Apostolo delle nazioni INTRODUZIONE Per conoscere Paolo nella sua missione ai lontani, a quelli di fuori, e la sua concezione della Chiesa (cf. ekklêsia presente almeno 62 volte in 61 versetti del corpus paulinum, in 11 lettere su 13, restando escluse 2Ts e Tt; mentre in tutto il NT il termine è assente, per esempio, da Mc, Lc, Gv, 1/2Pt e in Mt è presente solo due volte, in 16,18, parlando del «primato» di Pietro e in 18,17 sulla correzione fraterna) come convocazione di tutti in un solo nuovo organismo umano, e non in una società secondaria retta da leggi (cf. l’uso di nomos in Rm e Gal soprattutto) sono almeno tre le fonti bibliche da esaminare attentamente: Atti degli Apostoli; 13 lettere che nel primo versetto, come parola d’apertura e mittente portano il nome «Paolo» e, in terzo luogo, 2Pt 3,15-16, un testo biblico, del corpus petrinum, che già documenta come almeno alcune delle lettere di Paolo circolassero nella prima Chiesa, probabilmente dell’Asia Minore, e costituiscano già un primato canonico. Il vocabolario che in queste 3 fonti corrisponde al nostro titolo, e che lo espande e lo spiega, comprende termini tematicamente correlati o correlabili tra loro e perciò utili ad un’analisi sincronica più che diacronica del nostro argomento. Una prima lista di tali voci dovrebbe riguardare innanzitutto il nome del personaggio, Paolo, che prima e durante l’incontro con Gesù, il perseguitato Risorto, è conosciuto come Sàulo e Saùl. Una seconda lista di termini dovrebbe trattare la voce apostolo, come anche apostolato o missione, epistola o missiva, pseudapostolo o iperapostolo. Una terza lista dovrebbe servire a individuare e a descrivere il tema delle «nazioni» come genti, gentili, pagani, popoli, espressioni come «tutti gli uomini», «tutta la terra», o nomi individuali di persone e di luoghi, singolari o collettivi come greci, barbari, sciti, incirconcisi e simili. In sintesi esamineremo, parzialmente, un vocabolario che comprende, nell’ordine alfabetico greco, almeno apostolê, apostolos, ethnos, ekklêsia, paulos, saoul, saulos e pseudapostolos. Lanceremo la lista in una ricerca avanzata e complessa elencando occorrenze e concordanze all’interno di una stessa fonte, cercando di rispettare più che l’ordine storico, sempre ipotetico, quello canonico, leggendo prima Atti, poi il corpus paulinum, e quindi la 2Pt, e nella fonte, per quanto possibile, l’ordine testuale e narrativo. Il libro degli Atti è il secondo volume (cf. At 1,1ss) di un’opera che comprende anche il terzo Vangelo (cf. Lc 1,1-4) solitamente attribuito a Luca, ma la cui identità biblica è ricavabile solo dal corpus paulinum. Di Luca parla Paolo in Fm 24 dove l’associa ad altri «collaboratori», come Marco (solitamente associato a Pietro come suo evangelista; cf. in 1Pt 5,13 l’espressione «figlio mio» con At 12,12), Aristarco e Dema. Insieme a quest’ultimo, che farà soffrire Paolo, Luca compare ancora nei saluti di Col 4,14, come «il caro medico». Anche in 2Tm, altra lettera scritta, come sembra Fm, dalla stessa prigione, forse a Roma, chi scrive, «Paolo», informa che «solo Luca è con me» e aggiunge a Timoteo: «Prendi Marco e portalo con te, perché mi sarà utile per il ministero». In questi testi si incontrano persone diverse, in qualche modo collegate a Paolo e a Luca e qualcuna anche a Pietro, come Marco e Barnaba (cf. At 12,12.25; 15,37.39). È questo Luca che scrive gli Atti degli Apostoli Pietro e Paolo e più di Paolo che di Pietro? Perché lo fa quando, secondo Mt 16,18 (ma che sembra essere un testo tardivo rispetto al corpus paulinum) si parla solo di Pietro – anche se non rispetto a Roma – come di quella «pietra» sulla quale il Maestro, riconosciuto come il Cristo e Figlio del Dio vivente, edificherà la sua ekklêsia. Anche quella tra i pagani?
Nella narrazione di Atti, Luca invece privilegia Paolo che porta il Vangelo fino al cuore dell’impero, fino a Roma, mentre, menzionato l’ultima volta in At 15,14 con il nome ebraico di Simone, Pietro resta a Gerusalemme, come colui comunque che per primo ha aperto la Chiesa ai gentili. In Atti, Luca nomina «Pietro» solo 60 volte in 58 versetti e con il nome di Simone, «detto anche Pietro» lo ricorda pure in At 10,5.18.32; 11,13. In totale, Simon-Pietro non è ricordato nel libro più di 65 volte. Paolo invece con tre nomi diversi, inclusi Saùl e Sàulo, scala vertiginosamente la lista delle preferenze di Luca con almeno 160 menzioni esplicite in oltre 150 versetti. Perché questa differenza tra Pietro e Paolo? Forse la risposta è proprio nei destinatari della stessa missione, che è scelta e mandato di Dio e di Cristo: i gentili, e quindi il mondo oltre il giudaismo per Paolo, che necessariamente deve portare il Vangelo da Damasco e da Gerusalemme fino a Roma, centro dell’impero.
1. SAÙL O SÀULO Saulos, dall’ebraico Shaul, «desiderato» o più letteralmente «ri-chiesto a Yah», è menzionato la prima volta in At 7,58 fra quegli ellenisti, ebrei della diaspora, che salgono a Gerusalemme per le feste di Pasqua e Pentecoste e che hanno almeno una sinagoga in città. Con loro, che eseguono la lapidazione di Stefano, c’è Sàulo che l’approva e vi partecipa, fanaticamente, dopo che è scoppiata una persecuzione contro la Chiesa retta da Giacomo, Cefa e Giovanni (cf. At 1,13 con Gal 2,9). Sàulo s’infuriava contro di essa ed entrando, bene informato, persino nelle singole abitazioni dei discepoli di Gesù a Gerusalemme, sequestrava «uomini e donne e li faceva mettere in prigione» (8,3). Non fa particolari distinzioni di genere, ma solo religiose. Sempre «fremente minaccia» e con grande spirito di iniziativa, da talmid o studente delle Scritture (cf. 22,3), decise di uscire fuori porta; si presentò al sommo sacerdote chiedendogli lettere d’autorizzazione a procedere nelle indagini e a condurre a Gerusalemme, ancora senza tenere distinzioni, «uomini e donne» che gli fossero stati indicati come «seguaci della via di Cristo» nelle diverse sinagoghe di Damasco (At 9,1-2). A questa città, Dammeseq (etimologicamente «silenzioso è il tessitore di tela di sacco»), in Aram, nell’attuale Siria a circa 230 km a nord-est di Gerusalemme, egli stava per avvicinarsi quando d’improvviso lo fulminò atterrandolo e accecandolo «una luce dal cielo» mentre udì «una voce» che lo chiamava: «Saoúl, Saoúl», interrogandolo: «perché mi perseguiti?». In Atti 9,4, il narratore, che vuol essere obiettivo e tagliente, facendo risaltare con questa domanda di Gesù, Messia vero perché vivente, l’errore religioso di Paolo, commesso proprio perché fedele osservante della Torah e zelante per le Scritture che uccidono più che per lo Spirito, ancora sconosciuto o conosciuto male, Paolo si rende conto, e lo dirà nelle sue lettere, di aver camminato secondo la carne e non secondo lo Spirito, perseguitando la Chiesa. Inizia qui, fermo sulla via di Damasco, il suo cammino nuovo e quello della Chiesa aperta all’umanità, ma dalla quale sembra uscire anche Pietro, la cui biografia apostolica si chiude in At 15. La ripetizione del nome ebraico, più che intimità di una conoscenza personale da lunga data, evoca forse a Saùl epifanie di Dio nelle quali si rivolgeva a tu per tu a uomini a cui affidare missioni speciali, come nel caso dei padri, profeti o legislatori, quali Abramo (Gn 22,1.11), Giacobbe (Gn 46,2), Mosè (Es 3,4) e Samuele (1Sm 3,10). Gesù parla l’ebraico con Saùl in narrazioni diverse dello stesso incontro (oltre 9,4, anche 22,7 e 26,14). Nel dialogo, difficile, si coglie il desiderio di rivelazione di Gesù, come il crocifisso ma ora soprattutto come il Signore vivente, in tutto pari a Dio, ben oltre le Scritture e la tradizione di Paolo.
A Saùl, che è il persecutore, non sarà più possibile ignorare chi gli parla in questo modo e continuare a combatterlo. Da persecutore per conto della legge, diverrà perseguitato per il Vangelo (cf. At 8,1; 9,4s; 11,19; 12,1; 13,50; 22,4.7s; 26,14s con Rm 8,35; 12,14; 1Cor 4,12; 15,9; 2Cor 4,9; 12,10; Gal 1,13.23; 4,29; 5,11; 6,12; Fil 3,6; 1Ts 2,15; 2Ts 1,4; 1Tm 1,13; 2Tm 3,11s). Saùl è cambiato all’istante, perché muta interiormente da vecchio uomo della legge esteriore a uomo nuovo dello Spirito. Di queste cose egli scriverà alle sue Chiese disperse nell’impero romano. Ora, folgorato, è costretto a porre domande sia sull’identità dell’interlocutore che sulla propria e ad ascoltare attentamente ogni parola di una risposta che lo ri-orienta subito in scelte di vita radicalmente diverse dalle precedenti, di apertura, questa volta, al mondo intero e non di chiusura nel proprio ghetto. Saùl, l’ebreo, si rende conto che sta perseguitando la persona di un altro ebreo, già crocifisso secondo la legge, Yeshua, il cui nome è una missione e scelta di vita compiuta («Yhwh salva») ma opposta alla sua. Gesù è kyrios a tutti gli effetti, un appellativo che Luca già mette in bocca a Paolo: «Chi sei, Signore?» (9,5). In Atti 26,15 il narratore annota che «il kyrios rispose», in ebraico, «Io sono Gesù, che tu perseguiti». In questa risposta, Paolo comprende che cosa significa chiamarsi Gesù, cioè Salvatore (cf. At 13,23; Fil 3,20; 1Tm 1,1), Cristo (At 9,22; cf. 18,28) e Signore (At 16,31; 19,5.13.17; 20,21.24.35; 21.13; 28,31) di tutti e non solo dei giudei come Saùl, perché anche «Figlio» del Dio (cf. At 9,20 con Rm 1,4; 2Cor 1,19; Gal 2,20; Ef 4,13) vivente nella Chiesa, suo corpo fisico e storico. L’ebreo Saùl a Damasco apprende, in lingua biblica, direttamente da Gesù, per rivelazione (cf. Rm 16,25; 1Cor 2,10; 2Cor 12,1,7; Gal 1,12.16; 2,2; Ef 3,3; 1Tm 6,15) l’essenza personale del Vangelo immutabile perché non è una scrittura (non ce n’è un «altro»: cf. 2Cor 11,4; Gal 1,6-7) come salvezza (cf. At 13,26). Il Vangelo è rivelazione personale di Gesù crocifisso ma vivente come Cristo e Signore che trasfigura anche Saùl in sua «luce» e in sua «voce», a Damasco e fino all’estremità della terra (cf. At 13,47; 27,34), ben oltre il territorio sotto il regime della legge ebraica o della filosofia greca o delle leggi imperiali di Roma (cf. Rm 6,6; 2Cor 3,6; Ef 4,22; Col 3,9).
