2007 Kultur Panorama Storico Della Letteratura Italiana Il Chiostro.pdf

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Orazio Gnerre Gianandrea de Antonellis

Kultur Panorama storico-critico della letteratura italiana

Una volta mi vergognavo di confessare di non conoscere un certo libro «importante»: adesso non mi vergogno più, perché la vita è breve e non si può leggere tutto. Ognuno legge quello che gli piace, quello che capita tra le mani, in quell’intreccio di caso e volontà di cui è intessuto il libero arbitrio. Del resto «i classici sono i libri che si danno per letti». Cesare Cavalleri, Persone & Parole, 3/65

Lo scopo del presente studio è quello di offrire un profilo storico della letteratura italiana dalle origini ai giorni nostri, sintetizzando la sua evoluzione nel corso di otto secoli. Il titolo si rifà al termine utilizzato da Oswald Spengler (1880-1936), per indicare lo stadio creativo della cultura umana – Kultur – che nel pensiero del filosofo della storia precede quello statico di Zivilisation. Il lavoro, senza dimenticare i principali studi critici degli ultimi due secoli, tiene conto delle più recenti metodologie d’indagine critica, principalmente riguardo ai rapporti tra letteratura e società, ed in particolare delle nuove interpretazioni storiche che superano quelle – ideologicamente preconcette – che hanno usualmente svilito il Medioevo nei confronti del Rinascimento (gli stessi termini usati per indicare i due periodi storici sono di per sé indicativi) o il Seicento giudicato dall’Ottocento risorgimentale, aprioristicamente antispagnolo ed anticlericale. Non possono, naturalmente, non mancare le lacune: ad esse si è cercato di porre rimedio attraverso le indicazioni bibliografiche, anziché tramite veloci citazioni di autori e di opere. Soprattutto per quanto riguarda il Novecento – ed il secondo Novecento in particolare – molti lettori si rammaricheranno di non trovare spazio o non trovarne abbastanza per un certo poeta o un certo romanziere particolarmente amato; il fatto è che l’eccessiva vicinanza al periodo in questione impedisce di dare un giudizio sereno che distingua il successo di pubblico dall’effettivo valore artistico: ecco perché si è dato spazio solo agli autori ritenuti di maggior pregio ed in grado di superare il giudizio del tempo. Di conseguenza ci siamo concentrati – sempre nel rispetto della sintesi richiesta dal presente lavoro – su un numero ristretto di esponenti della vita letteraria italiana degli ultimi anni, per evitare il rischio di redigere un noioso – e sterile – elenco di nomi. Fermo restando, lo ripetiamo, il necessario rinvio alle indicazioni bibliografiche per un maggiore approfondimento. La sintesi di questo excursus sulla letteratura italiana riguarda anche l’indice, nel quale si ritroveranno solo le riviste e gli autori italiani (non quindi i critici, né gli autori stranieri, nonostante siano evidenziate le reciproche dipendenze e le mutue suggestioni di ogni autore viene inoltre indicato solo il luogo in cui si parla di lui più diffusamente, il capitolo a lui dedicato. Non ci si stupisca, dunque, di trovare una sola indicazione per Dante, nonostante il suo nome ricorra per tutto il volume. Infine, lungi dal pretendere di essere esaustivi, gli autori si augurano di riuscire a stimolare il lettore ad approfondire le tematiche presentate con semplicità di linguaggio e, soprattutto, ad affrontare almeno qualcuno di quei classici che non si devono necessariamente «dare per letti».

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Introduzione

Concetto di letteratura «L’uomo ben prima di diventare homo faber, costruttore di attrezzi, fu homo logos, costruttore di parole. Il grande vantaggio del linguaggio è che con esso gli uomini sono in grado di trasmettersi scambievolmente ogni genere di esperienza, creando così una base per lo sviluppo cumulativo della civiltà e della cultura. Il linguaggio è quindi per l’uomo “l’apriti Sesamo” per tutti i tesori della terra, che egli ha in seguito creato, o trovato, a proprio beneficio»1. Senza comunicazione, quindi, non c’è vita: o almeno, non c’è vita sociale. Si comunicano pensieri, bisogni, offerte; e per farlo ci si serve di segni, segnali, gesti, simboli, voci, parole. Le notizie che si comunicano si dicono messaggi, i mezzi di cui ci si serve per comunicarli costituiscono il linguaggio. Perciò esiste un linguaggio fatto di segni, di gesti, di simboli, di voci, di parole. Il linguaggio delle parole, che è la forma meglio articolata e più completa di comunicazione, costituisce la lingua. Comunicativo, quindi, è il fine fondamentale della lingua; e perciò lo studio di essa, cioè la linguistica, rientra oggi in una scienza più vasta: la semiologia, scienza che studia i segni di comunicazione. Ma la lingua può darci anche qualcosa di più della semplice comunicazione di un messaggio avente esclusivo carattere pratico e immediato e che interessi soltanto nel momento nel quale viene emesso. Esaminiamo, infatti, i due seguenti enunciati linguistici: Piove. Sento infatti il crepitio della pioggia che cade sulle foglie degli alberi.

e Odi? La pioggia cade su la solitaria verdura con un crepitio che dura e varia nell’aria secondo le fronde più rade, men rade.

Il primo enunciato comunica soltanto un messaggio che ha carattere pratico e che interessa esclusivamente la persona o le persone cui è direttamente rivolto. Il secondo, invece, si rivolge ad un pubblico che può essere anche lontano nel tempo e nello spazio, non fornisce una notizia pura e semplice, ma esprime un modo di sentire, di cogliere la realtà; e soprattutto opera, per effetto di fantasia o di intuizione poetica o di arte o di stile, una sublimazione o trasfigurazione del messaggio2.

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Singh Jagjit, Teoria dell’informazione: linguaggio e cibernetica, Mondadori, Milano, 1976. Nel suo studio sulla polimorfia del linguaggio, Roman Jakobson (Saggi di linguistica generale, Feltrinelli, Milano 2002) individua la poesia in quella struttura comunicativa nella quale predomina l’interesse per il messaggio in se stesso.

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Introduzione Quando questo avviene, l’espressione linguistica assume un significato artistico e letterario: diviene arte letteraria, letteratura.

Cultura e letteratura Non si deve credere, però, che la letteratura sia soltanto la sublimazione o trasfigurazione artistica di un messaggio linguistico, quasi l’arte della parola. La letteratura è un fatto di portata assai più vasta ed importante: è l’insieme delle opere letterarie connesse ad una certa cultura o civiltà. Sicché il concetto di letteratura – è bene sottolinearlo, anche se trattasi di un’affermazione ovvia – non è scindibile da quello di cultura, dando al termine di “cultura” la più ampia accezione possibile, compresa quella di “ambiente sociale”. Non è concepibile, insomma, una letteratura separata dal suo ambiente culturale. La letteratura è sempre in rapporto con un quadro storico, geografico, sociale: non sarebbe concepibile nel ventesimo secolo la letteratura classica precristiana; la letteratura nordica non potrebbe fiorire nelle zone tropicali; ed una letteratura socialmente impegnata, come il neorealismo, sarebbe un paradosso nell’ambiente cortigiano rinascimentale. La connessione tra quadro culturale, ovvero società, e letteratura non esclude però: 1) che gli esiti o la resa dell’opera letteraria, ovvero il suo valore artistico, possano non essere in rapporto col quadro culturale, ma dipendere essenzialmente dalla personalità artistica degli autori (una grande opera d’arte letteraria può nascere anche in un quadro culturale sconfortante); 2) che una grande opera letteraria trascenda le connessioni culturali facendosi espressione di eterni problemi e passioni umane (è l’eterna contemporaneità di ogni capolavoro); 3) che, pur facendosi interprete di tutti gli aspetti culturali, l’opera letteraria abbia sempre nella parola, ovvero nella lingua, il suo mezzo espressivo.

La critica letteraria Ogni opera letteraria è, pertanto, un fatto assai complesso, nel quale concorrono elementi diversi: il quadro socio-culturale, il significato comunicativo, il mezzo linguistico, la strutturazione, la personalità dell’autore e le sue capacità artistiche e fantasiose. Data tale natura prismatica dell’opera d’arte letteraria, perché si possa avere di essa un’interpretazione la più ampia possibile, è necessario indagarla da angoli visuali diversi, attraverso più specole o metodi d’investigazione critica. Nel corso del Novecento – e per l’Italia dopo la seconda guerra mondiale – il panorama dei metodi di indagine critica, prima ristretto quasi esclusivamente alla critica storica ed a quella estetica – si è considerevolmente ampliato. Oggi, infatti, non ci si contenta più di accertare le notizie sugli autori e le opere – compito della critica storica – né di esprimere un giudizio di valore artistico – indagine della critica estetica –, ma si vogliono mettere in luce tutte le implicazioni che l’opera letteraria ha con l’ambiente socio-culturale, con la lingua, con la semiologia, etc. Poiché nel corso della nostra trattazione ci capiterà di citare tali metodi critici, ne diamo qui di seguito un quadro sintetico.

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Introduzione

Gli attuali metodi di indagine critica Critica storica o filologica Ricerca di notizie e documentazione sugli autori e sulla composizione delle loro opere. Ricostruzione critica dei testi. Critica estetica o della forma È critica di valore, poiché giudica se ed in qual misura il contenuto (ispirazione, argomento) si sia trasformato in forma, vale a dire in poesia. Critica sociologica Studia i rapporti tra società e letteratura da due punti di vista: considerando cioè la società come punto di partenza o come punto d’arrivo; come elemento della genesi dell’opera d’arte o come sua destinazione. Critica marxista È un particolare atteggiamento della critica sociologica. Si rifà alla tesi leniniana di “rispecchiamento”: come la sovrastruttura è rispecchiamento della struttura, così l’arte è rispecchiamento del processo di sviluppo della società. Da ciò il compito del critico, che è quello di esplorare sino a che punto l’opera d’arte rispecchi il processo storico-sociale da cui è stata ispirata. Critica simbolica Ogni opera d’arte è considerata come una grande metafora, un insieme di simboli e di significati reconditi che la critica deve interpretare. Critica semiologica Considera l’opera d’arte un messaggio, di cui le forme espressive (immagini, lingua, metri) sono il codice. Compito della critica è giungere alla conoscenza del significato del messaggio, attraverso l’analisi del codice. A tal fine, la critica semiologica si serve anche d’indagini linguistiche, strutturali, stilistiche, simboliche. Indagine quantitativa o statistica Computa la frequenza di particolari espressioni e forme poetiche e determina quelle le parole tema e le parole chiave di ogni singolo autore o di ogni singola opera d’arte. Tale indagine, utile alla critica simbolica e a quella psicanalitica, tende ad evidenziare soprattutto il valore semiologico dell’opera d’arte, cioè il suo significato di messaggio.

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Introduzione Critica psicanalitica La poesia, come il sogno, è una rielaborazione del materiale psichico infantile. Compito della critica è pertanto quello di trovare nell’ordine psichico una spiegazione scientifica causale dell’opera d’arte o di particolari atteggiamenti ed espressioni di essa. Critica stilistica Suo problema è quello di risalire dalla varietà dei particolari espressivi all’unità interna che tutti li spiega e giustifica. In altri termini, ricostruendo dagli effetti le cause, essa tende a risalire dallo stile alla sua etimologia spirituale. Critica delle varianti Le correzioni operate dall’autore, cioè le varianti da lui apportate nel corso delle successive stesure delle sue opere, sono organicamente esaminate per porre in evidenza il determinarsi della definitiva fisionomia stilistica dello scrittore. Critica strutturalistica Considera l’opera d’arte una struttura funzionale, i cui elementi non possono essere compresi al di fuori della loro connessione con l’insieme: aspetto fonetico, lessicale, sintattico, ritmico, metrico, contenutistico dell’opera d’arte sono inscindibili, livelli diversi di un’unica espressione artistica. Si vale dell’indagine stilistica e quantitativa. Come si è potuto notare, tali metodi di indagine critica non procedono in modo autonomo, ma si completano reciprocamente: la critica semiologica, ad esempio, si serve di indagini stilistiche, strutturali, simboliche; quella strutturale si vale di indagini quantitative e così via. Si tratta, pertanto, di un panorama critico assai vasto e complesso, che permette una ricognizione approfondita dell’opera d’arte: in tutti i suoi aspetti, in tutti i suoi elementi, nei suoi motivi genetici e nella sua destinazione.

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Il Duecento

Il nuovo quadro culturale L’autunno del Medioevo L’universalismo del Medioevo – unica Chiesa, unico Impero, unica lingua – subiva, tra i secoli XI-XIV, un duro colpo. A metterlo in crisi erano le esplosioni ereticali in Provenza, il sorgere delle monarchie e dei Comuni, il prevalere delle lingue nazionali sul latino. Anche l’aristotelismo contribuiva alla sua demolizione, convalidando, sul piano filosofico, la naturale tendenza degli uomini ad ordinarsi tra loro in società e quindi sostenendo i diritti autonomisti degli Stati nazionali e dei Comuni. La stessa organizzazione feudale della società, che aveva costituito l’elemento portante della struttura sociale medioevale, era travolta non solo dalla rinascita delle città, ma anche da una nuova organizzazione burocratica dello Stato: perché un nuovo ceto di ministeriales, cioè di burocrati di nascita plebea, sostituiva nei compiti di governo la vecchia e centrifuga nobiltà feudale. Quest’innovazione, sperimentata con successo dagli imperatori di casa sveva – Federico Barbarossa e soprattutto Federico II – nell’amministrazione dell’Impero, era alla base della costituzione stessa dei Comuni, i quali nascevano proprio per effetto di questo passaggio delle funzioni di governo nelle città dalle mani del vescovo-conte o del feudatario, a quelle di funzionari estranei al sistema feudale.

Sorge la borghesia: i mercanti La nascita del Comune si accompagna così ad un fatto rivoluzionario di grande importanza storica: la formazione di un ordine borghese e la sua prima affermazione come soggetto politico. Essa è costituita da (potenti) giudici, notai, medici, maestri e da (numerosi) artigiani e mercanti. Questi ultimi, dato lo sviluppo che ora vanno assumendo gli scambi commerciali – la vecchia economia curtense legata al sistema feudale è definitivamente crollata –, diventano sempre più numerosi e potenti: frequentano le fiere ed i mercati dei paesi vicini e lontani ed importano prodotti esteri. «I Fiorentini della seconda metà del Duecento sono a nation of shopkeepers (una nazione di negozianti). E non soltanto i Fiorentini, ma tutti i Toscani, e non solo i Toscani, ma tutti gli Italiani sono “nazione di negozianti”: di negozianti intrepidi e geniali, d’enorme capacità d’iniziativa, di grandi attitudini organizzative, creatori eroici, seppur spregiudicati, di ricchezza. Sono i grandi mercanti – o meglio uomini d’affari – che dominano effettivamente la società comunale, e danno tono e legge alla vita italiana del ’200 e del ’300» (Viscardi). Questi mercanti, almeno i più facoltosi, spesso non trafficano merci, ma denaro: assumono allora la funzione di usurai o di veri e propri banchieri, pur considerandosi sempre mercanti e finanziatori di mercanti.

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Il Duecento

L’ideale “cortese” Era usanza dei mercanti, naturalmente dei più solidamente piantati, spingersi fino in Francia per estendere il proprio giro d’affari. Usanza trista, secondo Dante, perché ragione di crisi della famiglia; onde egli ripensava con nostalgia ai tempi in cui tale uso non era ancora dilagato: ed ancor nulla era, / per Francia, nel letto, diserta.3

Del resto trafficavano in Francia – tra molti altri – sia il padre di san Francesco, Pietro Bernardone, che il padre di Boccaccio. Questo fatto non era privo di grandi conseguenze sul piano del costume e della cultura. La Francia esercitava allora – secoli XII-XIV – una vera egemonia culturale sull’Europa: lì era nato il tipo umano del “cavaliere” e quindi anche le regole della “cortesia”, del vivere raffinato ed elegante, delle piacevoli consuetudini dell’esistenza mondana. Per opera dei mercanti – oltre che dei trovatori provenzali – questo mondo della “cortesia” penetrava in Italia, ingentilendo i costumi e traendoci definitivamente fuori della ferrea età alto-medioevale. L’ideale della cortesia e quello della liberalità, che ad esso necessariamente si accompagnava, aprivano nuove prospettive alla vita ed all’arte; infatti, mentre si affermava in Italia la maniera del vivere gioioso ed elegante, si offriva alla poesia una materia nuova: che non era più la litania religiosa o la cantilena giullaresca, ma la lirica dell’amore cortese e delle imprese audaci e cavalleresche.

La diffusione della cultura e l’adozione del volgare La nobiltà feudale, forte della propria posizione di privilegio ereditario, non aveva avvertito il bisogno di istruirsi: la maggior parte dei feudatari era stata, infatti, analfabeta4. Il nuovo ordine della borghesia, invece, per le esigenze connesse alle proprie attività, avvertiva il bisogno di una cultura generale e tecnica. Chiunque volesse dedicarsi con profitto ad un’attività economica doveva percorrere una determinata carriera scolastica: prima imparava a leggere e a scrivere, poi passava alla scuola di calcolo, quindi apprendeva a redigere lettere commerciali e si dedicava alla risoluzione pratica delle operazioni riguardanti l’attività economica. Il fatto più importante di questo tipo di istruzione consisteva nell’adozione del volgare al posto del latino, che era invece la lingua delle università e delle scuole ecclesiastiche. L’ordine mercantile, consapevole della «necessità di una preparazione tecnica per l’esercizio di una pratica commerciale, si era allontanata dalle scuole ecclesiastiche, istituendo corsi di studio che rispondevano alle esigenze degli uomini d’affari, corsi nei quali lo studio del latino era sostituito da esercizi di letture e soprattutto di calcolo» (Migliorini). Nascevano così – a fianco alle scuole ecclesiastiche, nelle quali si usava il latino e s’insegnava soprattutto retorica, diritto e filosofia – scuole organizzate dai Comuni, nelle 3

Dante Alighieri, Paradiso, canto XV, vv. 119-120. Analfabeta, non ignorante: lo stesso Carlo Magno, che non sapeva leggere né scrivere, conosceva molto bene la Patristica e benissimo S. Agostino, le cui opere si faceva leggere.

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Il Duecento quali si usava il volgare e si forniva una preparazione più pratica e più tecnica. Veniva pertanto a determinarsi tra l’affermarsi della borghesia e la diffusione del volgare un rapporto di intercausalità: da una parte la borghesia, per le proprie esigenze culturali, incrementava e diffondeva il volgare; d’altra parte l’uso del volgare conferiva alla borghesia una propria caratterizzazione laica ed una meglio definita fisionomia sociale.

Scrittori e pubblico È sintomatico il fatto che anche i giuristi, i notai, i funzionari del Comune – i quali nella redazione degli atti connessi alla loro attività usavano preminentemente il latino –, coscienti della loro estrazione borghese ed anche della preminenza che la borghesia aveva ormai nella vita del Comune, optassero per il volgare nella loro attività di intellettuali e di scrittori. Così facendo, essi venivano a costituire un nuovo ordine di intellettuali, borghesi e laici, a fianco del vecchio ordine di “chierici”, cioè degli uomini di cultura collegati con la Chiesa e formati dalle scuole ecclesiastiche. Ed erano proprio questi intellettuali borghesi e laici, che usavano il volgare, gli scrittori più pregevoli della nostra letteratura delle origini. Ora, il fatto che essi scrivessero le loro opere in volgare invece che in latino rendeva assai più elevato il numero dei lettori, in quanto il latino era sempre meno parlato e conosciuto dalle grandi masse. Naturalmente, quest’ampliamento del pubblico dei lettori deve intendersi nella misura possibile in un tempo in cui l’analfabetismo era assai forte ed i libri, copiati a mano, erano assai costosi. Dal che nasce un’altra importante considerazione: che cioè il “pubblico” delle opere letterarie delle origini era spesso costituito non da lettori, nel senso preciso del termine, ma da uditori, da ascoltatori5.

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In effetti, il diffuso analfabetismo fino agli inizi del XX secolo faceva sì che anche in epoche più recenti le pubbliche letture e narrazioni,assieme al teatro, fossero le forme più diffuse di letteratura.

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Il Duecento

Le origini Com’era nato il volgare Ma quando e come era nato quell’idioma nuovo, il volgare, che i nuovi intellettuali, laici e borghesi, adottavano ora in sostituzione del latino? Tutte le lingue si evolvono e mutano col tempo. Preferiamo spiegare questo fenomeno non con le parole di qualche linguista nostro contemporaneo, ma con quelle di Dante Alighieri: Onde vedemo ne le cittadi d’Italia, se bene volemo aguardare, da cinquant’anni in qua molti vocabuli essere spenti e nati e variati; onde se ’l picciol tempo così transmuta, molto più transmuta lo maggiore. Sì ch’io dico, che se coloro che partiro d’esta vita già sono mille anni tornassero a le loro cittadi, crederebbero la loro cittade occupata da gente strana, per la lingua da[lla] loro discordante.6

A base dei mutamenti linguistici è soprattutto una causa interna che i linguisti hanno definito di economia linguistica: si è portati cioè a scegliere forme linguistiche sempre più semplici sotto il profilo fonologico, cioè dei suoni, e sotto quello sintattico, cioè dei costrutti. Per effetto di questa tendenza all’economia linguistica anche la lingua latina doveva naturalmente evolversi e mutare: e ciò spiega certe semplificazioni fonetiche come quella da cauda a coda, da mensis a mese, da ille a il, etc. Ma a trasformare la lingua latina negli idiomi neolatini, o meglio ad accelerarne il processo in un certo periodo, intervennero anche altre ragioni, che potremmo definire esterne o storico-sociali. Il latino era la lingua dello Stato romano, ufficialmente riconosciuta in tutte le province del vasto Impero: era la lingua della scuola e della cultura, nella quale erano celebrati i riti sacri e redatti gli atti pubblici. Ma a fianco a questa lingua ufficiale vi erano forme linguistiche parlate nella vita privata: il gergo del volgo, quello dei militari, nonché quello degli abitanti delle province che non avevano del tutto accettato o assimilato la lingua imposta da Roma (imposta non con la forza – ché Roma non perseguì mai una politica linguistica – ma per la necessità di istituire rapporti pubblici e burocratici). Avvenne che, finché lo Stato romano restò in piedi, la lingua ufficiale latina prevalse e coprì le altre forme gergali; ma quando esso cadde, per l’infrangersi dell’unità della cultura, per il venir meno dei rapporti tra le province e l’Italia, per la mancanza di un centro burocratico comune, le parlate dialettali finirono gradualmente per prendere il sopravvento sull’idioma ufficiale latino, divenendo esse stesse lingue nazionali, ufficiali, poi letterarie. Nacquero così le lingue neolatine o romanze: il rumeno, il dalmatico, il ladino (parlato nelle valli alpine), il sardo, l’italiano, il portoghese, lo spagnolo, il catalano, il provenzale e il francese. 6

Dante Alighieri, Convivio, Tratt. 1, cap. 5.

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Il Duecento Questo avveniva tra il secolo VI ed il IX d. C. In Italia avveniva dopo che nelle altre parti dell’Impero e con modificazioni meno profonde. La ragione è evidente: il latino era stato per noi lingua indigena, locale, non imposta da dominatori. Inoltre, il fatto che la Chiesa cattolica, che in Italia aveva la sua sede, conservava il latino come propria lingua ufficiale, determinava, almeno a livello culturale, il sopravvivere tra noi dell’antico idioma di Roma, rallentando così il processo di unificazione delle parlate volgari regionali – tant’è che noi parleremo per qualche tempo di volgare settentrionale o umbro o toscano o siciliano e non di volgare italiano – e rimandando la loro adozione a lingua culturale e letteraria. Tra i primi documenti in volgare – un volgare non ancora chiaramente determinato data la persistenza di forme fonetiche ed anche morfologiche latine – si annovera la Carta capuana, del 960. Si tratta di una testimonianza orale, trascritta da un notaio, resa in una controversia civile circa l’appartenenza o meno di certe terre al monastero di Montecassino: Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte sancti Benedicti.7

Il fatto che questa testimonianza resa oralmente in volgare sia inserita in un documento redatto in latino, testimonia chiaramente che in quel periodo il volgare viveva soltanto come idioma parlato.

Il ritardo dell’attività letteraria in Italia Il ritardo linguistico, data la connessione lingua-letteratura, determinava non solo il ritardo delle origini della nostra attività letteraria, ma anche il carattere riflesso o d’imitazione che essa assumeva agli inizi. Generalmente, le origini di una letteratura hanno carattere spontaneo e popolare; sono composizioni, spesso anonime e collettive, che non hanno spiccate finalità artistiche: canti religiosi, esortazioni belliche, rudimentali forme drammatiche, prescrizioni giuridiche, motti e proverbi. Le origini della letteratura italiana avevano, invece, – per buona parte – carattere dotto e riflesso. Essa, come è stato detto, «è una primavera senza primitivi […] che ha sin dall’inizio odore di lucerna, piuttosto che sapore di erba e di rugiada» (De Sanctis). La ragione è duplice: da una parte la nascente letteratura italiana non poteva non tener conto dell’eredità della letteratura latina, naturalmente ancor viva nella cultura contemporanea, né della produzione medio-latina (le opere di giuristi, filosofi, teologi, cronisti); d’altra parte essa risentiva l’influenza della produzione francese e di quella provenzale, già pervenute, perché sorte prima, ad un più progredito livello di espressività artistica. Né si trattò soltanto d’imitazione di generi, di temi e di forme letterarie, ma anche di lingua. Sicché, nel corso del Duecento – e soprattutto nella prima parte del secolo – non mancarono scrittori italiani che, per un complesso di ragioni che presto conosceremo, preferirono al volgare italiano la lingua latina o quelle di Francia e di Provenza. 7

«So che quelle terre, per quei confini che qui si indicano, le possedette per trent’anni il monastero di san Benedetto».

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Il Duecento

La letteratura in latino Che il latino vivesse nel Duecento in simbiosi col volgare era un fatto naturale – del resto questo fenomeno della simbiosi tra le due lingue si continuerà ancora per qualche secolo, con alterne vicende di regressione e di ripresa. Infatti, mentre il volgare fu la lingua parlata dal popolo ed usata dai nuovi intellettuali, laici e borghesi, il latino fu la lingua delle università, delle cancellerie, dei tribunali, insomma della cultura ufficiale del secolo. In latino, infatti, si studiava, si redigevano editti e decretali, si stipulavano trattati ed atti giuridici. Inoltre, essendo il latino la lingua della Chiesa e dei “chierici”, di quanti cioè erano legati al mondo ed alla cultura ecclesiastica, ne derivava che latina fosse la varia ed abbondante letteratura religiosa del tempo: preghiere, prediche, vite di santi, cronache di monasteri e di ordini monacali. Una produzione letteraria, questa, che è importante documentazione di quanto forte o addirittura ossessivo fosse nel Medioevo il sentimento religioso e di quali fossero la sua natura e i suoi aspetti. Prendiamo, ad esempio, il De contemptu mundi (Il disprezzo del mondo) di papa INNOCENZO III (Giovanni Lotario dei Conti di Segni, Anagni 1160 - Perugia 1216). Tutta l’opera è ispirata a quello che fu il pessimistico e tragico sentimento religioso del Medioevo: i beni terreni non solo sono effimeri, ma sono lusinghe per l’anima e causa di dannazione; la natura stessa è peccato; il vero cristiano deve perciò rinunziare alla vita attiva e porsi in uno stato di contemplazione e di attesa della vita eterna, che è la vera vita. Era un atteggiamento mentale, questo, al quale certamente non poco aveva contribuito quel diffuso senso di sfiducia in una felicità terrena dovuto alle devastazioni, alle stragi, alle epidemie, alle carestie che avevano caratterizzato i secoli dell’alto Medioevo: non essendo riusciti ad evitare il dolore, gli uomini finivano non solo con l’accettarlo, ma col sublimarlo, nella speranza che esso assicurasse almeno la gioia eterna in cielo. Da questa posizione mistica ed irrazionale nascevano da una parte le aberranti conclusioni eretiche dei Catari, che finirono col predicare una specie di suicidio universale; dall’altra la reazione razionale della filosofia cristiana, soprattutto quella di S. TOMMASO D’AQUINO (1221-1274), il quale con la sua imponente Summa theologica cercò una conciliazione tra l’aristotelismo ed il cristianesimo, dando al pensiero cristiano una sistemazione organica e razionale. Documentarie della vita e degli atteggiamenti culturali del tempo sono anche le cronache, che ora fanno la storia di città, di monasteri, di confraternite; ora sono relazioni di eventi importanti. Il loro latino non è retorico come quello dei dictatores – cioè di coloro che scrivevano le lettere ufficiali delle cancellerie obbedendo a tutte le regole delle artes dictandi – e neanche dotto come quello dei teologi e dei filosofi: è più sciolto e più vivo. Tra le cronache del tempo, bella è quella scritta da SALIMBENE DE ADAM o DA PARMA (1221-1288): con una narrazione spedita e ricca di aneddoti l’autore ci da un vivace e colorito quadro della storia e della vita della sua città; il suo latino ha il sapore dell’immediatezza, si arricchisce di espressioni tratte dalla lingua viva del popolo e si presta perciò a facile e gradevole lettura.

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Il Duecento

La letteratura francese e la sua diffusione in Italia Nel corso del Duecento la Francia esercitò vera egemonia culturale sull’Europa. In modo particolare sull’Italia: sia per la vicinanza geografica tra le due regioni sia per i frequenti scambi commerciali – è questo il periodo in cui i mercanti italiani frequentavano assiduamente la Francia – sia ancora per il fatto che l’Italia – giova ripeterlo –, non ancora pervenuta ad una produzione letteraria in lingua volgare, era disposta ad accogliere dalla Francia ispirazione e modelli. L’idioma neolatino della Francia settentrionale era detto lingua d’oil (= sì). In questa lingua si era avuta una vasta produzione epico-narrativa che, per la diversità degli argomenti, si divideva in tre cicli: •

CICLO CAROLINGIO: erano le chansons de geste ispirate alle imprese bellicoreligiose che Carlo Magno ed i suoi leggendari paladini avevano compiuto per salvare la douce France (dolce Francia) e la fede cristiana dagli assalti degli Arabi musulmani.



CICLO BRETONE: era costituito da romanzi cortesi in cui si narravano le avventure di re Artù e dei suoi cavalieri della “tavola rotonda” con prevalenza dell’elemento amoroso ed avventuroso. Esso nasceva dall’importazione nella Francia del Nord delle idealità cortesi elaborate dai trovatori provenzali.



CICLO CLASSICO: rievocazione romanzata e medioevalizzata – secondo il tipico atteggiamento acritico ed antistoricistico del Medioevo8 – di personaggi e vicende della storia greco-romana.

Di tali cicli, quello carolingio, dato il suo contenuto fatto di imprese eccezionali, di straordinari e sovrumani atti di valore, di leggendario eroismo, fu soprattutto delizia del popolo, al quale quelle imprese erano raccontate da trovieri nelle fiere ed in ogni altra affollata riunione. Pubblico più aristocratico, costituito dalla nobiltà feudale prima, signorile poi, ebbero gli altri due cicli; quello bretone in modo particolare, data la sua ispirazione avventurosa e cortese e la presenza dell’elemento amoroso, fu lettura prediletta dei cortigiani e soprattutto delle cortigiane. Diffusasi nell’Italia settentrionale, quella materia epico-narrativa trovò anche presso di noi largo favore di pubblico. Testimonianze della diffusione dei romanzi cortesi e delle leggende classiche nell’ambiente aristocratico e gentilizio ci vengono dalla Divina Commedia di Dante. Nell’Inferno, Francesca da Rimini confessa al poeta che a farla cadere in peccato fu la lettura di un romanzo bretone: Noi leggiavamo un giorno per diletto di Lancialotto, come amor lo strinse: soli eravamo e sanza alcun sospetto.9

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Si raccontava di Catilina che ascoltava la messa a Fiesole, di Sardanapalo diventato un re della Grecia; si narrava che ai funerali di Alessandro il Macedone assistessero i frati con le croci. 9 Dante Alighieri, Inf., 5, 127-129.

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Il Duecento Nel Paradiso, parlando delle usanze femminili delle generazioni passate, Dante afferma: l’altra, traendo a la rocca la chioma, favoleggiava con la sua famiglia d’i Troiani, di Fiesole e di Roma.10

E gli Italiani non si contentarono di stare a sentire o di leggere: si diedero a comporre componimenti ad imitazione delle chansons francesi e lo fecero in una lingua fondamentalmente francese, ma corrotta da forme volgari italiane o meglio venete. Fu così che nacquero i poemetti franco-veneti, nei quali il carattere di seria epica patriottica e religiosa, che quella materia aveva avuto in Francia, si dissolveva, divenendo per noi semplice diletto dell’immaginazione. La ragione di questa maniera nuova e disincantata di considerare quella materia era nel fatto che poco o niente ci commuovevano le prodezze dei paladini o la rotta di Roncisvalle o la morte di Roland (Orlando). «Noi eravamo pratici: le nostre città marittime si arricchivano coi commerci, nelle nostre Università si studiava il diritto romano, i nostri Comuni combattevano per la loro libertà; pratici e sempre un po’ increduli, sempre con un po’ di paganesimo nelle ossa» (Bartoli). Ancora in lingua d’oil erano stati composti in Francia poemi didattico-allegorici. Uno di tali poemi, il più importante, fu il Roman de la rose (Romanzo della rosa) che, diffuso in Italia con successo, provocò anche tra noi il fiorire della letteratura didattica prima in latino e in francese, poi in volgare. L’uso della lingua d’oil, ossia del francese, andava intanto diffondendosi anche in Italia, essendo quella lingua – a giudizio di Brunetto Latini – «la più deliziosa e la più comune a tutte le genti». Ed infatti lo stesso Latini – del quale si parlerà in seguito – compose in francese il Trésor, una vasta opera enciclopedica che raccoglieva tutta la scienza del tempo. Anche MARCO POLO (Venezia, 1254-1324), allorquando pensò di narrare le straordinarie avventure del suo viaggio attraverso l’Europa e l’Asia fino alla Cina e al Giappone, volle farlo in francese per dare al suo racconto più vasta risonanza. Nacque così il Milione – il titolo deriva dal soprannome dello stesso autore – un interessantissimo libro di viaggi, ricco di precise indicazioni geografiche e realistiche note di costume, eppure avvolto, data l’eccezionalità per quei tempi di simili esplorazioni turistiche, da un certo alone di fiaba.

La letteratura provenzale e la sua diffusione in Italia Nella Francia meridionale intanto, e più precisamente nella Provenza, si era formata un’altra lingua neolatina: la lingua provenzale o d’oc (= sì), detta anche linguadoca. Ed in questa lingua era sorta una poesia lirica preminentemente d’amore. Il poeta provenzale, il trovatore (o trovadore o trobadore, dal verbo trobar, comporre), era quello che oggi si dice un “cantautore”: scriveva le sue poesie, le metteva in musica e le cantava lui stesso, 10

Dante Alighieri, Par., 15, 124-126.

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Il Duecento accompagnandosi col suono di uno strumento musicale a corde; frequentava i castelli feudali, innamorando di sé la cortigiana – a volte anche innamorandosene – e componendo per lei liriche d’amore, che erano un’unica, estatica contemplazione della sua bellezza. Ma l’aspetto più interessante della poesia trovadorica è nella conquista e nell’affermazione di due concezioni nuove (nuove in rapporto al suo tempo e che essa tramanda a tutta la società successiva): quella della cortesia e quella della gioia (joi). Ecco come BERNARD DE VENTADORN (1150 - 1195) esprime l’ebbrezza della gioia in una delle più belle poesie provenzali: Can l’erba fresch’e.lh folha par e la flors boton’el verjan e.l rossinhols autet e clar leva sa vots e mou so chan, joi ai de lui, e joi ai de la flor e joi de me e de midons major; daus totas partz sui de joi claus e sens, mas sel es jois que totz autres jois vens.11

Oppure il concetto di amore quale fonte di piacere-dolore (algolagnia): Bel m’es can eu vei la bròlha reverdir per mei lo brolh e.lh ram son cubert de folha e.l rossinhols sotz de folh chanta d’amor, don me dolh; e platz me qued eu m’en dolha, ab sol qued amar me volha cela qu’eu desir e volh.12

Molti furono i trovatori provenzali che, nel loro spostarsi di castello in castello, attraversarono le Alpi e giunsero in Italia, visitando le corti feudali del Monferrato, della Marca Trevigiana, della Lunigiana, Sull’esempio di questi poeti provenzali alcuni poeti italiani si cimentarono in quella poesia, usando come strumento dell’espressione letteraria non la propria lingua materna, ma la lingua stessa dei poeti provenzali. Ma appartenendo essi, per la maggior parte, non all’ambiente feudale, bensì a quello cittadino e borghese, le loro poesie si arricchirono di un nuovo tema, quello politico; e così LANFRANCO CIGALA, BONIFACIO CALVO, BARTOLOMEO ZORZI scrissero versi indignati per le tristi condizioni della patria. 11

«Quando appaiono nuova erba e nuove foglie, quando i fiori sbocciano sui rami, e quando l’usignolo leva alta e forte la sua voce e comincia a cantare, provo gioia grazie ad esso, provo gioia per i fiori, provo gioia per me e soprattutto per la mia Donna [Domina Cordis Mei, Signora del mio Cuore]; sono circondato dalla gioia da ogni parte, ma Ella è la gioia dalla quale tutte le altre gioie mi giungono». 12 «Mi piace guardare gli alberi diventare verdi in mezzo al bosco, mentre i rami si coprono di foglie e l’usignolo sotto le foglie canta d’amore, che mi fa soffrire; e soffrire d’amore per me è una gioia, se volesse amarmi solo colei che desidero e bramo».

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Il Duecento Il più famoso dei poeti italiani in lingua provenzale fu SORDELLO DA GOITO, che ebbe vita avventurosa e movimentata e dimorò per molti anni in Provenza. La sua fama è dovuta non solo alla padronanza che egli ebbe della lingua poetica provenzale, ma anche al fatto di essere stato immortalato da Dante nella Divina Commedia (Purgatorio, canto VI) come simbolo di coscienza civile e di amor di patria. Ciò perché Sordello compose, tra l’altro, un Compianto per la morte di un nobile signore feudale, ser Blacatz: in questa poesia, contrapponeva, dolendosene, l’inettitudine dei più grandi signori del tempo alle virtù del morto. Forse la poesia era ispirata a semplice polemica politica; ma Dante vi ravvisò, o volle ravvisarvi, sdegno e rammarico per le tristi condizioni italiane del tempo.

