20262 - Chapeau Settembre 09(1)

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MENICHELLI

MENICHELLI

RIVISTA MENSILE DI ATTUALITÀ MODA CULTURA

COPIA GRATUITA - Anno 5 - N. 9 - Settembre 2009 - Tiratura copie 20.000

Venezia 2009 Baaria - La porta del vento di Giuseppe Tornatore

Storie di paranormale

Santa Inquisizione

Cafè Chantant e un pò di varietà

Direttore Responsabile Mara Parmegiani Comitato scientifico Gino Falleri, Nino Marazzita, Simonetta Matone, Carlo Giovannelli, Rosario Sorrentino, Emilio Albertario, Anna Mura Sommella Segreteria di Redazione Marco Alfonsi Nicoletta Di Benedetto Marina Bertucci Servizi fotografici di redazione Laura Camia, Giancarlo Sirolesi Collaborano Alessia Ardesi, Marco Alfonsi, Costanza Cerìoli, Isabella De Martini, Nicoletta Di Benedetto, Andrea Di Capoterra, Cristina Guerra, Rita Lena, Elisabetta Leoni, Nino Marazzita, Siderio, Josephine Alessio Fotografo: Maurizio Righi Via Piero Aloisi, 29 - 00158 Roma Tel. 06.4500746 - Fax 06.4503358

Le geografia del gusto tra mondializzazione e radici locali. L’accelerazione di trasferimenti e scambi di persone, beni e informazione porta ad una inesorabile uniformazione culturale che appare evidente in tutti i settori. Alimenti e bevande costituiscono aspetti essenziali della vita materiale e culturale delle società umane. Lo scopo di mangiare e bere, oltre che ristorare, è anche un mezzo per rispettare i valori ai quali siamo legati. Tutte le religioni hanno sempre predicato, o al contrario proibito, il consumo di determinati alimenti o di certe bevande dal forte valore simbolico. Dai fattori complessi e ricchi di connessioni della diffusione degli alimenti e delle bevande è nata una geografia, anch’essa complessa e mobile nel tempo. Ad esempio, il consumo della pasta cucinata all’italiana o della pizza sono in grande espansione ovunque nel mondo compresi i Paesi poveri o quelli “fermati” culturalmente per molto tempo, come la Russia o la Cina. Un discorso a parte merita l’hamburger, originario dell’Europa settentrionale e diventato piatto nazionale degli Stati Uniti. Oggi, grazie ad una postazione informatica, la banca dati on-line www.culturagastronomica.it, realizzata dal BAICAR Sistema Cultura insieme all’Università di Bologna e all’Istituto per i Beni Culturali dell’Emilia Romagna, sarà possibile consultare, per la prima volta, i luoghi e le fonti della Cultura Gastronomica Italiana. Uno strumento indispensabile per chi si occupa di cucina in termini professionali; un contenitore pieno di notizie e curiosità gastronomiche, che permette di disegnare itinerari del gusto; un patrimonio che, grazie alla ricchezza delle produzioni alimentari, sta diventando una delle motivazioni turistiche fonti del viaggio in Italia. Mara Parmegiani

www.chapeau.biz Aut. Trib. di Roma n. 529/2005 del 29/12/2005 Edizioni e Stampa Rotoform s.r.l. Via Ardeatina Km. 20,400 - S. Palomba (RM) Ideazione grafica ed impaginazione Monica Proietti Settore Pubblicità Direzione: 00158 Roma - via Piero Aloisi, 29 Tel. 06.4500746 - Fax 06.4503358 e-mail: [email protected]

“Dolcevita” Canale SKY 906

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numero

IN QUESTO

LA MAGIA DI BAARIA

MODA

FACEBOOK

L’INCENSO

MARIA CALLAS

CAFFÈ CHANTANT

4

La magia di Baaria

6

Moda

10

Roma by Night

12

Facebook

16

Santa Inquisizione

19

L’incenso

20

Maria Callas

22

Caffè Chantant

24

Tunguska

25

Trent’anni di moda di Camillo Bona

26

I must dell’Autunno

28

Craig Warwick

30

Libri - Eventi - Mostre

31

Ricetta e Oroscopo del mese

LA MAGIA DI BAARIA “Baaria è un suono antico, una formula magica, una chiave. La sola in grado di aprire lo scrigno arrugginito in cui si nasconde il senso del mio film più personale. Una storia divertente e malinconica, di grandi amori e travolgenti utopie. Una leggenda affollata di eroi”. Queste le parole di Giuseppe Tornatore per commentare il suo ultimo film “Baaria”, una sorta di Amarcord, che apre il 2 settembre in concorso la 66ª edizione del Festival del Cinema di Venezia. Che si sa di questo film? Molto poco. Esattamente un anno fa Tornatore, sul set a Tunisi, aveva parlato di una storia che at-

siciliano, dove la vita degli uomini si dipa-

tro ambienti diversi, tra i quali la chiesa,

traversa il Novecento, soprattutto tra gli

na lungo il corso principale. Poche centi-

con il suo piazzale sul quale si affaccia il

anni ‘30 e i ‘70, raccontando la storia

naia di metri, tutto sommato. Ma

Gran Bar, i tabacchi, il barbiere, il cinema

d’amore di Mannina e Giuseppe, dei loro

percorrendole avanti e indietro per anni,

Vittoria e la macelleria.

padri e dei loro figli, tre generazioni che

puoi imparare ciò che il mondo intero non

Insomma un set tre volte più grande di

vediamo crescere nell’Italia di quegli an-

saprà mai insegnarti”.

quello di Gangs of New York fatto per

ni.

Il film, prodotto da Medusa (oltre 20 mln

Scorsese a Cinecittà. Una scenografia resa

“Non è un film autobiografico - aveva

di Euro), girato prima nella vera Bagheria,

poi anche più complessa dallo scorrere de-

detto allora Tornatore - ma è un film

in Sicilia, e poi in quella ricostruita senza

gli anni con tutte le relative trasformazio-

personale, quello che si avvicina di più al

badare a spese da Maurizio Sabatini in

ni delle location: come, ad esempio, il

“Nuovo Cinema Paradiso”. C’è nostal-

una vecchia fabbrica di Ben Arous, sob-

mercato del pesce diventato l’ufficio delle

gia, anche malinconia e la risata che ti

borgo di Tunisi.

Poste.

porta a riflettere, ci ricorda che la pas-

Un impegno notevole. Sono stati rifatti i

Al film hanno partecipato 20.000 compar-

sione politica e civile è stata per tutti noi

quattrocento metri di corso re Umberto, la

se e 200 attori.

qualche cosa di positivo, ma Baaria”, -

strada principale di Bagheria, duecento

Tra questi: Nicole Grimaudo, Angela Moli-

aggiunge-, “è anche il nome di un paese

metri di strade secondarie con centoquat-

na, Lina Sastri, Salvo Ficarra, Valentino Picone, Gaetano Aronica, Alfio Sorbello, Luigi Lo Cascio, Enrico Lo Verso, Nino Frassica, Laura Chiatti, Michele Placido, Vincenzo Salemme, Giorgio Faletti, Corrado Fortuna, Paolo Briguglia, Leo Gullotta, Beppe Fiorello, Luigi Maria Burruano, Franco Scaldati, Aldo Baglio, Monica Bellucci, Donatella Finocchiaro, Marcello Mazzarella, Raoul Bova, Gabriele Lavia e Sebastiano Lo Monaco. La musica del nuovo film di Tornatore è firmata ancora una volta da Ennio Morricone. Infine, tra le curiosità di questa mega-produzione anche quella che per la prima volta in un film italiano ci sarà una doppia lingua: sarà distribuito in dialetto

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di Bagheria in Sicilia, mentre nel resto del

indimenticabile

Philippe Noiret, furono

mondo in italiano ‘sporcato di siciliano’.

anche all’epoca composte da Ennio Morri-

Già nel 1995 Tornatore era stato protago-

cone in collaborazione con il figlio Andrea

nista alla Mostra di Venezia, presente sia

che proprio per il il tema d’amore venne

col documentario sulla “sua” Sicilia “Lo

premiato nel 1990 con il British Academy

schermo a tre punte”, sia col lungome-

of Film and Television Arts (BAFTA).

traggio in concorso “L'uomo delle stelle”, con Sergio Castellitto, film che vinse il Gran Premio Speciale della Giuria presie-

Andrea di Capoterra

duta da Guglielmo Biraghi (e successivamente il David di Donatello e il Nastro d’Argento per la miglior regia). Diciannove anni fa invece vinceva l’Oscar per “Nuovo Cinema Paradiso”. L’anno prima il film era uscito nell’edizione definitiva voluta da Cristaldi, conquistando il pubblico e la critica e poi ottenendo il Grand Prix speciale della giuria a Cannes e, l’anno successivo appunto, l’Oscar come miglior film straniero. Le musiche del film che vedeva protagonista un

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L’ALTA MODA S In tempi di crisi anche l’Alta Moda si adegua. Come è stato per Parigi, la tendenza è quella di limitare le spese, ed evitare di organizzare eventi costosi, allestimenti e location faraoniche. È stata Raffaella Curiel a precorrere i tempi, presentando la sua collezione fuori AltaRoma con un pranzo all’Hotel Inghilterra. Lorenzo Riva ha scelto una suite dell’hotel Exedra come passerella per le sue creazioni autunno-inverno 2010, così come Gianni Calignano che ha sfilato all’Hotel Regina Baglioni, così come Tony Word. Anche Sarli ha pensato ad un défilé più intimo annunciando che aprirà le porte del suo atelier di Via Gregoriana per la prossima stagione. Gattinoni ha deciso che da gennaio farà sfilare le modelle all’interno della sua maison, perché ritiene eccessivo pagare 250 mila euro per una sfilata per AltaRoma senza ritorno di immagine e buyers. È quindi auspicabile, come consiglia anche Renato Balestra, il ritorno ad un’immagine globale ed unitaria dell’Alta Moda romana. Magari come fece il marchese Giovanni Battista Giorgini che nel 1951 riunì nella sua Villa Torrigiani, a Firenze, le grandi sartorie italiane alla presenza di giornalisti stranieri, assenti alle attuali sfilate romane. M.P.

