molti casi l’asprezza delle leggi, e se gli afflitti non fossero stati ultima plebe, di cui sono bassi non sentiti i lamenti, quel tempo del regno di Murat avrebbe pareggiato in atrocità e mala fama i più miseri tempi di Giuseppe».

L. M. Greco, storico della Calabria Citra, osservò che nel 1809 le commissioni militari di Cosenza emisero pochissime sentenze. Ma il dato si spiega con le esecuzioni extragiudiziali: nei rapporti del 7 settembre e 29 ottobre il sottointendente di Monteleone, de Thomasis,

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affermava, ad esempio, che dei 454 ricercati del suo distretto, 310 erano già stati uccisi e ne restavano perciò meno di un terzo (144). Con circolare del 28 ottobre dell’intendente di Terra di Lavoro, fu proibita la caccia ai bufali con cani e furetti, come si usava allora in molti paesi, perché «non conv(eniva) abituare il popolo, e soprattutto le donne e i fanciulli, al funesto spettacolo del massacro e del sangue». La morte di Saliceti e la successione di Daure (23 dicembre 1809) Dopo aver dato notizia, il 2 luglio, che Maghella era stato insignito della croce di cavaliere delle Due Sicilie, il Monitore del 3 luglio pubblicò una criptica precisazione che “fino ad allora” le funzioni del prefetto di polizia erano state esercitate da Gabriele Lamanna. In ogni modo la spedizione anglo-siciliana dette modo a Saliceti di tornare a Napoli di gran carriera e di dare una nuova dimostrazione del suo sangue freddo e della sua capacità politica sostenendo la regina sua connazionale e scongiurando in extremis il disastroso abbandono della capitale già deciso dall’ondivago Gioacchino. Il 6 dicembre, da Parigi, il re scrisse a Saliceti di arrestare tutti gli amnistiati con una retata notturna simultanea su tutto il territorio nazionale. L’ordine non fu eseguito, perché il 23 il ministro morì improvvisamente, tre giorni dopo una “cena col diavolo”, ossia con Maghella. L’autopsia riscontrò una colica di fegato di origine nefritica, mettendo a tacere le voci di avvelenamento, sufficienti però per precludere a Maghella la successione al ministero di polizia, che fu di nuovo riunito interinalmente a quello della guerra: ma stavolta sotto un militare, il generale Daure. Al cambio si accompagnò tuttavia (con decreto N. 529 del 29 dicembre da Parigi) l’estensione dei poteri del prefetto di polizia di Napoli alla provincia, trasferendo le competenze di polizia giudiziaria dei giudici di pace ai commissari, ispettori commissari e ispettori ordinari di polizia, posti a tal fine alle dipendenze del procuratore generale. Secondo l’Almanacco di Corte del 1810, il ministero aveva sede al N. 287 della Riviera di Chiaia. Il capo gabinetto centrale, Brechon, era incaricato di trasmettere, regolare e distribuire la corrispondenza e le decisioni del ministro nelle divisioni, dirigere la corrispondenza segreta e istruire gli affari di cui il ministro si riservava l’esclusiva cognizione. Capo della divisione della città e provincia di Napoli era Alessandro d’Azzia, sostituto procuratore regio della corte d’appello di Napoli, capoburò era Gaetano Pecheneda. Il contrasto tra intendenza e magistratura a Cosenza (1809-10)

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Se il notabilato locale temeva la legislazione d’emergenza che, col pretesto di tutelare la proprietà privata e l’ordine pubblico, pretendeva di ficcare il naso nelle clientele sociali e criminalizzare il secolare istituto del “manutengolo” (ossia il contratto di protezione tra un potente e un latitante rifugiato nelle sue terre in cambio di piccoli favori, inclusi le estorsioni e gli omicidi su commissione), la noblesse de robe, potentissima nel Mezzogiorno d’Italia, non gradiva le invasioni di campo dei traîneurs de sabre e degli intendenti che giocavano ai piccoli Saint Just. Passata la prima fase di emergenza si scatenò il braccio di ferro corporativo, ovviamente combattuto ore rotundo, a colpi di cavilli legali, sonori principi universali e ipocrita filantropia. Il più noto di questi conflitti di potere, ben raccontato da Luigi Maria Greco, riguardò l’amnistia collettiva concessa nell’agosto 1809 dal generale Amato alla banda Bisceglia. Il procuratore generale di Cosenza impugnò infatti l’atto di clemenza nei confronti di uno solo degli amnistiati (Ferdinando Aiello), come reo di omicidio aggravato dalla qualità della vittima (il sindaco Mansi). Malgrado il crescente contrasto con Amato, l’intendente Briot lo sostenne contro i togati, incurante di scontentare così il notabilato cosentino, fino a provocare l’intervento del ministro della giustizia Ricciardi che il 21 dicembre ordinò il processo. Anche Amato fu indirettamente sconfessato dal suo superiore, generale Cavaignac, comandante delle Due Calabrie, che il 25 gennaio 1810 fece effettuare una retata notturna di tutti gli amnistiati della provincia che non avevano ottemperato al minaccioso ordine, dato pochi giorni prima, di presentarsi a Cosenza (misura geniale: ne sfuggirono parecchi, che ovviamente ripresero a fare i briganti, incattiviti dalla mancanza di parola). Ancor dopo il rinvio a giudizio di Aiello (20 febbraio) Briot ostacolò il processo con tattiche dilatorie, ma la visita di Murat (19-24 maggio), l’inchiesta segreta e il trasferimento di Amato e Briot (18 settembre) consentirono di portare a termine la vendetta legale ed esemplare del notabilato cosentino.

L’abolizione delle commissioni militari (decreto del 10 giugno 1810) Malgrado pagine infami come l’esecuzione del duca d’Enghien e il Dos de Mayo, dovuti del resto più al servilismo verso Napoleone e ad incapacità di comando che ad un temperamento sanguinario, Murat desiderava essere amato e teneva perciò ad apparire e anche a sentirsi interiormente magnanimo. Il 10 maggio 1810, alla partenza per la grande

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impresa dello sbarco in Sicilia, decretò una nuova amnistia, con termine di presentazione al 4 giugno, poi prorogato al 15. Come abbiamo già detto, la sosta a Cosenza (dal 19 al 24 maggio), e in particolare il rapporto riservato dell’ordinatore Colbert sul carcere provinciale e sugli abusi di forza, lo riempirono di sdegno. Con decreto N. 652 del 27 maggio da Monteleone, Murat ristabilì il regime costituzionale in tutta l’estensione del regno, restituì l’alta polizia alle autorità civili revocando il potere di arresto agli ufficiali di linea e legionari e abolì le commissioni militari, devolvendo le loro competenze alle corti speciali di cui al decreto del 1° luglio 1809. Con o. d. g. del 28 maggio il capo di SM Grenier comunicò ai comandanti di divisione che dal 1° giugno le autorità militari non potevano più impartire ordini a quelle civili né arrestare un suddito del re: la disposizione non si applicava però “alla polizia militare della piazza di Napoli né tampoco alla gendarmeria”. Secondo Colletta, Murat graziò un brigante il quale, condotto da lui in catene presso Palmi, l’aveva scaltramente lusingato raccontando che il giorno prima, appostato fra le rupi, aveva avuto l’occasione di sparargli, ma non ne aveva avuto il coraggio, folgorato dall’«aspetto grande e regio» di Gioacchino. Il 10 giugno, da Scilla, il re decretò il deferimento alle corti criminali ordinarie della cognizione sugli abusi commessi “dai gendarmi e qualunque altro militare” sugli imputati in stato di arresto, custodia o traduzione. Il 9 giugno scriveva a Napoleone, da Scilla: «il était bien temps, sire, que je vinsse visiter ce malheureux pays que j’ai trouvé en proie à l’anarchie, aux factions et au plus affreux brigandage. J’espère rémedier à ces maux par les mesures énergiques que j’ai prise. La plus salutaire de toutes est sans doute celle d’avoir rendu la haute police à l’autorité civile. Depuis quatre ans les deux provinces de Calabre étaient absolument gouvernées militairement et la contrebande de détail s’y faisait d’une manière effrayante par tous les militaires et par tous les pêcheurs. Je dirai même franchement à V. M. qu’il est impossibile de l’empêcher entièrement et qu’il n’y a que la prise de la Sicile pour y mettre un terme». La responsabilità civile dei comuni (decreto del 21 giugno 1810) Questa misura moderatrice fu però bilanciata dall’inasprimento, con decreto N. 672 del 21 giugno, del principio della responsabilità civile dei comuni e di tutti gli abitanti per i delitti commessi nel loro territorio “con pubblica violenza da almeno tre persone”. A meno di non avere, in data anteriore al delitto, perseguito ed espulso dal proprio territorio i delinquenti, o di aver fatto certificare l’impotenza delle proprie forze dal

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sottointendente del distretto, i comuni erano tenuti a rifondere integralmente i danni, nonché ad un’ammenda pari ad un quarto del danno in caso di concorso nel reato di un abitante del comune e ad una di 100 o 200 ducati (a seconda della popolazione inferiore o maggiore di 2.000 abitanti) per ogni militare ucciso, mutilato o rimasto invalido nel territorio comunale, a beneficio della famiglia o della vittima. I comuni erano tenuti (sotto la responsabilità del sindaco e dei decurioni) a formare un elenco (aggiornato ogni anno a novembre) di tutti gli abitanti maggiori di 15 anni, nonché un altro speciale degli oziosi, facinorosi e vagabondi, da sottoporre a speciale vigilanza. Provvisoriamente le spese per gli indennizzi e le ammende erano a carico dei 20 maggiori contribuenti; in seguito si sarebbero ripartite tra tutti gli abitanti, portando in detrazione il ricavo dei beni confiscati agli abitanti del paese eventualmente concorrenti nel delitto. Con decreto N. 677 del 23 giugno fu rinnovata l’amnistia ai sudditi che abbandonavano le bandiere nemiche, estesa ai calabresi emigrati in Sicilia, con la promessa di non essere “ricercati per nessuna loro colpa anteriore” e la facoltà di “rientrare liberamente nella loro patria” oppure di essere ammessi, col grado e il soldo goduti, al servizio napoletano. Le corti speciali miste per i fuorgiudicati (decreti 2-3 luglio 1810) Anche i successivi decreti da Scilla riflettevano le apprensioni per il brigantaggio. Così il decreto del 30 giugno che amnistiava gli exbriganti arruolati “per grazia” nei corpi franchi e disertati per tornare al brigantaggio; e i due (N. 690 e 693) del 2 e 3 luglio su competenze e composizione delle corti speciali. Il giudizio sui fuorgiudicati, sempre ristretto al solo accertamento dell’identità personale e all’applicazione della pena, veniva infatti sottratto alle commissioni militari e deferito a corti speciali miste, composte da un numero pari di giudici (6 o 8, di cui 3 o 5 civili, suppliti nei termini di legge ma su chiamata del presidente d’accordo col procuratore generale). La nomina dei tre giudici militari era riservata al re su proposta del ministro della guerra e la chiamata degli eventuali supplenti al presidente (civile) della corte. Di grado non inferiore a capitano, erano inoltre posti, per l’esercizio delle funzioni giudiziarie, sotto la vigilanza immediata del ministro della giustizia. La procedura era accusatoria: l’istruttoria era finalizzata allo “sviluppo della verità nel pubblico dibattimento”. Su requisitoria del pubblico ministero il presidente poteva delegare e far rettificare gli atti istruttori da altro ufficiale di polizia giudiziaria anche fuori del proprio circondario ovvero da uno dei giudici della corte criminale e militare. In compenso veniva accentuato il carattere sommario del rito abolendo

