Le Scritture Utili A Scienza E Fede Secondo Paolo

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Le Scritture: utili a scienza e fede Nella Bibbia, l’imperativo “scrivi”, prima in ebraico e poi in greco, risuona per lo meno in 41 versetti che vanno da Esodo 17,14 (Allora il Signore disse a Mosè: "Scrivi questo per ricordo nel libro e mettilo negli orecchi di Giosuè: io cancellerò del tutto la memoria di Amalek sotto il cielo!") fino ad Apocalisse 21,5 (Colui che sedeva sul trono disse: "Ecco, io faccio nuove tutte le cose"; e soggiunse: "Scrivi, perché queste parole sono certe e veraci”).

Nel primo testo, dall’Antico Testamento, è il “Signore”, Yhwh-Adonai, che ordina a Mosè di scrivere, non una legge o comandamento ma un evento da ricordare, la vittoria contro Amalek. Mosè lo dove annotare nel Pentateuco perché poi sarà utile a Giosuè, il successore, e a chi scrive il libro di Giosuè. Servirà a ricordare che si può vincere qualunque nemico se si resta fedeli a Dio che è il vero responsabile sia della creazione (Genesi) che della storia (Esodo, Giosuè). Nel secondo testo, è sempre Dio, seduto sul trono, ma che è anche l’Alfa e l’Omega dell’alfabeto greco, colui che ordina di scrivere l’ultimo libro della Bibbia canonica, come rivelazione di nuova Genesi in Cristo risorto dai morti. Scrivente è il veggente Giovanni che deve ricordare non tanto eventi del passato quanto l’intenzione, onnipresente di Dio di rifare il mondo, una ricreazione facendo scomparire il primo cielo e la prima terra (cfr. Ap 21,1). In breve, le Scritture, sia vecchie che nuove, hanno Dio per autore principale, come del resto la creazione e la storia. Anche se a scrivere sono degli uomini come Mosè e Giovanni. Come noi. Servono a rivelare il piano di salvezza come palingenesi o nascita del mondo nuovo, che era, è e sarà comunque di Dio, unico Creatore, Signore e Salvatore di tutti.

Anche quella di Paolo è Scrittura Paolo è scrittore ispirato già secondo l’antichissima testimonianza della 2Pt 3,1516. È sempre utile rimandare a questo testo petrino per stabilire il valore degli scritti paolini, considerati “alla pari delle altre Scritture”. Da queste parole antichissime di Pietro o di qualcuno che può comunicare a suo nome, sono deducibili almeno due cose: a) che le “altre Scritture” siano l’Antico Testamento; b) che le “tutte le epistole” del “carissimo fratello Pao lo” siano le prime Scritture, già raccolte ed editate, del Nuovo Testamento. Del resto, nelle 13 epistole con il suo nome per mittente, Paolo è familiare con “le Scritture” e “la Scrittura”, che egli cita spesso, soprattutto in Romani e in Galati, e che però adatta e interpreta a partire dall’evento di Damasco, in cui ha esperimentato, fondamentalmente, la forte e chiara presenza del “Signore”, non direttamente Yhwh-Adonai, ma Gesù, il crocifisso risuscitato dai morti. L’evento pasquale è il senso delle epistole di Paolo.

Paolo cita al singolare la “Scrittura”, che prima di Damasco rappresentava per lui l’unica via, la legge, per conoscere e regolare dei rapporti veri con Dio e con il prossimo. Ora non la disprezza, ma la relativizza a partire dalla nuova fede, in Gesù, riconosciuto l’autentico kýrios-Adonai, il Cristo-Messia, il compimento delle promesse e quindi di tutte le Scritture antiche. Dai rotoli della “Torah”, dei “Profeti” e degli “Scritti” (TaNaKh) Paolo passa a Cristo, all’obbedienza leale, ad una fedeltà a Gesù, uomo come tutti ma anche Cristo, Signore, Figlio di Dio che gli ha rivelato ben oltre la lettura scrupolosa e continua di pergamene o papiri sacri, chi davvero sia Dio il Creatore e quale sia il suo piano grandioso riguardo al mondo e a tutti i suoi abitanti.

