204 Giovedì 26 febbraio 2009
legge 40 Il bilancio di 5 anni trascorsi sotto assedio
fine vita Quante bugie sul «diritto a morire»
scienza Clonazione: ci risiamo
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«Vita degna solo quando funzionale»: deriva disumana La vita come un bene di consumo, che vale tanto più quanto è funzionante e funzionale. È questa convinzione strisciante, questo «état d’esprit» collettivo che Benedetto XVI ha denunciato domenica scorsa, facendo notare che oggigiorno «si tende a privilegiare le capacità operative, l’efficienza, la perfezione e la bellezza fisica a detrimento di altre dimensioni dell’esistenza non ritenute degne»; e che «viene così indebolito il rispetto dovuto a ogni essere umano, anche in presenza di un difetto nel suo sviluppo o di una malattia genetica». Un rovesciamento antropologico, questo, la cui piena analisi e comprensione resta la via maestra per sciogliere i tanti nodi del fine vita ed evitare depistaggi e mistificazioni.
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L’eugenismo legale che cancella i bambini Down box
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eppe essere un uomo di verità e di carità, senza rifugiarsi esclusivamente nell’una o nell’altra. Ed ebbe anche il coraggio di non tacere a proposito di ciò che giudicava centrale, la difesa della vita, accettandone anche i contraccolpi sulla propria carriera». Jean-Marie Le Méné, presidente della Fondazione Jérôme Lejeune, ricorda così la figura del grande scienziato francese, divenuto nel 1994 il primo presidente della Pontificia Accademia per la Vita. Mentre è già aperta la causa di beatificazione, si celebrano quest’anno i 50 anni dalla maggiore scoperta di Lejeune: la dimostrazione dell’origine genetica della trisomia 21, fino ad allora nota solo come "sindrome di Down". Come giudica il clima che accompagna quest’anniversario? Lo Stato francese non pare totalmente insensibile, dato che due eventi pubblici hanno ricordato la scoperta. Ma potrebbero restare i soli. Toccherà a noi rilanciare l’interesse sul tema. Lo faremo con campagne di comunicazione e sensibilizzazione sul destino attuale della malattia. La disattenzione pubblica, non solo in Francia, sembra la prova dei persistenti tabù sulla malattia. Lejeune fu molto sensibile al problema... Sì. Prima della scoperta di Lejeune, l’espressione spregiativa "mongolismo" copriva di fatto un enorme vuoto di conoscenza. Basti pensare che Down, alle cui descrizioni ottocentesche risale la designazione "sindrome di Down", parlava di degenerazione della razza bianca verso quella gialla. Si restava in questo quadro estraneo a ogni razionalità scientifica e l’ignoranza faceva pesare terribili sospetti sulle famiglie e soprattutto sulle donne che avevano partorito questi bambini diversi. Si parlava di comportamento sessuale vagabondo della madre, di alcolismo del padre e così via. In questo contesto, Lejeune finanziò le sue prime ricerche con fondi destinati allo studio della sifilide, dato che le madri erano sospettate di aver contratto
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Nel 50esimo anniversario della scoperta di Lejeune dell’origine genetica della malattia, parla Jean-Marie Le Méné, a capo della Fondazione che porta il nome dello scienziato: c’è un atteggiamento ideologico che spinge per l’aborto, le donne non sono libere di scegliere
un’affezione sessuale affine alla sifilide. Dopo la scoperta, Lejeune s’investì in prima persona per scacciare l’ombra di queste assurde stigmatizzazioni sociali. Disse chiaro e forte che si trattava di un incidente genetico, perdipiù non ereditario.
Perché la discriminazione rimane? Esiste ancora una forma di stigmatizzazione, ma di natura diversa. Un tempo si additavano le presunte colpe anteriori delle madri. Oggi, la stigmatizzazione continua a colpire le donne, ma per il fatto di scegliere di mettere al mondo questi bambini. In effetti, la società fornisce tutti i mezzi per non farli nascere. Tutti i feti possono essere diagnosticati. In fondo, per quanto mostruoso possa sembrare, si pensa lo stesso che queste donne fanno pesare alla società un carico finanziario indebito. In modo più sottile, poi, credo anche che il fatto di far nascere questi bambini rappresenti un rimprovero vivente per i genitori che hanno fatto la scelta opposta. Questa sorta di testimonianza può diventare un caso di coscienza per chi ha abortito. Del resto, mi è stato detto tante volte, con aria di rimprovero verso le donne che scelgono la vita. La sua Fondazione, privata, è il primo fi-
nanziatore in Francia della ricerca sulla malattia. Perché i fondi pubblici scarseggiano? In Francia e in altri Paesi l’insistenza sulla diagnosi fetale universale, cioè su tutte le donne senza criteri d’età, si accompagna a un calo degli sforzi per la ricerca. Dietro c’è un atteggiamento ideologico favorevole all’aborto. Chi fa ricerca sulla trisomia viene associato alla militanza contro l’aborto. Si scivola così nell’ideologia e a margine di ogni serio argomento scientifico. Il suo ultimo libro, dedicato a questa situazione, s’intitola "La trisomia è una tragedia greca". Cosa intende? Il destino di questa malattia è tragico. La sua scoperta è legata a un grande uomo di scienza che voleva mettere tutto al servizio dei malati. Energia, genio, talento, spirito umanista. Ma la scoperta ha finito per ritorcersi contro i malati, dato che ha aperto la strada alla diagnosi fetale di massa che oggi conosciamo.
Si sta scivolando nell’eugenismo? In Francia una certa forma di eugenismo è di fatto già accettata, come ammettono i giuristi che commentano il quadro legislativo. Si tratterebbe di un eugenismo democratico, medico, soft, diverso dalle forme criminali di eugenismo del secolo scorso. Ma queste riflessioni, almeno in Francia, Trisomia, una Fondazione per la ricerca accompagnano nei fatti la «Purché rispetti la vita fin dall’inizio» crescente banalizzazione dell’uso dell’eugenismo. Nel a Fondazione dedicata a Jérôme Lejeune, voluta dai familiari e caso della trisomia 21, la sostenuta da altre figure vicine al professore, finanzia ogni anno logica attuale ha qualcosa di una sessantina di programmi di ricerca sulle malattie genocidario. Accanto a una dell’intelligenza, a cominciare dalla trisomia 21. Restando fedele ai forma sottile e arbitraria di principi etici e umanistici di Lejeune, l’istituzione chiede ai ricercatori stigmatizzazione verso una che utilizzano i suoi fondi di «rispettare l’essere umano fin dall’inizio comunità di persone, della sua vita». Si tratta della «scelta di un avvenire in cui i progressi s’impiegano mezzi tecnici della scienza restano al servizio dell’uomo». Con l’intento di ed economici per proseguire l’azione di Lejeune, la Fondazione si occupa anche di organizzare la loro completa curare i malati, attraverso un centro d’accoglienza e di consultazione eliminazione. Ciò costa in presso il quale giungono migliaia di pazienti dalla Francia e Francia circa 100 milioni di dall’estero. Al contempo, fra gli obiettivi principali vi è anche quello euro l’anno. di difendere i diritti e la dignità degli stessi malati. Nel mese di marzo, ad esempio, la fondazione organizzerà un colloquio sul C’è però la testimonianza lavoro in un contesto ordinario delle persone con una deficienza di chi sceglie la vita... intellettuale. Negli ultimi anni, l’istituzione ha rafforzato anche la sua Certo, ma se oggi nel 96% opera d’informazione e di sensibilizzazione sulle questioni bioetiche, dei casi si sceglie l’aborto, è anche attraverso diversi siti internet molto consultati. (D.Z.) perché la libertà della donna è ridotta. Tutto spinge in
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di Graz
Jérôme Lejeune, il padre della genetica moderna
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comparso nel 1994, Jérôme Lejeune rientra nel novero delle maggiori figure scientifiche del Novecento. A soli 32 anni, dimostrerà che la "sindrome di Down" è dovuta a un cromosoma sovrannumerario: per la prima volta, un ritardo mentale è associato a un’anomalia Lejeune genetica. Lejeune diviene titolare a 38 anni della prima cattedra di genetica in Francia e descriverà numerose malattie di origine cromosomica. Riconosciuto a livello mondiale come uno dei padri della genetica moderna, non rinuncerà alla cura quotidiana di migliaia di bambini come primario all’Ospedale Necker di Parigi. Le sue posizioni pubbliche contro l’aborto e in difesa dei "suoi" piccoli pazienti, gli varranno attacchi di rara violenza. Definirà la pillola abortiva «il primo pesticida umano». Gli verrà negato il Nobel, ma riceverà riconoscimenti in tutto il mondo. Nel 1997 Giovanni Paolo II si raccoglierà davanti alla sua tomba. La causa di beatificazione di Lejeune è stata aperta nel 2007. (D.Z.)
