Paolo Atleta

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COME PUGILI E CORRIDORI Le immagini sportive nelle Lettere paoline: metafore o testimonianze storiche? on sapete che, nelle corse allo stadio, tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo! Però ogni atleta è disciplinato in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona che appassisce, noi invece una che dura per sempre» (cfr. 1Cor 9,24-27). È questo soltanto uno dei passi paolini che utilizzano metafore tratte dal mondo agonistico (corsa, pugilato, corona della vittoria: cfr. Fil 3,12-14; 2Tm 2,5; 4,7-8; Eb 12,1-2). Viene da chiedersi se Paolo conoscesse direttamente il mondo dell’atletica o se abbia piuttosto ripreso queste immagini da filosofi o scrittori suoi contemporanei. Il dubbio è supportato dal fatto che Paolo ce ne parla in modo generico, ignorando alcuni aspetti disumani denunciati da altri scrittori, senza dimenticare il rifiuto opposto – sia dagli ebrei che dai cristiani – alle feste atletiche collegate al paganesimo. Già i libri dei Maccabei (II-I secolo a.C.) testimoniano che il giudaismo più osservante – cioè quello appreso da Paolo, fariseo di formazione – vedeva l’atletica greca come un “cavallo di Troia” attraverso cui la fede ebraica poteva essere contaminata dai culti idolatrici (cfr. 1Mac 1,13s.; 2Mac 4,7ss.). Sappiamo che i Giochi istmici, ad esempio, erano legati a feste religiose, al punto che la gara stessa era designata con il nome di “servizio divino” (leitourghía) e il vincitore veniva considerato il favorito degli dèi. Se, alla luce di questi fatti, appare improbabile una conoscenza diretta del mondo atletico da parte di Paolo,

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16 - ANNO II - N. 17 DICEMBRE 2009

bisogna cercare altrove per poi chiedersi quale significato egli attribuisse alle metafore sportive. La pista alternativa è quella della diatriba. Si tratta di un genere letterario a carattere prevalentemente etico utilizzato dalla filosofia popolare, in particolare da stoici e da cinici. Essa ha la forma di un dialogo fittizio e spesso si paragona l’esercizio della virtù e il combattimento morale agli sforzi e alle rinunce richiesti dall’atletica. Così si esprime Seneca, ad esempio, nel I secolo: «Quanti colpi ricevono gli atleti sul viso e su tutto il corpo! Eppure sopportano ogni tormento per desiderio di gloria [...] Così anche noi dobbiamo superare ogni prova, e il nostro premio non sarà né una corona né una palma [...] ma la virtù, la fermezza d’animo e la pace assicurata in tutto» (Epistola 78,16). Ancora più interessante è osservare la presenza di queste immagini nella letteratura giudaica dell’epoca. Il cristianesimo – e Paolo per primo – ricorre alla diatriba per presentare il Vangelo attraverso categorie comprensibili per l’epoca, attuando una “osmosi culturale”, secondo le parole di Henri-Irénée Marrou. A scopo esemplificativo, riprendiamo il passo paolino citato in apertura.

Il buon allenamento: astinenza o disciplina? In 1Corinzi 9,24 Paolo sottolinea che riceve il premio solo chi prima si è impegnato a fondo. In altre parole, ogni gara impone preparazione e un preciso modus vivendi; similmente, la vita cristiana richiede specifici comportamenti per “tagliare il traguardo”. Ma in cosa consiste questa “disciplina cristiana”? Al versetto 9,25 incontriamo ben tre termini che vi fanno riferimento: «Ogni atleta si astiene (enkratéuetai) da tutto». Il verbo enkratéuesthai significa “astenersi” ed indica l’esercizio di un’autodisciplina completa. È una virtù elogiata dai filosofi: secondo Aristotele, la perfezione dell’uomo consiste proprio nel dominio di sé

(enkráteia), che lo eleva al di sopra degli animali. Per gli stoici il dominio di sé, requisito necessario agli uomini degni di questo nome, consiste nel moderare la soddisfazione degli istinti naturali (appetiti sessuali e del ventre, in particolare). Gli atleti, secondo Paolo, sono astinenti “in tutto”: ma era proprio così? Le testimonianze pervenuteci da altri scrittori ci mostrano che gli atleti si sottoponevano a un lungo tempo di allenamento, prima delle gare. Altre fonti, molto critiche, ritenevano tutt’altro che astinente il loro esempio. Per aumentare il volume muscolare, ad esempio, pugili e lottatori erano tenuti a una “dieta obbligata” (anankophagía) con abbondanti razioni di carne e un particolare regime di sonno. Filostrato, autore del III secolo d.C., ne evidenzia però alcuni eccessi controproducenti: «la dieta insegnava loro l’ozio e a starsene lì seduti prima degli allenamenti, pieni zeppi come sacchi di farina della Libia e dell’Egitto; perché essa introduce pasticcini e cuochi di lusso, con cui vengono allevati solo ghiottoni e mangioni» (Sulla ginnastica). E uno sdegnoso Seneca rincara la dose: «Escludo da queste occupazioni liberali i lottatori e l’arte che consiste interamente nel lordarsi d’olio e di fango [...] Ma, via, che hanno di liberale questi vomitatori a digiuno, grassi di corpo, emaciati e torpidi nello spirito?» (Lettere a Lucilio 88,18-19). “L’astensione” non va quindi intesa come un ascetismo astratto: palesemente, a un atleta non viene richiesto di essere un artista del digiuno, ma di fare quanto necessario per essere in forma. Per giungere a una determinata forma psicofisica e mantenerla tonica – senza ridursi a massa flaccida – è necessario adottare un preciso metodo o stile di vita, funzionale alla disciplina in cui ci si esercita. Quello che dell’atleta interessa a Paolo è la sottomissione di tutta la vita a un modo di vivere rigorosamente regolato, perché orientato verso una mèta precisa (cfr. anche Fil 3,14.19). È questo atteggiamento di tensione verso la vittoria a essere raccomandato, perché solo quando si sa per cosa si corre (traguardo, premio, corona) è possibile disciplinarsi correttamente. Per l’Apostolo, dunque, l’astinenza/disciplina non è un valore fine a se stesso, ma un mezzo reso possibile e giustificato soltanto dallo scopo per cui la si intraprende. E per esso si può rinunciare anche a qualcosa che è un proprio diritto (cfr. 1Cor 8,9-13; 9,1ss.). Questo differenzia l’astenersi del cristiano dall’idea corrispettiva in ambiente ellenistico. Solo la visione della vittoria/corona può spingere ad affrontare volentieri e con desiderio l’asprezza dell’allenamento. L’immagine della corona, nominata al versetto 9,25, è ben conosciuta nel mondo