RAFFAELLA CURIEL

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CEGLIE IL PRIVÈ LORENZO RIVA

GIANNI CALIGNANO

7

TONY WORD

FAUSTO SARLI

8

GATTINONI

RENATO BALESTRA

Foto di Maurizio Righi

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ROMA

by

NIGHT

a cura di Giancarlo Sirolesi

Gina Lollobrigida alla sua personale fotografica con il Sindaco Alemanno

Patrizia Pellegrino alla limonaia di villa Torlonia

Festa grande alla Maison per l'inaugurazione del locale sul Tevere

Alice Tatucchi - rappresentante italiana di miss Mondo in Sudafrica

Maria Monsè con il marito Salvatore Paravia

Premio dell’Osservatorio Parlamentare Europeo a Fausto Sarli per “il Costante impegno nel campo della Moda” alla presenza di tutta la Stampa

Fedele Confalonieri in sorridente compagnia

Festa di compleanno della ricercartice Florence Malisan

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Al Parco S. Sebastianoi il concerto per M. Jackson

Un brindisi tra amiche: Roberta Beta, Irene Bozzi e Nadia Bengala

Manuela Arcuri consegna il premio Forchetta d'0ro a Sandro Ferrone e a Salvatore Scarfone

Ingrid Muccitelli alla festa di “Amici”

Loredana Cannata veleggia a bordo della nuova barca di Spanò

Enrico Brignano premiato al Liceo Visconti alla 30°edizione Il nubifragio a Roma

Marco Carta com le amiche di “Amici” Performance di ballerini a Piazza del Popolo

Renato Balestra, al termine della sfilata, riceve la targa dell'Osservatorio Parlamentare Europeo per il suo impegno nel campo della moda

Demetra Hampton al Ku-ra Ku-ra

Zeudi Araya con il suo Massimo Spano alla presentazione del libro di Silvia Paoli

Monica Riva firma il poster ricordo della serata

Nancy Brilli alla presentzione del libro di Silvia Paoli Benedicta Boccoli con Bice Minori, costumista di tanti spettacoli teatrali importanti Angela Melillo al Castello di Lunghezza per la presentazione di una linea di jeans

Michele Placido al premio “Via Margutta” Federica Balestra e Silvana Augero titolare di una importante scuola di indossatrici

Brindisi di Balestra con l’imprenditrice della ristorazione Daniela Amadei

Un Centurione tatuato a Piazza di Spagna

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Il fenomeno faceb

il nuovo volto dell’amiciz

Non è né il primo né l’ultimo. Non è il primo perché prima di tutti è nato Classmates.com; non è l’ultimo perché di recente è emerso Twitter. Parliamo ovviamente di social network, quei ritrovi mediatici di amici vecchi e nuovi che tanto vanno di moda adesso. Su di tutti spicca, per numero di contatti, Facebook, nato nel 2004 dall’inventiva di un diciannovenne Mark Zuckerberg, all’epoca studente dell’Università di Harvard, aiutato da alcuni suoi compagni di classe. La sua capillare diffusione ha messo in luce una rivoluzione sociale e comunicativa in atto, cioè un nuovo bisogno di relazionarsi e di comunicare. Classmates.com è – abbiamo detto il nonno dei social network. Fu creato nel 1995 da un ingegnere della Boeing che voleva rintracciare un suo vecchio compagno di classe nelle Filippine. Da lì fu un susseguirsi di sistemi simili con finalità analoghe: nel 1997 un avvocato lanciò SixDegrees, fondato sulla teoria dei sei gradi di separazione, ovvero per raggiungere una persona c’è bisogno al massimo di cinque intermediari. Nel 2002 nacque Friendster per creare una lista di contatti partendo dagli amici degli amici; nel 2003 furono elaborati Linkedin per i contatti professionali e Myspace per costruire pagine personalizzate aperte a tutti. Nel 2004 fu il turno di Facebook e nel 2006 l’ultima creatura del web, Twitter, che tanto spazio ha avuto proprio di recente per far conoscere al mondo quanto accadeva in Iran, all’indomani del discusso voto presidenziale. Sarebbe troppo lungo descrivere tutti i social network attualmente attivi. Ma per capire quanto, su tutti, Facebook sia diventato dominante basti citare qualche cifra: se Myspace è stato comprato da Murdoch per 580 milioni di dollari, Face-

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book ha un valore stimato di 15 miliardi di dollari! Inoltre a leggere i dati sui contatti, il divario è impressionante: Myspace vanta 81 milioni di utenti nel mondo, Linkedin 36 milioni, Twitter solo sei milioni, mentre Facebook ne conta ben 200 milioni, di cui circa 5,5 milioni in Italia. Facebook nacque con lo scopo di ritrovare vecchi compagni di università e poi di mantenere i contatti tra gli studenti di tutto il mondo. Il nome deriva infatti dagli annuari dei college americani, in cui all’inizio dell’anno accademico vengono pubblicate le foto di ogni singolo membro per essere distribuiti ai nuovi studenti e al personale della facoltà al fine di far conoscere le persone del campus. Insomma un vecchio strumento di conoscenza è stato ripreso, portato su Internet e trasformato in un mezzo di comunicazione mondiale di semplice utilizzo, accessibile a tutti gratuitamente. Appena Facebook entrò in scena sul web, nel giro di pochissimo tempo si diffuse in modo capillare coinvolgendo numerose università. Il sito nacque il 4 febbraio 2004 e per la fine del mese più di metà degli studenti di Harvard era registrata al servizio; nel giro di due mesi il sito coinvolse le Università di Stanford, la

Columbia e la Yale University, il MIT, l’Università e il college di Boston. E questa espansione proseguì inarrestabile fino ad uscire dai confini statunitensi e interessare scuole superiori e aziende di tutto il mondo. In un solo anno – dal settembre 2006 al settembre 2007 – il network è passato dalla sessantesima alla settima posizione nella graduatoria dei siti più visitati. E’ attualmente il sito numero uno per foto negli Stati Uniti, con oltre 60 milioni di immagini caricate settimanalmente. In Italia l’anno scorso c’è stato un vero e proprio boom di Facebook con un incremento annuo per numero di visitatori del 961%! Abbiamo detto che il sito è totalmente gratuito per gli utenti, perché trae guadagno dalla pubblicità. Ed è semplice: per iscriversi basta inserire il proprio indirizzo e-mail e una password. Una volta dentro si può cominciare a cercare amici, entrare in contatto con amici di amici, definire il proprio profilo con foto e liste di interessi personali e/o hobbies, scegliere a quale e quante reti aggregarsi: ne esistono infatti molte organizzate ad esempio per città, posto di lavoro, scuola e religione. Se inizialmente questo social network si è diffuso tra gli studenti, cioè tra quanti avevano

book:

izia più o meno 18 anni, ora sta coinvolgendo persone intorno ai 25 anni o più, dunque non più studenti. In effetti Facebook è quanto di più trasversale possa esistere in rete e non solo. Infatti ha incuriosito e attratto centinaia di migliaia di persone mai iscritte prima a simili servizi, e molto spesso anche a digiuno di concetti new-mediatici. Si è in sostanza avviato – per una qualche ragione ancora difficile da decifrare – un passaparola inter-generazionale che ha innescato un circolo vizioso stuzzicando la curiosità di tutti. Ma qual è la differenza tra Facebook e gli altri social network? Innanzitutto la semplicità per cui, grazie ad una interfaccia immediata, chiunque può riallacciare contatti lontani nel tempo. Ma anche, e soprattutto, il fatto che Facebook abbia un modo infallibile per riallacciare amicizie: appena un utente carica una foto nel suo spazio, il sistema invita ad identificare anche altri soggetti eventualmente presenti su quella foto. Ogni fotografia è così sottoposta al vaglio degli amici, degli amici degli amici, degli amici degli amici degli amici, dove ognuno riconosce qualcun’altro e lo invita ad entrare nella rete di relazioni. Un’arma però a doppio taglio: se da un lato infatti è più facile trovare compagni e amici persi nel tempo, dall’altro molti si ritrovano sul sito senza neppure saperlo. Facebook non è il luogo dell’anonimato e dell’identità falsa. Sul sito ognuno si deve presentare con il proprio nome e cognome, con il proprio volto reale. Ma, come si fa in una nuova conoscenza vis à vis dove si cerca di dare il meglio di sé all’interlocutore, anche su Facebook scatta lo stesso meccanismo, e così si sceglie la foto migliore, quella che si pensa ci rappresenti meglio, dia meglio l’idea della nostra personalità o quantomeno di ciò che vogliamo comunicare. Accanto alle foto poi ognuno racconta chi è, che fa, qual è la sua professione, quali sono i suoi gusti, il suo stato civile, anche la sua religione e il suo orientamento sessuale. Dà insomma informazioni generiche, ma utili a stabilire i primi contatti. Infine su questo profilo si avvia la conversazione a cui possono partecipare tutti gli utenti della stessa rete, oppure si può avviare una conversazione privata tra due persone. Il profilo non è definito una volta per tutte, perché si possono aggiungere nuovi elementi, come foto, valutazioni, commenti, giudizi, pareri. Ogni elemento aggiunto, che può peraltro essere commentato dagli amici, costituisce un

pezzo dell’identità dell’utente, con il rischio però di costruire un’immagine più pubblica che reale. Secondo le statistiche ogni mese vengono caricate su Facebook 700 milioni di immagini, tanto che attualmente se ne contano circa 10 miliardi, quattro milioni di video e 15 milioni tra note, link e post vari. I commenti vengono poi pubblicati sulla propria “bacheca” – accessibile a tutti – uno dietro l’altro. Ma, come abbiamo accennato, sul social network si può anche avviare una conversazione privata, escludendo gli “amici”, anche se il confine tra pubblico e privato è spesso labile. La protezione del mezzo, la lontananza del soggetto permettono di dichiarare cose di se stessi che altrimenti non si rivelerebbero, con il rischio di ritrovarsi però stretti in un ingranaggio da cui è difficile uscire. Molti allora hanno cominciato a stabilire nuove regole per l’accettazione degli amici. C’è chi è più conservatore, non fa cioè ulteriori aggiunte alla propria rete online già strutturata; e chi invece è aperto a nuovi contatti, anzi li cerca, in un’ottica di integrazione tra mondo telematico e mondo reale. I social network sono un privilegiato elemento di studio dei sociologi interessati alla rete relazionale che si instaura sul web. E proprio un sociologo dell’Università di Harvard, Nicholas Christakis, uno dei massimi esperti di social network, ha riscontrato che anche nelle amicizie online vale il principio “chi si somiglia, si piglia”. Questo vuol dire che, non solo nella vita reale, ma anche sul web si lega più facilmente con chi è più affine per sesso, età, provenienza etnica ed estrazione sociale. Tra gli elementi che più determinano coesione ci sono indubbiamente i gusti musicali, seguiti dalle letture e dalle preferenze cinematografiche. E’ pur vero che in rete i gruppi sono più eterogenei e le donne soprattutto sono aperte alle conoscenze più stravaganti. Ma in genere è così. E questo principio vale anche per le foto: i sorridenti si attraggono tra di loro, così come i musoni, gli alternativi, i malinconici tra di loro. Potremmo definire Facebook più che il “libro delle facce”, il “libro della doppia faccia”, non tanto per una presunta falsi-