Le Sacre Scritture All’inizio di Romani Paolo parla di sé come d’uno “schiavo di Cristo Gesù”, quindi in tutto fedele al padrone, senza più possibilità di disporre liberamente di sé, grazie ad una chiamata personale – sulla via di Damasco? – e come “apostolo” prescelto “per il vangelo di Dio”. Aggiunge subito la spiegazione del vangelo: “che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle scritture sante”. I Profeti sono la parte essenziale delle Scritture, per quello che hanno detto e per le loro parole scritte, che sono sante e che sono arrivate fino al presente, anche a Roma. E che Paolo conosce fin dall’infanzia e poi professionalmente, essendo un fariseo. A queste scritture profetiche Paolo aggiunge il “vangelo”, che di esse è il vertice e compimento. Ai romani, Paolo cita Genesi per quanto riguarda il caso Abramo, che “ebbe fede in Dio e ciò gli fu accreditato come giustizia” (Rom 4). Ma inserisce la Torah che esalta la fede in Dio Creatore e Signore di Abramo, in un discorso sulla giustificazione per la fede in Cristo e di Cristo nel Padre. Inserisce l’AT nel Nuovo. Paolo, come apostolo, è interessato principalmente all’attualità della salvezza per chiunque crede in Dio attraverso il vangelo, e non più nella sola Scrittura, chiusa in sé, nel tempo e nello spazio. Ci sembra di capire che la Scrittura non si realizza senza la morte e risurrezione di Cristo. Senza Gesù non ha uno sbocco storico. Questo modo di leggere le Scritture, attualizzandole in Cristo, Paolo lo esplicita ai romani più forti e liberi per la fede in Cristo, esortandoli proprio ad imitare Dio in Cristo che non cercò di piacere a se stesso, ma assunse, come devono fare ora i forti nella fede, le debolezze e i peccati di tutti, dei più deboli soprattutto. Per illustrare l’esempio di Cristo, Paolo cita il Salmo 69. Subito aggiunge: tutto quanto “è stato scritto prima di noi è stato scritto per nostra didaskalía”. Qui, in Rom 15,3-4, Paolo usa un termine che

potremmo, tradurre “didattica” pensando ad una nuova metodologia di insegnamento, più che ad una “dottrina”. Didaskalía è ripetuto in almeno altri 18 versetti paolini, a partire, nel canone del corpus, da Rom 12,7 (chi ha un insegnamento da fare lo faccia!) per arrivare a Tt

2,19 – dove raccomanda, al recettore dello scritto, Tito, il ministero di una “sana didaskalía di Dio nostro salvatore”, alla quale è necessaria una “fedeltà assoluta” anche da parte di tutta la chiesa di Creta. Questa didaskalía divina ci sembra già più neotestamentaria e meno giudaica di quella di Roma. Ritornando ora a Romani, Paolo spiega il valore permanente della didattica biblica: “perché”, scrive in questa epistola, in virtù della resistenza sotto ogni pressione, l’hypomoné e la paráklesis che derivano dalla lettura costante “delle Scritture” noi tutti “possiamo avere la speranza”. Le Scritture servono quindi non solo a condurre ad una fedeltà a Cristo, vangelo di Dio, ma anche alla speranza che del vangelo ricevuto è conseguenza razionale. In una dossologia solenne a Dio Creatore e Signore, a conclusione del lungo e articolato discorso sulla fede che giustifica, Paolo mescola ancora, e lo farà sempre in ogni epistola, l’Antico al Nuovo Testamento: Gloria sia a colui cha ha il potere di stabilirvi (nella fede) “secondo il mio vangelo e il kérygma di Gesù Cristo e secondo la rivelazione - katà apokálypsin - del mistero taciuto per secoli” ma ora manifestato “attraverso le Scritture dei profeti” a “tutte le nazioni perché obbediscano alla fede”.

