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IRAN, GUERRA O PACE
E SE INVECE SCOPPIASSE LA PACE?
di
Bijan ZARMANDILI
Lo stop iraniano alla bomba nucleare documentato dagli 007 americani sembra allontanare la soluzione militare. Ma per dialogare sui tanti strategici interessi comuni c’è bisogno che le colombe prevalgano sui falchi sia a Washington che a Teheran.
I
L 3 DICEMBRE DEL 2007 IL MONDO SI È
svegliato con una strana sensazione quando si è saputo che i servizi segreti americani assolvevano sostanzialmente la Repubblica Islamica dell’Iran dall’accusa di preparare armi nucleari, dichiarando che tale attività era stata, in effetti, sospesa sin dal 2003 e che anche nel caso fosse stato ripreso il piano congelato ci sarebbero voluti dai cinque ai dieci anni per fabbricare una bomba atomica. Dunque, per lunghi cinque spaventosi anni gli Stati Uniti hanno terrorizzato il mondo con delle bombe inesistenti, mentre i dirigenti iraniani recitavano la parte degli spaventapasseri? Forse i più confusi e disorientati sono stati gli stessi dirigenti iraniani, che faticavano a credere che gli organi più influenti e vitali per la sicurezza degli Stati Uniti, le agenzie di intelligence, smentissero e contraddicessero le insistenti e vibranti affermazioni del presidente e del suo vice circa il pericolo nucleare rappresentato dal regime degli ayatollah e, quindi, l’urgenza di radere al suolo i loro siti nucleari e le loro installazioni militari per scongiurare la terza guerra mondiale. Poi, il ministro degli Esteri iraniano Manuchehr Mottaki ha deciso di infrangere un tabù trentennale, lodando la Cia, la sua «sincerità» e il suo «realismo», mentre il presidente Mahmud Ahmadi-Nejad, prima che gli altri dignitari del regime potessero dire la propria in proposito, si è precipitato a chiarire che il vero vincitore era lui: «Il documento della Cia è la dimostrazione della vittoria della nostra linea». Siamo dunque al giorno dopo il raid virtuale degli americani e in Iran gli occhi sono rivolti verso il futuro, come se la guerra fosse già avvenuta e invece di lasciare sul terreno morti e devastazioni, avesse aperto nuovi scenari, prospettive inedite, svolte politiche fin qui inimmaginabili.
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L’insicurezza dei militari
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Il New York Times del 6 dicembre rivela che ciò che ha indotto i servizi americani a concludere che la Repubblica Islamica dell’Iran sin dal 2003 aveva interrotto il suo piano nucleare sono state le conversazioni tra i comandanti delle Forze armate e della sicurezza iraniane e le corrispondenze scambiate tra di loro, ascoltate e raccolte dagli 007 occidentali, più precisamente, come sostiene il giornale britannico The Guardian, dalle spie inglesi che hanno passato le loro informazioni alla Cia. Lo stesso giornale americano aggiunge che il materiale raccolto è stato successivamente vagliato in dettaglio da un gruppo di esperti, il Red Team, per verificarne l’autenticità e soprattutto per scoprire che non si trattasse di un tranello dei servizi iraniani per ingannare il nemico e depistare le indagini. Fatto ciò, e stabilita l’autenticità del materiale, nel mese di agosto il documento viene sottoposto all’esame della Casa Bianca. Ecco il primo inquietante interrogativo che si sarebbero posti gli alti ufficiali iraniani: come e con quali mezzi gli 007 occidentali sono riusciti a superare le barriere insormontabili dei segreti nucleari iraniani, ad ascoltare le conversazioni riservate e persino a mettere le mani sulla loro corrispondenza? Nel caso in cui tale circostanza rispondesse alla realtà dei fatti, metterebbe in luce la precarietà del sistema di sicurezza iraniano in materia nucleare e lo esporrebbe ad una serie di pericoli cancellando i benefici politici e diplomatici momentanei che la Repubblica Islamica potrebbe trarre dal documento della Cia. Una prima conclusione, dunque, potrebbe essere quella di un imminente terremoto nelle alte sfere della sicurezza e delle Forze armate iraniane, dovuta all’inefficienza dei loro sistemi, ormai inquinati e infiltrati dagli 007 occidentali. E non sarebbe neppure improbabile che il malumore e la crisi negli ambienti militari avesse dirette conseguenze negli ambienti politici della Repubblica Islamica dell’Iran, rendendo ancora più acuto lo scontro tra il clero pragmatico e riformista e il governo di Mahmud Ahmadi-Nejad. Le eventuali crepe nel sistema di sicurezza iraniano suggerite dal documento dei servizi americani potrebbero non limitarsi al settore delle attività nucleari e riguardare muri ancora più vitali per la sicurezza del paese. E i timori dei militari iraniani evocano immediatamente la possibilità della penetrazione degli agenti del nemico nelle regioni di confine sudorientali tra l’Iran e il Pakistan, abitate dalla minoranza baluci, nella parte centroccidentale, ai confini tra l’Iran e l’Iraq, dove vive la minoranza curda, nel Sud, regione a prevalenza araba, oppure nella parte nordoccidentale, terra dei turchi-azeri. Le Monde diplomatique di novembre indica Israele e Pakistan come due tra i paesi alleati degli Stati Uniti particolarmente attivi ai confini orientali e occidentali dell’Iran con lo scopo di destabilizzare il paese: agenti pachistani penetrati in profondità nel Balucistan iraniano avrebbero fornito armi e denaro americano al movimento separatista baluci, e al suo leader Abdolrahman Righi, mentre agenti del Mossad risultano particolarmente attivi nel Kurdistan per conto degli Stati Uniti.