«Purtroppo le ricerche del medico cattolico si sono ritorte suo malgrado contro i malati: oggi la società francese fornisce tutti i mezzi per non farli nascere E la diagnosi fetale universale si accompagna a un calo degli sforzi per la ricerca»
un’unica direzione. La scelta non è libera, ma orientata già da gran parte del mondo medico che giudica l’aborto l’esito normale. L’esempio di altri Paesi europei dove ciò non è così automatico dovrebbe far riflettere la Francia. Si è aperto l’anno francese della bioetica; come avrebbe contribuito Lejeune? Credo col suo desiderio di una nuova scossa morale. Una sua frase resta illuminante: non ci sono soluzioni tecniche alla follia degli uomini. Eppure, oggi molti si lasciano tentare dal pensiero che la scienza e la tecnica verranno a capo di tutti i nostri problemi. Si tratta della fede in uno scientismo salvifico. La scienza e la tecnica ci portano tanti strumenti e soluzioni, certo. Ma non sono il rimedio alla follia degli uomini, a tutte le sofferenze, alle tentazioni di trasgredire. L’attuale fede nel progresso ricorda talora quella della rivoluzione industriale. Al riguardo, Lejeune non era molto ottimista. Ma cercò sempre di mostrare che la fede religiosa non è mai contro la scienza. È la scienza, talora, ad essere dirottata contro l’uomo. Daniele Zappalà
Gran Bretagna E per i malati mentali «cure minime»
di Carlo Bellieni
no spettro si aggira per l’Europa: è l’handifobia, la fobia discriminatoria verso l’handicap e le persone malate. Figlia dell’eugenetica – di cui Bellieni più nessuno parla proprio perché sta diventando pane comune e non si vuole chiamare col suo nome – sta mostrando la sua virulenza sui più indifesi: le persone disabili. Il grido d’allarme viene dall’Inghilterra: un Rapporto dell’associazione "Mencap" per i diritti dei disabili mentali (significativamente intitolato "Morte per indifferenza") denuncia come i medici chiamati a curare disabili psichici esitino a spingersi oltre i segni della malattia mentale. Il Rapporto inizia con le parole del padre di Mark, disabile mentale morto per polmonite: «Credo che Mark sia morto senza motivo. Nella sua vita abbiamo trovato medici che non hanno idea di come trattare con disabili mentali. Se solo ci avessero ascoltato…». Il Rapporto riporta le parole terribili che certe famiglie si sono sentite dire dai medici: «Se la ragazza fosse normale non esiteremmo a curarla», «Non sarebbe meglio per tutti lasciarla andare?» «Secondo me non ha nulla. È lui che è così». Il Rapporto spiega allora che «le persone con
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Rapporto choc dell’associazione per i diritti dei disabili: i medici che curano pazienti handicappati sono troppo spesso disattenti, superficiali e fatalisti. «È discriminazione» ritardo mentale sono viste come una priorità secondaria», i medici, talora non educati a trattare con i malati mentali, interagiscono poco con le famiglie che invece li conoscono bene, e addirittura si fermano magari per l’ovvia (ma sormontabile) difficoltà burocratica di ottenere un consenso informato dal disabile mentale. Ancor più inquietante è leggere che «i medici spesso fanno una loro personale valutazione della qualità di vita del paziente e la considerano come base per le loro decisioni. Questo nonostante ricerche mostrino scarsa correlazione tra l’opinione del medico e la reale percezione del paziente». Ci troviamo, secondo il Rapporto, di fronte a una vera discriminazione sulla base della salute. Anche la Commissione inglese per i diritti dei disabili recentemente riportava una trascuratezza verso i disabili mentali e il suo segretario lamentava «un ottuso fatalismo verso la morte in giovane età dei disabili mentali»; un altro recente
studio citato nel Rapporto mostrerebbe addirittura che i disabili mentali ricevono meno analgesia degli altri. Tutto questo ci appare come un "successo" dell’eugenetica: se si permette di pensare che esiste solo un modello ideale di essere umano che meriti il titolo di persona e che certi disabili avrebbero tutto il vantaggio a non essere nemmeno nati, è ovvio che chi non è al top dell’autonomia e della "normalità" (bambini, disabili e vecchi in primis) diventa di serie B.
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handifobia dilaga dando una visione spettrale della disabilità non solo come fatica e dolore, ma come vergogna, per cui è quasi un obbligo sociale per una madre non far venire al mondo un disabile o, per un disabile dipendente in tutto dagli altri, non domandare di togliere il disturbo. Le recenti parole del Papa, «Ogni discriminazione esercitata da qualsiasi potere (…) sulla base di differenze riconducibili a reali o presunti fattori genetici è un attentato contro l’intera umanità», ci esortano a chiedere che l’handifobia eugenetica (sui giornali, negli ospedali) che porta il malato a vergognarsi di essere al mondo, diventi realmente un crimine sanzionato dalla legge, come le altre fobie oggetto di riprovazione e sanzione.
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Avvenire
Giovedì, 26 febbraio 2009
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Legge 40: funziona ma è ancora sotto assedio I cordone bilanci
di Ilaria Nava
Cinque anni fa veniva approvata la normativa che regola le pratiche di fecondazione assistita. Obiettivo, regolamentare una situazione fino ad allora priva di qualsiasi disciplina unitaria. Positivi i risultati: meno aborti spontanei, numero di successi in linea con la media europea, donne più tutelate. Eppure i suoi detrattori non smettono ancora di screditarla
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cinque anni dalla sua approvazione, avvenuta il 19 febbraio 2004, finalmente possiamo tracciare un primo bilancio delle legge 40: un periodo sufficientemente lungo per permettere ai centri migliori di adeguare le proprie strutture e la propria professionalità alle nuove regole, che rispetto a prima – e questo è innegabile da chiunque – ha messo un po’ d’ordine in una situazione di totale assenza di una disciplina unitaria. È l’ultima relazione sullo stato di attuazione della legge, redatta alla scadenza del mandato dall’allora ministro della Salute Turco, a consigliare prudenza prima di denunciare i limiti di una normativa che il tempo e una migliore applicazione sta rendendo sempre più efficace. Rispetto all’anno precedente, infatti, la relazione aveva evidenziato una diminuzione degli eventi infausti, ossia degli aborti spontanei, tardivi, delle gravidanze extrauterine e delle morti in grembo, passando al 24,9, contro il 26,4% dell’anno precedente. Il tasso di successo della fecondazione artificiale praticata nel nostro Paese è in
suoi detrattori non si sono arresi neppure davanti alle evidenze scientifiche e dopo vari tentativi sono riusciti a a legge 40 sarà esaminata dai giudici portare la legge davanti ai della Corte Costituzionale nell’udienza giudici della Consulta, che a che si terrà il 31 marzo. Divieto di diafine marzo giudicheranno sulla gnosi pre impianto, limite massimo di 3 legittimità costituzionale del embrioni per ciclo, previsione di un unico divieto di diagnosi pree contemporaneo impianto e possibilità di impianto. Ed è proprio questo revocare il consenso all’impianto solo fino uno dei profili maggiormente al momento della fecondazione: sono quecriticati. La diagnosi presti i profili della legge, contenuti in particoimpianto, si dice, permette di lare negli articoli 14 e 6, su cui la Consulta avere figli sani. I dati forniti dai sarà chiamata ad esprimersi. Il fascicolo è Paesi in cui questa tecnica è giunto alla Corte Costituzionale attraverso permessa dimostrano la l’ordinanza di rimessione del Tar del Lazio saggezza della "via italiana": di gennaio del 2008, e due ordinanze ediversi studi scientifici messe successivamente da due giudici di pubblicati in questi ultimi anni Firenze. (I.N.) sulla base di queste esperienze affermano, infatti, che la diagnosi pre-impianto è una tecnica pericolosa in sé, nel linea con quello europeo, anche se c’è senso che il prelievo stesso di una sola un’incidenza negativa dovuta