2. A PARTIRE DA TARSO Saùl s’alzò da terra accecato. Il suo studio della legge è volatilizzato e non sa orientarsi ancora cercando in essa ispirazione. Presolo allora per mano, i compagni della spedizione punitiva ora lo conducono a Damasco (9,8) dove è brevemente istruito, ma soprattutto guarito e battezzato. È lo stesso Gesù che è apparso a prendere ancora in mano la situazione, mostrandosi questa volta ad un suo discepolo che pure chiama per nome: «Anania!» («colui al quale Yhwh ha fatto grazia»), senza ripeterlo due volte; e questi risponde: «Eccomi, Signore!» (At 9,8). Con pazienza e insistenza per rassicurarlo, il Signore ordina ad Anania di andare «sulla strada diritta», «nella casa di Giuda», dove avrebbe trovato un «Saulon onomati Tarsea» (9,11). Il narratore di Atti e insieme il parlante, che è Gesù stesso, in questa circostanza, mostrano di conoscere anche le origini geografiche e culturali di Saùl. L’area della sua provenienza è indicata da un aggettivo, «tarsense» o «tarsiano», che sarà ancora in At 21,39 in bocca a Saùl, già «Paolo», che, arrivato a Gerusalemme, è qui arrestato dopo una sommossa di giudei della provincia d’Asia. Paolo risponde circa la propria identità al comandante romano, che lo aveva a fatica sottratto al linciaggio e gli aveva chiesto se per caso non fosse proprio lui quel tale «Egiziano» ribelle che aveva sobillato 400 tipi come lui ad una riscossa, nel deserto. Paolo si identifica parlando in greco: «Io sono un Giudeo tarsense di Cilicia, cittadino di una città non certo senza importanza».
Il nome di questa città, dove forse ancora abitava la sua famiglia, in greco era Tarsos, «cesto piatto», comparso la prima volta in At 9,30, allorché Saùl, sempre a Gerusalemme, discuteva animatamente, come già Stefano, di Gesù con gli ebrei di lingua greca. Questi tenteranno di ucciderlo. Quando «i fratelli», cioè i discepoli di Gesù che si prendono cura di lui, lo sanno, accompagnano Saùl a Cesarea Marittima e da lì, via mare, lo fanno imbarcare «per Tarso», distante circa di 500 km, verso nord-ovest. In cerca di Sàulo, dopo qualche tempo, a Tarso arriverà Barnaba che, trovatolo, lo conduce ad Antiochia (At 11,25), in Siria, a sud rispetto alla Cilicia, che sta nella parte meridionale dell’attuale Turchia e ad una distanza aerea di circa 100 miglia. Il nome Tarso ritorna in 22,3, quando a Paolo è nuovamente consentito tenere un’arringa, in ebraico, dinanzi ai giudei di Gerusalemme prima d’essere condotto nella fortezza romana. Ai giudei, «fratelli e padri» (At 22,1), Paolo si presenta con altri particolari che lo riguardano e che meglio si adattano al tipo di uditorio: «Io sono un Giudeo, nato a Tarso di Cilicia, ma cresciuto in questa città, formato alla scuola di Gamaliele nelle più rigide norme della legge paterna, pieno di zelo per Dio, come oggi siete tutti voi» (At 22,3). Parlando greco con ellenisti e romani (cf. At 9,29 e 21,37), Saùl fa capire a chi lo ascolta che egli può averlo imparato a Tarso, mentre parlando l’ebraico (o l’aramaico?: cf. At 21,40; 22,2; 26,14), che anche Gesù usa con lui, suggerisce alla folla quanto sia per lui importante aver studiato e vissuto a Gerusalemme. Il narratore di Atti presenta un personaggio che conosce bene le Scritture e che frequenta il Tempio, avendo studiato con Gamaliele, membro del sinedrio, «fariseo e dottore della legge, stimato da tutti e che aveva difeso Pietro e gli altri apostoli» (At 5,34).
3. EBREO DA EBREI E FARISEO CHE PARLA GRECO Davanti allo stesso sinedrio a Gerusalemme (cf. At 4,15; 5,21.27.34.41; 6,12.15; 22,30; 23,1.15.20.28; 24,20), in At 23,6 Paolo dirà, esplicitamente, rivolgendosi a «fratelli» nella stessa fede dei padri (cf. At 24,14): «io sono fariseo, figlio di farisei», giudicato a motivo della speranza nella risurrezione dei morti. Paolo si salva ancora schierandosi, con la sua identificazione, con la propria setta di origine, più forte e numerosa di quella dei sadducei (cf. At 4,1; 5,17; 23,6ss). Ancora costretto a difendersi dinanzi ad Agrippa (At 25,13.22ss.26; 26,1s.19.27s.32), in At 26,5, Paolo sosterrà «come fariseo» (cf. Fil 3,5: «ebreo da ebrei, fariseo quanto alla legge»), d’essere «vissuto nella setta più rigida della nostra religione». Insistere sul proprio giudaismo più radicale serve a Paolo da una parte per salvarlo dai giudei e dall’altra per mostrare quanto è radicale, rispetto alla legge, a partire da Gesù, Cristo Signore vivente, la sua apertura ai pagani. Gli Atti, di Paolo presentano tre apologie di sé: la prima davanti ai giudei (in At 22); la seconda davanti al procuratore Felice (At 24) e la terza davanti al re Agrippa (At 26): ognuna è retoricamente adattata all’uditorio, al fine di persuadere altri della sua innocenza per essere diventato una icona personale di Cristo. Saùl non è antisemita, se non altro per il nome che porta e il background religioso. Anche in Rm 9,4s riconosce che agli «Israeliti», suo popolo, appartiene «l’adozione a figli, la gloria, le alleanze» e che a loro e non ad altri «è stata data la legge, il culto, le promesse, i patriarchi»; aggiunge anche quella che per lui è la cosa più importante, cioè che dai giudei «proviene il Cristo» secondo la carne, ma che ora egli riconosce al sopra di tutto come «Dio benedetto nei secoli». Paolo è ebreo e apostolo cristiano. Perseguitare Israele per lui significherebbe recidere le proprie radici e misinterpretare la fedeltà eterna di Dio alle promesse. Israele per Paolo è eterno in quanto alleato irrevocabile di Dio.
In Rm 11,1, confessandosi a chiare lettere, dichiara, per farsi capire da cristiani orgogliosi per le loro origini: «anch’io sono Israelita», discendente di Abramo e «della tribù [regale] di Beniamino» (cf. in At 13,21 il re Saul; Rm 11,1; Fil 3,5). La polemica, se c’è, non è contro le radici ebraiche ma contro i giudaizzanti, cristiani ma ancora minorenni. Infanti, schiavi e carnali (cf. 1Cor 3,1-3; Col 2,18), dipendono da un loro pedagogo (cf. 1Cor 4,15; Gal 3,24-25) che è quella stessa legge che essi vogliono imporre a tutti, come conditio sine qua non, per presunta insufficienza della fede nel Vangelo, per diventare membra vive della Chiesa di Dio. Così fanno nella seconda lettera ai Corinzi gli «iper-apostoli» (11,5; 12,11), i quali però in realtà sono solo «pseudo-apostoli» (11,13) per dividere la Chiesa di cui egli è padre (cf. 1Cor 4,15), sostenendo che Paolo non è neppure un apostolo come Cefa (cf. 1Cor 1,12; 3,22; 9,5; 15,5; Gal 1,18; 2,9.11.14) o come Giacomo, «il fratello del Signore» (Gal 1,19; 2,9.12; 1Cor 15,7; cf. At 12,17; 15,13; 21,18). Con questi giudaizzanti e «falsi fratelli» (2Cor 11,26 e Gal 2,4), che si chiudono nell’osservanza di prescrizioni impossibili per chi non ha la loro stessa origine, Paolo si confronta sostenendo la propria autenticità di rappresentante di un Messia crocifisso ma Signore (cf. Gal 3,1; 6,17). Costretto, si confronta, alla pari e con orgoglio, con i suoi detrattori: sono ebrei? Lo sono «anch’io!» Israeliti? Lo sono «anch’io!» Discendenti di Abramo? Lo sono «anch’io!» (2Cor 11,22). Tutte queste radici non significano che il vero giudeo, il giusto, non sia Gesù (cf. At 3,14; 22,14). Similmente, Paolo si vanta e bistratta come «cani» quei «cattivi operatori che si fanno circoncidere» (Fil 3,2) e che a Filippi sono «nemici della croce di Cristo» (Fil 3,8), considerata scandalo insuperabile (cf. 1Cor 1,23; Gal 5,11). Con costoro Paolo si misura polemicamente, senza esclusione di colpi: se qualcuno pensa di avere titoli di cui vantarsi, «io», scrive Paolo, posso vantarmi ancora di «più di lui: circonciso all’ottavo giorno, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo figlio di ebrei; quanto alla legge, fariseo»; quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge (Fil 3,4-6). Bene. Questi titoli, istituzionali e religiosi, sono una «perdita» più che un «guadagno» dinanzi alla scienza o conoscenza del Vangelo del Cristo e Signore. Anzi, prescrizioni e tradizioni sono ora diventati skybala¸«escrementi», animali o rifiuti (Fil 3,8). Come può Paolo essere ancora minorenne, perché sotto tutela della legge e adulto maturo, libero come Gesù, il Cristo e Signore, Figlio di Dio che lo ha trattato, nel primo incontro, da persecutore ma non da nemico, liberandolo dallo zelo ispirato dalla legge per farlo collaboratore e apostolo per l’evangelizzazione del mondo intero?
