MENICHELLI
RIVISTA MENSILE DI ATTUALITÀ MODA CULTURA
MENICHELLI
COPIA GRATUITA - Anno 5 - N. 7/8 - Luglio/Agosto 2009 - Tiratura copie 20.000
IL VENTAGLIO Il segreto della seduzione
Madame De Montespan
Lucrezia Borgia
Il Diamante Maledetto
Direttore Responsabile Mara Parmegiani Comitato scientifico Gino Falleri, Nino Marazzita, Simonetta Matone, Carlo Giovannelli, Rosario Sorrentino, Emilio Albertario, Anna Mura Sommella Segreteria di Redazione Marco Alfonsi Nicoletta Di Benedetto Marina Bertucci Servizi fotografici di redazione Laura Camia, Giancarlo Sirolesi Hanno collaborato Marco Alfonsi, Costanza Cerìoli, Isabella De Martini, Nicoletta Di Benedetto, Andrea Di Capoterra, Cristina Guerra, Roberta Buonaiuto, Rita Lena, Elisabetta Leoni, Nino Marazzita, Siderio, Josephine Alessio, Tiziana Primozich
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A volte per portarci fortuna bisogna parlare anche delle cose positive che accadono nel nostro paese. Voglio fare un esempio di “buona sanità”, quella cattiva, purtroppo, ha occupato ed occupa spesso, a torto o a ragione, le pagine dei giornali. Io qui, in poche righe, voglio andare controcorrente ed elogiare la disponibilità, la gentilezza, la professionalità, a partire dai responsabili che sono infaticabili, superattivi, sempre presenti e attenti ad ogni esigenza, a tutto il personale medico, dal corpo infermieristico, alle crocerossine. Personale che, con la precisione dei famosi orologi svizzeri, sin dal primo mattino, fa ruotare magnificamente le sfere della Divisione di ematologia che considera e umanizza l’ammalato non calcolato, come altrove un numero insignificante. In poche parole, tutto il personale che lavora all’ospedale romano Sant’Eugenio, usa verso i pazienti disponibilità e gentilezza di cui tutti possono godere. Al bando favoritismi, preferenze, simpatie o antipatie, al Sant’Eugenio conta saper fare il proprio lavoro con coscienza. Coscienza non scalfita dall’assuefazione al dolore. Grazie In questo numero doppio abbiamo dato spazio alle donne, quelle che in qualche modo hanno segnato la storia, raccontandone la vita e le esperienze, augurandoci che Chapeau vi faccia compagnia nelle ore di meritato relax. Buona lettura a tutti Mara Parmegiani
Aut. Trib. di Roma n. 529/2005 del 29/12/2005 Edizioni e Stampa Rotoform s.r.l. Via Ardeatina Km. 20,400 - S. Palomba (RM) Ideazione grafica ed impaginazione Monica Proietti Settore Pubblicità Direzione: 00158 Roma - via Piero Aloisi, 29 Tel. 06.4500746 - Fax 06.4503358 e-mail:
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“Dolcevita” Canale SKY 906
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numero
IN QUESTO
VENTAGLIO ILIL VENTAGLIO
LUCREZIA BORGIA
ELISABETTA I TUDOR
LA BASTIGLIA
IL DIAMANTE MALEDETTO
I NUOVI DESIGN
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Il Ventaglio: Seduzione e Voluttà
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Lucrezia Borgia
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Elisabetta I Tudor
14
Madame De Montespan
18
Il diamante maledetto
20
La Bastiglia
22
Storie di nobel e d’ingiustizia
23
Rosalind Franklin
24
Craig Warwicr
26
Dalla camera d’aria alla it-bag
28
I nuovi design
29
L’arte dell’ospitalità
30
Libri - Eventi - Mostre
31
Ricette
Il Ventaglio seduzione e voluttà Il Ventaglio nato chissà quando e chissà dove, adottato in tutti i Paesi nelle fogge più svariate, ha simboleggiato ovunque lusso, potere, autorità, carisma, assumendo subito un significato trascendentale, misterioso ed emblematico. Un microcosmo il cui studio ci permette di scoprire tante fonti della storia del costume, della politica, e del sociale. La sua forma ed il suo funzionamento furono infatti identificati da alcuni studiosi, con la stessa vita dell’uomo. Perché partendo da un nucleo centrale, le sue stecche spiegate e fissate, simboleggiano l’evolversi del cammino della vita da cui si parte e a cui si ritorna. Un colpo secco può richiudere e ridimensionare il tutto. Il più antico potrebbe essere il “flabello”, patrimonio di civiltà antiche come quella egizia, assiro-babilonese e la civiltà persiana. Per lo più policromo, il flabello è sui dipinti antichi adatto ad una lunga asta. I manici sopravvissuti realizzati in legno sono coperti di fogli d’oro dipinti ed incrostati di smalto. Il bitume era usato per incollare le piume. Anche presso i greci che lo chiamavano “riphìa” divenne d’uso comune
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nel VI secolo: le persone eleganti preferirono quelli con le piume privilegiando quelle di pavone efficaci contro il malocchio. Le donne romane avevano ventagli che facevano parte del “mundus muliebris”. Alcuni esemplari in bronzo furono riportati alla luce nella tomba dei “flabelli di bronzo” e riproducono il modello di piume formando un disco rigido decorato con motivi di guerrieri. Interessante, alla base del manico, l’anello che permetteva di appendere il flabello ad una catenella legata alla vita, alleggerendo così la fatica di tenerlo in mano. Nella Cina nacque il ventaglio brisé, dalle stecche finemente cesellate, importato nell’Europa Medievale forse dalle carovane che percorrevano la rotta della seta. Come dalla Cina vennero molto più tardi ventagli dalle stecche in argento, dorate, cesellate, smaltate, con applicazioni di figurine in seta le cui carni erano d’avorio miniato. In Europa, culla del ventaglio è la Spagna. Lord Beaconsfield, scrittore ed illustre uomo politico, sosteneva anzi che la donna spagnola superava nella tattica del ventaglio le strategie di un reggimento di
cavalleria. Mr. Coustellier fu il primo ad installare, nel 1830, a Valencia in Spagna una fabbrica di ventagli. In Inghilterra i ventagli apparvero verso la fine del XIV secolo, sotto Riccardo II. Anche la regina Elisabetta ne possedeva di preziosi e, sovente, nelle cerimonie ufficiali li sostituiva allo scettro. In Italia arrivarono nel VI secolo, importati dall’India e si deve a Caterina dé Medici, sposa quattordicenne del duca Enrico d’Orleans re di Francia, nel 1547 la sua introduzione a corte. Il lusso che si profuse nei venta-
gli, spesso realizzati in oro, gemme preziose, in lince o zibellino con manici in oro zecchino impreziositi da diamanti e smalti, fu tale da obbligare il Senato della Repubblica di Venezia a promulgare leggi che ne frenassero gli eccessi. Il Magistrato delle Pompe, nel 1525, ne limita il prezzo che non deve superare i 40 o 50 zecchini anche se in vendita potevano trovarsi fino a 100 zecchini. Nel ‘700, secolo d’oro del ventaglio e degli eccessi, col trionfo della cipria bianca e dell’oro spruzzato fra i capel-
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li, apparvero libri stampati con caratteri rosa o verde come “Le livre à la mode” de “L’imprimerie du Printemps”. E le dame li sceglievano intonandoli al colore del loro ventaglio. Nel mondo della Moda e del costume il ventaglio, trascendendo l’aspetto formale, assunse significati simbolici che ne costituiscono il linguaggio esclusivo. Basti pensare al “Giovin Signore” di pariniana memoria, il quale assicurava, prima di incontrare la dama, che il ventaglio profumato “fra le giocose dita come agevole scorresse”. Perché, consentendo con Madame de Stél, ci sono molte maniere di servirsi del prezioso gingillo, come “un suo
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movimento possa far distinguere la principessa dalla contessa, la marchesa dalla popolana”. Si legge sullo “Pectateur” del 1787, di una signora inglese che fondò a Londra una Accademia per educare le signorine di ogni ceto sociale nell'esercizio del ventaglio. In essa le allieve dovevano ubbidire agli ordini principali ed esercitarsi, due volte al giorno, con il ventaglio. Il quale, dal canto suo,”parlava”. Un angolo del ventaglio, poggiato sulla fronte, significava il marito nelle vicinanze; chiuso sulle labbra era un invito al silenzio; agitato, con movimento circolare: “ci spiano, stiamo attenti”. Chiuso e poggiato
sull’occhio destro “quando potrò vederti?” Chiuso sul cuore: “hai vinto il mio amore”. Retaggio, forse, dell'ars amandi di Ovidio. Un’arte che andava anch’essa saputa leggere. E l’ingegnosa signora aggiunse un corso per soli uomini allo scopo di insegnare loro “l’arte di fare la corte ad un ventaglio”. Era un telegrafo che appuntava un convegno, mostrava adesione, applaudita o rimproverava. Simbolo di gioia o di sdegno. Avvicinato alla bocca, sotto gli occhi, all'orecchio, chiuso o aperto, scosso o quieto, il ventaglio nei secoli passati era specchio entro cui si riflettevano tutte le sensazioni dell’anima. Complice ed abile ad aggiungere agli sguardi e ai sospiri il suo misterioso linguaggio non alieno da malizie o coprente pudici e imbarazzanti rossori. Oggi, i Turisti che vogliono portare con sé un ricordo dei bei panorami d’Italia o di Francia, trovano sulle bancarelle dei souvenirs ventagli con l’immagine del Vesuvio, delle rovine romane, di Pompei o della laguna di Venezia, o la Tour Eiffel. Ancora oggi viene regalato, una volta l’anno, dai giornalisti e dai politici un ventaglio ai Presidenti della Camera e del Senato italiani, durante una piacevole cerimonia estiva, ufficialmente in segno d’augurio, ma forse per significare il desiderio di fugare, con un soffio d’aria, le maldicenze e i pettegolezzi che circolano spesso tra i corridoi dei palazzi del potere… Mara Parmegiani
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LUCREZIA
LA VERITÀ DIE
Di lei si è detto di tutto e il contrario di tutto. Donna ambiziosa e dissoluta, bellissima e perversa, amante del padre e del fratello; ma anche fragile vittima delle mire politiche della sua famiglia, strumento docile in mano all’allora Papa Alessandro VI, nonché suo padre, e merce di scambio per ragioni di stato. Ma chi fu veramente Lucrezia Borgia? La sua vita fu molto intensa. In soli 39 anni ebbe tre mariti, alcuni amanti illustri, undici gravidanze (o forse dodici) e nove figli, ma solo quattro sopravvissero. Fu temuta, ammirata, rispettata. Dimostrò grandi capacità amministrative e fu abilissima nel gestire la sua vita privata senza mancare di rispetto apparente a nessuno. Non si sa quanto fosse veramente bella, almeno con i parametri attuali, ma di certo così fu considerata all’epoca perché aveva due caratteristiche fondamentali per il Rinascimento: capelli biondi e occhi azzurri. Sicuramente fu donna di grande fascino che seppe distinguersi tra le altre, sia per i suoi illustri quanto discussi natali, sia per le