all’età cellula può provocare danni all’embrione, sempre più avanzata delle donne che incidendo negativamente sulla buona accedono alle tecniche (il 24% delle riuscita della gravidanza. Oltre a questo, vi donne ha 40 o più anni). è un’alta possibilità di errori diagnostici, che gli studi più recenti attestano in una percentuale non inferiore al 15%, sia di falsi negativi (un embrione anormale risulta sano) sia di falsi postivi (un embrione sano risulta anormale). Tutto ciò non solo porta alla distruzione di di Elena L. Pasquini embrioni non patologici, ma dimostra quanto la diagnosi pre-impianto sia lontana dalla "garanzia" di ottenere un figlio sano. Questo perché nelle prime ore dalla fecondazione possono esistere dei "mosaicismi", in cui sono presenti popolazioni cellulari differenti composte da cellule sane e cellule che risultano a 1.276 diagnosi prenatali per malate, ma che già dopo una settimana cercare microdelezioni del potrebbero normalizzarsi. cromosoma Y che determinano infertilità maschile, secondo i dati eventuale introduzione della presentati a novembre dalla Società diagnosi pre-impianto nel nostro di genetica umana e dell’Istituto ordinamento comporterebbe Mendel, e «che certo non è cruciale conseguenze destabilizzanti per tutta la conoscere prima della nascita», come disciplina perché non si coniugherebbe aveva sottolineato in quella con diversi altri articoli delle normativa: occasione Dallapiccola. innanzitutto con l’articolo 1, che riconosce l’embrione come soggetto di rospettive inquietanti, disse diritto, con l’articolo 14, che vieta la allora il genetista, per il numero distruzione, la crioconservazione e la crescente di test inutili, per creazione di più di 3 embrioni per ciclo; l’aumento ingiustificato dei centri e infine stravolgerebbe la disciplina dettata per la grande quantità di strutture sull’accesso alle tecniche, ora riservato agli non certificate. Il nodo dei centri di aspiranti genitori che hanno problemi di genetica è stato ricordato più volte sterilità o infertilità. Tale limitazione alle dai relatori della Conferenza coppie con questi problemi, è giustificata internazionale sulle malattie rare: i dal fatto che la legge, come recita l’articolo dati riportati da Ségolène Aymé e 1, è stata varata «al fine di favorire la relativi alla rete Orpha.net, database soluzione dei problemi riproduttivi europeo che raccoglie informazioni derivanti dalla sterilità o dalla infertilità su geni, malattie e centri, mostrano umana», coniugando questa finalità con il come pochissime siano le strutture rispetto della natura umana certificate in rapporto alle migliaia di dell’embrione. Ammettendo la diagnosi realtà che effettuano test genetici. Un pre-impianto si dovrebbe necessariamente ruolo fondamentale è quello della ampliare l’accesso alla tecniche anche a consulenza genetica, ha sottolineato coppie che infertili non sono, Dallapiccola, del personale, cioè, in stravolgendo la ratio della disciplina, che grado di accompagnare il paziente e permetterebbe la via artificiale anche a chi spiegare i risultati delle analisi. potrebbe generare naturalmente, nella speranza di avere un figlio sano.
Divieto di diagnosi preimpianto all’esame della Consulta
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prospettive I test genetici? Vanno di moda
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Denti riparati con staminali
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ddio dentiere e protesi: i denti in futuro potranno essere riparati in modo naturale, o addirittura ricrescere. Tutto questo grazie a un singolo gene. Farà discutere la scoperta di un gruppo di scienziati della Oregon State University, il cui studio è stato pubblicato su "Proceedings of the National Academy of Sciences". I ricercatori hanno individuato il gene responsabile della crescita dello smalto, il duro strato esterno dei denti che non può riformarsi. Esperimenti sui topi hanno dimostrato che il gene, un "fattore di trascrizione" chiamato Ctip2, ha diverse funzioni, che coinvolgono le risposte immunitarie e lo sviluppo di pelle e nervi. Ma anche la produzione dello smalto dei denti, attraverso le cellule specializzate chiamate ameloblaste. Il controllo di questo gene, secondo gli scienziati, combinato con la tecnologia sulle cellule staminali, potrebbe rendere la creazione artificiale di denti una possibilità reale.
malattie rare e sui farmaci orfani, conclusa ieri a Roma presso l’Istituto superiore di sanità.
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enticinque milioni di europei soffrono di una malattia rara; la ricerca ha individuato 2100 geni responsabili di queste patologie e 2950 sono i test genetici messi a punto finora. «Abbiamo tantissimi test per questo tipo di malattie – ha spiegato Dallapiccola – utili per fare diagnosi che non possono essere raggiunte in altro modo, per validare alcune diagnosi difficili, migliorare la conoscenza della malattia e anche evitare analisi inutili». Il rischio, però, è una deriva sulla quale l’Italia si sembra già avviata: una moda alimentata dalla comunicazione commerciale di test sulla cui utilità e affidabilità esistono troppi punti interrogativi. Così nel nostro Paese si arriva a 560 mila test l’anno, con una concentrazione maggiore al Nord, e
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scoperte
Indispensabili nella cura delle malattie rare, troppo spesso utilizzati a sproposito: il punto in un convegno a Roma
di Tommaso Gomez
ella diagnosi e nella terapia delle malattie rare, la genetica è la carta su cui punta la ricerca. E lo strumento privilegiato a disposizione di pazienti e scienziati sono i test genetici, Non è un caso se la domanda di esami di questo tipo è cresciuta in Italia del 30 per cento solo negli ultimi tre anni, con un aumento senza precedenti nel numero dei laboratori che effettuano queste analisi e che ci porta ai vertici delle statistiche europee. Spesso, però, si ricorre ai test senza un reale motivo, senza la consulenza di un genetista, in strutture che non garantiscono qualità, assecondando una tendenza che porta a chiedere la salute a ogni costo e che fa acquistare test genetici persino su internet. L’impennata nella domanda di test genetici è stata sottolineata ancora una volta da Bruno Dallapiccola, direttore scientifico dell’Istituto Mendel di Roma, durante la Conferenza internazionale sulle
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Fine vita, dàgli al terzista
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ngelo Panebianco stia tranquillo. Non intendiamo tirargli le orecchie, mordergli il naso, tempestarlo di pomodori fradici. Noi. Sottolineeremo semplicemente con la matita tirate, morsi e pomodori altrui, informando i nostri lettori del formidabile dibattito sul fine vita in corso sulla stampa italiana. Dovrà ammettere, Panebianco, che a cominciare è stato lui. Corriere della sera, 23 febbraio, prima pagina. Una botta ai neoguelfi: «I fautori della "sacralità della vita" sbagliano di grosso a volere imporre per legge a tutti i loro valori (la sacralità della vita è un concetto privo di senso per chi non crede in Dio)». I neoguelfi, insomma, attentano al pluralismo. «Ma sbagliano anche i fautori della "libertà di scelta". Costoro la fanno troppo semplice, banalizzano in maniera inaccettabile il problema. Non è vero che essi si limitano a rivendicare un "diritto" che i credenti sono liberi di non praticare». Anch’essi intendono «far prevalere la loro concezione della vita e della morte». Tutto sbagliato, la legge non dovrebbe occuparsi della cosa: «La legge è uno strumento troppo grossolano, troppo rozzo (…). Due ragioni, o due torti, si fronteggiano. Il problema verrà affrontato a colpi di maggioranza (e nessuno, per favore, se
Panebianco si chiama fuori dal dibattito fra «guelfi e ghibellini» sul disegno di legge Critiche morbide dai cattolici, colpi bassi dalla sinistra ne lamenti: è la democrazia, bellezza). Vorrà dire che faremo l’alternanza, a seconda di chi vince e di chi perde le elezioni, anche delle concezioni della vita e della morte. Davvero un bel risultato».