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ogni altra istruzione preliminare al dibattimento e ogni termine e giudizio preventivo per le eccezioni di nullità degli atti e dei testimoni. La corte doveva tuttavia tenerne “quel conto che sarà di giustizia” e restava il termine di ventiquattrore per la notifica reciproca dei testi prodotti dalle parti, fatta salva la facoltà della corte di rigettare gli articoli di difesa non pertinenti, limitare i testi e dispensarsi dall’esaminarli quando ritenesse i fatti già accertati. Era infine consentito il ricorso in cassazione secondo la procedura ordinaria, salvo il termine di ventiquattrore per la trasmissione degli atti da parte del ministro della giustizia e di otto giorni per la pronuncia della gran corte.

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C. Lo stato di terrore in Calabria e Basilicata 1810-1811 La situazione dell’ordine pubblico in Calabria nell’estate 1810 La fase relativamente garantista inaugurata coi decreti di Scilla non sopravvisse alla cocente delusione del re per il fallimento della grande impresa che si era caparbiamente illuso di realizzare contro la volontà di Napoleone. In autunno si scatenò infatti, come ora diremo, la fase più sanguinaria e feroce della repressione, un vero e proprio “stato di terrore”. L’unica differenza tra il rivoluzionario e il criminale comune è che il primo sa (o dovrebbe sapere) quando fermarsi. Ma lo storico degli stati d’eccezione li vede sempre, in ogni epoca e luogo, degradarsi dal ferreo coraggio della necessità politica alla vile voluttà della vendetta e della sopraffazione, prima che gli interessi forti (e forse il tedio che aduggia i piaceri protratti, mai la pietà o il timor di Dio) vi pongano fine. Sempre eseguite da monatti selezionati per esser deboli coi forti e forti coi deboli, è una costante che le repressioni raggiungano il culmine della violenza quando il “nemico interno” è già stato sconfitto sul piano militare e politico, com’era appunto avvenuto in Calabria già nell’estate del 1807 e si era confermato nell’estate del 1809. Il sistema di sicurezza delle coste e delle retrovie terrestri creato alla vigilia della campagna di Calabria dell’estate 1810 aveva dato ottima prova: i tentativi di sbarco erano stati tutti impediti e i conati di guerriglia soffocati sul nascere: ormai la maggior parte dei superstiti dell’insurrezione era emigrata in Sicilia e circa tremila volontari calabresi erano inquadrati nei corpi franchi inglesi o siciliani (v. Le Due Sicilie, cit., II, pp. 815-26). Sappiamo, da un rapporto di Colletta del 23 aprile 1810, che in Calabria Ultra c’erano 420 amnistiati (e che per poterli mantenere aveva dovuto contrarre un debito personale con il clan Gagliardi). Il colonnello borbonico Carbone (lettere del 5, 20 e 31 luglio), che aveva interesse a gonfiare i dati, stimava ancora attive, nelle due province, una decina di bande, per un totale di 1.800 latitanti (di cui 700 controllati da Bizzarro, 400 da Cicco Perri e 300 dal capitano Giuseppe Monteleone Ronca, che l’anno prima aveva comandato i corpi franchi anglo-calabresi alla presa di Zante). Un rapporto del 13 novembre del nuovo intendente di Cosenza, stimava i briganti della provincia a 800-1.000, di cui un quarto presso il capoluogo. Dalle cronache emerge in ogni modo che nell’estate 1810 la guerriglia era ormai finita (a parte due successi riportati da Parafante contro le colonne mobili che gli davano la caccia e l’attacco del 3 ottobre contro la batteria di Cirella) e che anche il banditismo, pur con rari episodi

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efferati che atterrivano la popolazione, tendeva ormai verso la forma tradizionale dello scrocco. E’ illuminante, al riguardo, il caso di Greca, «feracissimo granaio e appartata contrada», ben analizzato da L. M. Greco. I padroni erano i galantuomini di Acri, che avevano finanziato o anche partecipato a ripetute spedizioni contro Friddizza e accusavano i loro enfiteuti di Greca di averle fatte fallire rifornendo e avvisando il capobanda. Taglieggiati da Friddizza, i contadini avevano smesso di pagare i canoni e avevano replicato ai padroni che era troppo comodo atteggiarsi a patrioti sulla pelle degli enfiteuti. Dopo lunghi quanto vani scambi di accuse, alla fine era prevalso il buon senso e si era cercato un modus vivendi con Friddizza, facendogli chiedere, tramite intermediari, di «scusare le ostilità come unicamente cagionate da superiori comandi irrecusabili; e come riuscite vane per riguardo dei legionari non già avversi ai battaglioni volanti, ma per vero sentimento loro soccorrevoli amici, nemici solo alle apparenze». Il despota delle Due Calabrie Abbiamo già tratteggiato la figura di Manhès, figlio di procuratore del re, capitano al seguito di Murat dal 1805, campagne di Capri, Cilento e Scilla, salito ai vertici del regime grazie alla fama di mangiapreti e ad un matrimonio eccellente, rivelatosi, nel 1815, inetto a comandi operativi. Commendatore delle Due Sicilie, generale di brigata il 25 marzo 1810, comandante superiore delle province di Chieti e L’Aquila, considerato il “pacificatore” degli Abruzzi, il 29 luglio Manhès fu nominato comandante della 6a Divisione militare (Due Calabrie e Basilicata), avendo alle proprie dipendenze, quali comandanti provinciali, il generale di brigata Laboulaye e l’aiutante comandante Montigny (noto alle cronache cosentine per aver rapito da un convento la famosa Grazia De Pretiis di Amantea, rinchiusa dai parenti per la “vergogna” di essere stata stuprata da un sanguinario capomassa, già assassino dei suoi tre fratelli, in seguito amnistiato e ucciso a sua volta da un sicario, ufficialmente per una faida tra ex-capimassa). Comandanti dei distretti della provincia di Cosenza erano il maresciallo di campo Vincenzo Pignatelli Strongoli (Rossano) e il colonnello Freret (Paola e Castrovillari), della gendarmeria il caposquadrone Genuino. Il 1° agosto (in uno dei momenti di massima depressione circa le sorti della campagna) il re dette istruzione a Manhès di “non togliersi gli stivali finché i briganti non avessero cessato di esistere”. La ragione dell’improvvisa collera di Murat contro i briganti è forse il loro ruolo (testimoniato da un rapporto di Colletta del 13 agosto) nel contrabbando di grano e carne con la Sicilia in cambio di coloniali e zucchero: e

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vedremo (cap. 2, §. D) quanto in quel momento il re fosse assillato dal rifornimento dei viveri. La Medaglia d’Oro Vincenzo Pignatelli Strongoli Pignatelli aggiunse ai legionari una «grossa banda di malfattori, parte indultati, parte sdebitati con la giustizia per espiate condanne», «spargendo il terrore» (L. M. Greco). Inoltre, pur privo dei poteri di polizia, il generale esautorò il sottintendente, l’onesto Vanni, proclamando una finta amnistia con promessa di sussidio, coperse la giustizia sommaria fatta da una vittima contro uno dei costituiti (“non l’hai avuta da me, l’amnistia!”) e il 9 settembre, riuniti gli amnistiati col pretesto di un controllo, li fece scannare sotto il portico del vescovado. Disgustato ma impotente, Vanni riuscì a salvarne 50, scortandoli personalmente fino a Cosenza. I decurioni di Rossano insignirono Pignatelli di una medaglia d’oro per aver «in poco tempo procurato l’esterminio del brigantaggio». L’alta polizia delle Calabrie e l’ordinanza del 9 ottobre 1810 Daure, ministro di guerra, marina e polizia, fu estromesso dalle decisioni relative alla Calabria, prese personalmente dal re: in quel momento, come appare da una sua lettera dell’11 settembre, si sentiva già (ma a torto) sull’orlo del licenziamento da entrambi gli incarichi ministeriali, ambiti – scriveva – rispettivamente da Lamarque e dal duca di Laurenzana. Il 18 settembre, lo stesso giorno della rinuncia alla spedizione di Sicilia, Briot e Amato furono trasferiti, ancora in coppia, a Chieti. Con decreto N. 742 del 24 settembre fu richiamato in osservanza, fino all’aprile 1811, il decreto antibrigantaggio del 1° agosto 1809, ristabilendo le commissioni militari a Cosenza e Monteleone per giudicare i fuorgiudicati e i briganti presi con le armi in mano. Il 27, con decreto N. 745, Murat tolse di nuovo all’autorità civile “l’alta polizia delle Due Calabrie”, attribuita a Manhès, con l’incarico di “liberare queste province dai briganti che ne turbano la tranquillità”, e mise a sua disposizione “tutta la gendarmeria e le legioni provinciali”. Comandanti distrettuali erano Genuino (Rossano), Dufresne (Paola), Manthoné (Scigliano) e G. Labonia (Cosenza): L’8 ottobre la banda Quagliarella uccise il generale di brigata L. de Gambs mentre, da Napoli, si recava ad assumere il comando militare della Basilicata. Con ordine del giorno nella stessa data, Manhès promise di sterminare sia i latitanti che i “grandi colpevoli”, gli “uomini vili quanto perfidi” che li istigavano e aiutavano “con viveri, consigli e