4. ANANIA, IL DISCEPOLO INVIATO A SAÙL Termine importante di paragone e unico punto d’arrivo di Saùl è Gesù da lui perseguitato, ma Cristo e Signore vivente, che gli ha parlato a tu per tu al primo incontro e dopo «tre giorni» di buio e digiuno (cf. At 9,9) per mezzo d’Anania. Luca introduce Anania come un inviato speciale a Paolo – che a sua volta sarà apostolo per le genti – la prima volta in At 9,10, poi lo menziona di nuovo in 9,12.13.17. In Atti 22,12 è Paolo stesso che presenta Anania come devoto ebreo, «secondo legge» e con «buona fama presso tutti i giudei» di Damasco. Anania è un «discepolo», mathetês, un termine che nelle 28 occorrenze di Atti, 24 è al plurale, per indicare l’insieme dei discepoli detti «cristiani», anche grazie a Paolo, in At 11,26. Mai di Ananias Paolo scrive qualcosa nel corpus paulinum, né si parla di lui altrove nel Nuovo Testamento.
5. DOPPIA DESTINAZIONE DI UN APOSTOLO IN ATTI Saùl non entra nel gruppo degli Undici o Dodici (At 1,26; 2,14) che, prima dell’assunzione o elevazione di Gesù al cielo (At 1,2.9.11.22 con 1Tm 3,16), in At 1,8 avevano ricevuto la promessa d’una straordinaria forza dall’alto, «dallo Spirito Santo», che li avrebbe trasformati da discepoli chiusi nel cenacolo (cf. At 1,13) in «testimoni» di Gesù ovunque, dentro e fuori la Palestina, «fino agli estremi confini della terra» (cf. At 1,17,26 con Rm 10,18). Per le feste di Pasqua (cf. At 12,4) e Pentecoste (At 2,1; 20,16; cf. Ef 16,8) il mondo si raduna a Gerusalemme, affollata di giudei (e qualche proselito) «di ogni nazione che è sotto il cielo» (At 2,5). Pietro e gli Undici predicano a Gerusalemme il Vangelo (At 1,15ss; 2,14ss.37) e qui anche pregano Dio per aver coraggio a far conoscere pubblicamente il santo figlio-servo Gesù, consacrato, ma contro il quale «si radunarono insieme Erode e Ponzio Pilato con le genti e i popoli d’Israele» (At 4,27). Gentili e giudei si sono dunque accordati per uccidere Gesù, «il Giusto», ingiustamente (cf. At 3,14 con 22,14). In Atti 9,15, Gesù, secondo il narratore, considera Paolo come la persona più adatta a portare il suo «nome» proprio dinanzi a «popoli», a «re» e agli stessi induriti «figli di Israele». Pietro è però il primo ad aver aperto ai gentili (At 10,45) che hanno con gioia accolto «la parola di Dio» (At 11,1), insieme allo Spirito, e si sono convertiti per avere «la vita» (At 11,18). Luca, d’altra parte, fa notare come siano anche «Paolo e Barnaba» – due «apostoli» anch’essi (At 14,4.14) – quelli che, in Antiochia di Pisidia (At 13,14; 14,24), sono capaci «con franchezza – parresiasamenoi» (cf. At 9,28; 14,3; 26,26; 28,31 con 2Cor 3,12; 7,4; Ef 6,19; 6,20; Fil 1,20; 1Tm 3,13; Fm 8), in giorno di sabato, di abbandonare la sinagoga: era necessario che fosse annunziata a loro «per primi» la parola di Dio, ma poiché la respingono «noi ci rivolgiamo ai pagani» (At 13,46). La sinagoga non può essere la prigione del Vangelo, custodito da una legge che non gli permette di arrivare a tutti. Così infatti ha ordinato loro il Signore, con parole del profeta: «Io ti ho posto come luce per le genti, perché tu porti la salvezza sino all’estremità della terra» (cf. At 13,47 con Is 42,6; 49,6; Lc 3,6; At 1,8). Nessuno può impedire alla terra intera di vedere il sole e agli uomini di essere sanati e salvati. Di questa rottura di Barnaba e Paolo con la sinagoga i pagani si rallegrano e glorificano «la parola di Dio»; molti abbracciano la fede e con essa «la vita eterna» (At 13,48); mentre i giudei, «rimasti increduli», eccitano «gli animi dei pagani contro i fratelli» (cf. At 14,2.5). Tuttavia, non ovunque i giudei impediscono i due «apostoli». Ad Iconio, per esempio, «un gran numero di giudei e di greci» diventano credenti cristiani (14,1). Poi, di ritorno ad Antiochia di Siria (cf. At 15,23), nella comunità da cui erano partiti, Paolo e Barnaba, riferiscono tutto quello che Dio ha compiuto per loro tramite e soprattutto «come aveva aperto ai pagani la porta della fede» (At 14,27). Quindi, diretti a Gerusalemme, scortati per un tratto dalla stessa comunità, Barnaba e Paolo attraversano paesi come Fenicia e Samaria, e a tutti raccontano «la conversione dei pagani» (At 15,3) suscitando gioia in chi li ascolta. Infine, a Gerusalemme, è Pietro che s’alza nell’assemblea e pronuncia un suo discorso personale: «Fratelli, voi sapete che già da molto tempo Dio ha fatto una scelta fra voi, perché i pagani ascoltassero per bocca mia la parola del Vangelo» (At 15,7). Con queste parole egli rivendica un primato, il merito e la responsabilità d’aver portato alla fede nel Vangelo diversi pagani. L’assemblea l’ascolta e fa silenzio anche quando è il turno di Barnaba e Paolo, che riferiscono la loro esperienza di miracoli e prodigi che Dio stesso ha compiuto «tra i pagani» per mezzo loro (At 15,12). L’onere della sintesi se l’assume Giacomo (non il fratello di Giovanni già ucciso da Erode, cf. At 12,2), «il fratello del Signore» (cf. At 12,17; 15,13; 21,18; con 1Cor 15,7 e soprattutto con Gal 1,19; 2,9.12). «Fratelli», comincia citando Pietro, «Simone ha riferito come fin da principio Dio ha voluto scegliere tra i pagani un popolo…». Giacomo cita Amos 9,11s (cf. Dt 28,10) riferendosi ad «altri uomini» che cercano il Signore e poi «a tutte le nazioni» (At 15,17). Anch’egli ritiene, ma con qualche clausola, che non si debbano importunare «quelli
che si convertono a Dio tra i pagani» (15,19). Tra l’altro, ad un gruppo, insieme a Barnaba e Paolo, è consegnata una lettera che dovrebbe facilitare la convivenza tra diverse etnie per i «fratelli di Antiochia, di Siria e di Cilicia che provengono dai pagani» (At 15,23). A Paolo questo documento non facilita la missione. A Tessalonica, per esempio, dove si trova a proclamare il Vangelo assieme a Sila, i giudei mettono in subbuglio la città (At 17,5), perché alcuni tra i giudei della locale sinagoga come anche «un buon numero di greci credenti in Dio e non poche donne della nobiltà» hanno aderito al Vangelo (At 17,4.12). Ad Atene Paolo discute, sempre nella sinagoga, con giudei e pagani credenti in Dio, ma quando può parla di Gesù anche «sulla piazza principale» con quelli che incontra (At 17,17). Nel discorso all’areopago (cf. At 17,19.22.34) egli tiene un discorso razionale, accettabile dai filosofi, circa il Dio che «creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della terra» (At 17,26). Anche a Corinto, di sabato, Paolo discute e cerca di persuadere «giudei e greci» (At 18,4), ma anche qui, come altrove (cf. At 13,46s; 19,19; 28,28), i giudei gli si oppongono, ed egli dichiara che lascia la sinagoga per andare «ai pagani» (At 18,6). Ad Efeso, per due anni, «tutti gli abitanti della provincia d’Asia, giudei e greci» ascoltano «la parola del Signore» (At 19,10.17) da Paolo che li scongiura «di convertirsi a Dio e di credere nel Signore Gesù» (At 20,21). A Cesarea Marittima, Paolo sa da un profeta di nome Agabo (cf. At 11,28) che «sarà legato dai giudei a Gerusalemme e verrà consegnato nelle mani dei pagani» (At 21,11), a imitazione di Gesù. A Gerusalemme, infatti, egli non riceve una buona accoglienza per questa sua apertura, indistintamente, a «giudei e greci» (At 21,11.19). La stessa Chiesa madre sembra prevenuta: «hanno sentito dire di te che vai insegnando a tutti i giudei sparsi tra i pagani che abbandonino Mosè, dicendo di non circoncidere più i loro figli e di non seguire più le nostre consuetudini» (At 21,21.25). Paolo è «l’uomo che va insegnando a tutti e dovunque contro il popolo, contro la legge e contro questo luogo, il Tempio» (At 21,28). È un traditore del giudaismo perché troppo aperto al paganesimo? Egli non ha più dalla sua che il Signore, che gli ha dato un mandato preciso: «Và, perché io ti manderò lontano, tra i pagani» (At 22,21). Narrando una terza volta l’incontro a Damasco, in At 26,17, Paolo ricorda anche una promessa aggiunta e consolante: «ti libererò dal popolo e dai pagani, ai quali ti mando». Quanto succede è e sarà simile a quanto è prima successo a Gesù (cf. At 26,23). Finalmente a Roma, anche se in catene, ancora rivolto ai giudei, i più resistenti ad un’apertura piena ai pagani, Paolo deve chiarire qual è l’orizzonte della sua missione, vale a dire che la «salvezza di Dio», in forma di Vangelo, «è ora rivolta ai pagani» che l’ascolteranno, a differenza dei giudei (At 28,28). Il libro degli Atti si chiude con un’amara riflessione biblica di Paolo: mentre la sua gente lo rifiuta, come ha fatto con Gesù, le nazioni invece lo accolgono.