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priti cielo. Maurizio Lupi (unica voce neoguelfa) va sul morbido (Corriere, 24 febbraio): «L’obiettivo non è alimentare uno scontro ideologico tra guelfi e ghibellini. Non è neanche imporre dei valori. L’obiettivo è evitare che, d’ora in poi, basti l’interpretazione di un giudice per decidere su un tema così delicato come la vita e la morte di una persona». Anche Claudia Mancina (Riformista, 25 febbraio) dà atto a Panebianco di aver messo sul tappeto un problema serio. Ma tutto alla fine consiste nel garantire «la libertà di giudicare, ciascuno per se stesso, se e fin dove far uso dei supporti tecnici a disposizione. A questo si deve rispondere, non a un generico principio di autodeterminazione». Non la pensa così Sivio Viale, che almeno gioca a carte scoperte (Corriere, 24 febbraio): «Noi ghibellini, favorevoli all’eutanasia, siamo solo persone che
amano talmente la vita da volerle bene anche nel suo viaggio terminale. Come fu per il divorzio, come fu per l’aborto, non è indifferente per nessuno quale torto finirà per prevalere nel regno dei guelfi». Sull’Unità (25 febbraio), infine, Bruno Gravagnuolo non resiste alla tentazione più ferale dei nostri tempi: in un dibattito, prima di tutto ridicolizza l’avversario, infangalo, beffeggialo, togligli credibilità e dignità. Panebianco «ammannisce lezioncine», i suoi sono «goffi e scriteriati fervorini» e si erge a «Sommo Terzo Giudicante». Fino alla botta finale: «Dirimente, in un sistema liberale, è il volere del singolo. Eccolo il punto quindi: la libertà liberale. Così cara a Panebianco da mettersela sotto i piedi». E Panebianco? Si richiama "fuori" (Corriere, 24 febbraio): «Non intendo in alcun modo partecipare a questo surreale referendum sull’esistenza o l’inesistenza di Dio a cui, in sostanza, voi guelfi e voi ghibellini, volete costringere il Paese».
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ost-scriptum: lungi da noi insegnare a un professore, ma con la massima cautela ed umiltà osiamo far notare a Sergio Bartolommei (Unità, 25 febbraio) che eutanasia non significa "dolce morte", e men che meno "dolcissima", come egli pare sicuro che sia stata la morte di Eluana Englaro. Significa «buona morte». Neppure a lui può sfuggire la differenza.
Scienza & Vita: inutili le cellule a uso «privato»
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i riaccende il dibattito sull’opportunità della conservazione autologa del cordone ombelicale, anche a seguito di un rinnovato appello delle biobanche, le strutture adibite a tale pratica, per l’adozione di un nuovo sistema normativo in materia di cellule staminali cordonali. È giusto conservare in forma privata quella che è una riserva di cellule staminali per curare eventuali malattie future? È davvero utile in una prospettiva terapeutica per il donatore? A queste e ad altre domande si propone di rispondere il documento del direttivo di Scienza & Vita "Conservazione autologa del sangue del cordone ombelicale", redatto con l’obiettivo chiarire alcune delle questioni etiche e scientifiche in proposito.
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n Italia, come all’estero, esistono centri adibiti alla raccolta del sangue del cordone ombelicale (Sdco) per «un uso detto eterologo o altruista che ha lo stesso principio alla base delle raccolte e donazioni di sangue per gli adulti: donazioni gratuite e messa a disposizione delle esigenze della collettività». Il documento registra poi l’attuale tendenza verso la pratica della conservazione autologa, dedicata cioè all’uso esclusivo da parte dello stesso donatore e su questa si sofferma. Attingendo a recenti pubblicazioni scientifiche e a pronunciamenti di vari organi competenti in materia, si evidenziano importanti aspetti. Le scarse probabilità di usare il proprio Sdco, calcolate approssimativamente in 1 caso su 2.700 dall’American College of Obstetricians and Gynecologists e il fatto che «la donazione di Sdco dovrebbe essere scoraggiata quando diretta ad uso personale o familiare per la possibilità che nel sangue stesso ci siano cellule che causano la patologia che si vuole curare» (American Academy of Pediatrics) sono motivi sufficienti ad affermare che «la donazione al pubblico deve essere incoraggiata». Sullo stesso binario si muovono il Comitato di Medicina materno-fetale dei ginecologi canadesi, che in un recente articolo, citato ancora nel documento di Scienza & Vita, afferma la necessità di incoraggiare alla donazione altruistica e il Comitato Nazionale di Etica francese che già nel 2002 si pronunciava a favore della "pratica solidale del dono".
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n’altra questione scottante riguarda l’aspetto economico della conservazione autologa, che Scienza & Vita affronta opportunamente: «La raccolta di Sdco pone anche dei problemi di giustizia distributiva e di pari accesso alle risorse, dato che, nella supposizione dell’efficacia salvavita del Sdco usato per se stessi, non tutti i cittadini avranno i mezzi per accedervi, e taluni giungeranno all’indebitamento». Alla luce di tutto questo è possibile fare una serena analisi della legislazione italiana che, al pari di quella francese, non consente la conservazione autologa del Sdco se non in casi di provata utilità per un familiare. Un legge che, per il direttivo di Scienza & Vita, appare dunque «rispettosa dei diritti dei cittadini, portando ad un paritetico accesso ad una sorgente terapeutica ben riconosciuta». Ferma restando la necessità di informare sugli scarsi benefici della conservazione autologa, Scienza & Vita non trascura le «esigenze ormai inarrestabili del mercato» e, nell’eventualità di assecondarle, propone di «permettere la conservazione autologa con una possibilità del Servizio sanitario nazionale di accedere alle scorte private se un qualunque cittadino ne avesse improvviso bisogno e non si trovasse sangue disponibile nelle scorte pubbliche» o di subordinarla alla «donazione di parte del sangue al Ssn». Lorenzo Schoepflin
Avvenire
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onfrontandomi con diversi colleghi mi permetto di segnalare un altro punto che non è mai stato affrontato sui giornali, per rispetto nei confronti del papà di Eluana. Molti di noi si chiedono perché il padre non abbia voluto portare a casa la figlia e non l’abbia assistita a domicilio, decidendo come comportarsi nei suoi confronti. Tengo a precisare che ci sono all’anno migliaia e migliaia di casi in Italia in cui i familiari decidono di portare al proprio domicilio il paziente con patologia irreversibile senza creare dibattiti sui mass media. A questo punto è imperativo che si ponga in atto una legge sulla dichiarazione anticipata, anche se personalmente la ritengo il minore dei mali e non vorrei che potesse dare adito a futuri scenari in cui i fragili, i disabili, gli anziani con Alzheimer, i pazienti con patologie croniche degenerative possano essere "eliminati" nei casi in cui non ci sia al loro fianco un familiare che si faccia carico delle loro sofferenze. Resta comunque fondamentale il rapporto di fiducia tra medico e paziente, per poter affrontare al meglio tale tematica, convinti che il paziente-parente necessita di una dimensione relazionale e sociale oltre che tecnicoprofessionale. Termino queste poche righe citando anch’io ciò che ha detto un laico non cattolico medico come Jannacci: "Speriamo in una carezza del Nazareno" per alleviare questa ferita esistenziale di tutti noi. Giovanni Belloni, presidente Federazione Regionale degli Ordini dei Medici Chirurghi Odontoiatri della Lombardia Presidente Ordine Prov.le Medici Chirurghi e Odontoiatri di Pavia
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mportante è poi chiarire che cosa voglia effettivamente la gente. Secondo i radicali, Augias e i compagni della Consulta di bioetica, sembra che gli italiani siano tutti in fila per rifiutare le cure mediche. Si tratta di chiacchiere. Perché gli studi di accreditate istituzioni scientifiche quali l’Istituto tumori di Milano hanno rivelato ciò che le persone comuni chiedono veramente: non vogliono soffrire inutilmente e vogliono essere accompagnati alla morte in modo degno di una persona umana, quindi con le cure antidolore, le cure palliative nel loro complesso, comprendenti anche l’attenzione dei servizi sociali alla propria famiglia. La medicina palliativa, vera rivoluzione della nostra epoca (ribadiamo che è scandaloso che non sia ancora sufficientemente applicata) ha mostrato che si può trattare adeguatamente il dolore delle persone che soffrono, senza bisogno di uccidere nessuno. Abbiamo gli strumenti per venire incontro ai bisogni delle persone, usiamoli bene e rendiamoli velocemente disponibili a tutti. Una prima conclusione è perciò che non c’è alcuna richiesta di eutanasia tra la gente normale. Essa deriva solo da posizioni ideologiche che una piccolissima minoranza vuole imporre a tutti.
