I cappellani militari nel Regno di Napoli (1741-1819) L’Ordinariato militare borbonico e i cappellani dei Reggimenti La bolla Convenit dell’8 luglio 1741 (di Benedetto XIV) attribuiva le funzioni di ordinario militare al cappellano maggiore di corte, che le delegava ad un vicario generale di sua nomina, al quale spettavano la giurisdizione ecclesiastica sui cappellani militari e l’approvazione ecclesiastica delle loro nomine, riservate al re. Dipendevano dal vicario le parrocchie militari [a Napoli erano sette: una in ciascun castello e tre a Pizzofalcone, alla Darsena e alla Nunziatella] e le confraternite militari [come quella “de’ signori militari” a Pizzofalcone]. Con R. decreto dell’11 luglio 1802, la curia del cappellano maggiore fu posta alle dipendenze della R. segreteria di stato ed ecclesiastico, nonché a quella di guerra e marina per gli affari dei cappellani e delle chiese e parrocchie militari nonché per i sussidi ed elemosine a vedove e orfane militari. Cappellano maggiore fu, dal 1797 al 1806, l’agostiniano Agostino Gervasio, vescovo di Capua. Ai cappellani reggimentali erano attribuiti il sacro ministero dei sacramenti e liturgie e la cura d’anime dei militari del corpo e delle loro famiglie. I corpi albanesi (come i reggimenti transmarini al servizio veneziano e i corpi dalmati al servizio austriaco e italiano) avevano cappellani cattolici di rito greco. Nel 1796 furono concessi ad ogni reggimento 40 ducati per le spese della cappella (dotata di arredi sacri, tenda e carro da trasporto). Impiegati presso i corpi e gli ospedali con paga di 20 ducati, con R. dispaccio dell’11 giugno 1799 i cappellani furono elevati dalla “piana minore” dei reggimenti alla maggiore, dopo il quartiermastro e prima dei chirurghi, e con R. dispaccio del 9 settembre ricevettero il distintivo dei tre gigli borbonici ricamati in oro sui paramani e impressi sui bottoni dorati dell’abito talare. Inoltre con R. ordine del 24 giugno da Palermo si dispose la distribuzione di 300 copie delle Istruzioni ai cappellani curati dei Reggimenti fatte da S. M. Ferdinando III pell’esatto adempimento del loro ministero, con alcune Sacre Liturgie annesse pel comodo de’ medesimi. Compiti dei cappellani erano: a) tenuta e annotazione dei libri parrocchiali; b) esame delle reclute circa filiazione e stato libero e benedizione dei loro abiti e armi; c) partecipazione ai matrimoni autorizzati, celebrati dai curati dei distretti; d) visita in ospedale (coadiuvando il cappellano dell’OM nell’assistenza ai moribondi); e) catechismo settimanale a turni di compagnia; f) promozione delle scuole normali (elementari) nel corpo invitandovi i soldati che in tal modo possono essere abilitati all’impiego come basso uffiziale e
ammaestrando i figli di truppa; g) vidimazione dei libretti di vita e costumi, povertà, stato libero e di vita e di morte; h) ammonizione dei bestemmiatori, giocatori e altri rei di pubblico scandalo e rapporto al comandante per la punizione, e, qualora non irrogata, facendone relazione al re; i) far ascoltare la messa ai quartiglieri, rancieri e altri esenti facendoli andare in chiesa con la guardia montante; l) recita serale del rosario; m) esercizi spirituali nove volte l’anno; n) ricevimento pomeridiano delle cartelle del precetto pasquale; o) custodia della cappella del corpo coi sacri arredi; p) spiegazione del Vangelo la domenica (dieci anni di indulgenza ai sensi della bolla Convenit). Dopo la messa, cui il reggimento assisteva inquadrato, si dovevano recitare gli atti di fede, speranza, carità e contrizione e le preghiere per i sovrani. Alle Istruzioni erano allegati i testi dei rituali militari (distinti per la benedizione di “insegne e armi”, delle sole bandiere oppure dei “cannoni, delle armi e delle truppe”). I cappellani militari democratici La Ligure e la Napoletana furono le uniche repubbliche giacobine a mantenere i cappellani militari. Ai napoletani, sempre pagati 20 ducati al mese, furono però attribuiti compiti aggiuntivi rispetto al passato: non più solo amministrazione dei sacramenti (“concessionario”), catechismo (“predicazione”) e istruzione elementare (“insegnamento”), ma anche l’educazione dei soldati “alle virtù repubblicane e alla democrazia”. Erano infatti tenuti, ogni 5 giorni e sotto il controllo dei patrioti, a spiegare “i principi della democrazia”, e a farlo non in tono predicatorio, ma con “discorso piano e naturale”. Naturalmente i nuovi cappellani democratici non potevano essere più designati dall’ordinario castrense; per le cappellanie vacanti fu perciò bandito un concorso pubblico per titoli e per esame da parte di una commissione ecclesiastico militare. Si dovevano valutare i requisiti formali (attestato de moribus rilasciato dal parroco e placet del vescovo o del superiore ecclesiastico) e sostanziali (“titoli di merito fondati sulle passate fatiche”) per accertare moralità (“costume”) e correttezza politica (“patriottismo”) del candidato e la sua idoneità alle nuove funzioni, non bastando aver “solo detto messa e cantato in coro”. L’esame verteva sulla lettura e commento, possibilmente in latino, di qualche passo della Sacra Scrittura, trattati di morale cristiana (Besombes) e teologia pastorale (Gifschutz), collezioni di sermoni domenicali (Granata, vescovo Fitzjames) e due opere di Machiavelli i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (considerati un’esaltazione della repubblica) e l’Arte della guerra (considerato che il cappellano, come intellettuale del reggimento, dovesse poter sfoggiare all’occorrenza una certa erudizione militare).