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Il sostegno americano, racconta il mensile francese, arriva anche al Movimento di liberazione di Ahvåz, che opera nel Khuzistan, nel Sud e tra la minoranza araba, dove da tempo, sostengono i servizi iraniani, sono penetrati agenti britannici, fomentando disordini e provocando attentati terroristici. Un’immagine indiretta dell’Iran, quindi, di alto rischio, spiato e sorvegliato sin dentro i suoi bunker militari, in pericolo d’implosione a partire dai suoi confini, strangolato economicamente dalle sanzioni già in vigore e da quelle che gli americani e parte degli europei vorrebbero inserire nella terza risoluzione del Consiglio di Sicurezza, malgrado la resistenza e il probabile veto della Russia e della Cina. Una prospettiva questa che fa crescere i malumori e le frustrazioni dei militari, inducendoli nello stesso tempo a premere sui politici e chiedere, se non un vero e proprio coprifuoco permanente, una presenza massiccia, estesa e altamente repressiva dei militari sul territorio per prevenire moti di piazza, scongiurare le spinte separatiste e garantire l’integrità e la sicurezza dello Stato islamico. Non viene scartata neppure l’ipotesi di un attacco militare dall’esterno, esattamente come era nei piani dei falchi americani prima che la Cia diffondesse il suo documento. Diversi osservatori iraniani continuano a sostenere che permane il pericolo della guerra, anche se meno forte rispetto al passato. Tocca attendere che gli effetti del documento della Cia vengano vanificati dalle possibili nuove e ancora più provocatorie dichiarazioni dell’ala più radicale del regime iraniano, come spesso è successo in passato nei momenti cruciali della crisi dei rapporti con gli Stati Uniti, tenendo conto che i radicali iraniani hanno bisogno di tenere costantemente alta la tensione per la propria sopravvivenza politica. Ma non è escluso che la Casa Bianca, accantonata la pericolosità della Repubblica Islamica come potenza nucleare, batta sul tasto dei rischi che l’Occidente e il Medio Oriente correrebbero a causa del ruolo destabilizzante dell’Iran nella regione. Il presidente Bush, fanno notare diversi commentatori, ha come obiettivo finale il cambio di regime in Iran e le pressioni sul nucleare e le altre controversie con Teheran servono a preparare il terreno per la sconfitta definitiva della rivoluzione khomenista. Sicché i falchi americani potrebbero non rinunciare alla propria strategia, presentando nuove prove sulla ripresa dell’arricchimento dell’uranio nei siti iraniani.