La poesia popolare Accanto a queste manifestazioni letterarie delle origini, riflesse e culte, non mancarono forme di letteratura popolare per lo più in versi. La ricognizione di tale produzione non è però sempre facile, dal momento che gli autori sono rimasti in gran parte sconosciuti (dato il carattere anonimo di molti componimenti) e molte opere sono andate perdute perché diffuse soltanto oralmente. Caratteristiche comuni di tali forme letterarie sono: il legame con le consuetudini di vita, le tradizioni, la mentalità del popolo; l’uso degli idiomi volgari locali; la destinazione ad un pubblico assai vasto che non escludeva i ceti popolari, i quali, anche se analfabeti, fruivano con l’ascolto di tale letteratura. Non bisogna credere, però, che gli autori di questa poesia popolare siano stati degli indotti; spesso erano uomini di cultura che preferivano alle forme culte e riflesse quelle più popolari e spontanee, mirando ad un certo pubblico e a certe finalità: lo svago, ad esempio, oppure l’edificazione morale e religiosa.

La poesia giullaresca Erano detti “giullari” (dal latino joculares – giocolieri) certi avventurieri della parola che, avendo talento e spirito – nonché una discreta cultura – andavano per le corti e per le piazze delle città improvvisando e declamando versi, recitando mimi, esibendosi in bravure di saltimbanchi e prestigiatori. Le loro poesie, quasi sempre accompagnate da musica, avevano ritmi e forme metriche assai vari (cantilene, frottole, cantari, rispetti, strambotti, canzoni a ballo); i temi erano quelli che maggiormente divertivano il popolo e la società tutta del tempo: il lamento della donna malmaritata (delusa cioè del proprio marito); la serenata portata dall’amante alla sua donna; la ragazza che chiede alla madre un marito; il contrasto tra l’uomo che chiede amore e la donna che si rifiuta, ma che finisce alla fine per cedere; l’addio degli amanti all’alba. A volte l’argomento di questi componimenti diveniva più serio e più grave e, interpretando il malumore dell’opinione pubblica, lamentava – perciò questi componimenti erano detti “lamenti” o “lai”13 – la decadenza dei costumi e della vita pubblica, le sconfitte militari, la morte di qualche saggio uomo politico. 13

Celebri i Lais amorosi di Maria di Francia (sec. XII).

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Il Duecento Un Contrasto tra un giovane che chiede le belle grazie di una ragazza e la riluttanza ed infine l’acconsentimento di questa fu composto dal siciliano CIELO (o Ciullo) D’ALCAMO intorno al 1240. È una poesia assai mossa e vivace, nella quale il tono passa da espressioni letterarie e raffinate a cadenze ed atteggiamenti di poesia popolare. Compare, in questa poesia, un tema che sarà poi ampiamente ripreso soprattutto dal teatro comico: quello del dongiovanni e delle sue bravate.

La poesia religiosa La poesia religiosa rappresenta un filone assai ricco e valido della letteratura del Duecento. E ciò non soltanto per effetto di un ambiente ancora medioevalmente mistico ed ascetico, ma anche perché era quello un periodo di forti fermenti religiosi. I moti ereticali dei Catari e dei Valdesi, se da una parte minacciavano di infrangere l’unità della Chiesa, d’altra parte ispiravano nei fedeli una spiritualità nuova, una fede meno legata alle affermazioni catechistiche ed alle controversie dogmatiche, ma più profondamente sentita e sofferta. La caratteristica fondamentale della poesia religiosa del Duecento è, infatti, proprio qui: nel disinteressarsi delle questioni teologali, argomento della trattatistica religiosa e filosofica, e nell’esprimere, con spontaneità ed immediatezza – a volte anche con malcelata rielaborazione dotta – l’intimità del sentimento e le ansie della fede. a) S. Francesco d’Assisi Di tale poesia la voce più alta fu SAN FRANCESCO D’ASSISI. Nato nel 1182 in una famiglia di ricchi mercanti – il padre commerciava in Francia e sembra che per questo abbia dato al figlio il nome di Francesco –, condusse una giovinezza mondana quale il suo stato sociale gli permetteva. Poi, dopo aver partecipato ad un’azione di guerra contro la vicina Perugia ed aver sofferto la prigionia, avvertì il richiamo della fede: convinto che la sua missione terrena dovesse essere quella di alleviare l’umana sofferenza, rinunziò ai suoi beni e si diede ad un instancabile ed eroico apostolato di carità. Attratti dal suo esempio, lo seguirono presto altri giovani della sua città: per essi scrisse una Regola, per la quale chiese l’approvazione papale. La ottenne da Innocenzo III prima, poi ufficialmente da Onorio III: nasceva così l’ordine francescano. Sfinito dall’apostolato e dalle privazioni, moriva nel 1226 ad Assisi. Oltre alla Regola ed al Testamento Francesco compose, qualche anno prima della morte, il Cantico delle creature. Si tratta di una poesia – o meglio di una prosa ritmata – scritta in volgare umbro, in cui non mancano, però, francesismi e latinismi. È tale la carica mistica che si esprime nel Cantico, che qualcuno ha creduto che esso fosse stato composto durante il delirio di una malattia, quasi in uno stato di trance. In effetti, ad ispirare il Cantico era l’ammirazione entusiastica e quasi fanciullesca del santo per le bellezze del creato e quindi l’amore sconfinato verso Dio, creatore di tante bellezze14. La tensione mi14 Non è chiaro se nel Cantico il Santo lodi Dio per aver creato tante bellezze, o se, invece, inviti le bellezze dell’universo a lodare Dio, loro creatore. La differente interpretazione – che del resto non muta affatto il significato mistico del Cantico – dipende dalla diversa interpretazione che si da al

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Il Duecento stica in san Francesco non è rinunzia alla vita e alla natura – secondo il tipico atteggiamento ascetico del Medioevo già riscontrato nel De contemptu mundi di Innocenzo III – ma capacità di sentire in esse la presenza di Dio, in una visione se non panteistica, certamente armonica e mirabile dell’universo. Errerebbe comunque chi credesse che nel Cantico manchino assolutamente riflessi dottrinari ed una certa accorta elaborazione: lo dimostrano il tono biblico che riecheggia i salmi di Davide, la precisa aggettivazione ed il tono oratorio. b) Le laude Verso la metà del secolo, promosso da un certo Ranieri Fasani, coerente con l’ardore mistico ed i fermenti religiosi del tempo, nacque in Umbria il moto detto dei battuti (o flagellati o disciplinati). Si trattava di uomini e donne, per la maggior parte di estrazione popolare, che sentivano la religione fino al parossismo, apparendo veri e propri fanatici della rinunzia e della mortificazione e ponendosi così a mezza strada tra l’ortodossia cattolica e l’eresia catara. Riunendosi in processione e percuotendosi a sangue, percorrevano le vie delle città e i sentieri di campagna, cantando lodi a Cristo, alla Vergine, ai santi. Nacquero così le laude, composizioni per la maggior parte in volgare umbro con certo ritmo e cadenza poetica. Si trattava, per lo più, di composizioni anonime; e non solo perché mai o quasi mai i verseggiatori firmavano i loro componimenti, ma soprattutto perché essi non avevano vera personalità di poeti: erano solo onesti artigiani che preparavano gli strumenti necessari al servizio del culto. Quelle di Ranieri Fasani non furono che alcune di quelle numerosissime confraternite laiche che popolarono il Duecento e che avevano lo scopo di pregare in comune per i vivi e per i morti e di operare tali opere che valgano ad ottenere presso Dio la remissione di tutti i peccati. E furono proprio queste confraternite che curarono la raccolta di tali componimenti in laudari, tramandandoli così di generazione in generazione. c) Iacopone da Todi Tuttavia, qualche nome di autore di laude pur ci è stato tramandato. Di essi il più grande, anzi l’unico realmente grande, fu IACOPONE DA TODI. Nato intorno al 1230 a Todi (dove morirà nel 1306) si chiamava Iacopo de’ Benedetti, aveva compiuto gli studi a Bologna ed esercitava la professione di notaio, conducendo vita mondana e peccaminosa. Ma quando morì la moglie per un incidente e lui scoprì che portava un cilicio, rimase profondamente turbato e soffrì una drammatica crisi di coscienza: rinunziò ad agi e ricchezze e si fece francescano. E poiché in quel tempo l’Ordine si era diviso in due correnti: quelli che volevano temperare la Regola di S. Francesco (i conventuali) e quelli, invece, che volevano renderla ancor più dura e sacrificante (gli spirituali), Iacopone fu naturalmente per questi ultimi. E con questi prese anche posizione contro Bonifazio VIII, firmando il manifesto di Lunghezza (1297) con cui il pontefice era dichiarato decaduto perper (preposizione causale o preposizione d’agente): «Laudato si’, mi Signore, per frate vento, et per aere et nubilo et sereno, et onne tempo, […] Laudato si’, mi Signore, per sor’acqua…»

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Il Duecento ché simoniaco. Il risultato fu che venne gettato in carcere dal papa e vi rimase finché il nuovo pontefice, Benedetto XI, non lo fece liberare (1303). L’ansia religiosa di Iacopone è sostanzialmente diversa da quella di San Francesco. Nel poverello d’Assisi l’amore a Dio non escludeva l’amore alla vita ed alla natura, anzi si realizzava proprio attraverso l’ammirazione entusiastica, fanciullesca di fronte al Creato. In Iacopone, invece, l’amore a Dio non può essere che rinunzia totale al mondo, considerato motivo continuo di dannazione. Era forse effetto di diversità d’esperienze di vita o di temperamento: certo, alla visione serena e serafica dell’esistenza e della fede stessa offerta da San Francesco fa riscontro in Iacopone una concezione pessimistica della vita, intesa come intimo, continuo travaglio. Perciò la poesia di Iacopone non conosce la levità di quella di Francesco: è più tormentata e drammatica; non nasce da estasi, ma da macerazione interiore. Un vero furore ispira le sue laude: ora di indignazione contro la corruzione, soprattutto quella papale, ora di mortificazione; ed allora il poeta augura a sé tutte le malattie più ributtanti e dolorose: A me vegna mal de dente, mal de capo e mal de ventre, a lo stomaco dolor pognente, e ’n canna la squinantìa15.

Uomo di cultura, Iacopone scrisse anche inni religiosi in latino, come lo Stabat Mater. Quando scrisse in dialetto umbro, lo rese illustre, ripulendolo dagli elementi troppo municipali. Suo capolavoro è considerato a buon diritto il Pianto della Madonna, una lauda drammatica in quanto la morte di Cristo ed il dolore della Madonna non sono liricamente rievocati dall’autore, ma espressi attraverso il dialogo degli stessi personaggi: Cristo:

Mamma, per che te lagni? Voglio che tu remagni, che serve li miei compagni, ch’ai mondo ajo acquistato.

Maria:

Figlio, questo non dire, voglio teco morire: non me voglio partire fin che mo’ m’esce il fiato.

Dalla lauda drammatica di Iacopone da Todi, prima ed elementare drammatizzazione della nostra letteratura, trarranno origine la sacra rappresentazione ed il teatro religioso e profano in genere.

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E in gola l’angina.

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Il Duecento

La poesia didattica A mezza strada tra la poesia popolare e quella riflessa è la poesia didattica. Essa, infatti, se da una parte tiene conto di tutto un substrato culturale che va dalla letteratura religiosa mediolatina a quella didattica francese, d’altra parte è diretta ad un pubblico assai vasto e non persegue quasi mai interessi formali, bensì d’elevazione morale e culturale. Proprio per questa sua finalità edificatoria essa è un importante documento letterario di quello che era l’ambiente morale e culturale del Duecento. Se, infatti, la poesia didatticomorale esprime le preoccupazioni morali e religiose del tempo, la poesia didatticoculturale risponde all’esigenza del nuovo ordine borghese di allargare, anche a fini di utilizzazione pratica, le proprie conoscenze culturali. La poesia didattico-morale Rivolta a larghi strati popolari fu la poesia didattico-morale, che ebbe nella Lombardia – intesa nell’accezione medioevale come Italia longobarda o settentrionale – il suo ambiente geografico. La sua lingua, perciò, fu un volgare alto-italiano che gli autori cercarono, senza però riuscirvi se non raramente, di sprovincializzare e rendere illustre. Questi autori, infatti, erano dotati di buona cultura e se non raffinarono la propria arte fu perché sapevano di rivolgersi ad un pubblico popolare per il quale avevano maggior sapore le espressioni fatte di una certa rozza materialità. GERARDO PATECCHIO, nato a Cremona verso gli inizi del secolo, fu notaio e funzionario del Comune. In un poemetto di circa seicento versi, intitolato Splanamento dei proverbi di Salomone, volle illustrare, sempre a fine edificatorio, i precetti morali attribuiti a Salomone, aggiungendone anche altri tratti dalla tradizione popolare. UGUCCIONE DA LODI, del quale non si conosce neanche il tempo in cui visse, fu autore di un grosso poema intitolato Il libro, tutto ispirato dal risentimento per i vizi della sua società e dalla meditazione sui destini ultraterreni dell’uomo. A queste preoccupazioni ultraterrene, al destino cioè dell’anima dopo la morte, s’ispirarono anche GIACOMINO DA VERONA ed il milanese BONVESIN DE LA RIVA, dei quali si hanno notizie assai scarse. Il primo compose due poemetti in quartine, intitolati De Jerusalem celesti e De Babilonia infernali, nei quali sono descritte le gioie del paradiso e le pene dell’inferno, il secondo compose un poema, anch’esso in quartine, intitolato Il libro delle tre scritture. Il poema, infatti, si divide in tre sezioni: la “scrittura negra” descrive le pene dell’inferno; “la scrittura rossa” narra la passione redentrice di Cristo; la “scrittura dorata” descrive i gaudi del cielo. Tanto nel poema di Giacomino da Verona quanto in quello di Bonvesin de la Riva la rappresentazione dell’aldilà è assai rozza: pene infernali e premi celestiali sono materializzati ed hanno una loro terrena corporeità. Ma è caratteristica, questa, non dovuta tanto a limiti di immaginazione poetica, quanto all’esigenza di tener conto di tutta una tradizione popolare e di soddisfare il gusto e la fantasia di gente semplice. Bisognerà attendere Dante perché questa materia informe possa ricevere il suggello dell’arte e trasformarsi in vera poesia.

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Il Duecento La poesia didattico-culturale Se lombardo fu l’ambiente geografico della poesia didattico-morale, toscano fu quello della poesia didattico-culturale. E come quella si rifece soprattutto al substrato della letteratura religiosa in latino, così questa si rifece al substrato della letteratura didattica francese. Tramite tra il substrato culturale francese e questi poemetti didattico-culturali fu proprio il già citato Trésor, quella vasta opera enciclopedica che BRUNETTO LATINI (Firenze, post 1220-1294) compose in lingua d’oil, mentre si trovava in Francia, costrettovi dall’esilio per le tempestose vicende politiche fiorentine. Poi lo stesso Latini compose, sempre nell’esilio di Francia il Tesoro, che fu chiamato Tesoretto per distinguerlo dal Trésor scritto in francese. Si tratta di un poemetto in volgare italiano, composto di settenari rimati a coppie. In una cornice narrativa, nella quale si racconta un immaginario viaggio in altrettanto immaginarie località, l’autore raccoglie tutto il sapere del tempo in ordine alla cosmologia, alle scienze naturali, alla teologia e alla morale. Non si conosce invece l’autore del Fiore – attribuito ad un certo ser Durante, forse lo stesso Dante Alighieri16 – un poema formato da oltre duecento sonetti: l’autore, che fu certamente un uomo di cultura e non privo di capacità artistiche, compendia in questi sonetti il Roman de la Rose, rendendolo però più leggero e vivace. Sconosciuto anche l’autore dell’Intelligenza – a proposito del quale si sono fatte altre congetture e si è parlato di Dino Compagni – un poemetto in nona rima nel quale, in un complicato tessuto di allegorie, si presentano esemplari azioni di virtù e si sostiene che l’Intelligenza, emanata da Dio, deve guidare l’umana esistenza. Questi poemi didattico-culturali, se da una parte restano ancorati alla concezione culturale latino-medioevale – aspirazione all’unità ed universalità del sapere, gusto delle compilazioni enciclopediche, accettazione acritica della scienza – d’altra parte compiono una funzione socio-culturale di grande rilevanza, poiché fanno proprio il compito di diffondere la scienza tra gli indotti. A questo compito, infatti, voleva alludere Dante quando, componendo un’altra silloge culturale – il Convivio – dirà di volerla dedicare a coloro che «non seggiono a quella mensa dove lo pane de li angeli si manuca»17.

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Il nome di “ser Durante” compare – a mo’ di firma – nel Fiore. Si ritiene, dato il valore discontinuo dell’opera, che l’autore possa essere l’Alighieri, che abbia voluto nascondersi per via del carattere raffazzonato della traduzione dal francese. Altrimenti sarebbe difficile non avere assolutamente alcuna notizia su un poeta comunque capace di un lavoro non comune (232 sonetti) come questa versione del Roman de la Rose. Altra traduzione del poema francese è il frammento (oltre 400 versi) noto come Detto d’Amore. 17 Dante Alighieri, Convivio, Tratt. 1, 1.

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Il Duecento

La lirica d’arte Mentre la poesia popolare – tanto la giullaresca quanto la religiosa – e la poesia didattica non perseguivano fini prettamente artistici, mirando ora a dilettare, ora all’effusione degli aneliti mistici, ora all’edificazione morale ed anche culturale, la lirica d’arte, che andava contemporaneamente affermandosi, si proponeva soprattutto elevatezza di lingua e di stile. Per questo essa, almeno agli inizi, non poteva trascurare precedenti esperienze letterarie, quelle liriche in lingua d’oc soprattutto, apparendo pertanto riflessa e dotta. Ciò, naturalmente, soltanto fin quando ai modelli ed alle regole della “scuola” non si uniranno intuizioni poetiche nuove e tempre vere di artisti.

La scuola siciliana La prima poesia che mirasse ad elevatezza di stile sorse in Sicilia intorno alla corte dell’imperatore Federico II di Svevia e fu definita, con espressione tratta da Dante, “scuola siciliana”. Tra i suoi rappresentanti, infatti, vi furono lo stesso FEDERICO II, i suoi figli (MANFREDI, ENZO e FEDERICO D’ANTIOCHIA) e i suoi collaboratori ed uomini di corte. Poi alla scuola si legarono altri poeti d’ogni parte d’Italia, o perché soggiornarono in Sicilia o perché accettarono i temi e i modi dei rimatori palermitani. Temi che la scuola siciliana mutuava dalla poesia provenzale: esaltazione della donna, molto spesso cortigiana, senso di estasi e di smarrimento del poeta dinanzi a lei, sua dichiarazione di vassallaggio nei confronti dell’amata. Ci viene ora da chiedere perché mai i temi e le forme della poesia provenzale abbiano trovato proprio nella lontana Sicilia le condizioni adatte al loro svolgimento; scartata l’ipotesi politico-religiosa – la fuga presso la corte di Federico II di poeti e uomini di cultura catari – rimane quella politico-sociale: la poesia provenzale, sostanzialmente aristocratica e cortigiana, non poteva trovare diffusione nelle città del settentrione d’Italia rette a Comune, bensì in una corte qual era quella di Palermo. Errerebbe però chi credesse che la poesia siciliana abbia accolto in maniera integrale e acritica il mondo feudale che è alla base della poesia provenzale. Non si deve infatti dimenticare che la corte di Federico II era organizzata in senso burocratico e moderno, che i cortigiani erano per la maggior parte di estrazione laico-borghese (notai, giudici, etc.): uomini che, seppure non avvezzi alla dinamica agitata delle controversie politiche comunali, erano estranei alla concezione del vassallaggio feudale. Sicché la scuola siciliana deve essere intesa come un punto di incontro tra la concezione aristocratico-cortigiana della vita e la nuova cultura borghese. Da ciò derivava che i poeti siciliani ripetevano i temi della poesia provenzale, ma senza convincimento e senza partecipazione sentimentale: che è come dire che la loro poesia, priva di spontaneità sentimentale e di fermenti ideali, si risolveva quasi sempre in pura esercitazione letteraria. Ecco perché i poeti di tale scuola si dimostrano privi di una propria fisionomia spirituale, dando l’impressione – è stato detto secondo l’immagine desanctisiana – di spettri

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Il Duecento evanescenti di un’unica processione. D’altro canto bisogna riconoscere ai poeti siciliani il merito di essere stati abili artefici di forme espressive e di lingua poetica. La loro lingua poetica fu il volgare siciliano, che essi distillarono cercando di rendere più elegante e meno municipale; i loro schemi metrici furono vari: tra questi figura il sonetto18, che sembra sia stato creazione di uno dei maggiori rappresentanti della scuola, forse il caposcuola addirittura, il notaio JACOPO DA LENTINI. Altri rappresentanti della scuola furono il funzionario di corte PIER DELLA VIGNA e GUIDO ed ODO DELLE COLONNE. Una citazione a parte spetta a RINALDO D’AQUINO e GIACOMINO PUGLIESE, sempre che si voglia includerli tra i rimatori siciliani. C’è infatti in loro una certa indipendenza da quella che era la tematica consueta della scuola ed anche l’assorbimento di motivi e forme popolaresche. Rinaldo d’Aquino, ad esempio, nel suo noto Lamento di una donna per la partenza dell’amante crociato, uscendo dalla genericità dei temi della scuola, seppe legare la sua poesia ad aspetti e momenti della vita contemporanea; e Giacomino Pugliese, nella più bella delle sue canzoni, Morte perché m’hai fatto sì gran guerra, si espresse con accenti freschi e delicati, sconosciuti senz’altro ai rimatori siciliani: Morte, perché m’hai fatta sì gran guerra, che m’hai tolta Madonna, ond’io mi doglio? La fior de le bellezze mort’hai in terra, per che lo mondo n’è rimasto spoglio. Villana morte, che non hai pietanza! Disparti pura amanza, affini e dai cordoglio; or la mia allegranza post’hai in gran tristanza, che m’hai tolto sollazzo e beninanza ch’aver soglio.

La lirica toscana La battaglia di Benevento del 1266 segnò il declino della potenza sveva in Italia: la scuola siciliana, legata a quella corte, decadde. Meglio, trasferì il proprio centro in Toscana, in gran parte guelfa e fervente di attività e lotte comunali. Qui una schiera di poeti rifece, nei volgari toscani, i temi della poesia provenzale e siciliana: temi però che, per essere cortigiani e feudali, mal si adattavano a quello che era l’ambiente borghese dei Comuni. Ne derivò, quindi, un ulteriore disinteresse per il contenuto ed un’esasperata attenzione agli aspetti tecnici della poesia. Per rivitalizzare la poesia non c’era perciò che una strada: liberarla dai vecchi temi cortigiano-amorosi e legarla alle esperienze vive della vita comunale o nutrirla di cultura e di interessi morali. E questo appunto cercò fare GUITTONE D’AREZZO, che di questa poesia fu il maggiore rappresentante. Nato ad Arezzo dopo il 1230, partecipò attivamente, 18

Quattordici endecasillabi divisi in due sezioni (4+4 e 3+3).

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Il Duecento come guelfo, alla vita politica della sua città. Perciò, quando il guelfismo entrò in crisi in tutta Toscana a seguito della sconfitta subita a Montaperti, Guittone fu costretto all’esilio. Ebbe allora una crisi spirituale ed entrò nell’ordine dei Frati Gaudenti19. Mutarono così i suoi interessi ed anche i temi delle sue liriche, che da amorosi divennero religiosi, moralistici e dottrinari. Anzi, data l’insistenza di tali temi dottrinari, la sua poesia fu definita “dotta”, attributo che poi venne esteso, impropriamente, a tutta quanta la lirica toscana. Tanto nelle Lettere quanto nelle Rime Guittone si compiacque di usare tutti gli artefici della retorica, riuscendo, per questo, pesante ed astruso. Quando, però, le sue ricerche formali servirono a dar forza espressiva ad un’intima passione e ad un sofferto risentimento, allora ottenne il meglio della sua poesia: così è nel Lamento per la sconfitta di Montaperti, dove allo sgomento per il crollo della parte guelfa si aggiunge una virile indignazione contro quelle condizioni civili e morali che determinarono quel crollo. Tra gli altri rimatori toscani basti ricordare BONAGIUNTA ORBICCIANI (Lucca, 1220 ca. - 1290 ca.) e CHIARO DAVANZATI (Firenze): estranei alla riforma operata da Guittone, essi rimasero legati ai temi amorosi. È caratteristica in Bonagiunta l’artificiosità dello stile: l’abbondanza delle allitterazioni e dei giochi di parole fanno addirittura pensare ad una specie di secentismo ante tempus. In Chiaro Davanzati, invece, si nota un atteggiamento diverso del poeta di fronte al tema dell’amore, un atteggiamento che è quasi un preludio dello stilnovismo.

La lirica idealistico-borghese o stilnovista a) La concezione della poesia e dell’amore Nell’ambiente della borghesia comunale, tanto per l’estrazione dei suoi poeti quanto per il pubblico cui era rivolta, si mosse un’altra scuola poetica, anch’essa legata al filone della lirica d’arte e, per questo, alle esperienze poetiche della scuola siciliana e di quella toscana. Caposcuola sembra sia stato il bolognese GUIDO GUINIZZELLI; ma i maggiori rappresentanti della scuola furono fiorentini: GUIDO CAVALCANTI, GIANNI ALFANI, LAPO GIANNI, DINO FRESCOBALDI; o almeno toscani: CINO DA PISTOIA. Dante stesso, alle sue prime esperienze poetiche, si legò a questa scuola, che del resto più che scuola fu un cenacolo di giovani poeti amici tra loro. E fu proprio Dante che a questa poesia diede nome di “dolce stil nuovo” – oggi si dice più comunemente “stilnovismo” – volendo, con questa espressione, individuare soprattutto un rapporto nuovo tra l’ispirazione e la forma: un rapporto fatto di immediatezza espressiva e perciò motivo di una poesia “dolce” e non invece “aspra” ed astrusa qual era stata la toscana. In contrapposizione, infatti, ai poeti toscani – e noi aggiungiamo: anche ai siciliani – Dante poteva rivendicare per sé e per i 19

Si tratta della “Milizia della Beata Vergine Maria”, sorta a meta del secolo XIII a Bologna con l’intento di placare le contese tra fazioni. I frati, in prevalenza nobili e militari, dovettero il nome – immediato e quasi ufficiale – di “gaudenti” all’ironia di chi voleva sottolineare i numerosi privilegi di cui godevano.

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Il Duecento suoi amici il merito di essere pervenuti ad una nuova maniera poetica, nella quale sentimento e forma divenivano una medesima cosa: E io a lui «I’ mi son un, che quando Amor mi spira, noto, ed a quel modo ch’ei ditta dentro vo significando». «O frate, issa vegg’io» diss’elli «il nodo che ’l Notaro e Guittone e me ritenne dal dolce stil novo ch’i’odo! Io veggio ben come le vostre penne di retro al dittator sen vanno strette che de le nostre certo non avvenne».20

La novità di questa lirica non consiste soltanto in una nuova poetica, ma anche nel nuovo modo di cantare la donna e di concepire l’amore; donna e amore che, del resto, costituiscono l’argomento costante della poesia stilnovista. I rapporti poeta-donna erano stati concepiti dalla poesia provenzale e da quella siciliana e toscana in modo cortigiano e feudale: esaltazione della donna e vassallaggio del poeta che si dichiarava suo servitore21. Rapporti, quindi, di cortesia e perciò superficiali ed esteriori: il poeta di fronte alla sua donna si sentiva smarrito per la sua bellezza, non per le sue intime virtù. Nello stilnovismo, invece – che non si muove più entro i limiti della corte, ma nel più libero e vasto ambiente della borghesia comunale – va superata la concezione di un rapporto amoroso inteso come sudditanza e cortesia. Il rapporto poeta-donna si interiorizza, si approfondisce e soprattutto si idealizza. A commuovere il poeta e ad ispirarlo non è la bellezza fisica della donna, ma la sua virtù sublimatrice: è per questo che egli dinanzi a lei non si sente più smarrito, ma ingentilito e reso migliore. L’ingentilimento dell’uomo per effetto dell’amore diviene così una costante della poesia stilnovista e “gentile” ne diviene una parola “chiave”; una parola alla quale gli stilnovisti danno anche un significato nuovo nei confronti di quello che finora aveva avuto: non indicando più nobiltà di nascita e stato sociale, essa assume il significato di nobiltà d’animo e di sentimenti. b) I poeti Iniziatore dello stilnovismo fu il giudice bolognese GUIDO GUINIZZELLI (1235 ca. 1276). La sua canzone Al cor gentil rempaira sempre Amore è considerata il manifesto della nuova concezione dell’amore perché ne contiene tutte le caratteristiche: la spirituale corrispondenza tra l’amore e la gentilezza dei sentimenti, la nobiltà dello spirito che si sostituisce a quella del sangue, la somiglianza della donna ad un angelo del cielo. Ma il più grande poeta stilnovista – fatta esclusione di Dante – ed anche il più originale fu GUIDO CAVALCANTI. Nato a Firenze nel 1255, prese viva parte alle lotte politiche fiorentine quale guelfo bianco e perciò fu esiliato nel 1300 dal Priorato, che nel tentativo 20

Dante Alighieri, Purg., 24, 52-60. Il colloquio è tra Dante e Bonagiunta. Ripetiamo: il termine “Donna” deriva dal latino Domina, nel senso di Domina cordis mei, Signora, Padrona del mio cuore. 21

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Il Duecento di ristabilire a Firenze la pace volle estromettere dal Comune i più accesi uomini di parte22. Nell’esilio di Sarzana il poeta si ammalò di malaria; richiamato in patria, vi morì nello stesso anno. Guido Cavalcanti fece avvertire la sua presenza in più di un secolo di letteratura: Guittone d’Arezzo gli dedicò alcune sue poesie e Dante la Vita nuova (oltre a citarlo in un sonetto e in due passi della Divina Commedia); gli storici Dino Compagni e Giovanni Villani parlarono di lui come di un uomo sdegnoso, tutto preso dai suoi studi e dalle sue riflessioni filosofiche; Boccaccio lo fece protagonista di una novella del Decameron; Petrarca trasse certamente da lui esempi di introspezione psicologica e di motivazioni poetiche; infine Sacchetti, l’ultimo trecentista, lo rifece personaggio di una sua novella. Per Cavalcanti l’amore, insieme con l’ingentilimento, produce profondo turbamento: che non è, però, il turbamento del poeta provenzale o siciliano di fronte alla bellezza della donna, ma un tormento assai più profondo che assale e sconvolge l’animo. A determinare ciò era forse il fatto che per lui, miscredente, l’amore non poteva essere concepito, come per gli altri poeti stilnovisti, quale sublimazione fino a Dio, ma era destinato a produrre soltanto uno stato di struggente inquietudine: Una paura di novi tormenti m’apparve allora sì crudele e acuta che l’anima chiamò: – Donna, or ci aiuta, che li occhi ed io non rimaniam dolenti!23

Tra le più belle poesie di Cavalcanti è la ballata Per ch’io non spero, scritta in esilio e tutta soffusa di dolente malinconia per la lontananza dalla patria e dalla donna amata e per il presagio della fine imminente. Anche CINO DA PISTOIA (Guittoncino dei Sighibuldi, 1265 ca. - 1336 o 1337), l’ultimo degli stilnovisti – sopravvisse infatti allo stesso Dante –, merita un cenno particolare; non tanto per la eleganza e la raffinatezza dei suoi versi, quanto perché si dissolve con lui la concezione dell’amore inteso come mezzo di elevazione spirituale e la donna acquista una fisionomia più umana e terrena.

La lirica realistico-borghese Se i poeti stilnovisti amavano idealizzare la donna e l’amore e, di riflesso, gli atteggiamenti e i modi stessi del vivere, altri poeti loro contemporanei, anch’essi di estrazione borghese e non meno colti, si studiavano di rappresentare gli aspetti realistici della vita e di cogliere le basse passioni umane. Sono questi i poeti che definiremo, perciò, realisticoborghesi. Pur nell’apparente rivolta nei confronti della poesia alta ed idealizzante – quella stilnovista – rivolta espressa mediante una lingua ed una sintassi più vicine a quelle del popolo, questi poeti non hanno niente di realmente popolare: anche la loro è una lirica 22 In quell’anno al Priorato apparteneva anche Dante, che pure era legato a Guido da profondo sentimento di amicizia. 23 Guido Cavalcanti, Perché non fuoro a me gli occhi dispenti, vv. 5-8.

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Il Duecento d’arte, composta di borghesi colti per una borghesia colta ed amante di divertimenti più o meno raffinati. Ed è appunto la destinazione di questa lirica che ci da la migliore chiave per la sua interpretazione. Quando CECCO ANGIOLIERI (Siena, 1260 ca. - ante 1313), uomo dalla vita disordinata, con diverse condanne per indisciplina militare e per ferimento, da di sé il ritratto di uomo scapestrato e cinico – suoi unici parenti: i denari; sue passioni: le donne, il vino, i dadi; suoi desideri: veder morire i genitori e distruggere il mondo – non fa autentica autobiografia e neanche, certamente, capovolge i termini della sua vita morale; ma fa il ritratto poetico – e perciò idealizzato in senso negativo – di un giovane gaudente della borghesia del suo tempo; ci da, insomma, un quadro d’ambiente più che una vera e propria confessione intima. Così pure un quadro d’ambiente, un affresco addirittura, fatto di tinte meno dure e marcate, ma più sfumate e raffinate, è quello che ci offre FÒLGORE DI SAN GIMIGNANO (Iacopo di Michele, 1270 ca. - 1330 ca.) con le sue due “corone” di sonetti, nelle quali descrive divertimenti e svaghi che una lieta brigata può cogliere nei vari mesi dell’anno e nei vari giorni della settimana: E di feb[b]raio vi dono bella caccia di cerbi, cavriuoli e di cinghiari, corte gonnelle con grossi calzari e compagnia che ve diletta e piaccia.

C’è qui la descrizione di «un’esistenza raffinata e preziosa, ispirata a un ideale epicureo, ma guidata dal buon gusto e da un senso raro di eleganza mondana» (Sapegno). Risponde a Folgore – per le rime, è proprio il caso di dirlo – un altro poeta realisticoborghese, l’aretino CENNE (o BENCIVENNE) DELLA CHITARRA, il quale, in una “corona” di tredici sonetti, augurava, naturalmente in tono scherzoso, tutti i fastidi ed i malanni che possono piovere addosso nei vari mesi dell’anno. E di febbraio vi metto in valle ghiaccia con orsi grandi vecchi montanari, e voi cacciando con rotti calzari; la nieve metta sempre e si disfaccia;

Infine ricordiamo il fiorentino RUSTICO DI FILIPPO (o Rustico Filippi, 1230 ca. - 1300 ca.) che, appartenendo alla generazione precedente a quella degli altri poeti realistici, è comunemente considerato l’instauratore di questa corrente poetica. Posizione che sembra essere confermata dal fatto che, prima di scrivere poesie realistiche, Rustico seguì moduli poetici siciliani e guittoniani. Ma qui interessano soprattutto i suoi sonetti realistici, che sono, in buona parte, bozzetti caricaturali di tipi umani: la donna avara o corrotta, il soldato spaccone. Non si creda, però, che sia sinceramente e profondamente comica l’ispirazione di Rustico: c’è sempre, infatti, nei suoi versi una certa tensione polemica, un certo tono tra risentito e sarcastico.

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Il Duecento

La prosa in volgare Poco spazio richiede la trattazione della prosa in volgare, dato il limitato numero di opere, giacché la prosa dotta preferiva la lingua latina o la francese; e ciò che dotto non era preferiva la poesia alla prosa: perché le origini spontanee e non riflesse di ogni letteratura hanno sempre conosciuto prima il linguaggio fantasioso ed immaginifico della poesia, poi quello più logico e meglio articolato della prosa. Non è possibile, insomma, pensare che potessero essere composte in prosa le laude mistiche, i contrasti giullareschi, i lamenti o gli stessi cantari popolari di materia carolingia. Comunque, nel corso del secolo anche la prosa fu percorsa dal processo di affinamento espressivo e stilistico che aveva attraversato la poesia; sicché a fianco della poesia d’arte si riscontra la presenza di una prosa d’arte, anche se meno consistente e pregevole. Era stato il retore bolognese GUIDO FABA a proporre, nella prima metà del secolo, modelli di prosa volgare costruiti sulla base delle norme che regolavano la prosa latina. Seguendo i modelli del Faba, GUITTONE D’AREZZO aveva composto le sue Lettere e BRUNETTO LATINI la sua Retorica. Ma l’opera più pregevole in prosa volgare è il Novellino (o Le cento novelle antiche): una raccolta di cento novelle, opera di ignoto autore toscano, composta probabilmente nell’ultimo ventennio del secolo. Col Novellino ci muoviamo sempre nell’ambito di una letteratura riflessa nell’ispirazione e borghese nella destinazione: le novelle, infatti, più che essere invenzione dell’autore, sono una trascrizione da lui operata di novelle tratte da fonti diverse; e l’autore, nella prima novella, afferma che egli scrive per diletto dei cuori gentili e nobili, confessando così di rivolgersi alla borghesia non incolta, che considerava il novellare uno degli svaghi più divertenti e raffinati. Le novelle di questa raccolta sono assai brevi, sì da somigliare ad aneddoti più che a vere e proprie novelle. Ciononostante, la loro abile strutturazione, tale da tenere avvinto e sospeso l’interesse del lettore fino alla battuta conclusiva, fa di esse dei piccoli capolavori di arte narrativa. E chiudiamo questa rapida rassegna della prosa volgare del Duecento ricordando L’istoria fiorentina di RICORDANO MALISPINI, il migliore esempio delle “cronache” con cui i Comuni volevano lasciare traccia della loro operosità e della loro agitata vita politica.