6. APOSTOLO CON BARNABA, FINO AD UN CERTO PUNTO In Atti, Paolo è protagonista, ma almeno a partire da At 16,10, è compagno di viaggio di Luca, o di chi scrive il libro. Di compagni e collaboratori Paolo ne ha un gran numero. Barnaba è uno e tra i primi e più attenti scopritori di talenti per la Chiesa. Il suo nome è Giuseppe. Dagli apostoli, invece, è soprannominato Barnaba, «figlio dell’esortazione». Egli è levita, originario di Cipro (At 4,36). È lui che coraggiosamente prende con sé Sàulo a Gerusalemme e lo presenta agli apostoli raccontando come, durante un viaggio, egli abbia visto il Signore Gesù (At 9,27). Quando alcuni discepoli, cittadini di Cipro e di Cirène, ad Antiochia cominciano a parlare ai greci del Signore Gesù (At 11,20) e la cosa è risaputa nella Chiesa di Gerusalemme, Barnaba
viene inviato in quella città (11,22). In tale circostanza egli si ricorda di Sàulo e parte per Tarso a cercarlo; trovatolo, lo conduce ad Antiochia (At 11,25) dove i due rimangono un anno intero e insieme ad altri istruiscono molta gente nel Vangelo. È questa la circostanza in cui i discepoli sono detti «cristiani» (At 11,26). Quando, poi, la Chiesa di Antiochia vuole finanziariamente soccorrere quella di Gerusalemme, Barnaba e Sàulo sono scelti e inviati a portare aiuti ai «fratelli abitanti nella Giudea» (At 11,29-30). Le distinzioni tra Chiese non sono distanze. Compiuta la missione, Barnaba e Sàulo da Gerusalemme rientrano ad Antiochia avendo preso con sé Giovanni, detto anche Marco (At 12,25; cf. già 12,12; 15,37.39; Col 4,10; 2Tm 4,11: Fm 24; 1Pt 5,13) che diventa come un pomo della discordia, forse per la sua fragilità giovanile. Nella Chiesa di Antiochia intanto ci sono profeti e dottori e, nella lista in At 13,1, Barnaba occupa il primo posto e Sàulo l’ultimo. Un giorno, mentre si celebra il culto del Signore digiunando, lo Spirito Santo si fa sentire chiaro e distinto: «Riservate per me Barnaba e Sàulo per l’opera alla quale li ho chiamati» (At 13,2). È la missione ad gentes, che ora è ratificata dallo Spirito nella Chiesa e così ha effettivamente inizio insieme a Barnaba. A Cipro, da dove Barnaba proviene, i due «apostoli» proclamano la parola di Dio, che cioè è Gesù il Signore di tutti (e non il divino imperatore di Roma) e tra chi ascolta c’è anche un pagano, il proconsole romano Sergio Paolo, una persona di senno (At 13,7). Anche in Antiochia di Pisidia molti giudei (non tutti) e proseliti sono d’accordo con il Vangelo di Paolo e Barnaba che, intrattenendosi con loro, tutti esortano a perseverare «nella grazia di Dio» (At 13,43). Con franchezza i due dichiarano altresì a quei giudei, che li respingono, che li lasceranno per rivolgersi ai pagani (At 13,46). I giudei più fanatici, allora, sobillano donne pie di alto rango e notabili della città che costringono Paolo e Barnaba ad abbandonare quel territorio. Ancora assieme, i due hanno però più successo a Listra, dove sono considerati dèi, Barnaba Zeus e Paolo Hermes, essendo questi «il più eloquente» (At 14,12). Ma essi si strappano le vesti e si precipitano tra la folla, gridando che sono uomini come tutti gli uomini della terra (At 14,14). Le cose, invece, si mettono male quando alcuni giudei, che dalla loro parte traggono la folla, prendono Paolo a sassate e lo trascinano fuori città, abbandonandolo solo perché lo credono morto (At 14,19). Egli però, alzatosi, rientra furtivamente in città e il giorno dopo riparte con Barnaba alla volta di Derbe (At 14,20). Chi perseguitava in nome di una legge santa è ora perseguitato a causa del Vangelo. Di ritorno ad Antiochia (di Siria), Paolo e Barnaba vi trovano alcuni, venuti dalla Giudea, che creano problemi insegnando ai «fratelli» che è necessario farsi «circoncidere secondo l’uso di Mosè» per essere salvi (At 15,1). Paolo e Barnaba si oppongono risolutamente a costoro. La Chiesa è confusa e divisa. Si stabilisce perciò che Paolo e Barnaba, assieme ad alcuni altri della Chiesa di Antiochia, vadano a Gerusalemme «dagli apostoli e dagli anziani per tale questione» (At 15,2). A Gerusalemme la Chiesa ascolta (At 15,12) e decide (At 15,22.25). Paolo e Barnaba rientrano ad Antiochia, dove insegnano e annunziano, insieme a molti altri, la parola del Signore (At 15,35). Dopo qualche giorno, Paolo invita Barnaba a far visita, insieme, ai fratelli di tutte le città nelle quali avevano già annunziato «la parola del Signore» per vedere come stanno (At 15,36). Barnaba vuole prendere con sé Giovanni Marco (At 15,37), il cugino (cf. Col 4,10), ma Paolo si oppone perché già una volta s’era allontanato (in Panfilia) da loro e non aveva «voluto partecipare alla loro opera» (At 15,38). Il dissenso (paroxysmos: cf. Eb 10,24: la provocazione o lo stimolo forte) tra i due apostoli è tale che si separano: Barnaba, con Marco, s’imbarca per Cipro (At 15,39; cf. già 4,36; 11,19s; 13,4) – dove anche Paolo un giorno passerà (At 21,3.16), e in seguito anche in catene, insieme a Luca, diretto a Roma (cf. At 27,4).
Barnaba è menzionato anche da Paolo in 1Cor 9,6 e in Gal 2,1, assieme a Tito. In Gal 2,9 Paolo ricorda come a Gerusalemme, riconoscendo la grazia a lui conferita, Giacomo, Cefa e Giovanni, ritenuti colonne, diedero a lui e a Barnaba la destra in segno di comunione, perché essi andassero «verso i pagani» mentre gli apostoli di Gerusalemme si sarebbero rivolti «verso i circoncisi». Questa distinzione di campo sembra anche una chiusura dei giudei ai pagani. Paolo, pur personalmente soddisfatto dell’accordo, ne soffre. Infatti, il rapporto con Cefa e con Barnaba, ad Antiochia, si deteriora. In Gal 2,13 Paolo ricorda come anche «altri giudei» imitassero Cefa «nella simulazione», «al punto che anche Barnaba si lasciò attirare nella loro ipocrisia». L’apertura ai pagani è controllata dalla presenza di spioni, intrusi da parte di Giacomo (cf. Gal 2,4; 2Cor 11,26). Barnaba appare ancora in Col 4,10, senza più polemica, neppure più per il comportamento di Marco. Acqua passata? Intanto «vi salutano Aristarco, mio compagno di carcere, e Marco, cugino di Barnaba, riguardo al quale avete ricevuto istruzioni – se verrà da voi, fategli buona accoglienza». Nulla davvero è insuperabile per chi vuol farsi tutto a tutti (cf. 1Cor 9,22).