Tutto il potere ai pasdaran Si sa, la Repubblica Islamica dell’Iran non è il Pakistan, terra di colpi di Stato e colpi di mano dei militari. Ma non è da escludere che la nuova casta militare iraniana, rappresentata innanzitutto dal corpo dei pasdaran, i guardiani della rivoluzione, scelga la «via costituzionale» per prendere il potere politico. Un primo saggio delle capacità dei pasdaran di condizionare il potere esecutivo del paese si è avuto nel 2005 durante le elezioni presidenziali che hanno determinato l’arrivo di un loro ex, Mahmud Ahmadi-Nejad, nella stanza dei bottoni, con tutte le conseguenze e gli effetti che quella nomina ha prodotto negli ultimi tre an-
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ni dentro e fuori il paese. Gli alti e bassi della presenza di Ahmadi-Nejad sulla scena politica iraniana appartengono però al passato recente, mentre il problema che si pongono ora i pasdaran è come mantenere le posizioni già conquistate e influenzare e condizionare gli altri organi della repubblica attraverso i dettami della stessa costituzione. Gli appuntamenti più importanti in tale direzione sono le elezioni del marzo 2008 per il rinnovo del Majlis, il parlamento, e quelle presidenziali nel 2009. Ma il quadro complessivo è mutato dopo la pubblicazione del documento della Cia e l’allontanarsi del pericolo di una guerra che sembrava invece imminente e inevitabile. Le manovre in Iran da parte di tutte le forze in campo per condizionare l’ottavo Majlis sono in atto da parecchi mesi. Sorprende soprattutto l’attivismo dei vertici dei pasdaran in tale direzione, nonostante la loro estraneità alle scelte politiche della repubblica stabilite dalla costituzione. «Bisogna stare attenti e con gli occhi aperti per non fare cadere l’ottavo Majlis nelle mani di chi sfrutterà la ribalta del parlamento per scioperi della fame, digiuni di protesta e per indebolire il sistema, o come strumento da contrapporre ad avversari e ad altri organi della repubblica. Bisogna vegliare affinché chi legifera non abbia ambizioni personali o partitiche, ma tenga presente gli interessi del sistema». Si tratta di una parte del discorso pronunciato in novembre da Masud Jazaieri, vice responsabile della Cultura e propaganda dello Stato maggiore delle Forze armate iraniane, nel corso di un raduno di comandanti militari in una caserma nella parte settentrionale della capitale iraniana. E le sue esternazioni sulle prossime elezioni legislative e su come i candidati non potranno non passare dalle maglie strette della censura per essere eletti, insieme ad altre e ancora più pesanti interferenze da parte delle Forze armate e dei pasdaran nella campagna elettorale, non hanno destato grande scalpore. Già nel Majlis odierno, il settimo, ben 80 deputati su 290 provengono dalle file dei pasdaran. Un numero che potrà crescere notevolmente nel prossimo parlamento, nel quale i guardiani della rivoluzione sperano di poter contare su una maggioranza sicura. L’ambizione di egemonizzare la politica nazionale da parte dei pasdaran è proporzionale al controllo che essi già esercitano nelle fila della Forze armate, attraverso un corpo composto da 125 mila uomini, di cielo, mare e terra, presenti all’interno con i volontari basij e all’estero con i reparti paramilitari al-Quds, ma soprattutto attivi nella quasi totalità delle strutture economiche e finanziarie dell’Iran: dal commercio al turismo e all’industria, dalle infrastrutture alle banche e all’agricoltura, fino all’industria petrolifera e del gas. Ovunque, vige la militarizzazione della produzione e dell’economia, le cui cifre e bilanci sono assolutamente segreti. Una sorta di Stato autonomo come appendice della Repubblica, che spesso, come lamenta lo stesso clero sciita, rischia di soffocare la teocrazia e sostituirsi ad essa. Ma il corpo dei pasdaran, come tutti gli altri fenomeni nati e cresciuti dalla rivoluzione del 1979, ha una doppia se non triplice anima e natura, ed è soggetto ad
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un’aspra dialettica interna. Una parte dei pasdaran resta infatti saldamente legata al pragmatico Ali Akbar Hashemi Rafsanjani e a uno dei veterani e influenti capi pasdaran dal 1981 al 1997, il generale Mohsen Rezai, che è considerato l’uomo di fiducia di Rafsanjani. Lo stesso generale Jafari, attuale comandante in capo dei guardiani della rivoluzione, è molto vicino a Rafsanjani e alla Guida suprema, l’ayatollah Khamenei. Anche il riformista ed ex presidente Mohammad Khatami ha goduto a suo tempo dell’appoggio di una parte dei pasdaran, che gli hanno garantito un doppio mandato presidenziale. Le contrapposizioni e le divisioni interne non impediscono tuttavia ai pasdaran di rinunciare al peso e al ruolo che il loro corpo ha negli equilibri e nei misteri politici e militari della Repubblica Islamica dell’Iran. Anche perché il legame nato con il clero sciita sin dai tempi della rivoluzione khomeinista è stato progressivamente sostituito da un forte sentimento nazionalistico, cresciuto nelle trincee della guerra contro l’Iraq, e da un orgoglio di casta non sempre compatibile con gli umori e i progetti della teocrazia. Ma se le prossime elezioni legislative per il rinnovo del Majlis saranno una tappa importante per allargare il proprio potere politico, per i pasdaran l’appuntamento decisivo restano le presidenziali del 2009, quando Ahmadi-Nejad chiederà la conferma per un secondo mandato. Il presidente iraniano, candidato vittorioso dei pasdaran durante la corsa per le presidenziali del 2005, deve tuttavia rispondere ad una serie di quesiti di non facile soluzione, a cominciare da quello legato alla pessima gestione economica del suo governo e alla conseguente perdita di credibilità presso gli strati meno abbienti della società iraniana. Il suo principale bacino elettorale del 2005 sperava in un miglioramento delle proprie condizioni e ora è deluso perché più povero e meno sicuro anche a causa dell’isolamento del paese e delle minacce esterne. L’attribuzione di molti meriti alla propria politica nucleare dopo il documento della Cia e il recente rapporto dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), che sostanzialmente anticipava le affermazioni degli 007 americani, potrebbe essere il primo segnale di una tormentata e lunga campagna elettorale che Ahmadi-Nejad ha già cominciato. Considerandosi il vero vincitore della contesa sul nucleare con gli americani, il presidente inizia la sua battaglia politica per combattere i futuri rivali, i candidati che verranno proposti dall’alleanza tra Rafsanjani e Khatami, con l’avallo indiretto dell’ayatollah Khamenei. Ma soprattutto cerca di convincere il corpo dei pasdaran che è ancora lui l’uomo giusto per garantire che tutto il potere della Repubblica Islamica dell’Iran passi nelle loro mani.