tà degli utenti. Costruire un’immagine di sé che possa piacere agli altri è un meccanismo comune a tutti, dentro e fuori la rete, quanto piuttosto per i risvolti subdoli e a volte negativi che il sistema stesso nasconde. Può infatti diventare una sorta di droga mediatica perché nel momento in cui si entra nella rete, essa stessa (e il termine lo conferma) ti cattura in un vortice di contatti, relazioni, scambi che possono occuparti per ore. E’ quello che gli esperti inglesi chiamano “friendship addiction”, cioè una specie di dipendenza da amici. Se mediamente si dedica ai social network almeno trenta minuti al giorno, c’è chi invece vi passa interi pomeriggi, quando non intere giornate. Le sollecitazioni sono costanti e continue per gli utenti, quando non proprio pressanti, tanto che molti, quando non sono connessi, presentano i sintomi della sindrome da astinenza: ansia, depressione, sudorazione, paura per non sapere cosa sta succedendo in quel momento sul network. Tornare davanti al computer è la scelta inevitabile. Ma ci sono pure molti che, superata la fase di entusiasmo dovuta alla curiosità del mezzo nuovo di comunicazione, arrivano a maturare un vero e proprio rigetto. C’è chi invece, forse grazie ad una gestione più equilibrata, semplicemente si assesta su un livello accettabile di comunicazione, paragonabile a una telefonata con gli amici per scambiare quattro chiacchiere.

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Ma perché si va su Facebook? A quali bisogni risponde visto che ha raccolto un così ampio consenso in pochissimo tempo? C’è chi sostiene che permetta “ai suoi utenti di sentirsi parte di una rete di relazioni che hanno un volto e una storia quotidiana alla quale si può partecipare con un click.” (Antonio Spadaro, da “I quaderni della Civiltà Cattolica). In poche parole risponde alle esigenze di semplificazione dei rapporti umani: non si spreca tempo a cercare perché le amicizie ti vengono letteralmente incontro, non si deve fare la fatica di uscire di casa anche quando non va, è meno costoso di una telefonata, ma soddisfa di più perché fa sentire meno isolati, è meno impegnativo perché, come serve un click per avviare la conversazione, basta un click per interromperla. Certo, il rischio di creare rapporti superficiali ed effimeri è molto alto. In genere in questo tipo di relazioni non si cerca la profondità di pensiero e di anima, ma una sorta di comprensione reciproca di fronte ad una solitudine interiore difficile da sopportare. Si rischia, in sostanza, di confondere il bisogno di conoscenza e di amicizia, fuori dalla ristretta cerchia familiare e amicale già consolidata nella vita reale, con un istinto di esibizionismo e di narcisismo, con una forma di vanità nonché di riconoscimento del proprio valore solo attraverso lo specchio della presenza altrui. Avere molti amici – e su Facebook si va da un numero medio per utente di 120 contatti a 500, fino a migliaia di amici (il limite massimo è 5.000) – significa essere socialmente più attraenti. Andando avanti però si può arrivare a scoprire la vacuità dell’intero meccanismo, anche perché spesso si perde gran parte del tempo a cercare una frase originale per fare colpo invece che essere ciò che si è. C’è chi sostiene però che chi investe in questi legami, riesce ad ottenere più informazioni e più contatti rispetto a chi si chiude nei rapporti conosciuti. E in fondo “nulla impedisce a un legame debole di diventare un legame forte” (Eugenio Spagnuolo, sociologo). Ma una conseguenza possibile è quella di perdere il contatto con la vita

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reale, e per questo c’è chi suggerisce di utilizzare Facebook soprattutto per rinsaldare relazioni che hanno già una vita autonoma fuori dal web, ritornando del resto alla sua finalità iniziale, di ritrovare cioè compagni di classe e amici d’infanzia appartenenti alla vita offline. Ci sono altre insidie che si nascondono dietro la facciata della globalità comunicativa. In rete si trovano amici vecchi e nuovi, si possono rintracciare ex, si possono trovare nuovi fidanzati, ma si può anche scoprire che il proprio matrimonio è finito senza saperlo; si possono scoprire tradimenti, non importa se solo mediatici o reali; si può scoprire che la foto di una persona, che ci piace e che decidiamo di conoscere fisicamente, era molto meglio della realtà; si può scoprire che l’amico del cuore non considera l’amicizia allo stesso modo; si può diventare verbalmente più violenti perché protetti dal mezzo; si possono rubare identità per punire la fidanzata che ti ha lasciato e far finire le sue foto su un sito pornografico; si possono adescare minorenni senza che queste/i si rendano conto del pericolo; si possono conoscere maniaci senza che questo sia emerso sul suo profilo pubblico. Di contro attraverso i social network si possono far emergere le difficoltà dei paesi dove vige un regime autoritario e dove l’informazione è strettamente controllata (l’ultimo caso, lo abbiamo citato, è quello dell’Iran); i medici possono conoscere l’effetto dei farmaci e possono mettere a punto nuove terapie scambiandosi notizie utili tra un capo all’altro del pianeta; si può utilizzare il web per la propria campagna elettorale, come ha fatto Barak Obama, attuale presidente degli Stati Uniti, che si è avvalso abbondantemente di Facebook per mantenere i contatti con i suoi elettori. E forse la sua vittoria è dovuta anche a questo. C’è un altro aspetto di Facebook che non viene considerato, ma che ha determinato in questi anni alcune polemiche: la tutela della privacy. Secondo infatti le condizioni di iscrizione al sito, i contenuti pubblicati dagli iscritti, come fotografie, commenti, video, diventano di proprietà del sito stesso, che si arroga il diritto di rivenderli e trasmetterli a terzi, di conservarli anche dopo la cancellazione del profilo degli utenti. Ciò significa che qualsiasi cosa si inserisce in Facebook diventa “di” Facebook che può farne quello che vuole. I dati, anche quando vengono cancellati pubblicamente, restano sotto forma di copia nella memoria del network che può così ripescarli a suo piacimento. Inoltre, secondo la policy di Facebook, non esiste alcun controllo su “chi-può-vedere-cosa”; il copyright di tutto ciò che vi è pubblicato ricade sotto la totale giurisdizione del sito; e non è garantita la sicurezza delle applicazioni, né quella dei dati né tantomeno la privacy. Ma su questo, almeno in Italia, si

è intervenuti: il nostro codice di protezione dei dati personali prevede per l’utente il diritto di sapere a chi vanno i propri dati, come verranno trattati, di vietarne la pubblicazione e anche di rendere definitiva la propria cancellazione dal sito su esplicita richiesta. In conclusione Facebook è di sicuro uno degli aspetti dello stesso progresso scientifico che ha creato il telefono, il cinema, la televisione e ogni mezzo di comunicazione. E in quanto tale non può considerarsi un punto di arrivo, né un superamento delle precedenti forme di comunicazione. Qualsiasi forma nuova integra infatti in sé quella vecchia e la sublima su un piano superiore. Così sono anche i social network. E proprio per questo non vanno né demonizzati a priori, ma neppure esaltati. Certo il fenomeno Facebook ha messo in evidenza un bisogno di relazione e di socializzazione che forse non era mai apparso con tutta questa forza, anche se resta il problema della qualità della relazione stessa. A guardar bene però la vera novità di Facebook è stata quella di aver trasformato Internet in una rete di persone, e non più solo di pagine e contenuti, incarnando l’utopia della vicinanza “sempre e comunque”, della conoscenza “sempre e comunque”, dell’annullamento della solitudine, della condivisione delle emozioni. Eppure proprio in questo “sempre e comunque” si rischia l’aridità, perché il nostro sentire interiore, in quanto tale, “va prima di tutto vissuto e compreso, non necessariamente condiviso. Comunicando ogni cosa, finiamo per aver bisogno di conferme continue per capire chi siamo e cosa sentiamo” (Sherry Turkle, sociologa del MIT di Boston). Come a dire che ci riconosciamo solo tramite gli altri e mai attraverso noi stessi. E in questo modo anche la nostra personalità diventa “mediatica”, perché mediata dalla relazione e non esistente indipendentemente da essa.

Cristina Guerra Giornalista RAI 1

Biopsicosomatica quando il conflitto non risolto scatena la malattia

«Tutte le malattie sono programmi biologici di sopravvivenza, la risposta del nostro cervello a una situazione emozionale incompiuta». In queste poche parole sta tutto il significato della “Biopsicosomatica” o il “Senso Bio-Etologico delle malattie e del comportamento”, che affronta le grandi leggi biologiche che presiedono l’insorgere e la scomparsa della malattia. Malattia, che secondo il suo fondatore Jean Claude Badard, ricercatore, formatore, esperto in psicosomatica e psicogenealogia, è al di là delle cause, malattia psicosomatica, o di reazione biologica, che coinvolge l’unità fondamentale dell’essere vivente. Unità, composta di quattro realtà inseparabili: organica, cerebrale, psichica, energetica e che si esprime attraverso la psiche, le emozioni, il corpo, i comportamenti, la malattia. Partendo dal credo fondamentale della biopsicosomatica, secondo il quale “ogni cellula del corpo umano è sotto il controllo del cervello e ogni parte stratificata del cervello è indissolubilmente legata all’altra, per cui non esiste alcuna cellula del corpo che sfugga al controllo della psiche conscia o inconscia”, non si sfugge al fatto che gran parte delle malattie hanno una origine psicosomatica. Dell’influenza della psiche nei processi di malattia e di guarigione si cominciò a parlare negli anni 50 con Henry Laborit e i suoi famosi esperimenti sui topi in gabbia sottoposti a condizioni di stress. Laborit disse che quando viviamo un problema e non possiamo risolverlo, non possiamo né fuggire, nè combattere, ci ammaliamo. È nell’inibizione all’azione, dunque, che ci si ammala perché il cervello non può dare risposte liberatorie. Per Laborit, una volta compreso che ogni azione è inefficace, l’uomo si inibisce e sfoga questa sua inibizione con malattie psicosomatiche. Badard va più a fondo e distingue: “poiché il cervello gestisce tutte le funzioni, esso non può occuparsi solo di questo problema. Allora, delegherà la gestione del conflitto ad uno specifico gruppo di neuroni, isolerà tale gruppo di cellule nervose che devono prendersi in carico il controllo dello stress”. Questo, secondo Badard, ha tutta una serie di effetti, il più importante è che questi neuroni gestiscono un tessuto ed anche un comportamento che potranno subire una modificazione. Che cosa porta il nostro cervello ad isolare un certo gruppo di neuroni? Non è l’avvenimento in quanto tale, ma ciò che noi proviamo in riferimento ad esso. Arriviamo dunque al “nostro RI-SENTITO”, a ciò che l’avvenimento ”provoca dentro di me, nel mio profondo”. Si tratta di un meccanismo non casuale che garantisce la sopravviven-