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sue insite capacità e qualità. Attrasse l’attenzione di molti letterati, tra cui Pietro Bembo con cui ebbe una lunga relazione d’amore e Ludovico Ariosto che a lei dedicò una strofa dell’Orlando Furioso: “Lucrezia Borgia, di cui d’ora in ora/la beltà, la virtù, la fama onesta/e la fortuna crescerà, non meno/che giovin pianta in morbido terreno”. (canto XIII, strofa 69, 1516). All’epoca di questo elogio la sua fama si era già abbondantemente diffusa. Ma certo la sua vita non era stata facile. Si data la sua nascita al 18 aprile 1480 nella fortezza di Subiaco. Era la terzogenita di Rodrigo Borgia (allora non ancora Papa) e Vannozza Cattanei, una madre assente a cui Lucrezia non era particolarmente legata. Considerava di più sua madre la cugina del Papa, Adriana Mila, che si occupò di lei, e crebbe insieme all’amante del padre, Giulia Farnese, nuora della stessa Mila e di soli due o tre anni più grande di Lucrezia. Dei suoi tre fratelli Juan, Cesare e Jofrè, quello a cui lei era più legata era Cesare, uomo scaltro, intelligen-
te e senza scrupoli, considerato l’uomo più attraente del suo tempo. Così come era legatissima al padre, una figura fondamentale nella sua vita, uomo di immensa perspicacia e abilità, subdolo e spietato, avido di denaro e di beni, ma con un fascino irresistibile e uno spiccato senso dell’umorismo. Alla fine del XV secolo in Italia e non solo, la morale era considerata un optional, i figli illeggitimi erano la norma e molti di loro erano addirittura figli di preti. L’essere figlia di un Papa fu dunque un vantaggio per Lucrezia, più che un problema. Fu considerata fanciulla di alto lignaggio e venne educata nel convento di San Sisto. Lucrezia crebbe in un clima dove il predominio e il potere sessuale maschile erano fuori discussione, e dove le donne erano soggette in tutto e per tutto alla volontà e ai desideri degli uomini, e nella fattispecie di Rodrigo. Ma Lucrezia, donna intelligente e capace, seppe volgere a proprio vantaggio tutto ciò perché imparò dal padre la tenacia e l’abilità nel comprendere e sfruttare i meccanismi del potere, accettando le situazioni com’erano e andando avanti per la sua strada, senza mai farsi sconfiggere dalla circostanze e mostrando all’occorrenza gentilezza e compassione. I primi anni di pontificato di Alessandro VI sono caratterizzati, tra l’altro, da uno spregiudicato sfruttamento della figlia bambina per le mire espansionistiche dello Stato della Chiesa. All’inizio indubbiamente Lucrezia fu vittima delle ambizioni del padre e suo docile strumento. Ma data la giovanissima età non poteva essere altrimenti. A soli 13 Alfonso d’Este anni infatti fu data in sposa al signore di Pes a r o , Giovanni Sforza, principe di secondo p i a n o , figlio illlegittimo di Costanzo Sforza. Da un punto di vista politico le nozze dovevano
BORGIA:
ETRO LA STORIA servire per consolidare l’alleanza con casa Sforza, il cui Cardinale Ascanio si era tanto prodigato per l’ascesa di Rodrigo al soglio pontificio. Il matrimonio, che fu celebrato in pompa magna nel giugno del 1493, non poteva essere consumato prima di un anno (secondo accordi) per rispettare la giovane età di Lucrezia. Ma fu proprio questa mancata consumazione o presunta tale che fece sciogliere il matrimonio quattro anni dopo. In realtà è probabile che il rapporto ci sia stato, ma a quel punto l’alleanza con gli Sforza non era più utile ad Alessandro. Serviva dunque un pretesto per annullare il vincolo. Il papa chiese così a Giovanni di mostrare la sua virilità, lui si rifiutò; Lucrezia fu allora esaminata e dichiarata “virgo intacta”. Il matrimonio fu ritenuto nullo. Lucrezia aveva 17 anni, ma quali fossero i suoi sentimenti riguardo tutta questa vicenda nessuno lo sa, perché all’epoca non ci si poneva proprio questa domanda. Appena sei mesi dopo, Lucrezia si sposò di nuovo. E il secondo matrimonio non fu più felice del primo. Nel lasso di tempo tra le prime e le seconde nozze, Lucrezia si ritirò in convento. Molti dissero che era incinta e che doveva partorire e che forse si trattava di un figlio nato dal rapporto incestuoso con il padre e con il fratello. Proprio in quel periodo (marzo 1498) nacque un bimbo di nome Giovanni Borgia, chiamato “infans romanus”, che qualche anno dopo Alessandro VI riconobbe come suo figlio in una bolla segreta (la madre era probabilmente la sua amante Giulia Farnese). Sembra che Lucrezia abbia partorito nello stesso periodo un bimbo, forse nato dalla sua relazione clandestina con un giovane spagnolo a servizio nella camera del Papa. Non si sa cosa accadde poi a questo bimbo, ma data la difficoltà di Lucrezia ad avere gravidanze serene, è probabile che sia nato morto o deceduto poco dopo. La contemporaneità dei due eventi fece supporre alla gente che l’in-
Giovanni Borgia
fans romanus fosse il figlio di Lucrezia e di Alessandro VI. E’ più plausibile invece che fosse solo il suo fratellastro. Questo scandalo non giovò certo all’immagine di Lucrezia. Il Papa e Cesare però non si persero d’animo e subito si misero al lavoro per trovare un nuovo marito alla ragazza. Le ragioni politiche indussero il pontefice a rivolgere lo sguardo al Regno di Napoli e alla famiglia reale degli Aragona. Questa volta però l’obiettivo principale era Cesare, il padre avrebbe voluto sposasse Carlotta, la figlia legittima del re di Napoli. Il matrimonio di Lucrezia doveva dunque essere solo il primo passo verso questa più importante unione. Così la giovane figlia del Papa venne data in sposa ad Alfonso d’Aragona, figlio illeggittimo del duca di Calabria. Si diceva che fosse un bellissimo ragazzo, ma di certo una figura di secondo piano nell’organigramma della famiglia aragonese. In ogni caso, in vista del matrimonio, il re di Napoli diede ad
Alfonso il ducato di Bisceglie e le terre di Corato, una sorte di ipoteca sui 40 mila ducati che il Papa assegnò in dote a Lucrezia. Anche se Lucrezia fu di nuovo una pedina politica, in questo caso lei sembrava felice del marito che le Scritto di Lucrezia Borgia era toccato in sorte. Dal canto suo Cesare non riuscì a sposare Carlotta, che oppose un netto rifiuto, e si orientò per ripicca alla corte francese sposando la bellissima Charlotte d’Albret, cugina del re francese Luigi XII. In realtà erano anche cambiate le alleanze. Alessandro VI ritenne infatti che fosse più utile a quel punto un’alleanza con il re francese che con il Regno di Napoli; una politica che indusse Alfonso d’Aragona a fuggire da Roma, lasciando la moglie Lucrezia in lacrime e incinta di sei mesi. I due si amavano sul serio e questo fatto non andava giù né al Pontefice-padre né tanto meno a Cesare. Alessandro VI cercò comunque di consolare a figlia per la separazione forzata dal marito affidandole l’incarico di
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governatrice di Spoleto, che confermò la presenza dei Borgia negli stati pontifici a nord di Roma. Ed ella seppe amministrare la città in modo intelligente e saggio. Poco dopo Alfonso la raggiunse lì, e la trovò in avanzato stato di gravidanza. Insieme tornarono a Roma dove diede alla luce un maschio sano, chiamato Rodrigo, un bimbo a cui Lucrezia fu molto affezionata e che crebbe per due anni, prima di essere costretta a lasciarlo per sempre. Questo stato di relativa grazia fu interrotto dalla gelosia di Cesare che, sia per motivi privati sia per motivi politici, non vedeva di buon occhio il profondo amore di Lucrezia per il marito. Cesare considerava Alfonso una minaccia che andava eliminata. E così lo fece uccidere da un suo scagnozzo. A dire il vero non ci sono prove schiaccianti della sua colpevolezza, ma nemmeno della sua innocenza. E conoscendo Cesare non è difficile credere che fosse lui il mandante. Egli cercò di dare una giustificazione a questo brutale omicidio, dicendo al Papa che era stato Alfonso a tentare di ucciderlo. Ma pochi si bevvero una simile scusa. Sicuramte non vi credette Lucrezia che, per quanto adorasse il fratello, si infuriò con lui e con il padre. Per calmarla il Pontefice la spedì a Nepi dove la nominò governatrice. Qui Lucrezia rimase in esilio per due mesi, riprendendosi pian piano dalla sensazione di infelicità per aver perso un marito tanto amato. Ma lei era una Borgia e soprattutto una donna pratica. Poche settimane dopo cominciò a ritrovare la sua tempra e a guardare al futuro. Neppure il dolore della figlia e sorella fermarono le ambizioni di Alessandro e Cesare che, mentre lei era a Nepi, stavano pensando già al suo terzo matrimonio e a una nuova alleanza. Lucrezia d’altro canto si rendeva conto che doveva in qualche modo allontanarsi dall’influenza nefasta del pur suo amatissimo padre e altrettanto amatissimo fratello. Era anche lei una Borgia, aveva le sue ambizioni e non voleva certo sottostare a vita agli intrighi della corte papale. Ormai poi aveva 21 anni, non era più una bambina incosciente del mondo. Ave-