Usa e Iran, faccia a faccia finalmente Il futuro potrebbe riservare però anche una vera sorpresa, considerata oggi pura fantapolitica: le due delegazioni iraniana e statunitense, assistite dall’Onu, dall’Ue e dalla Russia, siedono intorno ad un tavolo per trattare dei rapporti bilaterali, della stabilità del Medio Oriente e del diritto dell’Iran al nucleare.
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Ma se tale prospettiva per il momento sembra irrealizzabile, l’allontanarsi della soluzione militare e il rafforzamento dell’opzione politico-diplomatica potrebbero comunque creare le basi per un progressivo avvicinamento tra Teheran e Washington. Ed alcune premesse per un contatto diretto tra i due nemici ci sarebbero. Diverse fonti vedono un nesso tra la diminuzione delle tensioni in Iraq e il documento della Cia sull’Iran. In altri termini, è probabile che le riunioni dei mesi scorsi tra Teheran, Washington e Baghdad, apparentemente infruttuose e fallimentari, abbiano invece prodotto qualche intesa di fondo per il futuro dell’Iraq tra iraniani e americani. Che ci sia un interesse strategico comune sulla sorte dell’Afghanistan post taliban e sull’Iraq post Saddam è noto ad ambedue le parti, e più volte confessato dai dirigenti iraniani. Lo dicono apertamente Khatami e Rafsanjani, e al coro dei pragmatici e riformisti si sono aggiunti recentemente anche l’ex ministro degli Esteri Velayati e l’ex negoziatore Larijiani, uomini di punta del leader supremo Khamenei negli apparati dello Stato islamico. Alcuni analisti fanno notare inoltre che il documento della Cia favorisce consapevolmente le posizioni dell’ayatollah Khamenei nella ormai endemica faida tra le anime contrapposte del regime, e che quando arriverà finalmente il momento di negoziare con l’Iran, l’unico interlocutore credibile e autorevole sarà la Guida suprema della rivoluzione, non il presidente di turno o il personaggio più in vista sulla scena politica iraniana. Non a caso, la Cia dice che il congelamento nucleare iraniano risale al 2003, quando Ahmadi-Nejad come sindaco della capitale non aveva alcun potere per decidere in merito. Lo stesso vale per Khatami e Rafsanjani, allora presidente ed ex presidente, ma strettamente controllati dalla Guida suprema della rivoluzione soprattutto in materia di sicurezza, energia e armamenti. Esaminata la questione dei rapporti tra Iran e Stati Uniti non nella sua dinamica odierna, ma nelle sue potenzialità future è difficile escludere a priori una evoluzione in direzione negoziale, a condizione però che vengano individuati e rimossi gli ostacoli da ambo le parti. Sul fronte americano le novità riguardano la debolezza dei falchi, lo spostamento ad una data lontana dell’eventuale uso della forza e soprattutto l’indicazione implicita di due interlocutori nella Repubblica Islamica dell’Iran: i pasdaran e la Guida suprema della rivoluzione. Con i primi, viene usato per ora il bastone, umiliandoli e beffandoli, con la seconda, l’ayatollah Khamenei, la carota, attribuendogli la saggezza, la lungimiranza e l’autorità di chi sin da tempi non sospetti ha sospeso la corsa agli armamenti nucleari in attesa che finiscano i tempi bui di Bush e di Ahmadi-Nejad.
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