za dell’individuo, ma tutto avviene al di fuori della nostra conoscenza, in quanto come spiega Badard, una volta isolato il gruppo di neuroni, il resto del cervello non ha più accesso alle informazioni che provengono da quel gruppo di cellule. Un meccanismo evolutivo: gli avvenimenti ai quali l’uomo si è dovuto adattare hanno indotto nel cervello un cambiamento o la creazione di nuove connessioni o tessuti cerebrali, che hanno portato a nuovi comportamenti in grado di risolvere, ogni volta, un determinato avvenimento-problema. Il “Risentito, la problematica vissuta e non risolta, diventa quindi, su un piano diverso, il motore del processo di adattamento, relativamente al Risentito, cioè a come si è vissuto un avvenimento. Quindi – dice Badard - non è la situazione, ma ciò che si risente e questo Risentito scaturisce da una memoria incosciente e biologica ereditata dal suo albero genealogico (genitori e anche nonni). Il cervello crea un programma cellulare (una memoria incosciente) a partire da una situazione emozionale non conclusa (memoria cosciente). Se l’antenato, a suo tempo, non era riuscito a risolverlo, l’ha lasciato in eredità a noi come sequenza emotiva non conclusa o conflitto. A noi la possibilità di chiudere la stessa sequenza emotiva”. Al momento del concepimento ereditiamo dai nostri genitori una serie di memorie, che, a loro volta, hanno ricevuto dalla loro linea familiare. Tra questi elementi, che si applicano in maniera automatica (la corporatura, il colore degli occhi, dei capelli ecc.), ci saranno anche tutte le risposte comportamentali. “Quando nel corso della nostra vita, dice ancora Badard, - si ha un conflitto dello stesso tipo a cui è collegato il medesimo risentito, la memoria si “riattiva” e, se poi viviamo ancora una volta lo stesso conflitto, scatterà l’applicazione del programma collegato alla memoria, che il cervello applicherà al tessuto o al comportamento. “Da quel momento conclude - sono soltanto fotocopie: diamo sempre la stessa risposta. Il primo conflitto, che riattiva la memoria, è detto programmante, il secondo, che la applica, è detto scatenante. Ecco come, nasce la malattia o come può cominciare un comportamento anomalo”. Rita Lena

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IL MITO DELLE STREGHE E Il mito della strega cavalca i secoli, e giunge sino a noi, nella forma che ci è data dalla tradizione popolare: essere soprannaturale, o donna reale dotata di poteri straordinari, che pratica la magia nera e dirige i suoi eccezionali poteri a danno di altre persone. Il grande nemico delle streghe era la Santa Inquisizione, che nei loro cosidetti interrogatori sotto torture inducevano o estorcevano le cosidette confessioni. Le principali torture, erano la corda, la garrotta, la ruota, la frusta, la lapi-

dazione, la forca dell’eretico, gli stivali, l’impalazione. La più comune, restava la tortura della “corda”, una delle torture più semplici, e quindi più praticate. Da una trave pendeva una corda. La vittima veniva lasciata cadere coi polsi legati dietro la schiena, da una certa altezza, producendole

slogature

alle

braccia e alle spalle. Fra tutte, la più crudele delle torture era “la forca dell’eretico”, uno strumento che veniva conficcato nello sterno e sotto il mento, con le estremità acuminate, così da bloccare all’accusata ogni movimento, permettendole solo di sussurrare le proprie confessioni. Un’altra tortura assai applicata era quella del “cavalletto”: un tavolo che si inarcava e dove l’imputato, legato mani e piedi, si trovava ad un certo punto con le membra violentemente stirate. In questa scomoda posizione spesso gli era inflitta anche la tortura dell’acqua,

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E LA SANTA INQUISIZIONE ossia il carnefice gli versa-

ta; ai parenti la ragazza

va nella bocca acqua fino

aveva confessato di esse-

a fargli gonfiare a dismi-

re diventata l’amante del

sura l’addome, quindi gli

sacerdote a tredici anni.

aiutanti del carnefice gli

Per evitare lo scandalo, i

saltavano sul ventre per

familiari avevano messo

“svuotarlo”. La “candela

tutto a tacere e mandato

stregata” e il “filo d’ac-

la ragazza ad Aix. Col

qua” erano riservate alle

tempo Madeline e Louise

inquisite per stregoneria.

ebbero sintomi sempre

Nella prima, la poveretta

più violenti, durante i

era legata supina su un

quali dissero di essere in-

tavolo, con una candela

vasate dai demoni man-

tra i denti tenuta in posi-

dati da Gaufridi. Furono

zione eretta da speciali

Stampa raffigurante la morte sul rogo di Urban Grandier

cinghie. Accesa la cande-

chiamati in aiuto due frati, padre Michaelis, inqui-

la, la strega riceveva sul viso la cera bollente in liquefazione fino

sitore ed esorcista, e padre Domptius, un domenicano

a quando la fiamma raggiungeva le labbra. Nella seconda, l’im-

specializzato nello scacciare i demoni più ostinati; l’esorcismo

putata veniva collocata nuda sotto un sottile getto di acqua ge-

non ebbe alcun risultato. Si chiese allora l’arresto di padre Gau-

lata e lasciata così per ore. Alcuni inquisitori domenicani si

fridi, che le monache accusavano di pratiche sataniche; il sacer-

specializzarono in esorcismi, diventando abilissimi a ripulire i

dote fu imprigionato ed invano si proclamò innocente. Torturato

corpi e le anime invasi dai demoni. Il rituale cattolico per esorcizzare era complicato, fatto di formule, preghiere, aspersioni di acqua benedetta e unzioni con olio santo; spesso inutile, perché i demoni o era-

ripetutamente, egli infine ammise tutto ciò che gli inquisitori volevano sentirsi dire. Al processo ritrattò, dicendo di aver confessato solo a causa delle torture, ma non fu creduto e nel 1611 fu mandato al ro-

no in numero enorme,

go. Sempre in un conven-

oppure erano talmente

to si svolse la vicenda

potenti da resistere ad

che ebbe maggior riso-

ogni tentativo di stanar-

nanza tra i processi per

li. Il più famoso esorcista

stregoneria: quella del

italiano fu il frate Girola-

1634 a Loudun. La bades-

mo Menghi che divenne, ancora giovane, l’esorcista ufficiale della diocesi attorno a Bologna, dove si verificavano spesso casi di possessione. Raccolse le sue esperienze nel

sa delle Orsoline, suor Jeanne des Anges, cominciò con i soliti sintomi di invasamento, durante i quali accusava il curato della città, Urbain Grandier. Il prelato era un uomo di

“Compendio de l’arte esorcistica”, trattato di demonologia che

grande fascino e cultura, dal carattere passionale, al quale la ve-

parlava della natura del demonio, dei misfatti delle streghe e dei

ste talare non impediva indiscrete avventure con fanciulle e si-

rimedi per contrastare i malefici; ed anche nel “Flagellum dae-

gnore della buona società. Fu proprio questa sua fama di

monum”, manuale pratico che insegnava in che modo interroga-

libertino e di grande amatore ad attirare suor Jeanne; la donna

re i demoni per ottenerne informazioni. Il libro divenne il fedele

concepì una passione morbosa ed unilaterale per il sacerdote,

compagno degli esorcisti. Nel 1609 nel convento di Aix en Pro-

che non aveva mai visto di persona, tanto da ammalarsi. Alla

vence due giovani suore, Madeline de Demandoix Palud e Louise

morte del confessore del convento, Jeanne colse la palla al balzo

Capeau, manifestarono sintomi di invasamento. Madeline, da ra-

ed invitò Grandier a prendere il posto di direttore spirituale del-

gazzina, era andata al convitto delle Orsoline, dove aveva avuto

le monache. Però il sacerdote, che in città conduceva vita allegra

per confessore il prete Louis Gaufridi, del quale si era innamora-

e mondana, rifiutò con un cortese biglietto. Da allora suor Jean-

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Grandier una vecchia ruggine, mandò un commissario reale con pieni poteri, il signor di Laubardemont, che nel 1630 aveva ricevuto un encomio per aver fatto giustiziare centoventi streghe; questi prese subito per buone le accuse delle indemoniate, alcune delle quali erano sue parenti, ed arrestò il sacerdote. Portato davanti alle ossesse, diedero in urla terribili, contorcimenti e convulsioni; il demonio Asmodeo rivelò, per bocca di suor Jeanne, che Grandier era segnato dal “marchio diabolico”, punto che il diavolo aveva segnato e reso insensibile. Il poveretto fu spogliato e rasato, poi il chirurgo lo sottopose alla prova degli spilli; furono individuati due punti in cui egli non sentiva dolore. Al processo testimoniò il demonio Asmodeo in persona, che per bocca della suora rivelò che Grandier aveva firmato con lui un patto: il foglio fu presentato da suor Jeanne ed acquisito agli atne cominciò a diffondere la persecuzione del fantasma di Grandier che le appariva di notte, “sollecitandola con carezze sensuali, insolenti ed impudiche”. I digiuni e le preghiere non furono di alcun giovamento, quindi fu chiamato un esorcista, che tentò invano di liberare la monaca. I demoni che urlavano bestemmie attraverso la bocca della monaca insistevano tutti a dire di essere mandati da Grandier. A poco a poco, anche altre monache furono invasate. Per far cessare lo scandalo il cardinale Richelieu, che aveva con

ti del processo. Grandier non ebbe più scampo; egli subì la tortura regolare ed anche la straordinaria; nonostante i tormenti, si proclamò sempre innocente, respinse ogni accusa e fu bruciato mentre chiedeva perdono a Dio per i suoi aguzzini. La responsabile di tutto, suor Jeanne, con le mani segnate da stimmate isteriche autoindotte, venne considerata in odor di santità; nel 1638 la sua camicia, che si sosteneva avesse proprietà miracolose, fu posta addosso alla regina Anna, moglie di Luigi XIII, durante il parto, per assicurare al neonato Luigi XIV lunga vita e felicità. La monaca morì serenamente alcuni anni dopo. Nel 1679 il re Luigi

Urbain Grandier

XIV istituì un tribu-

in un'antica

nale speciale con-

stampa

tro

i

delitti

Il re di Francia Luigi XIV, detto il “Re Sole”

di

stregoneria, parallelo

all’Inquisi-

zione e segretissimo,

presieduto

proprio da de La Reynie, chiamato la “Camera Ardente”, perchè i giudici si riunivano in una stanza con i muri ricoperti di veli neri ed illuminata da grossi ceri; non c’era appello alla sentenza di questo tribunale, perché gli imputati erano sempre arrestati in base a solidissime prove; durante il suo periodo di attività fece giustiziare oltre cinquanta sacerdoti per stregoneria. Alcuni confessarono di aver celebrato messe erotiche sul corpo nudo di una fanciulla, altri di aver sacrificato bambini durante messe nere; uno addirittura, padre Tournet, di aver celebrato una messa per far abortire una giovane da lui violentata e messa incinta: il rito blasfemo era stato così sanguinario ed orribile che la povera ragazza era morta di spavento.