7. SAÙL O SÀULO È DETTO ROMANAMENTE PAOLO In Atti Saùl (in greco Saoul: At 9,4.17; 22,7.13; 26,14) o Sàulo (in greco Saulos: At 7,58; 8,1.3; 9,1.8.11.22.24; 11,25.30; 12,25; 13,1s.7.9) solamente in 13,9 è detto Paolo (Paulos), nome sconosciuto nei capitoli 1-12, mentre si concentra, in ordine decrescente, in At 23 (14 volte; è riferito a Sàulo-Saùl solo 13 volte); in At 21 (13); in At 16 (12); in At 25 (11); in At 17 e 19 (10); in At 18 e 27 (9); in At 13 e 15 (8); in At 20 (7); in At 24 e 28 (6); e finalmente in At 14, 22 e 26 (solo 5 volte). Almeno a partire da 13,19 e fino a 28,30, Atti dovrebbe essere letto nel rispetto delle intenzioni dell’autore, che tutto sa, come una grande inclusione biografica. A questa lunga pericope è da aggiungere l’inclusione su Saùl-Saulos, così da formarne una sola, da 7,58 a 26,14. Atti è praticamente un libro che mira a far conoscere opere e viaggi apostolici di «Paolo», che è cognome dell’antica Roma («il piccolo» di famiglia, o «poco di qualcosa») ma che evoca personaggi storici come Marcus Emilius L. Paullus, console nel 302 a.C.; Marcus Emilius M. Paullus, console nel 255 a.C.; Lucius Aemilius Paullus, console nel 219 a.C. e nuovamente nel 216 a.C., ucciso nello stesso anno nella battaglia di Canne; Lucius Aemilius Paullus Macedonicus, console vittorioso nel 168 a.C. nella battaglia di Pydna o Pidna, città greca dell’antica Macedonia; Lucius Paullus, console nel 50 a.C.; Aemilius Lepidus Paullus, console nel 34 a.C.; Paullus Fabius Maximus, console nell’11 a.C.; Lucius Aemilius Paullus, console nell’1 d.C.; Paullus Fabius Persicus, console quasi contemporaneamente a Paolo, nel 34 a.C. Paolo in latino suona importante. Perché Saùl o Sàulo è detto Paolo? In Atti Paolo è associato a molti nomi propri sia di persone che di città o regioni nell’impero romano: oltre che a Barnaba, è associato a Sila, un altro nome romano («selva; boschivo»: cf. At 15,22.27.32.40; 16,19.25.29; 17,4.10.14s; 18,5); a Festo («festoso»), successore di Felice a procuratore di Giudea (cf. At 24,27; 25,1.4.9.12ss.22ss; 26,24s.32); a Felix, appunto Antonio Felice, prominente liberto che sotto l’imperatore Claudio sposa Drusilla e diviene procuratore della Palestina tra il 52-60 d.C. (cf. At 23,24.26; 24,3.22.24s.27; 25,14); a Cesare, l’«imperatore» (cf. At 17,7; 25,8.10ss.21; 26,32; 27,24; 28,19); alla Macedonia (cf. At 16,9s.12; 18,5; 19,21s; 20,1.3); a due Antiochia in Siria e Pisidia (cf. At 11,19s.22.26s; 13,1.14; 14,19.21.26; 15,22s.30.35; 18,22); a Efeso (At 18,19.21.24; 19,1.17.26; 20,16s); a Cesarea (cf. At 8,40; 9,30; 10,1.24; 11,11; 12,19; 18,22; 21,8.16; 23,23.33; 25,1.4.6.13); a Timoteo (cf. At 16,1; 17,14s; 18,5; 19,22; 20,4); ad Atene (At 17,15s; 18,1); all’Asia Minore (cf. At 16,6; 19,10.22.26s; 20,16.18; 21,27; 24,19; 27,2); all’Acaia o Grecia (cf. At 18,12.27; 19,21); a Gallione («uno che vive di latte»), in latino Junius Annaeus Gallio, fratello del
filosofo stoico Seneca e proconsole romano dell’Acaia quando Paolo è a Corinto, nel 53 d.C., sotto l’imperatore Claudio (At 18,12.14.17); a Julius, centurione romano (At 27,1.3); all’Italia (At 18,2; 27,1.6); alla città di Roma (cf. At 18,2; 19,21; 23,11; 28,14.16). Paolo stesso si dichiara «romano» (cf. l’uso di questo aggettivo importante in 2,10; 16,21.37s; 22,25ss.29; 23,27; 25,16; 28,17) e come tale è il più associato degli apostoli e della Chiesa di Cefa e di Giacomo alle «nazioni». Con i tre nomi, l’ebraico in doppia grafia (menzionato complessivamente 23 volte) e con il nome romano (menzionato 127 volte), è Paolo il grande protagonista del Nuovo Testamento: narrativamente anche più di Christos, «Cristo» in Atti (cf. At 2,31.36.38; 3,6.18.20; 4,10.26; 5,42; 8,5.12; 9,22.34; 10,36.48; 11,17; 15,26; 16,18; 17,3; 18,5.28; 24,24; 26,23; 28,31) e qui ancora viene narrativamente solo poco dopo Theos, il nome comune di Dio, menzionato in 156 versetti 167 volte. Luca tuttavia non spiega il vero motivo per cui non lo chiama singolarmente «apostolo». Questo titolo, che in At ricorre in 28 versetti (1,2.26; 2,37.42s; 4,33.35ss; 5,2.12.18.29.40; 6,6; 8,1.14.18; 9,27; 11,1; 14,4.14; 15,2.4.6.22s; 16,4), sempre al plurale, solo in due casi è detto di Paolo e Barnaba assieme (cf. 14,4.14). In sintesi, Paolo è introdotto in At 7,58 come «un giovane» di nome Saulos, schierato fanaticamente con le tradizioni e quindi dalla parte dei persecutori ellenisti che eliminano il diacono di Cristo, Stefano. L’ultima volta in Atti, Paolo è menzionato in 28,25, a pochi versetti dalla fine, mentre discute animatamente con giudei delle numerose (almeno 12) sinagoghe romane, perdendo consensi per il Vangelo. I giudei di Roma che rifiutano il Vangelo lo deludono. Però proprio a Roma, per un paio d’anni agli arresti domiciliari, Paolo annuncia «il Vangelo del regno» e insegna con libertà «le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo» senza trovare pericolosi ostacoli (At 28,31). In conclusione, è Paolo (e non Giacomo) il più fedele apostolo di Cristo e il maestro delle nazioni (cf. Rm 1,5; 11,13; Gal 2,8; 1Tm 2,7). Cefa, il primo ad aprire le porte ai pagani, è stato risucchiato con il nome ebraico di Simone, dalla bocca a Giacomo che, a Gerusalemme, dove resta, in At 15,14, lo corregge e umilia, per salvare la convivenza tra giudei e greci cristiani. C’è da chiedersi perché Paolo e non altri apostoli siano arrivati a Roma. La tesi di Luca è semplice: il Vangelo deve arrivare a tutti. Paolo pensava allo stesso modo, senza chiudersi in difese di tradizioni o istituzioni chiuse in se stesse.
8. AUTOBIOGRAFIA DI PAOLO PER LE CHIESE DEL MONDO In 13 lettere del Nuovo Testamento, il nome Paulos (mai Saùl o Sàulo) è la prima parola del primo versetto ed è interpretabile come mittente, qualche volta insieme ad altri, delle lettere. Questo stesso nome romano nel corpus paulinum ricorre almeno 29 volte, esplicitamente, in 28 versetti ed è autobiografico (Rm 1,1; 1Cor 1,1.12s; 3,4s.22; 16,21; 2Cor 1,1; 10,1; Gal 1,1; 5,2; Ef 1,1; 3,1; Fil 1,1; Col 1,1.23; 4,18; 1Ts 1,1; 2,18; 2Ts 1,1; 3,17; 1Tm 1,1; 2Tm 1,1; Tt 1,1; Fm 1.9.19). In ordine discendente per frequenza, al primo posto c’è la 1Cor (dove Paolo ricorre 7 volte), seguita da Col (3 volte) e Fm (3 volte) che, in relazione alla lunghezza, è l’epistola, autentica, dove il profilo di Paolo è più marcato; seguono: 2Corinzi, Galati, Efesini, 1Tessalonicesi e 2Tessalonicesi dove, in ciascuna lettera, il nome ricorre 2 volte; compare invece una sola volta in Romani, Filippesi, 1Timoteo, 2Timoteo e Tito.
8.1 Paolo comunica a distanza
Una caratteristica di Paolo, che non è presente in Atti, ma solo nel corpus paulinum (e in 2Pt 3), è il fatto che egli è scrittore, o almeno autore d’un epistolario. Il termine epistolê, letteralmente «missiva» e che può evocare l’apostolê («missione» o «apostolato», cf. Rm 1,5; 1Cor 9,2; Gal 2,8), ricorre in 16 versetti (Rm 16,22; 1Cor 5,9; 16,3; 2Cor 3,1ss; 7,8; 10,9ss; Col 4,16; 1Ts 5,27; 2Ts 2,2.15; 3,14.17) per almeno 17 volte; solo nel testo (greco) di 1Cor 16,3; 2Cor 3,1; 10,9ss è al plurale, «lettere», e ciò richiama, come sicuramente 2Pt 3,16, una raccolta che si va formando degli scritti di Paolo, e la loro importanza per la Chiesa. Quasi certamente non è Paolo che scrive materialmente le lettere, ma egli ne è o è presentato come autore. Qualche volta il verbo «scrivere» all’indicativo in prima persona singolare ha proprio lui come soggetto pensante, scrivente e mittente (cf. Rm 15,15; 1Cor 4,14; 5,9.11; 9,15; 14,37; 2Cor 2,3-4.9; 7,12; 13,10; Gal 2,20; 6,16; 2Ts 3,17; 1Tm 3,14; Fm 19-21) o autenticatore del messaggio. Proprio però in Romani, in 16,22, stupiscono contenuto e forma di una frase di un altro, che si inserisce in una lunga lista di nomi che salutano o sono da salutare a Roma: «Vi saluto nel Signore anch’io, Terzo, che ho scritto la lettera». Terzo è il nome latino di un amanuense che scrive in greco e che probabilmente è con Paolo, forse a Corinto. Paolo ha bisogno di Terzo per arrivare a Roma e per farsi capire da giudei e greci.
8.2 Paolo, schiavo del Signore Il mittente di Romani, in 1,1, si presenta come Paulos doulos di Cristo Gesù. Questo titolo di «schiavo» più che di «servo» ha spesso una connotazione anche negativa, come schiavo del peccato o della legge, ma che può, grazie alla fede, riconnotarsi con il Vangelo, essendo dalla fede in Cristo trasformati in servi della giustizia vera o di Dio (cf. Rm 3,25; 6,6.16s.20.22; 7,6.10.13s.23.25). Anche in Gal 1,10 Paolo si considera uno «schiavo di Cristo», sottratto per questo al desiderio e al falso dovere di piacere agli uomini. In Ef 6,6, nel rapporto tra padroni e schiavi, l’autore invita costoro a non servire per essere visti, «come per piacere agli uomini», ma ad agire come «schiavi di Cristo», compiendo la volontà di Dio Padre di cuore e non per forza. C’è chi dinanzi a un tale invito, o ordine, svaluta Efesini come una lettera non paolina e reazionaria. Chi la scrive tuttavia considera se stesso «schiavo», pensa a Cristo nella «forma di Dio» ma che si svuota volontariamente di sé assumendo una «forma di schiavo» e come tale, e non da cittadino di Roma, è morto sulla croce – accettando per amore la schiavitù senza abolirla (cf. Fil 2,5-8). Per Gesù, essere in forma di schiavo significa essere, per il dono di sé e la gratuità, in una forma di uomo e agire a vantaggio di ogni altro uomo senza contraccambio. Uno schiavo agisce necessariamente per volontà, come rappresentante del Signore, gratuitamente, senza propri interessi. Già in Fil 1,1, i mittenti della lettera, che sono due, Paolo e Timoteo, si presentano come «schiavi di Cristo». Invece, in Col 3,24, il mittente «Paolo», «apostolo di Cristo Gesù» insieme al «fratello Timoteo» (Col 1,1), invita i credenti ad agire da schiavi per il «Signore Cristo». Anche Epafra, in Col 4,12, è un membro della Chiesa di Colossi, un vero lottatore in una preghiera tutta a favore della sua comunità, e non per se stesso, proprio perché «schiavo di Cristo [Gesù]». In Romani Paolo parla positivamente della schiavitù o servizio di Dio (cf. 6,22). In Rm 13,4, due volte egli si riferisce a chi esercita l’autorità imperiale come a un diakonos di Dio, per premiare il bene di chi lo opera e severamente castigare chi fa il male. Servire, per l’autorità anche se pagana, è amministrare la giustizia di Dio. Anche però i pagani sono
liberati dall’ingiustizia costituita da schiavitù ad idoli inerti, per diventare, invece, «schiavi al Dio vivo e vero» (1Ts 1,9). Nella lettera a Tito, inviata probabilmente da Roma, in 1,1, Paolo, similmente all’incipit di Rm 1,1, si presenta come unico mittente e «schiavo di Dio» (non «di Cristo Gesù») e «apostolo di Gesù Cristo» per chiamare gli eletti di Dio alla fede e per far conoscere a tutti la verità che conduce alla pietà. In sintesi, Paolo si presenta, o è presentato, nel corpus paulinum, come uno schiavo di Cristo Signore e di Dio e perciò è libero di invitare a servirsi gli uni gli altri, imitando in questo il Cristo Signore, che si è fatto schiavo della giustizia (cf. Rm 6,18), «schiavo di Dio» (cf. Rm 6,22) morendo, secondo la legge, in obbedienza, da schiavo e maledetto su una croce, per la salvezza dei peccatori (cf. Rm 3,25). Chi non legge questi testi paolini con la mentalità della carne, o dell’uomo (cf. Rm 8,4-13), ma a partire dalla conoscenza di Cristo, non reagisce male quando è invitato a diventare coraggiosamente un tutt’uno con Cristo, senza distinzioni tra schiavi e liberi (cf. Rm 7,21-22; 1Cor 12,13; Gal 3,28; Ef 6,8; Col 3,11) per entrare insieme agli altri nella libertà della gloria dei figli di Dio (Rm 8,21). La schiavitù da abolire è quella nei confronti di una legge scritta, astratta, fosse anche più santa di tutte, ma dalla quale Cristo con la sua schiavitù ci ha liberati (cf. Gal 2,4; 5,1) per essere a servizio di tutti, gratuitamente (Rm 6,18.22; 7,6; 1Cor 9,19; Gal 5,13).