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va già avuto due mariti, un figlio, un aborto, aveva già avuto occasione di dimostrare le sue capacità amministrative, sia a Spoleto sia in Vaticano dove il padre le aveva affidato più volte la reggenza in sua assenza. Quindi, per quanto a noi possa sembrare giovanissima, all’epoca era già una donna. E la sua vita, intensa e intrisa di avvenimenti, lo confermavano. Così, quando Cesare raggiunse Lucrezia a Nepi per convincerla della necessità di nuove nozze, non trovò molta resistenza, anche perché le si prospettava un matrimonio molto prestigioso. L’aspirante marito era infatti Alfonso d’Este, figlio ed erede del duca Ercole di Ferrara. Gli Este erano una delle famiglie italiane più antiche ed illustri, governavano la città dal 1242 e il loro territorio comprendeva la contea di Rovigo, con possedimenti in tutta l’Italia Settentrionale, dall’Adriatico agli Appennini. Nel Quattrocento la corte di Ferrara era una delle più splendide e colte dell’Italia rinascimentale e gli Este avevano fama di essere governanti benevoli. Da un punto di vista politico lo Stato di Ferrara avrebbe rappresentato un utile territorio cuscinetto tra i possedimenti di Cesare in Romagna e quelli della potente e aggressiva Venezia. Ma gli Este erano abituati a fare unioni dinastiche di grande prestigio. E quella con Lucrezia non veniva vista certo in tal senso. La giovane figlia del Papa aveva infatti alle spalle una reputazione non invidiabile e troppe voci malevoli erano girate sul suo conto, comprese quelle di dissolutezza e incesto. Ercole d’Este inizialmente non voleva saperne di un’unione tra suo figlio e la figlia del Papa, cercò di prendere tempo e di verificare se potesse esistere un’altra possibilità per Alfonso. Alla fine però le ragioni di stato e i suoi alleati politici gli fecero capire che non poteva evitare una simile unione. Lucrezia stessa era ansiosa di realizzare quel matrimonio: sarebbe diventata duchessa di Ferrara e sarebbe uscita dall’aria opprimente di Roma. Era la sua occasione di sistemarsi per la vita e di acquisire la sua autonomia. E così in effetti fu. Il contratto di matrimonio fu concluso ad agosto del 1501. Il primo settembre le nozze furono celebrate ad verba praesente. Il 4 settembre ci furono i festeggiamenti di rito a Roma. Il 30 dicembre ci fu la cerimonia per procura della consegna dell’anello, eseguita da Ferrante (uno dei fratelli di Alfonso). Il 6 gennaio del 1502 Lucrezia partì alla volta di Ferrara verso la sua nuova vita. Nonostante il suo desiderio di cominciare questa avventura, Lucrezia sapeva che c’erano dei rischi. Sapeva soprattutto che la sua fortuna a Ferrara dipendeva dalla permanenza al potere di Alessandro VI e di Cesare. Inoltre per accettare questo matrimonio aveva dovuto pagare un alto prezzo personale: lasciare a Roma il figlio, avuto da Alfonso d’Aragona, Rodrigo di Bisceglie, che all’epoca aveva solo due anni. Su di lui incombeva troppo lo spettro dell’omicidio del padre e poi gli Este volevano che Lucrezia entrasse a Ferrara nelle vesti, almeno esteriori,
di sposa vergine. Per Lucrezia separarsi dal figlio, affidato alla custodia di Francesco Borgia, cardinale di Cosenza, fu doloroso. Ma, dotata per natura di sano realismo, seppe accettare la situazione. Forse sarebbe stato ancora più straziante se avesse saputo che non avrebbe più rivisto quel figlio. Morì per malattia dieci anni più tardi, a soli dodici anni. Intanto i ferraresi attentedevano con trepidazione l’arrivo di Lucrezia. La sua figura suscitava interesse, e chi la conosceva di persona ne rimaneva ammirato, trovandola affatto diversa dalla donna di facili costumi che aveva fama di essere. Gli stessi inviati ferraresi a Roma rimasero colpiti dal suo carattere e dalla sua capacità di fare da intermediaria con il Pontefice-padre. Era da parte sua un modo intelligente di sottolineare la sua importanza agli occhi dei ferraresi facendo loro capire che qualsiasi concessione fatta dal Papa, era conquistata per sua intercessione. Alessandro si rendeva conto che nel momento in cui la figlia avesse lasciato Roma per andare a Ferrara sarebbe uscita per sempre dalla sua sfera di influenza. Separarsi da lei gli fu faticoso. Si racconta che, prima di partire, Lucrezia trascorse molto tempo inginocchiata ai suoi piedi nella sala del Pappagallo (in Vaticano) dove parlarono da soli. Poi Alessandro VI le diede licenza di partire e così, scortata da Cesare e da Ippolito (suo cognato, ovvero fratello di Alfonso), lasciò il Vaticano a bordo di un mulo. Alessandro guardò per l’ultima volta la figlia dalla finestra del palazzo, mentre fuori nevicava. Dopo un viaggio lungo e faticoso, durato circa un mese, Lucrezia con il suo numerosissimo seguito (si parla di 753 persone, 426 cavalli e 234 muli) fece il suo ingresso solenne a Ferrara, la città che doveva diventare la sua nuova patria. E la scena sfolgorava di colori. Aveva già avuto modo di conoscere il marito Alfonso, perché questi, preso dalla curiosità di vedere la famigerata Lucrezia Borgia, preceduta da racconti entusiastici le andò incontro a Bentivoglio, da dove lei avrebbe dovuto recarsi a Ferrara via mare su barche fornite da Ercole, suo suocero. Sicura-
Giulia Farnese
mente Alfonso non era il tipo d’uomo che poteva piacere a Lucrezia, non aveva spirito gregario e non amava le folle, aveva modi rudi, ma sapeva comportarsi gentilmente e piacevolmente con il suo seguito. Ad Alfonso invece Lucrezia piaceva, la trovava attraente anche sessualmente. Così, nonostante lo scetticismo iniziale, tra Alfonso e Lucrezia nacque pian piano un’intesa, a letto prima di tutto, ma poi anche mentale e affettiva. Non furono mai fedeli l’uno all’altro, ma con il tempo impararono a rispettarsi ed egli mostrò in varie occasioni di amare e stimare profondamente la moglie. Alfonso durante il giorno continuava la sua vita dissoluta, perché gli piaceva frequentare bordelli e squallide taverne. Lucrezia dal canto suo ebbe due amanti importanti: il poeta e scrittore Pietro Bembo, la cui relazione cominciò l’anno dopo il suo arrivo a Ferrara (1503) e durò fino al 1505/6. Ma già negli ultimi tempi di questo rapporto, che si stava spegnendo a poco a poco, Lucrezia intrecciò un’altra relazione che l’accompagnò fin quasi alla morte: quella con Francesco Gonzaga, signore di Mantova, marito di Isabella d’Este, sua cognata (ovvero sorella di Alfonso), nonché sua nemica e rivale. E, nonostante gli storici attribuiscano a Pietro Bembo la relazione d’amore più vera e profonda, analizzando i documenti si direbbe invece che fu Francesco Gonzaga la sua reale passione, anche perché assomigliava molto di più ai suoi amori più grandi: il padre e il fratello. Quando arrivò a Ferrara Lucrezia riuscì nel giro di poco tempo a conquistare la simpatia e la stima di tutta la corte degli Estensi, a partire dal suocero Ercole, e poi anche di tutti i Ferraresi. Solo Isabella non si fece mai incantare da lei e dai suoi modi affabili e le restò ostile tutta la vita. Seppero però mantenere sempre un rapporto civile e di rispetto reciproco. Questa ostilità comunque non rappresentò un problema per Lucrezia, che aveva ormai realizzato la sua ambizione ed era decisa a farsi strada, a farsi amare dai suoi sudditi e ad avere suc-
cesso come duchessa di Ferrara. E in effetti ci riuscì. Quando le cose cambiarono e la fortuna dei Borgia precipitò, lei non perse nulla di ciò che aveva conquistato. Prima di tutto nel 1503 – un anno dopo il suo arrivo alla corte estense – il tanto amato padre morì e non seppe mai che il suo corpo fu profanato. Il dolore era grande per Lucrezia, ma capì che non poteva farsene travolgere perché vi erano questioni più urgenti, come occuparsi di Cesare e degli altri membri più piccoli della famiglia Borgia: suo figlio Rodrigo di Bisceglie, l’infante romano Giovanni, i figli illegittimi di Cesare, Girolamo e Camilla e l’ultimogenito di Alessandro, un altro Rodrigo. Ma di lì a poco anche Cesare cadde in disgrazia, nonostante lei avesse tentato di aiutarlo. Fu arrestato e incarcerato in Spagna. E vi rimase diversi anni. E a nulla valsero le suppliche e le richieste di Lucrezia perché fosse liberato. Nell’ottobre 1506 Cesare riuscì a fuggire dal carcere con un’evasione spettacolare. Fece avere sue notizie alla sorella e poi intraprese la sua ultima campagna. Ma morì in un’imboscata in Navarra. Era il 1507. Fu un altro duro colpo per Lucrezia. Non aveva più un punto di appoggio e per giunta non era ancora riuscita a dare un erede maschio ad Alfonso. La sua permanenza a Ferrara poteva essere in bilico. Ma la famiglia d’Este fece quadrato attorno a lei, non l’abbandonò in questo momento difficile, perché l’amava a l’apprezzava. E Lucrezia aveva saputo ottenere questa benevolenza solo con le sue forze, grazie al proprio carattere compassionevole e giusto e alla posizione che era riuscita a conquistarsi.. Oltretutto il suo comportamento così dignitoso di fronte al dolore, che pure aveva dentro immenso, la sua capacità di mantenere il controllo in pubblico era degno di una donna del Rinascimento e rendeva Alfonso molto orgoglioso di lei. Per consolarsi e lasciarsi andare al dolore, si ritirò per un certo periodo nel convento del Corpus Domini. Con il tempo si avvicinò sempre di più alla vita religiosa, senza però trascurare mai i suoi doveri. Quando anche il vecchio Ercole morì, lei e Alfonso assunsero a pieno titolo i titoli di duca e duchessa di Ferrara e come tale il marito le affidava spesso il governo della città quando lui era costretto ad assentarsi per ragioni diplomatiche e per le operazioni di guerra. Erano anni difficili in Italia. Varie potenze straniere ambivano a mettere le mani sui possedimenti della penisola, come la Francia e la Spagna. In più le stesse potenze interne miravano ad espandersi, prima di tutti lo Stato Pontificio, ma anche Venezia e le varie casate. Le alleanze cambiavano in continuazione ed era difficile fidarsi a lungo di qualcuno. Ferrara stessa subì un violento assedio da parte dell’indomito Papa guerriero Giulio II, sostenuto da Spagna e Venezia. Ma Alfonso, con l’aiuto dell’artiglieria e delle truppe francesi, riuscì nel 1512 ad infliggere una pesante sconfitta alle truppe papali e spagnole di fronte a Ravenna. Lucrezia in queste circostanze si trova-
Papa Alessandro VI
va da sola a guidare la città e mostrò sempre un’ampia capacità di governare in modo equilibrato, concreto e saggio, di prendere decisioni difficili per il bene del suo popolo, di emanare ordini per la difesa della città, informando sempre Alfonso di quanto accadeva. E le sue relazioni private non interferirono mai con il suo ruolo di duchessa né mancò mai di rispetto ufficialmente al marito. Riusciva anzi, con un’abilità tutta femminile, a mantenere intatto l’amore del marito e rinverdire la passione dell’amante, anche quando erano su posizioni avverse. Ma i rapporti con Alfonso non smisero mai, tant’è che in diciasette anni di matrimonio Lucrezia rimase incinta ben nove volte, e sempre dal marito. La prima figlia nacque morta di sette mesi, l’anno dopo ebbe un aborto spontaneo. Nacquero vivi sette figli, ma solo quattro sopravvissero. Pur avendo un carattere forte, patì sempre gravidanze difficili, più volte si ammalò lei stessa con febbre alta che la prostrava anche per mesi. Quindi la maggior parte dei bambini nascevano gracili e fragili e non sopravvivevano a lungo. Finalmente nel 1508 Lucrezia riuscì a dare un primogenito maschio ad Alfonso, Ercole, un bimbo forte e sano. L’anno successivo nacque Ippolito. Un terzo maschio, di nome Francesco, nacque qualche anno dopo, nel 1516. Ebbe anche due femmine, Eleonora e Isabella Maria, ma solo la prima sopravvisse e si fece monaca nel convento del Corpus Domini. Furono proprio tutte questa gravidanze a consumarla lentamente. Così quando nacque l’ultima figlia, Isabella Maria, Lucrezia non si riprese più. La gente di Ferrara era in ansia, Alfonso le rimase accanto tutto il tempo, come del resto aveva sempre fatto quando lei stava male. Si spense a soli 39 anni di età. La figlia le sopravvisse altri due anni. Alfonso, scrivendo al nipote Federico Gonzaga, diceva che non riusciva a scrivere senza piangere “tanto mi è grave – confessava – il vedermi privo d’una sì dolce e cara compagnia, quanto essa mi era, per li boni costumi suoi e per il tenero amore che era fra noi”. Cristina Guerra - Giornalista RAI UNO