Mara Parmegiani

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La gommaresina, che stilla da un albero delle burseracee e che cresce in Somalia e nell’Arabia Meridionale, era anticamente bruciata nelle cerimonie religiose e in alcune civiltà per raggiungere lo stato di estasi. È il profumo più antico. La sua origine è misteriosa anche se è menzionato da Confucio in alcuni dei suoi aforismi - VI secolo a.C. - Il suo acquisto un lusso, allo stesso livello dell’oro nella simbologia dei Re Magi. L’incenso entrò rapidamente nei riti degli egizi che associarono il suo profumo all’immortalità. Durante le feste in onore di Iside, il bue sacrificato era riempito di canfora e incenso e nelle processioni religiose centinaia di bambini reggevano vasi colmi di incenso, mirra e zafferano. Il suo uso è stato introdotto nel rituale romano con il culto di Bacco. Si versava sull’ara prima di porvi la vittima sacrificale per coprirne il fetore. Ma anche perché nelle cerimonie funebri il fumo, che saliva verso l’alto, sprigionato dalle grosse lacrime di incenso solidificato, era ritenuto il veicolo più adatto per trasmettere l’offerta alla divinità. Il suo aroma odoroso indispensabile nei riti sacri, aveva il compito di portare l’anima in cielo, accompagnata dalle preghiere dei vivi. Attirava il favore degli dei. Si dice che per il funerale di Poppea, Nerone avesse bruciato più incenso di quello prodotto dall’Arabia in un intero anno. Ma entrava anche nel culto domestico dell’antica Roma. Non mancava giorno in cui non se ne facesse offerta all’ares-familiares facendolo ardere in bracieri di varia grandezza. Già nel II millenio a.C. con l’utilizzo del dromedario si era costituita una vera e propria via dell’incenso. Una lunghissima via carovaniera, con circa 70 tappe collegava i centri di raccolta con Gaza sulla costa mediterranea. Di lì prendeva mille rivoli. L’uso dell’incenso nel rituale cristiano, nel culto pubblico, nelle devozioni private si ha a partire dalla seconda metà del secolo IV d.C.. Verso l’anno Mille il suo utilizzo nella Chiesa cattolica è più o meno uguale a quello odierno: l’incensazione dell’altare, delle reliquie, della Sacra Specie, per le immagini sacre. L’incensiere è un semplice recipiente in argento, bronzo o rame, con il braciere per il fuoco, chiuso con un coperchio a fori per l’uscita del fumo, appeso a funicelle è sostenuto a mano. Persiste-

rà nei secoli, nella liturgia cattolica, anche se oggi l’incenso è sostituito da surrogati più economici come le bacche di cipresso. Il suo fumo rappresenta propiziazione, purificazione, atto di preghiera. E oggi come allora viene usato come omaggio ai nostri morti. Quando il buddismo nel 538 d.C. fu introdotto in Giappone, dalla Cina, fu introdotto anche l’uso dell’incenso nella storia giapponese. Nel decimo secolo divenne popolare una gara in cui i partecipanti dovevano indovinare varie miscele di incenso mescolate insieme. Nel mondo islamico è usato come fumigazione deodorante e purificante e nell’“Arte d’amare persiana” si narra come le fresche spose, inesperte, ricorressero ad oli profumati per il corpo e ad incensi odorosi nella casa, per il primo incontro con l’amato. Si legge nelle “Mille e una notte”: “…D’incenso puro profumerò i miei seni e tutto il mio ventre, affinché la mia pelle possa fondere più soavemente sotto la tua bocca, o pupilla dei miei occhi”. Nel XVI secolo i maghi gettavano incenso e semi di gelsomino in calderoni bollenti interpretando il futuro attraverso il fumo. Va ricordato l’uso di bruciare incenso a protezione delle streghe, specialmente nell’Europa centrale, nella notte detta “del Walpurgis” la vigilia del 1° maggio quando si credeva che la funesta potenza di “quelle” fosse al colmo. Verso la fine del secolo XI il fanatico Hassan-iben-Sabbbh - il vecchio della montagna - istituì la Setta degli Assassini. Gli iniziati venivano intossicati con i fumi di incenso e Hashish che faceva assaporare loro il futuro paradiso, fugando la morte, rendendoli invincibili. Sulla scia dei viaggi degli hippis il suo uso si è diffuse in tutto l’occidente, trascendendo ben presto dal giovanile alternativo dei primi tempi. Grani e bastoncini di incenso si usano ancora oggi per disperdere o neutralizzare forze malefiche. Non è raro sentire nelle abitazioni profumo d’incenso bruciato per allontanare, si crede, influenze negative. Forse un legame con gli antichi riti magici, con le pratiche religiose che si armonizzano ancora con il nostro io più profondo e ci rendono dolcemente schiavi di un culto magico, antico quanto il tempo. Costanza Cerioli

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MARIA CALLAS UNA DONNA CON IL SENSO DELLA SCENA

Maria Anna Sophie Cecilia Kalogeropoulos nasce a New York da genitori greci il 2 dicembre del 1923. A sedici anni, rientrata in Grecia viene ammessa al Conservatorio Nazionale di Atene e prende lezioni di pianoforte che le daranno in seguito la possibilità di studiare tutti i suoi ruoli senza l’aiuto di un maestro collaboratore. Nel 1942 canta “Tosca” per la prima volta in greco. Nel ‘47 accetta l’invito dell’Arena di Verona per cantare la “Gioconda”. Pochi giorni dopo incontra Giovanni Battista Meneghini, facoltoso industriale italiano amante dell’opera. Diventerà suo marito e suo agente. Nel 1948 a Firenze la Callas canta per la prima volta “Norma”, l’opera più cantata nella sua carriera. Ed è proprio con quest’opera che il 2 gennaio del 1958 al Teatro dell’Opera di Roma alla presenza del Presidente della Repubblica e di tutta la società romana, Maria adducendo un improvviso malore, dopo il primo atto, esce di scena. Nel ‘49 la Callas sostituisce l’indisposta Margherita Carosio nella parte di Elvira ne “I Puritani” alla Fenice di Venezia. È la svolta decisiva nella sua carriera. Con una misteriosa cura dimagrante riesce a perdere qua-

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si 60 chili. Un tremendo sforzo di volontà che la rende sottile, accurata e piena di fascino, capace di trasformare ogni sua apparizione in un evento. Precisa e pignola nel privato al punto che infiocchettava, maniacalmente la biancheria prima di riporla. Aveva cambiato vita frequentando grandi intellettuali come Zeffirelli, Visconti e Pasolini. Il 23 luglio 1958 salpa da Montecarlo lo yacht Cristina dell’armatore greco Onassis, per una crociera con illustri ospiti del jet-set internazionale. Sullo yacht ci sono Onassis con la moglie Tina Livanos, figlia del più grande armatore greco, l’ex premier inglese Winston Churchill e consorte, Maria Callas con il marito e personalità della politica e della finanza. Maria all’epoca ha 36 anni ed è la cantante lirica più famosa del mondo. Lui Aristotele, greco come la Callas, ha 53 anni ed è uno degli uomini più ricchi della terra. Il matrimonio della Callas con Meneghini si incrinò sul galeotto panfilo bianco anche perché il marito, che non parlava inglese tendeva ad isolarsi intimidito anche dalla presenza di Churchill. Quando scesero a Costantinopoli, il Patriarca nel discorso di circostanza, ad Onassis e alla Callas

disse: “…quando voi sarete uniti potrete fare grandi cose per il nostro paese”. Il giorno dopo Maria confessò al marito di amare Onassis. Lui aveva già scoperto teneri biglietti con frasi d’amore ripetute all’infinito. Non passa neanche un mese ed un fotografo scopre i due in un romantico ristorante milanese, tete-à-tete. Le foto fanno subito il giro del mondo. Maria Callas a questo punto deve sciogliere il suo matrimonio con Meneghini. L’amore che provava per lui era stato logorato dal tempo. Se lei era follemente innamorata e pensava di sposare Onassis si capì subito che quest’ultimo non la pensava come lei. Infatti dopo due anni di convivenza le attenzioni di Aristotele erano già sopite. La Callas che si sentiva trascurata, veniva umiliata anche in pubblico dall’armatore. Nel 1964 Zeffirelli la persuade a tornare all’opera al Covent Garden in un memorabile allestimento de la “Tosca”. Per una decina di anni cantò con una voce ineguagliabile, purissima, meravigliosamente estesa, di grande potenza. Dominava la scena con un naturale istinto da attrice, anche se era così miope da non scorgere sul podio il direttore d’orchestra. A chi le chiedeva come facesse a cambiare timbro di voce rispondeva: “non sarebbe orribile sentire qualcuno che esprime la varietà dei sentimenti senza mai cambiare tono di voce?”. Intanto Onassis inizia a frequentare i Kennedy corteggiando la principessa Lee Redsville, sorella di Jackie, per introdursi nella famiglia più importante del mondo. Nel 1965 Maria si impegna per cinque rappresentazioni della “Norma” a Parigi. Si sente stanca ma non vuole annullarle. Il 25 Maggio termina la scena del secondo atto praticamente in coma con la scena finale eliminata. Nel luglio dello stesso anno ha in programma quattro rappresentazioni della “Tosca” al Covent Garden. Si ritira, dietro suggerimento medico, dopo aver deciso di cantare una sola volta al Galà Reale. Sarà questa l’ultima rappresentazione della sua carriera. John Kennedy muore nel 1963 e nel 1968 Aristotele organizza una nuova crociera con Jackie, senza la Callas. Nell’ottobre dello stesso anno Maria apprende dai giornali dello sfarzoso matrimonio