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Il Trecento

Il quadro storico-culturale Tra l’ambiente storico del Duecento e quello del Trecento non c’è soluzione di continuità; anzi i due secoli costituiscono una fase unica che si evolve senza presentare fratture. Continua, infatti, nel Trecento quella crisi dei due sommi poteri medioevali, il Papato e l’Impero, già in atto nel secolo precedente. Ad accelerarla è il rafforzamento degli Stati nazionali (soprattutto in Inghilterra e Francia) ed in Italia delle Signorie e degli Stati regionali, contro cui si infrangono contemporaneamente il sogno di restaurazione teocratica di Bonifazio VIII e quello di restaurazione imperiale di Arrigo VII di Lussemburgo. Né è soltanto crisi del Papato, teocraticamente inteso, ma crisi della Chiesa stessa come guida religiosa: in questo secolo avvengono, infatti, prima il trasferimento della sede papale ad Avignone in Francia, poi l’inizio dello scisma che, per decenni, dividerà in due tronconi la cattolicità. Insieme alla crisi dell’universalismo politico-religioso, anzi in connessione con essa, continua nel Trecento il processo di differenziazione linguistica e culturale. Per quanto riguarda l’Italia, il latino sopravvive, ma sempre più relegato nell’ambito chiesasticodottrinale; vien meno anche l’uso del francese, che nel secolo precedente aveva costituto un elemento unitario di cultura tra regione francese ed italiana. Roma decade sia come centro ideale della Chiesa e dell’Impero che come centro culturale, sostituita da Firenze e Napoli: e non solo per essere le due città sedi di due illustri Studi (lo Studio fiorentino e l’Università di Napoli), ma anche e soprattutto perché esse rappresentano i punti nevralgicamente più attivi della vita politica italiana. Altro tratto caratterizzante del Trecento è il trionfo della borghesia (anch’esso, però, già evidenziatosi nel corso del secolo precedente): il prevalere di un ordine costituito da attivi mercanti, ricchi banchieri, abili artigiani. È un successo che si sviluppa non soltanto ai danni della vecchia aristocrazia feudale (come dimostrano l’evoluzione popolare del Comune e l’istituirsi della Signoria), ma anche ai danni del popolo minuto che, nonostante i suoi sollevamenti – come quello dei Ciompi a Firenze – finisce col restare ai margini e della vita economica e di quella culturale. La letteratura del Trecento, infatti, si fa sempre più borghese: trova cioè nella borghesia il suo pubblico. Si ode qualche voce del popolo e per il popolo, ma è voce sporadica di protesta o di anelito religioso. In conclusione, il Trecento è un secolo di transizione; suggella la fine del Medioevo e preannunzia gli ideali umanistici: non a caso esso si apre con la Commedia divina di Dante e si chiude con la commedia umana di Boccaccio, il Decameron.

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Il Trecento

Dante Alighieri Al cenacolo dei poeti idealistico-borghesi o stilnovisti apparteneva anche Dante Alighieri, amicissimo di Guido Cavalcanti e di poco più giovane di lui. Ma quella che per gli amici stilnovisti doveva essere l’unica, fondamentale esperienza poetica, per Dante era invece soltanto il primo giovanile incontro con la poesia. Poi la sua tempra di uomo, la sua intuizione della vita, la sua fantasia poetica gli dovevano additare tappe nuove e diverse alle quali doveva essere affidata la sua fama di sommo poeta.

La Firenze di Dante Quando già i maggiori Comuni italiani si erano trasformati in signorie e principati, Firenze viveva ancora il periodo più movimentato e drammatico della lotta politica comunale. Angustiato, il popolo credeva che fosse questa la vendetta di Marte, dio della guerra, defenestrato, quale protettore della città, da S. Giovanni Battista. Qualcuno, più illuminato, ravvisò nell’invidia dei cittadini e nella loro ingordigia, la causa di tanti contrasti e tante sciagure; tra questi era Dante stesso: superbia, invidia ed avarizia sono le tre faville e hanno i cuori accesi.24

La realtà era ben altra: il Comune di Firenze era troppo operoso e ricco, troppo fervente di attività culturale, troppo strategicamente importante la sua posizione per non essere esso risucchiato dalla lotta per la supremazia che Impero e Papato si andavano facendo in Italia. E così Firenze di volta in volta si faceva ghibellina o guelfa, sostenitrice dei diritti imperiali o alleata del Papato. Né per essa era soltanto una questione di politica estera, ma anche di contrasti interni: a sostenere l’Impero era infatti soprattutto l’antica nobiltà di origine feudale; a parteggiare per il Papato era invece la nuova borghesia nata dalle alacri attività economiche cittadine. E quando l’una parte riusciva a far prevalere la propria linea politica e andare al governo del Comune, per l’altra non restava che la via dell’esilio. Alla fine la parte ghibellina soccombette per sempre e il Comune restò guelfo: ciò coincideva con la sconfitta del re svevo Manfredi a Benevento nel 1266. Ma non per questo Firenze aveva pace duratura. Tra la fine del Duecento ed i principi del Trecento la stessa parte guelfa si scindeva e la lotta politica riprendeva tra Bianchi e Neri. Non si trattava di semplice contrasto tra potenti famiglie cittadine (Bianchi i Cerchi e Neri i Donati): alla base del nuovo contrasto c’era anche il dissidio sull’eccessiva ingerenza che il Comune guelfo stava concedendo al Papato, sicché la città sembrava essere sul punto di perdere la propria indipendenza. Perciò una parte dei guelfi si staccò dal governo della città: erano i Bianchi fautori di una maggiore indipendenza e autonomia cittadina. Naturalmente, come sempre avviene nella polemica politica, i Bianchi indipendenti24

Dante Alighieri, Inf., 6, 75.

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Il Trecento sti, nella loro opposizione al guelfismo massimalista dei Neri, ripiegarono nostalgicamente verso posizioni ghibelline e, sognando una restaurazione imperiale, auspicavano la discesa in Italia dell’Imperatore del tempo, Arrigo VII. Anche interessi di ordine si frammischiavano alla lotta tra Neri e Bianchi. I primi, infatti, raccoglievano la maggior parte dei “magnati”, cioè dei rappresentanti della vecchia aristocrazia feudale; tra i secondi figuravano il “popolo grasso” ed il “popolo minuto”, cioè la parte più borghese della città. Intorno al 1300 i Bianchi riuscirono ad ottenere il governo di Firenze. Poi, nel 1302, per effetto delle mene politiche di Papa Bonifacio VIII, si ebbe la restaurazione del governo di Neri e i Bianchi presero la via dell’esilio. Tra costoro c’era Dante Alighieri.

La vita Nella vita di Dante Alighieri, nato nel 1265 a Firenze da famiglia aristocratica, due fatti appaiono determinanti, anche per l’orientamento che diedero alla sua poesia: l’amore per Beatrice e l’esilio politico. Il poeta era ancor giovinetto quando s’innamorò di Beatrice, una Portinari che andrà poi sposa ad un certo Simone dei Bardi25. A vivificare questo amore e a racchiuderlo entro i termini di una vicenda tutta spirituale fu forse la suggestione operata dalla poesia stilnovista e dalle sue teorie idealizzanti dell’amore, in voga al tempo. E stilnoviste, infatti, furono le poesie che il giovine poeta compose allora per la sua donna. Ma Beatrice, ancor giovanissima, morì nel 1290; ed il poeta ne rimase avvilito, nel senso che, venuta meno colei che rappresentava la personificazione di tutta una concezione idealistica e spiritualizzante del vivere, interessi e passioni più terreni si insinuarono in lui. Ed è questo, con ogni probabilità, quel periodo di corruzione del quale poi il poeta, secondo l’ottica mistico-medioevale della sua formazione, soffrirà penosa consapevolezza. Ma a riscuoterlo da quello stato di abbattimento fu l’attività intellettuale con gli studi di filosofia e di teologia, i quali, prospettandogli una dimensione nuova e più profonda della realtà, gli permisero in conclusione un recupero di Beatrice e dei suoi ideali giovanili. Sicché l’amore per Beatrice o meglio la presenza di lei e la sua azione liberatoria e sublimatrice possono dirsi pressoché costanti nella vita del poeta. Un altro elemento determinante della quale fu, come abbiamo detto, l’esilio politico. Dante fu un politico mancato26: era troppo altero, troppo fautore della verità e della giustizia per conoscere l’arte politica dei compromessi e per avere successo. Era un conservatore: «Dante respinge la rivoluzione economica e sociale che era avvenuta durante il secolo XIII, respinge il nuovo spirito mercantile, l’urbanesimo, la liquidazione o limitazione dei diritti feudali, la nuova civiltà più mobile, spregiudicata, raffinata che si veniva 25

Anche a Dante verrà imposto un matrimonio combinato (quando aveva dodici anni) con Gemma Donati (parente di Corso, Forese e Piccarda), da cui ebbe tre o quattro figli (Iacopo, Pietro, Antonia e, forse, Giovanni). 26 Nel 1295 si era iscritto alla corporazione dei medici e speziali, unico modo per partecipare alla vita politica.

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Il Trecento formando […] e sembra guardare indietro, al passato del feudalesimo e del Medioevo» (Salinari). Tenendo conto di tale atteggiamento, ci si sarebbe aspettato che Dante nella lotta politica del suo tempo si fosse schierato con i Neri, magnati dell’antica aristocrazia, non con i Bianchi, rappresentanti il nuovo ordine borghese. Ma, a parte il fatto che l’adesione del poeta alla parte bianca non fu mai né fanatica né completa (che spesso egli ne scoprì gli errori e le prevaricazioni), a determinare la sua scelta politica influirono diversi motivi: se da un lato, infatti, non lo convinceva affatto la politica arrendevole dei Neri nei confronti delle mire politiche della curia romana, d’altro canto la rissosità, la violenza, l’ottusa ignoranza dei magnati del suo tempo non corrispondeva per nulla a quell’ideale di nobiltà antica, fatta di saggezza e sobrietà, alla quale egli rivolgeva nostalgicamente il pensiero. Per questo fu vicino alla parte bianca27 e con essa prese parte al governo della città, percorrendo le varie tappe della carriera politica del tempo fino alla massima magistratura: il Priorato. Ed era Priore nel 1300 quando, per amore della giustizia e della pace cittadina, propose l’esilio dei più arrabbiati fautori delle due parti, sacrificando così alla sua intransigenza di saggio politico il più caro dei suoi amici, Guido Cavalcanti, spedito nell’esilio di Sarzana. La polemica faziosa non lo attirava, lo irritava la violenza dei politici che vogliono farsi ragione da soli, era per le soluzioni obbiettive e non di parte; ma su una cosa era irremovibile: sulla necessità per Firenze di conservare la sua autonomia nei confronti della curia papale, dove, intorno a Bonifazio VIII, si manovrava per ridurre il Comune all’obbedienza. E quando seppe che un principe straniero, Carlo di Valois, stava per venire a Firenze quale pedina del papa, decise di andare a Roma per scongiurare quella mossa che poteva essere fatale per l’indipendenza di Firenze. Partì e, inesperto delle arti subdole della politica, si lasciò trattenere nella curia papale, mentre Carlo di Valois a Firenze dettava leggi, rimettendo al governo i Neri ed esiliando i Bianchi. Sulla via del ritorno in patria il poeta seppe che anche lui era tra gli esiliati, accusato nientemeno che di baratteria, cioè di corruzione nei pubblici affari. E poiché disdegnò di presentarsi a difendersi dinanzi al nuovo governo, la condanna venne tramutata in pena di morte. Incominciò allora il triste pellegrinaggio del poeta: fu a Verona, nel Casentino, forse a Parigi, a Lucca, a Ravenna. Ospite onorato di signori, cercò dovunque di rendere validi servigi in cambio dell’ospitalità che gli offrivano. A Ravenna accettò di partecipare ad un’ambasceria a Venezia, fatale per lui: sembra, infatti, che, attraversando il Polesine, contraesse la malaria: morì il 14 settembre del 1321. Ma l’esilio, evento fondamentale della vita di Dante, apriva anche una nuova prospettiva alla sua poesia. Urgeva ora nel poeta non solo il desiderio di una poesia più alta della lirica d’amore giovanile, tale che desse a lui quel prestigio che l’esilio gli toglieva, ma anche e soprattutto il bisogno di una poesia insieme confessionale e vaticinatoria, che confortasse il suo spirito e fosse denunzia del male sofferto e dei responsabili di esso. Ragioni, queste, da cui nacque l’immortale Commedia. 27

Va ricordato che Dante prese vittoriosamente parte sia alla battaglia di Campaldino (1289) contro gli Aretini ghibellini che all’assalto del castello pisano di Caprona (1295).

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Il Trecento

La Vita Nuova Ci spetta intanto occuparci della Vita nuova, l’opera giovanile di Dante: giovanile non solo perché venne composta dal poeta quand’era ancor giovane (tra il 1283 ed il 1292), ma anche e soprattutto perché è il racconto poetico della sua vita giovanile (e tale, del resto, è il significato migliore che si possa dare all’aggettivo nuova incluso nel titolo). L’opera, composta di trentuno poesie tenute insieme da un racconto in prosa, è, infatti, la meravigliosa storia dell’amore di Dante per Beatrice. Il poeta incontra la fanciulla a nove anni, la rivede dopo altri nove anni e se ne innamora. Per nascondere agli occhi degli altri l’amore che le porta, finge di ammirare altre donne, dette perciò “donne dello schermo”; ma Beatrice per questo toglie al poeta il saluto. Di ciò egli profondamente s’addolora, finché a confortarlo non sopravviene la consapevolezza che, comunque, l’amore ha prodotto in lui una sublimazione spirituale. Si susseguono intanto tristi avvenimenti: una grave malattia del poeta, poi la morte di Beatrice. Cade allora Dante in uno stato di pietosa disperazione, dal quale lo solleva l’interesse dimostratogli da una “donna gentile”. Ma Beatrice appare in sogno al poeta e si duole del fatto che egli stia dimenticandola. Ancora una visione ha poi Dante della sua donna, ma è visione così mirabile che il poeta si propone di non più dire di lei finché non potrà degnamente trattarne: è implicita, in questa affermazione, la promessa del capolavoro. La Vita nuova non è un romanzo d’amore, ma un diario intimo: non vi si racconta, infatti, una storia d’amore, ma soltanto le emozioni e gli stati d’animo che un amore, del tutto ideale e fatto soltanto di un saluto dato o di un saluto tolto, produce nell’amante, che è Dante. È lui – e non Beatrice – il vero protagonista dell’operetta: la presenza di Beatrice si avverte costantemente, ma soprattutto per le emozioni e le variazioni spirituali che lei produce nel poeta. Da ciò il carattere lirico di tutta l’opera; e non soltanto delle poesie, ma anche della prosa, che pur vorrebbe assolvere una funzione narrativa. Sempre, infatti, la realtà sfuma attraverso il sentimento e vien fuori trasfigurata, priva di corposità, di particolari descrittivi. Luoghi, persone, avvenimenti non sono mai indicati precisamente, ma con perifrasi molto vaghe: Firenze è «la cittade ove la mia donna fue posta da l’altissimo Sire»28, Guido Cavalcanti è semplicemente «quello cui io chiamo il primo de li miei amici»29 e di Beatrice si dice solo che aveva «color di perle»30. Infatti l’impressione che si ricava leggendo la Vita nuova è quella di sentir raccontare non una vicenda reale, ma un sogno; un sogno fatto di trepidazioni, smarrimenti, incubi, deliquio, angosce: Così cominciando ad errare la mia fantasia, venni a quello ch’io non sapea ove io mi fosse; e vedere mi parea donne andare scapigliate piangendo per via, maravigliosamente triste; e pareami vedere lo sole oscurare, sì che le stelle si mostravano di colore ch’elle mi faceano

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Dante Alighieri, Vita nuova, Cap. 6. Idem, Cap. 3. 30 Idem, Cap. 19. 29

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Il Trecento giudicare che piangessero; e pareami che li uccelli volando per l’aria cadessero morti, e che fossero grandissimi tremuoti.31

È per questo che la stessa prosa ha un suo andamento poetico: è lirica non meno delle poesie, quasi un filo d’oro – nota Flora – che unisce in un sol fascio fiori bellissimi.

Il Convivio Poi venne l’esilio e con esso, come si è detto, l’intento del poeta di riabilitare la propria fama con una poesia più prestigiosa e segno di una maggiore maturità spirituale prima che artistica. In altri termini, Dante non voleva confondersi più con i poeti stilnovisti, giovani sognanti e svagati, ma voleva apparire uomo di cultura e di meditazione. Il primo momento di questa poesia nuova è costituito dal Convivio (1304-1308), che vuole essere un banchetto di sapienza offerto a coloro che non sono nelle condizioni di avvicinarsi ai grandi testi della cultura medioevale scritti in latino o magari in francese. È anche questa, come la Vita nuova, un’opera composta insieme di poesie e prose32. Ma la prosa non ha qui la funzione di trama dell’opera, bensì di commento delle poesie. Le quali sono tre canzoni – Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete; Amor che nella mente mi ragiona; Le dolci rime d’amor ch’i’ solia – e si ispirano, com’era prevedibile dato l’intento dell’opera, a profonde meditazioni di natura morale e filosofica. È la filosofia, infatti, nella personificazione di “donna gentile”, che domina in tutto quanto il Convivio. Naturalmente un tale argomento poteva diventar poesia solo se espresso per figure ed immagini: da ciò il predominio costante dell’allegoria nelle poesie e la funzione della prosa di chiarire tali significati allegorici. Secondo il gusto della trattastica medioevale – ed il Convivio in effetti è un trattato che si riallaccia al filone al quale apparteneva il Trésor di Brunetto Latini – la trattazione nel commento in prosa divaga spesso e si discute di problemi scientifici, politici, linguistici. Interessante è, nell’introduzione, la difesa del volgare, nella quale concorrono ragioni sentimentali («Questo mio volgare fu congiugnitore de li miei generanti, che con esso parlavano»33) e ragioni tecniche (perché esso può «altissimi e novissimi concetti sconvenevolmente, sufficientemente e aconciamente, quasi come per esso latino, manifestare»34). Ma l’importanza del Convivio non risiede certo nella sua validità scientifica o nel suo carattere enciclopedico e neanche nell’esplorazione chiara ed esatta del pensiero di Dante, in quanto tutti i problemi che qui vengono affrontati in nuce saranno più ampiamente e precisamente sviluppati in altre opere successive (quello della lingua nel De vulgari eloquentia, quello politico nel De monarchia, quelli morali e religiosi nella Commedia); consiste invece nella testimonianza delle nuove esperienze di Dante: la sua scoperta della filosofia anche in senso consolatorio, il suo polarizzarsi sui problemi morali, il rafforzarsi 31

Idem, Cap. 23. L’opera, secondo il disegno del suo autore, avrebbe dovuto comprendere, oltre all’introduzione, quattordici canzoni con relativo commento in prosa. Rimase però sospesa alla terza canzone. 33 Dante Alighieri, Convivio, Trattato 1, 13. 34 Idem, Trattato 1, 10. 32

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Il Trecento della sua fede religiosa, il suo indirizzarsi verso più chiare concezioni politiche; tutte esperienze nuove che avrebbero tratto il poeta dal cenacolo stilnovista per guidarlo verso una poesia più matura e diversa.

Le rime La Vita nuova ed il Convivio erano opere nate da una sistemazione organica di poesie composte precedentemente. Ma non tutte le composizioni poetiche già scritte avevano potuto trovare posto in quelle opere: quelle rimaste fuori, raccolte successivamente dai posteri, costituiscono le Rime di Dante35. Si tratta perciò di componimenti di vario metro – sonetti, canzoni, ballate – poco più di una cinquantina, scritti in momenti diversi della vita e perciò nati da stati d’animo e disposizioni stilistiche differenti. Vi sono così poesie ancora legate alla tradizione siciliana o toscana, poesie di ispirazione stilnovista – come Per una ghirlandetta e Guido, i’ vorrei – poesie di argomento dottrinale non dissimili da quelle del Convivio, – come Tre donne intorno al cor mi son venute – ed anche poesie di carattere realistico. E sono queste, forse, le poesie più caratteristiche della raccolta, in quanto ci fanno conoscere un Dante finora sconosciuto: non trasognato poeta d’amore e neanche pensoso dissertatore di verità morali, ma uomo di forte e irruente passionalità, tutto immerso negli aspetti reali del vivere. Appartengono a quest’ultimo gruppo i sonetti polemici indirizzati a Forese Donati – ci fu tra i due una “tenzone” poetica con scambio di dure accuse, anche se non astiose e maligne – e le rime dette “petrose”, perché dedicate ad una donna che il poeta chiama Petra36, pervase da una violenta e cruda passionalità.

La Divina Commedia La Vita nuova si era chiusa, come abbiamo detto, con la implicita promessa del capolavoro: esaltare Beatrice in una dimensione diversa, non terrena ma eterna, non umana ma celestiale: inquadrata, insomma, nella visione ultraterrena del regno dei cieli. Eppure, dopo la Vita nuova, Dante scriveva il Convivio: forse sentiva il bisogno di maturare il suo pensiero e la sua arte, forse non ancora aveva raggiunto quella necessaria tensione della fantasia dalla quale soltanto può nascere la grande poesia. Ma quando sentì che ciò era finalmente avvenuto, mise da parte il Convivio, rimasto perciò incompiuto, e intraprese la composizione dell’opera promessa. Nasceva così la Divina Commedia. a) La composizione ed il genere Era il 1307 allorquando il poeta, esule in Lunigiana, iniziava il suo poema. Che qualche idea fosse nata già prima e che qualche pagina fosse stata già precedentemente verga35

La raccolta si trova talvolta indicata come Canzoniere. Nome scelto per indicare la durezza del cuore della dama. Qualche critico ritiene che il titolo sia invece dovuto alla durezza dello stile utilizzato dal poeta. 36

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Il Trecento ta non conta: la Commedia, nel suo disegno organico, nacque soltanto allora e da allora il poeta vi attese fino agli ultimi giorni della sua vita. Il poema, il cui metro è la terzina, è composto di cento canti, raggruppati in tre cantiche: Inferno, Purgatorio e Paradiso. Piacque a Dante il titolo di Commedia perché – come scrisse nella lettera a Cangrande della Scala – “commedia” significava da una parte un argomento che terminava lietamente, dall’altra un genere dallo stile “umile”, in contrapposizione a quello della “tragedia” che invece era alto e sublime. Ma Commedia sembrò titolo troppo modesto ai posteri, che subito gli aggiunsero l’attributo divina, tenendo conto sia dell’argomento ultraterreno e celestiale che della sua arte singolare e sublime. La scelta del volgare ebbe anch’essa una duplice motivazione: era la lingua che meglio s’adattava alla umiltà dello stile (motivazione stilistica) e che rendeva accessibile il poema ad un pubblico assai più vasto di lettori (motivazione didattica). Per quanto riguarda il genere, la Commedia non era un’opera né nuova né originale. Di immagini e fantasticherie dei mondi ultraterreni avevano piena la testa e la riempivano agli altri, ecclesiastici e laici, predicatori e giullari, pittori e poeti. E queste fantasticherie erano anche parte degli spettacoli e delle sagre che si tenevano allora a Firenze, in Toscana ed anche in altre parti d’Italia. Sicché il Villani racconta che si rappresentava sull’Arno l’inferno con fuochi e altre pene e martori, con uomini contrafatti a demonia, orriboli a vedere, e altri i quali aveano figure d’anime ignude, che pareano persone, e mettevangli in quegli diversi tormenti con grandissime grida, e strida e tempesta, […].37

Inoltre circolavano leggende che raccontavano di discese nell’Inferno – assai conosciute quelle di San Patrizio e di Tundalo38 – che erano una specie di galleria degli orrori: carboni ardenti, grate arroventate, corpi umani squarciati da demoni, arti troncati dai corpi. Infine vi erano le visioni dell’aldilà che costituivano la materia di poemetti didattici come quelli – di cui si è parlato – di Bonvesin de la Riva e Giacomino da Verona. Ma non solo a questa materia medioevale, assai primordiale e caotica, attingeva Dante, ma anche a fonti classiche; e ripensava all’aldilà virgiliano – a sua volta desunto dal mondo omerico – e meditava su quel ciceroniano Sogno di Scipione, vera e propria visione del paradiso. Ma a questo caos di fantasticherie medioevali, a queste visioni poetiche del mondo classico Dante dava una struttura, una forma, una organicità che sono il segno della sua mente fantastica e razionale insieme. E ne veniva fuori così una visione dell’aldilà che ha una strutturazione ed un’organicità sorprendenti; in cui le immagini, pur nel loro carattere soprannaturale, non hanno mai niente di rozzo, di infantile, di paradossale, ma acquistano tutte una loro poetica naturalezza. b) La struttura dell’aldilà Un viaggio attraverso l’aldilà, con l’incontro con i morti, con l’ascesa al cielo tra stelle e pianeti, è argomento che definiremmo metascientifico o fantascientifico, comunque 37 38

Giovanni Villani, Nuova Cronica, libro 9, cap. 70. Si tratta del Pozzo (o Purgatorio) di San Patrizio e della Visione di Tundalo.

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Il Trecento pur sempre arcano e misterioso. Era necessario, pertanto, che Dante localizzasse i regni dell’aldilà in modo che l’immaginazione non venisse contraddetta dalla realtà geografica. In questo gli veniva incontro là tradizione cristiana – per l’inferno anche la pagana – che immaginava l’inferno nelle viscere della terra, il purgatorio nell’emisfero australe ancora del tutto inesplorato, il paradiso nell’infinità dei cieli. L’inferno dantesco, infatti, ha la forma di un immenso cono capovolto, con la base sotto la superficie della terra e l’apice al centro di essa; è attraversato da fiumi sotterranei – l’Acheronte, lo Stige, il Flegetonte ed il Cocito – già presenti nella tradizione classica dell’Averno; ed è diviso, oltre l’antinferno, in nove cerchi concentrici, in ognuno dei quali si sconta un certo peccato. Via via che si scende verso il centro della terra aumenta la gravità dei peccati e, di conseguenza, più atroci divengono le pene; le quali non sono immaginate a caso dal poeta, ma sono sempre in rapporto logico con i peccati (legge detta del “contrappasso”39). I lussuriosi, ad esempio, che in vita si lasciarono travolgere dalla tempesta dei sensi, sono nell’inferno travolti e straziati da una bufera “che mai non cessa”. Ed ecco un’altra caratteristica dell’inferno, la più tragica: l’eternità. La situazione delle anime dannate è disperata, non tanto per l’intensità della pena, quanto per la considerazione che quella pena non cesserà mai: è eterna. La disposizione dei peccatori nell’inferno tiene conto di quelle che sono «le tre disposizion che ’l ciel non vole»40, cioè le tre disposizioni che portano a peccare, cioè l’incontinenza, la violenza e la frode: più grave delle altre è l’ultima, perché pone l’intelletto a servizio del male. Nel fondo dell’inferno, immerso in un lago di ghiaccio41 – significazione della mancanza assoluta di ogni sensibilità morale – è Lucifero, il principe di tutti i diavoli, la causa di tutto il male che è nell’universo. Le gambe di Lucifero, tanto grosso quanto mostruoso, penzolano in un cunicolo che attraversa tutta l’altra metà della terra e sfocia nell’emisfero australe, che allora era detto emisfero delle acque perché i suoi continenti erano ancora inesplorati. Qui si innalza, al centro di un’isola, una montagna altissima, tanto alta da superare l’atmosfera: la montagna del purgatorio. Anch’esso ha il suo vestibolo: l’antipurgatorio, ove le anime che in vita tardarono a pentirsi sono costrette ad una forzata attesa prima di essere ammesse ad espiare i propri peccati. Il purgatorio è diviso in sette cornici – tante quanti sono i peccati capitali – ognuna con proprie pene e tormenti. Qui però le anime non imprecano, ma pregano; non disperano, ma sono in serena attesa: sanno, infatti, che, attraverso l’espiazione, si purificheranno dei propri peccati e saranno accolte in cielo:

39 Il termine – nella grafia contrapasso – è usato da un dannato, il poeta provenzale Bertran de Born, in Inf., 28, 142. 40 Inf., 11, 81 41 La presenza del ghiaccio – anziché del fuoco – nel punto più rilevante dell’inferno ha fatto pensare a suggestioni provenienti dalla mitologia nordica. Cfr Luigi Lun, Mitologia nordica, 1945 (rist. an. Settimo Sigillo, Roma 1987), pp. 33-40.

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Il Trecento e vedrai color che son contenti nel foco, perché speran di venire quando che sia alle beate genti.42

Sulla cima della montagna è il paradiso terrestre, l’originaria dimora dell’uomo: è una selva sempre verde, attraversata da due piccoli fiumi, il Lete e l’Eunoè: immergendosi in essi le anime, che già hanno scontato in purgatorio le proprie colpe, si liberano finanche del ricordo del male ed acquistano invece la coscienza del bene operato. Diventano, insomma, pure e disposte «a salire alle stelle»43. E tra le stelle Dante, seguendo la tradizione, colloca il paradiso. Secondo le cognizioni cosmologiche del tempo – che erano quelle tolemaiche o geocentriche – la terra era al centro dell’universo; i pianeti, sole compreso, le giravano intorno, ciascuno in una propria orbita detta cielo. In questi cieli – nove come i cerchi dell’inferno e le suddivisioni del purgatorio – Dante incontra le anime beate: la diversità del cielo vuol significare la diversità della virtù che ha determinato la beatitudine dell’anima. Ma la sede effettiva, eterna delle anime beate, venute incontro a Dante nei cieli, è l’Empireo, sede stessa di Dio. Questo non è un luogo dell’universo, ma tutto lo abbraccia; è essenza spirituale; è luce, amore, letizia: Luce intellettual, piena d’amore; amor del vero ben, pien di letizia; letizia che trascende ogni dolzore.44

c) L’argomento Argomento della Divina Commedia è l’immaginario viaggio che Dante, protagonista oltre che autore del poema, compie nei tre Regni dell’aldilà. È l’alba del Venerdì Santo del 1300 (l’anno del primo giubileo indetto da Bonifacio VIII) e il poeta si ritrova in una terribile selva: Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura che la diritta via era smarrita.45

È una selva terribile e paurosa dalla quale gli è impossibile uscire, anche perché tre fiere tremende gli impediscono il cammino. Lo soccorre allora l’ombra di Virgilio, il poeta latino da lui prediletto. Questi gli si offre per guida, additandogli la strada da seguire. È una strada triste e difficile, però: se vuole uscire da quella selva paurosa il poeta dovrà attraversare l’inferno ed il purgatorio. È immaginabile l’angoscia di Dante: chi gli assicu-

42

Inf., 1, 118-120. Purg. 33, 145. 44 Par., 30, 40-42. 45 Inf., 1, 1-3. 43

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Il Trecento ra che, una volta entrato nell’inferno, potrà venirne fuori? Prevale però la fiducia in Virgilio ed il viaggio ha inizio. È un cammino realmente penoso quello attraverso l’inferno; tanto più che alle difficoltà materiali si aggiunge l’angosciosa pietà che le pene dei dannati producono nel poeta: Quivi sospiri, pianti ed alti guai risonavan per l’aere sanza stelle, per ch’io al cominciar ne lagrimai.46

Tra i dannati Dante ne riconosce tanti: figure da cronaca, fiorentina o italiana, o personaggi importanti della storia. Attraversato tutto l’inferno, Dante e Virgilio fuoriescono in un cunicolo lungo e tortuoso; lo percorrono e si trovano finalmente sotto la volta celeste dell’emisfero australe, proprio laddove s’innalza la montagna del purgatorio. Una seconda fatica aspetta il poeta: non meno dura della precedente, anche perché qui Virgilio, nuovo del luogo, non è sempre in grado di riconoscere la strada giusta. Finalmente sono sulla cima. Ma qui avviene un fatto importante: Virgilio scompare; pagano quale era stato, non può guidare Dante verso il paradiso. Ed al suo posto Dante si trova a fianco Beatrice, più bella che mai: è scesa dal cielo per incontrare il suo poeta e condurlo fino a Dio. Inizia così la terza parte del viaggio di Dante: guidato dalla sua donna, il poeta si eleva, di cielo in cielo, in un fantasmagorico scenario di luci, fino all’Empireo, dove i beati vivono in eterna contemplazione di Dio. Anche Dante figge il suo sguardo nell’Eterno. Ma la visione è tale che egli non può esprimerla, nemmeno ricordarla. E l’immaginario viaggio ha così fine. d) Il significato allegorico Se ci rifacciamo alla conclusione della Vita nuova e alla promessa, lì contenuta, di esaltare assai più degnamente Beatrice in un’altra opera, dovremmo concludere che il primo motivo ispiratore della Commedia fu l’apoteosi di Beatrice nella gloria del cielo e che perciò, almeno idealmente, il Paradiso nacque prima dell’Inferno e del Purgatorio. Ma dal momento della Vita nuova all’inizio della Commedia in Dante si erano prodotte nuove esperienze non soltanto letterarie o culturali, ma anche morali. Il Dante che pone mano al capolavoro non è quello che aveva cantato l’estasi prodotta in lui da un semplice saluto della sua donna: ha conosciuto esperienze di amore sensuale, ha sofferto astiosamente l’esilio, ha covato sentimenti di vendetta per i suoi nemici. Tutto questo gli fa sentire che gli è impossibile ricollegarsi, di un tratto, con Beatrice e con l’ideale di vita che lei rappresentava. A Beatrice il poeta può riunirsi soltanto dopo che avrà esplorato criticamente la sua coscienza, dopo che avrà sentito ripugnanza per quell’arco di vita vissuto lontano dalla guida di lei. Insomma, prima di poter affrontare il paradiso per esaltarvi la sua donna, Dante sente il bisogno di rivivere in sé inferno e purgatorio, cioè la coscienza del male operato e il desiderio di farne espiazione. Ed ecco come l’immaginario viaggio nell’aldilà viene ad acquistare il significato di una ricognizione spirituale ed il poema tut46

Inf., 3, 22-24.

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Il Trecento to assume il valore di intima confessione. Ma Dante sente anche che la sua storia morale non è unica né eccezionale; che anzi in lui si riflette il destino stesso dell’umanità che, perduto lo stato d’innocenza, cerca penosamente di riacquistare la pace della coscienza. Perciò il personaggio Dante, che attraversa l’inferno (stato di peccato) ed il purgatorio (momento di espiazione) per giungere in paradiso (stato di Grazia), non è soltanto Dante Alighieri esule fiorentino, ma è simbolo dell’umanità tutta che aspira ad una novella rigenerazione. E così il significato del poema si allarga da storia di un uomo a storia dell’umanità, acquistando valore universale: «Il suo viaggio nell’oltretomba diventa un viaggio attraverso la storia degli uomini, attraverso il cuore e la mente dell’uomo» (Salinari). Ora immaginiamo che Dante avesse espresso questi problemi morali e questi aspetti della vita dello spirito con concetti e termini astratti: ne sarebbe venuto fuori un trattato di morale, non un’opera di poesia. Il poeta, invece, segue altra strada, che è proprio quella della poesia: trasforma i concetti in immagini, i fatti spirituali in fatti concreti. Così l’itinerario spirituale del poeta diventa un fantastico viaggio nell’aldilà; il peccato diventa la selva; la ragione, che produce nell’uomo la dolorosa consapevolezza del suo stato di peccato e lo guida a liberarsene, è rappresentata da Virgilio, «famoso saggio»47 oltre che poeta; la Grazia, indispensabile per intraprendere la via del bene, è simboleggiata nel sole; e la Fede, indispensabile all’uomo per tendere a Dio, è concretizzata in Beatrice. Ma queste non sono che le fondamentali allegorie del poema. Soltanto la lettura diretta di esso potrà mettere in evidenza tutta la ricca trama delle altre significazioni allegoriche. e) La missione di Dante Prima di iniziare il cammino attraverso l’Inferno Dante è preso da un angoscioso timore: perché dovrebbe essere concesso a lui di visitare, da vivo, l’aldilà? Questo, egli pensa, era stato possibile soltanto ad Enea e a San Paolo: perché dall’opera dell’uno doveva nascere l’Impero romano, dall’opera dell’altro la Chiesa di Cristo: Io non Enea, io non Paulo sono: me degno a ciò né io né altri crede.48

Ma quel che il poeta sente nel profondo è proprio l’opposto di questa trepidante affermazione. Egli sa di essere un po’ come Enea, un po’ come Paolo: sa che dal suo immaginario viaggio – e quindi dal suo poema – dovrebbe, almeno nella sua intenzione, venir nuova forza all’Impero e rigenerazione per la Chiesa. L’Impero è in decadenza: scaduto il prestigio dell’Imperatore, le fazioni politiche si accapigliano e sconvolgono le città, il diritto vive solo nella teoria della legge, predominano frode e violenza. Ma Dante non si arrende: tradizionalista per temperamento, crede ancora nella funzione dell’Impero e spera, con la convinzione della sua passione morale e 47 48

Inf., 1, 89. Inf., 2, 32-33.