greco, dove sconfinava nell’ambito cultuale. Il conferimento della corona agli atleti vincitori era un modo per onorare la divinità, pertanto ottenere questo “premio” era considerata la più alta fortuna terrena. Nella letteratura giudaica, invece, il premio/corona viene conferito per la lotta vittoriosa del martire o per l’uomo che aspira alla conoscenza, come scrive Filone: «Combatti questa bellissima battaglia e sforzati di conseguire, contro il piacere sensuale che domina tutti gli altri, la più bella e gloriosa corona di vittoria che nessuna assemblea di festa può porgerti» (Legum Allegoriae II, 108). Mentre per Filone la corona della vittoria è la visione di Dio, per Paolo la corona che non appassisce è la comunione con il Cristo risorto.

Pugile detto “del Quirinale” o “delle Terme” (sec. III-II a.C.). Museo delle Terme (Roma). Si notino dettagli come il guanto (il cestus) e il naso rotto, tipica ferita del pugile. Nella pagina a fianco: atleti in corsa, anfora panatenaica di Cleofrade (ca. 500 a.C.).

Affresco minoico di giovani pugili presso Akrotiri (Santorini).

Sferrare il colpo decisivo Nel prosieguo, Paolo afferma che fa pugilato, «ma non come chi batte l’aria» (9,26). Evidentemente Paolo intende la serietà dello sforzo di orientare ogni suo atteggiamento alla “vittoria decisiva”. L’espressione “battere l’aria” può far riferimento al lottatore i cui colpi vanno a vuoto perché l’avversario si sottrae, ma può

anche alludere a una forma di lotta contro un contendente immaginario nota come skiamachía (“lotta-ombra”). A proposito di “colpi a vuoto” e “lotte immaginarie”, Filone Alessandrino testimonia – tra ammirazione e sbalordimento – come questi atleti rischiassero la vita per qualcosa di altrettanto fuggevole e inconsistente: «Io so che lottatori e pancratiasti [la disciplina del pankrátion univa quelle che oggi chiamiamo boxe e wrestling] spesso resistono per ambizione e desiderio di vincere fino al sopraggiungere della morte, nonostante che il loro corpo si sia già arreso e continuino a respirare e a lottare con la forza d’animo, che essi hanno abituato a disprezzare la paura [...] Per questi lottatori, la morte in cambio di una corona di olivo o di sedano è considerata come onorevole». Paolo specifica tuttavia che la «corona» per cui egli tanto fatica,

«non appassisce». Anzi «dura per sempre» (1Cor 9,25). Un’ultima considerazione. Paolo afferma di trattare duramente il proprio corpo e di ridurlo in schiavitù, «perché non succeda che, dopo aver predicato agli altri, io stesso venga squalificato» (9,27). Letteralmente il verbo greco tradotto con “trattare duramente” significa “colpire al viso (facendo l’occhio nero)”. Nel pugilato greco, infatti, i colpi miravano per lo più alla testa, in quanto parte più vulnerabile: basta un solo colpo preciso al capo per mandare al suolo – anche ferito a morte – l’avversario. Ma perché Paolo vuole colpire il proprio corpo? Questa immagine non va intesa moralisticamente come una lotta dello spirito contro il corpo, poiché Paolo non ha un’idea dualistica dell’uomo. “Corpo” (sôma) qui va meglio inteso nel senso paolino di “carne” (sárx): egli lotta contro il “se stesso” egoista (cfr. Rm 8,13). È questo ripiegamento sul proprio io l’orientamento sbagliato che Paolo – e con lui ogni cristiano – combatte, indirizzandovi contro i colpi decisivi. L’invito al combattimento, inteso come processo che conduce a nuovo orientamento della propria vita, non può quindi avvenire come uno “sviluppo” di consapevolezza graduale e priva di urti. Come nell’arte del pugilato, essa prevede inevitabilmente colpi violenti, lividi, ammaccature, ferite. Non bisogna farsi alcuno sconto se davvero si vuole colpire il “punto debole” del proprio egoismo. Vincenzo Vitale

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