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grovigli politici, sociali ed economici lasciati in eredità dai sovrani precedenti. Il 28 Novembre 1558 Elisabetta I fa il suo trionfale ingresso a Londra, prendendo alloggio, con notevole spirito e acuta intelligenza, proprio in quel castello nella cui Torre era stata a lungo tenuta prigioniera. Il popolo l’acclama. Non è ancora famosa ma già fortemente amata, fosse anche solo perché succedette a Maria, una sovrana instabile, folle e sanguinaria. Il percorso del corteo è rallentato dalla folla, spesso costretto a fermarsi perché la Regina possa toccare il suo popolo, stringere mani, salutare la gente. Molta parte di questo successo è motivata proprio dal suo inizio così disgraziato. Le sue sofferenze, le alterne vicende che l’hanno condotta al potere, il suo destino così triste, l’amara fine di sua madre, la sua adolescenza contrastata vissuta in esilio, tutto questo l’accomuna al popolo, che la sente parte di se, riconoscendola come una sua simile, e amandola di più proprio per questo. Il primo passo politico di Elisabetta è quello del 14 Dicembre del 1558 quando, ai sontuosi funerali di Stato della sorellastra, nel suo discorso commemorativo condanna l’intransigenza e si pronuncia a favore della tolleranza. Una mossa oculata. Ma i problemi dell’Inghilterra non risiedono solo nelle lotte intestine tra Cattolici e Protestanti, troppe cose sono state trascurate. Negli ultimi anni Enrico VIII era troppo ossessionato dalla smania della successione per occuparsi della cura del governo, poi la reggenza di Edoardo, che a soli dieci anni era in balia di consiglieri e tutori, aveva generato solo ulteriore confusione, infine Maria con le sue repressioni e le epurazioni sanguinose era giunta a destabilizzare totalmente la situazione. Le cause della giustizia erano in ritardo, i tribunali pieni, il popolo affamato e confuso. il Trono che cambiava di mano ogni pochi anni favorì aspri
ELISABETTA I TUDOR
Inizia la Leggenda
Quando Elisabetta sale al trono d’Inghilterra, nel 1558, è giovane e inesperta. Ma ha già sofferto molto. Ha assistito a tre ribaltamenti e avvicendamenti di potere. È figlia di una madre che ha salito i gradini del patibolo per essere poi seppellita senza onori in terra sconsacrata. In pochi anni è passata dalle segrete della Torre di Londra all’esilio, e dall’esilio direttamente al Trono d’Inghilterra. Il suo primo atto è quello di scegliere, ad uno ad uno, i suoi collaboratori e consiglieri, con estrema oculatezza. Tra questi spicca William Cecil, di origine gallese che, a soli 38 anni, viene elevato al rango di consigliere privato della regina. Grazie agli insegnamenti di quest’uomo il Regno di Elisabetta I sarà improntato a una politica estera abile e spregiudicata e a un’ azione diplomatica finissima, spianando la strada dell’Inghilterra dai numerosi
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dissidi interni e contemporaneamente crescevano le pressioni sui confini; la guerra in atto con la Francia si era rivelata disastrosa con la terribile perdita di Calais. Il Paese era dilaniato da contrasti, segnato da una politica incerta, esposto ad ogni attacco, i prezzi erano alle stelle, il costo della vita proibitivo. Questa è l’eredità di Elisabetta, ed è chiaro che, se vuole conservare intatta la sua iniziale popolarità, deve mettere riparo. Ma come? Le Casse del Tesoro sono vuote, l’inflazione è ai massimi storici, la carestia è alle porte e i raccolti non sono sufficienti per sfamare la popolazione. In ogni famiglia protestante d’Inghilterra si piangono i morti delle lotte intestine che hanno mietuto vittime in tutti i ranghi. Perfino la borghesia versa in cattive acque e si vedono accattoni e vagabondi emergere da ogni vicolo di Londra. Come sempre, assieme alla miseria dilagano le ondate di criminalità. La
situazione non potrebbe essere più grave. Come se non bastasse la Francia preme sui confini, la Spagna, antica alleata, andrebbe allontanata, o quantomeno non eccessivamente incoraggiata, e ispira poca, pochissima fiducia. Dalla Scozia Maria Stuart, grazie al suo recente matrimonio con Francesco II, vede aumentare di giorno in giorno la sua potenza e rischia di diventare presto una concreta minaccia. In questo momento di terribile confusione, tutti guardano a Elisabetta. La prima mossa è demagogica. Dopo l’ingresso trionfale e l’organizzazione del suo entourage, è finalmente giunta l’ora dell’incoronazione ufficiale. Elisabetta ha già respirato il nettare inebriante della popolarità, sa che non deve perdere terreno, e su questo gioca tutte le sue carte. La sua incoronazione viene gestita come un’operazione navale, programmata nei minimi dettagli, sarà un evento memorabile, passato alla storia per sfarzo, eleganza e magneficenza. Come gli antichi Romani, Elisabetta, in mancanza di meglio, dava al suo popolo giochi e divertimento. La gente è schierata nelle piazze, schiacciata nei vicoli, arrampicata sugli alberi, è il 15 Gennaio del 1559 quando gli allora centocinquantamila abitanti di Londra si apprestano ad assistere alla più grande celebrazione a memoria d’uomo. Le fac-
ciate dei palazzi come in una processione sono ricoperte da drappi di seta, appaiono bandiere e stendardi alle finestre. Piante e fiori adornano le piazze, le strade, i vicoli e perfino il patibolo. Nevica. I londinesi aspettano fin dall’alba e sono ormai le due di pomeriggio quando si abbassa il ponte levatoio e al suono argentino delle trombe esce sfavillante la cavalleria. Divise sgargianti, armi che rilucono come argenti, i tamburi scandiscono la marcia trionfale, le campane suonano a festa. Elisabetta appare ammantata di broccato d’oro, stesa su una lettiga, con quello che diventerà poi il celebre collare elisabettiano e detterà moda in tutto il mondo. È la prima volta in assoluto che una Regina rinuncia alla carrozza per apparire in piena vista, per offrirsi agli occhi inebriati del pubblico, è come una visione celestiale, sembra quasi una dea, solo pochi uomini sontuosamente abbigliati in damasco color cremisi, armati di scuri, a proteggerla da eventuali attacchi. La Regina è tesa, magra, sottile, ha il volto affilato, ma sorride. Mentre il corteo avanza lentamente benedice e saluta la folla. È un tripudio, forse l’unico caso in cui il tradizionale saluto “Dio salvi la Regina” risulta veramente sentito. Dietro di lei solo Robert Dudley che tiene le redini del cavallo di Elisabetta. Quando il corteo arriva a Westmister Hall per il proseguimento della cerimonia, qualcuno sembra ravvisare in Elisabetta le antiche doti, le peculiarità e lo splendore di Enrico VIII, scorgendo gli ottimi presagi di quello che sarà un regno lunghissimo e illuminato. La sua vita lunga e densa di avvenimenti e passioni ha segnato indelebilmente non solo la storia, ma anche e soprattutto l’animo e l’immaginario umano. Mara Parmegiani
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MADAME DE
Magia nera, intrighi e veleni furono le armi segrete di Francesca Atenaide di Rochechouart-Mopntemart, sposata Montespan. Nata nel 1641 era dotata di una bellezza sorprendente, provocante, non passava di certo inosservata. Aveva una carnagione meravigliosamente chiara, piccole labbra rosse che si aprivano su una dentatura perfetta. I suoi occhi, di un azzurro brillante, erano messi in risalto da una riccia capigliatura bionda. Di carattere vivace, scintillante e spiritoso, con un marito spesso impegnato in guerre, non le fu difficile attirare l’attenzione del Re Sole, in quel momento impegnato con la bella Luisa de Lavallière. La Marchesa, per attirare l’attenzione del Re durante una gita collettiva, “per sbaglio” si addormentò nel letto del sovrano. Sua Maestà non fu così scortese da allontanarla e, per avere in esclusiva i favori della giovane marchesa, liquidò il di lei marito con un a riparazione di centomi-
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MONTESPAN la scudi. Per rappresaglia il marito si recò a Versailles su una carrozza parata a lutto, con un paio di corna di cervo sul tetto, urlando che non poteva passare dal cancello principale perché le sue corna erano troppo grandi. Ne parlò tutta Parigi. La passione per le arti magiche, la frequentazione di streghe e fattucchiere, un'altra maternità di Luisa, favorirono la breccia nel cuore del sovrano. La marchesa, aiutata dalla maga
Voisin, nota in tutta Parigi per le sue losche attività, organizzò una messa nera, con sacrificio umano. Il primo tentativo fallì perché il re ebbe dalla sua amante una figlia femmina che riconobbe, nominando la madre duchessa. Francesca Atenaide furiosa commissionò un’altra messa nera e pozioni magiche che somministrò di nascosto al re. Fecero effetto e la bella marchesa riuscì a conqui-
stare in esclusiva i favori del re che allontanò Luisa de Lavallière facendola ritirare definitivamente in convento. Ma non fu facile restare accanto al sovrano che nel frattempo ebbe una grave crisi mistica, della quale approfittarono i suoi consiglieri che lo spinsero ad allontanare dalla corte la favorita. La maga, sempre disponibile, preparò allora filtri sempre più efficaci che faceva mescolare, segretamente, nei cibi del re. Non si sa bene se la crisi mistica fu di breve durata o se i filtri della Voi-