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notizie bugiarde” e di essere “un amico, un protettore, un fratello” per i “buoni calabresi e brave guardie civiche, sempre fedeli alla causa della giustizia”. Con circolare del 9 ai giudici di pace, eletti di polizia e decurioni, li rimproverò per la loro negligenza, minacciandoli di morte ai sensi del decreto del 1° agosto 1809, quali “fautori” del brigantaggio. Con decreto N. 772 del 29 ottobre la schedatura dei banditi fu limitata alle province sottoposte a legge marziale (Calabrie, Basilicata, Principati e Teramo). Con ordinanza di polizia nella stessa data Manhès intimò ai 3.000 schedati calabresi di presentarsi subito alle autorità, sotto pena di essere passati per le armi, con scelta tra l’arruolamento in un corpo militare e il confino con sussidio di un carlino al giorno; prescrisse la presa in ostaggio dei parenti e la morte per il minimo soccorso ai latitanti, con eccidio dell’intera famiglia e abbattimento della casa che, a qualsiasi titolo, avesse dato loro ricetto; ribadì la responsabilità collettiva dei comuni, vietò di portare viveri, foraggi e animali in campagna o tenerne depositi nelle masserie non presidiate, e infine ordinò ai parroci di leggere l’ordinanza dal pulpito. I metodi di Manhès erano così riassunti in un appunto del colonnello borbonico Carbone: a) arresto dei parenti fino al 4° grado, in particolare delle donne; b) confisca dei beni; c) sterminio delle famiglie dei favoreggiatori con incendio della casa; d) continue esecuzioni a Monteleone (spesso costringendo uno dei condannati a fare il boia degli altri); e) improvvise ispezioni del generale nei paesi con esempi immediati e terroristici; f) rastrellamento simultaneo di tutte le Calabrie, approfittando dei rigori invernali per stringere i latitanti in una morsa inesorabile. Il terrore di stato era efficace: solo un pugno di paesi (Bivongi, Spadola, Simbario, Bagnaturo, Gagliano, Gasperina) continuò infatti a subire le minacce dei briganti. L’11 novembre s’insediò a Cosenza il nuovo intendente, il pugnace giornalista salernitano Matteo Galdi, un proscritto del 1794, esule in Francia, impiegato nell’ufficio politico dell’Armée d’Italie, docente di diritto pubblico a Brera, dal 1799 al 1802 ministro cisalpino in Olanda, al servizio napoletano dal 1809 come intendente del Molise: nel suo primo ordine del giorno, del 13, tuonò contro i calunniatori («son di lunga mano avvezzo a conoscere questa genia latrice e infame»), millantò di saper scoprire non solo i fatti, ma anche i pensieri e ingiunse ai funzionari di obbedire a Manhès senza discutere e d’impegnarsi piuttosto nell’abolizione del riparto feudale, decretata quattro anni prima nel regno e rimasta lettera morta in Calabria. Il 7 dicembre Galdi registrava la distruzione della casa e la cattura della famiglia di Parafante, il 16 l’annientamento delle comitive di

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Rosarino e Friddizza e l’uccisione di 500 briganti, inclusi Occhiuzzo e Carnefice, luogotenenti di Parafante, e Luigi Gallo di Melito, eliminato dai compagni per ottenere amnistia e taglia. Con ordine del giorno del 17 dicembre Manhès elogiò i legionari: dei 15 maggiori ricercati, ne restavano solo quattro: Parafante, Bizzarro e Benincasa, per i quali la taglia era raddoppiata a 1.000 ducati, e Friddizza, la cui testa restava a 500 (contro i 600 pagati per Rosarino). Secondo Colletta (Storia, cit.) «di tremila che al cominciare di novembre le liste del bando nominavano, né manco uno solo se ne leggeva al finire dell’anno». La morte degli ultimi Nei rapporti del 29 dicembre, 5 e 8 gennaio 1811, Galdi segnalava la costituzione di quattro capi minori, l’esecuzione di Cicco Perri («con trabante e druda»), la cattura di Carminantonio, la distruzione di una comitiva di 42 maschi e 7 donne ad Acri. Con proclama del 12 gennaio da Potenza Montigny estese alla Basilicata, fino all’uccisione dei “tre mostri” (Taccone, Quagliarella e Carminantonio), le pene previste per i comuni d’origine dei malviventi e l’obbligo di evacuare viveri, foraggi e bestiame dalle masserie non presidiate a cura e spese del padrone. Sorpreso in una grotta grazie alle indicazioni del collaboratore di giustizia Facciale, Cicco Perri sopportò fieramente, assieme alla sua donna, la gogna e le atroci sevizie cui furono entrambi sottoposti a Cosenza prima dell’esecuzione. Dal patibolo maledisse il traditore, il governo e il generale Manhès. Un rapporto di Colletta, del 21 gennaio (confermato da uno del 31 del borbonico Carbone), dava la versione ufficiale sulla morte di Bizzarro, rivendicata, per godere di taglia e amnistia, sia dai suoi compagni (che avevano consegnato la testa mozza alla polizia di Palmi), sia dalla sua “druda” Nicolina Licciardi, scesa dall’opposto versante dell’Aspromonte col resto del cadavere caricato sulle spalle. Con decisione salomonica, la taglia fu divisa a metà, credendo, ma non del tutto, alla granguignolesca versione della donna (entrata poi nel repertorio dei cantastorie) di avergli sparato nel sonno, ancora livida delle botte con cui lui l’aveva azzittita dopo aver sbattuto il loro bimbo contro una roccia, nel timore che il pianto attirasse una pattuglia di legionari; i compagni, troppo vigliacchi per ammazzar da soli quell’Oloferne, si sarebbero limitati a trarre profitto dall’ira dell’Erinni. (Piccavano, ai galantuomini, quelle tozze ninfe in armi nei boschi, le “drude” dei capi comitiva e le 60 “brigantesse” censite dagli intendenti). Friddizza fu catturato l’8 febbraio. Braccato da 1.500 legionari dal 9 al 20 febbraio, rimasto con la sua donna e un solo uomo, Parafante fu

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infine scovato nel bosco Migliuso presso Nicastro. Sulla sua morte fiorirono leggende: che avesse, con un morso, amputato il pollice al legionario che lo scannava; che avesse fatto in tempo a pugnalare il traditore che aveva guidato la colonna e sparato il colpo mortale. La morte non guastò la festa già pronta per lui a Cosenza: Manhès la fece scontare all’intera famiglia, già in ostaggio, condannata a morte in blocco per favoreggiamento. Dal balcone della prefettura, col vescovo e le altre autorità, si godette la consueta sfilata al patibolo, aperta dal fratello prete in groppa all’asino (inforcato, more temporum, a rovescio e col cartiglio infamante sulla schiena), seguito dalle donne, la madre con la testa mozza, la druda e le sorelle ciascuna con un arto del fu Paolo Mancuso, ultimo luogotenente del leggendario pastore Nierello. Costretto col terrore ad eseguire personalmente, manhesiano ritu, l’impiccagione delle sorelle, il pretonzolo svenne: dovette pensarci il boia, rovinando il finale. Ci pensò il re, ad addolcire l’amaro del generale: accordando a lui, stratega dell’ultima operazione, la taglia su Benincasa, sorpreso nel sonno ai primi di marzo nel bosco di Cassano. Secondo Colletta sogghignò udendo la sentenza pronunciata da Manhès: porse con calma le mani al boia che gliele mozzò e gliele appese sul petto; mangiò di gusto, facendosi imboccare dalla scorta, durante la marcia a piedi fino a San Giovanni in Fiore, sua patria; dormì placidamente l’ultima notte, rifiutò i conforti religiosi e salì da solo, regale, sul palco della forca. Il 27 aprile Montigny riferiva che Quagliarella era stato ucciso sulla riva campana dell’Ofanto dai contadini di Ricigliano e l’intera banda Caputo carbonizzata dentro una caverna dai contadini di Forestella di Spinazzola. Un rapporto dell’8 aprile informava dell’uccisione di Taccone (linciato dalla civica e dalla gente di Potenza dopo che si era costituito) e di altri due capi da parte della civica a Pescopagano e Ascoli Satriano.

La sorte dei carcerati di Cosenza e Castrovillari Con decreto del 10 gennaio 1811 Murat attenuò la repressione disponendo il censimento dei casi meritevoli di grazia, individuati da commissioni di scrutinio provinciali presiedute dall’intendente e composte dal comandante militare (a Cosenza lo stesso Manhès) e dal procuratore generale. All’epoca, secondo L. M. Greco, c’erano nel carcere di Cosenza (nell’ex-chiesa dei gesuiti) mille detenuti tra briganti e ostaggi (inclusi donne e bambini), e 600 nella torre di Castrovillari,

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vittime delle violenze, del peculato e delle estorsioni dei custodi (Scorzafave e Minervini, sergenti degli armigeri: il secondo estorceva tangenti promettendo evasioni, concluse invece con la consegna, a pagamento, ai parenti delle vittime). Parecchi si suicidarono con la cantaride o in altri modi, spesso per sottrarsi al patibolo. La febbre carceraria ne uccise 90, soprattutto ostaggi, nell’apposita infermeria di Cosenza e 60 a Castrovillari, finché, il 28 gennaio, su rapporto dell’ispettore di salute Savarese, la commissione di scrutinio non decise di sfollare il carcere di Cosenza. Quattrocento furono spediti a Brindisi e poi altri 400 a Napoli, sotto scorta dei 2 tenenti di gendarmeria ausiliaria (Raggio e Ammirato) che, strada facendo, ne vendettero almeno un terzo ai parenti delle vittime. Secondo Greco lo fecero anche, in altre occasioni, il capobattaglione legionario e protopatriota Abbate, il capitano De Conciliis del Reggimento Isembourg e altri capiscorta. Atrocità ricordate da P. Colletta e L. M. Greco Affettando commozione, nella Storia del Reame Colletta cita tre raccapriccianti episodi, e del primo (l’eccidio di 11 donne e bambini di Stilo trovati in possesso di pane mentre raccoglievano olive in un podere lontano, più l’umiliazione di una contadina, offertasi all’orco gallonato nella vana speranza di ottenere la grazia almeno per il figlio dodicenne) indica anche il responsabile (il tenente dei gendarmi di Catanzaro, Gambacorta) affinché «ne serbi il nome la istoria». Taceva però ai lettori la sua responsabilità personale, essendo all’epoca dei fatti intendente di Calabria Ultra e inserito perciò nella catena di comando da cui dipendevano Catanzaro e Stilo: non lo scusa una delazione postuma su un’infamia che, almeno moralmente, pesava anche su di lui. Gli altri due episodi sono l’esecuzione, a Cosenza, di un vecchio per aver passato un tozzo di pane al figlio latitante (e costretto a «morir secondo, ed assistente alla morte del figlio»); e di una donna di Nicastro, rea di aver allattato il figlio di un’amica, che seguiva il marito latitante nel bosco di San Biase. Oltre a quelle del capitano civico Talarico e di due fratelli armigeri, di cui abbiamo già parlato, Greco menziona altre quattro esecuzioni per favoreggiamento: quella di dieci su tredici ostaggi, parenti di Luigi Priolo, emigrato in Sicilia; quella di due avidi mugnai di Rose; di Maria Antonia de Marco di Pedace, impiccata per aver portato da mangiare al marito Andrea Basile, volontario nei corpi volanti dal 1807, caduto armi in pugno inneggiando alla chiesa e a Ferdinando [come ultima grazia aveva chiesto, e ottenuto, di poter morire a capo velato, come donna onesta che s’era sciolta i capelli solo di fronte al marito: il nodo del