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«Studium»: laicità e morte assistita «In margine al caso Eluana: riflessioni giuridiche e morali sul vivere e sul morire» è il titolo di un lungo approfondimento contenuto nell’ultimo numero di Studium, il bimestrale di cultura diretto da Giuseppe Lazzaro. A trattare il caso drammatico e le ricadute che esso ha avuto anche sul dibattito sempre così acceso in Italia - su laicità e laicismo, sono il gesuita Piersandro Vanzan e Carla D’Agostino Ungaretti. medici su ciò che dovrebbero fare o non fare di fronte a specifiche situazioni di malattia terminale, in particolare si vorrebbe introdurre la possibilità di rifiutare anche l’alimentazione e
introdurre il progetto eutanasico attraverso il più soffice motto "nessuno deve decidere per me" oppure "Io voglio essere padrone della mia vita", con l’invito a dettare indicazioni precise ai
ato che tutto ciò è ben noto ai sostenitori dell’eutanasia, essi stanno cercando di
contromano
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ono un medico di 60 anni che per 35 anni ha svolto la sua attività professionale in reparti di medicina interna di alcuni ospedali di Pavia e provincia. Nella mia attività lavorativa mi sono trovato di fronte a parecchi casi di pazienti in fase preterminale o terminale e li ho affrontati insieme ai familiari rispettando sempre la volontà dei pazienti stessi, senza però inficiare il Giuramento ippocratico. Per quanto riguarda il caso Englaro, la classe medica si è divisa su due fronti come è accaduto all’interno della popolazione. È presente una componente che ritiene che ciò che è stato fatto ad Eluana sia stato un atto dovuto e un’altra componente, di cui faccio parte anch’io, che ritiene che sia stato un atto eutanasico, poiché il non nutrire e non idratare il paziente è da noi ritenuto un vero e proprio atto di eutanasia, per di più non tanto dolce.
Il disegno di legge Calabrò sul testamento biologico in discussione al Senato, secondo i radicali, Augias e Beppino Englaro sarebbe il prodotto del solito "oscurantismo clericale", animato da scarso rispetto per l’autonomia del paziente e sordo alle richieste diffuse della gente, schierata a favore dell’eutanasia. Ma le cose stanno davvero così? L’esperienza – laica – di altri Paesi dice il contrario
l’idratazione del malato, realizzando così una vera forma di eutanasia. Diventa chiaro perciò il motivo per cui si parla giustamente di strategia del cavallo di Troia a proposito del testamento biologico. Sulla questione della libertà personale che sarebbe maggiore se potessimo rifiutare tutte le cure (ma l’alimentazione e l’idratazione, anche se somministrate con qualche ausilio, non sono cure mediche!), l’esperienza olandese ha mostrato, con una chiarezza che non ammette repliche, che la libertà delle persone, lungi dall’essere stata incrementata per mezzo delle scelte eutanasiche, è stata consegnata nelle mani dei medici che sono sempre più i veri decisori.
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noltre l’esperienza della vita ci dice che le prospettive cambiano quando la morte ti guarda negli occhi. Ascoltiamo la dottoressa Sylvie Menard:
di Michele Aramini
«Quando la diagnosi di una malattia dalla quale non si può guarire viene scritta sotto il tuo nome, allora non pensi più all’eutanasia, ad abbreviare la tua vita prima del tempo. Tutto si ribalta, valori e convinzioni. Anche se prima, quando avevi il dono della salute, credevi che fosse un diritto e una tua libertà avere una morte degna che abbreviasse le sofferenze. Dopo, invece, vuoi viverla fino alla fine, la tua esistenza. Vuoi aggrapparti a ogni minuto». Questo ci dice che la libertà dell’uomo non è un fatto astratto, programmabile una volta per sempre in un contesto di gelida solitudine. Infine, la Costituzione, così spesso impropriamente citata nel suo articolo 32, garantisce correttamente dall’uso improprio delle cure mediche, mentre non garantisce affatto il diritto di morire, come accadrebbe se si potessero rifiutare con superficialità l’idratazione e l’alimentazione.
Far morire non è mai una cura iverse affermazioni riportate di recente dai quotidiani mi sembrano discutibili. Cominciano con Angelo Panebianco per il quale «la sacralità della vita è un concetto privo di senso per chi non crede in Dio" (Corriere della sera, 23 febbraio). Ora, è vero che non si può parlare di qualcosa di sacro se non esiste il divino. Ma per sostenere che non si deve uccidere (salvo il caso della legittima difesa e dell’azione militare) si può fare leva sulla "dignità" della vita umana. E questa può essere delucidata (si vedano diversi articoli su Avvenire) senza fare riferimento a Dio.
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di Giacomo Samek Lodovici
Il medico assiste, non elimina
di Giovanni Giacobbe *
la lettera
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l disegno di legge relativo al cosiddetto testamento biologico è approdato tra molte polemiche nell’aula del Senato. La ragione della discordia va cercata nel tentativo di alcune forze politiche di introdurre, per mezzo del testamento biologico, forme più o meno esplicite di eutanasia. In tal modo si è determinato un grave inquinamento del dibattito sullo strumento giuridico delle direttive anticipate che, se fatto bene, potrebbe avere una qualche utilità. Il testo licenziato dalla Commissione Sanità segue la Convenzione sulla Bioetica di Oviedo che all’articolo 9 afferma esplicitamente che le volontà del malato debbono essere prese in considerazione, ma che esse non hanno un valore vincolante per i medici. Quindi il testo non è il solito prodotto "oscurantista clericale", ma in linea con il principale documento europeo sulla bioetica.
diritto & rovescio
argomenti
Liberi di decidere sì, ma non per l’eutanasia
ncora, secondo Silvio Viale, «le cure palliative, se ben condotte, non sono così lontane da una terapia eutanasica» (sempre Corriere della sera, 24 febbraio). Ora, è vero che alcune cure palliative possono cagionare la morte di un malato, ma c’è una differenza cruciale tra queste cure e l’eutanasia. Infatti, quando io sommistro delle cure palliative per ottenere la cessazione o l’alleviamento della sofferenza di un malato, non voglio l’accelerazione della morte del malato, bensì, a volte, la provoco, in certi casi consapevolmente, come effetto collaterale, che non è da me voluto né come fine, né come mezzo. In schema: somministrazione delle terapie – cessazione della sofferenza –
Il dibattito sull’eutanasia e sul fine vita è stato spesso deformato da dichiarazioni fuorvianti. Eccole raccolte, analizzate e smontate morte. Un effetto collaterale è appunto quello che non voglio né come fine, né come mezzo. Ad esempio, la chemioterapia comporta le vertigini, la spossatezza, ecc.? Questi effetti sono negativi, ma io posso scegliere di somministrare la chemioterapia a un malato, purché sia l’unico modo per guarirlo e purché ci sia una proporzionalità (a volte assai difficile da calcolare) tra gli effetti negativi e quelli positivi (guarire o contenere la malattia). Invece, realizzo un’eutanasia se pratico un intervento con cui voglio la morte del malato come mezzo per far cessare le sue sofferenze. In schema: realizzazione di un intervento – morte – cessazione della sofferenza. Dunque, in entrambi i casi il risultato finale è identico, ma l’azione con cui si giunge a questo risultato è diversa: la prima non vuole la morte di un essere umano, la seconda invece sì. Non è dunque eutanasica, per esempio, una sedazione che vuol far terminare le sofferenze di un malato e che cagiona come effetto collaterale la sua morte; mentre è eutanasica una sedazione che vuol produrre la morte del malato, sia pure per non farlo piú soffrire.