di Onassis con l’ex first lady degli Stati Uniti. Le nozze si celebrano il 20 ottobre nella cappella di famiglia nell’Isola di Skorpios, il luogo preferito da Maria per le sue preghiere. La cantante si isola e va rapidamente incontro al declino, dopo aver sopportato i commenti ironici della stampa scandalistica. Nel 1970 Pier Paolo Pasolini chiama Maria Callas ad interpretare nella versione cinematografica Medea. Nell’intrigo d’amore di un racconto filosofico la cantante, che aveva già interpretato l’opera omonima alla Scala, si cala anima e corpo nel personaggio. La terribile maga infanticida affascina la Callas che la interpreta magistralmente afferrandone il senso di fatalità e orrore. Poi il tenore Di Stefano la persuade ad intraprendere con lui un tour mondiale di concerti per raccogliere fondi per le cure mediche della figlia. Dietro la coppia artistica, che rappresenta l’evento del secolo, scoppia una grande passione. Trascorsero, amandosi tre anni, in giro per il mondo con 50 concerti passando da una nazione all’altra in alberghi lussuosissimi. Come Medea sulla scena, Maria quando amava, era possessiva, invadente, affamata e gelosa. Di una gelosia feroce e cieca. Voleva il divorzio di Di Stefano malgrado la sua tragedia familiare con una figlia di 19 anni malata di tumore. Da donna innamorata, desiderosa di rendere pubblica la sua relazione con il tenore tenne una conferenza stampa per parlare dei suoi grandi amori: il marito, Onassis e Di Stefano. Lui per evitare i pettegolezzi fece venire immediatamente la moglie a New York. Ormai qualcosa tra di loro si era incrinato per sempre. Maria ritornò a Parigi e, soffrendo di insonnia, cominciò a far uso di sonniferi in dosi massicce. Tanto acclamata ed osannata, calcò i più importanti palcoscenici del mondo, quanto triste e solitaria fu la sua fine avvenuta nella sua casa di Parigi nel 1977. Morirà in circostanze mai chiarite. Ufficialmente per una crisi cardiaca ma la depressione e l’uso di tranquillanti lasciano il dubbio che si sia lasciata morire a nemmeno 54 anni. Marco Alfonsi

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CAFÈ CHANTANT E Cléo de Mérode in abito da scena

L’800 è l’epoca delle calze nere, delle sottogonne fruscianti, del-

tose come Lina Cavalieri, Anna Fougez, Lola Montez si qualifiche-

l’alta borghesia, del bel mondo e del demi-monde.

ranno per numeri decisamente osè per l’epoca.

La modernità passa per Parigi, capitale europea del divertimento

La Otero cominciò la sua carriera a 14 anni. Mandava in delirio le

e si svolge soprattutto di notte.

folle agitandosi al ritmo delle nacchere. All’Eden di New York ar-

Le regine sono Cleò de Merode e, Emilienne d’Alençon, sopran-

rivano per lei enormi cesti di fiori, spesso con un diamante nel

nominata le più appetibili tette, amica, non tanto segreta, di

cuore di ogni rosa. Abitava a Parigi con 18 persone di servizio e

Leopoldo II del Belgio, la Bella Otero e la sua nemica Liane de

coltivava la passione per il gioco ed i gioielli. Con il suo celebre

Pougy. Si cena da Maxim, si va alle corse o al Moulin Rouge do-

collier di smeraldi e rubini e l’ondeggiare sinuoso del suo corpo

ve si ammirano sciantose aureolate di aigrettes, avvolte nella

si offriva alla folla che l’attendeva osannante all’uscita dei teatri.

morbidezza delle piume di struzzo, dai lunghi strascichi che

Riuscì a possedere nientemeno che il collier di Eugenia di Mon-

spazzano il marciapiede. Il mondo dei cafè chantant incise pro-

tiyo, moglie di Napoleone e il diadema di Maria Antonietta. Su-

fondamente sul costume: frequentato da aristocratici, ufficiali

scitò passione reali. L’amore di Leopoldo, Eodardo VII e Nicola di

del regno, vecchi danarosi e figli di papà; divenne ritrovo di in-

Russia che la presentò agli amici, nuda, su un vassoio d’argento.

trattenimento e specchio dei gusti e dei sogni di un tempo. Per

Lina Cavalieri iniziò a 14 anni la sua carriera artistica come can-

ottenere una notte d’amore da una “regina” il ricco rampollo do-

tante in un teatro di varietà romano con un cachet da una lira a

veva attingere abbondantemente al patrimonio familiare. Ma il

sera. Dimostrò subito del talento; dopo aver conquistato il pub-

piacere e la pubblicità dell’evento valeva di certo la spesa. Scian-

blico romano passò a Parigi, trionfando alle “Folies Bergéres” e

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UN PÒ DI VARIETÀ

1477 - L. De Pougy

poi a New York, per interpretare opere liriche e si qualificò come

parigini. Se a Parigi impera il Moulin Rouge a Napoli c’è il Salone

la “prima Miss Universo”. Certo il materiale non mancava e im-

Margherita, inaugurato la sera del 15 novembre 1890. Dame in

prevedibili furono anche i suoi colpi di testa. A Pietroburgo, du-

pelliccia e abito lungo, scintillìo di gioielli, uomini in frac con gar-

rante le giornate della Rivoluzione Russa, il suo impresario le

denie agli occhielli, ufficiali in alta uniforme e con il ballo a pie-

raccomandò caldamente, data la situazione incandescente, di

di nudi di Edith Miroir, fu subito un successo. Si deve a Maria

non entrare in scena con i suoi inseparabili gioielli; quando si al-

Ciampi l’invenzione della mossa mutuata dalla gestualità popo-

zò il sipario del primo atto della “Traviata”, apparve interamente

lare, premiata dalla volgarità della peccaminosa figura femmini-

coperta dalla sua leggendaria collezione. Nella sua vita entrò an-

le. I teatri in Italia avevano tre ordini di posti da un baiocco, due

che un Marajah che, dopo una serata all’Empire di Londra, le

e tre, a seconda dell’altezza della sedia rispetto agli attori. Era

chiese la mano, offrendole la corona del suo principato. Talmen-

privilegiata la posizione più alta che consentiva il lancio di scor-

te pazzo d’amore che, al suo rifiuto, tentò anche di rapirla. Ci fu

ze d’arancia, bruscolini e lupini. Oggi il varietà, dopo Totò, Aldo

anche chi, blasonato di antico lignaggio, si spacciò per autista e

Fabrizi, Renato Rascel, sopravvive grazie a Gigi Proietti, Paolo Po-

pur di avvicinarla, guidò per due mesi la sua macchina. Scompar-

li, Bergonzoli, Gene Gnocchi ed altri ancora.

ve poi nel nulla, ma non senza lasciare sul sedile dell’auto una focosa dichiarazione d’amore ed un gioiello di grande valore. Un’altra storica sciantosa fu Nanà La Blanche che passeggiò, per scommessa, nuda sotto il mantello e fece follie per i boulervards

M.P.

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Tunguska fu una cometa ad abbattere 80 milioni di alberi

Tunguska, 30 giugno 1908: cosa accadde? Secondo uno studio pubblicato sull’ultimo numero della Geophysical Research Letter ad abbattere 80 milioni di alberi della foresta siberiana fu una cometa e non un grosso meteorite o un asteroide come si è pensato negli ultimi 100 anni. Quel giorno poco dopo le 7 del mattino, ora locale, qualcosa esplose a 8 chilometri sopra la taigà siberiana vicino al fiume Tunguska, distruggendo ogni forma di vegetazione e di vita per un raggio di 2150 chilometri quadrati. Quel che accadde in quella zona di così terribile da provocare un boato, che fu udito a oltre 1200 chilometri e che provocò onde di pressione così anomale da appassionare gli scienziati che parteciparono al congresso della British Metereological Society del 1908, rimase fino al 1927 un mistero. Solo in quell’anno, con la prima missione sul posto condotta dallo scienziato russo L. Kulik, fu possibile associare il forte boato, la pressione e il lampo di luce dell’esplosione, con lo spettacolo che si presentò ai suoi occhi: più di 2000 chilometri quadrati di foresta siberiana abbattuta al suolo e per 1000 chilometri quadrati, intorno all’epicentro, tutti gli alberi carbonizzati. Da allora, fino a questi anni, sono state tante le ipotesi e le teorie che gli studiosi di tutto il mondo hanno formulato per spiegare la causa dell’evento e tra le tante risposte che si sono dati, oggi è nato un nuovo dibattito intorno a quella tragedia della natura. Al centro di questo dibattito le nubi che si formano ai poli dopo i lanci dello Shuttle. Le stesse nubi che furono viste la notte dopo l’evento di Tunguska; forse uno dei pochi dati certi raccolti nei giorni che seguirono l’esplosione. Furono notate, infatti, nei luminosi cieli notturni di tanti luoghi lontani da Tunguska, in particolare, in Inghilterra, delle nuvole lucentissime, dette nubi nottilucenti che si formavano nell’alta atmosfera terrestre (mesosfera), oltre gli 85 chilometri di altezza e si vedevano a grande distanza quando venivano illuminate dalla luce del Sole. Queste stesse nubi, costituite prevalentemente da acqua ghiacciata, sono state notate nelle regioni polari da molti ricercatori, dopo i lanci dello space Shuttle Discovery nel 1997 e Endeavour