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Il Trecento politica, che un prodigio, un avvenimento, un uomo, forse un Imperatore stesso, verrà a riportare l’ordine nel mondo, a riconnettere il senso della giustizia con l’insegna dell’Impero: Che mal segue quello sempre chi la giustizia e lui diparte.49

E per questo se la prende con l’imperatore Alberto d’Asburgo e con suo padre Rodolfo, che hanno trascurato l’Italia, abbandonandola al disordine amministrativo e politico; e per questo ancora fa sogni illusori sui progetti di restaurazione imperiale meditati da Arrigo VII. Anche la Chiesa è in decadenza: offesa da pontefici simoniaci come Niccolò III e Bonifacio VIII, fuorviata dalle pretese di predominio temporale, assetata di ricchezze e beni mondani. Ma contro tale situazione esplode lo sdegno del poeta, che si comunica, sotto forma di un’ira buona e santa, finanche alle anime sante del paradiso. Ed ecco San Tommaso, san Bonaventura, San Pietro inveire contro la corruzione degli ordini monacali, contro il pontificato stesso: Quelli che usurpa in terra il luogo mio, il luogo mio, il luogo mio che vaca nella presenza del Figliuol di Dio, fatt’ha del cimiterio mio cloaca del sangue e della puzza; […]50

L’esplosione dell’ira e del risentimento ed il sogno mai infranto della rigenerazione rendono vaticinatoria la poesia di Dante. È una missione, la sua, della quale ha piena coscienza; e se lo farà confermare dal suo trisavolo Cacciaguida, incontrato tra le anime sante del cielo di Marte: Questo tuo grido farà come vento che le più alte cime più percuote; e ciò non fa d’onor poco argomento.51

f) La poesia dei sentimenti e delle passioni È stato detto che il Dante grande non è il Dante teologo, asceta, moralista o politico, ma il Dante poeta. Ma che resterebbe nella Divina Commedia, se togliessimo via tutto quanto riguarda la fede, la morale, la politica? Dante, invece, rende sublime poesia ogni contenuto del suo pensiero – sia esso morale, religioso, politico – perché lo vive con passione e lo trasforma in fantasia. Il motivo, infatti, della corruzione degli ordini religiosi, della Chiesa o dell’umanità tutta e quello del disordine pubblico per l’inefficienza dell’Impero non sono in lui semplice pretesto di polemica politica o di letteratura a scopo di edificazione morale: sono ragione di una sofferta ripulsa, di uno sdegno virile e appas49

Par., 6, 104-105. Par., 27, 22-26. 51 Par., 17, 133-135. 50

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Il Trecento sionato, di una nostalgica e sincerissima rievocazione di un passato tanto migliore del presente: Fiorenza dentro dalla cerchia antica, ond’ella toglie ancora e terza e nona, si stava in pace, sobria e pudica.52

È tale la sua passionalità, che egli la trasfonde in tutti i suoi personaggi, in quella folla di spettri che sotto la sua penna si trasformano in anime di vivi, frementi ancora umane e terrene passioni. E così Francesca da Rimini, condannata all’inferno per il suo adulterio, sembra fremere ancora di amore per il suo Paolo: questi, che mai da me non fia diviso la bocca mi baciò tutto tremante.53

E così Farinata degli Uberti, ancor tutto preso dalla sua passione politica, sembra «avesse l’inferno a gran dispitto»54, sembra cioè non curarsi affatto dell’inferno e delle sue pene. E così il conte Ugolino è ancora macerato dal suo inestinguibile odio verso chi distrusse la sua famiglia. Il che avviene non solo nell’inferno, dove era pur immaginabile che avvenisse, dato la stato di maggiore terrenità e passionalità degli spiriti dannati; ma anche in purgatorio, dove la vita e le passioni umane, sia pur proiettate sullo sfondo di un’attesa liberazione, vivono ancora in un tumultuoso ricordo: l’amor coniugale in Pia de’ Tolomei; l’amor della terra natale in Sordello; lo sdegno per la fedeltà coniugale tradita in Nino Visconti, etc. Ed anche in Paradiso, dove i grandi temi della vacatio imperiale, dell’invidia trionfante, della decadenza degli ordini monastici, della nostalgia per un passato ben più sobrio e migliore diventano i sentimenti e le passioni di Giustiniano e di Romeo, di San Tommaso e di San Bonaventura, di Cacciaguida e di San Pier Damiano. g) La poesia della natura Il fatto che materia della Divina Commedia siano i temi della vita dello spirito e suo ambiente l’aldilà potrebbe far credere che in essa sia assente la poesia della natura. Invece la natura, sempre presente nell’immaginazione del poeta, ispira alcuni degli squarci lirici più potenti di tutto il poema. E ciò per una duplice ragione: la prima è che i tre regni dell’aldilà, metafisici nel loro significato e nella loro funzione, forse anche nella loro ubicazione, sono costruzioni fisiche e naturali – tutto dirupi alpestri e orride valli l’inferno, scoscese pareti montuose e verde selva il purgatorio ed il paradiso terrestre, stelle e pianeti il paradiso; l’altra è che la natura è continuamente richiamata nell’aldilà: ora come sfondo delle vicende terrene rievocate dalle anime, ora come termine di similitudine per rendere più evidenti immagini e visioni connesse al racconto – il che vale soprattutto per 52

Par., 15, 97-99. Inf., 5, 135-136. 54 Inf., 10, 36. 53

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Il Trecento il paradiso, dove l’ineffabilità delle visioni costringe il poeta a continue similitudini con fenomeni terreni. Così Maestro Adamo, condannato all’idropisia come falsario, rivede con l’immaginazione: Li ruscelletti che da’ verdi colli del casentin discendon giuso in Arno, facendo i loro canali freddi e molli,55

Così il fondo della bolgia dei consiglieri fraudolenti, disseminato di fiamme, sembra a Dante, che lo contempla dall’alto, una valletta trapunta di lucciole. Così la visione delle anime beate, illuminate dal lume di Cristo, richiama alla mente del poeta l’immagine della Luna che splende di vivida luce tra le stelle: Quale ne’ pieni lumi sereni Trivia ride tra le ninfe eterne che dipingon lo ciel per tutti i seni.56

h) Stile e lingua La definizione di “umile” data da Dante allo stile della sua Commedia era una definizione puramente retorica, in quanto corrispondeva alla classificazione che il Medioevo faceva dei generi letterari e degli stili. In effetti, lo stile del poema è assai vario, come del resto richiedeva l’infinita varietà degli argomenti, delle situazioni, dei sentimenti che costituiscono la materia della Commedia. Se soltanto si vuol considerare la triplice ripartizione dell’opera, corrispondente ai tre regni dell’aldilà così diversi l’uno dall’altro in significato spirituale, in ambienti, in atmosfera, si comprende subito come lo stile dell’inferno non poteva essere quello del purgatorio, né tanto meno, quello del paradiso. La crudeltà delle colpe e le pene orride e ripugnanti dell’inferno richiedevano una rappresentazione realistica, fatta di una tavolozza dalle tinte marcate e cupe, con un registro linguistico aspro e forte. Soprattutto quando a parlare erano i diavoli, aventi sempre nella loro rappresentazione una certa bestiale mostruosità: «Pape Satàn, pape Satàn aleppe!» cominciò Pluto con la voce chioccia;57

L’attesa malinconica delle anime del purgatorio, il loro essere come sospese tra la terra e il cielo, richiedeva, invece, una diversa tonalità espressiva: più tenue, più sfumata, fatta di chiaroscuri e mezzi toni, di colori non cupi e marcati, ma smorzati e quasi diafani; come la consistenza stessa delle anime, che qui appariva meno corposa e più evanescente di quella degli spiriti infernali. Il paradiso poi, col suo gioco fantasmagorico di luci, con le sue anime splendenti come pietre preziose, col suo senso della infinità degli spazi, con la ineffabilità delle sue 55

Inf., 30, 64-66. Purg., 23, 25-27. 57 Inf., 7, 1-2. 56

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Il Trecento visioni, richiedeva un registro espressivo completamente nuovo ed una lingua ricca ed affinata, capace di cogliere tutte le sfumature di luci, di immagini e di sensazioni; non forte e scultorea, ma aerea e quasi musicale. Finché la sublimità della visione, raggiungendo cime vertiginose, si rendeva addirittura ineffabile: Da quinci innanzi il mio veder fu maggio che ’l parlar nostro, ch’a tal vista cede, e cede la memoria a tanto oltraggio.58

i) Medioevalità e attualità Certamente la Divina Commedia è legata al gusto del Medioevo. Tipicamente medioevali sono, infatti, la violenza descrittiva delle pene infernali e l’orrida mostruosità dei demoni. Medioevale anche l’inesorabile applicazione che Dante fa della legge del contrappasso o del taglione. La stessa struttura del poema, con la sua configurazione verticalizzata e protesa verso l’alto – dal centro della terra all’infinità dei cieli – richiama alla mente la struttura delle cattedrali gotiche; mentre la rigida simmetria delle parti – si pensi che i tre regni dell’aldilà sono divisi in egual numero di parti e presentano tra loro una simmetrica configurazione strutturale – è espressione anch’essa del gusto medioevale, tendente all’ordine ed all’unità59. Inoltre, la Divina Commedia è medioevale per la sua stessa concezione di poema didattico, che si svolge per mezzo di allegorie e che si nutre di filosofia scolastica e di teologia. Ma, pur entro forme e schemi di gusto medioevale, Dante nella Divina Commedia si fa portavoce di un messaggio eternamente valido che grandi poeti come Shakespeare, Cervantes, Milton, Goethe hanno recepito e ripetuto: quello cioè della responsabilità dell’uomo nella determinazione del suo destino terreno prima, ultraterreno poi; dell’esigenza per l’uomo di un’idealità e soprattutto di una dignità che lo salvino da comodi ed avvilenti compromessi. Questa la fondamentale, ma non unica ragione dell’attualità della Commedia: che lo sdegno contro la decadenza delle istituzioni, l’ansiosa attesa di una rigenerazione politico-morale, l’esigenza della pace universale, il sogno di un mondo non governato dalla cupidigia, l’attrazione stessa per la infinità degli spazi sono altri motivi particolari di tale attualità.

Le opere in latino Pur convinto sostenitore del volgare, Dante compose in latino, secondo l’uso del tempo, alcune opere di argomento dottrinario e rivolte perciò ad un ristretto numero di eruditi, ma che potevano raggiungere studiosi di altre nazioni.

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Par., 33, 55-57 La precisione del Poeta riguardo alla suddivisione dei tre Regni dell’aldilà, la cura nella composizione e nel bilanciamento dei cento canti dell’opera con un’attenzione oseremmo dire matematica e/o geometrica, dovrebbe da sola far giustizia di tanti luoghi comuni sul disordine medioevale o almeno far considerare il tempo di Dante come un “rinascimento medioevale”. 59

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Il Trecento Tralasciando le due Egloghe in versi di imitazione virgiliana ed il trattato scientifico Sull’acqua e sulla terra, opere di scarso valore – non solo artistico, ma anche culturale – e citate dalle storie letterarie soltanto per essere state composte dallo stesso autore della Commedia, parleremo di quelle importanti a delineare il pensiero di Dante, in connessione soprattutto con la composizione del suo capolavoro. a) Il De vulgari eloquentia Se nel Convivio Dante tesseva una difesa che potremmo definire fondamentalmente sentimentale del volgare, in questo trattato, nato pressappoco nello stesso periodo (13031304) e rimasto incompiuto, egli riprendeva la trattazione dell’argomento su base scientifica. Nonostante un’introduzione sull’origine del linguaggio umano e sulla sua successiva differenziazione, il trattato è più un’opera di retorica che di linguistica, in quanto suo problema centrale e quello riguardante la lingua letteraria (eloquentia) non quella comunemente parlata (eloquium). Il volgare che Dante prende in esame è infatti quello “illustre”, diffusivo di luce, cioè quello elaborato dai migliori poeti, avente perciò carattere letterario60. Tale volgare non corrisponde, secondo l’autore, a nessuno dei particolari dialetti italiani – ne enumera quattordici fondamentali – in quanto ciascuno di essi contiene qualcosa di brutto e rozzo; ma nasce, invece, dalla distillazione letteraria di quanto di meglio è in ciascuno di essi. Inoltre Dante precisa che tale volgare “illustre” deve essere usato per esprimere temi illustri ed elevati, quali le armi, l’amore e la rettitudine; mentre invece gli altri temi possono servirsi degli idiomi municipali. Questo trattato, se da una parte è storicamente importante in quanto per la prima volta viene posto il problema di una lingua unitaria italiana, d’altra parte presenta limiti di impostazione della questione linguistica: sia per la rigida distinzione operata dall’autore tra lingua letteraria e lingua dell’uso comune, sia per il procedimento di sintesi e distillazione da cui egli sostiene che debba nascere la lingua unitaria. Ma erano limiti, questi, insuperabili da parte di un autore del XIV secolo. b) Il De Monarchia Quando nel 1310 l’imperatore Arrigo VII di Lussemburgo scese in Italia con l’intento di restaurare l’autorità imperiale nella penisola, Dante, esule da Firenze per la preponderanza politica dei Neri sostenuti dalla curia papale, sentì rinascere le speranze di vedersi riaperte le porte della patria. Purtroppo, trascorso appena qualche anno, Arrigo, dopo aver visto fallire la sua missione, moriva a Buonconvento, trascinando nella fossa le vane illusioni del poeta. Il quale, intanto, nella tensione politica del momento, aveva scritto il De Monàrchia, un trattato in tre libri.

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Oltre che “illustre”, cioè luminoso, Dante definisce questo volgare “regale” (in quanto dovrebbe essere la lingua della sala del trono nella reggia d’Italia, se esistesse), “curiale” (in quanto lingua del diritto e della cultura ufficiale), “cardinale” (in quanto cardine e punto costante di riferimento di tutti gli altri idiomi municipali della penisola).

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Il Trecento Nel primo libro l’autore sostiene con convinzione la necessità dell’Impero universale, non solo come effetto di un naturale processo associativo della società umana, ma anche come mezzo per assicurare agli uomini la pace universale. L’Impero universale, infatti, pur non eliminando le organizzazioni statali che di esso fanno parte (communitates particulares), le pacifica ed unifica in una grandiosa fratellanza di popoli cristiani. Nel secondo libro l’autore sostiene che l’autorità imperiale spetta di diritto al popolo romano: non solo per la sua supremazia nel campo del diritto e della cultura in genere, ma anche per un disegno divino che aveva fatto di Roma e della sua storia un mezzo per predisporre il mondo ad accogliere la Rivelazione cristiana. Più attuale, invece, è l’argomento del terzo libro, che tratta il problema dei rapporti tra quelle che erano le due massime autorità del tempo: il Papa e l’Imperatore. Confutando tanto la tesi che sosteneva la preminenza del potere del Papa (tesi curialista o canonista) quanto quella che sosteneva la preminenza dell’Imperatore (tesi regalista), Dante sostiene l’autonomia dei due poteri, ciascuno operante entro i confini della propria sfera: l’Imperatore in quella politica, il Papa in quella spirituale. Era, questa, una convinzione che nasceva non soltanto da profonda meditazione, ma anche da personali e sofferte esperienze: l’esilio provocato dall’ingerenza papale nella vita politica di Firenze. c) Le Epistole Sorvolando le lettere politiche e quella diretta all’amico Cangrande della Scala (XIII), nella quale pur sono importanti notazioni sulla Commedia, ricordiamo la XII, inviata ad un ignoto amico fiorentino: costui ha fatto sapere al poeta che il Comune di Firenze è disposto a permettergli il ritorno in patria, a condizione, però, che egli faccia pubblico riconoscimento delle proprie colpe. È una proposta che offende il poeta, il quale sdegnosamente risponde: Non est hec via redeundi ad patriam, pater mi; sed si alia per vos ante aut deinde per alios invenitur que fame Dantisque honori non deroget, illam non lentis passibus acceptabo; quod si per nullam talem Florentia introitur, nunquam Florentiam introibo.61

Un’altra conferma, questa, della grandezza di Dante uomo, prima che di Dante poeta.

61 «Non è questa la via del ritorno in patria; ma se voi od altri ne troverete un’altra che non sia indegna della fama e dell’onore di Dante, io per quella mi metterò a passi non lenti. Che se non c’è una via siffatta per entrare in Firenze, io in Firenze non rientrerò mai».

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Il Trecento

Francesco Petrarca Meno di quarant’anni intercorrono tra la nascita di Dante e quella di Petrarca, eppure la formazione, gli interessi, la concezione della poesia, il modo stesso di intendere la figura del poeta appaiono in loro profondamente diversi. Talché ne deriva quasi l’impressione che Dante sia nato in ritardo nei confronti del suo tempo, Petrarca invece in anticipo nei confronti della sua età.

La vita La vita di Francesco Petrarca, nato nel 1304 ad Arezzo ma da famiglia fiorentina, è priva di quegli avvenimenti importanti che spesso determinano il corso della vita di un uomo. Lo stesso incontro con Laura, la donna che amerà per la vita e che sarà il motivo ispiratore di tanta parte della sua poesia, non fu determinante in lui come per Dante quello con Beatrice. Abbiamo infatti l’impressione che, data la sua indole, la sua sensibilità, la sua sfera di interessi, anche senza “quella” Laura Petrarca sarebbe stato ugualmente un poeta d’amore. Comunque, il poeta incontrò Laura nel 1327 in una chiesa di Avignone, la città francese dove allora i Pontefici avevano posto la loro residenza62. Petrarca si era recato in quella città ancora fanciullo insieme con la famiglia, dati gli impegni di lavoro che il padre63 aveva nella curia pontificia. Di là, con la madre, si spostò nella vicina Carpentras, dove ebbe per maestro il grammatico Convenevole di Prato; passò quindi a Montpellier, dove intraprese gli studi di diritto, distratto però spesso da avventure mondane. Iniziò poi quel suo continuo vagare senza fissa dimora che caratterizzò la sua vita. Dalla Francia compì, infatti, frequenti viaggi in Germania e in Italia (nel 1341 venne incoronato poeta a Roma). Due anni dopo, la monacazione del fratello Gherardo determinò nel poeta una crisi di coscienza: meglio, confermò in lui quel desiderio di pace e di tranquillità dello spirito al quale da anni aspirava. Quando nel 1353 tornò definitivamente in Italia vagò ancora tra Milano, Padova, Venezia – compì anche un viaggio a Praga, ambasciatore dei Visconti di Milano – ospite gradito e conteso di Signori e Repubbliche. L’ultima sua dimora fu Arquà: qui morì nel 1374.

Il mondo morale Quel vagare continuamente da una città all’altra non dipendeva, come era stato per Dante, da costrizioni esterne. Era invece effetto di quell’intima irrequietezza che era uno dei caratteri più spiccati della sua personalità. Egli stesso confessò più volte di non poter 62

È il tempo della “cattività avignonese” (1305-1377), effetto dell’asservimento dei Papi alla politica francese. 63 Inizialmente il trasferimento in Francia del padre, ser Petracco, fiorentino e guelfo bianco come Dante, di cui era amico, era stato dovuto all’esilio.

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Il Trecento trovar pace in nessun luogo, perché dovunque e sempre insoddisfatto. Era, insomma, una natura inquieta, instabile: un precursore di Werther, «un lontano antenato di tutti noi moderni, ammalati di nevrosi» (Bartoli). Inoltre, con la sua vita irrequieta e senza fissa dimora, con quel suo vagabondare non scevro di aspetti avventurosi e mondani, Petrarca anticipava anche quel particolare tipo di letterato italiano del Settecento, che fu instancabile viaggiatore e avventuriero aristocratico. Dante era andato dalla selva del peccato all’empireo non solo nell’itinerario del suo viaggio immaginario, ma anche, entro certi limiti, nella realtà del suo itinerario spirituale. Il che vuol dire, insomma, che in lui c’era stato svolgimento nella vita dello spirito. In Petrarca, no: fatta eccezione per quell’equilibrio spirituale e quella pace dei sensi finalmente conquistati negli ultimi anni della vita – fatto fisiologico più che conquista spirituale – sempre egli rimase irretito in un complesso di contraddizioni morali. C’era in lui la continua aspirazione ad un rinnovamento spirituale, c’era la volontà di liberarsi da quelle passioni umane – l’amore sensuale, il desiderio di gloria letteraria, la passione per l’arte classica, l’attaccamento ai beni terreni, la compiacenza dei suoi meriti letterari ed artistici – che ancora medioevalmente considerava peccati ed ostacoli all’elevazione dello spirito verso mete più alte e tranquille. Ma avvertiva anche il peso della propria debolezza, l’incapacità di liberarsi dalle attrazioni terrene e mirare al cielo. Onde avveniva che la sua vita era un gioco continuo e penoso di peccati e pentimenti, di sinceri tentativi di rigenerazione e di sofferte ricadute, una contraddizione continua tra il volere essere e l’essere. Da ciò il macerante bisogno di guardare in se stesso, di esplorare le profondità della sua coscienza, di analizzare tutti i moti della sua anima.

La crisi del suo tempo Ma a determinare quello stato di continuo scontento e di insoddisfazione, insomma di crisi perenne, non erano soltanto motivi di conflittualità tutta intima e personale. Si rifletteva nel poeta la crisi stessa del suo tempo, che era una crisi di sfiducia collettiva e di crescente anarchia: la Chiesa era in crisi, l’Impero perdeva progressivamente consistenza; lo stesso ordinamento comunale, che aveva caratterizzato la vita organizzativa del Duecento, era in decadenza: purtroppo in Italia non superato dal sorgere di uno Stato nazionale – come avveniva in altre parti d’Europa – ma dal costituirsi di Signorie a carattere cittadino e regionale in lotta continua tra loro. Anche l’economia artigianale, tipica del secolo precedente, veniva soffocata da certi aspetti di economia precapitalista, che da una parte determinava il sorgere di una borghesia sempre più ricca ed accentratrice, dall’altra l’insorgere di moti sociali come quello dei Ciompi a Firenze. «Petrarca è la coscienza di questa crisi. Dante rifiutava il mondo a lui contemporaneo e si rifugiava in una splendida utopia. Petrarca ci è immerso dentro e ne vive tutte le contraddizioni. Egli non ha grandi ideali a cui ispirarsi: l’accidia, cioè la perenne scontentezza, la terribile malattia che lo perseguita, ne è una chiara testimonianza. Egli sente acutamente la provvisorietà di tutto ciò che lo circonda – strutture economiche, leggi morali, ideali civili, credenze religiose – e non vuole contrapporre alla realtà un mondo diverso» (Salinari).

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Il Trecento O forse anch’egli si rifugia in una sua utopia, che non ha valore religioso e morale come quella di Dante, ma letterario soltanto: ed è il sogno di una universale repubblica delle lettere.

La figura del letterato Petrarca ebbe diversi amori: Laura, le lettere, gli antichi ed anche l’Italia e la natura; ma l’amore più grande di tutti fu per la gloria. Ed anche in questo si differenziava dagli uomini del Medioevo, per i quali l’unica gloria desiderabile era quella del cielo. Il pensiero della gloria era sempre presente in lui – nota Voigt – quasi la sua costante ossessione: a volte sembra che egli non abbia amato tanto la poesia quanto la gloria di essere poeta. E quel suo stesso continuo viaggiare, oltre che alla sua irrequietudine, era dovuto al bisogno di fare nuove esperienze culturali e di raccogliere sempre nuovi consensi e nuovi plausi intorno alla sua persona di letterato. Dovunque giungeva, infatti, era accolto dall’omaggio degli studiosi e dai favori dei potenti: le sue opere venivano avidamente lette, gli studenti gli facevano corona, gli uomini politici lo volevano estensore di lettere e trattati, i signori gli offrivano palazzi e beni di fortuna; e Roma e Parigi, le due città di maggiore tradizione culturale, si contendevano il vanto di incoronarlo poeta. Nasceva così, col Petrarca, la figura del letterato puro o di professione, di colui cioè che fa delle lettere la sua unica attività, dalla quale trae anche, dato il conforto ed il sostegno dei signori, i mezzi per vivere. Prima di lui, invece, lo scrittore non faceva delle lettere un’attività professionale: era un notaio, un giurista, un maestro di retorica, un uomo politico, un funzionario, etc. che faceva “anche” il poeta. Questo nuovo tipo di letterato non era sempre o del tutto un fatto positivo. Dal momento che lo scrittore non viveva che della sua attività letteraria – non essendovi ancora un vero commercio librario e quindi la possibilità di vivere col provento dei diritti d’autore – era necessario che ci fosse un potente, un signore, un mecenate che, munifico verso di lui, gli desse di che vivere, pretendendo in cambio dediche o encomi o comunque “servigi di penna”.

Il mondo intellettuale e la cultura Con Petrarca non cambia soltanto la fisionomia del letterato, ma anche il suo patrimonio culturale. Ancora Dante, di una generazione appena precedente a lui, possedeva una cultura tipicamente medioevale, fatta delle cosiddette arti del trivio (grammatica, logica, retorica) e del quadrivio (aritmetica, geometria, musica e astronomia), raccolte nelle varie summae o tesori o fiori, che erano poi le enciclopedie del tempo; mentre in campo filosofico accordava la sua preferenza ad Aristotele e a San Tommaso: il primo quale organizzatore di tutte le scienze, il secondo quale sistematore di tutta la filosofia cristiana. Non mancava certo a Dante e agli studiosi del suo tempo la conoscenza del mondo classico, ma si trattava di una conoscenza imperfetta, non tanto in senso quantitativo, quanto invece perché

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Il Trecento il mondo classico veniva sempre visto attraverso la specola del pensiero cristiano: e quindi o adattato o rigettato. Petrarca invece – e con lui quei letterati che proprio per questo si dissero preumanisti o umanisti – alle scienze della natura preferiva la conoscenza dell’uomo: onde avveniva che la sua predilezione cadesse non su Aristotele e San Tommaso, ma su Platone e Sant’Agostino, proprio perché profondi indagatori dell’animo umano. Ma l’aspetto che meglio caratterizza la cultura del Petrarca è il diverso modo di concepire il mondo classico e di avvicinarsi ad esso. Una modalità che non consiste soltanto nella profonda e sviscerata ammirazione per gli autori antichi, ma anche nella persuasione che, se giustamente interpretati, quegli autori dimostrano una spiritualità non diversa da quella cristiana. Ecco perché Petrarca fu assiduo ricercatore, raccoglitore, commentatore di testi latini, tanto da possedere una biblioteca realmente mirabile per i suoi tempi; ecco perché non ne disdegnò l’imitazione: un’imitazione che, nei momenti felici, non è retorica né formale, non fatta cioè di ripetizione di frasi o immagini, ma che consiste nel l’accogliere dagli antichi il magistero vero della vita e dell’arte. Ed è sempre per effetto di questa sconfinata ammirazione per l’arte classica che Petrarca predilesse il latino all’italiano, considerandolo la lingua vera delle lettere e servendosi di esso per la composizione delle opere che ritenne di maggiore importanza e validità culturale.

L’amore Scrisse Voltaire che se Petrarca non fosse stato innamorato sarebbe stato senz’altro poeta meno famoso. E certamente fu nell’amore per Laura che il poeta avvertì maggiormente l’angosciosa lacerazione della coscienza. Non perché questo amore fosse in se stesso sensuale e peccaminoso – almeno a livello poetico, nella trasfigurazione cioè che il poeta ce ne ha dato nei suoi versi – ma perché esso lo distoglieva dall’amore per Dio, perché l’esser preso da un sentimento terreno e caduco significava per lui esser distolto dal pensiero dell’eternità. Era un contrasto, questo, che gli stilnovisti e Dante non avevano avvertito: perché essi avevano cantato la donna-angelo, la donna miracolo della creazione e nell’amore avevano ravvisato una via di ingentilimento dello spirito e di elevazione fino a Dio. Perciò, quel che essi provavano dinanzi alla loro donna era una contemplazione-estasi; quel che invece provava Petrarca dinanzi alla sua era una contemplazione-angoscia: fatta di intimo dissidio, di lacerazione dell’io, di continua malinconia. Ma chi fu Laura? Dopo tante indagini di critica storica sembra che essa possa identificarsi con una Laura de Noves, sposa di un Ugo de Sade64 al quale diede ben undici figli. Non sono mancate però, né mancano tuttora, interpretazioni suggestive. Qualcuno ha ravvisato in Laura una significazione allegorica: partendo dalla considerazione che grande e quasi ossessivo fu per il poeta l’amore per la gloria, si è voluto vedere in Laura il simbolo umanizzato del lauro, vale a dire dell’alloro poetico. Altri hanno visto in Laura un fantasma poetico nel quale liricamente si concreta il senso dell’irrimediabile caducità 64

Da cui discese il celebre Marquis de Sade.

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Il Trecento e del perire delle cose, del fluire inarrestabile del tempo. Recentemente, la critica psicanalitica, che considera la poesia quale espressione dell’inconscio del poeta, ha azzardato un’interpretazione invero originale. Nell’inconscio del poeta Laura era la madre, la donna che non si può avere: per questo venti anni di corteggiamento per non approdare a nulla…65

Il Canzoniere Un poeta come Petrarca, tutto assorto nell’analisi dei propri sentimenti, non poteva darci che una poesia essenzialmente lirica, una poesia cioè d’introspezione e di stati d’animo. È per questo che, nonostante la cura e l’impegno da lui messi in opere di genere epico, allegorico o trattatistico-morale, il suo capolavoro resta il Canzoniere. a) Composizione e struttura Si tratta di una raccolta di poesie in volgare, il cui titolo originario, cioè quello indicato dall’autore, è Rerum vulgarium fragmenta; titolo che, tradotto in italiano, vuol dire Frammenti in volgare e che dimostra come il poeta abbia attribuito a questi versi minor valore culturale delle opere composte in lingua latina. Il che non significa però che il poeta non vi abbia atteso con impegno: ché anzi, per l’ossessiva cura della perfezione letteraria che aveva sempre scrivendo, vi tornò su con assidua diligenza tra gli anni 1336-1343, rivedendo, ampliando, cambiando l’ordine delle poesie. Le quali sono in tutto 366 e in vario metro: sonetti, canzoni, sestine, madrigali66, ballate. Comunemente il Canzoniere67 va diviso in due parti: Rime in vita e Rime in morte di Madonna Laura68. Il tema dominante del Canzoniere è l’amore per Laura; anche se non mancano – secondo una tradizione che risale ai poeti provenzaleggianti – poesie d’argomento civile e politico. La disposizione delle poesie nella raccolta obbedisce ad un criterio psicologico: l’innamoramento, il desiderio struggente, la delusione e lo sconforto per l’atteggiamento sfuggente di lei; poi lo spiritualizzarsi del sentimento, i sogni e i malinconici ricordi che seguono la morte della donna, il rimpianto ed il rimorso per il tempo speso vaneggiando; quindi, nella conclusiva Canzone alla Vergine, la sublimazione del sentimento verso mete ultraterrene. Un itinerario spirituale, questo, valido però soltanto a grandi linee ed in modo assai approssimato: ché, secondo l’indole stessa del poeta, incostante ed irrequieta, tutto il Canzoniere esprime un contrasto continuo ed insolubile di sentimenti e di tensioni spirituali.

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L’interpretazione è di Umberto Saba in Eros e gli scrittori. Il madrigale è costituito da due o tre terzine di endecasillabi seguite da uno o due distici a rima baciata. 67 Qualcuno preferisce intitolare la raccolta Rime sparse, riprendendo l’espressione usata dal poeta nel sonetto introduttivo («Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono»). 68 Sembra però che tale divisione non sia opera del poeta, bensì di un letterato del Cinquecento 66

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Il Trecento b) Le rime d’amore Come la Vita nuova di Dante, così il Canzoniere di Petrarca non è un romanzo d’amore, data l’assenza in esso di una trama o di una semplice storia. Ed anche qui protagonista non è la donna, ma il suo poeta: perché sono le sue speranze, le sue illusioni, le sue ansie, le sue contraddizioni interiori, le sue debolezze e la coscienza di quelle debolezze che costituiscono la sostanza poetica della raccolta; che non è tanto, perciò, il documento dell’amore del Petrarca per la sua donna, quanto invece il documento del suo irrequieto, instabile, insoddisfatto mondo spirituale. Certamente, Laura ha una consistenza umana che Beatrice non aveva, oltre tutto perché è più oggettivata, più materializzata. Quel vago color di perla che era appartenuto a Beatrice diviene in Laura begli occhi, dolci sguardi, dolce riso, capei d’oro inanellati dal vento, angelico seno, belle membra. Ma questo suo umanizzarsi e, diremmo, “naturalizzarsi” era il risultato di una tendenza poetica che, partendo da Cino da Pistoia – il più terreno e meno aereo tra i poeti dello stilnovismo – doveva portare alla poesia lirica dell’Umanesimo. Ed era anche il segno di quell’amore per la natura proprio del Petrarca e che era estraneo, invece, ai poeti stilnovisti o aveva per essi diverso significato. La sua poesia s’ispira frequentemente, infatti, ai prati verdi, alle rive erbose dei fiumi, alle fresche acque sorgive, all’aulente bellezza dei fiori. Sicché, quando il sentimento d’amore e la contemplazione della natura si uniscono in un’unica ispirazione poetica, allora il suo canto raggiunge – com’è in Chiare, fresche e dolci acque – una perfezione lirica forse mai più eguagliata né da lui stesso né da altri: Da’ be’ rami scendea (dolce ne la memoria) una pioggia di fior sovra ’l suo grembo; et ella si sedea umile in tanta gloria, coverta già de l’amoroso nembo. Qual fior cadea sul lembo, qual su le trecce bionde, ed oro forbito e perle eran quel dì a vederle; qual si posava in terra e qual su l’onde; qual con vago errore gridando parea dir: – Qui regna Amore.69

Questa consistenza umana Laura non la perde con la morte; anzi, dopo la morte, s’accresce in lei: ella diviene così più sensibile, più dolce, più pietosa. La ragione consiste nel fatto che, venuta meno la Laura reale, il poeta può costruire con maggiore libertà la sua Laura ideale, può meglio compiere quella trasfigurazione lirica che è la caratteristica più emozionante della sua poesia. Ma forse la ragione è anche nel fatto, che, morta, Laura non è più la donna cupidamente desiderata: diviene invece l’amica, la sorella, la confidente dei suoi dolori. 69

Francesco Petrarca, Canzoniere, 126, 40-52.

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Il Trecento c) Le rime d’ispirazione civile e politica Tra gli amori del Petrarca non mancò l’Italia. Un giorno, dalle cime del monte Gebenna, la salutò commosso con uno dei suoi carmi latini più ispirati: la salutò terra santissima, patria delle muse, maestra del mondo. È facile intravedere, in un amore patrio così motivato, la sua connessione con gli altri suoi amori, che furono la romanità e le lettere antiche. Insomma, il sentimento del Petrarca non era tanto attaccamento all’alma tellus – come, ad esempio, era stato in Virgilio – quanto attaccamento ad una terra che era stata il teatro della gloria romana, nella politica come nelle arti. Perciò, l’uomo politico al quale andava tutta la sua ammirazione, il suo eroe addirittura, era Cola di Rienzo (a cui, forse, è dedicata la canzone Spirto gentil): perché lui concepì il sogno mirabile di restaurare l’antica repubblica romana. Certamente, ad accrescere nel poeta l’amore verso l’Italia antica era anche la sofferta considerazione dello stato attuale d’Italia – che è ispirazione e materia dell’altra famosa canzone Italia mia –: le continue guerre tra le Signorie per futili motivi, l’oscena presenza delle truppe mercenarie germaniche, la trascuratezza dei principi per le sorti d’Italia. Così anche le canzoni civili e politiche si colorano d’elegia: il lamento prevale sull’invettiva, la pietà per l’Italia prevale sempre sull’ira per i suoi nemici. Sembra proprio che Petrarca vada sempre in cerca di ragioni per piangere. In ogni caso il sentimento del poeta in queste canzoni – che pur hanno un loro precedente letterario nei Compianti provenzaleggianti e toscani (Sordello e Guittone d’Arezzo) – è sincero, perché il suo amore all’Italia era realmente profondo. Profondo, anche se non conosceva la passionalità sarcastica ed aggressiva di Dante; anche se non divenne mai fervore attivo e pratica di vita. Quando, infatti, si passa dalla sfera del sentimento a quello della prassi, ricompaiono subito le solite contraddizioni petrarchesche: ed allora lo vediamo vagheggiare contemporaneamente il sogno repubblicano di Cola di Rienzo e la restaurazione imperiale di Carlo IV; esaltare un tipo ideale di principe paterno e clemente e poi porsi al servizio del feroce Galeazzo Visconti. d) Il valore estetico La materia poetica del Canzoniere è fatta soprattutto di stati d’animo; meglio: di una variazione infinita di sfumature psicologiche e sentimentali. Sfumature indagate con un’abilità ed una sottigliezza che costituiscono un fatto nuovo ed unico forse nella storia della nostra lirica; e che, per essere espresse, richiedono un notevole affinamento dei mezzi espressivi a livello linguistico ed artistico. Inoltre, poiché il mondo che il poeta intende rappresentare non è costituito da fatti drammatici né da forti passioni, ma da sfumature di sentimenti ed oscillazioni della coscienza, ne deriva che la sua penna non conosce i toni marcati che furono della poesia di Dante, ma quelli invece delicati e soavi che, se da una parte conferiscono alla sua poesia una linearità, un’eleganza ed una grazia realmente eccezionali, d’altra parte rappresentano la voce musicale della sua malinconia. Non è da nascondere, però, che la compiacenza dell’esplorazione intimistica – ed ancora più della perizia tecnica per esprimere le pur minime variazioni di quell’esplorazione – creavano il rischio per il Petrarca di cadere nel manierismo. Nel quale finiranno, infatti,

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Il Trecento nei secoli successivi, i suoi non pochi imitatori, perché del modello non avranno né la sincerità e profondità degli affetti, né la fantasia poetica, né il senso dell’arte.

I Trionfi In volgare sono anche i Trionfi, un poemetto in terzine iniziato nel 1354, dopo la lettura della Divina Commedia di Dante. Mediante un elaborato tessuto di allegorie il poeta intende cantare, in una successione d’evidente significato spirituale, il trionfo dell’Amore, quello della Pudicizia, quello della Morte, quello della Fama, quello del Tempo e, in conclusione, quello dell’Eternità: il che vuol dire, insomma, il progressivo trionfo di tutto quanto è spirituale ed eterno su quanto invece è terreno e caduco. Ma anche qui lo svolgimento ideale del poema non corrisponde ad identica evoluzione dell’animo del poeta, bensì soltanto al suo costante e travagliato desiderio di elevazione spirituale. Inoltre è facile avvertire come l’opera sia nata dall’intento di imitare la Divina Commedia o di uniformarsi al gusto dell’arte medioevale: lo dimostrano il significato allegorico-didattico del poema, la sua struttura verticalizzata o gotica, l’uso della terzina. Ma Petrarca non aveva né il gusto letterario del Medioevo, né la capacità narrativa e strutturale di Dante: sicché il poema, nato da una volenterosa programmazione letteraria più che da sincera ispirazione, è nel suo complesso privo di vere qualità poetiche. Soltanto alcuni squarci lirici nei quali si esprime il mondo interiore del poeta – com’è quello in cui si contempla la morte come placida liberazione da una vita travagliata – raggiungono i livelli d’arte del Canzoniere.