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nalogicamente, secondo Beppino Englaro «dire no ad una terapia salvavita non ha niente a che vedere con l’eutanasia. Una cosa è chiedere un’iniezione letale, un’altra chiedere di lasciarsi morire: l’ha chiesto anche Giovanni Paolo II» (Corriere della sera, 22 febbraio). In realtà bisogna di nuovo distinguere. C’è una differenza morale decisiva tra la cessazione delle terapie nel caso del rifiuto dell’accanimento terapeutico e quella che configura un’eutanasia. Ad esempio, non compio eutanasia se sospendo delle terapie in se stesse (eccessivamente) dolorose, per ottenere la cessazione-alleviamento della sofferenza, e non voglio in alcun modo l’accelerazione della morte del malato, bensì la determino, anche consapevolmente, come effetto collaterale, non voluto né come fine, né come mezzo; compio invece una eutanasia se interrompo le terapie perché voglio la morte del malato come mezzo per ottenere la fine delle sue sofferenze, che non sono determinate dalla terapie stesse. Se non vogliamo parlare di eutanasia, resta il fatto che si tratta di un’azione volutamente uccisiva, che è gravemente malvagia. Quanto a Giovanni Paolo II, egli chiese di non subire accanimento terapeutico, perché ciò che gli venne prospettato sarebbe stato particolarmente doloroso in sé e inutile.
Eluana, quelle sentenze in contraddizione
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uando ormai si sperava che dopo il tragico epilogo della drammatica esistenza di Eluana, si aprisse un momento di silenziosa meditazione e di pacata riflessione, la manifestazione di Piazza Farnese a Roma e, soprattutto, una partecipazione, anche televisiva che ci si augurava non vi fosse, hanno riaperto il "caso", alimentando le perplessità di quanti avevano temuto che una triste situazione personale e familiare tendesse a trasformarsi in un fatto politico, o comunque strumentalizzato per conseguire risultati politici. Stando così le cose, non sembra inopportuno proporre, pacatamente e senza volersi inserire nella polemica politica, che non ci appartiene, alcune riflessioni. La dialettica – o polemica – che ha caratterizzato i giorni cruciali della vicenda si è fondata su alcuni equivoci. Si è affermato – per legittimare la posizione, per così dire, interventista – che essa trovava fondamento nel decreto della Corte di Appello di Milano – emesso sulla base della nota sentenza della Corte di Cassazione – che, essendo passato in giudicato, sarebbe divenuto intangibile. In realtà, nessun giudicato ha definito l’iter processuale: infatti, l’articolo 742 del codice di procedura civile testualmente dispone che «i decreti possono essere in ogni tempo modificati o revocati». Dunque, evocare l’autorità del giudicato è stato improprio e suscita perplessità che autorevoli giuristi che hanno trattato il tema non abbiano tenuto conto dell’art. 742 del codice di procedura civile. Sulla base di questa – quantomeno dubbia – premessa, si è negata legittimità all’ipotizzato intervento del legislatore per dare diversa soluzione al problema, affermandosi che da tale intervento si sarebbe determinato un potenziale conflitto con la magistratura. Anche questa indicazione si fonda su di un equivoco: infatti, il nostro ordinamento prevede un istituto – interpretazione autentica della legge – che legittima il legislatore ordinario ad intervenire per definire la portata di una disposizione di legge, proprio quando la interpretazione giurisprudenziale si presenti
Nel codice penale è già sanzionato l’omicidio del consenziente e l’aiuto al suicidio. Due punti, tra tanti, che la magistratura non ha voluto tenere in considerazione e che hanno condizionato da subito l’intera vicenda
nunciato il principio secondo cui il soggetto che intenda disporre in ordine alle terapie cui è sottoposto «deve esprimere una volontà non astrattamente ipotetica ma concretamente accertata, un’intenzione non meramente programmatica ma affatto specifica, una cognizione dei fatti non soltanto ideologica ma frutto di informazioni specifiche in ordine alla propria situazione sanitaria, un giudizio e non una precomprensione».
contraddittoria, ovvero non condivisibile. Chi è aduso all’analisi della giurisprudenza sa bene che anche di recente il legislatore è intervenuto per "correggere" indirizzi giurisprudenziali ritenuti non conformi al sistema ordinamentale, ovvero ad esigenze di giustizia. Infine, si è evocata l’autorità della Corte Costituzionale per affermare che l’indirizzo seguito dalla Corte di Appello di Milano e, prima ancora, dalla Corte di Cassazione, avrebbe trovato in quella sede conferma.
unque, vi è una evidente divaricazione tra la richiamata sentenza della Corte di Cassazione e quella che ha aperto, per così dire la "soluzione" del caso Eluana. Certo, non vi è ragione di scandalo se vi siano pronunce divergenti, anche nell’ambito del Supremo Collegio; tuttavia, non può non emergere qualche perplessità, in considerazione della delicatezza della materia e della conseguente esigenza di uniformità di indirizzi giurisprudenziali. Nasce, a questo punto, una ulteriore perplessità in ordine alla sentenza della Corte di Cassazione relativa al caso Eluana: sembrerebbe, infatti, che, nella ricostruzione del sistema normativo ordinamentale operata dalla Corte di Cassazione, non sia stato dato adeguato rilievo all’art. 5 del codice civile, che vieta gli atti di disposizione del proprio corpo che determinino alterazioni permanenti di funzioni vitali; all’art. 579 del codice penale, che sanziona l’omicidio del consenziente; all’art. 580 dello stesso codice, che sanziona l’istigazione o l’aiuto al suicidio; all’art. 583 bis del codice penale, che sanziona le pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili, pur nella consapevolezza che tali mutilazioni possano essere determinate da adesione a credo religioso, che trova garanzia nella Costituzione. Forse, se si fosse data maggiore attenzione alle indicate disposizioni e, soprattutto, ai principi che vi stanno alla base, si sarebbe potuta definire altrimenti la vicenda. Spetterà al legislatore ordinario intervenire, definendo in modo univoco l’ambito di operatività dell’art. 32 della Costituzione, nel più generale contesto espresso dall’art. 2 della stessa Costituzione, che garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, tra i quali è certi preminente il diritto alla vita.
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n realtà, la Corte Costituzionale si è limitata ad osservare che la Corte di Cassazione non aveva travalicato i limiti di quella che viene definita "funzione nomofilattica". Ma vi è di più: si legge nella ordinanza della Corte Costituzionale testualmente che «la vicenda processuale che ha originato il presente giudizio non appare ancora esaurita, e, d’altra parte, il Parlamento può in qualsiasi momento adottare una specifica normativa della materia»: dunque, la chiara indicazione della Corte Costituzionale è nel senso che non si è formato alcun giudicato e che, comunque, restava nella sovrana valutazione del Parlamento di intervenire o meno. Sgombrato il campo dagli equivoci che hanno caratterizzato la polemica, soprattutto politica, ed hanno comportato una certa disinformazione dell’opinione pubblica, resta aperto il problema di fondo: che, si badi bene, nel caso di cui ci si occupa, non è tanto quello della pretesa libertà di scelta in ordine alla conclusione della propria vita, quanto piuttosto quello del se debba richiedersi, per l’esercizio di tale pretesa libertà, una manifestazione esplicita ed informata di volontà, riservata in via esclusiva al soggetto. Sul punto sembra doversi lasciare la parola alla Corte di Cassazione, che, con sentenza 15 settembre 2008, n. 23676, ha e-
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* Presidente del Forum delle Associazioni Familiari
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Avvenire
Giovedì, 26 febbraio 2009
www.avvenireonline.it\vita
Ibridi & cloni: quando la scienza sbaglia tutto box Scienza & Vita scenari
di Augusto Pessina*
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Pillola del giorno dopo Cresce l’uso
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resce in Toscana – anche se non in maniera significativa – l’uso della pillola del giorno dopo. La conferma arriva dai report sulle confezioni di levonorgestrel vendute attraverso le farmacie territoriali convenzionate: secondo questi report, fornitici dalla Regione Toscana, 35 donne ogni mille in età fertile, tra i 15 e i 49 anni fanno ricorso a questo prodotto (erano 34 nel 2007). Nel primo semestre 2008, dalle farmacie toscane sono uscite 14.516 confezioni di pillole (erano state 13.342 nel primo semestre del 2006 e 13.575 nei primi mesi del 2007). Più marcato l’incremento di prescrizioni proprio a Pisa, nei mesi scorsi tristemente balzata sulle prime pagine dei quotidiani perché qui alcune donne avrebbero avuto difficoltà a reperirla: 1.797 le confezioni utilizzate nel primo semestre 2008 (erano state 1.472 nello stesso periodo di due anni prima e 1.570 nel primo semestre 2007). Molte, se si pensa che sono 74.239 le donne residenti all’interno del perimetro di competenza dell’azienda sanitaria di Pisa; e che questo prodotto è catalogato come "contraccettivo d’emergenza" (anche se molti ne rilevano il carattere abortivo) e che, appunto, anche a detta del ginecologo radicale Silvio Viale «dovrebbe essere assunta solo in caso di emergenza».