Le file repubblicane abbondavano di preti che insegnavano la democrazia e leggevano Machiavelli; ma o avevano buttato la tonaca alle ortiche, come l’ex cappellano militare Antonio Napoletani, divenuto ufficiale degli ussari repubblicani, o quanto meno preferivano menare le mani, come padre Antonio Toscani, corrusco comandante dei calabresi democratici al fortino Vigliena. Difficile che si rassegnassero a fare il modesto cappellano: accadeva lo stesso anche nelle file sanfediste, ancor più fitte di preti in altra guisa assatanati. Non stupisce perciò che dei 16 posti da cappellano previsti, ne fossero ricoperti solo i 3 assegnati alla cavalleria (Nicola Pastore, Sabino La Rocca e Fra Lodovico Gemelli d’Olivandi), più quello della legione navale (Giovanni Veltri). Tuttavia, perfino tra i cappellani ristabiliti alla restaurazione, rimase qualche cospiratore, come dimostra una lettera intercettata dalla polizia, del 15 settembre 1800, in cui Giuseppe Giuliano, cappellano dell’ospedaletto di San Giacomo, annunciava al fratello, per ottobre, un’insurrezione repubblicana: nella conseguente perquisizione gli trovarono in casa 20 fucili. Alla prima restaurazione furono ristabiliti 2 cappellani per reggimento: nel 1802 quelli dei Reggimenti Alemagna, Abbruzzi e Reali Calabresi erano Federico Szhely e Martino Schirner; Biagio Grippa di Lecce e Pietro Felici di Trapani; Giuseppe Cellosi e Gaspare De Maio. L’esercito francese non aveva cappellani, ma il corpo d’occupazione in Puglia, oltre ai cappellani dei reggimenti italiani (istituiti nell’agosto 1803) e polacchi, fece occasionalmente ricorso al clero locale per funzioni religiose ed ecclesiastiche. Il canonico Sciascia di Bisceglie vantava infatti di essere stato perseguitato e arrestato dal governo borbonico e liberato per intervento di Saint Cyr, di aver detto messa per l’artiglieria francese “prima del 1805” e aver poi seguito il corpo francese prendendo parte al blocco di Venezia. I cappellani militari sotto i re francesi e nella seconda Restaurazione Il nuovo regime giuseppino non modificò le istituzioni ecclesiastiche né quelle militari compatibili col nuovo ordinamento delle forze armate: fu, ad esempio, regolarizzata con la formale riduzione allo stato laicale di Napoletani, tornato nel 1806 da aiutante maggiore del 2° cacciatori a cavallo e divenuto colonnello e commendatore delle Due Sicilie nel 1813 e maresciallo di campo nel 1814. Fu inoltre mantenuta la cappellania maggiore, che, morto Gervasio il 18 marzo 1806, fu attribuita interinalmente a monsignor Carlo Maria Rosini, vescovo di Pozzuoli e studioso dei papiri ercolanensi. La carica fu però soppressa col riassetto della corte, e sostituita da quella di primo
elemosiniere, che aveva precedenza su tutti gli altri grandi ufficiali della corona, ma la cui giurisdizione ecclesiastica era limitata ai palazzi e alle parrocchie reali (San Leucio, Badia e Castelnuovo), ai castelli di Napoli e alle truppe. L’8 settembre 1807 la carica fu attribuita all’arcivescovo di Napoli, cardinale Giuseppe Firrao dei principi di Luzzi, il quale officiò poi tutti i fasti militari della Napoli murattiana, a cominciare dal Te Deum per la presa di Capri e dalla benedizione delle bandiere delle legioni provinciali, ma nel 1813, a 77 anni, fu sostituito dal vicario generale di Napoli, Vincenzo Maria Torrusio di Cannalonga, vescovo di Nola, [famoso per aver degradato e sconsacrato, dopo avergli letto la condanna a morte pronunciata dal tribunale speciale borbonico, il suo maestro, monsignor Francesco Conforti, giustiziato il 7 dicembre 1799]. Composta in maggioranza di stranieri, molti dei quali non credenti o di culti non cattolici, la guardia reale aveva un solo “elemosiniere”, l’abate Giovanni Vincenzo Battiloro, di Napoli. Già monaco benedettino, era stato poi parroco a Sondrio: trasferito a Milano per curarsi dall’itterizia, e lodato dai superiori ecclesiastici per condotta politica, probità di costumi e «molti lumi», il 17 agosto 1803 era stato nominato cappellano della 4a mezza brigata italiana mentre si trovava in convalescenza a Norcia; prese servizio a Cremona solo il 1° aprile 1804 e vi rimase forse pochi mesi. Tornato a Napoli, fu cappellano della guardia reale dal 29 settembre 1806 fino al maggio 1815. Diversamente