sin fecero il loro effetto ma sta di fatto che il re tornò dall'amante che a sua volta impegnò la maga nella preparazione di potenti afrodisiaci. Il risultato fu la che la Montespan divenne ufficialmente la nuova favorita e rimase padrona degli appartamenti reali, a parte qualche fugace scappatella del re, per 17 anni; gli darà 7 figli. Non furono i soli. Il Re ne ebbe sei dalla moglie Maria Teresa, quattro da Madame de Lavalliere, una dalla Fontanges. Quest’ultima creò seri problemi alla favorita che non
esitò, ancora una volta, a rivolgersi alla Voisin alla quale fece preparare un potente veleno che eliminò, per sempre, la rivale. L'appartamento di Madame era arredato al massimo della stravaganza. Allevava, sotto le volte del castello Saint-Germain, capre, maiali, scimmie e volatili esotici. Con i topolini bianchi, appaiati a sei a sei e legati ad una carrozza di filigrana d’oro, allietava il Re. Il salone delle feste non era da me-
no. Grandi vasche piene di acque profumate, da cui si alzavano zampilli, erano circondate da uccelli automi in legno dorato e animali selvaggi impagliati, utilizzati per scandire il tempo. A proposito di vasche, Madame chiese al re in dono l’unica vasca da bagno presente a Versailles e mai utilizzata e la fece collocare nella sua villa “Ermitage”. Abbondavano le feste, i divertimenti. I
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balli si succedevano alle commedie e le opere alla musica. E quando, qualche tempo dopo, Madame de Maintenon, reclutata come governante dei figli della Montespasn, ebbe definitivamente soppiantato la marchesa nel cuore del Re, ci fu chi pensò che non sarebbe riuscita ad essere padrona del cuore di Luigi XIV senza ricorrere, anche lei, alla potenza degli incantesimi. Vana fu la resistenza della Montespan che ricorse, ancora una volta, ai talismani. Cupidi, mani intrecciate, sacrifici di neonati, talismani fabbricati sotto il segno di venere e portati addosso in forma di medaglioni o braccialetti, servi-
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rono solo ad arricchire la Voisin e Lesage, maestro cantore il cui lavoro principale consisteva nel preparare a caro prezzo oggetti scaramantici e amuleti. Vita dura per la marchesa impegnata a conservare e difendere strenuamente l’amore del Re. Aveva appena scoperto e tamponato l’intrigo di Madame de Soubise che metteva certi orecchini di smeraldo ogni volta che il marito andava a Parigi, segnale segreto di un appuntamento con il Re, che dovette pensare subito ad altre giovani rampanti. Nonostante la guardia accanita e le possenti dosi di afrodisiaci, Luigi facilmente sostituì la Marchesa
che, per le tante maternità, era diventata troppo grassa e poco attraente. La nuova favorita era Françoise Scarron D’Aubignè, presente a corte come governante dei figli della Marchesa. Arrivare al letto del Re e rimanervi, era la meta segreta di quasi tutte le belle donne di corte, e la professione di governante era una postazione utile per accorciare le distanze. La giovane donna, dotata di notevole intelligenza, soppiantò definitivamente la Marchesa di Montespan nel cuore del Re. Ricevette dal sovrano, a titolo di ringraziamento e per la “devozione”manifestata, il castello di Maintenon ed il titolo di Marche-
sa. Nel 1679, con il processo dei veleni, fu scoperto un cimitero di bambini nel luogo dove avvenivano strani convegni, fu raccolto materiale inconfutabile e, insieme alla Voisin, furono condannati altri maghi e streghe. Il Re non volle infierire sulla marchesa, ma la allontanò definitivamente sostituendola in pieno con la
Maintenon alla quale assegnò un appartamento privato al primo piano della Reggia di Versailles. Madame riuscirà a vivere ancora per qualche anno a corte, poi fu allontanata e isolata dal Re che le corrisponderà solo 15 livres al giorno: circa 500 al mese. Sua Maestà arriverà a contare che con una livre di candele al giorno
se ne potranno acquistare otto, più una nell’anticamera, una per le serventi e una per la cucina. Calcola trenta soldi per la frutta, sei soldi per il cameriere, quattro soldi per il vino per lei, per i quattro servi e per i due cocchieri. L’appannaggio reale non contemplava l’acquisto di abiti, profumi e le spese del parrucchiere, mentre contemplava le spese per il bucato, il sale, l’aceto, il succo d’uva. Madame de Montespan morirà nel 1707, in una cittadina termale, dimenticata da tutti.
Mara Parmegiani
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IL DIAMANTE
Una scia di sangue e lutti accompagna la storia di una pietra magnifica, unica nel suo genere, con quelle tonalità di blu che la rendono tanto particolare; una pietra che ha fatto il giro del mondo, nel corso della sua esistenza. Ci sono oggetti che sembrano possedere pericolosi poteri, o più semplicemente essere portatori di sventura per chi entra in loro possesso. Così come ci sono persone portate a credere all’esistenza di queste relazioni ci sono persone totalmente scettiche, che liquidano il tutto come sciocche superstizioni. Pure la storia del diamante Hope, il famoso diamante blu della corte di Francia, è una storia con alle spalle una lunga scia di sangue. Il diamante fa la sua comparsa nel 1688, alla corte del re Sole, Luigi XIV, che lo acquista da un gioielliere francese. In precedenza il diamante era appartenuto a tale Jean-Baptiste Tavernier; sul suo conto girava la voce che avesse rubato il diamante in India, dove era incastonato in una statua dedicata ad una divinità indu, e che in conseguenza di questo atto sacrilego avesse, da quel momento, conosciuto solo disastri e rovesci economici.
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Il diamante, di un bellissimo colore blu, era in origine di 112 carati; il re lo fece tagliare e ridurre a forma di cuore, a 62,5 carati e lo donò alla sua amante preferita, madame di Montespan. Fu la prima vittima famosa della maledizione del diamante. Venne coinvolta insieme ad una parte della nobiltà di corte, in uno scandalo terribile, quello delle messe nere con sacrificio di neonati. Uno scandalo che venne messo a tacere proprio per la presenza di molti nobili, madame de Montespan, fu allontanata, mentre la sacerdotessa Voisin principale responsabile del “turpe affaire”, finì sul patibolo. Il diamante restò alla corte di Francia, e il successore, Luigi XVI e la sua famiglia scontarono il malefico influsso della pietra.
Lo regalò alla moglie, l’austriaca Maria Antonietta, che com’è noto fini decapitata, come il regale marito, ma non solo; la principessa di Lamballe, a cui la sventurata regina aveva affidato il diamante, morì linciata dalla folla. Da quel momento la sorte del diamante è abbastanza complessa; si narra che durante il periodo caotico della rivoluzione francese sia finito nelle mani di un gioielliere parigino, morto di crepacuore quando scoprì che il figlio lo aveva rubato. Il diamante varcò la Manica e fini in Inghilterra dove venne acquistato dal gioielliere inglese Hope, da cui il diamante prese il nome; era stato ulteriormente ridotto di volume, fino ad arrivare alla versione che conosciamo tutt’oggi, di 44,5 carati. I discendenti della famiglia Hope, che se lo tramandarono di padre in figlio, vennero colpiti da una lunga serie di sciagure, fino a quando uno della famiglia, in cattive condizioni finanziarie, non decise di sbarazzarsene e di venderlo. L’acquirente, guarda caso, era un francese, Jacques Colot, che lo vendette ad un nobile russo, prima di finire suicida; non andò meglio al nobile russo, che lo regalò ad una ballerina, con il risultato che una sera, in un attacco di gelosia, la strangolò; il russo finirà poi fucilato durante la rivoluzione d’ottobre. I proprietari successivi non ebbero miglior sorte; il primo di essi, un greco, Simon Matharides, morì in maniera misteriosa durante un’escursione, sfracellandosi giù per una scarpata, mentre il successivo, un sultano turco, morì di crepacuore, mentre sempre un turco, che aveva sottratto il diamante al sultano, morì annegato. La storia ovviamente non finisce qua; il diamante ritorna per l’ennesima volta in Francia, questa volta nelle mani del grande gioielliere Cartier, che lo acqui-
MALEDETTO
sta nel 1909, ma lo tiene per poco tempo, giusto un anno, prima di venderlo a Evelyn Walsh Maclean, ereditiera del Washington Post e cliente del gioielliere. Cartier monta la pietra come un ciondolo, circondato da diamanti, sospeso ad una stupenda catena di diamanti. L’ereditiera lo acquista, e da quel momento la maledizione del diamante entra anche in casa MacLean. Muore il figlio di dieci anni della donna, muore l’ex marito, dal quale aveva divorziato, un uomo che era ridotto all’alcool e disperato, muore la figlia, che
aveva indossato il diamante il giorno delle nozze. La donna però, nonostante le tragedie, lo tenne ugualmente con se, sfidando la fama oscura del diamante, e alla sua morte il diamante finì il suo pellegrinaggio nelle mani di Harry Winston, un americano, che prima lo mandò in giro per il mondo, per poi cederlo allo Smithsonian Institution di Washington, dove, protetto da una teca di vetro, fa bella mostra di se ancora oggi. Costanza Cerioli
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Quando il sasso della Bastiglia divenne un monile
La moda segue l’evolversi della storia e la interpreta con i suoi colori e le sue forme. Così avvenne nel tormentato periodo della Rivoluzione francese. Le fogge settecentesche ispirate ad uno stile raffinato, ideate da una nobiltà il cui problema era quello di piacere e di godere le bellezze della vita, sono tra le più eleganti che siano mai state create; ci si preoccupa di mettere in rilievo i pregi e di mascherare i difetti fisici dell’età. E’ in auge il tipo estetico”petite mar-
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quise” ed i corpetti sono stretti in vita con un busto alto e ampia scollatura, mentre le maniche sono brevi; sotto la lunga gonna guardinfanti o “paniers” avevano il compito di snellire la figura o addirittura simulare la gravidanza. I “giovin signori” indossavano calze di seta e, proprio come le dame che corteggiavano, si incipriavano i capelli o le bianche parrucche. I paramani di trina ed i jabot (la gala) sotto il mantello completavano l’eleganza del signore