Le opere in latino Pur ponendo assidua diligenza nella composizione delle opere in volgare, del Canzoniere soprattutto – ma era, del resto, proprio questo il suo modo di lavorare –, il Petrarca era fermamente convinto che la gloria di grande scrittore dovesse venirgli dalle opere in latino. Si trattava, come abbiamo già visto, di un preconcetto legato alla sua formazione culturale di preumanista. Pertanto, infinita cura egli pose sempre nella composizione delle opere in latino, delle quali alcune oggi vanno appena ricordate soltanto per essere uscite dalla stessa penna da cui vennero fuori le immortali rime del Canzoniere. a) Il Secretum e le opere ascetiche Tra le opere latine il Secretum è forse la più importante, perché in essa ritornano quei motivi intimistici che caratterizzano il Petrarca maggiore. Il titolo stesso dell’opera, infatti, ci dice come in essa l’autore metta a nudo la parte più intima e segreta della sua personalità. Si tratta di un dialogo tra il Petrarca e S. Agostino; e la Verità, personaggio muto che assiste al dialogo, sta a significare come in esso tutto risponda a verità e niente sia concesso alla finzione letteraria. Del resto la stessa scelta di S. Agostino come interlocutore dimostra il chiaro intento confessionale del dialogo, giacché già il Santo con le sue Con-

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Il Trecento fessioni aveva operato una coraggiosa e pubblica ricognizione della sua vita morale. Il Petrarca ammette le sue colpe – l’amore per Laura, l’ambizione di gloria, il continuo senso di scontento, quasi la compiacenza di dolersi di tutto – e fa proposito di liberarsene. Ma non in questo è il meglio del dialogo, quanto invece nella sofferta consapevolezza del poeta che, nonostante quelle ammissioni e quei propositi, la sua debolezza è tale che non gli permetterà mai di essere coerente con le promesse fatte. Dalla stessa sincera aspirazione ad una tranquillità interiore – ed anche dalla profonda impressione che la monacazione del fratello Gherardo aveva determinato in lui – nascevano due operette ascetiche: De otio religioso (La vita tranquilla dei religiosi) e De vita solitaria (La vita solitaria). In esse l’autore esaltava la serena vita del chiostro: ma non tanto per la quiete contemplativa che essa promette, quanto per la possibilità che concede ad una tranquilla attività di studi e di meditazione. b) Le lettere Importanti per la conoscenza non solo del mondo interiore del poeta, ma anche dei suoi ideali politici e religiosi e soprattutto dei suoi interessi culturali e letterari, sono le numerosissime lettere che il Petrarca compose durante tutto l’arco della sua attività letteraria e soprattutto durante gli anni della senilità, raggruppate in quattro raccolte: Familiari, Senili, Varie, Senza destinatario. Alcune di esse sono lettere realmente inviate ad amici, a familiari, a letterati ed uomini politici; altre, invece, non hanno destinatario e furono scritte come veri e propri saggi da pubblicare. Tanto le une quanto le altre, però, furono oggetto di grande cura stilistica e di ripetuti rimaneggiamenti. Caratteristica è poi l’erudizione – propria di un letterato che scrive ad un letterato. Infatti, se l’autore vuole consolare l’amico Annibaldeschi per la morte del figliuolo, gli ricorda Priamo, Anassagora, Pericle e Catone, mentre congratulandosi per la nascita di una figlia dell’Imperatore Carlo IV parla di Iside, di Saffo, di Pentesilea, di Clelia, di Cornelia, di Marzia. Sfoggio di erudizione classica che oggi appare senz’altro di cattivo gusto, ma che allora, in Petrarca, aveva un suo significato storico: significava l’assaporata ed entusiastica riscoperta della classicità che preludeva all’Umanesimo. Altro tratto preumanistico era la cura instancabile che l’autore poneva nel costruire quei suoi periodi latini secondo il modello ciceroniano, ad ognuno dei quali, notava Voigt, il suo cuore doveva sobbalzare di entusiasmo. c) L’Africa Ed ecco l’opera che diede al Petrarca grandissima fama tra i contemporanei e che gli procurò anche l’incoronazione sul Campidoglio romano. È un poema epico in esametri, scritto tra il 1338 ed il 1342 e rimasto incompiuto al nono libro: vi si racconta il momento risolutivo della seconda guerra punica. La fonte storica è Tito Livio, ma il modello poetico è Virgilio, per il quale anche Petrarca, come Dante, nutrì grande ammirazione. Ma Dante ammirava nel poeta latino la saggezza spirituale che gli aveva fatto quasi preconizzare il cristianesimo e la fantasia costruttiva; Petrarca ne ammirava, invece, l’ispirazione malinconica e la perfezione artistica.

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Il Trecento Ma Petrarca non aveva capacità narrative, tanto meno a livello epico: il mondo della guerra e degli eroi non lo interessava, non riusciva a sentirlo, completamente preso da quella “guerra” tutta interiore tra le diverse e contraddittorie aspirazioni della sua anima. Onde avviene che di questo poema epico ciò che interessa sono soltanto alcuni squarci lirici: quelli in cui il poeta, pur riferendoli a personaggi del poema, rappresenta sentimenti e stati d’animo suoi propri. Così, quando vediamo descritte le bellezze di Sofonisba, sentiamo subito che il poeta scrivendo pensa a Laura; quando leggiamo i lamenti di Massinissa ci sembra di sentire il poeta piangere di se stesso; quando sentiamo Magone che, morente, afferma che la morte è la migliore delle cose – Mors optima rerum – siamo allora convinti che per sua bocca parla lo stesso Petrarca. d) Le opere di erudizione Quant’altro scrisse il Petrarca non ha niente a che fare con la poesia, ma è soltanto un documento della sua erudizione, che non fu né varia né organizzata come quella di Dante, ma incentrata su alcuni temi fondamentali: le lettere classiche, la filosofia platonicoagostiniana e la storia, soprattutto quella antica, concepita in modo plutarchiano come trama tessuta dagli uomini illustri e dalle imprese memorabili. Da questi interessi storici nacquero due delle più note tra le sue opere di erudizione: le biografie di Uomini illustri dell’antichità ed i libri delle Imprese da ricordarsi, raccolta di fatti illustri ed esemplari tratti della storia contemporanea.

Modernità del Petrarca La perfezione stilistica della poesia del Petrarca determinò un’enorme suggestione tra i letterati dei secoli seguenti, tanto che difficilmente la lirica italiana seppe discostarsi da certi moduli e certe tonalità poetiche tipicamente petrarchesche. Anzi, in un certo periodo della nostra storia letteraria, e precisamente tra il Quattrocento ed il primo Settecento, essere un petrarchista era ragione di vanto per i nostri rimatori. Naturalmente, non avendo essi l’animo del Petrarca, ma imitando soltanto l’aspetto formale della sua poesia, la loro produzione si risolveva, come vedremo a suo tempo, in pura e semplice esercitazione letteraria. Perciò la perenne attualità del Petrarca, la sua modernità addirittura, non consiste tanto nel suo magistero artistico, quanto nella sua spiritualità. Noi oggi possiamo ammirare Dante, la sua coerenza morale, la tensione eroica con cui perseguì i suoi ideali, la capacità di armonizzare ed organizzare i suoi interessi; ma proprio per queste sue caratteristiche spirituali lo sentiamo tanto superiore a noi. E ci riconosciamo invece nel Petrarca: per quel suo perenne conflitto tra l’essere ed il volere essere, per quella sua penosa consapevolezza di debolezza della volontà, per quel suo senso di stanchezza e di sfiducia, per quel suo costante desiderio di riposo e di pace. Per questi temi, la poesia moderna nasce proprio con Petrarca.

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Il Trecento

Giovanni Boccaccio Mentre Petrarca riordinava le rime del suo Canzoniere, Boccaccio componeva le novelle del suo Decameron. Ma la contemporaneità delle due opere è soltanto cronologica: in effetti, leggendo il capolavoro boccaccesco, avvertiamo subito di trovarci in un mondo diverso, che, almeno sul piano morale, ha voltato definitivamente le spalle agli ideali ed alle preoccupazioni del Medioevo.

La vita Giovanni Boccaccio – o Boccacci70 – nacque a Certaldo71 nel 1313 da un agente della società commerciale dei Bardi, ben piantato economicamente. Ancora giovinetto fu dal padre mandato a Napoli, perché di là collaborasse alla sua attività commerciale. Ma, mal disposto a quell’attività, il giovane la trascurava per darsi agli studi, prima a quelli di diritto, poi a quelli letterari, come scriveva nella Genealogie deorum gentilium: Verum ad quoscunque actus natura produxerint alios, me quidam experientia teste ad poeticas meditationes dispositum ex utero matris eduxit et meo iudicio in hoc natus sum.72

Intanto nella corte angioina di Napoli, dove era stato introdotto dalla sua attività mercantile, contrasse una relazione amorosa con una giovane signora, Maria d’Aquino, figlia naturale dello stesso re Roberto d’Angiò, che il Boccaccio volle, con nome assai significativo, chiamare Fiammetta. Lo scrittore racconta di averla vista per la prima volta in una chiesa: ma forse è soltanto un particolare inventato da lui, che così voleva ravvicinare Fiammetta a Beatrice e Laura, anch’esse incontrate in chiesa dai loro poeti. Sta però il fatto che la donna di Boccaccio era assai diversa dalle donne di Dante e del Petrarca: era una signora dalla vita mondana, sensuale e instabile, che acconsentì con facilità alla passione del suo poeta, ma che con altrettanta facilità lo tradì per darsi ad altri amori. Poi la società dei Bardi fallì ed il padre di Boccaccio, ad essa legato da rapporti economici, subì un rovescio di fortuna. Il giovane scrittore dovette abbandonare la vita mondana e galante di Napoli e tornare a Firenze, dove fu costretto ad un’esistenza di ristrettezze, affrontate però con lodevole dignità. Qui agli studi ed all’attività letteraria – è ora che attende alla composizione del Decameron – frappose l’espletamento di alcuni incarichi di fiducia che il Comune di Firenze gli affidò. Si legò anche di amicizia con Petrarca 70

In quel tempo il cognome derivava dal nome del padre declinato al genitivo: e poiché il padre di Giovanni era Boccaccio di Chellino, il cognome del nostro autore, secondo alcuni critici, dovrebbe essere Boccacci; così come Dante si chiamò Alighieri per essere figlio di Alighiero. 71 Sembra ormai certo che la patria di Boccaccio fu Certaldo, non Parigi, come per qualche tempo si è creduto sulla base di alcune notizie romanzate che lo scrittore stesso diede sulla sua vita. 72 Libro XV, cap. X: «Di qualunque disposizione abbia dotato gli altri la natura, me, fin dal seno materno, per quel che mi conferma l’esperienza, ha disposto alle meditazioni della poesia, e, a mio giudizio, sono nato per questo».

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Il Trecento e, naturalmente, ne subì il magistero, dando ai suoi studi un indirizzo più classico ed umanistico. Ma ad imprimere una svolta decisiva alla sua vita ed alla sua attività letteraria – tanto che qualcuno parla di conversione del Boccaccio – fu soprattutto l’incontro nel 1362 col monaco Gioacchino Ciani, il quale, anche a nome di un altro frate in concetto di santità, il Petroni, consigliò lo scrittore a rinnegare, come immorale, la sua precedente produzione. Ne rimase profondamente turbato il Boccaccio, tanto che meditò finanche di bruciare il suo Decameron, ma se ne astenne perché dissuaso dal Petrarca. Morì nel 1375 a Certaldo, afflitto già da tempo da malattie e ristrettezze economiche.

Le opere minori precedenti il Decameron Le opere del Boccaccio precedenti il Decameron, scarsamente rappresentative delle capacità artistiche dello scrittore, ne testimoniano invece le esperienze di vita e la varietà degli interessi culturali. Sono facilmente riconoscibili, infatti, in ciascuna di esse, da una parte il motivo autobiografico che l’ha ispirata, dall’altra il riflesso di un modello letterario. a) Le opere del periodo napoletano All’amore per Fiammetta si ispira il Filocolo73 (1331?), il primo romanzo in prosa della letteratura italiana, il cui argomento fu tratto da un poemetto francese dell’undicesimo secolo. In una trama complicata ed appesantita da citazioni erudite si narrano le drammatiche avventure, felicemente conclusesi, dei due amanti Florio e Biancofiore. La parte più interessante del libro – forse l’unica realmente interessante – è quella in cui si discutono “questioni d’amore” da parte di una lieta brigata napoletana nella quale è anche Fiammetta. Interessante, perché da una parte ci da la presentazione della società napoletana del tempo – nella quale lo stesso autore allora viveva –, dall’altra introduce per la prima volta una tecnica narrativa cara al Boccaccio o addirittura a lui congeniale: quella dei lieti conversari tra giovani su tematiche d’amore. Il Filostrato74 (1338) è invece un poema in ottave, anch’esso derivante da fonte francese, in cui si narrano, sullo sfondo della guerra di Troia, le vicende di Troilo e Griselda. Tale vicenda fornisce al poeta il motivo per esplorare l’eterno dramma dell’amore, analizzato nei suoi molteplici casi: nella felicità e nel dolore, nell’ebbrezza e nella disperazione. Bello, infatti, è il soliloquio con cui Griselda cerca pretesti dinanzi alla sua coscienza per la sua arrendevolezza all’amore. Importante sul piano storico è l’adozione dell’ottava, che, già in uso nei cantari popolareschi, viene ora usata per la prima volta in un genere culto. Sull’Eneide di Virgilio è modellato il Teseida (1340), anch’esso in ottave. Intenzione dell’autore era quella di scrivere un poema eroico, anzi di arricchire di questo genere la nostra letteratura in volgare. Ma il motivo epico resta soltanto schema del poema, nel 73 74

«Fatica d’amore» secondo una personale etimologia dell’autore. «Vinto d’amore» sempre secondo l’errata etimologia dell’autore.

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Il Trecento quale subito balza in primo piano la delicata storia d’amore di due giovani, Arcita e Palemone, per la stessa donna, Emilia75. b) Le opere del periodo fiorentino Alla tesi stilnovista dell’ingentilimento prodotto dall’amore si ispira il Ninfale d’Ameto (1342), romanzo pastorale misto di prose e di versi, nel quale si racconta l’elevazione spirituale del pastore Ameto per effetto del suo amore per la ninfa Lia. L’Amorosa visione (1342) ricalca la Divina Commedia: non solo perché scritta in terzine, ma soprattutto perché l’autore vi racconta un suo viaggio allegorico che termina con l’esaltazione della sua donna, Fiammetta. L’Elegia di Madonna Fiammetta (1343?) – o più comunemente Fiammetta – è un romanzo d’amore in prosa, nel quale però, a differenza del Filocolo, non si raccontano fatti avventurosi ma si rappresentano stati d’animo: soprattutto i morsi della gelosia e la disperazione per l’abbandono. Fiammetta, infatti, piange e si dispera per essere stata abbandonata da Panfilo – sotto questo nome si nasconde Boccaccio –, che, lasciata Napoli e tornatosene a Firenze, non da più segni di sé. Poiché nella realtà dei fatti a soffrir di gelosia non era Fiammetta, ma lui stesso, Boccaccio, si è voluto vedere in questo romanzo un intenzionale capovolgimento di parti: potrebbe darsi, però, che l’ispirazione del romanzo sia legata ad un episodio particolare che realmente abbia eccitato la gelosia di Fiammetta76. Ciò non esclude, comunque, che l’autore, nell’analizzare tutti i moti della gelosia, si sia valso di sue personali ed intime esperienze. Si riscontrano anche in questo romanzo le caratteristiche delle precedenti opere: le reminiscenze letterarie, le citazioni mitologiche, lo sfoggio di erudizione; la stessa Fiammetta ci appare troppo erudita, troppo imbevuta di letture classiche, troppo smaniosa di citazioni, troppo diversa, insomma, da quella che sarebbe dovuta essere una donna innamorata. Ultima delle opere minori precedenti il Decameron è il Ninfale fiesolano (1346), poemetto mitologico in ottave nel quale si narra la storia del pastore Africo e della ninfa Mensola, trasformati in ruscelli che scorrono presso la collina di Fiesole e che, confluendo, mescolano le loro acque. Pur non mancando neanche qui reminiscenze letterarie – la stessa metamorfosi dei due giovani in corsi d’acqua ricorda Ovidio e Apuleio, che furono tra i suoi autori preferiti – è questa la più bella tra le opere minori del Boccaccio: un caldo sentimento della natura ed un acre fremito di sensualità preannunziano in questi versi le più belle pagine del Decameron. In conclusione, in queste opere pre-Decameron il Boccaccio, come ancora non sa staccarsi dalle esperienze culturali derivate dalla lettura dei classici, così non riesce a liberarsi dalle esperienze dei fatti vissuti; onde avviene che in tutti i personaggi femminili 75

La fonte è la Tebaide di Stazio ed il Roman de la Rose. La vicenda sarà ripresa nei Canterbury Tales (novella del Cavaliere) dallo scrittore inglese Geoffrey Chaucher (1340/5-1400), che non è certo conoscesse il Decameron. 76 Sembra che subito dopo la partenza di Boccaccio per Firenze si fosse diffusa a Napoli la notizia del suo matrimonio: ma a sposarsi – o meglio a risposarsi – era invece il padre.

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Il Trecento si intravede Fiammetta e tutti i loro innamorati presentano i lineamenti spirituali dello stesso autore. La grande arte del Boccaccio potrà nascere soltanto quando egli avrà saputo liberarsi dal legame diretto con queste esperienze o quando le avrà sapute filtrare attraverso la sua vivida fantasia poetica.

Il realismo del Boccaccio Scontento della sua società, Dante si portava in immaginazione nell’altro mondo e di là giudicava e condannava; la crisi e le contraddizioni insite nel suo tempo determinavano le penose incertezze dell’animo del Petrarca; Boccaccio, invece, si immerge nella sua società e l’accetta senza giudicarla. Il suo è, come giustamente è stato detto, un atteggiamento empirico, cioè un’osservazione della realtà “in presa diretta”, non accompagnata da un atteggiamento critico o pessimistico. È questo il vero realismo del Boccaccio: che è un atteggiamento spirituale prima che un dato stilistico. Vede, osserva, racconta: nessuna preoccupazione morale lo sfiora, non ha interessi didattici, niente lo turba e sconcerta. La sua non è più la società dei flagellanti e dei disciplinati che percorrevano le strade innalzando lodi al Signore, ma la società delle liete brigate che nelle ricche dimore borghesi e nei cascinali vivono di raffinate e gaie costumanze. Per queste liete brigate già Folgore di S. Gimignano aveva composto i suoi sonetti: consigli e raffigurazioni insieme di una vita piacevole e cortese. Per queste liete brigate, cresciute tanto di numero e divenute l’aspetto più tipico e consueto di una borghesia mercantile che era andata sempre più arricchendosi ed ampliando i suoi quadri, Boccaccio compone il Decameron: che di quella borghesia, alla quale egli stesso, mondano mercante, era appartenuto, non è soltanto affresco, ma epopea, perché ne esalta tutte le virtù, in primo luogo l’intelligenza multiforme e spregiudicata.

Il Decameron a) La struttura Già in alcune opere minori, come il Filocolo ed il Ninfale d’Ameto, Boccaccio aveva introdotto conversari di liete brigate: evidentemente, era questo il tema congeniale della sua fantasia, tema che andava cercando il suo giusto tono espressivo. Lo troverà alfine nel Decameron (1348-1353), raccolta di novelle tenute insieme da un racconto cornice. Il titolo, di derivazione greca, significa “dieci giornate”; quindi: novelle raccontate in dieci giornate. Ecco il racconto cornice. 1348: Firenze, come tanta altra parte d’Italia, è sconvolta dalla peste. Un martedì mattina, di primavera, sette giovani donne «delle quali niuna il venti e ottesimo anno passato avea, né era minor di diciotto»77 e tre giovani «non per ciò tanto, che meno di venticinque 77

Giovanni Boccaccio, Decameron, Giornata 1, Introduzione.

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Il Trecento anni fosse l’età di colui che più giovane era di loro»78, incontratisi nella chiesa di S. Maria Novella, per evitare il contagio e lo sconfortante spettacolo della città appestata decidono di rifugiarsi nel contado. Così trascorrono quattordici giorni lontano dalla città, prima in una villa, poi in un’altra; qui, per trascorrere piacevolmente i pomeriggi, raccontano novelle su un tema prefissato il giorno precedente da uno di essi a rotazione. Ma poiché il venerdì ed il sabato se ne astengono, essendo quelli i giorni dedicati a Cristo ed alla Vergine, il novellare dura appena dieci giorni e le novelle pertanto sono complessivamente cento. Ciascuna giornata si chiude con una ballata, anch’essa attinente all’argomento delle novelle. Questa trama o racconto cornice, se da una parte rispondeva al gusto medioevale della struttura unitaria dell’opera d’arte (si pensi alla struttura della Divina Commedia ed alla cura del Petrarca nell’ordinare le poesie del suo Canzoniere per dare ad esso un’organicità psicologica), d’altra parte nasceva da un’esigenza estetica: quella cioè di creare uno sfondo ambientale che desse risalto alle singole novelle e nello stesso tempo le motivasse psicologicamente. Il quadro macabro della peste, infatti, mentre per contrasto metteva in risalto quella gioia di vivere e di godere che è della maggior parte delle novelle, spiegava anche – e giustificava – il desiderio di evasione dei dieci giovani nel piacere del novellare. Inoltre non bisogna credere che questa cornice assolva soltanto ad una funzione strutturale o estetica o psicologica che sia: è essa stessa una novella, la più lunga ed anche una delle più belle del Decameron. È già in essa tutto il mondo boccaccesco che tornerà poi, di volta in volta, a dar vita alle cento novelle. Sono già qui l’atmosfera idilliaca, la gaia vita cortese, l’esuberanza esplosiva dell’amore in tutti i suoi infiniti atteggiamenti: fortunato in Panfilo, disperato in Filostrato, spregiudicato in Dioneo, rigoglioso e pur sereno in Pampinea, “focoso” in Filomena, dolente in Elissa, ingenuamente lascivo in Neifile, egoistico in Emilia, geloso in Lauretta, trepidante in Fiammetta. Sicché, i dieci giovani non sono dicitori di novelle, ma essi stessi personaggi fortemente caratterizzati di una novella che assume le proporzioni e l’aspetto di un incantevole affresco. b) I temi delle novelle L’aver detto che Boccaccio nel Decameron rappresenta la società del suo tempo sembra in contrasto col fatto che le novelle da una parte presentano personaggi e vicende dei tempi addietro – Federico II, Carlo I d’Angiò, Pietro d’Aragona, Cangrande della Scala, Cimabue, etc.; e quindi le Crociate, le lotte dei Comuni con l’Impero… –, dall’altra attingono spesso a novelle o altro materiale precedente – ai fabliaux francesi, alle leggende popolari medioevali, al Novellino. Ma la contraddizione è solo apparente, perché Boccaccio ridimensiona sempre quel mondo passato adattandolo al suo tempo: ora cogliendo di esso solo gli aspetti cortesi che ben si adattavano al dolce vivere della società borghese; ora, attribuendo addirittura – secondo l’antistoricismo tipico del Medioevo – a personaggi feudali atteggiamenti da nuovi borghesi.

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Ibidem.

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Il Trecento Ed anche quando desume argomenti da fonti letterarie o da tradizioni più o meno remote, sempre reinventa e ridimensiona: non nel senso che aggiunga a quelle vicende un suo personale giudizio – ché la narrazione boccaccesca è sempre obbiettiva –, ma nel senso che da ad esse una vita nuova ed un nuovo particolare sapore, inquadrandole in quella che è la realtà sua contemporanea. Ne è un esempio caratteristico la novella Nastagio degli Onesti79, che trae spunto da un argomento assai frequente nelle leggende medioevali – la caccia infernale – e che sarà trattato anche dal Passavanti nel suo Specchio di vera penitenza. Ma mentre in quelle leggende la donna era tormentata dal demonio perché aveva peccato di lussuria, nella novella boccaccesca la donna è condannata e punita perché insensibile e riluttante nei confronti del suo spasimante. Sicché la novella del Boccaccio sembra quasi la parodia della leggenda: quella finisce col terrore degli spettatori e col l’esortazione alla penitenza; questa consiglia alle donne d’essere pieghevoli all’amore e si chiude con una risata. Del resto, la novella di Nastagio degli Onesti è anche il rovescio della storia drammatica della Francesca di Dante, condannata all’inferno per aver ceduto alla passione d’amore. La ragione è che nel Decameron l’istinto non ammette, né può ammettere limiti né imposizioni: né da parte della ragione – che anzi la ragione sostiene la naturalità dell’istinto – né da parte della morale – che l’istinto, come dinamica di impulsi puramente fisiologici, non può ammettere l’interferenza della morale. Oltre all’istinto, altro tema frequente nelle novelle boccaccesche è l’astuzia, una qualità pratica dell’uomo, verso la quale Boccaccio, uomo di mondo, borghese e mercante, non può non sentire attrazione e simpatia; tanto più che essa è perpetrata ai danni di uomini sciocchi, creduloni e “pecoroni”. Ed anche qui la situazione è diametralmente opposta a quella della Commedia, se si pensa che Boccaccio assume come eroi delle sue novelle quegli astuti e fraudolenti che Dante avrebbe condannato nel fondo dell’inferno. Ed è emblematico il fatto che ser Ciappelletto, nonostante la sua frode, anzi proprio per mezzo di essa, si assicura un posto in paradiso, almeno nella considerazione dei suoi conoscenti80. Ma quando l’istinto, soprattutto quello dei sensi, si unisce all’astuzia, allora abbiamo le più “boccaccesche” novelle del Decameron, quelle degli inganni e delle beffe giocate da donnine procaci e sensuali – la Belcolore, la Peronella, ma ne sono un esercito! – ai loro mariti creduloni. È qui che la narrativa del Boccaccio raggiunge i toni più realistici ed insieme più comici. Quando, invece, l’istinto d’amore non si allea con l’astuzia, ma con la cortesia – il che vuol dire con la gentilezza e con la magnanimità – allora argomento della novella non è più la beffa volgare, ma la dedizione completa o l’eroica rinunzia: e l’intonazione comica lascia il posto ad un’intonazione elegiaca e tragica. Com’è in Federigo degli Alberighi, che, per degnamente ospitare la donna del cuore, uccide per lei tutto quanto gli era rimasto: un falcone81; com’è nell’eroica fedeltà di Griselda al marito82; com’è ancora 79

Idem, Giornata 5, novella 8. Idem, Giornata 1, novella 1. 81 Idem, Giornata 5, novella 9. 80

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Il Trecento nell’appassionata dedizione di Lisa83 o nel dolore che consumerà Lisabetta da Messina84. Ora, il fatto che queste novelle della magnanimità siano in buona parte raccolte nella decima giornata – in cui «si ragiona di chi liberamente ovvero magnificamente operasse intorno a’ fatti d’amore»85 – ha fatto credere a qualcuno che il Boccaccio abbia voluto condurre il lettore attraverso l’inferno dell’istinto e dell’astuzia per poi farlo approdare al paradiso della magnanimità. Ma un tale impianto strutturale presupporrebbe un interesse didattico senz’altro estraneo alla mente ed all’arte del Boccaccio. c) La presunta immoralità Il Decameron non fu affatto un’opera di rottura nei confronti del suo tempo. Quel che infatti rimaneva ancora in quel tempo della mentalità medioevale permane anche nel Decameron: vogliamo alludere a certe formalità e comportamenti religiosi. I dieci giovani novellatori si incontrano in una chiesa, così come in una chiesa erano nati l’amore di Dante (e quindi la Divina Commedia) e l’amore di Petrarca (e quindi il Canzoniere); di venerdì e sabato essi si astengono dal novellare, perché sono quelli i giorni dedicati a Cristo e alla Vergine; raccontano spesso sconcezze, ma non le fanno: ed anzi Boccaccio si preoccupa spesso di mettere in evidenza che la loro fu un’«onesta brigata»86, che le sette giovani donne erano «savia ciascuna e di sangue nobile e bella di forma e ornata di costumi e di leggiadra onestà»87 e che mai commisero «niun atto, niuna cosa, niuna parola […] da biasimare»88. E non fu un’opera di rottura anche per il fatto che furono ben pochi a scandalizzarsene: forse qualche temperamento mistico, come il Ciani e il Petroni; mentre invece moltissimi furono a leggerlo e molti a tentarne delle imitazioni. Il fatto è che se nel Decameron erano situazioni licenziose, queste erano nella vita di ogni giorno prima che nella pagine dell’opera del Boccaccio. Del resto, anche il Decameron ha una sua serietà morale. Certamente, da un modo di rappresentare in “presa diretta” e senza l’intervento di una ideologia, non ci si poteva aspettare né la satira né tanto meno il sarcasmo. Ma la semplice rappresentazione di una situazione di costume può essere di per se stessa un atto di denunzia. Dante aveva condannato tragicamente papi e cardinali nell’inferno, perché la loro corruzione lo aveva profondamente indignato; Boccaccio riversa scrosci di risa su frati e prelati, perché la loro volgare impudenza lo diverte: la situazione morale, però, è comunque rilevata. Consideriamo la novella del giudeo Abraam89. Prima di farsi cristiano vuole rendersi conto della vita che nella curia romana conducono papa e cardinali. Va a Roma e 82

Idem, Giornata 10, novella 10. Da notare come il Decameron si apra con una novella quasi blasfema, quella di ser Cappelletto, ma si chiuda con una storia assai edificante. 83 Idem, Giornata 10, novella 7. 84 Idem, Giornata 4, novella 5. 85 Idem, Giornata 10, Introduzione. 86 Idem, Proemio. 87 Idem, Giornata 1, Introduzione. 88 Idem, Giornata 10, Conclusione. 89 Idem, Giornata 1, novella 2.

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Il Trecento s’accorge che quelli sono carichi di ogni vizio. Che decide allora Abraam? Si fa cristiano, perché dice che se la Chiesa continua ad essere in piedi nonostante la corruzione dei suoi capi, vuol dire che alle sue spalle c’è realmente lo Spirito Santo. Non si può dunque negare che novelle come queste, nonostante la loro intonazione comica, sottendano una propria serietà morale. d) Lo stile e la lingua Il realismo del Boccaccio è, come si è detto, soprattutto un atteggiamento spirituale, un modo empirico di osservare il mondo che lo circonda. Ciò non esclude, però, che possa parlarsi anche di un realismo stilistico, entro i limiti, è naturale, consentiti all’arte del XIV secolo. Se infatti si accosta il Decameron alla prosa narrativa della Vita nuova così aerea ed elusiva, più evidente apparirà la precisione descrittiva del Boccaccio, quel suo determinare località e ambienti, quella sua cura meticolosa nel precisare le situazioni ed il loro determinarsi, quell’attenta analisi dell’animo dei suoi personaggi. Anche la lingua, niente affatto generica, sa adattarsi di volta in volta alle particolari situazioni ed ai singoli personaggi: onde non solo essa è più prosaica e sciolta e dimessa nelle situazioni comiche e nelle novelle licenziose – e più elevata invece e composta in quelle in cui si raccontano situazioni drammatiche e stati d’animo magnanimi; ma sa anche, secondo il caso, arricchirsi di tratti dialettali o di francesismi. Si badi bene, però, a non confondere tutto questo con immediatezza espressiva o con linguaggio popolaresco. Se, infatti, lo stile e la lingua perdono a volte la loro gravità per farsi più semplici e meno eletti, ciò è pur sempre una scelta retorica, un attento lavoro di letterato che vuol trovare per ogni vicenda il giusto tono narrativo. Consapevole, del resto, ne era il Boccaccio stesso, quando affermava «queste cose tessendo, né dal monte Parnaso né dalle muse non mi allontano»90. e) La fortuna del Decameron La fortuna del Decameron fu subito enorme se, come testimonia un imitatore, il Sacchetti, il libro fu tradotto in francese ed in inglese già nel corso del Trecento. È innegabile che parte di tale immediata fortuna era costituita dal genere stesso scelto dal Boccaccio, quello della novella, che, data la sua funzione di svago e trattenimento, aveva una maggiore possibilità di diffusione; soprattutto tra i mercanti i quali, per passare il tempo durante i lunghi viaggi e le soste, amavano leggere o farsi leggere novelle amene e piccanti. Ma la fortuna del Boccaccio fu grande anche nei secoli successivi: e non ci riferiamo tanto all’importanza che lo scrittore ebbe tra noi quale modello di lingua, quanto al fatto che il suo novelliere aprì la via a tutta la narrativa europea. Perché qui è proprio la grandezza del Boccaccio: nella sua grande arte di narratore; la quale consiste da una parte nella maestria con cui tesse il racconto creando effetti dram90

Idem, Giornata 4, Introduzione.

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Il Trecento matici che tengono sempre desta e sospesa l’attenzione dei lettori, dall’altra nell’abilità descrittiva, precisa ma mai superflua, che rende visiva la situazione anche al lettore più sprovveduto di capacità immaginativa.

L’ultimo Boccaccio Il Decameron coincideva col momento felice della fantasia boccaccesca; iniziava poi la parabola discendente. Le opere che seguono quella grande raccolta di novelle non reggono minimamente al suo confronto e si riducono, per la maggior parte, ad opere di erudizione. a) Il Corbaccio Opera di pura immaginazione è il Corbaccio (1364), romanzo il cui titolo, con ogni probabilità, significa “scudiscio”. Si tratta, infatti, di una dura sferzata alle donne e all’amore. Lo scrittore immagina di vedere in sogno il marito morto di una donna di cui egli si è innamorato, il quale gli parla a lungo di tutte le subdole arti delle donne in genere e della sua in particolare. Il sostrato misogino del romanzo, che del resto si riallacciava a tutta una tradizione classica e medioevale – Giovenale, Apuleio, S. Girolamo – proveniva forse dall’intento del Boccaccio, che già aveva incontrato il Ciani, di liberarsi dalla sua istintiva attrazione per le donne e per l’amore e dalla volontà di scrivere una specie di palinodia nei confronti del Decameron, che proprio alle donne era stato dedicato. A meno che ad ispirare l’autore non sia stata proprio una nuova, recente e deludente, avventura sentimentale. Resta comunque il fatto che proprio il venir meno del motivo che più e meglio aveva ispirato il Boccaccio maggiore – il mondo della donna e dell’amore – determinava l’isterilirsi della sua fantasia ed il cambiamento completo dei suoi interessi. b) Gli scritti danteschi Se per Petrarca Boccaccio nutrì grande ammirazione, per Dante provò venerazione addirittura. Una venerazione istintiva e non sempre spiegabile, se si tiene conto del divario che sul piano degli interessi spirituali divideva i due scrittori, che in comune sembravano avere soltanto l’amore per il volgare italiano. Infatti, nel Trattatello in laude di Dante (1362) – che ha il merito di essere il primo saggio biografico-critico sul grande poeta – Boccaccio riconosceva a Dante il merito di aver usato il volgare, rendendo così il suo poema accessibile a larghi strati di lettori. Da questo culto per il poeta della Commedia nacque anche il Commento ai primi diciassette canti dell’Inferno, letto pubblicamente in una chiesa fiorentina e quindi sospeso per le malferme condizioni di salute dell’autore. c) Le opere in latino Dall’incontro sul piano culturale col Petrarca e dal desiderio di imitarlo in un’attività letteraria per specialisti nacquero le opere di erudizione, naturalmente in latino. Certa-

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Il Trecento mente, però, queste opere non erano soltanto il risultato di un mutamento di interessi culturali, ma anche di una crisi di coscienza, che, invitando il Boccaccio a più profonde meditazioni, gli davano il senso della labilità dei piaceri e dei beni terreni. Così, nel De casibus virorum illustrium (Le cadute degli uomini illustri) l’autore passava in rassegna una serie di uomini illustri – da Adamo ai contemporanei – che, dopo aver gustato la gloria terrena, caddero nella sventura. La considerazione della vanità della fama ispirava anche il De claris mulieribus (Le donne illustri), una raccolta di biografie di donne della storia – da Eva a Giovanna I, regina di Napoli – celebri per le loro virtù (o per i loro vizi). Di tutte le opere dottrinarie scritte in latino la più importante è la Genealogie deorum gentilium (La genealogia degli dèi pagani): e non tanto per la trattazione dei miti antichi, di cui pur lo scrittore ci dava interpretazioni morali ed allegoriche secondo l’ottica medioevale, ma per l’affermazione del significato della poesia: la quale, secondo l’autore, rivelando agli uomini profonde verità, assume un significato morale non dissimile dalla teologia. Affermazione che dimostra quanto lontani si sia ormai dal Boccaccio del Decameron.

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Il Trecento

I Trecentisti minori Dante, Petrarca e Boccaccio furono i tre grandi scrittori del secolo, le “tre corone”, come furono definiti da un letterato del tempo. Per merito loro, non soltanto il volgare fiorentino si avviava a divenire lingua letteraria nazionale, ma le stesse lettere italiane, prima tributarie della letteratura franco-provenzale, si imponevano come modello delle letterature straniere. Per il resto il secolo non presenta che scrittori minori, i cui meriti appaiono ancor più modesti nel confronto con quei tre grandi.

Gli imitatori dei grandi Avviene frequentemente, in letteratura come nelle arti in genere, che il successo di un’opera spinga letterati ed artisti mediocri ad imitarla. C’è a base di questo fenomeno un errore di valutazione: si crede che il successo di quella certa opera sia dovuto al genere o all’argomento trattato e non invece, come in effetti è, alla capacità tutta personale dell’autore di trattare quel genere e quella materia. Così il successo della Divina Commedia, opera fondamentalmente allegorico-didattica, promosse tutta una fioritura di poemi e poemetti dello stesso genere; ne vennero fuori opere stucchevoli, prive di fantasia, appesantite da sottili significazioni allegoriche, quali: il Dottrinale di un figlio di Dante stesso, IACOPO ALIGHIERI; il Dittamondo di FAZIO DEGLI UBERTI; il Quadriregio di FEDERICO FREZZI. Anche Petrarca, data la fortuna del suo Canzoniere, ebbe molti imitatori e più ancora ne avrà nei secoli successivi. Intanto, per restare al Trecento, citeremo CINO RINUCCINI e FRANCESCO VANNOZZO: poeti mediocri, che della poesia del Petrarca potevano imitare soltanto la ricerca stilistica ed una certa eleganza formale, ma certamente non la profondità degli affetti, né l’intimo travaglio e nemmeno la suggestiva armonia del verso. Naturalmente, data la maggiore affinità con gli atteggiamenti spirituali ed i gusti dell’ultimo Trecento, il Decameron del Boccaccio doveva avere una più nutrita schiera di imitatori. Oltre a GIOVANNI FIORENTINO e a GIOVANNI SERCAMBI, compose novelle anche FRANCO SACCHETTI (Ragusa, Dalmazia 1332 ca. - San Miniato, Pisa 1400), che tra i minori del Trecento rappresenta la personalità più degna di rilievo. Oltre a qualche poemetto di carattere giocoso ed a rime di vario argomento, compose il Trecentonovelle (in effetti sono poco più di duecento), in cui ricompaiono i temi boccacceschi delle beffe, delle burle, degli equivoci, senza però la grande arte narrativa del Boccaccio: sicché i suoi racconti, rapidi e brevi, sono prive di rilievo drammatico e ricordano piuttosto gli aneddoti del Novellino che non le novelle del Decameron.