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fazzoletto impedì al cappio di finirla: graziata dal superstizioso mangiapreti, sopravvisse storpiata]. Manhès aveva idee avanzate sugli embrioni: debitamente pregato, degnò concedere la vita a due citoli figli del favoreggiatore Saverio Roda, non al ventre pregno della madre. Draconiano con gli straccioni e i tozzi di pane, non risulta che lo sia stato coi manutengoli eccellenti che brindavano untuosi ai suoi successi. Benemerito della patria Imparziale, Colletta sentenziò del correo (Storia, cit., VII, xxix): «l’immagine di felicità pubblica, nuova e insperata, generò lodi altissime al generale ed al governo. Ma dipoi, satollo del bene, e come usa il popolo per leggerezza ed ingratitudine, andava rammentando le crudeltà delle Calabrie, ai fatti veri aggiungendo i falsi, inventati da maligno ingegno, creduti dalla moltitudine, registrati perfino ne’ libri che dicevano d’istoria. Perciò doppia, buona o pessima, è la fama del generale Manhès; ed io, fra le opposte sentenze, dirò la mia. Egli, inumano, violento, ambizioso, corrotto dalla fortuna e dalle carezze del re, tenendo come principii di governo gli eccessi delle rivoluzioni; ma sommamente retto, operoso, infaticabile, tenace del proponimento, riguardava la morte dei briganti come giusta, e le crudeltà come forme al morire, che, poco aggiungendo al supplizio, giovano molto all’esempio. Credeva necessaria l’asprezza delle sue ordinanze, e, poiché pubblicate, legittimo l’adempimento. La sua opera quale fosse per l’avvenire l’ho detto altrove, considerando i mali e i pericoli che derivano dallo sciogliere i legami di natura e di società, ma fu di presente utilissima. Il brigantaggio del 1810 teneva il regno in foco, distruggitore d’uomini e di cose cittadine; senza fine politico, alimentato di vendette, di sdegni, o, più turpemente, d’invidia al nostro bene, e di furore. E perciò, raccogliendo in breve le cose dette, il brigantaggio era enormità, ed il generale Manhès fu istromento d’inflessibile giustizia, incapace, come sono i flagelli, di limite o di misura».

Secondo L. M. Greco Manhès «ebbe maledizioni segrete, lodi ed onorificenze palesi». Dalla Calabria riportò una sciabola d’onore con la seguente iscrizione: «per ristabilita tranquillità – il distretto di Castrovillari, riconoscente». Con parere del consiglio di stato del 25 gennaio 1811, approvato con decreto N. 908 del 22 febbraio, la città di Cosenza fu autorizzata a conferirgli la cittadinanza onoraria. Non furono tuttavia attuate le delibere di erigergli una lapide marmorea e inviargli una medaglia d’oro. Con ordine del giorno dell’8 aprile 1811 Manhès estese alla Basilicata le norme speciali per la Calabria, minacciando le più severe punizioni contro preti, sindaci, decurioni e proprietari in caso di mancata ottemperanza e contro i paesi che avessero lasciato passare un solo brigante: se i briganti prendevano un solo capo di bestiame l’intera mandria era confiscata. I sindaci dovevano compilare le liste degli atti alle armi, tenuti a 2 giorni di servizio settimanali (pagando un sostituto in caso di malattia), i parroci suonare a martello in caso di pericolo. I

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lavoratori potevano andare in campagna solo armati, in gruppo e senza viveri (inviati a parte sotto scorta) e le greggi al pascolo solo sotto scorta di 30 armati. Meno immemore e ingrata di Cosenza, sotto il fascismo Potenza gli dedicò la rampa che collega la stazione ferroviaria con Porta San Luca: il toponimo è noto, perché vi sorge un palazzo, già sede del consiglio regionale, ora acquistato dall’università. L’opposizione del ministero della giustizia La repressione indiscriminata non mancò ovviamente di suscitare contromisure sotterranee da parte del notabilato che temeva di esserne lambito. In mancanza di indizi diretti, si può solo ipotizzare che vi siano state pressioni discrete dietro il decreto N. 833 del 27 dicembre 1810, da Napoli, che estendeva le competenze delle corti speciali ai protettori, fautori, complici e corrispondenti dei briganti. Il motivo ufficiale era che, “in caso contrario”, “il fine salutare della legge (antibrigantaggio) sarebbe (stato) manifestamente tradito”; ma la sostanza era di sottrarre questi casi delicati alla giustizia sommaria dei militari. Ci siamo già occupati, a proposito della gendarmeria (capitolo 1, §. B) della bocciatura da parte del consiglio di stato (con parere del 22 marzo) della bozza di decreto proposto dal ministro della guerra che sospendeva i procedimenti per violenza nell’esecuzione di un arresto sino al giudizio definitivo dell’individuo arrestato. Un altro parere reso nella stessa data, era però di segno opposto: dava infatti torto al ministro della giustizia, che voleva conservare la competenza delle corti speciali anche sugli amnistiati che, arruolati nell’esercito, disertavano tornando al brigantaggio, e ragione, almeno in parte, al ministro di polizia generale che proponeva di farli giudicare dalle commissioni militari (ma soltanto nelle province in cui erano già state istituite). Murat approvò i due pareri con decreti dell’11 maggio, da Parigi. Nel consiglio dei ministri del 9 maggio il ministro della giustizia Ricciardi si oppose alla proposta del ministro degli interni Zurlo di estendere la legge marziale e le competenze di Manhès alle province di Lecce, Bari e Avellino e criticò le misure stabilite dal generale. Le critiche non vertevano però sulla saevitas, ma sul danno economico che provocavano ai grossi proprietari agricoli, specie d’estate, il divieto di portar viveri in campagna e tenerne nelle masserie e l’obbligo di riunire nell’abitato tutti gli animali del paese e di fare la guardia anche due giorni di seguito (sottraendo un terzo dei braccianti ai lavori). Ricciardi accusava pure il generale di eccesso di potere per non aver esentato magistrati, funzionari e clero dall’armamento e aver “portato la mano” sul giudice di pace di Tolve, con grande scandalo in tutta la Basilicata;

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nonché le commissioni militari di Salerno e Matera di aver condannato a morte o ai lavori pubblici molte persone, inclusa una donna, graziate col decreto del 10 gennaio. Schierandosi con Ricciardi, il ministro delle finanze Mosbourg propose di limitare i poteri del generale, ma quello degl’interni Zurlo difese Manhès, dichiarando che il consiglio non poteva pronunciarsi in merito ai rilievi senza averlo sentito, «per non lasciar esposto alla calunnia un uomo che agiva con vigore e con zelo» e che anche nel caso di Tolve aveva «agito secondo giustizia e bene pubblico richiedevano». Nel consiglio del 16 maggio Mosbourg mutò campo: bocciata l’amnistia generale proposta da Ricciardi, fu approvato invece il mantenimento dei larghi poteri da parte del generale. I decreti del 19 e 20 giugno 1811 su corti speciali e “pentiti” Con decreti del 19 e 20 giugno (N. 1001-02) le future nomine di giudici militari nelle corti speciali furono limitate agli ufficiali in ritiro o riforma, concedendo loro il soldo di attività (agli ufficiali in attività già nominati giudici era invece concessa una gratifica mensile di 30 ducati sul bilancio della giustizia). Con decreto N. 1003 del 20 giugno le commissioni provinciali di scrutinio istituite con decreto del 10 gennaio furono incaricate di classificare “a misura delle loro colpe” i collaboratori di giustizia (“gli imputati che han procurato di espiare le loro colpe con distinti servizi resi allo stato nella distruzione del brigantaggio”), annotando la natura e l’epoca delle colpe e l’importanza dei servizi, facendone poi rapporto, entro il 15 settembre, al ministro della giustizia, per le proposte di grazia da sottoporre al consiglio privato. Nel frattempo erano sospese le esecuzioni dei mandati di cattura e le emissioni di nuovi, a condizione di presentarsi entro il 15 settembre e con decadenza dal beneficio se commettevano nuovi delitti puniti con pena afflittiva o infamante. [Con quesito del 14 agosto Galdi chiese al ministro di polizia un’interpretazione autentica sull’intento del decreto, per chiarire se rifletteva “una politica d’indulgenza” (verso tutti i pentiti) ovvero era “diretto allo stretto interesse di giustizia” (di premiare i collaboranti a seconda dei servizi resi).] Sul presupposto che “la tranquillità ristabilita in ogni parte del regno” consentiva “di diminuire (…) un rigore che (era) stato fin qui tanto penoso al cuore (del re), quanto necessario al ristabilimento dell’ordine”, il decreto N. 1004, sempre del 20 giugno, estese a tutti i briganti presentati o detenuti le disposizioni del decreto del 10 gennaio e limitò la