Dialettica tra vecchio e nuovo Questa di Paolo è una scrittura intensa e nuova, dalla quale è possibile ricavare almeno un principio missionario: quello della sintesi orale e scritta dei i profeti e del vangelo, “mio”, e che sembra storicamente corrispondere alla proclamazione del regno di Dio fatta Gesù stesso durante la sua vita pubblica. Come Gesù, anche Paolo usa le stesse Scritture per far conoscere il misterioso piano di Dio di salvare il mondo intero a qualsiasi costo personale. Dal suo tesoro di conoscenza tira fuori e unisce cose vecchie e cose nuove. A Paolo in verità, le Scritture ebraiche ora servono per far conoscere meglio il vangelo come fedeltà di Dio al suo popolo, ma anche a sottomettere tutti, giudei e greci, o romani, alla unica signoria di Cristo, che delle Scritture è il compimento. Questo discorso fatto ai romani, è simile a quello fatto anche ai galati: “la Scrittura, prevedendo che Dio avrebbe giustificato i pagani per la fede, preannunziò ad Abramo questo lieto annunzio: In te saranno benedette tutte le genti” (Gal 3,8).

Qui Paolo cita ancora la Genesi, per includere e associare nella fraternità con Israele, altri popoli, superando in Cristo le antiche separazioni. Del resto, la fede dello stesso Abramo era quella di un uomo senza la legge di Mosè. La “Scrittura” ha volutamente “rinchiuso ogni cosa sotto il peccato, perché ai credenti la promessa venisse data in virtù della fede in Gesù Cristo” (Gal 3,22) e non per l’osservanza di prescrizioni mosaiche, che delimitano l’appartenenza a Israele.

La dialettica tra Antico e Nuovo Testamento non è soltanto quindi tra ciò che è orale (attuale) e ciò che è scritto (antico), ma sta più nel modo, nuovo e diverso di interpretare i testi sacri da parte di Paolo rispetto a quando egli stesso era un giudeo convinto. Allora le Scritture gli servivano per condannare la chiesa, ora per fondarla.

“Vi ho trasmesso” scrive sintetizzando il nucleo del NT, “anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture” (1Cor 15,3s). Scritture e tradizione del vangelo si devono fondere in

una sola Bibbia. Paolo resta fermo su questa convinzione della continuità delle Scritture, anche quando si rivolge a Timoteo, di padre greco e madre ebraica – e che fin dall'infanzia conosce “le sacre Scritture”. In 2Tm 3,15s incontriamo la definizione attuale della Bibbia coma [tà] hierà grámmata, che non si trova

mai altrove. Timoteo, cristiano grazie a Paolo, è ora invitato a leggerle, perché esse “possono renderti saggio per la salvezza”, che “si ottiene per la fede in Cristo Gesù”. “Tutta la Scrittura” che è “ispirata da Dio (theópneustos: termine usato solo qui in tutta la

Bibbia)”, è “utile (ophélimos: altro termine proprio delle lettere pastorali, cfr. ancora 1Tm 4,8 e Tt 3,8) per la didaskalía, per l’ammonizione, per la correzione, per la paideía [pedagogia] alla giustificazione”, perché “l'uomo di Dio sia completo e ben preparato ad ogni opera buona”.

In sintesi, leggere assiduamente le Scritture serve a Timoteo per la formazione completa in “uomo di Dio”, capace cioè di credere in Cristo e di amare fattivamente gli altri e proclamare il vangelo a tutti come fa Paolo.

Prospettive paoline Nella interpretazione delle hierà grámmata, “le Sacre Scritture”, Paolo mette spesso in guardia da tre scogli che dovremmo anche noi imparare a riconoscere per cercare vie diverse. In 2Cor 3,6.7, in polemica con una lectio sinagogale della Torah, afferma con convinzione di essere lui stato reso un “diacono della Nuova Alleanza” e sottolinea: “non della scrittura [ou grámmatos] ma dello spirito” dal momento che “tò gramma fa morire” mentre “tò pneûma fa vivere”. Paolo contrappone, e spesso è necessario farlo: spiritualità e letteralismo o formalismo rituale che soddisfa l’interprete e l’uditorio con una migliore conoscenza del passato. La prospettiva giusta è allora quella di una lectio “spirituale”, non giudaizzante, e non solo e non tanto “storico-critica” che giustifica una ricostruzione storica, filologica o archeologica del testo. Un secondo scoglio da evitare è proprio quello della “scienza”, da sola insufficiente e dannosa. Questo argomento Paolo lo tocca specialmente in 1Cor 8, a proposito del conflitto ecclesiale tra deboli (legati al passato) e forti, che difendono la loro individuale libertà di coscienza grazie alla loro scienza teologica. Dunque i forti sono cristiani