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Il Trecento

La letteratura religiosa Non poteva certamente mancare nel corso del Trecento, soprattutto negli ambienti monacali e popolari eredi delle tradizioni francescane e laudesi, una letteratura religiosa e, naturalmente, di chiara finalità edificatoria. Tale, infatti, è lo scopo che si propose il domenicano IACOPO PASSAVANTI (Firenze, 1302 ca. - 1357) col suo Specchio di vera penitenza: una raccolta di prediche quaresimali nelle quali, per distogliere gli uomini da tutto quanto è terreno e peccaminoso, vengono rappresentati, in modo drammatico e con un realismo assai convincente, le pene atroci dell’inferno. Ma se il Passavanti per il suo realismo espressivo sembra ricordare Iacopone da Todi, al clima serafico della poesia francescana ci riportano I fioretti di S. Francesco, traduzione di un originario testo latino fatta da un anonimo. Vi si narra la vita del Poverello d’Assisi e dei suo primi compagni: tutta la narrazione, condotta con uno stile semplice e disadorno, è avvolta da un certo alone di poesia che nasce dallo stupore innocente e quasi fanciullesco che accompagna sempre l’azione di Francesco e dei suoi primi seguaci. Rifacimento di un testo latino sono anche le Vite dei Santi Padri di DOMENICO CAVALCA (Vicopisano, Pisa, 1270 ca. - Pisa, 1342), in cui si racconta l’esistenza degli antichi eremiti d’Oriente e le loro lotte contro le tentazioni diaboliche: tema assai caro alle folle dei fedeli medioevali. Espressione di un sentimento religioso non solo ascetico, ma anche polemico e battagliero sono le Lettere che Santa CATERINA DA SIENA (Siena, 1347 - Roma 1380), dell’ordine delle mantellate, rivolse ai pontefici perché abbandonassero Avignone e riportassero a Roma la loro sede, ai Principi perché indicessero una nuova crociata, ai religiosi perché ritornassero ad una vita evangelicamente esemplare. Sono lettere nutrite di sdegno e di passione, ispirate da un profondo amore per Cristo, del quale la santa parla sempre con trasporto sovrumano. Eppure S. Caterina era un’illetterata che non sapeva neanche comporre la sua firma, ma dettava le lettere in preda ad uno stato di profonda commozione, quasi di ispirazione sovrannaturale.

La storiografia Al fervore della vita comunale si lega il sorgere di una storiografia municipale, che del Comune appunto vuole esaltare le glorie. Inizialmente, e cioè fino alla metà del Duecento, questa storiografia si era servita della lingua latina o di quella francese, quali lingue di più vasta risonanza. Nel Trecento, invece, per opera di scrittori toscani, prevale decisamente il volgare. Il primo di questi scrittori è DINO COMPAGNI (Firenze, 1255 ca. - 1324). Fiorentino di parte bianca e perciò tenuto lontano dalla vita pubblica dopo la venuta di Carlo di Valois, cercò confortò alle sue sventure politiche scrivendo una Cronica delle cose occorrenti ai tempi suoi, racconto degli avvenimenti fiorentini tra gli anni 1280-1312. Uomo di parte, fervente credente, moralista intransigente, Compagni non sa nascondere nel racconto degli avvenimenti il suo personale risentimento e, denunciando colpe e vizi degli uomini politici fiorentini e di buona parte del popolo, ravvisa in ciò la causa dei mali che afflig-

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Il Trecento gono la sua patria. Ne nasce perciò non un resoconto storico obiettivo, ma una presentazione drammatica di vicende vissute e sofferte. Altra cosa è la Cronica di GIOVANNI VILLANI (Firenze, 1280 ca. 1348), la quale, secondo uno schema storiografico medioevale, prende inizio dal racconto della torre di Babele e giunge fino all’anno stesso della morte dell’autore, nel 1348. Manca qui la vivacità drammatica della cronaca del Compagni, ma il racconto è più obiettivo, ricco di particolari interessanti e finanche di notizie statistiche: ne vien fuori il ritratto di una Firenze ricca e potente, che commercia con ogni regione d’Europa e che è al centro delle vicende politiche italiane. L’opera fu poi continuata dal fratello Matteo e dal nipote Filippo. La Cronica venne anche ridotta in versi nel Centiloquio da ANTONIO PUCCI (Firenze, 1310 ca. - 1388), autore tra l’altro di Rime realistiche e di Cantari cavallereschi.

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Il Quattrocento

L’Umanesimo Il momento storico In Europa il Quattrocento vede il rafforzarsi degli Stati nazionali (Francia, Inghilterra, Castiglia) ed il crollo definitivo dell’Impero Romano d’Oriente ad opera dei Turchi, che mettono così piede nella penisola balcanica. In Italia il secolo appare diviso in due parti e la pace di Lodi (1454) ne è la cerniera. La prima parte è caratterizzata dai tentativi egemonici dei principati più forti e dalle coalizioni degli altri per impedirli: si tratta, per questo, di un periodo di forti tensioni politiche e di veri e propri conflitti armati. La seconda parte, invece, è caratterizzata da un raggiunto equilibrio di forze che assicura un lungo periodo di pace e di benessere. Protagonista di tale politica di equilibrio è lo Stato fiorentino, abilmente guidato da Lorenzo il Magnifico, che perciò è detto “l’ago della bilancia politica italiana”. Sono fatti comuni alla prima ed alla seconda parte del secolo il processo di rafforzamento dei potere signorile che debella le opposizioni interne e l’accrescersi della potenza economica della borghesia mercantile e precapitalista. Questa, esautorata dalla vita politica, che rimane appannaggio quasi esclusivo del signore, è ripagata dall’ampliamento dei mercati – per il trasformarsi dello Stato da cittadino in regionale – e quindi dall’accresciuto giro di affari. E si devono proprio a questa ricca borghesia mercantile un ulteriore miglioramento del tenore di vita ed un conseguente raffinamento dei costumi: non solo le corti dei Signori, infatti, ma le dimore stesse dei borghesi gareggiano in eleganza e nell’allestimento di feste sontuose. La Chiesa ricompone la sua unità per effetto del concilio di Costanza91, ma perde sempre più di ascendente per il laicizzarsi della cultura e per un generale affievolirsi del sentimento religioso.

Il quadro culturale Il grande fenomeno culturale del Quattrocento è l’Umanesimo, già preannunziato, nella seconda metà del secolo precedente, da certi atteggiamenti letterari evidenti soprattutto in Petrarca e da certi atteggiamenti spirituali del Boccaccio maggiore. Il termine sembra sia derivato da studia humanitatis, espressione con cui gli antichi indicavano gli studi rivolti ad indagare i problemi dell’uomo e a promuoverne la perfezione. Umanesimo significa fondamentalmente: preminenza del latino come lingua letteraria, un nuovo modo di leggere i classici e di imitarli, un nuovo tipo di letterato, professionista e cortigiano; ed anche una maggiore terrenità spirituale, un’entusiastica esaltazione

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Il concilio di Costanza (1414-1418) pose fine alla cattività avignonese ed allo scisma: depose Papa ed Antipapa in carica ed elesse un nuovo Pontefice; moralizzò la Chiesa con la condanna della simonia e del nepotismo; riprovò come eretiche le posizioni democratiche di Jan Hus, condannandolo al rogo.

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Il Quattrocento delle capacità umane e, di conseguenza, la tendenza a rendere lettere e scienze autonome da ogni interferenza morale e religiosa.

Il recupero del latino e la frattura della vita culturale italiana L’aspetto non solo più caratteristico, ma anche più ricco di conseguenze a lunga scadenza, dell’Umanesimo è nel fatto che esso determina una profonda frattura della vita culturale italiana. Ancora nel Trecento non era facile determinare i limiti tra letteratura popolare e letteratura borghese. Premesso, infatti, che le opere in latino di Dante, del Petrarca e del Boccaccio erano letteratura per specialisti, come stabilire se la Divina Commedia, il Canzoniere, il Decameron fossero opere riservate alla borghesia con esclusione del popolo? Ed erano scrittori popolari o borghesi Antonio Pucci e Franco Sacchetti, autori di cantari e poemetti giocosi oltre che di novelle e poesie? Nel corso del Quattrocento, invece, si determina una più marcata differenziazione di ordini sociali: mentre va formandosi un’aristocrazia costituita da ricchi borghesi divenuti anche proprietari terrieri e di uomini di corte, il popolo minuto viene sempre più respinto verso penose condizioni di vita. Questa nuova aristocrazia, intenta a difendere le posizioni raggiunte, si studia di accrescere questa frattura anche a livello culturale, assumendo sempre più una posizione di specializzazione e di aristocrazia letteraria. La prima manifestazione di questa presa di posizione culturale è proprio il ripudio del volgare quale lingua letteraria ed il recupero del latino. La stessa polemica che gli umanisti sostengono contro il volgare evidenzia come a base del loro giudizio non sia tanto una motivazione tecnica, quanto invece sociale: Niccolò Niccoli (1364-1437) biasima Dante per essere «poeta da ciabattini e da fornai» e Francesco Filelfo (1398-1481) si rifiuta di commentare Petrarca, perché ritiene che ciò avrebbe dilettato gli ignoranti, piuttosto che gli uomini dotti ed “importanti”. Sembra proprio, insomma, che gli umanisti si arrocchino nel latino per tener il popolo fuori della cittadella della cultura letteraria: il che sarà un fatto non privo di gravi conseguenze nella storia della cultura italiana.

Il modo nuovo di leggere i classici Prescelto il latino, gli umanisti ne dovevano spiegare l’adozione. Ed ecco il culto per l’antichità classica, soprattutto per gli scrittori romani. Veramente, la conoscenza della letteratura latina non era venuta mai meno nei secoli addietro: sorgendo, la letteratura italiana aveva subito la naturale influenza di quella latina; i giuristi medioevali si erano ispirati al diritto romano; i filosofi del Cristianesimo, come S. Tommaso e S. Bonaventura, non solo avevano scritto in latino le loro opere, ma dai classici avevano tratto anche clichés di impostazioni logiche e di stile; Dante non solo confessava di “saper” tutta l’Eneide di Virgilio (che del resto imitava anche nella Commedia), ma mostrava di aver letto anche parte di tanti altri scrittori latini (Orazio, Ovidio, Stazio, Lucano).

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Il Quattrocento Nel Medioevo, però, ci si accostava al mondo classico con una particolare condizione di spirito, con un interesse morale più che culturale: si cercava di scoprire nei testi antichi un significato di illuminazione più che un valore intrinseco d’opera d’arte. Ecco perché Dante chiamava Virgilio “famoso saggio” e lo faceva simbolo della ragione umana e guida del suo viaggio ultraterreno. Gli umanisti, invece, ricercano nei testi antichi un modello di stile e di lingua. Dal che nascono due fatti importanti: da una parte, essendo il loro interesse essenzialmente rivolto all’aspetto formale dei testi, le errate trascrizioni medioevali con cui quelle opere erano state tramandate non soddisfano più e perciò, mediante un attento lavoro filologico, si cerca di restituirli alla originaria stesura; dall’altra, data l’insuperabile perfezione di quei modelli, al letterato non resta che imitarli. Così l’interesse per la filologia e la norma dell’imitazione vengono a rappresentare due aspetti fondamentali dell’Umanesimo. Consiste in questo la vera diversità del modo con cui Medioevo ed Umanesimo incontrano la cultura classica. Invece, affermare che gli umanisti abbiano riscattato l’antichità dalla contaminazione storica del Medioevo – che avrebbe cercato di adattarla alle sue idealità ed ai suoi gusti – e che l’abbiano finalmente considerata storicamente come un’età conclusa, non ci pare cosa del tutto vera: sia perché il Medioevo, se si eccettuano certi goffi travisamenti a livello popolaresco (soprattutto nei cantari di argomento classico), non operò sempre quella contaminazione con l’antichità che gli si vuole addebitare; sia perché l’Umanesimo non considerò realmente l’età antica conclusa e a sé stante, visto che credette possibile resuscitarla nella lingua e nelle lettere e, tra gli umanisti men che mediocri, finanche in certe quotidiane costumanze di vita.

Il nuovo letterato Quando la vita comunale ferveva di lotta politica, lo scrittore era fondamentalmente un cittadino che prendeva attiva parte alla vita del Comune – quale magistrato, notaio, maestro, giurista – e marginalmente faceva anche lo scrittore (Brunetto Latini, Guittone d’Arezzo, etc.); poi la lotta politica in seno al Comune si assopì – segno premonitore della Signoria – e lo scrittore fece dello scrivere la sua attività fondamentale, solo occasionalmente interessandosi di incarichi politici, come ambascerie o stesura di lettere (Petrarca, Boccaccio). Al tempo delle Signorie e dei Principati, il che vuol dire nel l’età di cui ci stiamo occupando, lo scrittore fa generalmente solo lo scrittore e basta. Scrivere diventa la sua professione, l’attività che gli permette di vivere. Ma in che modo? Non nel senso che tragga guadagni dalle sue pubblicazioni – ché un commercio librario, in quel tempo, dato il carattere aristocratico della cultura, nonostante stiano venendo fuori i primi esemplari a stampa, era un fatto quasi inesistente – ma nel senso che viene mantenuto dal signore esclusivamente per la sua attività letteraria, anche se questo sostentamento è a volte mascherato con occasionali incarichi di governo. Si sviluppa così il tipo del letterato professionista e cortigiano – già nato col Petrarca – che fa dello scrivere la sua attività professionale, mettendo la penna al servizio del Si-

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Il Quattrocento gnore che lo remunera e che molto spesso lo ospita anche nel suo palazzo. Ed è una circostanza, questa, che se non fu priva di aspetti positivi – perché rendeva possibile ai letterati di dedicarsi allo scrivere, senza essere distratti da altre esigenze pratiche – creò però un cattivo costume letterario: quello cioè di porre l’arte al servizio delle corti. Ed ecco un’altra caratteristica dello scrittore umanista: proprio per il carattere aristocratico e di élite che egli da all’attività letteraria e per il modo stesso di intendere le lettere come imitazione di modelli classici, è un assiduo studioso: va instancabilmente alla ricerca dei testi antichi, li trascrive, li emenda degli errori di trascrizione dei copisti medioevali, li raccoglie nella sua biblioteca. Ma nella sua attività di studioso egli è sempre guidato da spirito critico, sicché a distinguerlo da un intellettuale del Medioevo non è tanto la qualità o la quantità delle nozioni, quanto invece il modo diverso con cui si avvicina ad esse.

Il senso del terreno Si sviluppa in seno alla letteratura dell’Umanesimo un altro aspetto, meno formale questo e riguardante il senso stesso del vivere quale si esprime nelle, opere degli scrittori: è un abbandono completo delle preoccupazioni morali e religiose che avevano caratterizzato per tanta parte la letteratura medioevale. Questo non vuol dire che gli umanisti non avvertano istanze morali – che derivano invece ad essi dal senso stesso della dignità dell’uomo tanto esaltata in tutto il clima umanistico – né che siano o si dichiarino atei o non cristiani. Vuol dire, invece, che morale e religione non sono più elementi caratterizzanti della loro arte, la quale trova ispirazione frequente nelle gioie e nei piaceri della vita, nelle bellezze della natura, nell’equilibrio dell’uomo capace di costruirsi una sua felicità terrena prima che un suo destino ultraterreno ed eterno. Banalizzando si suole contrapporre ad un Medioevo tutto ascesi e misticismo, fatto di processioni di litanianti e flagellanti, di laude, di sacre rappresentazioni, di visioni dell’aldilà, un Umanesimo gaudente ed epicureo, tutto cortei di maschere tripudianti ed esaltanti il trionfo della giovinezza e dell’amore. Ma a parte il fatto che è sempre pericoloso creare delle rigide caratterizzazioni di periodi storici, quasi fossero isolati compartimenti stagni, il senso della terra e dei suoi piaceri che pervade buona parte della letteratura umanistica non è un fatto del tutto nuovo: è invece il risultato o punto di arrivo di quella tendenza già in atto nei secoli precedenti e che ci aveva portato dalle laude mistiche, attraverso i sonetti di Cecco e di Folgore, fino al Decameron di Boccaccio92. Né riteniamo che questo senso del terreno e dell’umano, che si contrappone al senso del soprannaturale e del divino che era stato del Medioevo, sia stato causato dalla lettura dei classici e della mitologia pagana (che nella letteratura prendeva ora il posto dei testi sacri); riteniamo, invece, che sia stato effetto di una mentalità nuova, di un diverso modo di affrontare i problemi dell’esistenza da parte di una borghesia ricca, senza pensieri e 92 Il rapporto Medioevo-Umanesimo, concepito una volta, soprattutto per opera della critica romantica, come rivoluzione, cioè opposizione completa, è inteso ora come evoluzione (tesi della continuità di Dopsch, Garin, etc.).

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Il Quattrocento senza scrupoli, che certamente non aveva più alcuna ragione di cercare nel Cielo il conforto alle angustie terrene.

L’autonomia delle lettere ed i nuovi generi letterari Questo liberarsi dell’uomo – e quindi dello scrittore – dalle eccessive preoccupazioni religiose e morali faceva sì che l’arte, prima considerata ancella della teologia, acquistasse la sua autonomia rinunziando a farsi strumento di edificazione morale. È un processo di autonomia, questo, che non riguarderà solo l’arte, ma anche la politica e la scienza, che, sganciandosi da premesse teologiche e da finalità morali, diventeranno fatti autonomi. Si ha così l’arte per l’arte, la politica per la politica, la scienza per la scienza. L’unitarismo medioevale si infrange; si sbriciola la concezione medioevale del mondo, secondo cui nessuna forma di attività umana poteva essere considerata a sé, fuori del nesso con l’insieme. Cade «la costruzione delle grandi cattedrali di idee, delle grandi sistemazioni logico-teologiche, della Filosofia che si assume ogni problema» (Garin). Non è più il tempo della summae, dei trattati enciclopedici, dei poemi allegorico-didattici; e neanche delle visioni dell’aldilà e delle sacre rappresentazioni. Dei generi già trattati nel Medioevo sopravvivono soltanto quelli che hanno un contenuto più terreno ed una più spiccata finalità di diletto e trattenimento: la poesia d’amore e quella realistica, la novella, i canti cavallereschi. Ed a fianco a questi ne appaiono di nuovi, tratti dal ricco patrimonio delle lettere classiche: le elegie, gli idilli, le favole pastorali, i poemetti mitologici.

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Il Quattrocento

Gli scrittori in latino Scrittori in prosa a) Letterati e pensatori C’è uno scrittore che con la sua produzione letteraria sembra esprimere tutti quegli aspetti dell’Umanesimo che siamo andati esponendo: è LORENZO VALLA (Roma 14051457). Col suo trattato in sei libri intitolato Elegantiae linguae latinae (1435-1444) avvalora la norma dell’imitazione, proponendo a modello i passi più belli della letteratura latina, che per lui sono gli scritti di Cicerone e Quintiliano. Col De falso credita et ementita Constantini donatione (1440) mostra quanto valga la ricognizione filologica dei testi e dei documenti, dal momento che riesce a provare come l’imperatore Costantino non donò mai Roma ai pontefici come si volle sostenere da parte della curia romana. Inoltre, con i suoi trattati filosofici De voluptate (1431, poi ampliato nei due ulteriori saggi De vero bono e De vero falsoque bono) e De libero arbitrio (1439) esalta la gioia di vivere e la dignità dell’uomo autore del proprio destino contro l’ascetismo ed il senso dell’umana debolezza tipici del Medioevo. Ma il primo tra gli umanisti in ordine di tempo fu COLUCCIO SALUTATI (Stignano in Valdinievole, Pistoia 1331 - Firenze 1406). Amico del Petrarca, ne ereditò il grande amore per gli studi classici e soprattutto l’appassionata ricerca ed identificazione dei testi antichi. Si deve a lui, infatti, la scoperta (1392) delle lettere Ad familiares di Cicerone, le quali non solo arricchirono il patrimonio librario, ma divennero subito uno dei modelli linguistici preferiti dagli scrittori in latino. Ancor più fortunato scopritore di classici e studioso non meno appassionato ed intelligente della letteratura antica fu POGGIO BRACCIOLINI (Terranuova in Valdarno, Arezzo 1380 - Firenze 1459). Fu lui, infatti, a scoprire alcune orazioni di Cicerone, il De rerum natura di Lucrezio, le Sylvae di Stazio ed altri importanti testi della letteratura latina. Intanto si faceva strada tra noi la conoscenza del greco, già intrapresa, con risultati molto incerti, dal Boccaccio. A diffonderla ora era un avvenimento storico di grande portata: la caduta di Costantinopoli nelle mani dei Turchi (1453), che provocò l’immigrazione in Italia di molti intellettuali greci. Già prima, però, e precisamente nel 1397, il maestro greco Manuele Crisolora, su invito di Coluccio Salutati, era venuto a dar lezioni nello studio fiorentino. A questa diffusione del greco si ricollega l’attività di pensiero e letteraria di MARSILIO FICINO (Figline Valdarno 1433 - Careggi, Firenze 1499), che, traducendo dal greco le opere di Platone e dei neoplatonici e fondando (1474) l’Accademia fiorentina, determinò tutto un fervore nuovo di studi filosofici. Con la sua Theologia platonica (1482) – che fu per l’Umanesimo quello che la Summa theologica di San Tommaso fu per il Medioevo – Ficino mirò a conciliare la filosofia platonica col pensiero cristiano e a dimostrare come

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Il Quattrocento l’una e l’altro concordassero nell’esaltazione dell’uomo, delle sue capacità e del suo destino ultraterreno. Discepolo di Marsilio fu GIOVANNI PICO DELLA MIRANDOLA (Mirandola, Modena 1463 - Firenze 1494), la figura più suggestiva ed affascinante di tutto l’Umanesimo, che sembrò rappresentare nella, sua breve esistenza – morì ad appena trentadue anni – l’ideale della completezza e perfezione umana. Al fascino della persona ed alla eleganza dei modi aggiungeva una vasta e profonda cultura (sembra anche una straordinaria memoria). I contemporanei lo chiamavano, per questo, la “Fenice degli ingegni”. Leggeva e scriveva il greco, l’arabo, l’ebraico, il caldeo. All’età di ventisette anni trasse dai suoi immensi studi novecento tesi di fisica, filosofia, teologia, astronomia, magia e le pubblicò a Roma, dichiarandosi cavallerescamente pronto a sostenerle, contro chiunque volesse, confutarle. Il suo neoplatonismo, aveva una propria colorazione poetica: tutto quello che si è amato e desiderato e sperato sulla terra non andrà mai perduto: l’uomo dovrà attraversare altri mondi, ma, alla fine, tutto ciò che era in lui e che non poté realizzare sulla terra, realizzerà altrove. Nella sua Oratio de hominis dignitate (1486, ma pubblicato postumo), esaltando le illimitate capacità umane, scrisse: I bruti sono eternamente bruti, gli angeli essenze angeliche eternamente. Tu solo, o Uomo, puoi degenerare fino a diventare un bruto, e rigenerarti e sollevarti fino a parere un Dio. Tu solo hai un incessante sviluppo; tu solo porti in te i germi di una specie di Vita.

Progettò anche un convegno a Roma di tutti i dotti d’Europa per discutere argomenti filosofici. Il convegno, che sarebbe stato il primo convegno scientifico internazionale, non si tenne, ma il suo stesso progetto dimostra l’interesse per un universalismo della cultura che gli umanisti volevano contrapporre all’universalismo medioevale, imperniato sulla Chiesa e sull’Impero. b) La storiografia Anche per la storiografia gli umanisti tornarono al latino. Un latino, però, assai diverso da quello delle cronache del Duecento – si ricordi la Cronaca di Salimbene da Parma – : cioè non sciolto, vivace e popolareggiante, ma costruito sui modelli classici. Anzi, l’interesse per l’eleganza dello stile e la purezza della lingua prevale spesso negli storiografi umanisti sull’aspetto scientifico della narrazione. Tuttavia, anche sotto questo aspetto la storiografia umanistica segna dei progressi nei confronti della storiografia medioevale, escludendo fatti miracolosi, limitando gli interventi della Provvidenza e considerando i fatti effetto dell’azione umana – il che era in effetti, un altro modo per esaltare l’importanza dell’uomo. LEONARDO BRUNI (Arezzo 1370 - Firenze 1444) compose le Historiae Florentini populi (composta dal 1414 al 1440) in dodici libri: pur partendo dalle origini, secondo una vetusta tradizione storiografica, la: narrazione diventa più ricca e precisa quando registra i fatti contemporanei per i quali l’autore può valersi di documenti o personali ricordi. Di FLAVIO BIONDO (Biondo Biondi, Forlì 1392 - Roma 1463) non è tanto importante la sua pur vasta storia medioevale, Historia ab inclinatione Romanorum (Storia dalla caduta dei Romani, 1453), quanto invece le due monografie di argomento archeologico:

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Il Quattrocento Roma instaurata (ricostruzione della topografia dell’antica Roma, 1446) e Roma triumphans (illustrazione della vita pubblica e privata degli antichi Romani, 1457-59). L’interesse per l’archeologia, infatti, è uno degli aspetti della cultura umanistica e corrisponde all’interesse entusiastico che allora si ebbe per tutto quanto fosse antico e classico.

Scrittori in versi Per la maggior parte dei casi i versi degli umanisti sono semplici esercitazioni letterarie più che vera poesia. Gli autori, infatti, mediante un’attenta cura stilistica, intendono dimostrare la loro padronanza della lingua e delle forme metriche latine, ma difficilmente sanno infondere nelle poesie i propri sentimenti e la propria personalità. Un’eccezione è forse GIOVANNI PONTANO. Nacque a Cerreto di Spoleto nel 1426. Trasferitosi a Napoli ed entrato nelle grazie di Ferdinando I d’Aragona, fu fatto da costui segretario di Stato. Ma quando per la discesa di Carlo VIII di Francia gli Aragonesi furono costretti a lasciare Napoli, il Pontano, di temperamento certamente non forte, non ebbe l’animo di abbandonare la città ed in particolare il proprio ambiente e si pose al servizio del nuovo signore. Tornati gli Aragonesi, fu naturalmente messo da parte. Morì a Napoli nel 1503. Scrisse molti trattati in prosa di argomento filosofico, storico e morale. Il suo nome va però legato alla vasta produzione in versi: il poema astrologico Urania (1476), l’idillio Lepidina (1496), le elegie amorose Amores (1455-58) e gli Hendecasyllabi seu Baiae (1490-1500) in cui decanta le bellezze dei bagni di Baia. Ma il Pontano migliore non è in queste opere, nelle quali evidente e costante è l’imitazione, spesso fredda ed esteriore, dei modelli latini: Catullo, Virgilio, Stazio, Ovidio; bensì nelle opere in cui esprime in modo più spontaneo e immediato i suoi affetti e le sue nostalgiche rievocazioni di gioie familiari. Come avviene nel De amore coniugali (1501), una raccolta di elegie ispirate al sincero amore per la moglie; e soprattutto nei versi giambici e nei Tumuli, dove è la commossa, malinconica rievocazione del figlio Lucio, morto all’età di trent’anni, della moglie e di altri parenti ed amici defunti. Qui Pontano piace e commuove sul serio, perché si sente che è schietto e sincero e che si ispira non alla letteratura, ma a sofferte esperienze di vita.

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Il Quattrocento

La letteratura in volgare Sopravvivenza di temi e generi medioevali Naturalmente l’Umanesimo non poteva occupare tutto il campo delle lettere italiane del Quattrocento, dato il carattere decisamente culto della sua produzione e l’uso della lingua latina. Perciò, a fianco alla letteratura umanistica sopravvive, pur manifestando segni di esaurimento, una letteratura caratterizzata dai temi e dalle forme della produzione del Duecento e del Trecento. È una letteratura prodotta da autori che, anche quando sono dotti, intendono rivolgersi soprattutto ad un pubblico non dotto e che accoglie i generi trascurati dagli umanisti: la lauda, l’oratoria sacra, la sacra rappresentazione la novella e la poesia giocoso-realistica. a) La letteratura religiosa Tra i generi di questa letteratura merita un particolare cenno la sacra rappresentazione, non perché abbia avuto grandi autori e si sia realizzata in grandi opere d’arte, ma perché rappresenta un fatto importante nella storia del costume ed in quella del teatro italiani. Essa si lega al filone religioso-popolare della nostra letteratura e trova un precedente nella lauda drammatica di Iacopone da Todi. Vi si rappresentavano episodi biblici o agiografici, con aggiunta di temi fiabeschi, avventurosi, realistici. Questa rappresentazione diacronica, cioè di momenti diversi e successivi, richiedeva una scena multipla, una specie di polittico suddiviso in varie sezioni, che si offrivano contemporaneamente agli occhi dello spettatore. Il quale non vedeva dinanzi a sé tutta la vita umana soltanto, ma anche il fine ultimo della vita: perché sotto il palco era rappresentato l’inferno (spesso un drago dalla bocca spalancata) ed in alto era raffigurato il paradiso. Come nella Divina Commedia quindi, così nella sacra rappresentazione la vita umana era vista nel suo valore finalistico: il che era un fatto caratteristico della mentalità medioevale. Teatro tipicamente popolare e spesso anonimo, la sacra rappresentazione attendeva il suo grande autore; e forse lo avrebbe avuto – così come le rozze visioni dell’aldilà ebbero il loro Dante – se non fosse intervenuto l’Umanesimo a creare orientamenti nuovi di pensiero e di arte e a portare sulla scena il mito classico, la storia antica o i temi del teatro greco-latino93. Comunque, nel corso del Quattrocento, la sacra rappresentazione ebbe per autore qualche letterato degno di rispetto, ma di non eccelsa fantasia poetica. Ricorderemo soltanto FEO BELCARI (Firenze 1410-1484), autore di Abraam e Isacco. Per quel che riguarda l’oratoria sacra non possono tralasciarsi le Prediche di S. BERNARDINO DA SIENA (Massa Marittima 1380 - L’Aquila 1444), nelle quali la sincerità 93

La Favola di Orfeo di Poliziano è un caso di inserimento di un argomento profano all’interno degli schemi della sacra rappresentazione.

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Il Quattrocento del sentimento religioso si accompagna ad un’attitudine oratoria realmente pregevole e ad un linguaggio assai vivo e colorito. Senz’altro più potente e trascinatrice fu però l’oratoria sacra di GEROLAMO SAVONAROLA (Ferrara 1452 - Firenze 1498), frate domenicano ma: dissidente e perciò scomunicato, impiccato e quindi arso. Personaggio anacronistico – e pertanto in disaccordo col suo tempo che non capisce e che condanna – Savonarola vuol richiamare gli uomini agli ideali medioevali, riproponendo una vita di castigatezza e di penitenza, convinto che i mali che affliggono la società, anche quelli specifici d’Italia, siano dovuti alla punizione di Dio: Le tue scelleratezze, adunque, o Italia, o Roma, o Firenze, le tue empietà, le tue fornicazioni, le tue crudeltà, le tue scelleratezze fanno venire queste tribolazioni! Ecco la causa!

La sua oratoria incisiva, rapida, fatta di argomentazioni stringenti, di tragiche visioni e di formidabili apostrofi, affascinava le folle. Non è escluso, però, che essa nascesse, oltre che da sincerità e da ardore religioso, anche da ricerca di effetti. b) La novellistica Continua nel Quattrocento la produzione di novelle di tipo boccaccesco. Tra le varie raccolte emerge, per una più spiccata caratterizzazione, il Novellino (1476, postumo) di Tommaso Guardati, più comunemente, detto MASUCCIO SALERNITANO (Tommaso Guardati, Salerno 1415-1475). Si è detto che a base delle novelle di Masuccio sia un’ispirazione moralistica. Ma è giudizio accettabile se si tiene conto soltanto dell’intento dell’autore di denunciare: i vizi che affliggevano la sua società – ad esempio: Alcune detestande azioni di certi religiosi – e non invece della narrazione di per se stessa, nella quale la lubricità di certe situazioni è presentata con un realismo eccessivo, anche se non compiaciuto. Ma è proprio in questo modo di porsi di fronte alla materia della propria narrazione il limite di Masuccio, perché esso gli impedisce di guardarla con quell’artistico distacco e con quel gusto sorridente e divertito che era stato del Boccaccio e che aveva costituito la grande fortuna del Decameron. Una semplice menzione richiedono le boccaccesche novelle Le Porretane (1495) di GIOVANNI SABADINO DEGLI ARIENTI (Bologna 1445 ca. - 1510) e Il paradiso degli Alberti (1876, postumo), una specie di romanzo sulla scia del Filocolo scritto da GIOVANNI GHERARDI (Giovanni da Prato, Prato 1367 ca. - Firenze 1445). c) La lirica La migliore produzione della lirica in volgare del primo Quattrocento – che pur vide la prosecuzione di temi e forme petrarchesche con il CARITEO94, il TEBALDEO95 e l’AQUILANO96 – è costituita dalla poesia giocoso-realistica, importante anche sotto il profilo del costume, in quanto esprime bene quella vivacità critica dello spirito italiano (e 94

Benedetto Gareth detto il Cariteo (1450-1514). Antonio Tebaldi detto il Tebaldeo (1463-1537). 96 Serafino Ciminelli detto Aquilano (1466-1500). 95

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Il Quattrocento toscano in modo particolare), pronto alla satira canzonatoria e al frizzo arguto. Questo genere, che affonda le radici nella poesia realistico-borghese del Due-Trecento, nel Cinquecento sfocerà in vera e propria satira. Si distinsero in questo tipo di poesia ANTONIO CAMMELLI, detto il PISTOIA (Pistoia 1436 - Ferrara 1502), autore di sonetti caricaturali e bozzettistici; e soprattutto DOMENICO DI GIOVANNI, detto il BURCHIELLO (Firenze 1404 - Roma 1449). Di famiglia povera e barbiere di professione, scrisse versi per estro e per divertimento. Rimangono di lui numerosi componimenti burleschi assai originali, che diedero inizio ad una nuova maniera poetica che da lui prese il nome di burchiellesca. La maggior parte delle sue composizioni, che nel loro tempo avevano un manifesto significato satirico e canzonatorio, appaiono a noi ermetiche e cervellotiche, quasi un’accozzaglia di parole apparentemente senza senso: Nominativi fritti, e Mappamondi e l’Arca di Noè tra due colonne cantavan tutti il Chirieleisonne per l’influenza di taglier mal tondi.97

Più composta e misurata fu la poesia di LEONARDO GIUSTINIAN (Venezia 1388-1446), che nelle sue rime popolareggianti – in maggior parte canzonette e strambotti – seppe fondere una materia di sentimenti elementari con un gusto letterario scaltrito ed elaborato.

Ritorna il volgare, ma latinizzato Intorno alla metà del secolo il volgare riconquista terreno, prendendo il posto del latino anche nella letteratura umanistica. Spesso a significare questo fenomeno si cita un episodio emblematico: una specie di concorso letterario indetto nel 1441 da un illustre umanista, Leon Battista Alberti, per un componimento sull’amicizia da scriversi in volgare. Concorso a parte, che del resto non ebbe neanche esito, resta il fatto che si era fatta strada negli stessi umanisti una duplice convinzione: che scrivere in latino significava non tener conto della realtà storica e sociale e che lo stesso volgare, dopo tanti anni di simbiosi col latino, aveva finito per raffinarsi e latinizzarsi. In effetti il volgare usato dagli umanisti non è il volgare parlato: è un volgare distillato attraverso il crogiolo della lingua latina letteraria, perciò più fine ed elaborato; lo conferma Cristoforo Landino (1424-1498), umanista in volgare e maestro di Lorenzo il Magnifico, quando afferma che «non si può essere buon toscano, se non si è buon latino».

I caratteri della letteratura umanistica in volgare Ogni età ha il suo ideale, il suo rifugio, il suo sopramondo: quello del Medioevo e di Dante era stato l’aldilà; il sopramondo dell’arte umanistica nel Quattrocento sono il mito classico, l’arcadica età dell’oro, il mondo cavalleresco. 97

Burchiello, Rime, 10, vv. 1-4.

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Il Quattrocento Che sia un sopramondo spesso in contrasto con la fede non importa, perché ad esso non si aderisce con l’animo, ma soltanto con la fantasia. Dante vive così profondamente la sua visione fino a temere che, terminata la composizione della Commedia, possa perdere quello stato d’estasi spirituale che lo aveva accompagnato scrivendo. Poliziano invece rappresenta miti pagani senza naturalmente crederci: il mito gli fornisce soltanto un mondo di ideale bellezza che gli ispira versi armoniosi ed eleganti. Ma perché questo rifugiarsi degli umanisti nel mondo del mito e della cavalleria? Perché i valori che l’Umanesimo proclamava – la dignità dell’uomo, lo spirito critico, la compostezza e l’ordine classico – non trovavano corrispondenza nella realtà sociopolitica italiana che si avviava a decadenza e sfacelo. Onde gli umanisti in tanto potevano continuare a credere in quei valori, in quanto si astraessero dalla realtà che li circondava e si tuffassero in un mondo liberamente costruito dalla loro immaginazione e dalle loro idealità. Nasceva così quella frattura tra il mondo reale e l’arte che caratterizzerà purtroppo per secoli la nostra letteratura: non espressione di fede, di lotta politica, di fermenti ideali, l’arte si chiudeva in se stessa, diventando arte per l’arte. Perciò, nonostante l’adozione del volgare che certamente ampliava il campo dei propri lettori, questa letteratura umanistica restava sempre un fatto aristocratico e non popolare; perché, ad esempio, per capire l’Orfeo di Poliziano occorrevano due cose che il popolo non possedeva: la conoscenza della mitologia ed il senso di un’arte raffinata. Aristocratica era questa letteratura umanistica anche quando sembrava accogliere temi e forme metriche popolareggianti, quali i canti carnascialeschi98, i rispetti99, le canzoni a ballo100: anche in quella materia ed entro quelle forme metriche, infatti, il poeta metteva tutto il suo impegno letterario, cercando sempre ed ottenendo una lingua raffinata ed uno stile elaborato.

98 Prevalentemente in ottonari, la loro esecuzione era legata ad un apparato scenografico (divisi in trionfi – di genere mitologico – o carri – con allegorie di arti e mestieri). 99 Componimento di origine popolare in endecasillabi (ABABCC[DD]), così chiamato perché il cantore rende omaggio alla propria donna. 100 Detta anche ballata antica (contrapposta alla ballata romantica o romanza), consiste in più stanze legate da un ritornello.