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competenza delle commissioni militari al solo caso dei briganti presi con le armi in pugno. La grazia ai congiurati di Mondragone e altri atti di clemenza La congiura di Fra Giusto, ricordata da Colletta, per uccidere il re durante una partita di caccia nelle foreste di Mondragone, offerse a Murat l’occasione di mostrarsi magnanimo, graziando, dopo la requisitoria del pubblico ministero e prima della sentenza della corte, i 28 imputati, per i quali erano state richieste sette condanne a morte e ventuno ergastoli. Creato conte il 23 marzo 1811, Daure dovette dimettersi il 17 agosto, quando Maghella mostrò al re le prove irrefutabili della relazione adulterina tra il ministro e la regina, ottenendo in premio il portafoglio della polizia. Con decreti N. 1079 (settembre) e 1108 (ottobre) furono sottratti alle commissioni militari (e dunque alla pena di morte) il furto sulle pubbliche strade e il ricatto e “incesso” per le campagne e attenuate le misure contro il banditismo previste dal codice penale. Immunità per gli abusi di forza e nuove commissioni militari Questi primi segni di moderazione furono bilanciati dalla nomina di Manhès (28 febbraio 1812) a Primo ispettore della gendarmeria e dal successivo decreto N. 1407 del 13 luglio che, rovesciando il parere garantista reso sedici mesi prima dal consiglio di stato, accordò a gendarmi e legionari l’immunità per gli eventuali abusi durante l’esecuzione di arresti ordinati da autorità superiori. Con decreto della reggente N. 1606 del 28 gennaio 1813 fu deferito a commissione militare il giudizio sui briganti calabresi evasi dai lavori pubblici a Brindisi, tenendo conto non solo dei delitti commessi dopo l’evasione ma anche di quelli anteriori e già giudicati. Con decreto del N. 1675 del 1° aprile la polizia giudiziaria nella provincia di Napoli, eccetto che nella capitale, fu tolta ai funzionari di polizia e restituita ai giudici di pace. Con decreto N. 1867 del 29 luglio furono istituite nuove commissioni militari (nominate dal comandante militare su richiesta dell’intendente) per giudicare le contravvenzioni al cordone sanitario stabilito con decreti del 26 e 28 maggio e del 10, 111 e 28 giugno (con esecuzione delle condanne a morte entro 6 ore). Nell’intento di ridurre il brigantaggio a mera criminalità, si usò invece clemenza nei confronti degli agenti inglesi: il Monitore del 24 luglio 1812 dette risalto alla grazia concessa a 14 persone trovate in possesso di passaporti, commissioni e istruzioni di

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Bentinck (due ebbero la pena commutata a 20 anni di reclusione, sei furono sottoposto a misure di vigilanza e gli altri rilasciati).

D. La repressione della carboneria 1812-15 La nuova minaccia della carboneria e la destituzione di Maghella Non entriamo nella vexata quaestio delle origini della carboneria [Colletta la faceva risalire al 1809; la storica Angela Valente retrodata al 1807 in base ad un documento considerato falso da Nino Cortese; secondo l’opinione prevalente sarebbe stata infatti “introdotta” in Calabria e in Abruzzo da Briot, esponente della setta dei buoni cugini della Franca Contea, considerata anche dal generale piemontese Rossetti la casa madre dei carbonari; un rapporto da Milano della polizia austriaca, del 1815, la faceva addirittura risalire al 1718 e alla famiglia Pignatelli, considerandola come una lega del popolo minuto per la difesa della religione e contro i soprusi dei potenti]. Certamente essa fu, tra le sette tollerate nel regno [massoneria, filadelfi, fratelli patriottici – derivanti dalla società patriottica del 1792 e dai due club, repubblicano e moderato, in cui si divise nel 1794 – patrioti europei e infine i “calderari del contrapese” creato con l’appoggio di Canosa per infiltrare le vendite carbonare e, sfuggiti di mano, sciolti nel 1816] la referente degli agenti dell’arciduca Francesco d’Austria Este (genero di Vittorio Emanuele I e futuro duca di Modena) e di lord Bentinck che agitavano l’idea romantica e liberale della resistenza popolare, dell’indipendenza italiana e della costituzione parlamentare contro il dispotismo napoleonico, la cui influenza, iniziata già nel 1809, si estese negli strati superiori della società meridionale a partire dal 1812. Pur senza tener conto del ruolo svolto dagli empori insulari inglesi di Lissa e Ponza nella conquista dei capitali, e perciò dei “cuori e delle menti”, della borghesia italiana creata dal dominio napoleonico ma rovinata dal blocco continentale, Colletta (Storia, cit., VII, liii) testimonia il forte impatto che ebbe anche nel regno di Napoli la pur effimera rivoluzione parlamentare siciliana appoggiata da Bentinck, creando le premesse ideologiche per un’inedita alleanza tattica tra legittimisti borbonici e liberali delusi dal regime murattiano.

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La carboneria era appoggiata alla rete delle logge massoniche [17 nella capitale, 23 in Terra di Lavoro e 304 nelle altre province, secondo il rapporto fatto il 15 marzo 1815 al principe ereditario borbonico dal consigliere di stato Vecchione, noto doppiogiochista]: nonostante la differenze ideologiche (laici i massoni, cattolici i carbonari) i fratelli iniziati potevano avere la doppia appartenenza, e i “cavalieri Kadosh” anche presiedere le vendite. Sul piano politico la carboneria era anzitutto antibonapartista; ma ciò non significava che dovesse necessariamente allearsi coi legittimisti borbonici e non potesse invece cooperare col regime murattiano nel momento in cui difendeva l’autonomia del regno contro l’impero e anzi scendeva in campo dalla parte degli Alleati. La parte più avvertita dello stesso governo, in particolare Maghella, pensava quindi di utilizzarla nel processo di distacco del regno dalla Francia e di riavvicinamento all’Inghilterra, al punto che, secondo Colletta, il ministro tentò di convincere lo stesso re ad assumere la direzione della setta. Le manovre di Maghella non sfuggirono all’ambasciatore e alla polizia francesi: il 29 febbraio 1812 Napoleone incaricò il ministro degli esteri di far notificare al collega napoletano il richiamo in patria del “signor Maghella”, cittadino francese, «prévenu d’intrigues contre la sûreté de l’Empire, et (…) d’intelligence avec les Anglais pour faire un mouvement de soi-disant patriotes en Italie», intimandogli l’espulsione immediata con obbligo di rientrare in Francia, pena l’arresto. Il 21 marzo l’ex intendente di Salerno Mandrini fu nominato prefetto di polizia di Napoli e il 18 aprile il dicastero passò a Ottavio Mormile duca di Campochiaro, il diplomatico che nel 1798 aveva firmato a Vienna l’alleanza con l’Austria e il 13 febbraio 1806 aveva portato a Giuseppe Bonaparte la sottomissione del consiglio di reggenza. Il maresciallo di campo e barone Giuseppe Rossetti, torinese e non ostile alla carboneria, fu poi nominato comandante militare delle forze impiegate dal ministero di polizia, bilanciando così i poteri di Manhès. La svolta repressiva nei confronti della carboneria avvenne infatti solo tredici mesi dopo, con la circolare ministeriale del 7 aprile 1813 [contemporanea cioè all’inizio del negoziato segreto con il comando inglese di Ponza, aperto dallo stesso Campochiaro su ordine di Murat ma all’insaputa del ministro degli esteri Gallo] che invitava gli intendenti a vigilare sulle vendite carbonare. L’esecuzione di “Capobianco” A far precipitare i rapporti con la carboneria, benché non ancora messa formalmente fuorilegge, provvide l’ottuso Manhès, mantenuto al

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comando della 5a Divisione territoriale (Calabria), che [sentendosi anche personalmente offeso dalla scoperta di una vendita carbonara nel 4° di linea Real Sannita, da lui formato in Abruzzo e all’epoca di stanza a Tropea] perseguitò la setta con le commissioni militari e le condanne a morte, senza tener conto (come rilevava Colletta) che «le violenze e le asprezze poco innanzi adoperate contro il brigantaggio non si poteva riadoperarle contro la setta dei Carbonari, perocché il brigantaggio esercitava misfatti, la setta chiedeva leggi; ed erano i briganti i più tristi della società, Carbonari gli onesti: la Carboneria si depravò col crescere, ma in quel tempo era innocente; venne richiesta o approvata dal governo, aveva riti e voti benèfici e civili». Esponente di spicco della carboneria in Calabria era Vincenzo Federici di Altilia, uno dei “patrioti” del 1809, detto Capobianco («giovine potente, audace capitano della milizia urbana nella sua terra»). Non osando andarlo ad arrestare nell’imprendibile Altilia, «si faceva sembiante di non crederlo reo, mentre egli, sospettoso e scaltro, sfuggiva le secrete insidie». Fu preso infine con l’inganno dall’aiutante generale Jannelli, comandante provinciale di Cosenza, che, fingendosi suo amico, lo invitò a pranzo a casa sua con gli ufficiali della legione e le autorità civili ed ecclesiastiche. Temendo un agguato per strada, Capobianco arrivò a Cosenza per vie traverse e con scorta armata, ma fu arrestato dalla gendarmeria dopo il pranzo, appena uscito dalla sala. Condannato a morte il giorno dopo dalla commissione militare, fu decapitato in piazza. L’esempio sparse il terrore, provocando molte fughe in Sicilia. La cautela della reggente (30 settembre e 21 ottobre 1813) Il consiglio dei ministri del 30 settembre cercò di circoscrivere il danno: ascoltati i rapporti, la reggente ordinò infatti ai ministri del culto, dell’interno, della guerra e delle finanze d’inviare circolari riservate («concepite con senno, animo e destrezza») a «tutti quei funzionari che si crederanno capaci di secondare le vedute del governo», con ordine di «screditare e far cessare le riunioni suddette, evitando però di attaccar la società in massa ed i principii ch’ella affetta di professare, perché pieni di filantropia, di beneficenza e di virtù; ma insistendo al tempo stesso vigorosamente sull’abuso che alcuni mal intenzionati (avevano) fatto delle riunioni medesime, ove (erano) stati ammessi, ed ove (avevano) macchinati dei complotti tendenti a ladronecci, ad assassinii, ed a saccheggi delle pubbliche cose». Il consiglio del 21 destituì il rettore, il vicedirettore e alcuni maestri del collegio reale di Cosenza per propaganda carbonara, ma, su rapporto del ministro di polizia, biasimò la decisione di Manhès di aver trascurato la confisca dei beni di