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nel 2003. Dato che il motore principale della navetta combina insieme ossigeno liquido con idrogeno, ogni lancio produce più di 300 tonnellate di acqua che va a depositarsi nell’alta atmosfera. Capito questo, agli scienziati rimaneva però ancora poco chiaro, come una “coda” di vapore acqueo potesse diffondersi nel raggio di 1000 chilometri e viaggiare a più di 8000 chilometri verso i poli. Ora Michael Kelley e colleghi hanno cercato di spiegare questo fenomeno proponendo la teoria della cosidetta “turbolenza bidimensionale”. Il fenomeno avviene quando i fluidi, invece di muoversi liberamente in tre dimensioni, sono “vincolati” da un campo magnetico, con il risultato che si muovono molto più velocemente in due dimensioni. Gli scienziati spiegano, così, che il vapore acqueo intrappolato in uno strato a due dimensioni viene incanalato velocemente verso i poli e “spazzato” via su grandi distanze. “Una fisica totalmente e inaspettatamente nuova”, ha commentato Michael Kelley, che avendo scoperto un meccanismo per il trasporto di acqua su grandi distanze, che produce le nubi nottilucenti, ipotizza che il magico cielo delle notti del dopo Tunguska potrebbero spiegarsi con la grande quantità di acqua rilasciata nell’alta atmosfera. Acqua appartenente ad una cometa, afferma, che ha perso il ghiaccio esterno della sua chioma prima di impattare nell’atmosfera terrestre. “È come riesumare e risolvere i misteri di un “cold case” di 100 anni fa”, ha commentato Kelley. Rita Lena

I TRENT’ANNI DI MODA DI CAMILLO BONA Trent’anni di moda. Di haute couture. Di abiti che fanno sognare. Ha iniziato da piccolo, Camillo. Nella sartoria della madre. La osservava cucire e riproduceva in miniatura, per le bambole, i vestiti che lei realizzava per le clienti. Alle medie faceva gli schizzi sul diario di scuola, poi ha frequentato l’Accademia Coefia. Da allora ha trasformato la sua passione in lavoro. La collezione per festeggiare i suoi trent’anni di attività è insolita. Non si ispira ad un mood preciso. Ha disegnato abiti che interpretano la sua immagine di femminilità: un incontro perfetto tra raffinatezza e semplicità. Ha scelto tessuti ricercati, chiffon, mikado di seta, organza ma anche naturali, come la rafia e il lino. Li ha accostati nella creazione di ogni capo, con effetti e richiami agli anni ’20 e ‘30. Per i colori ha attinto tra il bei-

ge, le gradazioni e sfumature dei rosa, il color carne, il rame e il panna. E li ha impreziositi con ricami, perline, Swarovsky. Fil rouge di questa special edition, come di tutte le creazioni by Camillo Bona, è una ormai rara acribia per i dettagli e l’esclusività: orli rigorosamente fatti a mano, perle, jais e pietre dure cucite singolarmente, alta sartorialità (il centro operativo è a Monterotondo, mentre il delizioso Atelier nel cuore di Roma). Originali ed importanti gli accessori, creati da Aniello Galderisi. Collane, realizzate in un filo unico di quattro metri, che sembrano sottili sciarpe da girare più volte intorno al collo o che possono diventare bracciali, rigorosamente in pendant con la collezione. Un eccellente esempio di Alta Moda Italiana. Alessia Ardesi

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I MUST DELL’AUTUNNO INVERNO 2009/2010 REMINISCENZE GUERRIERE: Bustini in pelle, borchie, frange di nappa, intarsi di pelliccia e vite strizzate, robe bustier per amazzoni stilizzate.

DRAPPEGGI E ORLI: Robe manteau con drappeggi trompe-l’oeil e tridimensionali, trionfi di plissé e morbide pieghe su abiti, gonne, camicie e capi spalla.

PELLICCIA INTARSIATA: Pelliccia utilizzata anche per borse, stole, colli ad anello e collari da sovrapporre ai capi spalla o da indossare con cinture alte in vita.

STIVALI ALLE COSCE E ALL’ANCA: Boots altissimi, oltre il ginocchio, anche fino all’anca, con plateau e tacchi a spillo. Ma anche con cinture e cinturini.

PELLE A GOGO: Pelle per body suit, giacche, trench, abiti seconda pelle e bustier.

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Alessia Ardesi

a chiesa spirituale era in via Lee High Rd nel Lewisham, una minuscola chiesa che non aveva niente di particolare in sé. C’erano quattro stanze. La nostra era la prima, ci mettemmo seduti: odorava di umido ed era molto fredda. “Ricordati, se te lo chiedono, hai 17 anni”, mi ricordò mia zia. “Ci saremmo messi nei guai, se fossero sensitivi dovrebbero sapere la mia età”, pensai. Alle 19.30 la sessione iniziò. Nella stanza c’era una luce blu accesa, noi dovevamo sederci tutti in cerchio, spettava ad Henry, il capo della chiesa, a dare lezioni. Eravamo dieci e dovevamo meditare tutti insieme per almeno 15 minuti. Quando si spense la luce blu, tutti smisero lentamente di meditare. Per me, quel giorno, fu difficile, meditare: ero rimasto seduto con gli occhi aperti per tutto il tempo. Poi, uno alla volta, iniziammo a riferire ad Henry cosa avevamo percepito e visto durante la meditazione. Una persona aveva visto un mazzo di fiori pieno di colori; un altro, una persona reduce dalla guerra che cercava la sorella, ma nessuno sapeva chi fosse. Un’altra signora aveva visto dei colori e percepimmo che ci sarebbe stato un cambiamento per qualcuno nella sua famiglia. Era felice perché aveva visto sua madre che era morta 5 anni prima. Era arrivato il mio turno, ma io non avevo visto nulla, guardai intensamente Henry che mi sorrise, quando accadde una cosa strana. Iniziai a vedere immagini: era come guardare un film, davanti a me ballava attorno alla stanza una donna con i capelli rossi. C’era della musica, la gente rideva e potevo sentir dire “Bella”. Poi camminò verso una delle signore che erano sedute a capo del cerchio nella stanza, e la baciò sulla guancia. “Bella” disse di nuovo e poi sparì. Henry mi chiese di nuovo “Beh, vedi niente”. Riuscivo a sentire che gli altri nella stanza non mi volevano perché ero troppo giovane ed erano tutti molto più grandi di me. Io dissi ad Henry cosa avevo visto e cosa aveva detto la signora dai capelli rossi, che pensavo fosse collegata alla signora seduta sulla prima sedia. La signora non poteva accettare questo e con le lacrime agli occhi spiegò che sua madre era stata una ballerina a Parigi e che la chiamava “Bella”. Visto che era giovane e che la ricordava per i suoi capelli rossi, ci spiegò che “Bella” era una parola italiana, sua madre era, infatti, per metà italiana. Mia zia era emozionata per me. Era la prima volta che partecipavo ed ero già stato notato, andò verso Henry ed iniziarono a parlare di me. “Puoi tornare la settimana prossima, ma sarai messo nel prossimo cerchio” mi disse. Quella notte non dormii bene. Billy e gli altri erano arrabbiati con me

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perché ero andato alla chiesa spirituale. “Non puoi imparare a modo loro. Devi imparare da solo a modo tuo, non ti servono loro”, mi dissero tutti. Ma mia zia aveva già fissato l’altro appuntamento per il seguente martedì. Quando arrivò il giorno alle 19.30, mi ritrovai seduto in una stanza diversa, sempre maleodorante di umido, ma con l’aria così secca che non riuscivo quasi a respirare. Entrò Henry, e si andò a sedere nel posto di capotavola. Accese la luce blu, e tutti cominciarono a meditare per 15 minuti. Io trovavo difficile chiudere gli occhi, rimasi allora seduto a guardare Henry e dopo 5 minuti vidi un uomo dietro di lui, era alto quasi due metri ed indossava abiti indiani ed aveva della pittura da guerra sul viso. Passò sul tavolo e venne verso di me e usando la mano destra, mi chiuse gli occhi con due dita. Era una sensazione strana, all’inizio avevo un pò paura, ma poi mi attraversò una sensazione di calma. La luce blu si spense e sentii la voce di Henry “Quando siete pronti aprite gli occhi”. Aprii gli occhi e mi poggiai allo schienale della sedia in silenzio. Come era già successo, uno ad uno cominciarono a raccontare cosa avevano visto. Venne il mio turno: “Io non ho percepito nulla” dissi, e ci guardammo in faccia. Dalle loro espressioni capii che pensavano che ero troppo giovane per essere lì. Mia zia mi fissava, sapeva che io avevo visto qualcosa. “Sono sicuro che hai visto qualcosa” disse Henry guardandomi incredulo. Gli raccontai la storia dell’indiano che avevo visto dietro di lui. La stanza si riempì di risate “Ecco cosa meriti per non aver chiuso gli occhi” mi disse uno di loro. “Bene” disse Henry alzandosi dalla sedia, pronto ad andarsene “In tutti questi anni di lavoro qui in questa chiesa, è la prima volta che qualcuno vede il mio angelo custode. E si, è un indiano rosso”. Henry mi tirò da parte e mi disse che non ero un chiaroveggente, ma sentiva che io ero un misto dei sei sensi, ma con qualcosa in più, sentiva che ero un sensitivo e che riuscivo a vedere nel passato e nel futuro. Ma sentì, anche, che la chiesa spirituale non era per me e che gli altri mi vedevano un pò come una sfida. Mi invitò a tornare il seguente martedì, ma io non ci tornai più e mia zia, quella settimana, tornò in Nuova