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Il Quattrocento

I poeti del mito e dell’idillio La varietà degli interessi e dei temi che si rinvengono nella poesia di Lorenzo il Magnifico e la diversità di intonazione che passa tra la sua poesia e quella di Poliziano o di Sannazaro, non impediscono di ravvisare le costanti del la loro ispirazione poetica: la suggestione del mito ed il fascino della natura, intesa anche come bellezza, come gioventù, come amore.

Lorenzo il Magnifico Lorenzo dei Medici (detto il Magnifico), personaggio di primo piano nella storia politica italiana della seconda metà del Quattrocento quale Signore di Firenze e sostenitore della politica dell’equilibrio tra gli Stati italiani, occupa un posto importante anche nella storia della cultura e della letteratura in particolare. Nato a Firenze nel 1449 (vi morirà nel 1492) ed educato agl’ideali umanistici da Cristoforo Landino e Marsilio Ficino, Lorenzo amò circondarsi di poeti e letterati: alla sua corte furono legati infatti il suo stesso maestro Ficino, i poeti Poliziano e Pulci e tanti altri uomini di cultura. Ma Lorenzo fu egli stesso poeta, anche se dilettante: non solo per il fatto che egli non fece, né poteva certamente fare, della poesia o della letteratura un’occupazione professionale secondo il costume umanistico, ma soprattutto perché la sua poesia sembra disperdersi in una grande varietà di atteggiamenti e di toni. Certamente sorprendente fu la versatilità di Lorenzo e quindi la sua capacità di riallacciarsi a quasi tutte le correnti letterarie. Sostenitore del volgare – non scrisse mai in latino – fu anche elogiatore e prosecutore della nostra letteratura duo-trecentesca. Non solo, infatti, curò una raccolta di poeti delle origini (detta Raccolta aragonese per essere stata mandata in dono a Federico d’Aragona, 1476-77), ma nelle sue Rime e nel Commento che poi fece di alcune di esse si riallacciò ai motivi della poesia stilnovista, sia pur rinvigoriti da quel neoplatonismo che gli derivava dalla scuola del Ficino. A modelli classici si ispirò invece nell’Ambra, un poemetto in ottave in cui sulle orme di Ovidio si racconta la trasformazione di una ninfa in roccia, e nel Corinto, un’egloga pastorale di derivazione virgiliana. Ed ecco la produzione di intonazione realistica, nella quale non è estranea una certa influenza dei cantari popolareschi e della poesia realistico-borghese del Duecento: i Beoni è un poemetto in terzine nel quale sono divertenti caricature di contemporanei a cui piaceva bere: la Caccia al falcone è un poemetto anch’esso in terzine in cui si descrive realisticamente quello che era uno dei più interessanti divertimenti del tempo; i Canti carnascialeschi sono poesie composte per le sfilate di maschere del carnevale – il più famoso di questi canti è la Canzona di Bacco ed Arianna; ed infine – ma l’attribuzione al Magni-

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Il Quattrocento fico è dubbia – la Nencia da Barberino, un poemetto rusticale in ottave101. Qui il Magnifico, se ne è realmente l’autore, si diletta dall’alto della sua posizione alto-borghese e della sua cultura a sorridere simpaticamente, e perciò senza alcun intento satirico e canzonatorio, del modo rozzo e rusticano con cui il villano Vallerà parla della sua Nencia: Le labra rosse paion di corallo: et havi drento duo filar’ di denti, che son più bianchi che que’ del cavallo: et d’ogni llato ella n’ha più di venti.102

Eppure, in tanta varietà di atteggiamenti e forme letterarie, non è difficile riscontrare i motivi ispiratori più sentiti e più ricorrenti in Lorenzo, quasi il sotterraneo riferimento di tutte le sue opere: la suggestione che il mito classico opera su di lui, come del resto su tutti quanti gli umanisti; e l’esaltazione della natura, meglio di tutto quanto è naturale: come la bellezza, la giovinezza, l’amore e il piacere. Infatti, se esaminiamo la sua poesia più nota, la Canzona di Bacco ed Arianna, vediamo come questi due motivi si fondono in un’unica, alta ispirazione poetica. Nel quadro di una policroma e vivace rappresentazione di maschere classiche – Bacco, Arianna, Muda, i satiri, le ninfe – con allegra spensieratezza pagana, con ritmo esultante, il poeta esalta la gioia di vivere e la frenesia del piacere, che sono i temi più spontanei e sentiti della sua coscienza. Sono tanto sentiti questi temi, che di essi il poeta si fa, con una specie di moralismo alla rovescia, banditore e persuasore convinto: Quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia: Chi vuol esser lieto, sia, di doman non c’è certezza.103

È l’epicureismo dell’Umanesimo, ma un epicureismo non scevro di un sottofondo di malinconia: non la malinconia del Medioevo, che nasceva da un desiderio struggente ed inappagabile del cielo; neanche la malinconia del Petrarca, che derivava dall’intimo dissidio tra il terreno ed il divino, tra il caduco e l’eterno; ma la malinconia che deriva naturalmente dall’epicureismo; perché, se la vita si risolve in piacere terreno, non può non essere considerato che breve e fugace.

Angelo Poliziano Lo stesso motivo ricorre in Angelo Poliziano: Quando la rosa ogni suo foglia spande, quando è più bella, quando è più gradita, 101

Da qualche critico la Nencia è stata attribuita ad un Bernardo Giambullari, ma anche questa attribuzione non è confermata. 102 Lorenzo il Magnifico, Nencia, 4. Tra gli altri “gioielli” sono il «naso tanto bello / che par proprio bucato col succhiello» (3) e la figura «morbida e bianca che pare un sugnaccio» (5). 103 Lorenzo il Magnifico, Canti carnascialeschi, Canzona di Bacco e Arianna, vv. 1- 4.

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Il Quattrocento allora è buona a mettere in ghirlande, prima che sua bellezza sia sfiorita.104

Ancora l’invito epicureo a godere dei piaceri della vita ed ancora l’eco malinconica della fugacità della giovinezza e perciò di ogni possibile forma di felicità. Il tono, però, è diverso: Lorenzo si esprime in modo realistico; Poliziano, invece, maschera il concetto epicureo sotto la gentile e delicata immagine della rosa. Qualcuno ne ha dato una spiegazione psico-sociologica: Lorenzo dei Medici, signore di Firenze, sicuro della sua origine aristocratica, ama scendere tra il popolo o almeno assumerne la voce; Poliziano, invece, venendo dal contado in città, si studia di apparire forbito ed elegante. Poliziano era nato infatti a Montepulciano105 nel 1454 e di là era venuto a Firenze, alla corte del Magnifico, dove, fatta eccezione per qualche breve parentesi, rimase per tutta la sua non lunga esistenza (morì nel 1494). Assiduo e profondo cultore della letteratura classica, greca e latina, ad appena sedici anni tradusse alcuni brani dell’Iliade dal greco al latino. Per questa sua vasta cultura gli fu affidata dal Magnifico l’educazione dei figli. Poliziano non era soltanto uno studioso di lettere classiche, ma aveva anche un innato senso estetico: perciò la sua attività filologica non era solo frutto di una vasta e profonda cultura umanistica, quanto soprattutto di squisita sensibilità. È per questo che i suoi Miscellanea (1480), saggi filologici composti in latino, ci forniscono non solo un’interpretazione dei testi, ma anche un’esplorazione del mondo umano degli autori; è per questo ancora che egli poté comporre in versi le introduzioni alle sue lezioni di filologia: quelle lezioni, infatti, erano esse stesse poesia. Ma la parte migliore dell’attività del Poliziano sta nelle sue opere poetiche in volgare: anch’esse un riflesso, però, di Teocrito, di Virgilio, di Ovidio, di Stazio e di tutti gli altri poeti classici da lui letti e commentati. Per esaltare Giuliano dei Medici, fratello di Lorenzo, e la sua donna Simonetta Cattaneo della Volta106, intraprese la composizione di un poemetto in ottave, chiamato perciò le Stanze per la giostra107. Ma la morte di Giuliano nella congiura dei Pazzi (1478) fece sì che la composizione venisse sospesa. Quel che abbiamo ci presenta il giovane Giuliano, detto poeticamente Iulo, insensibile all’amore e tutto preso dalla passione per la caccia; finché, però, non gli appare Simonetta, di cui s’invaghisce: Candida è ella, e candida la vesta, ma pur di rose e fior dipinta e d’erba; lo inanellato crin dall’aurea testa scende in la fronte umilmente superba. Rideli attorno tutta la foresta, e quanto può suo cure disacerba;

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Poliziano, Rime, 102 (I’ mi trovai, fanciulle), vv. 21-24. Il vero nome del poeta era Angelo Ambrogini, ma si fece chiamare Poliziano dal nome latino di Montepulciano. 106 Immortalata da Sandro Botticelli come la dea dell’amore ne la Nascita di Venere. 107 Le ottave erano dette anche stanze. Furono edite nel 1494. 105

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Il Quattrocento nell’atto regalmente è mansueta; e pur col ciglio le tempeste acqueta.108

Il poema avrebbe dovuto poi celebrare la vittoria di Giuliano in una giostra, assumendo perciò tono epico. Ma l’interruzione forse non ha nociuto all’opera: perché Poliziano non era poeta adatto a cantare la gloria delle armi e le prove di ardimento, ma i dolci paesaggi, la bellezza femminile, la giovinezza e l’amore. E le Stanze sono proprio tutto questo. A Mantova, dove si era recato a seguito di una breve contrarietà con Lorenzo il Magnifico, Poliziano compose l’Orfeo (1480) che, nello schema della sacra rappresentazione popolareggiante, presenta il mito pagano e classico di Orfeo, innamorato di Euridice e quindi straziato dalle Baccanti. L’opera venne stesa in fretta per essere rappresentata in una festa di corte e perciò non è tra le meglio rifinite del Poliziano. Tuttavia è doppiamente importante a significare gli aspetti dell’Umanesimo: da una parte ben rappresenta l’indifferenza dell’umanista per la materia trattata – qui, infatti, abbiamo un poeta cristiano che tratta un mito pagano; dall’altra celebra l’onnipotenza dell’arte – dinanzi al canto di Orfeo si spalancano le porte dell’aldilà. Ancora in volgare sono i rispetti e le canzoni a ballo, di ispirazione popolare, ma composti sempre con attento senso dell’arte, con percezione squisita dell’ornamentazione e della decorazione. Leggendo questi canti sembra rivedere le schiere dei giovani che, per salutare la primavera, correvano attraverso la città di Firenze, agitando i ramoscelli in fiore, le fronde verdi, i gonfaloni selvaggi: Ben venga maggio e ’l gonfalon selvaggio Ben venga primavera che vuol l’uom s’innamori. E voi, donzelle a schiera con li vostri amadori, che di rose e di fiori vi fate belle il maggio, venite alla frescura delli verdi arbuscelli.109

Qui, come nella più famosa e già citata canzone Quando la rosa ogni sua foglia spande, il motivo del maggio e della primavera è emblematico a significare il canto della giovinezza, della bellezza e dell’amore. È stato detto che «Poliziano non vede che la primavera tra le stagioni, le rose e le viole tra i fiori, il rosignolo tra gli uccelli, tanto che leggendolo a lungo ci prende un desiderio, quasi una voglia irresistibile di un po’ di pioggia e di tramontana» (Bargellini). In effetti, la poesia del Poliziano è nella visione ed intuizione della vita come bellezza, cioè come una festa di suoni e di colori, come un sogno di amore e di giovinezza, come una favola che ci riconduce col pensiero all’età dell’oro: in una parola, come mito. Sotto 108 109

Poliziano, Stanze per la giostra, libro 1, 43. Poliziano, Rime, 102, vv. 1-10.

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Il Quattrocento la sua penna tutto diviene aereo e scintillante. Non a torto, infatti, fu egli detto il “Mida” della letteratura italiana perché, proprio come quel personaggio della mitologia, rendeva egli oro tutto quanto filtrava attraverso la sua penna. Il che era effetto di una particolare disposizione della sua fantasia ed insieme dell’assidua lezione fornitagli dai classici.

Iacopo Sannazaro Con Iacopo Sannazaro passiamo dalla Firenze dei Medici alla Napoli degli Aragonesi: città che, per opera del Pontano e dell’Accademia Pontaniana prima ancora che del Sannazaro, ebbe una sua importante tradizione umanistica. Sannazaro nacque a Napoli intorno al 1454 ed a Napoli visse quasi tutta la sua vita110 (morì nel 1530), partecipando all’Accademia Pontaniana con lo pseudonimo di Azio Sincero. Compose in latino delle Egloghe, nelle quali, napoletano qual era, sostituì al mondo dei pastori quello dei pescatori; in latino compose anche un poema di argomento religioso in tre libri, il De partu Virginis (Il parto della Vergine, 1526). In esso si nota una situazione opposta a quella dell’Orfeo del Poliziano; se infatti con l’Orfeo si ha un mito pagano in uno schema letterario cristiano – quello della sacra rappresentazione – qui si ha un mistero cristiano – quello della Natività – nello schema del poema classico. Anche qui, comunque, modesta è la partecipazione sentimentale del poeta al mistero della fede, essendo il suo interesse tutto rivolto all’elaborazione artistica. L’opera principale del Sannazaro è però l’Arcadia111, composta di prose e versi in lingua italiana. Si tratta di un romanzo pastorale112 in cui si racconta la storia di Sincero – eteronimo dell’autore – che, per dimenticare il suo amore infelice, si reca in Arcadia, regione della Grecia celebrata dai poeti antichi come pacifica e beata terra dei pastori. È stato giustamente notato che l’Arcadia fu come un sogno per l’autore e diventa un sogno anche per il lettore, in quanto i personaggi sono quasi tutti fantasmi, più che veri caratteri. Eppure, sotto quei personaggi che non riescono a commuoverci e ad interessarci per quel che fanno e raccontano, si nascondevano, camuffati da pastori, personaggi veri e viventi, amici e parenti dello stesso poeta. Anche le descrizioni naturali ci lasciano freddi e insensibili. Sannazaro, infatti, descrive come può descrivere un cieco: non ciò che vede, ma ciò che gli riferiscono; aveva sotto gli occhi la (allora) bella e scintillante natura del golfo napoletano e si limita a ripetere le descrizioni naturalistiche che trova nei classici. Così, tra tutti i poeti dell’Umanesimo Sannazaro è il più legato all’imitazione dei modelli classici e per questo il meno spontaneo.

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Dal 1501 al 1504 seguì in esilio lo spodestato Federico d’Aragona, tornando a Napoli alla sua morte. Da allora si espresse solo in latino, ma senza alcuna rigidità scolastica. 111 Composta a partire dal 1480, ne uscì un’edizione veneziana ad insaputa dell’autore nel 1501, prima di quella napoletana da lui curata nel 1504. 112 A parte il precedente dell’Ameto di Boccaccio, l’Arcadia è il capostipite del genere letterario del romanzo pastorale.

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Il Quattrocento Pertanto, più che per intrinseco valore artistico, l’Arcadia è importante storicamente113, in quanto caratterizza bene quel filone idilliaco-pastorale della nostra letteratura che, iniziato col Corinto del Magnifico e le Stanze del Poliziano, si svilupperà nei tre secoli successivi, fino a sfociare in un’accademia avente per nome proprio “Arcadia”. È un filone di evasione, di distacco dalla realtà, di vaneggiamento dei poeti dietro evanescenti immagini di un’astratta felicità.

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La sua influenza non riguarderà solo l’Italia, ma anche l’Europa, dove durerà fino al Seicento inoltrato.

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Il Quattrocento

I poeti del mondo cavalleresco Altro sopramondo del Quattrocento è il mondo cavalleresco. Proviene dalla Francia, ma con profonde modificazioni: per noi, infatti, quel mondo non significa più né lotta eroica per la fede, né lotta eroica per la patria; ma soltanto un magnifico sogno di ardimento, di cortesia ed anche di amore. A livello popolare aveva prodotto una considerevole serie di poemetti, prevalentemente anonimi e destinati alla pubblica lettura (Cantare di Fierbraccio e d’Ulivieri, l’Innamoramento di Carlo, l’Ancroia, la Spagna in rima, Il libro del Gigante Morante etc.). Più noti – e destinati ad un pubblico borghese – sono invece I Reali di Francia ed il Guerrin Meschino di ANDREA DA BARBERINO (Barberino in Valdelsa 1370 - Firenze post 1431), che avranno fortuna fino all’Ottocento114. La letteratura colta produce invece la contaminazione tra ciclo carolingio (religioso) ed arturiano (avventuroso) con il capolavoro di Boiardo, preceduto però dalla scanzonata parodia di Pulci.

Luigi Pulci Nell’ambiente umanista della corte medicea Luigi Pulci, nato a Firenze nel 1432, si trovava a disagio: senza la cultura dei suoi amici e colleghi, avverso al neoplatonismo, spregiudicato in religione, propenso ad atteggiamenti estrosi e popolareschi, capì che ben per lui era cercare ospitalità altrove. Morì a Padova nel 1484, ma anche lì, per accusa di eresia, gli fu negata la sepoltura religiosa. Scrisse soltanto in volgare: un poemetto rusticano, la Beca di Dicomano, parodia della già incontrata Nencia ed un poemetto per esaltare una vittoria di Lorenzo il Magnifico in una competizione cavalleresca, la Giostra. Suo capolavoro è però il poema cavalleresco Morgante115. La materia era quella francese delle canzoni di gesta del ciclo carolingio: le imprese di Carlo Magno e dei suoi paladini per difendere dagli Arabi maomettani la Francia e la Fede. Quella materia aveva già prodotto in Italia la poesia franco-veneta del Duecento e i cantari e i romanzi del Tre-Quattrocento, subendo però quelle modificazioni alle quali si è accennato: venuti meno i motivi ideali ed eroici che l’avevano ispirata in Francia, presso di noi essa era divenuta pretesto per cantare il senso dell’avventura, la combinazione dei casi, le imprese spericolate e straordinarie, gli eroi dalla forza sovrumana, le vittorie spettacolari ed i capricci d’amore: insomma, l’epopea si era convertita in romanzo. Ne era venuto fuori un mondo fantastico, nel quale il meraviglioso s’incontra a profusione; dove i guerrieri se ne vanno errando soli per regioni sconosciute, spesso boscose, incontrando inaspettate avventure; dove al posto della guerra c’è il duello o il torneo; do114

Non a caso, sono ambedue presenti nella bibliotechina del sarto del villaggio che accoglie Lucia liberata dall’Innominato (Alessandro Manzoni, Promessi sposi, Cap. 24). 115 Terminato nel 1470, pubblicato inizialmente nel 1478 in ventitré canti in ottave e poi, accresciuto di altri cinque canti, ripubblicato nel 1483 con il titolo di Morgante maggiore.

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Il Quattrocento ve insieme col valore regna, anzi prevale, la cortesia; dove compaiono la donna e l’amore che erano relegati in un cantuccio o quasi inesistenti nell’epopea carolingia francese. Con gli stessi intenti Luigi Pulci trattò la materia cavalleresca, sol che, avendo egli il gusto dell’arte, trasformò i rozzi e monotoni cantari a cui si ispirava in opera di poesia. Sotto l’aspetto tecnico e formale, però, rimane ancora molto dei cantari: ogni canto inizia con l’invocazione alla divinità e termina col ringraziamento agli ascoltatori per l’attenzione prestata; il racconto procede senza una struttura organica, ma piuttosto per episodi agglutinati; i personaggi sono presentati più sotto l’aspetto fisico che sotto quello psicologico; la lingua è popolaresca, a volte addirittura gergale. Pur tuttavia si avverte sempre nel poema una vena tipicamente pulciana: che è la bizzarra fantasia di un uomo di spirito che racconta per divertirsi e che perciò più le dice grosse, più si diverte. Con questo non vogliamo dire che c’è in Pulci un intento di satira o di parodia della materia cavalleresca: un atteggiamento mentale come questo ancora non matura nel Quattrocento; vogliamo dire, invece, che c’è in lui il distacco dell’uomo di gusto di fronte alla materia grossa e popolaresca che va raccontando. Da questa disposizione di spirito nascono le migliori creazioni del Pulci: quel gigante dal cervello di un fanciullo che è Morgante; quel mezzo gigante e furfante matricolato che è Margutte116; quel diavolo logico che discute “diabolicamente” di teologia che è Astarotte. E nascono anche le più piacevoli e divertenti situazioni del poema: l’incontro tra Morgante e Margutte in un osteria ed i loro piani per buggerare l’oste; la morte di Margutte che crepa per il troppo ridere, avendo visto una scimmia calzare gli stivali di Morgante117; la fine stessa di Morgante che, forte da fracassare una balena, muore perché punto da un granchio (anzi, da un «granchiolino»!). Piena parodia allora? No. A parte che per il resto il poema ricalca le vicende dei cantari carolingi118, anche nel tratteggiare i caratteri si allinea agli schemi cortesi. Consideriamo a fondo le virtù di Orlando: l’eroe per antonomasia, esempio di ottimo cristiano, è sempre un dignitoso cavaliere anche nella disgrazia (come nella prigionia in seguito ad un’imboscata). Oppure quelle di Rinaldo, descritto come avventuroso e gran combattente, ma anche come convertitore di infedeli (varca le Colonne d’Ercole per farsi missionario e andare a combattere nuove guerre). Insomma il Morgante pare una via di mezzo tra intento comico e rispetto verso un mondo cavalleresco visto nel momento della sua decadenza, ma ancor pieno di alti valori e di profondo spirito religioso.

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«Il mio nome è Margutte, / ed ebbi voglia anco io d’esser gigante, / poi mi penti’ quando al mezzo fu’ giunto» Luigi Pulci, Morgante, Cantare 18.113. 117 «Allor le risa Margutte raddoppia / e finalmente per la pena scoppia» Idem, Cantare 19.149. 118 Orlando, per sfuggire all’odio della casa di Maganza, abbandona Parigi e se ne va per il mondo. Alla sua ricerca si pone Rinaldo, un altro paladino della corte di Carlo Magno. I due eroi, nel loro peregrinare per luoghi diversi e remoti, affrontano avventure di ogni specie: duelli, strani incontri, amori, magie.

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Il Quattrocento

Matteo Maria Boiardo Sicuramente, però, la materia cavalleresca fu affrontata con diverso stato d’animo da Matteo Maria Boiardo, che nacque a Scandiano (Reggio nell’Emilia) intorno al 1441 e che gravitò intorno alla corte estense di Ferrara. Questa corte, non meno di quella medicea a Firenze, era aperta al moto umanistico, accogliendo nel suo seno letterati ed artisti. Ma, a differenza di quella fiorentina, prediligeva la poesia cavalleresca a quella classica ed idilliaca. Non era una preferenza casuale, ma derivava dalla differente struttura dello Stato. Firenze, anche sotto la signoria dei Medici, era teoricamente una repubblica; Ferrara, invece, era un principato: aveva perciò tutto un protocollo di vita di corte che più e meglio collimava con gl’ideali cortesi del mondo cavalleresco. Perciò Ferrara rimarrà anche nel secolo seguente, con la poesia dell’Ariosto e del Tasso, il centro vitale della poesia epico-cavalleresca. Intanto, l’essere Boiardo uno scrittore emiliano e non toscano determinava un fatto importante nella storia della nostra lingua letteraria. Allorquando infatti il poeta mirava a sollevare la lingua ferrarese a dignità di lingua letteraria, finiva con l’accogliere forme ed intonazioni toscane, sicché il risultato era l’espansione del toscano al di fuori dei confini geografici della regione e quindi il suo graduale evolversi in lingua letteraria nazionale. Un fatto simile avveniva contemporaneamente nel Sud della penisola per opera del poeta napoletano Sannazaro. Umanista e cultore di lettere classiche, Boiardo scrisse anche in latino: poesie pastorali, epigrammi e carmi in lode degli Estensi. In volgare compose Amorum libri tres (146976), ispirato dall’amore per Antonia Caprara; il poeta vi esprime le sue gioie e le sue disillusioni d’amore ed in conclusione anche la sua rassegnazione. Nonostante certi riecheggiamenti petrarcheggianti, si nota la sincerità della passione e la donna amata, più simile alla Lesbia catulliana che alla Laura del Petrarca, ha una sua ben definita fisionomia. Ma il capolavoro del Boiardo è l’Orlando innamorato, un poema in ottave diviso in tre parti (incompleta la terza)119: per la discesa in Italia del re francese Carlo VIII, il poeta, che aveva avuto l’incarico di proteggere Reggio, dovette trascurare il poema; né più lo riprese, perché in quello stesso anno (1494) morì. La materia dell’Orlando innamorato è sempre quella del ciclo carolingio, ma ancor più trasfigurata. Completando infatti un processo che già si era iniziato prima di lui, Boiardo opera la fusione tra la materia del ciclo carolingio e le idealità del ciclo bretone, concedendo nel poema tanta parte all’amore. Per il Boiardo, infatti: Amor è quel che dona la vittoria e dona ardire al cavaliero armato.120

Senza l’amore, invece, non può concepirsi vero cavaliere, perché: Se in vista è vivo, vivo è senza core.121 119 120

Il lavoro fu iniziato nel 1476 e nel 1481 le prime due parti erano completate. Boiardo, Orlando innamorato, Libro 2, canto 18.3.

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Il Quattrocento Il titolo stesso del poema, Orlando innamorato, dimostra subito come il paladino carolingio non sia più quella specie di eroe tutto preso dal desiderio di combattere per la fede e per la patria, ma si disincanta, si umanizza, s’innamora e per amore vive le sue mirabolanti avventure. La donna che colpisce il cuore di Orlando è Angelica, la bella figlia del re del Catai, inviata a portare scompiglio nel campo cristiano: Ogni om per meraviglia l’ha mirata, ma sopra tutti Orlando a lei s’accosta col cor tremante e con vista cangiata, benché la volontà tenia nascosta; e talor gli occhi alla terra bassava, che di se stesso assai si vergognava.122

È proprio Angelica la vera protagonista del poema, il nodo stesso dell’azione; di lei s’innamorano sia Orlando che Rinaldo, i quali perciò, pur paladini al servizio dello stesso Re e cugini tra loro, si avversano e si combattono. Ora, il fatto che la bella fanciulla porti scompiglio nel campo carolingio sembra essere metafora di come l’amore, insinuatosi entro i temi della poesia carolingia, ne operi l’estremo sfaldamento. Abbiamo detto che Boiardo tratta la materia cavalleresca in modo diverso dal Pulci. Questa diversità consiste nel fatto che per il poeta di Scandiano quel mondo ha una sua serietà: non certamente nell’argomento – ché anche nell’Orlando le avventure sono tanto spesso strabilianti ed inverosimili –, ma negli ideali che ispirano quelle avventure e che sono le virtù cavalleresche del coraggio, della lealtà, della cortesia, della generosità, dell’amore. Ê per questi ideali che il mondo cavalleresco appare più che mai un sopramondo di sogno, un’evasione da una realtà purtroppo diversa: mentre le guerre si combattevano e si vincevano con la perfidia e i raggiri politici più che con l’ardimento, immaginare che due eroi cavallereschi sospendessero il duello sul far del tramonto per riprenderlo il giorno seguente ed intanto trascorressero gomito a gomito la notte, ciascuno sicuro della lealtà dell’altro, significava rifugiarsi in un sogno meraviglioso. In questo sogno è il carattere epico dell’Orlando innamorato. Nel quale, sotto il profilo artistico, non mancano pecche: come la prolissità nella descrizione di giostre e duelli – ma era quanto, del resto, chiedeva il suo pubblico – e la mancanza di revisione e di lima123.

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Idem, Libro 1, canto 18.46. Idem, Libro 1, canto 1.29. 123 Anche per questo il pubblico cinquecentesco preferirà all’originale la revisione “fiorentina” di Francesco Berni. 122

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Il Quattrocento

Gli scrittori in prosa Due prosatori del Quattrocento appaiono particolarmente importanti, non solo per la loro ricca e complessa personalità, ma anche per il particolare rilievo che in essi assumono gli ideali umanistici: Leon Battista Alberti e Leonardo Da Vinci.

Leon Battista Alberti Leon Battista Alberti (Genova 1404 - Roma 1472) riassume completamente il ritratto dell’umanista che si è andato costruendo idealmente nel tempo: profonda cultura, pluralità di interessi, equilibrio spirituale e completezza umana. Fu infatti scrittore, architetto, musicista, archeologo, matematico, filosofo e finanche maestro di ginnastica. Scrisse numerosi trattati – alcuni in latino altri in italiano – sulla pittura, l’architettura, la tranquillità dell’animo, gli attributi del principe. L’opera di lui più nota è il trattato in tre libri Della famiglia (1433-41). In esso trovano posto non solo le più caratteristiche affermazioni dell’Umanesimo: l’uomo dominatore della fortuna ed artefice del proprio destino; il senso della dignità umana, l’esaltazione dell’operosità nella quale soltanto si realizza la vita; ma anche le concezioni stesse della ricca borghesia del tempo: l’importanza della “masserizia” ed il valore anche morale della ricchezza, quale segno di una vita ordinata ed operosa. E tutto ciò in una prosa che potremmo definire d’arte, tali sono il senso della misura, la saldezza dell’impianto sintattico, la precisione linguistica ed anche l’andamento fluido e vivace.

Leonardo da Vinci Un posto a parte nell’Umanesimo occupa Leonardo da Vinci (ivi nato nel 1452 e morto a Cloux in Francia nel 1519) che, infatti, dell’Umanesimo accoglie la passione per l’indagine, la pluralità degli interessi culturali ed il senso della natura, ma ripudia l’autorità degli antichi e la preminenza delle lettere sulle altre attività umane (ed in ciò è l’aspetto singolare del suo Umanesimo). All’autorità degli antichi contrappone l’autorità indiscutibile che viene dall’esperienza, cioè dalla osservazione dei fatti nella loro realtà presente: La sapienza è figliuola della sperienza. Chi disputa allegando l’autorità, non adopera lo ’ngegno, ma più tosto la memoria.

Era naturale che da una tale posizione culturale – che anticipa il pensiero di Galileo Galilei e le tesi stesse di tutta la corrente filosofica empiristico-sperimentale – derivasse in Leonardo un preminente interesse per le scienze sulle lettere, un’esaltazione della figura dello scienziato su quella dello scrittore. E così, mentre concepiva la stessa pittura come una specie di attività scientifica, dato che necessita una profonda ricerca sulle leggi della natura e sull’anatomia umana, si compiaceva sempre di definirsi illetterato e «uomo sanza lettere». Nelle quali, però, pur riuscì ad ottenere un posto rilevante. Il suo Trattato sulla pittura e gli altri Pensieri rimasti alla stato frammentario testimoniano infatti non solo la genialità della sua mente e la profondità della sua ricerca, ma anche una straordinaria capacità di rendere il pensiero con mirabile incisività e con chiarezza ed organicità

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Il Quattrocento di impianto linguistico. Ed in ciò, volendo o nolendo l’autore, non era del tutto estranea la lezione dei modelli classici.

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Il Cinquecento

Il Rinascimento Il quadro storico Il 1492 fu un anno assai importante nella storia d’Italia: mentre a Firenze moriva Lorenzo dei Medici, Cristoforo Colombo solcava l’oceano per scoprire una via nuova per le Indie. La morte di Lorenzo dei Medici fece crollare l’equilibrio di forze tra gli Stati italiani, non già favorendo il prevalere egemonico di uno Stato sugli altri – il che avrebbe potuto portare alla nascita di uno Stato nazionale italiano – bensì aprendo la strada all’invasione straniera. Appena due anni dopo, infatti, Carlo VIII di Francia, richiamato proprio dalle contese tra gli Stati italiani, invase la penisola, evidenziando l’intrinseca debolezza dei vari Stati italiani. D’altra parte, la scoperta dell’America operata da Colombo e la successiva scoperta di una via nuova per raggiungere l’estremo oriente spostavano dal Mediterraneo all’Atlantico il commercio mondiale. Iniziava così l’ascesa politica ed economica delle nazioni che si affacciavano sull’oceano, mentre l’Italia, chiusa nel Mediterraneo, restava fuori dalle grandi vie di traffico, avviandosi verso un periodo di stasi commerciale ed economica. Intanto la Riforma protestante spezzava definitivamente l’unità religiosa e spirituale dell’Europa, favorendo l’accentuazione delle tendenze nazionalistiche.

Le contraddizioni profonde Dal punto di vista culturale l’Italia viveva, in quel periodo, il suo splendido Rinascimento124: la vita ed i costumi acquistavano una raffinata eleganza, pullulavano le accademie, le corti divenivano splendidi centri culturali, le edizioni a stampa, soprattutto per la genialità degli editori Manuzio125, si diffondevano; e mentre Ariosto cantava le imprese del Furioso e Machiavelli meditava sulle leggi della politica, Michelangelo affrescava la cappella Sistina e Bramante e Raffaello attendevano alla Fabbrica di San Pietro. Nel campo dell’arte, della filosofia, della cultura in genere l’Italia forniva lezioni all’Europa, dove le persone colte studiavano l’italiano e le nostre opere letterarie si imponevano all’imitazione degli scrittori stranieri. Si ripeteva così quel rapporto politico-culturale che 124

La determinazione di tempo del Rinascimento non è, né potrebbe essere, precisa. C’è chi vi include anche l’Umanesimo – ed in tal caso il Rinascimento inizierebbe col Quattrocento – chi, pur considerandolo effetto della cultura umanistica, lo restringe alla prima metà del Cinquecento, un periodo estremamente ricco ed importante dal punto di vista artistico e culturale. 125 ALDO MANUZIO (Velletri 1450 - Venezia 1515) è il principale stampatore italiano: a lui si deve l’invenzione del carattere corsivo (definifito all’estero appunto “italico”) e l’ideazione delle edizioni “tascabili” (le famose “aldine”). Umanista, prestò molta attenzione alla cura filologica delle sue edizioni. Tra i volumi che impresse si ricorda l’Hypnerotomachia Poliphilii (1499), misteriosa opera allegorica del domenicano FRANCESCO COLONNA (Venezia 1433-1527) con incisioni attribuite a Mantegna, considerato il più bel libro a stampa. L’attività di Aldo venne proseguita dal figlio Paolo e dal nipote Aldo il Giovane.

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Il Cinquecento era stato già tra la Grecia e Roma: ancora una volta una nazione di progredita cultura, pur cadendo sotto la dominazione politica straniera, imponeva e diffondeva il suo patrimonio culturale e le forme meravigliose della propria arte. Ora, questo contrasto tra la critica situazione politica dell’Italia ed il contemporaneo splendore della sua vita culturale non è prova di come questi due aspetti della vita di una nazione siano tra di loro estranei e non interdipendenti; significa, invece, che il loro rapporto non è di assoluta e rigida contemporaneità e che spesso le conseguenze sul piano culturale di una situazione storico-politica possano verificarsi con uno scarto di tempo: «[…] Nei primi decenni del Cinquecento l’Italia vive ancora in pieno l’impulso di cultura che la società comunale aveva generato e che aveva preso nuovo vigore nel suo incontro, durante il primo umanesimo, con la cultura classica. Questo impulso, anzi, giungeva solo ora a maturazione; ma giungeva a pienezza di maturazione proprio ora che nuovi fenomeni storici gli creavano intorno le condizioni meno adatte per un suo sviluppo ulteriore» (Petronio). Da ciò nasce l’impressione di un Rinascimento “strozzato”: le premesse dell’Umanesimo sono portate ad un massimo di perfezione, ma sono drammaticamente contraddette dal quadro storico della vita italiana. Ad esempio, gli atteggiamenti idealistici del neoplatonismo umanistico hanno nella trattatistica del secolo la loro più elevata formulazione, ma difficilmente trovano corrispondenza nella realtà di una vita nella quale predominano tanto spesso, come costumi di vita, passioni volgari e prosaiche. Nasce da ciò la duplice prospettiva della letteratura del Rinascimento: da una parte protesa a qualificare i valori più alti della vita – la saggezza, la cortesia, l’eleganza, l’amore platonico, la liberazione dalle passioni – dall’altra intenta a cogliere gli aspetti realistici del vivere quotidiano: l’ingordigia, la sensualità, la diffidenza. La prima prospettiva letteraria è più spesso aristocratica, cortigiana, accademica; l’altra, invece, è antiaccademica e popolareggiante.

La corte e i letterati La corte è il centro della vita culturale del Rinascimento: non solo perché essa offre tanto spesso ospitalità a poeti e letterati o costituisce la destinazione prima e fondamentale delle loro opere, ma anche perché essa rappresenta il parametro di un certo gusto, aristocratico e raffinato, di cui gli scrittori, almeno quelli dotti e non popolareggianti, non possono non tener conto. A nobilitare la corte e a porla come modello ideale di vita non è soltanto l’eleganza degli apparati, la cortesia dei contatti, la presenza di poeti, artisti e letterati, quanto soprattutto la presenza costante della “dama di palazzo”, moglie o figlia del Principe, che allieta con la sua grazia le riunioni di corte, anima con la sua cultura le discussioni dotte, protegge gli artisti e i letterati, leggendone per prima le opere e fornendo pareri. Fatto, questo, di non poca importanza nella storia del costume italiano, perché, pur limitandosi all’ambiente cortigiano, rappresenta un ulteriore successo della femminilità: in quanto la donna acquista un posto preminente nella vita culturale.

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Il Cinquecento Intorno alla corte, quindi, gravitano i letterati, i quali, nonostante un qualche commercio librario – certamente ancora assai limitato – non possono trovare nella pubblicazione delle loro opere il necessario per vivere. E perciò vivono della magnanimità dei principi, che ripagano con le loro “opere d’inchiostro”. In che senso? Ora componendo opere per gli spettacoli di corte o fornendo materiale di lettura per i cortigiani, ora dedicando ai Principi i loro scritti, ora anche elogiandoli sperticatamente nei loro poemi. Da ciò il carattere encomiastico di tanta parte della letteratura del Cinquecento. E si badi bene che i letterati sono legati alla corte anche quando non usano la penna per encomiare, ma, al contrario, per ricattare: anche in simili circostanze – è il caso di Pietro l’Aretino, ad esempio – la corte fornisce al letterato il necessario per dedicarsi alla sua attività di scrittore.