dell’epoca, il cui vezzo era rappresentato da manicotti, occhialini, tabacchiere e dal famoso spadino, mentre le dame non si separavano mai dal ventaglio che le aiutava a sopportare i “tormenti” di un gusto mozzafiato. Il 12 luglio del 1789 con l’inizio della Rivoluzione e la presa della Bastiglia le opinioni, finalmente libere si manifestano cromaticamente con insegne, coccarde e tessuti che comunque hanno molto in comune con il vecchio regime. La borghesia assume così, attraverso l’abbigliamento, l’espressione della propria legittimità sociale. Con la distruzione della Bastiglia il patriota Palloy che aveva contribuito alla demolizione fabbrica, scolpisce, con le pietre recuperate, fortezze in miniatura, e calamai, ma soprattutto realizza per le donne piccoli gioielli montati in argento da portare al collo, con un piccolo sasso della Bastiglia incastonato. Con la ghigliottina la condanna a morte diventa tecnologica, usatissima durante la rivoluzione francese. Ma i gioielli di questo periodo si ispireranno anche ad un bracciale “à la victime” a ricordo delle prigioni e del terrore, e ad un nastrino rosso con una piccola ghigliottina da portare al collo; il caffè si sorbirà in delicate tazzine cosparse di berretti frigi, di fasci littori, di bandiere tricolori. Leroy, sarto degli aristocratici prima e dei rivoluzionari dopo, creò il primo abito richiesto dalla Convenzione, degno della Repubblica. Realizzò un vestito tricolore, guarnito con un bordo su cui erano ricamate le parole “Libertà, Uguaglianza, Fraternità” e sulla cintura “Libertà o Morte”. In seguito con l’affermarsi della borghesia e il declino della libertà, anche il costume mutò: dallo sfarzo delle corti ad un abbigliamento più pratico, adatto alla nuova società che stava trasformando la Francia in un paese industriale. Dalle fastose piume di struzzo tanto ca-
re a Maria Antonietta, ad un berretto con la patriottica coccarda, imposta dalla Rivoluzione a tutte le donne, anche se non in armonia con la toilette. Ma con la Rivoluzione la popolazione ha anche guadagnato molto dal punto di vista igienico. Pomate e polveri scure non tingono più i capelli neri o argentei e per i bagni pare che sia il ciclo mestruale a scandirne i ritmi. Un protagonismo che vide le donne della Rivoluzione mettere in discussione la legittimità degli uomini ad avere ed usare il potere politico e intimo. Un femminismo considerato troppo rivoluzionario anche per gli stessi rivoluzionari. Furono considerate un’effettiva minaccia nei confronti della quale la risposta non fu teorica, ma pratica ed immediata. Una Rivoluzione che ha tollerato le lotte di classe, ma non quelle di sesso che si interponevano nel dialogo tra uomo e uomo. Una delle prime vittime fu Olimpia De Gouges, madre della “carta dei Diritti della Donna e della cittadina”. Ghigliottinata per il suo modo di essere franca, decisa e immediata. Nel novembre del 1789 si produce un nuovo colpo di Stato. Il 26 Gennaio 1802 Napoleone viene proclamato presidente della Repubblica italiana, cinque anni più tardi si incoronerà imperatore. Con il primo impero, 1804-1814 ritorneranno gli usi, i fasti, gli amori galanti e le sete della corte francese. Mara Parmegiani
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STORIE DI NOBEL E D’INGIUSTIZIA Lise Meitner, pioniera dell’atomo. Capì per prima il processo della fissione dell’atomo
La prima persona che tentò di dissuadere Lise dal proprio proposito fu suo padre, l’avvocato Philip Meitner. Non solo per la situazione politico-sociale dell’Austria fine 800, ma, soprattutto, fu l’esile costituzione fisica della figlia a preoccuparlo. Avrebbe voluto che diventasse pianista. Ma Lise, da sempre attratta dalla matematica, dopo aver frequentato l’Akademischen Gymnasium, scuola viennese riservata alle ragazze, riuscì a conseguire la maturità e ad iscriversi all’Università. non appena fu abolito, con una legge, il divieto per le donne austriache di frequentare liceo e università. La Meitner nacque nel 1878 a Vienna da una famiglia benestante di origine ebraica, suo padre era un professionista di mentalità aperta, e malgrado fosse contrario alle scelte della figlia, la sostenne sempre economicamente consentendole di intraprendere studi privati molto costosi e, dopo la laurea, di andare all’estero. Sollecitata dal grande chimico austriaco Stefan Meyer, in seguito alla prematura morte di Boltzmann Lise, finalmente fisica, cominciò a lavorare diventando una delle prime “pioniere” dell’atomo. A Berlino, dove andò con l’intento di studiare con Max Planck, del quale diverrà assistente, prima donna in Prussia, incontra Otto Hahn, allievo di Ernest Rutherford e promettente chimico nucleare. Lise, inizia così, la sua vita fuori dagli schemi sociali tipici del suo tempo. Non si sposò e non ebbe figli per sua scelta, ma quello che sempre volle fu di confrontarsi con gli uomini sul terreno della ricerca e della scienza. Fu senza alcun dubbio una donna moderna e consapevole “ante litteram” : negli anni '30 si dedicò allo studio delle sostanze radioattive artificiali e in particolare alle reazioni che avvenivano bombardando l’uranio con neutroni. Si trattava di un settore ancora inesplorato a cui lavoravano molti scienziati (tra cui Enrico Fermi a Roma e I. Joliot Curie a Parigi). Le ricerche di Lise furono inter-
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rotte dall’avvento del regime nazista: nel 1933 le venne tolta l’autorizzazione all’insegnamento in quanto ebrea e nel 1938 dovette fuggire in Svezia. Rimase però in contatto con Otto Hahn, che a Berlino continuò gli esperimenti sull’uranio. Pochi mesi dopo, un esperimento progettato da lei e Frisch e fatto da Hahn a Berlino, produsse uno strano risultato che lui, da chimico, non capì. Telefonò a Lise che, sulla base di pochi calcoli fatti sul retro di una busta, scoprì che era stata realizzata la fissione dell’atomo. Quando Hahn richiamò, gli spiegò come rifare l’esperimento e che cosa aspettarsene, prevedendo correttamente, che l’esperimento libererà un’energia enorme da un pugno di atomi di uranio. Diversamente dai suoi colleghi profughi, Meitner rifiuta di partecipare alla costruzione della bomba americana e Hahn, che partecipa invece al tentativo tedesco, riceve il Nobel per la scoperta della fissione nucleare nel 1944. Lise Meitner, dopo la guerra, prese la cittadinanza svedese e abbandonò in parte la ricerca scientifica, dedicandosi ad attività civili e sociali per la pace e in difesa dei diritti delle donne. Morì a Cambridge nel 1968. Quello che successe alla Meitner fu un caso d’ingiustizia sulla quale si cominciò a riflettere solo più tardi: nel 1977 su Physics Today uscì un articolo che non lascia alcun dubbio riguardo la tesi che gli autori intendono sostenere: quella di Lise fu una storia di Nobel e d’ingiustizia del dopo guerra.
Rita Lena
Rosalind Franklin: la Dark Lady del DNA
Non tutti sanno che nel 1963 a Stoccolma, per la consegna del Premio Nobel per la scoperta della struttura del DNA, mancava uno scienziato il cui contributo è stato fondamentale per la scoperta: Rosalind Franklin. Nata nel 1920 a Londra da una famiglia di banchieri di origine ebraica, è grazie a lei che si scoprì la vera struttura del Dna (acido desossidoribonucleico). Rosalind, o Rosy, era ribelle e intelligentissima, contro il volere del padre si iscrisse alla Facoltà di chimica e fisica dell'Università di Cambridge dove si laureò e conseguì il dottorato con ricerche inerenti le caratteristiche colloidali del carbone. Dopo la guerra si trasferì a Parigi per specializzarsi nella tecnica della diffrazione ai raggi X, un metodo utilizzato anche per analizzare molecole di grandi dimensioni. Nel 1951 venne invitata, per le sue competenze da John Randall al King’s College di Londra, dove si svolgevano le prime ricerche sul Dna, sulle quali lavoravano contemporaneamente, all’Università di Cambridge, il biofisico Maurice Wilkins (1916), il biologo James Watson (1928) e il biochimico Francis Crick (1916). Rosalind in poco tempo
realizzò una tecnica innovativa che utilizzava i raggi X per fotografare i costituenti di tutti i materiali viventi e non viventi. Una microcamera capace di produrre fotografie ad alta definizione dei singoli filamenti del DNA, con la quale riuscì a fare la prima fotografia dello scheletro del Dna che le permise di ipotizzare la famosa forma ad elica. Nello stesso anno, il 1953, a 33 anni definì due caratteristiche strutturali decisive della molecola del DNA e sul suo taccuino scrisse: “il Dna è composto da due catene distinte”, da un lato la forma ad elica, e dall’altro la forma B, un tipo di disposizione in cui ci sono due catene molecolari formate da gruppi di zuccheri e di fosfati. Alla stessa ricerca lavoravano parecchi scienziati, ognuno convinto di essere vicino alla soluzione dell’enigma Dna. La corsa ad arrivare primi era iniziata e questo convinse Watson ad allearsi con Wilkins che gli mostrò delle copie di foto scattate da Rosalind che lui aveva riprodotto di nascosto. La n. 51, era la più chiara: svelava la struttura del Dna. Due settimane dopo Crick e Watson costruirono il loro celebre modello della struttura del DNA, nel laboratorio di Cavendish a Cambridge e pubblicarono su “Nature” il loro lavoro. Quando i due scienziati resero noto il loro risultato, Rosalind se ne rallegrò, non immaginando che quel successo fosse basato sulla sua prova sperimentale. Negli articoli pubblicati da Crick e Watson non comparve mai il riconoscimento dell’apporto dato alla ricerca dalla scienziata. La versione “ufficiale” venne ripresa anche dagli Annali scientifici e tutti credettero che il modello del DNA fosse stato elaborato senza l’utilizzo dei dati di Rosalind Franklin. Nel frattempo la scienziata si era trasferita al Birkbeck College di Londra, dove si occupò di uno dei virus che causano la poliomielite. Nel 1958 si ammalò di tumore e morì a 38 anni , dopo aver lavorato fino all’ultimo alla spiegazione della struttura del virus. Nel 1962 James Watson, Francis Crick e Maurice Wilkins ottennero il Premio Nobel per la Medicina per la scoperta della struttura del DNA, e anche dopo la morte di Rosy non riconobbero mai il suo contributo, di Rosalind Franklin neppure durante il loro discorso di ringraziamento. Il riconoscimento del lavoro della scienziata fu reclamato dalla ricercatrice Anne Sayre, sua amica e dal movimento femminista.