dagli altri corpi della guardia, il reggimento dei volteggiatori, formato coi reduci da Danzica e dalla Spagna, ebbe un proprio elemosiniere particolare (Mariosa). Anche per i cappellani, come per i sanitari, ci scusiamo col lettore per non aver compiuto le minuziose ricerche necessarie per fornirgli il quadro completo delle nomine. Abbiamo trovato, nel Monitore delle Due Sicilie e in altre fonti, i cappellani nominati nell’autunno1806 nel 2° di linea (Roselli) e 1° cacciatori (R. Ungaro e Giuseppe Palomba), nella legione corsa (G. B. Massimi) e nell’artiglieria (Vito De Nittis). Nel 1808 il citato Sciascia ottenne la cappellania del treno d’artiglieria; nel luglio 1809 troviamo un Mario Minichino cappellano di 2a classe della marina, e un altro officiante la benedizione del varo del vascello Capri, il 1810. Il 2 luglio 1810 l’abate Felice Spinosa, già professore di storia al real collegio provinciale di Bari, fu nominato cappellano degli zappatori per dirigere le scuole reggimentali d’istruzione elementare; Marco Frezza fu nominati cappellano della guardia municipale di Napoli. Con circolare del 4 gennaio 1811 il ministro prescrisse ai capi dei corpi di incaricare dell’istruzione dei figli di truppa i cappellani, le cui funzioni furono regolate con successiva istruzione del 2 febbraio (non reperita). L’11 febbraio si prescrisse al cappellano destinato al treno d’insegnare a leggere, scrivere e far di conto ai coscritti e figli di truppa del corpo.
Nell’aprile 1812 il precipitoso cappellano del 3° leggero dichiarò di non poter seguire, per ragioni di salute, i 2 battaglioni di guerra inizialmente destinati in Russia (e poi rimandati indietro), e chiese di poter restare al deposito, disposto a servire anche gratis. La tariffa del 26 aprile 1812 assegnava ai cappellani 1.200 franchi annui, pari a 273 ducati, circa un decimo in più dei 240 percepiti sotto i Borboni. Nel 1815 i cappellani dei corpi di linea della guarnigione di Napoli erano De Vincenzo [o De Rienzo?] del 2° leggero, Fallocco, De Falco, Serao e Morelletti del 2°, 4°, 9é e 11° di linea, Salvo del 1° RAT, Coleto dei veterani e Diodato Cardosa della scuola politecnica militare. I cappellani militari nella seconda restaurazione Alla restaurazione fu ristabilita la cappellania maggiore con le sue precedenti competenze, inclusa la nomina dei cappellani degli ospedali militari, sottoposta però a convalida del supremo consiglio di guerra. Il nuovo ordinamento dell’esercito assegnò inoltre un cappellano ad ogni piazzaforte e due ad ogni reggimento. L’art. 26 della legge 21 marzo 1818 che recepiva il concordato del 1817 confermò le norme stabilite dalla bolla Convenit e dal susseguente motu-proprio di Benedetto XIV sulla cura della cappellania maggiore e la sua giurisdizione. Le Istruzioni per i cappellani militari del 18 ottobre 1819, in 16 articoli, continuavano a ripartire i compiti dei cappellani in religiosi, morali e assistenziali. Tra i primi la messa e la predica nei giorni festivi, il rosario quotidiano serale, la celebrazione della festa del santo patrono del reggimento e delle esequie dei militari defunti, la novena e il precetto pasquale e la catechesi dei soldati e delle loro famiglie. I sergenti maggiori dovevano presentare le reclute al cappellano, che, prima d’impartire la benedizione alle armi e all’equipaggiamento, le esaminava sui rudimenti della dottrina cristiana per identificare quelle bisognose di istruzione. Quanto alla polizia dei costumi, il cappellano doveva riferire sui matrimoni non autorizzati, il concubinaggio, l’accesso di donne in luoghi militari o di mogli negli alloggiamenti di compagnie diverse da quella del marito; e, dopo “replicate, paterne ammonizioni”, chiedere la punizione dei pubblici scandali, del gioco e della bestemmia, con facoltà di rapporto al cappellano maggiore in caso di inerzia del comandante. Era infine tenuto a visitare i soldati del reggimento in ospedale, ad insegnare il catechismo e le nozioni elementari ai figli dei militari. Il cappellano rispondeva però della sua condotta: secondo una circolare del 18 settembre 1819, nel caso in cui meritasse gli arresti, il comandante doveva fare rapporto al comando supremo, che, a seconda della gravità, poteva infliggere “mortificazione, castigo o destituzione”.