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Capobianco e di aver invece obbligato la sua famiglia a pagare (a Jannelli?) la taglia di 1.500 franchi. La reggente tuttavia non volle revocare il provvedimento, pur disponendo che si facesse “sentire al generale l’irregolarità della sua condotta”. L’ordine del giorno di Murat all’esercito (6 novembre 1813) Secondo Colletta «i più amici di Gioacchino, i più legati alla sua fortuna, non settari, non torbidi, lo pregavano a disarmare la Carboneria con gli usati mezzi di pubblicità e di lusinghe, come già in Francia e tra noi erasi praticato per la Massoneria; ma lo sdegno, potente in lui, lo teneva saldo nel mal preso consiglio». Informato della “congiura” calabrese e delle infiltrazioni carbonare tra le truppe mentre si trovava ancora in Germania, alla vigilia del rientro a Napoli (6 novembre) inviò al capo di stato maggiore Aymé un ordine del giorno all’esercito, in cui, dopo aver garantito che «le truppe napoletane, le quali (erano) in viaggio verso la Patria, d’ora innanzi (sarebbero state) adibite solo per la difesa e l’indipendenza della Patria», manifestava dolore nell’apprendere che «alcuni ufficiali e soldati suoi avevan continuato a far parte di queste società criminali vietate dal governo: il re si (era) dichiarato gran maestro dell’ordine massonico, e ne (sarebbe stato) protettore finché si (fosse comportato) bene. Ma non (avrebbe saputo) tollerare l’esistenza di queste logge di carbonari composte di uomini senza morale, senza fede, infine di nemici del Governo e della patria. In conseguenza, il re (aveva) ordinato di chiudere tutte le logge carbonare del Reame, e in quarantotto ore quelle che (fossero esistite) nei corpi (dovevano essere) ugualmente chiuse; (aveva) ordinato che i registri e gli stati (fossero) rimessi al colonnello che li (doveva far) pubblicamente bruciare, e che tutti gli ufficiali, sottufficiali e soldato che ne (facevano) parte ne (dovevano fare) la dichiarazione al loro colonnello; infine S. M. intima(va) la destituzione a chi non (avesse) in quaranta otto ore dichiarato». L’8 dicembre Maghella rientrò a Napoli da Parigi. Il 21 gennaio 1814 fu nominato direttore generale di polizia degli stati romani e il 28 anche dei dipartimenti meridionali italici, avendo come segretario Domenico Montone, già segretario generale della prefettura di polizia di Napoli. Furono inoltre nominati commissari generali di polizia a Roma Giacomo Zuccheri e a Firenze Giustino Fortunato. In febbraio, Campochiaro seguì Murat in Alta Italia e fu in seguito inviato a Vienna in missione diplomatica. Il ministero, assunto interinalmente da Maghella, passò infine al duca di Laurenzana.

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Il moto carbonaro nel distretto di Penne (19-31 marzo 1814) Neppure un autore attento ai retroscena clandestini come Maurice Weil ha rintracciato interventi di agenti di Bentinck o di Nugent (l’uno cobelligerante e l’altro alleato di Murat, ma entrambi a lui fieramente ostili) nel moto carbonaro scoppiato nell’Abruzzo Ultra I nel marzo 1814; ma la sua concomitanza col braccio di ferro anglo-napoletano circa la base toscana e con le operazioni di Nugent in Romagna, nonché la scelta dei congiurati di riunirsi in prossimità del litorale (nel casino di Vincenzo Clemente in località Castellammare di Pescara) destano qualche sospetto. Secondo Colletta il disegno dei congiurati era di proclamare decaduto Gioacchino e re costituzionale Ferdinando, e il fatto che l’esercito fosse impegnato sul Po contro i resti dell’Armée d’Italie dava loro speranze di poter sollevare il regno e imporsi alle truppe di sicurezza interna. Il piano insurrezionale, definito il 19 marzo, prevedeva d’impadronirsi di Pescara il 25, onomastico della regina, sopraffacendo la guarnigione quando fosse schierata in piazza per il previsto Te Deum. Il colpo fu però dissuaso dalle misure di sicurezza prese dal comandante della piazza, capitano Filieu (Feliù?, Filleul?), avvisato per resipiscenza dallo stesso gran maestro della carboneria pescarese (Gennaro Sabatini). I carbonari di Città Sant’Angelo, più audaci degli altri, decisero allora di agire da soli e il 27, disarmati i 6 o 7 soldati del posto, formarono un triumvirato provvisorio, abbatterono i telegrafi costieri di Silvi e Castellammare per ritardare l’allarme, riunirono 300 guardie civiche e la sera del 29, rinforzati dai contingenti di Penne, Castiglione Messer Raimondo e Penna Sant’Andrea, marciarono su Pescara col tricolore carbonaro (rosso–nero–celeste). Mentre attraversavano la pineta, un colpo partito per errore bastò a gettarli nel panico e a disperderli come passerotti. Il 31 lo stormo ritentò su Teramo, ma a metà strada, dopo un breve scambio di fucilate col battaglione di sicurezza provinciale, volse di nuovo in fuga (secondo Colletta furono e «i provvedimenti dell’intendente Monteiasi ed il sollecito muovere d’alcune squadre di gendarmi» ad impedire loro il passaggio della Pescara). A quel punto il triumvirato si sciolse e, fidando nel perdono, rimise il potere ai funzionari deposti. L’esame in consiglio dei ministri (30 marzo e 1° aprile 1814) Nel consiglio dei ministri del 30 marzo Ricciardi e Maghella si opposero alla richiesta di Zurlo, Mosbourg e Pignatelli di affidare di nuovo l’alta polizia ai comandanti delle Divisioni militari e la reggente deliberò di affidare fino a maggio al generale Amato quella sola dei Tre Abruzzi. Il governo deliberò inoltre di opporre il solo disprezzo ai settari

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perché ogni misura rigorosa sarebbe servita solo «ad indurarli e ad accrescerli». Nella sessione del 1° aprile Maghella e Macdonald comunicarono i rapporti ricevuti da Amato e dagli intendenti e comandanti militari delle tre province, ravvisando una certa debolezza da parte delle autorità civili e in particolare del sottointendente di Lanciano che aveva dato motivo d’istigare la follia dei traviati. Ricciardi concordò sulla necessità di estendere ancora le commissioni militari ma si oppose alla proposta di Pignatelli di aumentare i poteri del consiglio già autorizzato dalla polizia. La reggente deliberò l’invio in Abruzzo di 500 uomini del 1° leggero e la riunione delle truppe a Pescara presso il deposito del reggimento “italiano” (il vecchio 6° di linea, reclutato nelle Marche). Il decreto di Bologna contro la carboneria (4 aprile-1° maggio) Murat fu informato degli eventi dal barone Tulli, accorso a tal fine a Bologna. Secondo Colletta, «essendo nell’esercito molti soldati abruzzesi, uniti a reggimento [il 4° di linea] fu prima cura del re nascondere quei casi». Ma poi, su proposta del ministro degli interni Zurlo, vietò con decreto N. 2068 del 4 aprile le associazioni dei carbonari, punendo ai sensi del codice penale le riunioni successive alla pubblicazione del decreto (cospirazioni contro lo stato, ex–art. 87 e 88) le nuove affiliazioni e il semplice proselitismo (proposizione di cospirazione, ex–art. 90). In compenso l’art. 4 del decreto metteva una pietra sopra il passato, limitando le indagini e l’azione penale ai soli rei delle insorgenze avvenute nel distretto di Penne e del tentato attacco del 31 contro Teramo, puniti con tutto il rigore delle leggi. Il consiglio dei ministri del 7 aprile lamentò che il re avesse ricevuto rapporti esagerati sulla situazione del regno, che in fondo era quieto. Gli unici eccessi degni di castigo erano avvenuti a Civita di Penne e a Città Sant’Angelo, anche se Lanciano era rimasta tranquilla solo per il pronto intervento delle truppe di Amato. Non occorrevano inoltre commissari straordinari: Zurlo era partito con pieni poteri e de Thomasis era in missione all’Aquila. Le uniche persone adatte erano semmai M. Delfico (che era però a letto malato) e il consigliere di stato barone Nolli (impegnato però nella commissione di finanza). Ricevuto il decreto solo l’11 aprile, la reggente ne fece diramare copie a Ricciardi e Maghella e il 15 deliberò che fosse eseguito dai due capi della gendarmeria e polizia, Manhès e Rossetti. Il 13, con decreto N. 2069, la reggente aveva già richiamato in vigore in tutte le province del regno, fino a nuova disposizione, tutte le disposizioni antibrigantaggio del 1° agosto 1809 e 29 ottobre 1810. Il 16 aprile arrivò di rinforzo a

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Pescara, attraversando anche i centri ribelli, la brigata di Florestano Pepe (3 battaglioni dell’8° di linea, 1 squadrone e 2 pezzi). Il 18 la reggente nominò comandante militare di Teramo il generale Montigny, arrivato il 1° maggio con nuove truppe da Chieti, il quale fece subito occupare Civita S. Angelo. L’“intentona” dei generali (Borgo San Donnino, 26 aprile 1814) Intanto la Gazzetta dell’Arno del 21 aprile dette notizia del progetto murattiano di nominare tre commissioni incaricate di predisporre un progetto di costituzione e la riforma del codice civile, della pubblica amministrazione e del sistema tributario. Non credendo alla sincerità del re, il 26 aprile, mentre iniziava il ritiro delle truppe dalle Legazioni, i generali del corpo d’armata (alcuni dei quali creati baroni appena il giorno prima da Murat), si riunirono al quartier generale di Borgo San Donnino per decidere di marciare su Napoli e imporre la costituzione con la forza. Condizionarono però l’impresa al sostegno inglese e inviarono Filangieri a Genova per chiedere a Bentinck un sussidio di 50.000 sterline, pari a due mesi di paga delle truppe. Bentinck pose però la condizione che proclamassero la restaurazione di re Ferdinando e quei velleitari non se la sentirono di essere conseguenti con la decisione d’intromettersi in politica fino al punto di sbarazzarsi cinicamente dell’uomo cui dovevano carriere e patrimoni. Non è noto se Murat abbia sempre ignorato l’“intentona” di San Donnino oppure abbia deciso (com’era nel suo fatuo carattere) di far finta di niente. Del resto, anche se li avesse fatti fucilare, non avrebbe saputo con chi sostituirli. Il divieto di pubblicare la dissociazione della massoneria (28 aprile) Il consiglio dei ministri del 28 aprile esaminò un rapporto riservato di Maghella circa la decisione dei massoni di “espellere dal loro seno” i carbonari e la richiesta di poter convocare a tale scopo una riunione generale delle logge e diffondere un relativo opuscolo a stampa tra i delegati e poi tra tutti gli altri fratelli. Rilevato «che tutta sorta di unioni essendo riprovata dalli Governi ben stabiliti, e che ove talvolta si toll(erassero) ciò (era) per effetto di politiche riflessioni» il consiglio, con l’approvazione della reggente, deliberò di respingere la richiesta della pubblicazione, per non «dare alla (carboneria) una notorietà che serv(iva) a maggiormente scaldare la testa dei settari». L’annuncio dell’intenzione di concedere la costituzione (8 maggio)