8.3 Paolo missionario universale Se in At mai è considerato apostolos al singolare, «inviato speciale, missionario», è per non essere equiparato agli Undici (o Dodici, cf. 1Cor 15,5). Ma nel corpus paulinum Paolo s’attribuisce spesso questo titolo che ricorre in 33 versetti (cf. Rm 1,1; 11,13; 16,7; 1Cor 1,1; 4,9; 9,1s.5; 12,28s; 15,7.9; 2Cor 1,1; 8,23; 11,5.13; 12,11s; Gal 1,1.17.19; Ef 1,1; 2,20; 3,5; 4,11; Fil 2,25; Col 1,1; 1Ts 2,7; 1Tm 1,1; 2,7; 2Tm 1,1.11; Tt 1,1), mentre è assente da 2Ts e Fm. Al plurale, invece, il titolo «apostolo» ricorre in 17 versetti (cf. Rm 16,7; 1Cor 4,9; 9,5; 12,28s; 15,7.9; 2Cor 8,23; 11,5.13; 12,11; Gal 1,17.19; Ef 2,20; 3,5; 4,11; 1Ts 2,7) e si concentra nella corrispondenza con i Corinzi: nove volte in 1Cor (1,1; 4,9; 9,1s.5; 12,28s; 15,7.9; soprattutto nel c. 9 e nei cc. 12 e 15, mentre è assente nei cc. 2, 3, 5-8, 10-11, 13-14, 16) e 6 volte in 2Cor (1,1; 8,23; 11,5.13; 12,11s). Evidentemente, è con i Corinzi che Paolo è costretto a farsi riconoscere come «apostolo», dovendosi misurare con denigratori, «iper-apostoli» (2Cor 11,5; 12,11), di possibile provenienza giudaica, e che però Paolo definisce «pseudo-apostoli, operai fraudolenti», mascherati «da apostoli di Cristo» (2Cor 11,13). Sono costoro latori di un «altro» Vangelo (cf. 2Cor 11,4 anche con Gal 1,6-7) subordinato alla legge e quindi restrittivo rispetto a destinatari pagani? Come se Gesù avesse potuto evitare la croce, se non si fosse comportato come Messia e Figlio di Dio. Un «altro» Vangelo sembra un rifiuto di Gesù come autentico Cristo e della sua signoria capace di salvare, avendo inchiodato alla croce documenti scritti di condanna contro chiunque (cf. Col 2,14). In una visione «trinitaria» e «unitaria» dei distinti carismi, ministeri e operazioni (cf. 1Cor 12,4-6), in 1Cor 12,28 Paolo si riferisce alla storia della Chiesa, nella quale Dio ha posto alcuni «in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri; poi vengono i miracoli, poi i doni di far guarigioni, i doni di assistenza, di governare, delle lingue». Il dono di governare, secondo leggi e spazi limitati, è al penultimo posto mentre l’apostolo è al primo perché non ha davanti una Chiesa già fatta. La lista subisce qualche modifica in Ef 4,11-13, testo secondo il quale Dio «ha stabilito alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e maestri» per
rendere idonei i «fratelli» a compiere il ministero, al solo fine di «edificare il corpo di Cristo», ossia la Chiesa, e solo così arrivare «tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio» e quindi «allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo». La distinzione tra apostoli e pastori è essenziale per non appiattire i carismi e i ministeri, ma soprattutto per non chiudere la Chiesa su se stessa, a prendersi cura di sé anziché di tutta la terra, dimenticando che apostolato è proprio convocazione continua di tutti nel solo e unico corpo di Cristo, uomo nuovo.
8.4 Paolo chiamato a convocare tutti nell’uomo nuovo In 1Cor 1,1, Paolo, oltre che «apostolo», si considera kletos, con-vocato per convocare altri. Anche in Rom 1,1, e altrove, al plurale (in Rm 1,6s; 8,28; 1Cor 1,2.24) l’aggettivo indica i «con-vocati», «assemblati», «radunati» o semplicemente «chiamati» a diventare ekklêsia, «assemblea». Anche questo termine, «Chiesa», è imparentato a kaleô, «chiamare», verbo da Paolo utilizzato soprattutto in 1Corinzi, Romani, Galati e 1Tessalonicesi, mentre è assente da 2Corinzi, Filippesi, Tito e Filemone (cf. Rm 4,17; 8,30; 9,7.12.24ss; 1Cor 1,9; 7,15.17s.20ss.24; 10,27; 15,9; Gal 1,6.15; 5,8.13; Ef 4,1.4; Col 3,15; 1Ts 2,12; 4,7; 5,24; 2Ts 2,14; 1Tm 6,12; 2Tm 1,9). In Rm 8,30, mirando alla Chiesa e al futuro, Paolo scrive a coloro che Dio ha predestinati: «li ha anche chiamati» e «quelli che ha chiamati li ha anche giustificati» e i giustificati sono glorificati. La chiamata è una per tutti, per diventare, circoncisi e incirconcisi, giudei e greci, una solo Chiesa di tutti. In 1Cor 7,17-24 Paolo invita esplicitamente «ciascuno» a vivere secondo la condizione assegnatagli dal Signore, «così come Dio lo ha chiamato»; se è stato chiamato quand’era circonciso non lo nasconda! Se è stato chiamato quando non era circonciso, non si faccia circoncidere! Nella Chiesa c’è posto per tutti, perché non divide l’essere diversi. Ciascuno resti nella condizione «in cui era quando fu chiamato». Se è stato «chiamato da schiavo» non si preoccupi per essere o restare schiavo, perché lo schiavo chiamato nel Signore è liberto, un affrancato del Signore! Similmente «chi è stato chiamato da libero, è schiavo di Cristo» e non deve più farsi schiavo di uomini! Ciascuno «rimanga davanti a Dio in quella condizione in cui era quando è stato chiamato», perché diventare Chiesa significa formare insieme, nella pluralità delle condizioni, il solo «corpo di Cristo» con membra diverse e tutte necessarie (cf. Rm 12,5; 1Cor 12,27; Ef 4,12), senza perciò più separazioni di genere o religiose (cf. Rm 1,16; 2,9s; 3,9; 10,12; 1Cor 1,22.24; 10,32; 12,13; Gal 3,28; Col 3,11), accettando, funzionalmente, la più radicale diversità rispetto agli altri (cf. Rm. 12,6; 1Cor 12,4ss). Pensare in questo modo non è pensare secondo una legge di ammissione e di selezione in base a test o a criteri restrittivi. È un pensare comunitario e spirituale e non societario ed esteriore, puramente meritocratico o efficientista. È pensare da corpo umano con un’infinità di parti connesse come sinapsi di una rete di un solo «capo» (cf. 1Cor 11,3; Ef 4,15-16; 5,23), ricapitolandoci tutti e tutto in un ben compaginato corpo glorioso di Cristo (cf. Ef 1,10). Essere corpo di Cristo significa dunque essere uomini e donne mature, liberi da ogni restrizione di leggi che delimitino spazio e tempo. Si tratta di connettersi e di agire non più in nome di ciò che è scritto su tavole di pietra o pergamene sacre (cf. Rm. 2,29; 7,6; 2Cor 3,3.6), ma di lasciarsi trasfigurare, come in una dissolvenza incrociata, da vecchi ed esteriori, a nuova umanità cristiana (cf. 2Cor 4,16; 5,17), come nuovi Adami (cf. Rm 5,14; 1Cor 15,2245) o «nuova creazione» (Gal 6,15; cf. Rm 6,4; 1Cor 5,7), capace d’agire secondo una «nuova alleanza» (1Cor 11,25; 2Cor 3,6.10) con tutto il genere umano.