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l commento di Marco Carraresi, capogruppo dell’Udc in Consiglio regionale: «Alcuni giornali, sempre in prima linea contro l’insegnamento della Chiesa e dei valori cristiani, hanno fatto pubblicità gratuita a questo prodotto. Parlare, com’è stato fatto, di "boom" nell’uso della pillola del giorno dopo, quando l’incremento, in due anni, è inferiore al 10%, mi sembra fuorviante e finalizzato a promuoverne l’uso, in maniera non certo responsabile». I dati – continua Carraresi – «sono comunque preoccupanti, perché a essi è sottesa spesso una grave sottovalutazione degli effetti della pillola del giorno dopo, e dei suoi meccanismi di funzionamento, spacciati come contraccezione d’emergenza. Non vi è sicuramente la percezione di ciò che questo prodotto è, ovvero un abortivo». Andrea Bernardini
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anza peraltro è già noto per i suoi annunci. Nel 2002 aveva anche promosso attraverso i giornali di Boston una chiamata delle donne alla donazione di ovociti e la stessa cosa è stata fatta in Inghilterra dove il programma per creare ibridi (la tecnica di trasferimento nucleare) utilizzando ovociti animali e cellule somatiche umane è stato finanziato per sopperire alla mancata donazione di ovociti umani. Le donne ,infatti, non hanno risposto entusiasticamente all’appello (anche perché per donare ovociti queste devono sottopporsi a pesanti terapie ormonali). Nell’agosto del 2006 Lanza annuncia sulla rivista Nature che è possibile produrre staminali utilizzando un solo blastomero estratto da un embrione. Ciò suscita grande interesse. Richiesto di conoscere meglio i rischi insiti alla biopsia necessaria per prelevare il blastomero, Lanza interviene su Nature online ammettendo candidamente (forse si era scordato di scriverlo!) che gli embrioni non rimanevano intatti («... did not remain intact»). Cioè, per intenderci meglio, morivano. Nel lavoro scientifico pubblicato pochi giorni fa sulla rivista Cloning and Stem Cells egli conclude (e c’è da credergli!) che gli ovociti bovini e di coniglio non sono in grado di riprogrammare il
formazione
Toscana
di Angela Maria Cosentino
In una ricerca l’americano Lanza torna a insistere sulla clonazione. E dimentica tutto il resto
di questi giorni la notizia data da Robert Lanza (ricercatore americano di grande spessore e con esperienza nel campo delle cellule staminali) che dice in sintesi che gli ovociti animali non possono sostituire quelli umani per produre cellule staminali. In molti hanno già tirato un sospiro di sollievo pensando che questo chiude definitivamente la porta alla creazione dei cosidetti ibridi uomo-animale che i mass media hanno chiamato fantasticamente "chimere". E questo potrebbe essere un fatto positivo. Ma, letta per intero e nel verso giusto, questa notizia dice anche che la clonazione umana è possibile e quindi è la via da seguire. Del resto sulla medesima rivista online di Cloning and Stem Cells un gruppo di ricerca cinese afferma di aver clonato cinque embrioni umani! A pubblicare ,insieme a Robert Lanza della Advanced Cell Technology (Act) ditta privata di Worcester , Massachusetts, c’è uno stuolo di ricercatori di altri centri privati e pubblici e, guarda caso, la notizia esce proprio quando Obama sta aprendo, negli Usa, le porte alla ricerca con le cellule embrionali umane. La settimana scorsa la Food and Drug Administration ha autorizzato la ditta Geron a condurre test per valutare la sicurezza delle cellule embrionali in un gruppetto di pazienti che hanno ricevuto danni al midollo spinale e le azioni della Geron sono schizzate in alto (alla faccia della crisi).
Dignità del malato: Fano a convegno
animale) sostengono che questi dati non sono affatto definitivi e criticano Lanza di non aver fatto esperimenti adeguati con le scimmie.
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el contesto della cultura contemporanea che considera l’uomo in modo riduzionista, senza tenere conto della dimensione della sua trascendenza e della sua immagine e somiglianza con il Creatore, siamo chiamati a riflettere sul valore della vita umana, della malattia, della morte non solo fisica e biologica. Non solo in termini di qualità ma soprattutto in termini di dignità». Con queste parole monsignor Armando Trasarti vescovo di Fano-Fossombrone-CagliPergola, ha annunciato il convegno di studi sulla bioetica del dolore e fine vita organizzato dal Centro di Bioetica Diocesano, in collaborazione con l’Ordine Provinciale dei Medici Chirurghi, dal 21 al 24 aprile presso il Centro Pastorale di Fano. Tra i relatori Luciano Fattori, presidente provinciale dell’Ordine dei Medici Chirurghi della Provincia di Pesaro e Urbino, l’oncologo Marco Maltoni, Antonio Gioacchino Spagnolo, ordinario di Bioetica di Macerata; Maurizio Pietro Faggioni, ordinario di Bioetica Accademia Alfonsiana di Roma (info e iscrizioni su www.associazionelafamiglia.it/bioeticadeldolore.html) Giacomo Ruggeri genoma di nuclei di cellule somatiche umane mentre ciò sarebbe possibile con ovociti umani (confermando così la possibilità della clonazione umana). Naturalmente i sostenitori degli embrioni ibridi con a capo Minger (che ha avuto in Inghilterra la licenza per costruire gli ibridi uomo-
omunque sia il succo di tutta la vicenda resta quello di "un colpo al cerchio e uno alla botte". Da una parte si sottolinea che la strada dell’ibrido non è tecnicamente percorribile (almeno per ora) e dall’altra che si deve investire sulla creazione di embrioni umani per ottenere cellule staminali. E questo rafforzerà anche l’intervento di Obama al quale si apriranno tutte le porte. Questa breve nota non ha lo scopo di ritornare sulle numerose e drammatiche controindicazioni (anche scientifiche) che tale strada apre, tuttavia vale almeno la pena ricordarci che il vero problema resta e resterà quello etico-antropologico. Il punto di tutta la questione riguarda la concezione di persona umana e il rispetto della sua dignità dal concepimento alla morte. La radice di fondo da cui nasce questa ostinata ricerca sugli embrioni è stata bene descritta da Benedetto XVI nella sua lezione di Ratisbona e consiste nella sbagliato uso della “ragione e della razionalità” umana. Da meraviglioso strumento per indagare e conoscere la realtà e il significato del nostro essere uomini essa è stata ridotta a criterio di misura e di definizione della realtà stessa. Questo contribuisce alla tragica assolutizzazione della scienza intesa come "il massimo bene" per una umanità astratta e quindi incapace di riconoscere l’ unicità e l’irrepetibilità di ogni singolo essere umano e in particolare di quelli più indifesi. *Presidente Associazione Italiana Colture Cellulari Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università degli Studi di Milano
frasi sfatte
di T.G.