R. L.
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NON È FACILE ESSERE CRAIG WARWICK
LA STORIA DI ANNA Quando entrai nel salone del parrucchiere, Anna era seduta alla reception e stava leggendo una rivista. Non la vedevo da due mesi, da quando ero partito per Londra. Alzò lo sguardo, mi vide e mi chiese subito: “dove sei stato?”. Non risposi alla sua domanda, ma gli chiesi di sua zia che aveva 100 anni ed era una delle persone più vecchie della Sicilia. “Sta bene, perché c’è qualcosa che dovrei sapere”? rispose. “Niente” risposi io. In quel momento, ero semplicemente Craig, non era il “sensitivo” che stava parlando. Chiunque incontro pensai, vuole sapere sempre di sè stesso, dimenticando di chiedermi come stò. Questo, a volte, mi fa sentire come se fossi in mostra 24 ore su 24. Mi venne in mente di mia zia, quando mi diceva che non sarebbe stato facile e che, con il tempo, avrei dovuto prendere coscienza di ciò che sono realmente, imparare a controllarlo e ad usarlo al momento giusto. Ma, capii anche che è bello sapere qualcosa del proprio futuro e, se questo può far felice una persona, io sono sempre disposto ad aiutarla. Anche se sono in pochi a sapere che, dopo una “lettura sensitiva”, sia essa di 5 minuti che di un’ora, ho sempre bisogno di riposarmi perché esaurisco tutte le mie forze. Ad esempio, quando lavoro su casi di persone scomparse, uso tutte le mie energie per vedere: io, qui in Italia e l’altra in America. In questi casi, devo lasciare il mio corpo per cercare fatti e informazioni. Dopo però devo riposare per ore. Ricordo la storia di Tristen e di Chase Powell, è stato il caso nel quale, più di ogni altro, ho esaurito tutte le mie forze, perché non potevo lasciarli mai soli. Distogliendomi dai miei pensieri ritornai ad Anna consigliandole di passare più tempo con sua zia, che certa-
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mente nei suoi lunghi cento anni di vita, ha vissuto molti cambiamenti epocali ed ha sicuramente qualche storia da raccontare. Non dissi altro e quando finì di acconciare i suoi capelli ci salutammo. Io ripartii quasi subito, tornai a Londra alcune settimane per finire del lavoro che avevo cominciato. Quando tornai in Italia il mio amico mi disse che la zia di Anna era morta alcune settimane prima. Aveva cento anni, aveva vissuto una vita intensa, e pensai che adesso era insieme a tutta la sua famiglia e ai suoi amici. Incontrai di nuovo Anna, era la prima volta che la rivedevo dopo la conversazione che avemmo su sua zia. Mi raccontò che ultimamente si erano incontrate più spesso e che le aveva raccontato molti episodi della sua vita. Una vita piena, che lei aveva sempre amato e vissuto con passione. Nelle ultime due settimane si erano legate affettivamente ed ora mi sembrava inevitabile che la sua dipartita le procurasse sofferenza. Anna, capì però che sua zia aveva raggiunto la sua famiglia, ed era contenta del fatto che si trovava con i suoi famigliari e i suoi amici ai quali era stata legatissima. “E’qui con me?”- chiese Anna, guardandosi attorno, “a volte la sento accanto a me”. La guardai e percepii un uomo giovane accanto a noi, ebbi dei flash di lui che teneva un violino e potevo sentire della musica. Anna aspettava che le dicessi qualcosa. “Cosa c’é, che cosa vedi?”, chiese. “Anna conosci un uomo che suonava il violino? - Potrebbe essere un tuo famigliare perché lo vedo molto vicino a te”. Capii che non era pronta per questo tipo di messaggio, stava piangendo e tremava, quindi decisi di smettere. “No - mi disse - continua, per favore”. Le spiegai cosa avevo visto e cosa mi aveva detto l’uomo. “E’ mio padre - sorrise - suonava il violino”. Ricordò di quando, alla sera, le suonava il violino per farla addormentare ed era
felice di sapere che adesso lui e sua zia erano insieme. “Non potevi sapere questo - disse Anna - soprattutto che suonava il violino”. Poi, vidi l’uomo chinarsi e baciarla sulla guancia e vidi venire avanti, con un gruppo di persone una donna che io pensai fosse la zia. In quel momento era come navigare sull’internet del mondo dello spirito. Tutti ridevano, ballavano e cantavano, e sentii che l’uomo diceva: “Dille che stiamo tutti bene”. “Sai, c’è una festa - dissi ad Anna - cantano e ballano, avverto la loro felicità”. “ Li sento anch’io”, disse senza pensare, a voce alta. Dopo questa “lettura”, mi disse che si sentiva diversa, come se avesse avuto la risposta che cercava e che adesso, aveva la forza per continuare la sua vita. “Dì loro che li amo”, mi disse. “Non è necessario, lo
hanno sentito e lo sanno ”. Le spiegai che le sarebbero stati vicino tutte le volte che ne avesse avuto bisogno. Solo perché sono morti, non vuol dire che siano andati via per sempre. “Quando sei sola parla con loro, possono sentirti”, le dissi. Sapere che non era da sola la fece sorridere. In seguito, Anna mi confessò che la sera, quando stà per addormentarsi, sente un violino che suona dolcemente. “Mi sento sicura e protetta - disse - sò di non essere più da sola”. Dal libro “ Non è facile essere Craig Warwick”
[email protected] Traduzione di Rita Lena
Detective Sensitivo Egregio Direttore Le sto scrivendo dal North Carolina, Stati Uniti d’America e questa lettera è per Craig Warwick che mi ha assistito e con il quale ho lavorato per più di un anno. Sono un volontario per la “Community United Effort” (CUE) Centro per persone scomparse e vi sarei grato se la leggeste attentamente, perché vorrei farvi capire in che modo Craig mi ha assistito. In questo momento sono il portavoce di una famiglia a cui è sparito il figlio. Il bambino, Tristen “Buddy” Myers che rappresento, è scomparso dal 5 Ottobre, 2000. Tristen aveva 4 anni quando fu rapito. Le autorità locali organizzarono ricerche intensive usando Squadre Speciali e l’Aeronautica militare americana ,la 82esima Truppa. C’erano oltre 1000 tra persone e militari a cercarlo, dozzine di cani, elicotteri con sensori infrarossi per rilevare il calore di un corpo, subacquei e uomini, abbastanza forti, per camminare, uno accanto all’altro, per un raggio di 10 miglia, tanto era grande la residenza. Ogni settore fu ispezionato 3 o 4 volte. Non c’era traccia di Tristen e nessuna indicazione che potesse portarci sulla strada che poteva aver preso. Dopo diversi giorni di ricerca senza risultati, il caso passò all’investigazione criminale. Furono mostrate a tutti le foto del bambino e si chiese alla popolazione di segnalare alle autorità competenti qualsiasi indizio utile. Furono seguite migliaia di tracce, ma nessuna portò a Tristen. Dopo diversi mesi, durante i quali la frustrazione era arrivata al massimo, riuscii a trovare un familiare di Craig Warwick del quale avevo sentito molto parlare e poi, finalmente entrai in contatto con Craig. L’unica informazione che Craig volle, fu il nome del ragazzo, Tristen “Buddy” Myers e la sua età, 4 anni. Come portavoce della famiglia Myers, sono a conoscenza di ogni informazione su questo caso anche di quelle pubblicate dalla stampa, di quelle che si possono trovare su Internet ed anche delle informazioni segrete delle autorità giudiziarie. Craig mi rispose con una e-mail nella quale c’erano le istruzioni da seguire. Il suo messaggio conteneva informazioni che non poteva avere nessuno e che si spiegano solo con il fatto che Craig ha doti particolari. Un esempio: sapeva come era fatta la tenuta della famiglia Myers: parlò di un giardino speciale di Tristen e di cercare lì, vicino ad un albero. Nessuno sapeva a cosa si riferisse. Parlai con i genitori di Tristen di questo giardino speciale e venni a sapere che molto probabilmente Craig si riferiva ad un folto gruppo di alberi dove il bambino amava andare. Facemmo ricerche nel posto, designato come “giardino speciale”, seguimmo le istruzioni e trovammo l’albero che Craig ci aveva detto di cercare; c’era un’ oggetto di Tristen, che aveva con sè quando sparì. Oltre 1000 ricercatori avevano ispezionato già la zona e non avevano trovato questo oggetto, che fu mandato al Laboratorio di Stato per essere analizzato. Jackie Cox
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DALLA CAMERA D’ARIA ALLA IT - BAG
Camere d’aria che diventano borse. Valvole e rondelle di pneumatici i manici e le chiusure. In tempo di crisi, anche nella moda, il must è riciclare. Ispirandosi al restyling e al riuso, la designer Fausta Zambelli ha creato “Ummagumma”, una linea di accessori, borse, vasi, oggetti di arredo, sacche da golf, cinture, portafogli e cartelle da lavoro. Tutti rigorosamente realizzati con i materiali recuperati dal mondo dell’officina, seguendo un ciclo di lavorazione industriale con la cura e l’attenzione tipiche del prodotto
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artigianale made in Italy. L’idea le è venuta attingendo agli odori e all’ambiente nel quale è cresciuta: l’azienda di ricostruzione industriale di pneumatici fondata nel 1919 dal nonno paterno. Dopo essersi dedicata per dieci anni solo ai suoi due bambini, è voluta ritornare a lavorare. Liberando il suo estro e la sua creatività, ha dato una nuova vita al caucciù, al butile e a tutte le componenti delle camere d’aria, trasformandole, insieme alla pelle, in accessori di moda. Era il 2005 e da allora Fausta non si è più ferma-
ta, creando una linea intera di oggetti, componenti d’arredo “gommosi”, robusti e impermeabili. Ogni oggetto “Ummagumma” è diverso dall’altro, prodotto in serie limitata e marcato con il laser. Le sue bag sono diventate il musthave della stagione. Hanno conquistato l’On. Daniela Santanchè, Cristina Mondadori, le sorelle Borromeo e molte altre icone glamour. Per info: www.umma-gumma.com Alessia Ardesi
Il design? è unʼidea per trasformare lʼestetica in tecnologia funzionale.