9. I COLLABORATORI DI PAOLO
In questa convocazione ecclesiale universale Paolo non è solo, né vuole esserlo. Soprattutto in Rm, ma anche in 2Cor e in 1Cor, egli mostra di conoscere e relazionarsi a tante persone per aver viaggiato in lungo e in largo con l’unico scopo di connettere uomini e donne in una sola fede in Gesù, il Cristo e Signore. Alcuni personaggi gli sono più vicini e in alcuni luoghi egli si sente come a casa. Timoteo, per esempio, è menzionato in Rm 16,21; 1Cor 4,17; 16,10; 2Cor 1,1.19; Fil 1,1; 2,19; Col 1,1; 1Ts 1,1; 3,2.6; 2Ts 1,1; 1Tm 1,2.18; 6,20; 2Tm 1,2; Fm 1. La Macedonia è in Rm 15,26; 1Cor 16,5; 2Cor 1,16; 2,13; 7,5; 8,1; 11,9; Fil 4,15; 1Ts 1,7s; 4,10; 1Tm 1,3. Ai «greci» si accenna con simpatia in Rm 1,14.16; 2,9s; 3,9; 10,12; 1Cor 1,22.24; 10,32; 12,13; Gal 2,3; 3,28; Col 3,11. Di Tito si parla in 2Cor 2,13; 7,6.13s; 8,6.16.23; 12,18; Gal 2,1.3; 2Tm 4,10; Tt 1,4. Di Apollo, considerato da qualcuno un rivale, Paolo parla bene in 1Cor 1,12; 3,4ss.22; 4,6; 16,12; Tt 3,13. L’Acaia è ricordata in Rm 15,26; 1Cor 16,15; 2Cor 1,1; 9,2; 11,10; 1Ts 1,7s. Gerusalemme, con due grafie diverse, è menzionata in Rm 15,19.25s.31; 1Cor 16,3; Gal 1,17s; 2,1; 4,25s. Efeso è in 1Cor 15,32; 16,8; Ef 1,1; 1Tm 1,3; 2Tm 1,18; 4,12. Nel corpus paulinum i nomi propri sono di più, almeno 160, a cominciare da Cristo, menzionato esplicitamente 362 volte e, a seguire, Gesù (213); Paolo stesso parla di sé (23); il nome biblico più ripetuto è Abramo (19), poi Israele (17), Timoteo (17), Macedonia (14 + 2 volte «macedone»), greco o greci (13), Mosè (10), Satana (10), Apollo (8), Adamo (7), Acaia (7), Efeso (6), Barnaba (5), Isaia (5), Asia (Minore) (4), Davide (4), Giacomo (4), Giudea (4), Corinto (4), Laodicea (4), Tichico (4), Aquila e Priscilla o Prisca (3; questa coppia è menzionata in Rm 16,3; 1Cor 16,19; 2Tm 4,19), Galazia (3), Dema (3), ebreo (3), Epafra (3), Isacco (3), israelita, israeliti (3), Luca (3), Marco (3), Roma (3: in Rm 1,7.15; 2Tm 1,17), Silvano (3), Stefana (3), Agar (2), Alessandro (2), Antiochia (2: in Gal 2,11; 2Tm 3,11), Arabia (2: in Gal 1,17; 4,25), Aristarco (2), Archippo (2), Beniamino (2: in Rm 11,1; Fil 3,5), Gaio (2), Damasco (2: in 2Cor 11,32; Gal 1,17), Epafrodito (2), Erasto (2), Eva (2), Tessalonicesi e Tessalonica (2 + 2: in Fil 4,16; 1Ts 1,1; 2Ts 1,1; 2Tm 4,10), Giacobbe (2), anche il «giudaismo» è menzionato due volte (Gal 1,13.14), solo da Paolo nel NT; Onesimo (2), Onesiforo (2), Sara (2), Sinai (2), Sion (2), Spagna (2: in Rm 15,24-28), Troade (2: in 2Cor 2,12; 2Tm 4,13), Imeneo (2), Filippi (2). Seguono, con una sola occorrenza, altri 94 nomi propri, tra cui Atene (1Ts 3), Cilicia (Gal 1,21), Colossi o Colosse (Col 1,2), l’isola di Creta (Tt 1,5), Lino (2Tm 4,21), Listra (2Tm 3,11), Nicopoli (Tt 3,12), Osea, il profeta menzionato solo in Rm 9,25, Siria (Gal 1,21), Sostene (1Cor 1,1) e Zena, il giureconsulto (Tt 3,13). A partire da questa lista si potrebbe ricostruire la mappa delle numerose, più o meno intense e spesso dolorose, relazioni o contatti con i destinatari e le destinazioni della missione di Paolo, aperto a gente d’ogni provenienza. Di fatto, Paolo è inserito con tutto se stesso nell’umanità del suo tempo. È colui che più di qualunque altro apostolo si mette in sinergia con altri, greci, giudei o romani, uomini e donne che sono «collaboratori». Per esprimere questa capacità di relazione, o networking, Paolo crea termini nuovi. Nel corpus paulinum ricorrono synergos, «collaboratore», «persona in sinergia» con un altro in relazione a personaggi diversi tra loro (cf. Rm 16,3.9.21; 1Cor 3,9; 2Cor 1,24; 8,23; Fil 2,25; 4,3; Col 4,11; 1Ts 3,2; Fm 1.24; suggenês, «parente» (solo, ma ripetuto in Rm 9,3; 16,7.11.21); sugkoinônos, «compartecipe, in comunione» (Rm 11,17; 1Cor 9,23; Fil 1,7); synaichmalotos, «co-prigioniero» (Rm 16,7; Col 4,10; Fm 23); syndesmos, «coincatenato» (Ef 4,3; Col 2,19; 3,14); synathleô, «combattere fianco a fianco» (cf. Fil 1,27; 4,3); syndoulos, «co-schiavo» (Col 1,7; 4,7); synesthiô, «mangiare insieme» (1Cor 5,11; Gal 2,12).
Con questi termini Paolo evidenzia la propria capacità di lavorare con gli altri e con Dio, avendo accettato di essere con-crocifisso a Cristo (Rm 6,5 e Gal 2,19) per co-risorgere assieme a lui (cf. Ef 2,6; Col 2,12; 3,1) e co-ereditare mondo e regno di Dio (cf. Rm 4,13; 8,17; 1Cor 6,9s; 15,50; Ef 1,11.14; 3,6; Col 3,24). Se non si è in rete con altri si resta fermi e timorosi, custodi di templi o di norme passate, anziché accettare che crescere in umanità è crescere in conoscenza di Dio, formando la Chiesa, corpo di Cristo. L’appartenenza a Cristo è appartenere contemporaneamente a tutto l’uomo, a tutti gli uomini e a tutto Dio, Padre, Figlio e Spirito. Paolo in rete con Dio e Cristo (cf. 1Cor 3,9; 2Cor 6,1; Col 4,11; 1Ts 3,2) collabora con molti, uomini e donne, alla costruzione della Chiesa (cf. 1Cor 14,4s.12) e del regno di Dio che raggiunge cielo e terra (cf. Rm 1,20.25; 8,19.22.39; 2Cor 5,17; Gal 6,15; Ef 1,4; 2,10.15; 3,9; 4,24; 6,12; Col 1,15s.23; 3,10; 1Ts 2,7; 1Tm 4,3s) in forza della comunione dello Spirito (cf. Rm 1,4.7; 8,14.16; 15,6; 1Cor 1,3; 15,24; 2Cor 1,2s.19; Gal 1,1.3s; 2,20; Ef 1,2s; 4,6.13; 5,20; 6,23; Fil 1,2; 2,11; 4,20; Col 1,2s; 3,17; 1Ts 1,1.3; 3,11.13; 2Ts 1,1s; 2,16; 1Tm 1,2; 2Tm 1,2; Tt 1,4). In sintesi, Paolo desidera lavorare per l’unità del mondo in una sola Chiesa, concepita come pienezza dell’umanità, perché ha appreso il Vangelo sulla via di Damasco e – primo scrittore del Nuovo Testamento – ha imparato che la diversità è divina quanto l’unità (cf. Rm 1,4.9; 8,9; 15,16.30; 1Cor 6,11; 12,3; 2Cor 3,3; 13,13; Gal 4,6; Ef 1,17; Fil 3,3; 1Ts 5,23; 2Ts 2,13). Pur non utilizzando il termine Trinità, egli descrive Dio come Padre, Figlio e Spirito, grazie al Vangelo di Gesù, il Cristo e Signore.
10. DESTINATARI Se si intuisce la vastità della visione di Paolo a partire dalla nuova e più completa teologia ed ecclesiologia, rispetto alla LXX, si comprende l’universalità della sua missione esaminando termini ed espressioni che descrivono tutti come destinatari del Vangelo di salvezza, senza più quelle distinzioni persecutorie di quando era zelante della legge contro la Chiesa (1Cor 15,9; Gal 1,13.23; Fil 3,6; 1Tm 1,13). Allora partiva, per arrivare agli altri, dalla sua ristretta e rigorosa mentalità istituzionale e da una concezione legalista e autoreferenziale della giustizia (cf. Fil 3,2-12). Ora è Cristo che lo manda a ripetere la propria visione misericordiosa e la missione di salvezza. Paolo non può non rivolgersi tutto a tutti, poiché è apostolo di Gesù Cristo e tale per volontà di Dio e non di «uomini» (cf. Rm 1,1; 1Cor 1,1; 2Cor 1,1; Gal 1,1; Ef 1,1; Col 1,1; 1Tm 1,1; 2Tm 1,1; Tt 1,1).
10.1 Giudei e greci Paolo non è un sacerdote del Tempio ma, alla maniera di Cristo, per il mondo. Nel corpus paulinum si parla dei destinatari del Vangelo come di «giudei e greci», coppia di nomi diversi e non antitetici, perché esprimono totalità (Rm 1,16; 2,9s; 3,9; 10,12; 1Cor 1,22.24; 10,32; 12,13; Gal 3,28; Col 3,11). Similmente, la coppia «circoncisione-incirconcisione» serve a superare una polemica tra giudei e non giudei, comparendo in Rm 2,25ss; 3,1.30; 4,9ss; 15,8; 1Cor 7,18s; Gal 2,3.7ss.12; 5,2s.6.11; 6,12s.15; Ef 2,11; Fil 3,2s.5; Col 2,11.13; 3,11; 4,11; Tt 1,10. Questa lista non è uniformemente distribuita nelle 13 lettere: in 2Corinzi, 1/2Tessalonicesi, 1/2Timoteo e Fm non compare affatto. È spesso invece in Galati e Romani, meno in Colossesi e una sola volta in Efesini e Tito. Paolo impara e insegna a trasformare le antitesi, dove domina l’esclusione, in coppie che indicano integrazione e totalità.