La politica non gli interessa, ma la fa «Mi accusano ingiustamente di usare la mia storia per fare politica. Ma non mi interessa». Beppino Englaro, Corriere della sera, 21 febbraio
erché mai fare politica è qualcosa di cui essere "accusati"? È così brutta e sporca, la politica? Se fare politica significa entrare in Parlamento, siamo d’accordo: Englaro non fa politica e, assicura lui, non ha intenzione di farla: «Candidarmi? Mai, neppure se tornasse il grande partito socialista». Ma quando scrivi un libro; quando vai nove volte a Porta a Porta (il terzo ramo del Parlamento)… per noi, questo è fare politica, in senso lato e nobile del termine. Se vai in tv a dire che un disegno di legge è «barbaro», se ti colleghi con
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una manifestazione di piazza fai politica eccome. Se sul giornale più diffuso d’Italia dichiari: «Con mio padre parlavo di Loris Fortuna, il socialista padre della legge sul divorzio e autore della prima proposta sulla depenalizzazione dell’aborto. Poi ho sempre avuto in mente il partito socialista, del quale Bettino Craxi prese le redini nel 1976. Spero nella rinascita del partito socialista», fai politica. Ed è difficile dar torto a Giuliano Ferrara se scrive: «È acclarato che è stata compiuta una gigantesca operazione politica». A Englaro «non interessa», forse. Ma la fa, eccome se la fa.
Piacenza fa le pulci al testamento «tanatologico»
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pochi giorni dalla morte di Eluana Englaro, a Piacenza si è infatti discusso del "diritto a morire" in un interessante convegno dal titolo provocatorio: Testamento biologico (o tanatologico!?). Il convegno è stato promosso, oltre che da Scienza & Vita Piacenza, anche dall’Amci, dall’Ordine dei medici, dal Meic, dall’Ugci e dalla Fondazione San Benedetto. Piergiorgio Poisetti, nefrologo presso l’ospedale Guglielmo da Saliceto e instancabile presidente dell’associazione piacentina, ci tiene a sottolineare i meriti di tutti gli organizzatori: «Se questa iniziativa è stata posta in essere così rapidamente, dobbiamo senz’altro ringraziare il dottor Carlo Mistraletti, persona vulcanica, che si dedica con entusiasmo a quella che possiamo definire un’efficace "prevenzione" degli eventi». Già, come si fa a mettere un vulcano in pensione? L’incontro, svoltosi nelle antiche aule di un seminario attualmente sede di un liceo, si è rivelato un vero e proprio happening bioetico, che si è snodato tra l’analisi medica, politica e giuridica dei fatti.
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ommenta Poisetti: «Questi argomenti sono sempre ostici da veicolare. Si stemperano davanti alla tv, nei talk show dove, comunque, siamo spettatori passivi. Dal vivo, in mezzo alla gente, elaborare un discernimento che possa trasformarsi in sentire comune, non è mai semplice». È necessario pertanto elaborare una comunicazione che si presti alla comprensione, senza evitare le note dolenti o i punti critici. L’associazione piacentina si è spesa molto in questo senso: «Come Scienza & Vita abbiamo cercato di portare una sintesi nuova. Secondo noi la bioetica fallisce se non trae linfa da un dialogo continuo, anche tra credenti e non credenti. Al convegno era presente e ha preso la parola anche il dottor Giorgio Macellari, agnostico, che è partito da posizioni pro-eutanasiche e, alla fine, si è messo con noi a cercare risposte. Il nostro sforzo, pur nella certezza delle nostre posizioni, è quello di non contrapporci "l’un contro l’altro armati", cercando, piuttosto, di sottolineare i valori comuni».
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i impone, quindi, la necessità di trovare una terza via che, partendo dai due capisaldi – né accanimento, né eutanasia – superi la contrapposizione tra laicità forte e laicità debole e si avvii verso la formazione di quella che Piergiorgio Poisetti chiama, con felice sintesi, l’etica della vulnerabilità: «Bisogna che si riparta dal basso, dall’incontro quotidiano con la vita, non dalle idee. Noi, come medici, siamo chiamati ogni giorno a confrontarci non con la medicina, ma con il malato». In questa prospettiva, non vale più l’autonomia assoluta della ragione, ma occorre una sensibilità specifica alla condizione della malattia e della fragilità. Scienza & Vita Piacenza non smette dunque di progettare mentre le nuove leve stanno crescendo all’interno dell’organizzazione, perché l’importante è "non farsi mai trovare impreparati dagli eventi". Emanuela Vinai
Anche la vita ha la sua pastorale
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el mese in cui si è celebrata la Giornata per la vita, è partita una nuova iniziativa didattica, il «Corso di pastorale della vita», promossa dall’Istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia all’Università Lateranense. Il corso è condotto da monsignor Elio Sgreccia, presidente emerito della Pontificia Accademia per la Vita e della Fondazione «Ut Vitam Habeant» dedicata proprio alla pastorale della vita. L’iniziativa rappresenta una novità in ambito universitario: «Diverse ragioni – spiega Sgreccia – rendono utile e necessario introdurre un corso di pastorale della vita nel piano di studi teologici. La Chiesa ha un compito speciale nei confronti della vita, soprattutto quella più fragile e indifesa. Inoltre, ha il compito di favorire l’incontro tra la vita umana e la vita di Cristo», sorgente della vita. Di vita umana si occupano in tanti: medici, politici , educatori, legislatori, «ma il compito specifico che solo la Chiesa può svolgere – continua Sgreccia
– è sostenere la vita umana attraverso Cristo e la sua grazia che non si arrende di fronte a chi ha peccato e ha commesso delitti contro la vita. La Chiesa, per tale compito di cui si riconosce il bisogno, può offrire un apporto che tutti dovrebbero gradire e apprezzare».
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n’altra ragione che stimola a promuovere l’iniziativa è «la posizione del magistero verso la vita, richiamata e ribadita da Benedetto XVI». In particolare l’enciclica Evangelium vitae di Giovanni Paolo II è un esempio di organica trattazione della pastorale della vita, che presenta l’aspetto descrittivo, il contenuto biblico, quello morale e l’intervento pastorale. Ma, per applicare un’enciclica rivoluzionaria come la Rerum novarum, occorre inserirne, tra l’altro, le indicazioni nei programmi delle facoltà teologiche. In particolare, per pastorale della vita si intende – come spiega Sgreccia – l’elaborazione di quei contenuti antropologici, filosofici e teologici fondati sulla ragione e sulla fede, che costituiscono il messaggio cristiano in ordine al valore della vita umana e ai mezzi soprannaturali e spirituali propri della Chiesa affinché la vita umana diventi, per il dono della vita divina, essa stessa dono di salvezza.
Il nuovo corso di 24 ore prevede alcune lezioni sul significato della pastorale, come pure lezioni sui contenuti suggeriti dall’Evangelium vitae e sul valore della creazione, per chiarire alcuni dubbi (riproposti dal bicentenario di Darwin) diffusi da una mentalità secondo cui la vita è frutto del caso. Il corso sottolinea anche l’apporto della Chiesa a una piena visione della vita vera, quella eterna che guida le nostre scelte temporali e conforta il cristiano nei momenti del dolore e della morte.
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a nuova offerta formativa si rivolge non solo agli studenti della licenza e del master, già iscritti all’Istituto, ma anche a uditori esterni, previa iscrizione al corso, presso la segreteria dell’Istituto. Tra gli uditori si affacciano laici, in particolare insegnanti e animatori di gruppi parrocchiali, come pure sacerdoti che nel confessionale sperimentano la difficoltà e la delicatezza nel trattare le tematiche della vita, con l’interesse di offrire un apporto di fede e di educazione cristiana all’apostolato della Chiesa. Per informazioni: segreteria del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia (06/69886113;
[email protected])
L’appuntamento con le pagine di Avvenire sui temi della bioetica è per giovedì 5 marzo Per inviare notizie, segnalazioni, proposte, lettere e interventi alla redazione di “è vita”: email:
[email protected] fax: 02.6780483