Zelanda. Lei mi aveva aiutato a capire che ero diverso dagli altri, e che avrei impiegato degli anni per capire il dono che avevo e migliorarlo. Questo fu l’inizio, sapevo che avrei dovuto camminare da solo su questo sentiero e mi iscrissi alla biblioteca locale, iniziai a leggere dei libri sul soprannaturale, la telepatia, la chiaroveggenza e sull’essere sensitivo. C’erano due sezioni, per i bambini e per gli adulti. Avevo circa 15 anni e dovevo chiedere il permesso per entrare nella sezione per adulti e per veder i libri che c’erano. Un amico di famiglia che lavorava nella biblioteca mi aiutò a prendere i libri. L’importante, diceva, era che io non parlassi e che non portassi via nessun libro, visto che non avevo raggiunto l’età per affittarli. Andavo ogni giorno, finivo un libro e ne iniziavo un altro. Mia madre pensava che ero molto bravo ad andare a studiare in biblioteca. Ma in realtà, sapeva ben poco cosa io stessi studiando. Ero catturato da quello che leggevo: questo era il mio mondo, pensai, c’erano così tante persone come me li fuori, ed ero solo uno dei tanti. Trovai anche un libro che parlava di storie di spiriti che avevano occupato case e persone e che erano aggressive verso di loro e verso le loro famiglie. Storie che mi spaventavano. I miei angeli non erano così, mi aiutavano in molti modi, non ho mai avuto problemi e non mi hanno mai ferito. Tornai a casa e mi chiesi, cosa sarebbe successo se questo fosse accaduto alla mia famiglia, tutte quelle storie mi giravano per la mente. Entrai lentamente in una sorta di depressione, non potevo dormire né mangiare, mi stavo indebolendo molto. I miei genitori chiamarono il dottore di famiglia perché pensavano che ero diventato matto davvero. Volle sapere perché mi sentivo così, quale era il problema. Non era mio padre che mi dava tutto ed era il mio miglior amico, non era lui il problema. Gli dissi dei miei angeli e che avevo letto un libro dove la gente veniva attaccata da loro. La mia stanza diventò fredda e potevo sentire voci che dicevano, “No, noi no”. Billy era sull’armadio ed iniziò a ridere di me. “Cosa c’è?” mi chiese il dottore guardando in su, nella stessa direzione in cui stavo guardando. Puntai il dito, ma

sapevo che non poteva vedere Billy, perché Billy era seduto dall’altra parte dell’armadio. Poi arrivarono le domande, come “Puoi vedere i morti”, ”Quante persone sono nella stanza con noi” e “Cosa ti stanno dicendo”. Il dottore mi prese per mano e mi fece sedere vicino a lui “Non c’è nessuno qui” mi disse “è tutto nella tua testa”. È stata la prima volta che non volevo vedere i miei angeli, volevo, anzi, che se ne andassero. Poi una bellissima signora indiana che indossava un abito verde e oro entrò nella stanza, aveva i capelli tirati tutti in dietro e stava sorridendo, mi accorsi che le mancava un dente. Si mise seduta accanto al dottore e gli diede un bacio sulla fronte. “Che c’è?” mi chiese, poteva vedere dal mio viso che avevo visto qualcosa. “C’è una signora seduta accanto a te” gli dissi. Lei mi sorrise: “Digli che sono sua madre”. Gli diedi il messaggio e gli riferiì che lei era felice perché non era sola nell’aldilà, anche se non aveva ben capito cosa le fosse successo “accadde così velocemente” ripetè più volte la donna. Era così giovane e non aveva avuto il tempo da passare con lui. Il dottore si alzò e lasciò la stanza. Dopo un pò tornò “quello che tu hai è un dono, gli angeli che hai attorno a te non sono cattivi”. Guardò mia madre che stava sulla porta e lei annuì. “Mia madre era una persona stupenda”, mi disse, stringendomi la mano. Dopo quel giorno non lessi più libri su questa materia, volevo imparare da solo tutto quello che mi accadeva. Mi ero ammalato, e visto che gli angeli, anche se a me tenevano, se ne erano andati via per qualcun altro che aveva più bisogno di me, dovetti abituarmi a vivere una vita diversa. Era difficile avere a che fare con le persone vere ed avere conversazioni su cose normali. Mi mancava il loro amore e l’affetto e la sensazione di sentirmi sicuro, ero perso nel mio stesso mondo. Questo andò avanti per circa un anno. Non vidi né sentii più Billy. I miei fratelli e sorelle spesso parlano di quei tempi e del mio amico Billy. Avevano vissuto le mie esperienze, ma erano cose che li spaventavano troppo per parlarne allora. Guardando nel passato, avrei voluto scoprire chi fosse Billy, da dove venisse, non era della mia famiglia, forse aveva a che fare con la casa in cui vivevo. Molti anni dopo una chiaroveggente fece una lettura per mia sorella e le disse di dirmi che “Billy mi salutava con affetto”. Traduzione di Rita Lena [email protected]

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I GIOIELLI DI DORGALI Prestigiosa produzione del piccolo centro di Dorgali nel Nuorese, in Sardegna, rappresentano l’espressione più originale del sentimento artistico isolano. L’origine della tradizione artigianale orafa sarda si perde nella leggenda. Di certo si ha notizia, in tempi recenti, di un certo orafo, Anneddu Berritta, alto poco più di 80 centimetri, morto quasi centenario nella prima metà dell’800. Creava opere meravigliose fondendo l’oro nel crogiolo in un angolo del suo sottoscala. La produzione riguardava non solo capolavori custoditi nelle numerose chiese isolane ma anche oggetti di oreficeria destinati alla sposa chiamati “su dono”, il dono di matrimonio offerto dall’uomo alla futura moglie. Consisteva in: “Sa loriga de rodedda”, orecchini a forma di ruota, o “sa loriga de prudone”, orecchini a grappolo d’uva e “sa zoiga” un monile da pettorale, a cui si aggiungeva “s’ispilla e conca”, una spilla da indossare sul fazzoletto, la fede sarda, il rosario con medaglia e “s’isprugadents”, un oggetto a forma di cavallino stilizzato o un animale fantastico come l’unicorno, la cui punta acuminata serviva come stuzzicadenti, mentre la parte opposta terminava a palettina e serviva per la pulizia delle orecchie. Se lo sposo era molto ricco si aggiungevano a questi doni i bottoni in filigrana d’oro per la bianca camicia del costume da matrimonio e “sa nuschera” un portaprofumi, entro il quale si mettevano fiori di lavanda, spesso realizzato in argento. Le dimensioni degli oggetti variavano a seconda delle possibilità economiche dello sposo, e dalla tecnica impiegata per la lavorazione della filigrana. Oggi la produzione va dal recupero delle antiche forme al gioiello moderno. Per il primo si impiega ancora l’oro a 500 dal caratteristico colore rosso, con la tecnica della filigrana a motivi di foglie e rosette, gli altri, rivisitati e arricchiti da perle e pietre preziose, con oro a 750, conferiscono al gioiello una nuova freschezza. Costanza Cerioli Magia, mistero e grandi emozioni, tramandati dalla cultura aborigena, sono diventati per una sera protagonisti a Firenze grazie a Luca Faccenda, direttore Artistico di National Gallery Firenze, che a Villa Bardini ha contribuito a rafforzare il legame tra spettacolo, cultura e solidarietà presentando il libro ‘Sogni australiani – Dreamtime Stories’. Fortemente voluto da National Gallery. Il testo racconta il Tempo dei sogni dei Djabugay, popolo aborigeno che vive nell'estremo nord del Queensland. Il libro è illustrato dai disegni dei bimbi Djabugay in 3 lingue italiano, inglese e Djabugay e ha lo scopo di preservare la loro lingua e condividere le loro leggende con altre culture. Parte dei ricavati dalla vendita di questo tomo – che Faccenda ha di recente presentato anche nel corso della sua rubrica cultura in onda ogni settimana all’interno del Maurizio Costanzo Show - saranno usati per sostenere l'educazione dei bambini Djabugay e parte andrà ai paesi terremotati dell’Abruzzo. Nicoletta Di Benedetto

TRATTAMENTO VISO POST-VACANZE Al rientro dalle vacanze la pelle e in particolar modo la pelle del viso, che per tutto il periodo estivo è stata esposta al sole e ai raggi U.V., deve essere rigenerata e idratata per evitare il formarsi di macchie e rughe. Cominciamo con un trattamento per rinnovare l’epidermide del viso, quindi un’accurata detersione e l’applicazione di una lozione tonificante, e un peeling che favorisce l’eliminazione delle cellule morte. L’estetista procede con la pulizia profonda del tessuto, con spremitura dei punti neri ed eliminazione delle impurità superficiali. Si esegue un massaggio dolce sul viso, collo e decolletè con una crema specifica adatta al tessuto epidermico. Una maschera ad azione dermopurificante e zuccherina renderà poi i tessuti più ricettivi e migliorerà l’irrorazione sanguigna. Si asportano i residui di prodotto con una spugna inumidita e si conclude il trattamento con l’applicazione di una crema idratante e un gel ricco di acido ialuronico che si occuperà quindi di mantenere il grado di idratazione, turgidità, plasticità e viscosità del tessuto concludendo al meglio con un trucco acqua e sapone e dando importanza principalmente alla bocca o con un rossetto con un alto concentrato di idratazione o un gloss fruttato. Tiziano Melara

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La RICETTA DEL MESE a cura di ROSANNA VAUDETTI CONDUTTRICE SU SKY DELLA “DOMENICA DI ALICE”

CHAMPIGNON IN PASTELLA ALLA BIRRA Ingredienti: (dose per 4 persone) • 250 gr champignon piccoli • 100 gr farina • 4 cucchiai di groviera grattugiata fine • 1 cucchiaino di senape delicata di Digione • 1,5 dl birra chiara • 1 cucchiaio di olio di oliva • pepe macinato fresco • sale • olio per friggere Preparazione: Mondare i funghi e tenerli da parte. In una ciotola mescolare la farina, il groviera, la senape, un pizzico di sale e qualche buona macinata di pepe. Aggiungere gradatamente l’olio e quindi la birra, mescolando bene con un mestolo di legno, fino a ottenere un impasto liscio e omogeneo. In una padella capiente, scaldare bene l’olio, immergere gli champignon nella pastella e friggere pochi pezzi per volta, per circa 3 minuti o sino a quando non sono ben dorati, girandoli anche dall’altro lato a metà cottura. Scolare e sgocciolare l’olio in eccesso su di un vassoio ricoperto di carta assorbente. VERGINE Il segno della Vergine (23 agosto – 22 settembre) è dominato dal pianeta Mercurio da cui gli deriva una intelligenza particolare; appartiene alla triade dei segni di terra e per questo è portato a trarre risultati concreti dalle sue azioni. Infatti, la Vergine, non lascia mai a metà le sue opere e lo fa con il massimo della serietà. E’ considerato il segno più preciso e affidabile dello Zodiaco, caratteristica che lo fa apparire puntiglioso e troppo critico. Le osservazioni che spesso muove verso i suoi familiari e gli amici, ma soprattutto nei confronti del partner sono dettate dal forte senso di responsabilità che fa parte del suo carattere. È una persona che pesa tutto quello che fa, raramente si muove d’istinto, per questo tra le attività professionali scelte dai nati sotto questo segno prevale la professione medica. Nel campo sentimentale e degli affetti la Vergine può apparire fredda e distante perché vive il rapporto amoroso più cerebrale che passionale. E’ considerato anche il segno poco portato ai tradimenti e meno romantico dello zodiaco. I nati sotto questo segno non sono gelosi ma se vengono traditi non perdonano, anzi si vendicano. Il segno della Vergine privilegia tra i metalli il rame e l’oro e tra i minerali il diamante; ama il colore verde simbolo della sensualità e dell’accettazione; come fiore la gardenia, soprattutto per il profumo, perchè infonde serenità e benessere, e il giacinto e l’acacia. Il numero fortunato è l’otto che rappresenta la fiducia. Siderio

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