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Tornato a Napoli il 2 maggio, il 4 Murat ridusse lo stipendio dei ministri da 10.000 ducati a 6.000 (cifra percepita sotto i Borboni). Il 6 seguirono l’abolizione di varie imposte e una prima liberalizzazione del commercio estero e l’8 l’annuncio, alle deputazioni del consiglio di stato e della gran corte di cassazione, dell’intenzione di concedere una costituzione. Il 10 Carrascosa fu nominato comandante del corpo d’armata d’Ancona e con decreto N. 2107 dell’11 le competenze delle commissioni militari furono limitate al brigantaggio e al tradimento [a) arruolamento a favore del nemico; b) diserzione al nemico; c) spionaggio militare; d) cattura di emigrati in atto di servire contro lo stato; e) cattura di prigionieri di guerra mancanti alla parola di non combattere]. Nuove rivolte in Abruzzo e Puglia (12 e 16 maggio 1814) A placare gli animi non bastava più la politica degli annunci. Il 12 maggio vi fu una nuova rivolta a Montereale (AQ) capeggiata da un fabbro, un calzolaio, un usciere e una guardia campestre; un’altra rivolta a Maglie (LE) il 16, lo stesso giorno in cui il re dava alle nuove bandiere e stendardi dei reggimenti golpisti la divisa “Onore e Fedeltà senza macchia”. Le rivolte indussero il governo a dare un esempio di fermezza e il 15 dispose l’arresto dei capi del governo provvisorio di Civita Sant’Angelo, provocando la fuga di parecchi carbonari in territorio pontificio. Inoltre con decreto N. 2118 del 20 maggio fu aggiunto alle competenze delle commissioni militari un settimo caso, ossia l’arresto «in fragranza o quasi, di clamori o di fatti commessi in luoghi pubblici ad oggetto di eccitare il popolo alla rivolta contro del Governo». [Il 19 maggio, a Torino, 4 cospiratori napoletani e romani avevano partecipato, con 2 corsi, 2 genovesi, 2 italici e 4 piemontesi, di cui almeno sue appartenenti ai Sublimes Maîtres Parfaits, al congresso costitutivo del «piano per la rinascita dell’Impero Romano», e approvato un’adresse che offriva la corona a Napoleone redatta dal consigliere di stato nonché primate teramano Melchiorre Delfico]. Il “pronunciamento” dei generali (Ancona, fine di maggio 1814) La pubblicazione, sul Monitore del 24 maggio, dei decreti di nomina di 4 commissioni per la riforma dei codici civile, penale, di procedura e di commercio, fu interpretata dall’opinione pubblica napoletana come la revoca implicita della promessa di concedere la costituzione. Per la seconda volta Carrascosa riunì al suo quartier generale (ora ad Ancona) i 15 generali del corpo d’armata. Guglielmo Pepe propose di

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rompere ogni indugio e marciare senz’altro su Napoli. Con la sua brigata di Senigallia (rinforzata da un reggimento di lancieri e dal 6° di linea “italiano”, ossia marchigiano) avrebbe marciato per primo per Iesi in Abruzzo, dove avrebbe riarmato i carbonari. Spaventati, i colleghi appoggiarono la proposta temporeggiatrice di D’Ambrosio di limitarsi per ora a firmare un’adresse (“indirizzo”) che intimava al re di proclamare subito, spontaneamente, la costituzione, sotto minaccia di marciare su Napoli. Firmarono in tredici, incluso Colletta (che tace il fatto nella sua Storia): Macdonald e Caracciolo di Roccaromana (non presenti ad Ancona) rifiutarono la firma che, a quanto sembra, fu richiesta in seguito anche a loro. Incluso da Pepe tra gli «eunuchi politici», firmò, riluttante, pure Carrascosa, ma si cautelò informando segretamente il re: lo stesso fece D’Ambrosio. Un re repubblicano In preda all’ira, Murat ordinò a Pepe di presentarsi a Napoli per essere giudicato dal consiglio di guerra: ma invece di farlo arrestare al suo arrivo, lo ricevette a Palazzo Reale e, dopo averlo investito di aspri rimproveri, si abbandonò more solito al melodramma («croyez-vous donc que j’ai oublié que moi aussi, j’ai été républicain?») e si limitò ad ordinargli di restare a Napoli sotto parola d’onore. La pace con l’esercito fu celebrata con la grande parata del 28 maggio a Chiaia, seguita da un banchetto alla Villa Reale offerto alle truppe dal consiglio comunale. Il giro di vite e le condanne esemplari (14 giugno – 13 luglio 1814) A fare le spese del pronunciamento furono i congiurati di marzo, fino ad allora non molestati, perché, preso dal panico, il governo tolse il guinzaglio a Montigny. Con ordine del giorno del 14 giugno, mentre proseguivano le retate di carbonari in Abruzzo, fu inoltre istituita una corte speciale di 4 giudici civili e 3 militari anche a Fossombrone, per giudicare gli attentati alla sicurezza dello stato commessi nelle Marche. Il 15 giugno un rapporto del generale Rossetti raccomandava moderazione, sostenendo che la carboneria era solo la versione italiana della setta francese dei buoni cugini. Ma un paio di settimane dopo Murat rimproverò a Maghella le misure troppo blande decise dal governo in sua assenza: «io non mi ricordo di avervi autorizzato a tali misure; non voglio misure di severità; ma non saprei sopportare ulteriori fastidi da parte dei carbonari». Finalmente, dopo lunghe esitazioni, ci si decise a far giudicare gli arrestati. Il 13 luglio la commissione militare di Teramo emise sei

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condanne a morte, di cui una in contumacia (dottor Michelangelo Castagna) e 2 commutate in ergastolo: il canonico Domenico Marulli, il dottor Filippo La Noce e il capitano Bernardo de Michelis furono fucilati a Penne e decapitati, con esposizione delle teste nei paesi di residenza. A compensare i galantuomini dell’esecuzione di tre di loro, lo stesso 13 luglio, con decreto N. 2182, fu abrogata la responsabilità solidale dei possidenti di un comune per i danni provocati nel loro territorio da briganti non contrastati (introdotta dal decreto del 21 giugno 1810). Toccò a un omicida inaugurare la ghigliottina arrivata a Teramo nel dicembre 1813: per i reati politici e militari si continuò a fucilare. Il 15 luglio toccò ad un disertore unitosi ai briganti, il 22 luglio a tre gendarmi che avevano dato manforte ai carbonari. Dal 9 luglio Murat prese ufficialmente il titolo di re di Napoli, dimettendo così ogni pretesa di sovranità sulla Sicilia. Il 26 agosto, contestualmente all’apertura indiscriminata dei porti, anche alle navi battenti bandiera siciliana, concesse un’amnistia piena e intera ai sudditi che si trovavano al servizio di re Ferdinando, a condizione di rientrare entro il 15 ottobre o di chiedere formale autorizzazione a restare al servizio estero, offrendo ai sottufficiali e militari di truppa che scegliessero di rientrare l’arruolamento in un nuovo reggimento da formarsi a Castellammare, con gratifiche rispettive di 6 e 4 ducati. Il 17 ottobre partirono da Fenestrelle e Alessandria anche i borbonici che vi erano stati deportati dai francesi. L’editto papale contro le sette (24 maggio–23 agosto 1814) I carbonari avevano stampato una pretesa bolla di Pio VII datata Savona 17 luglio 1809, ovviamente apocrifa, in cui la setta era accreditata come sostenitrice della giustizia e della religione, secondo lo spirito evangelico dei primi secoli, e si invitavano tutti a darle assistenza e a propagandarla, non con la violenza ma con la mitezza e l’amore dei peccatori. A Pio VII si attribuiva inoltre di aver dichiarato che i carbonari avevano “sentimenti italiani” e che era italiano anche lui [E’ del resto provata una corrispondenza tra elementi carbonari e ambienti vicini al Sacro Soglio, accomunati dall’antibonapartismo e dalla difesa della religione contro l’impero ateo e anticlericale.] Il 24 maggio, il giorno dopo che le truppe napoletane avevano fatto ala al ritorno del papa a Roma e non appena insediato il nuovo governo pontificio, il re incaricò il ministro degli esteri Gallo di ottenere dal papa la sconfessione della bolla apocrifa. La richiesta entrò nei difficili rapporti con Roma, che poneva come pregiudiziale la restituzione, senza contropartite, delle Marche e delle enclaves di Benevento e Pontecorvo,

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che Murat sperava invece di usare come pegni territoriali per ottenere il riconoscimento del papa. Il 28 maggio il marchese di Montrone, il ciambellano di Murat che, in mancanza di relazioni diplomatiche, curava i suoi interessi a Roma, riferiva a Gallo di aver parlato della bolla direttamente al papa, il quale gli aveva assicurato di aver intenzione di scrivere in generale contro tutte le sette, aggiungendo che i principi avrebbero dovuto fare la loro parte facendo eseguire le bolle di Clemente XI e Benedetto XIV contro la massoneria. Il 14 giugno Montrone comunicava che il papa aveva nominato una commissione di tre cardinali e tre prelati per procedere ad una bolla contro i carbonari. L’editto, emanato in agosto, riguardava però tutte le sette, inclusa la massoneria; in ogni modo Murat se ne accontentò, e il 23 ne trasmise il testo a Maghella, con l’ordine di stamparne 600 copie. La cospirazione di Moliterno e i fuoriusciti nello stato romano Una nuova fonte di apprensioni fu l’arrivo a Roma, ai primi di luglio, del principe di Moliterno (Girolamo Pignatelli), vulcanico cospiratore, consigliere e compagno d’esilio della regina borbonica, tornato da Trieste dopo la morte di lei. Le sue avances con l’amico Roccaromana, rimasto fedele a Murat, furono seccamente respinte e il cavalier Medici, agente borbonico a Roma, lo isolò, giudicandolo «un democratico incorreggibile, amico di tutte le canaglie di Napoli». Zuccari, inviato murattiano a Roma con uffici a Palazzo Farnese, ma riconosciuto dal papa solo come console della nazione napoletana, enfatizzava però la pericolosità di Moliterno. Scriveva direttamente a Murat che il principe faceva la spola con Livorno e Genova per consultarsi con Bentinck, corrispondeva col duca di Laurenzana, nuovo ministro della polizia, aveva contatti coi carbonari, progettava l’insurrezione delle Marche e dell’Umbria, pagava 50 piastre ogni disertore napoletano, prometteva impieghi e sfornava a getto continuo proclami e “indirizzi”. Il re prese la cosa sul serio e già l’8 agosto invitò Maghella a tener gli occhi aperti. Anche Gallo fu costretto a metter le mani avanti, scrivendo l’11 alla legazione napoletana a Vienna che la dinastia era sostenuta dall’opinione pubblica e che il governo disprezzava le trame del principe. Trasformato da Zuccari nel miglior piazzista di Moliterno, il 15 il re ordinò a Maghella di mandare agenti segreti a Sora e all’Aquila per stroncare i complotti di «quel miserabile» e scoprirne i complici, e di inviare circolari allarmistiche agli intendenti (con istruzioni geniali come quella di dire in giro che Moliterno raccoglieva firme a favore di Ferdinando per compromettere le persone). L’intendente di Chieti eseguì con circolare del 23, ammonendo gli amministrati a non credere alle