convinti, maturi e tra loro si mette lo stesso Paolo che condivide la stessa conoscenza dell’unicità di Dio e del Signore e della non esistenza di dèi e quindi di altri culti autentici e vincolanti. Il caso è concreto: quanto agli idolotiti, che sono carne sacrificate agli idoli, e di cui gli scrivono i corinzi, Paolo risponde: “sappiamo di averne tutti la scienza [gnôsis]”: che le carni sono mangiabili tutte. Subito però chiarisce, che “la gnôsis” che non rispettasse la coscienza del debole, e quindi la persona dell’altro, “gonfia di orgoglio”, mentre “l’agápe costruisce”. Scienza e amore non vanno sempre d’accordo, perché l’una protegge l’individuo, l’altro costruisce la chiesa. A questo amore, più grande della fede e della speranza, Paolo dedica un solenne e appassionato inno nel capitolo 13, sempre della 1Corinzi. Il perché è intuibile dall’idea che propone dell’edificazione della chiesa, e dall’dea che egli ha di chiesa, come una “convocazione” o “chiamata” o “raccolta” permanente di tutti, giudei e greci, uomini e donne, in un solo “corpo” quello stesso di Cristo, il nuovo Adamo, senza separazioni o scuse. La prospettiva paolina è dunque quella della priorità dell’amore fraterno sulla scienza o libertà di coscienza, che divide e separa dagli altri, con l’affermazione di sé. Il terzo scoglio, simile alla gnôsis e che ancora esalta l’individuo e mette in discussione l’unità tra tutti, è la sapienza greca, o “filosofia-philosophía” (termine utilizzato una volta in tutta la Bibbia canonica, solo in Col 2,8). I primi 4 capitoli ancora della 1Corinzi, sono dominati da questo conflitto tra vangelo e “sapienza antropologica” o umanistica, o retorica greca, che si considera autosufficiente e superiore rispetto a un Cristo-Messia che con la croce si rivela tanto debole quanto stolto, e non certamente come uno dei filosofi epicurei e stoici, ragionatori con Paolo nell’Areopago di Atene (cfr. Atti 17,18). Ai corinzi che si dividono per la diversità di maestri a cui appellarsi per difendere il proprio partito e o le proprie idee, l’apostolo ricorda alcune cose che sono nuove rispetto al pensiero dominante: a) che egli è stato mandato ad evangelizzare e non “con la sapienza di un lógos” greco; b) perché, come “è scritto:” (in Is 29,14) distruggerò la sapienza dei saggi e frustrerò l’intelligenza degli intelligenti”; è Dio che parla e così fa scrivere al suo profeta; dunque, c) “dov’è il saggio, il grammatico [esperto della Legge], dove il ricercatore di questo tempo? Non ha forse Dio istupidita la sapienza del mondo?”. È ancora Dio l’ispiratore di queste parole. La terza prospettiva è allora un ragionamento da fare ancora oggi: dal momento che con tutta la sua scienza e sapienza , il mondo non conosce Dio, anzi, proprio

per leggi religiose, sapienze umane o scienza tecnologica lo rifiuta, rifiutando il vangelo, “a Dio è piaciuto salvare i credenti con la stoltezza della predicazione”. Per convocare il mondo in chiesa “noi predichiamo Cristo”, il crocifisso e risorto, come l’unica “potenza di Dio e sapienza di Dio”.

Sintesi Paolo, scrittore e maestro, iniziatore delle scrittura del NT, considera insufficiente l’AT anche se utile, alla costruzione della chiesa. Leggere di più e commentare Paolo, anche liturgicamente, potrebbe relativizzare una “romanità” che a volte appare esclusiva e inerte per quanto riguarda la convocazione di tutte le nazioni in Cristo. È possibile arrivare, attraverso la lectio ad una sana sintesi, spirituale, tra Antico e Nuovo Testamento, e all’unità tra le nazioni, passando dal biblicismo al riconoscimento di Gesù, come Cristo e unico Signore, Figlio di Dio in persona, fratello maggiore di un’umanità nuova e pietra angolare su cui è davvero in costruzione tutta la chiesa di Dio.

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