10.2 Una sola etnia Spesso Paolo allarga gli orizzonti della missione, utilizzando dialetticamente ethnos, sostantivo neutro traducibile con «etnia» e, più ancora, con «nazione», «genti», «gentili», o «pagani». Il termine greco è presente in almeno 47 versetti del corpus paulinum per 54 volte. Compare soprattutto in Romani, Galati ed Efesini, mentre è assente da Filippesi, 2Tessalonicesi, Tito e Filemone. La prima delle 23 volte in Romani compare nell’incipit, in 1,5: per mezzo di Gesù, Cristo e Signore, Paolo ha «ricevuto la grazia dell’apostolato per ottenere l’obbedienza alla fede da parte di tutte le genti». L’inclusione tematica che qui inizia, si chiude, similmente, in Rm 16,25-26, in una solenne dossologia al Padre, che ha potere di confermare, secondo il Vangelo, un «mistero taciuto per secoli eterni» e rivelato solo ora «a tutte le genti perché obbediscano alla fede». L’argomentazione in Romani è quella di un apostolo attento alla necessità che tutti si salvino, attraverso l’obbedienza al Vangelo. Similmente, in Galati, la prima occorrenza di ethnos, in 1,15-17, apre l’inclusione con parole che evidenziano l’originalità e la specificità della vocazione missionaria di Paolo fin dal seno di sua madre: quando colui che lo scelse lo «chiamò con la sua grazia» e si compiacque di rivelargli il Figlio perché egli lo annunziasse soprattutto «in mezzo ai pagani». Senza consultare nessuno, neppure la Chiesa di Gerusalemme o quanti erano «apostoli» prima di lui, Paolo si recò missionario «in Arabia» per far poi ritorno «a Damasco». L’ultima occorrenza di ethnos, in Gal 3,14, serve al superamento del conflitto tra fede e legge: in Cristo Gesù la benedizione di Abramo passa «alle genti» che credono il Vangelo e ricevono «la promessa dello Spirito mediante la fede».
10.3 Tutti gli uomini «Tutti gli uomini» sono raggiunti dal peccato e dalla morte in Adamo, ma anche dalla grazia della vita nuova in Cristo (cf. 5,12-18). Per questo motivo, l’etica della Chiesa consiste nella grazia senza dover più rendere ad alcuno male per male ma piuttosto cercando di compiere il bene davanti «a tutti gli uomini» (Rm 12,17). In effetti, «tutti gli uomini» sono capaci di leggere l’epistola quando è scritta nei cuori e non con inchiostro, a mo’ di libro o Scrittura, ma essendo la stessa Chiesa di Dio a Corinto (cf. 2Cor 3,2). Anche l’affabilità della Chiesa a Filippi dev’essere nota a «tutti gli uomini». A Timoteo, in 1Tm 2,1, sono raccomandate «domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini», perché Dio «vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità» (1Tm 2,4), del Vangelo della fede in Gesù, il Cristo e Signore, e in Dio che «è il salvatore di tutti gli uomini» e non esclusivamente «di quelli che credono» (1Tm 4,10). La grazia di Dio apparsa in Cristo Gesù è «apportatrice di salvezza per tutti gli uomini» (Tt 2,11). Tito deve imparare e insegnare a «non parlar male di alcuno», evitando contese e «mostrando ogni dolcezza verso tutti gli uomini» (Tt 3,2).
10.4 Tutta la terra In Rm 9,17 Paolo scorge, in Es 9,16 che parla del faraone, il piano che Dio ha di rivelarsi a tutti. Dice infatti la Scrittura a proposito del faraone: «Ti ho fatto sorgere per manifestare in te la mia potenza e perché il mio nome sia proclamato in tutta la terra». Di oikoumene, «il mondo abitato», Paolo parla in Rm 10,18, a proposito della salvezza che, essendo per tutti, deve essere necessariamente rivelata a tutti, anche se resta intatta la libertà del rifiuto: non hanno tutti udito il Vangelo? «Tutt’altro: per tutta la terra è corsa la loro voce,
e fino ai confini del mondo le loro parole». Perché apostolo, Paolo non può fermarsi prima di aver raggiunto tutti, su tutta la terra. In sintesi, destinatari della missione della Chiesa sono tutti, ovunque. Più di qualsiasi altro apostolo, dei Dodici e dello stesso Pietro, il «diacono» Paolo è preoccupato che il Vangelo raggiunga «ogni creatura sotto il cielo» (cf. Col 1,15.23).
11. UNITÀ E DISTINZIONE TRA PIETRO E PAOLO La diversità tra Paolo e Pietro è notata anche in 2Pt. Nella parte finale, dossologica ma ancora esortativa e di messa in guardia, in 2Pt 3,15-16, «Pietro» (o «Simon Pietro») come «Paolo» è la prima parola e il mittente di 1Pt 1,1 e di 2Pt 1,1. La magnanimità del Signore nostro, Gesù il Cristo, – si legge – va considerata «come salvezza, come anche il nostro carissimo fratello Paolo vi ha scritto, secondo la sapienza che gli è stata data; così egli fa in tutte le lettere, in cui tratta di queste cose. In esse ci sono alcune cose difficili da comprendere e gli ignoranti e gli instabili le travisano, al pari delle altre Scritture, per loro propria rovina». Da questo passo sono ricavabili notizie e valutazioni che mostrano l’importanza della missione di Paolo, la sua diversità da Pietro e la maggiore antichità. Paolo ha anche scritto in un modo difficile, ma agli stessi, anonimi destinatari di 2Pt residenti in Asia Minore. La lettura delle «lettere», alcune quindi già raccolte insieme (Efesini, Colossesi e Galati?) sono equiparate al resto della Scrittura. Hanno lo stesso valore illuminativo e normativo. Se da «Pietro» Paolo è considerato «carissimo fratello», nel corpus paulinum il Cefa storico non è considerato «fratello» né «carissimo», ma piuttosto rivale e debole simulatore, per aver perso di vista la sufficienza della fede in Gesù Cristo e Signore per la salvezza di tutti. Il doppio nome è menzionato, nell’insieme, 10 volte da Paolo ma soltanto in due lettere, 1Corinzi e Galati. In 1Cor 1,12 Paolo riferisce ai Corinzi di aver sentito dire come nella Chiesa di Dio «ciascuno» abbia fatto scelte individualiste; c’è chi dice «Io sono di Paolo»; altri «Io invece sono di Apollo»; e altri, forse giudaizzanti, dicono «E io di Cefa». Questo nome aramaico è indizio non tanto di una venuta di Pietro a Corinto, quanto di alcuni che, appellandosi a Cefa come «apostolo» possono rifiutare Paolo. Le divisioni lacerano il corpo di Cristo. Paolo interviene rovesciando la gerarchia liberamente costituita a Corinto secondo i modi diversi di accettare il Vangelo. È sbagliato sottomettersi a «uomini» perdendo di vista l’unità necessaria alla Chiesa. In 1Cor 3,22 Paolo riordina le cose: «Paolo, Apollo, Cefa, il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro!». Il «vostro» indica la Chiesa intera che è di Dio perché è corpo di Cristo, Figlio del Padre. Né Paolo né Cefa hanno primati da vantare dinanzi al «capo» che è Gesù, il Signore. Ancora in 1Cor 9,5, Paolo difende un suo diritto apostolico, quello di poter portare con sé «una credente, come fanno gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa». Non accetta privilegi né discriminazioni accusatorie, che mirino a squalificarlo come apostolo pari agli altri. In 1Cor 15,5, giustificando in pieno il mandato di Cefa, Paolo fa notare come il Risorto sia apparso prima a lui e dopo «ai Dodici». Anche in Gal 1,18, Paolo riconosce il primato di Cefa, pur riferendo ai Galati come «in seguito» e quindi non immediatamente dopo il personale incontro con Gesù risorto sulla via di Damasco, ma ben «dopo tre anni» d’essere andato «a Gerusalemme per consigliarsi con Cefa, presso il quale rimase quindici giorni».
Dopo altri 14 anni, da Antiochia di Siria, ritorna a Gerusalemme insieme a Barnaba e a Tito (cf. Gal 2,1) per discutere sull’apertura ai pagani insieme a tutti gli apostoli e agli anziani della Chiesa madre. In Gal 2,7-8, Paolo ricorda ancora come, a Gerusalemme, gli sia stata riconosciuta la missione di portare il Vangelo «ai non circoncisi», parallelamente a Pietro con la missione «ai circoncisi», dato che colui «che aveva agito in Pietro per farne un apostolo dei circoncisi aveva agito anche in me per i pagani». Sia Pietro che Paolo dipendono allora dallo stesso Signore senza poter contrapporre o annullare la missione diversa. Riconoscendo «la grazia» conferita a Paolo, Giacomo, lo stesso Cefa (non più primo nell’elenco) e Giovanni diedero a Paolo e a Barnaba la destra in segno di comunione, «perché noi andassimo verso i pagani ed essi verso i circoncisi» (Gal 2,9). Il rispetto nella diversità tra Paolo e Cefa mette in evidenza la considerazione dei destinatari e l’attenzione ad un linguaggio necessariamente diverso da usare nel comunicare lo stesso Vangelo a tutti. Quando Cefa arriva ad Antiochia, Paolo gli si oppone a viso aperto perché «evidentemente aveva torto» (Gal 2,11). Insieme ad altri che «non si comportavano rettamente secondo la verità del Vangelo» (Gal 2,14), anche Cefa cede alla simulazione e all’ipocrisia a svantaggio di cristiani d’origine pagana, oscillando più a favore dei giudaizzanti. Paolo non scusa Cefa perché non esistono criteri altri rispetto alla fedeltà al Vangelo per valutare qualsiasi situazione o relazione interpersonale ed ecclesiale.
SINTESI Come apostolo dei gentili, alla pari di Pietro apostolo dei giudei, per volontà dello stesso Dio Padre di tutti, Paolo salvaguarda il primato del Vangelo rispetto alla legge, limitata e localista, che rischia d’allontanare i pagani da Cristo. Diversamente dai giudaizzanti, Paolo condivide con tutti la sua fiducia in Cristo crocifisso secondo la legge, ma vivente e vivificante e, perciò, capace di salvare chiunque, liberando i giudei dalla pedagogia della legge e i gentili dalla schiavitù agli elementi di questo mondo. Giudei e greci, uomini e donne, diventano adulti, liberi e maturi se si fanno uno in Cristo, nuovo Adamo. In questo completo corpo giovane, che è la Chiesa, la diversità delle membra è funzionalmente asservita all’unità filiale e fraterna, veritiero specchio di Dio che è tanto uno quanto in sé diverso. Paolo è ancora apostolo delle genti per collaborare con Dio alla ricapitolazione di tutto e di tutti in Cristo.