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«cabale, illusioni, false voci per sedurre le popolazioni, armi da vili intriganti». Il 18 Carrascosa e i generali del corpo d’armata firmarono ad Ancona una nuova adresse, questa volta su richiesta di Murat, in cui gli ribadivano la loro fedeltà ed esprimevano sdegno per una lettera provocatoria fatta circolare a Napoli da Moliterno. Il 27 il re ordinò al capo della polizia di pubblicarla sul Monitore in mille copie da mandare in Sicilia. Il 23 l’informatore di Zuccari (Pasquale Guadagni) gli scriveva da Sora di aver appreso che sulla montagna, al Prato di Campoli, c’erano venti fuoriusciti armati di carabine, «vestiti chi da galantuomo chi da mezzo soldato», venuti dalla Puglia, raccomandati da Moliterno al bargello di Frosinone e pronti a marciare sul regno. Secondo Zuccari i capi del movimento carbonaro in Abruzzo erano, oltre al latitante dottor Castagna, il notaio Rossi, padre Spaventa, il medico Jezzi, i fratelli Ferri di Moscufo (uno dei quali era segretario di Moliterno) e tre militari (il colonnello Casimiro Rossetti, già comandante dei cacciatori Marsi borbonici, il maggiore Pronio e il capitano Rossi). Finalmente, il 9 settembre, Murat informò Maghella che il governo pontificio, cedendo alle pressioni di Zuccari, aveva espulso Moliterno da Roma. Tuttavia Murat continuò a preoccuparsi e l’8 ottobre ordinò a Maghella di far trasferire a Napoli, per precauzione, i tre militari menzionati nel rapporto. Il 9 Montigny confermò che effettivamente 60 briganti pugliesi, molisani e abruzzesi, già implicati nella rivolta, s’erano rifugiati sotto falso nome in territorio pontificio, capeggiati da Fulvio Quici di Trivento (CB), Pasquale Preside di Scerni (CH) e Furia di Panni (FG). [Nel marzo-settembre 1809 Quici aveva operato con una piccola comitiva presso Larino (CH) ed era tenuto in gran conto dalla polizia napoletana, secondo la quale riceveva emissari inglesi ed era consultato dai capi di comitive molto più attive e numerose della sua.] Una piccola sommossa si verificò in novembre a Pacentro (AQ) ad opera di popolani e piccoli borghesi. La centrale “italianista” di Palazzo Gravina (gennaio 1815) Secondo un rapporto del 15 febbraio 1815 del capo della polizia austriaca a Milano (Raab) al capo dell’Oberste Polizei und Censur Hofstelle a Vienna (barone Hager), nel palazzo Gravina di Napoli si tenevano riunioni di alti funzionari e generali napoletani con agenti di Bentinck per provocare insurrezioni in Toscana e nelle Legazioni e proclamarvi l’indipendenza italiana. Secondo Raab il club di Palazzo

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Gravina aveva assunto la direzione della carboneria, corrispondeva col comando del corpo d’armata d’Ancona e aveva ramificazioni in molte città dell’Italia centro-settentrionale, in particolare Firenze, Bologna, Brescia e Milano. Vi appartenevano i ministri Macdonald, Zurlo, Ricciardi e Maghella, tre consiglieri di stato tra cui Poerio (procuratore generale della cassazione), i generali Pepe, Arcovito, Colletta, Pignatelli Strongoli e Lechi, i colonnelli Giulietti e Jordi, e ancora cortigiani (marchese di Montrone e duca Riario) e aiutanti di campo del re (Roccaromana, di Sangro, Châteauneuf). Anche il governo napoletano diffidava della popolazione e dei suoi stessi funzionari. Incaricato dal consiglio dei ministri del 18 aprile di riferire sulla loro affidabilità, Maghella presentò il rapporto già nella sessione del 20 e propose di sostituire subito 5 intendenti (cioè più di un terzo) con commissari straordinari. Un intervento di Ricciardi fece però bocciare la proposta. L’insurrezione di Polistena (19-25 aprile1815) In realtà l’unica insurrezione carbonara si verificò in Calabria Ultra, dove, grazie a Manhès, la setta era ormai controllata dalla carboneria siciliana, di cui si era proclamato capo il principe ereditario e vicario generale del regno Francesco di Borbone. Capeggiata da Domenico Valensise, appartenente ad una potente famiglia di Polistena (RC), l’insurrezione scoppiò il 19 aprile con la cattura del comandante provinciale (il corso Galloni), sorpreso tra Polistena e Laureana mentre attraversava la foresta di Rossano con 30 gendarmi (catturati insieme a lui) e 200 legionari scelti (che lo abbandonarono). Galloni fu poi obbligato a marciare inneggiando all’indipendenza italiana per far credere che si fosse unito spontaneamente agli insorti, decuplicati in due giorni. “Peppino”, il segretario di Galloni, era però riuscito a scappare e a dare l’allarme. Presi al campo della Melia due battaglioni del 4° di linea Reali Sanniti, il comandante divisionale Desvernois intercettò gli insorti a Casalnuovo d’Africo; attaccati alla testa e alla coda dai regolari abruzzesi, i volontari calabresi si sbandarono, lasciando sul campo 53 morti, 150 feriti, 1.500 armi e la bandiera. Occupata Polistena, Desvernois prese in ostaggio il fratello di Valensise (che riparò in Sicilia) e concesse il perdono agli insorti che entro il 23 avessero fatto ritorno alle loro case. L’episodio fu discusso nel consiglio dei ministri del 26 aprile. Si mise in rilievo che gli insorti inneggiavano all’indipendenza italiana e usavano come parole d’ordine “Nazione, Ferdinando, Repubblica e Costituzione”. Si convenne infine di inviare in Calabria il barone Nolli,

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già commissario straordinario in Abruzzo e che «per non eccitare vieppiù il furore delle sette, si (dovevano) quelle disprezzare, o cercare di guadagnarle, avendo per altro su di esse una sorveglianza continua». [Un mese più tardi, il 26 maggio, Maghella fu ricevuto dal principe Leopoldo, entrato il 21 a Napoli col tenente maresciallo Bianchi. Il principe lo confermò provvisoriamente nelle funzioni di ministro di polizia, ma il 4 giugno, a bordo del vascello Queen, re Ferdinando formò il nuovo governo, attribuendo l’interim della polizia al ministro delle finanze cavalier Medici. Lo stesso giorno Maghella ricevette l’ordine di tenersi pronto a partire. Rifiutatogli il passaporto per Genova, il 16 fu spedito a Mantova, dove fu trattenuto dagli austriaci dal 27 giugno al 18 ottobre. Condotto a Pavia e consegnato il 21 alle autorità sarde, fu imprigionato a Fenestrelle. Nel 1834 Carlo Alberto lo liberò e lo nominò sindaco di Varese Ligure: morì a Borsa, Varese, nel 1850.]

Tab. 929 – Membri dei 4 Tribunali straordinari (14 e 20 agosto 1806) (*) Tribunali Province Presidenti Procuratori Regi Giudici civili

1° Salerno T. di Lavoro Salerno Montefusco Sansone Domenico Agresti Michele Presta Gennaro; Valeri; Martucci Giacinto; Marini.

2° Foggia Capitanata Bari Lecce Farina Giacomo Libetta

3° Cosenza Basilicata Calabria Citra Calabria Ultra De Fabritiis Giacinto Calenda Luigi

4° Chieti Abruzzo Citra Abruzzo Ultra I Abruzzo U. II Canofari Scarciglia

Laudari Gatti Stanislao; Melchiorre Saverio; Mazzei Fabrizio; Paolo; Vecchioni De Rinaldis Cipriano Carlo; Giuseppe; Giacinto; Terracina Riola Stanislao. (Arcovito Michele; (mutati il 10 Girolamo); (Michitelli ottobre, v. nota) Mazzoni F. Biagio). Saverio. Giudici ten. col. ten. col. Del cap. Francia magg. Cicconi; militari Amato; Fuerte Franc.; Giovanni B.; cap. ten. col. magg. cap. De Felice magg. d’Espinosa Eusebio; Cecconi; Silvestro; Ferdinando; col. Salinetti cap. Pietro cap. Navarro ten. col. de Witte Pasquale Colletta. Pasquale. Antonio. segretari Beneventano Fournier (Minieri) Marchesano Rocco Giovanni Vincenzo (*) Decreti N. 139, 142, 143, 144 e 146 del 14 e 20 agosto. I nomi tra parentesi indicano quelli nominati coi decreti N. 153-56 del 26 agosto. Mutamenti disposti con decreti N. 205-07 del 10 ottobre: Carlo De Laurentis al posto di Massari Francesco Antonio (4°); Saverio Laudari, Baldassarre Parisi da Bocchigliero, Teodoro Ardente di Lama e il capo squadrone De Gennaro nominati giudici del 3° tribunale al posto di Riola, Mazzei, De Rinaldis e d’Espinosa. Resta vacate il posto di Laudari al 2° tribunale.

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Tab. 930 – Commissari di polizia di quartiere a Napoli (1806 e 1808) Quartieri Chiaia S. Ferdinando M. Calvario San Giuseppe Avvocata Stella S. Carlo Arena Vicaria San Lorenzo Mercato Pennino Porto Vomero Casoria S. G. a Cremano Mugnano Portanova * unico confermato.

8 aprile 1806 Vollaro Pietro Di Stefano Giuseppe Lopez Michele Canofari Francesco Lamanna Gabriele De Laurentiis Pasquale Castaldi Giuseppe Sedati Francesco Tortora Alessandro Trenca Luigi Muscari Gregorio Laghezza Giuseppe Frisicchio Sergio Caracciolo Gaetano Vasaturo Giuseppe Perrotta Vincenzo –

14 dicembre 1808 Lopez Giuseppe Di Franco Raffaele Di Maio Carlo Guardati Antonio Morbili Carlo Montone Domenico Albanese Francesco Antonio De Laurentiis Pasquale * Sacco Francesco Rinaldi Giuseppe n. d. Bartolucci Francesco n. d. n. d. n. d. n. d. Giuliani Filippo

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