Montatura sottile e lente maxi, per un'ispirazione retrò. D&G
I tartarugati di Prada
Per un mondo a forma di cuore, rigorosamente rosso. Oysho
Nero, elegante, rigoroso: Ferragamo
Roberta Buonaiuto
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L’ARTE DELL’OSPITALITA’
“L’accoglienza sorride sempre, e l’addio se ne va sospirando” William Shakespeare Fare accoglienza corrisponde ad un’autentica vocazione, coniugata a cultura, competenza e serietà professionale. E’ una capacità innata che nasce come un bisogno interiore che appaga l’anima di chi ha saputo lasciare nell’ospite il ricordo di momenti piacevoli ed indimenticabili; un luogo dove nulla può essere improvvisato o approssimativo. Saper interpretare i sogni e le aspettative dei suoi ospiti ha fatto diventare Daniela Amadei una guida nel mondo dell’ospitalità, sempre pronta ad aggiornarsi e a reinventare nuovi scenari, colori, sapori, legandoli sapientemente alla struttura caratteristica dei suoi eventi contraddistinti da qualità, calore, cortesia. Una personalità vivace ed eclettica, ma anche generosa, Daniela Amadei è consapevole di avere un talento naturale nel saper fare ospitalità, ma non nega che molti altri possano avere questa capacità, e si pone come una talent scout disposta ad indirizzare e orientare giovani futuri manager verso studi opportuni ed appropriati. Da anni lei svolge con grande successo attività organizzativa di eventi e nel campo dell’ ospitalità, come nasce questo desiderio di trasferire ad altri la sua esperienza e competenza? Il nostro Paese ha una vocazione turistica unica al mondo, noi siamo stati la culla della civiltà e della cultura e tutto il mondo desidera visitare l’Italia da sempre. Ma purtroppo spesso alle nostre bellezze artistiche e culturali non fa eco
una capacità di ospitare adeguata. In altre parole a volte noi italiani, forti del nostro retroterra di storia e civiltà e delle nostre bellezze naturali, tralasciamo di curare nel dettaglio l’accoglienza, con il risultato di veder assottigliarsi di anno in anno l’utile economico che ci deriva dal turismo. Per sopperire a questa mancanza si rende necessario costruire una classe dirigente all’altezza della situazione, in grado di restituire al Paese fama, immagine e, di conseguenza, un rientro economico. Per questo motivo ho intrapreso una collaborazione con l’Università di Les Roches e Glion, con sede in Svizzera e leader nel settore di questo tipo di formazione, diventandone la responsabile nazionale in Italia. Quali caratteristiche ha questa università? In realtà si tratta di una rete universitaria di alta formazione in management turistico presente, oltre che in Svizzera in tutto il mondo con sedi a Chicago, Australia, Cina, Spagna, proprio per favorire scambi culturali tra stu-
denti e veicolare usi e costumi di diverse etnie, perché l’ospitalità sia uguale per tutti nel rispetto di ogni diversità culturale. Inoltre è una Università che si avvale anche del “ fare”, infatti oltre alle normali materie tipiche del management quali leadership, finanza, marketing, diritto ed economia, i giovani candidati vengono assorbiti in attività pratiche riguardanti anche i vari reparti di un Hotel, dalla sala alla cucina, dalle camere al magazzino, perché il futuro manager per gestire il personale al top deve conoscere il lavoro di ogni settore nel dettaglio. Quali sbocchi professionali offre? In virtù di una serie di collegamenti con importanti aziende del settore, Glion e Les Roches offrono manager di sicuro successo e quindi molto richiesti non solo nel campo dell’ospitalità, ma anche in settori dell’accoglienza di Gruppi Bancari, Organizzazioni Sportive, Organizzazione di grandi Eventi. Qual è esattamente il suo ruolo nell’ambito dell’università di Glion-Les Roches? Il mio compito è quello di svolgere attività di orientamento a favore di giovani italiani interessati a questo lavoro manageriale. Inoltre ho il compito di accompagnarli in Svizzera per un tour guidato presso i College di Glion e Les Roches, chiunque fosse interessato o semplicemente incuriosito può contattarmi al 348 8705600 o su
[email protected] Tiziana Primozich
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LA LUNA LUNA HA HA 40 40 ANNI ANNI LA
Anniversario dello sbarco sulla luna
In occasione del quarantesimo anniversario dello sbarco dell’uomo sulla Luna (20 luglio del 1969), l’Assessorato alle Politiche Culturali e della Comunicazione del Comune di Roma intende celebrare la ricorrenza con una serie di eventi di grande impatto emotivo, culturale, artistico e scientifico per sottolineare la portata epocale di quel fatto storico, il primo avvenimento globale – si può dire – della storia dell’Umanità. Le cinque iniziative, che si svolgeranno tra il 30 giugno e il 29 luglio 2009, sono state riunite sotto il titolo “LA LUNA HA 40 ANNI. Rivivi la conquista di un sogno. Anniversario dello sbarco sulla luna”. Si inizia con la rassegna culturale dedicata alla Luna - in collaborazione con l’Associazione Teatro Di Roma - “URANIA. Stregati dalla Luna nella Città delle storie disabitate” al Teatro India (nella cittadella della ex fabbrica Mira Lanza, un grande insediamento industriale sulle rive del Tevere) dal 30 giugno al 18 luglio 2009. Grazie a una creativa contaminazione di linguaggi gli spettatori affronteranno uno straordinario viaggio attraverso il rapporto fra la Luna e l’immaginario collettivo , declinata in tutte le sue forme espressive, ogni sentiero dell’immaginazione umana stimolato dalla luna verrà ripercorso, raccontato e rappresentato visivamente, rivolgendosi non solo al grande pubblico dei più giovani, ma anche a quello di appassionati e di collezionisti. Il 16 luglio 2009 dalle ore 16 alle ore 23 la Casina di Raffaello - ludoteca a Villa Borghese - ospiterà “Luna bambina”, un progetto rivolto ai bambini e alle famiglie, per offrire una diversa e più consapevole osservazione del satellite attraverso un viaggio sperimentale ed emozionale. In programma esperienze di simulazione e di manipolazione, percorsi emozionali e informativi, uniti a osservazioni del cielo,spazieranno dalla danza alla lettura, da varie forme di teatro alla proiezione di filmati. Dal 17 al 21 luglio 2009 sulla terrazza del Pincio, “Stelle e pianeti nel cielo di Roma” che metterà a disposizione dei romani e dei turisti l’allestimento di un’area telescopica, da cui sarà possibile collegarsi con la stazione del Museo Geopaleontologico di Rocca di Cave, postazione telescopica per osservazione pubblica. “L'astro della notte sbarca al Planetario” è l’iniziativa che il Planetario e Museo Astronomico di Roma (piazza Giovanni Agnelli 10 all’EUR) organizza dal 20 al 29 luglio 2009. Una settimana di eventi, con osservazioni al telescopio, spettacoli astronomici, conferenze, proiezioni cinematografiche, giochi e performance artistiche e multimediali. Gli appuntamenti di “LA LUNA HA 40 ANNI. Rivivi la conquista di un sogno” culmineranno, il 20 luglio 2009, con una notte altamente rievocativa, a Piazza del Popolo. Sopra un palco con una struttura altamente spettacolare (sulla quale si rifletteranno le immagini dello sbarco e i momenti salienti di quell’indimenticabile avventura) si avvicenderanno giornalisti, personaggi dello spettacolo, testimoni diretti di grande notorietà e una star internazionale d’eccezione. Una serata davvero speciale, che coniugherà spettacolo e approfondimento, momenti di condivisa partecipazione e di leggerezza, per riatterrare insieme su quell’impensabile territorio di conquista che, per una notte, quarant’anni fa, fu seguita con il fiato sospeso e appartenne a tutta l’umanità, senza distinzione. Costanza Cerioli
Fashion Design al Polimoda di Firenze Entusiasmo alle stelle e adrenalina a mille per i 65 diplomandi del corso di Fashion Design del Polimoda di Firenze, che per la prima volta l’8 giugno hanno presentato al pubblico, sulla passerella del teatro Saschall, le collezioni ideate per il diploma finale. Una giuria composta da giornaliste, grandi firme della moda, ha assegnato il premio per la collezione più mediatica ad una ragazza romana, Francesca Vizioli, 22 anni, alle spalle anche un’esperienza di studio al Central Saint Martins di Londra, oltre a un diploma in giornalismo di moda all’Accademia di Moda e Costume di Roma. La neo diplomata del Polimoda, scuola d’eccellenza fortemente voluta vent’anni fa dal suo presidente Ferruccio Ferragamo, e diretta da Linda Loppa, ha presentato una collezione volutamente glaciale giocata tutta sui toni del bianco e del grigio. Capi, quelli fatti salire in passerella dalla neo designer Vizioli, creati per donne androgine e un po’ spaziali che snobbano il tacco 12 e calzano stivali di gomma bianchi e grigi. Ma non disdegnano infilarsi impalpabili cappe in crèpe di seta e shantung, abiti e shorts imbottiti, leggings in pregiata maglia Filpucci. Roberta Buonaiuto
L’ambasciatore di Tanzania, Ali Abeid Karum, al vernissage presso l’ambasciata di Tanzania, a cura della National Gallery Firenze.
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Stefania Cesari in gruppo di Famiglia all’inaugurazione del nuovo space chic.
Una meravigliosa festa sul Tevere con la bellissima dottoressa Elisabetta Abruzzese e consorte.
Un opera di Claudio Calvitti “Il cielo sulla terrazza Caffarelli” donato per il convegno medico italo-argentino
RICETTE Le vacanze, soprattutto durante la bella stagione, sono anche l’occasione per seguire abitudini di vita più sane, dedicarsi all’attività fisica e adottare un’alimentazione bilanciata e nutriente. Ricordatevi che l’abbronzatura si conquista a tavola. La regola è quella di fare scorta di frutta e verdura fresche, bere molto – per ripristinare i liquidi persi durante l’esposizione al sole – eliminare gli alimenti ricchi di sodio (che favorisce la ritenzione idrica), i condimenti pesanti e l’alcol.
BOMBOLOTTI ALLA CHECCA
FUSILLI PATATE E PINOLI
INGREDIENTI: Bombolotti 500gr, olio, aglio, basilico, pomodoro rosso, prezzemolo, origano
INGREDIENTI: 320gr fusilli, 300gr patate, 30gr pinoli, aglio, prezzemolo, maggiorana, parmigiano, olio ex.v., sale, pepe.
Cuocere la pasta, preferibilmente rigata, in abbondante acqua salata; dopo una cottura molto al dente lasciarla freddare e cospargerla di qualche cucchiaino di olio. Preparare in un recipiente spicchi di aglio finemente tagliuzzati abbondanti foglie di basilico, rondelline di pomodoro rosso, prezzemolo tritato ed una spruzzatina di origano. Salare. Dopo aver lasciato macerare il composto per alcuni minuti, aggiungere la pasta fredda e girare.
Lessate le patate a tocchi senza la buccia in acqua bollente salata. Mettete a bollire dell’altra acqua, salatela al bollore e cuocete la pasta. Versate nel frullatore le patate giunte a cottura, con qualche cucchiaiata della loro acqua. Unite al composto i pinoli, mezzo spicchio d’aglio e qualche foglia di prezzemolo e di maggiorana. Scolate la pasta, conditela con il frullato e due cucchiai d’olio. Spolverate con abbondante parmigiano grattugiato. Completate con una macinata di pepe.
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