Il trionfo del volgare Continua nel Cinquecento l’espansione del volgare, mentre il latino, considerato “seconda lingua” (e spesso finalizzato alla lettura all’estero), viene usato in campi sempre più ristretti: come i trattati filosofici e scientifici – e neanche tutti – e le pure e semplici esercitazioni letterarie. Che il volgare sia la lingua, oltre che della letteratura popolare, anche di quella cortigiana ed aristocratica non deve stupire, dal momento che è anch’esso ormai nobilitato e legato ad una tradizione classicista; non è tratto, almeno per quel che riguarda gli scrittori aristocratici, dalla lingua parlata, ma da una tradizione letteraria: cioè dalla imitazione di valide esperienze linguistico-letterarie, quali quelle fornite, sopra tutti, da Petrarca e da Boccaccio.

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Il Cinquecento

La letteratura classico-aristocratica Il nuovo classicismo A determinare il carattere aristocratico della letteratura cortigiana del Cinquecento concorrono, oltre all’ambiente stesso della corte ed ai suoi ideali di cortesia, di buon gusto, di finezza, l’influenza del neoplatonismo e del classicismo: il primo, determinando nell’animo stesso dello scrittore elevate idealità; il secondo, additando modelli di armonia ed eleganza espressiva. Si noti, però, che i modelli del classicismo cinquecentesco non sono tratti soltanto dal patrimonio letterario greco-latino, come era avvenuto nel Quattrocento, ma anche dallo stesso patrimonio letterario in volgare italiano. Nasce perciò ora, in prosecuzione dell’Umanesimo latino del Quattrocento, un Umanesimo volgare, del quale Pietro Bembo è il più entusiastico assertore. Esso consiste in un atteggiamento letterario che continua a sostenere l’importanza dell’imitazione dei modelli classici, ma tali modelli ricerca nella tradizione letteraria in volgare oltre che in quella greco-latina. Avviene insomma anche a livello letterario quel che avveniva a livello linguistico: l’assunzione, cioè, di parametri volgari al posto di quelli latini.

Pietro Bembo: un caposcuola Il letterato che non solo rappresentò questi aspetti del classicismo cinquecentesco, ma che li codificò addirittura con l’autorità che gli derivava dalla sua vasta cultura e dalla importanza delle sue opere, fu Pietro Bembo. Nato a Venezia nel 1470, per la sua squisita educazione umanistica fu ricercato e conteso da varie corti italiane. Dopo essere stato a Ferrara, Urbino, Venezia, fu fatto cardinale da papa Paolo III. A Roma finì i suoi giorni nel 1547. Scrisse molto in prosa ed in versi: ma le sue opere sono importanti più che per intrinseci pregi artistici, per il fatto che rappresentano e determinano quegli aspetti della letteratura aristocratico-cortigiana di cui abbiamo parlato. Negli Asolani (1505)126, infatti, si esaltano le tesi del neoplatonismo e soprattutto quelle legate all’amore platonico che, distinto dalla semplice attrazione dei sensi, è considerato quasi un’intrinseca qualità dell’animo, uno stato di grazia dello spirito. Ora, questa esaltazione dell’amore platonico contribuisce a spiegare il grande culto che nel secolo si ebbe per Petrarca e la poesia del suo Canzoniere. Il quale, peraltro, fu fondamentale e costante modello di stile e lingua poetica per effetto di quello che era il classicismo o Umanesimo volgare del Cinquecento.

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Dialoghi così chiamati perché l’autore li immagina tenuti nella villa di Asolo di Caterina Cornaro, già regina di Cipro.

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Il Cinquecento Bembo stesso si cimentò nella imitazione del grande poeta aretino con le sue Rime (1530). Si trattava, però, di un’imitazione a puro livello letterario, tutta formale ed esteriore, quasi un abile gioco di reminiscenze, di intarsi, di prestiti, di variazioni. Due esempi: «Et ogni mio piacer rivolto in pianto»127, che ricalca il verso del Petrarca «et la cetera mia rivolta in pianto»128; oppure un verso preso tale e quale dal Canzoniere: «Gratie ch’a pochi il ciel largo destina»129. Anche a proposito delle Rime del Bembo può dirsi quel che abbiamo detto degli altri suoi scritti: che cioè l’importanza non è tanto nel valore dell’opera in sé, quanto nell’aver inaugurato un costume letterario che, dal Bembo, si disse “bembismo” oltre che petrarchismo. Un’altra opera del Bembo sono le Prose della volgar lingua (1525), un dialogo che l’autore immagina svoltosi a Venezia, in casa di suo fratello Carlo, uno degli interlocutori e che esprime le idee dello scrittore: la lingua delle nostre lettere deve essere il volgare fiorentino quale era stato fissato dalle opere di Petrarca e di Boccaccio. Era una tesi che, mentre aveva il merito di stabilire una tradizione linguistica nazionale, era anche aristocratica e retorica, perché non teneva conto della lingua viva e popolare: «Le tesi del Bembo sulla lingua presentano il duplice aspetto proprio dell’umanesimo e del Rinascimento: da una parte la conquista di un gusto che tende all’armonia, alla perfezione, all’universale e all’eterno, dall’altra il suo distacco dalla realtà, il suo carattere chiuso e aristocratico, il suo affermarsi nell’ambito di una torre d’avorio. Essa, per un verso, avrà il merito di difendere e custodire, almeno in questo campo, la nostra fisionomia nazionale, proprio nei secoli del più pesante dominio straniero, per un altro sarà alla base del distacco tra lingua letteraria e lingua parlata (e quindi fra letteratura e popolo) che ancora oggi – a cento anni dalla nostra unità – non è stato ancora completamente superato» (Salinari).

La lirica platonico-petrarcheggiante A significare l’ondata di petrarchismo nel Cinquecento Francesco De Sanctis nella sua Storia della letteratura italiana scrisse: «Il petrarchismo invase uomini e donne» ed ancora: «Nel Cinquecento Petrarca era un dio e Bembo il suo sacerdote». Seguendo, infatti, l’esempio autorevole del Bembo, composero Rime e Canzonieri ad imitazione del Petrarca una schiera assai nutrita di poeti e poetesse. Caratteri pressoché costanti di queste poesie erano l’adozione dei metri petrarcheschi (il sonetto, la canzone, il madrigale130), l’esclusività o quasi del tema amoroso, la rappresentazione della donna sul modello di Laura, l’imitazione di stilemi, cadenze e lessico petrarcheschi. Naturalmente, il rapporto tra la spontaneità dei sentimenti e l’assunzione delle forme petrarchesche variava secondo la personalità del poeta: avveniva perciò che, mentre nella folla dei rimatori minori tutto 127

Pietro Bembo, Rime, 45, v. 4. Francesco Petrarca, Canzoniere, 292, v. 14. 129 Francesco Petrarca, Canzoniere, 213, v. 1; Pietro Bembo, Rime, 5, v. 14 e 6, v. 14. 130 Cfr nota 66. Rispetto al madrigale petrarchesca, nel Cinquecento si evolve in endecasillabi e settenari variamente alternati, con rime libere. 128

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Il Cinquecento si risolveva in una semplice e non sempre riuscita esercitazione letteraria, in qualcuno, avente tempra di poeta, l’intonazione petrarchesca si nutriva di una particolare spiritualità e raggiungeva una notevole forza espressiva. Così è in MICHELANGELO BUONARROTI (Caprese nel Casentino 1475 - Roma 1564), il quale nelle rime dedicate a Vittoria Colonna esprime la sua vigorosa e complessa personalità, raggiungendo toni di energica e drammatica passionalità che, se da una parte richiamano il Michelangelo pittore del Giudizio universale, d’altra parte ricordano la vigorosa poesia dantesca. Così è, anche se in misura minore, in GALEAZZO DI TARSIA (Napoli 1520 ca. -1553), il cui disperato dolore per la morte della moglie Camilla Carafa infonde nella sua poesia, pur entro le forme petrarchesche, un senso di angoscia e di profonda malinconia. GIOVANNI DELLA CASA (cfr sotto), invece, viene ricordato per un certo ampliamento dei temi e degli schemi formali del petrarchismo ed anche per certa particolare intonazione ora patetica, ora energica e risentita. Conviene ricordare anche alcune poetesse, se non altro perché la loro presenza rappresenta un fatto abbastanza nuovo nella storia della letteratura italiana e testimonia il posto nuovo che la donna era andata acquistando col Rinascimento nella vita culturale e nella vita sociale in genere. Alcune di queste poetesse furono “cortigiane honeste”, donne libere di vita e costumi; altre invece “dame di palazzo”, cioè gentildonne o signore dell’alta società del tempo. Tra le prime emerge GASPARA STAMPA (Padova 1523 - Venezia 1554), autrice di un Canzoniere dedicato al conte Collaltino di Collalto, diario di un amore appassionato e infelice, condotto con acuta introspezione di sentimenti. Tra le seconde ricorderemo la sventurata ISABELLA DI MORRA (Matera 1520-1548), uccisa dai fratelli per aver corrisposto all’amore del poeta spagnolo Diego Sandoval de Castro, e VITTORIA COLONNA (Roma 1492-1547), donna di profonda fede religiosa e di vasta cultura, autrice di poesie ispirate all’amore per il marito morto – il Marchese di Pescara – nelle quali sono da ammirare più la nobiltà dei sentimenti e l’elevata spiritualità che non la validità dei versi131.

La trattatistica di costume Oltre alla lirica, un altro genere caratteristico della letteratura aristocratico-cortigiana del Cinquecento fu la trattatistica che definiamo “di costume”, in quanto, più che trattare problemi morali in senso assoluto, discute sulle qualità e gli atteggiamenti dell’uomo entro i termini della società cinquecentesca. Ed anche di questo genere caposcuola e modello fu il Bembo, che, come abbiamo visto, fu l’autore degli Asolani e delle Prose della volgar lingua.

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Vittoria Colonna, esempio di bellezza e di virtù, fu al centro di una particolare moda letterario: nel bel mondo era in voga innamorarsi di lei (solitamente senza averla mai vista) e dedicarle poesie. Vi si cimentarono in molti, da Buonarroti (che almeno l’aveva conosciuta) a Galeazzo di Tarsia (non altrettanto fortunato).

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Il Cinquecento Il Cortegiano Ma il trattato più famoso – e più fortunato – del secolo fu il Cortegiano132 di BALDASSAR o BALDESAR CASTIGLIONE (Casatico, Mantova 1478 - Toledo 1529) che, dopo essere stato al servizio di varie corti italiane in qualità di letterato, ambasciatore ed uomo d’armi, visse per dieci anni ad Urbino. Ed è proprio nello splendido palazzo ducale di quella città che Castiglione ambienta il suo trattato in quattro libri, un dialogo tra eminenti personaggi di quella corte stessa: Elisabetta Gonzaga, Pietro Bembo, Giuliano dei Medici, il cardinal Bibbiena, etc. Si discute su quali debbano essere le virtù del perfetto cortigiano e si conclude che deve essere di nobile origine, forte, elegante nel fisico, abile nell’uso delle armi, esperto di politica, piacevole nel conversare, arguto, colto, conoscitore della pittura e della musica, amante della poesia e capace egli stesso di comporre versi. Nell’ultimo libro – che corrisponde alla quarta sera della piacevole conversazione – si concorda sul fatto che il cortigiano debba avere rapporti non di servilismo, ma di collaborazione col suo signore e debba amare di amore platonico la propria donna. Argomento, quest’ultimo, sul quale fa da protagonista – com’era prevedibile – il Bembo, già entusiastico assertore dell’amore platonico nei suoi Asolani. Il Cortegiano ha una grandissima importanza per la conoscenza del gusto e della mentalità della società del Cinquecento: non perché esso sia di quella società un ritratto reale – in quanto la rappresentazione della corte e del cortigiano è idealizzata e certamente non rispondente alla prassi quotidiana – ma perché testimonia quelle che erano le più sentite e profonde aspirazioni di quella società. Ci fornisce, insomma, il ritratto non di un cortigiano reale, ma di un uomo ideale quale era andato costruendosi attraverso il Quattrocento ed il Cinquecento per opera degli stampi classicisti e neoplatonici: «La corte dipinta in questo libro ha un po’ dell’olimpico, e fa pensare più a qualche affresco di Raffaello che alla vita cortigiana quale appare dalla storia del tempo e dalle opere del Machiavelli e del Guicciardini. Non diremo per questo che il Cortegiano sia un’opera falsa: diremo che esso ci ritrae le belle apparenze, le consuetudini decorose, la scena dei palazzi del tempo, mentre i due grandi scrittori e moralisti toscani ce ne svelano i retroscena, le ambizioni, le passioni, i calcoli, le trame» (Momigliano). Il Galateo Il tipo ideale di uomo, quale Castiglione aveva raffigurato nel suo Cortegiano, viene ridimensionato, quasi imborghesito, nel Galateo133 di GIOVANNI DELLA CASA (Mugello 1503 - Roma 1556). In questo trattato – il cui titolo deriva dal nome latinizzato di Galeazzo Florimonte, l’amico a cui l’autore lo dedicò – si danno consigli di “buone maniere”, indispensabili per un “uomo costumato”. Risalta subito evidente, quindi, la distinzione tra le virtù del Cortegiano e le “buone maniere” del Galateo: si tratta ora di qualcosa di più umile, ma forse anche di più utile e di più pratico; qualità, insomma, indispensabili non 132 133

Scritto tra il 1513 ed il 1518 e pubblicato nel 1528. Composto tra il 1551 ed il 1555 e pubblicato postumo nel 1558.

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Il Cinquecento per attuare un umanesimo integrale, una ideale perfezione umana, ma per poter vivere decorosamente nell’umana società: […] niuno può dubitare, che a chiunque dispone di vivere non per le solitudini o ne’ romitorii, ma nelle città e tra gli uomini, non sia utilissima cosa il sapere essere ne’ suoi costumi e nelle sue maniere grazioso e piacevole.134

È sintomatico il fatto che a guidare l’uomo nella scelta delle “buone maniere” con cui piacere agli altri debba essere la “discrezione”, qualità pratica quanto altra mai e che, come ci indicherà Guicciardini, non obbedisce ad imperativi immutabili e categorici o a modelli ideali, ma alle esigenze particolari dei singoli casi. Con il Galateo di Della Casa si avverte, pertanto, un principio di crisi nell’ideale umano del Rinascimento.

La trattatistica culturale Sempre nell’ambito del classicismo cinquecentesco, a fianco della trattatistica di costume, si sviluppa una trattatistica più strettamente culturale che, non meno di quella di costume, contribuisce a precisare gli aspetti di un certo gusto letterario e, soprattutto, di un determinato quadro culturale. Si tratta, insomma di opere che, muovendosi nell’ambito del classicismo e del neoplatonismo, ora esaltano le capacità ed i destini dell’uomo, ora si ispirano al senso di una ideale bellezza, ora ripropongono modelli e miti dell’antichità come segno e ragione unica di rinascita. Di filosofia, di letteratura, di religione tratta GIAMBATTISTA GELLI (Firenze 1498-1563) nei suoi Capricci del bottaio, “ragionamenti” in forma di dialogo che il bottaio Giusto fa con la sua anima. Lo stesso Gelli, in un altro trattato, la Circe, prendendo spunto da un’operetta di Plutarco e naturalmente dall’Odissea di Omero, parla delle miserie che possono affliggere l’uomo, ma anche della sua capacità di riscattarsene e mirare al suo destino immortale. AGNOLO FIRENZUOLA (Michelangiolo Giovannini, Firenze 1493 - Prato 1543), scrittore del quale torneremo ad interessarci, nell’Epistola in lode delle donne, dopo avere analizzato i caratteri della bellezza femminile, prospetta un tipo ideale di perfetta bellezza. Ma il più importante trattato culturale – che molti autori di storie letterarie includono nella storiografia del Cinquecento – è quella specie di storia dell’arte scritta da GIORGIO VASARI (Arezzo 1511 - Firenze 1574), che si intitola Vite de’ più eccellenti pittori scultori e architettori (1550), una raccolta di oltre duecento biografie di artisti da Cimabue all’autore, artista egli stesso. Ma l’importanza dell’opera non è tanto nelle notizie biografiche che essa ci fornisce sugli artisti (non sempre esatte) e neanche nei giudizi particolari (a volte troppo soggettivi), quanto invece nella coscienza della “rinascita” – e del resto i termini stessi di “rinascimento” e “rinascita” si incontrano per la prima volta in quest’opera – e nel culto rinascimentale per la bellezza. È basandosi su questi concetti, infatti, che Vasari può costruire quella sua storia, nella quale, partendo dal “gotico”135, delinea il progressivo fiorire e perfezionarsi dell’arte italiana, che coincide per lui nella riscoperta dei modelli antichi e nella imitazione della natura. 134 135

Giovanni Della Casa, Galateo, cap. 1. Il termine gotico è usato per la prima volta da Vasari in senso spregiativo.

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Il Cinquecento

Ludovico Ariosto Il classicismo e la corte, che costituivano il sostrato culturale e sociale della lirica platonico-petrarcheggiante e della trattatistica di costume, sono anche alla base di quella che fu la più alta espressione poetica del secolo: l’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto.

La vita Priva di grandi avvenimenti, la vita di Ludovico Ariosto fu occupata costantemente da due attività: gli incarichi di cortigiano e lo scrivere versi. Era nato a Reggio Emilia nel 1474. Non serena fu la sua adolescenza, date le non agiate condizioni economiche in cui versava la famiglia: era il primo di dieci figli ed il padre aveva un gramo stipendio di capitano al servizio degli Estensi. Quando il padre morì, la cura della numerosa famiglia gravò tutta sulle spalle di Ludovico, che già prima, per amore degli studi letterari, aveva trascurato quelli di diritto, ma ora doveva mettere da parte gli uni e gli altri e porsi al servizio degli Estensi di Ferrara: prima come capitano della rocca di Canossa, poi come cortigiano al seguito del fratello del duca, il cardinale Ippolito d’Este. Questi, uomo duro e poco sensibile al fascino delle lettere, affidò ad Ariosto diversi incarichi ed ambascerie fuori Ferrara, costringendolo così ad una vita movimentata e concedendogli poco tempo per dedicarsi alla poesia. Quando nel 1513 fu eletto papa Giovanni dei Medici col nome di Leone X, il poeta, fidando nella vecchia amicizia, si recò a Roma nella speranza di avere da lui qualche incarico più comodo e più remunerativo: ebbe, invece, soltanto abbracci e belle parole, sicché se ne tornò deluso a Ferrara. Nel 1517 il cardinale Ippolito fu costretto a trasferirsi a Buda (Budapest) sua sede cardinalizia, ma Ludovico non volle seguirlo: troppe responsabilità familiari lo legavano ancora a Ferrara – alla cura dei fratelli si era aggiunta anche quella del figlio naturale Virginio – e lo tratteneva anche l’amore per la sua donna, Alessandra Benucci, che gli sarà compagna fedele per il resto della vita. Fu così che, abbandonato Ippolito, passò al servizio diretto del duca Alfonso e da questo venne inviato in Garfagnana per amministrare quella regione di confine dello Stato estense, assai turbolenta ed infestata da banditi. Qui poté finalmente comprarsi una piccola casa, dove visse tranquillamente i suoi ultimi giorni attendendo alla revisione del suo poema. E qui morì nel 1533.

La cultura ed il tirocinio poetico La cultura dell’Ariosto fu certamente meno minuziosa e tecnicizzata sotto il profilo filologico al confronto con quella di un letterato di prestigio del suo tempo e meno vasta e profonda se paragonata a quella che fu di Dante o di Petrarca. Il suo classicismo nasceva più da un atteggiamento del suo gusto, aperto a cogliere dal mondo classico parametri di equilibrio interiore e di armonia espressiva, che da profondo studio di testi ed assiduo rifacimento di modelli. E ciò fu tutt’altro che un male per l’Ariosto, in quanto la sua fantasia creatrice, che era, come vedremo, la caratteristica fondamentale della sua personalità

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Il Cinquecento d’artista, non rimase mai soffocata – e intendiamo riferirci naturalmente all’Ariosto maggiore – da eccessiva erudizione o da insistenti reminiscenze letterarie. Tra gli autori latini maggiore dimestichezza ebbe con i grandi lirici – Orazio, Tibullo, Catullo – che imitò in quelle poesie in lingua latina che costituirono le sue prime esperienze poetiche. Ma anche qui si tratta di un’imitazione condotta non a livello squisitamente filologico, sicché «leggendo si ha l’impressione di un’esperienza dei classici, ma non di un magistero artistico di raffinata sapienza» (Petronio). Allorquando abbandonò il latino per il volgare – lingua che doveva essergli senz’altro più congeniale perché nella sua mobilità meglio si prestava a rendere l’effervescenza della sua immaginazione e la vivacità della sua espressione – compose sonetti e canzoni di intonazione petrarchesca e soprattutto capitoli in terzine che, data la loro intonazione narrativa, rappresentano non solo il meglio della produzione ariostesca di questo periodo, ma anche il miglior tirocinio del futuro poeta epico-cavalleresco.

Le satire ed il carattere di Ariosto All’esperienza diretta di questi capitoli narrativi si legano le sette Satire in terzine composte tra il 1517 ed il 1525. Forse il poeta intitolò Satire questi componimenti per il ricordo delle satire oraziane, dalle quali è ripreso il tono di chiacchierata alla buona. Non vi sono infatti in queste poesie lo spirito mordace e l’intento moralizzante che determinano i tratti specifici della vera satira, ma soltanto sfoghi confidenziali e motivi autobiografici. Per questa loro caratteristica di poesia autobiografica e confessionale le Satire ci danno un ritratto dell’Ariosto «in veste da camera» (Croce), cioè intimo e sincero. Interessante, sotto questo profilo, è la satira prima. Per spiegare le ragioni del suo rifiuto a seguire il cardinale Ippolito in Ungheria, Ariosto ci parla delle sue predilezioni: la sobria cucina domestica, le usuali passeggiate, la libertà, la quiete: Più tosto che arricchir, voglio quiete.136

Motivi che tornano nella satira terza, nella quale il poeta esprime il suo ideale di condotta morale: il dispregio di ogni vanità, di ogni faticosa ambizione, il contentarsi di poco ed il bisogno di quiete e di libertà. Si affatichino pure gli altri in fortunosi viaggi per conquistar gloria o potere: a lui il mondo piace conoscerlo, ma sull’atlante: A me piace abitar la mia contrada. Questo mi basta; il resto de la terra senza mai pagar l’oste andrò cercando con Ptolomeo, sia il mondo in pace o in guerra.137

Sfoghi bonari su temi chiaramente oraziani: ma non trattasi di imitazione letteraria, bensì di consonanza di aspirazioni spirituali; perché, come Orazio, Ariosto predilesse su tutto la libertà, la quiete, l’amore alla poesia.

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Ludovico Ariosto, Satire, 1, v. 160. Idem, 3, vv. 60-63.

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Il Cinquecento

Le commedie Era consuetudine della corte estense, come del resto delle altre corti italiane del Cinquecento, rappresentare, durante le feste, commedie latine di Plauto o di Terenzio: in un primo momento queste rappresentazioni conservarono la lingua latina; poi, sempre più frequentemente, se ne effettuò la rappresentazione in versione italiana. Anche Ariosto si cimentò in versioni del genere: cosa che, del resto, rientrava nei suoi compiti di letterato di corte. Quindi, nel 1508, pensò di andare al di là della semplice versione e di comporre una commedia ex novo, cioè inventata da lui, anche se obbediente ancora al modello latino: nacque così la Cassaria. Abbiamo citato la data, perché la composizione della Cassaria rappresentava un fatto nuovo nella storia della letteratura italiana e, più precisamente, nella storia del teatro italiano. Con questo lavoro, infatti, nasceva la commedia “regolare”, dato che, obbedendo ai modelli del teatro classico, ne rispettava le regole, soprattutto quelle riguardanti le unità di tempo, di luogo e di azione. Certamente, questo teatro di imitazione classica veniva a soffocare ogni possibilità di svolgimento di quel teatro popolare italiano che era sorto nel Medioevo con le sacre rappresentazioni e con le farse. Ma di ciò non si può certamente dare la colpa ad Ariosto, in quanto la nascita del teatro regolare di imitazione classica si inquadrava in quella che era la caratteristica classicheggiante della letteratura del Rinascimento. Sorprende, invece, il fatto che l’Ariosto, sovvertitore di ogni regola nel suo poema, sia stato tanto ligio ad esse nella composizione delle commedie. Ma poiché la caratteristica del suo talento poetico era nell’immaginazione libera e sconfinata, ne consegue che quelle commedie, così obbedienti a regole e a modelli, gli stavano strette ed in esse egli si muoveva a disagio. Il fatto è che Ariosto, non portato dal suo talento al teatro, vi fu spinto dalla passione teatrale degli Estensi138.

L’Orlando Furioso L’opera nella quale la fervida e ricca immaginazione dell’Ariosto e la tradizione umanistico-classica raggiungono il loro aureo punto d’incontro, l’una trovando nell’altra il suo metro espressivo e la sua armonica misura, è l’Orlando Furioso. E perciò il poema si eleva, con stacco enorme, sul complesso delle opere minori. a) Il genere e la composizione Dire che Ariosto fu portato alla composizione di un poema epico-cavalleresco – qual è il Furioso – dall’avere udito recitare a corte brani dell’Innamorato di Boiardo è semplicistico ed inesatto. L’assunzione della materia cavalleresca non fu per Ariosto un fatto occasionale. C’era tra quella materia ed il temperamento dell’Ariosto e la sua capacità immaginativa una profonda consonanza: non nel senso che egli aderisse intellettualmente ad essa, ma nel senso che essa gli forniva un mondo aperto ad accogliere tutte le finzioni della sua immaginazione. Inoltre quella materia gli offriva anche la possibilità di una beata 138

Alla Cassaria Ariosto fece seguire altre commedie: I Suppositi (1509), Il Negromante (1520), La Lena (1528) e l’incompiuta I Studenti.

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Il Cinquecento fuga dal reale, di una immersione completa in un universo sconfinato e diverso da quelle che erano le occupazioni, a lui tanto poco gradite, di cortigiano. Da ciò la proverbiale distrazione di Ariosto, quel suo procedere svagato e come proveniente da un altro mondo; da ciò ancora la serietà con cui lavorò intorno al suo poema, la cura lunga e costante che egli pose ad esso che, iniziato tra il 1502-3 e pubblicato per la prima volta in quaranta canti nel 1516, fu modificato ed ampliato fino all’edizione in quarantasei canti del 1532; ed anche dopo, fino agli ultimi giorni di vita del poeta, subì correzioni e ritocchi. Il genere del poema è epico-cavalleresco. La materia è tratta dalla lunga tradizione dei cantari medioevali, ma anche e soprattutto dall’Innamorato del Boiardo, di cui vuol essere la continuazione. Oltre che della tradizione cavalleresca medioevale, Ariosto si vale anche della tradizione classica: non solo come lezione letteraria per elevare una materia rozza e popolare a forme più squisitamente artistiche, ma fruendo di espressioni, di immagini e perfino di interi episodi tratti da modelli greci e latini. Così, per fare qualche esempio, il titolo stesso del poema riecheggia l’Hercules furens di Seneca, l’episodio della maga Alcina, seduttrice di uomini, richiama il personaggio omerico di Circe e la vicenda di Cloridano e Medoro ricorda quella di Eurialo e Niso dell’Eneide. b) La struttura La suggestione classica opera anche in altro senso nel Furioso: contribuendo, cioè, a dare un’architettura solida e a risolvere in unità di poema quella materia che era frammentaria nei cantari e che tale era rimasta, in parte, nelle opere del Pulci e del Boiardo. C’è infatti nel poema, pur fra tanta varietà di episodi, un’unità strutturale che nasce dalla sapiente regia con cui Ariosto intreccia, dipana, annoda i fili della vicenda; sicché, leggendo, non si ha mai l’impressione della dispersione e della frammentarietà, ma soltanto di una ricchezza sorprendente di casi, di una varietà straordinaria di luoghi, di una policroma coralità d’insieme. E quando il poeta s’accorge che il lettore potrebbe disperdersi nel fantasmagorico labirinto degli eventi, sapientemente lo riconduce sotto le mura di Parigi – non solo centro geografico del racconto, ma periodica forza centripeta atta ad equilibrare la forza centrifuga della sua fervida immaginazione – e gli ripropone le vicende della guerra tra Cristiani e mori, le quali fanno da tessuto connettivo di tutto quanto il poema. Entro questo tessuto si sviluppano altri due filoni: l’amore di Orlando per Angelica – l’argomento lirico-amoroso del poema – e la storia di Ruggero e Bradamante – che fornisce al poeta il pretesto per esaltare gli Estensi, discendenti gloriosi di quella coppia di paladini. Riassumere il poema, data l’infinita varietà dei suoi episodi, è cosa difficile e che risulterebbe senz’altro complicata al lettore. Basta qui dire che il poema ha inizio là dove terminava l’Innamorato del Boiardo: cioè con la fuga di Angelica dal campo cristiano. Si inizia così un carosello di mirabolanti avventure, di sorprendenti incontri, di magie ed incantesimi, di straordinari atti di coraggio; ne è protagonista Orlando che, messosi in cerca di Angelica, ne è innamorato tanto da perdere il senno: quando lo riacquisterà, tornerà il prode di una volta e contribuirà in modo decisivo alla sconfitta dei mori. Assai diversi anche i luoghi che fanno da sfondo a tale infinità di episodi. Dalle mura di Parigi, dove si combattono Cristiani e mori, l’azione si irradia in tutte le direzioni per effetto

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Il Cinquecento del fuggire e del rincorrersi del personaggi. E così, attraverso distese marine ora placide ora tempestose, attraverso verdi prati e boschi tenebrosi, tra valli profonde e inaccessibili dirupi l’azione si sposta per Francia e Spagna, fin nell’Africa e in isole remote. Né è soltanto uno spostarsi e vagare in una dimensione geografica; ché il castello di Atlante, il viaggio di Astolfo nel Paradiso terrestre e sulla Luna, la valletta del Sonno appartengono ad una dimensione metageografica e metarealistica e sono segno di un’immaginazione sconfinata, di cui si era visto l’eguale soltanto nella Commedia di Dante. c) L’“armonia” Non c’è soltanto varietà infinita di episodi nel Furioso, ma anche una gamma assai vasta di motivi: c’è la guerra e c’è la Fede; ci sono la generosità ed il valore, ma anche la viltà e la perfidia; c’è l’amore appassionato, fedele, eroico e c’è anche l’amore sensuale e prosaico; c’è il riso ed il pianto, il piacere ed il dolore; c’è l’uomo e la natura. C’è, insomma, tutto il mondo, frutto insieme dell’esperienza e dell’immaginazione del poeta. Ma nessun motivo riesce mai a prevalere sugli altri; e quando una situazione accenna ad esasperarsi, quando un motivo sembra richiamare su di sé tutta l’attenzione del lettore, allora il poeta accortamente interrompe l’episodio, distrae il lettore e lo volge altrove. Questa abilità narrativa, che faceva dire al Voltaire che Ariosto è «sempre padrone della materia», nasceva dall’atteggiamento di sereno distacco dell’autore di fronte alla sua creazione, dalla sua capacità di contemplare le varie e contrastanti vicende della vita con attenzione ed insieme con imperturbabilità. Consiste in ciò l’ironia dell’Ariosto, che non è l’atteggiamento morale ed intellettuale dell’uomo che si colloca al di sopra dell’oggetto del suo pensiero e lo copre di un sorriso sottile, ma è invece un atteggiamento estetico, un modo distaccato e mediato di cogliere il reale. A determinare tale particolare posizione era da una parte il carattere stesso dell’Ariosto – la sua bonarietà, la sua imperturbabilità, la sua propensione alla quiete idilliaca – dall’altra la sua formazione classica e l’ambiente della corte rinascimentale – si ricordi il Cortegiano di Castiglione – che concordavano nella formulazione di un ideale di armonica compostezza. Da questo sereno distacco, da questa “medietà” – come la chiama Petronio – si leva nel Furioso il canto dell’armonia della vita, di un’esistenza, cioè, nella quale tutti gli eventi e tutti i sentimenti, anche quelli contrastanti, si dissolvono, si compenetrano, si spiegano vicendevolmente, celebrando tutt’insieme il ritmo vitale e la suprema bellezza del vivere. In una tale intuizione della vita le passioni si smorzano, i dolori si attenuano, i contrasti si placano; è, insomma, come veder tutto in un sogno, tutto immerso in un’atmosfera magica e irreale, tutto sospeso tra la realtà e la visione. È come se si assistesse ad un bel gioco, in cui gli aspetti ed i momenti tristi non divertono meno di quelli lieti: è il caso, insomma, del fanciullo che gioca alla guerra il quale, per divertirsi, deve anche immaginare di ferire ed uccidere. O ancora è come guardare il mondo con quello stesso stato d’animo, distaccato ed incantato insieme, con cui un turista guarda un paese straniero: tutto sembra bello e niente sembra nascondere pene e problemi. «Questo non è un mondo reale, è un nobile sogno. Il rumore delle azioni è avvolto nel silenzio della fantasia contemplante: e questo dà a paesaggi e personaggi contorni sfuma-

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Il Cinquecento ti, e ci fa sembrare il Furioso, poema di azione terrena, un’opera più lontana dal mondo che la Divina Commedia, poema di azione oltreterrena» (Momigliano). d) I personaggi La maggiore terrenità della Commedia nei confronti del Furioso – riprendiamo il giudizio di Momigliano – nasceva dal fatto che Dante era sempre presente nel mondo della sua immaginazione con la sua passione di cittadino e di esule, col suo anelito di credente e col suo sdegno di moralista; Ariosto invece, che non vuol provare tesi e non si propone finalità, crea una bella favola e la contempla di lontano con sguardo sereno. Nasce da ciò la differenza tra i personaggi danteschi e quelli di Ariosto: i primi, frementi di umane passioni, danno impressione di figure a tuttotondo dal forte rilievo plastico; i secondi, invece, immersi e quasi disciolti nel ritmo vitale dell’esistenza, sembrano figure dipinte in un affresco policromo e immenso. La loro psicologia è elementare, quasi istintiva; la loro vitalità non è nel pensiero, ma nell’azione; la loro individualità è affidata a parametri fisici più che psichici. Tra tanti ardimentosi paladini manca un vero eroe, perché, nonostante gli ardimentosi fatti d’arme, nessuno è vero protagonista di eventi, ma tutti sono mossi e dominati dal caso. Si badi bene, però, che tutto questo non significa che Ariosto non abbia saputo costruire personaggi di più forte rilievo; significa, invece, che non poteva esserci posto, in un poema che cantasse l’armonia della vita, per personaggi diversi da come erano stati concepiti. I quali, peraltro, anche se non sono fortemente caratterizzati, hanno ciascuno una propria vita ed una propria ben distinta fisionomia e, quel che più conta, si muovono tutti con ammirevole naturalezza. Particolare menzione meritano i personaggi femminili, che sono tanti ed hanno tutti una caratterizzazione; spesso meglio definita degli stessi personaggi maschili – ancora legati, per buona parte, al tipo del paladino cavalleresco, anche se ingentilito dall’ideale cortigiano del Rinascimento. A creare queste magnifiche figure di donne – la capricciosa Angelica, l’eroica Isabella, la cinica Doralice, la maga Circe, l’intrepida e tragica Olimpia – ha contribuito tutta la cultura rinascimentale: dall’ideale neoplatonico alla lirica petrarcheggiante, dalla ricca trattatistica sulla donna e sull’amore (si pensi agli Asolani del Bembo) all’ideale della “donna di palazzo” (si pensi al Cortegiano), dalle figure femminili dipinte dal Tiziano al posto nuovo che la donna aveva assunto nella vita del Cinquecento. Ne nasceva, perciò, un tipo femminile diverso da tutta la tradizione letteraria precedente: non già mezzo di elevazione, né causa di dannazione, ma più padrona di sé, più aperta e disciolta nella sua varia umanità. e) La lingua e l’ottava Non fu soltanto l’amicizia col Bembo a consigliare all’Ariosto l’uso del toscano letterario – si ricordi la tesi bembesca della lingua – ma la stessa adesione all’ideale cortigiano che voleva si usassero – secondo i suggerimenti del Castiglione – «parole elette, splendide e ben composte»139. Comunque, la lingua del Furioso, nonostante le premesse 139

Baldassarre Castiglione, Libro del Cortegiano, 1, 33.

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Il Cinquecento puriste, è sempre fluida, viva ed ha un suo andamento piano e narrativo, mai enfatico e declamatorio. Caratteristiche che sono anche del metro poetico usato dall’Ariosto, l’ottava – il metro della poesia cavalleresca – la quale «fluisce così calma e piena, in se stessa compiuta, senza urti, senza stridori, senza improvvisi mutamenti di tono, con un suo ritmo così agevole e sciolto da poter essere confuso con i modi dimessi della prosa narrativa» (Sapegno). f) La fortuna Il Furioso, come la Divina Commedia, non apre un genere letterario, ma lo conclude: non nel senso che la materia cavalleresca non verrà più trattata in seguito, ma nel senso che di quella materia esso rappresenta la voce poetica più alta; poi quel genere farà – come vedremo successivamente – la parodia di se stesso, esprimerà la propria dissoluzione ed il proprio superamento. Ma il Furioso non conclude soltanto un genere letterario: conclude il Rinascimento, quello classico-cortigiano almeno, perché è il più alto ed ultimo canto dei suoi miti, delle sue aspirazioni, dei suoi gusti. Nascerà poi una pensosità nuova, meno serena e olimpica, più tormentata e drammatica. Per questo il poema di Ariosto, che ebbe nel suo tempo tanti lettori – e non solo tra quei cortigiani per i quali era stato composto – vedrà sfoltire progressivamente il suo pubblico: ammiratori sempre tanti, ma non tutti sempre appassionati lettori.

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Il Cinquecento

Niccolò Machiavelli Il classicismo e la corte, che erano stati gli aspetti caratterizzanti la poesia dell’Ariosto, assumono nel Machiavelli una dimensione più profonda: divengono motivi per «una lunga esperienza delle cose moderne e una continua lezione delle antiche»140. Ne deriva una rappresentazione più dinamica del Rinascimento, l’esplorazione dei suoi aspetti più drammatici e più critici.

La vita Mentre Ferrara ed il suo principato, pur coinvolti dalle vicende militari legate ai grandi conflitti del tempo, conservavano sotto gli Estensi un ordinamento interno senza scossoni e turbamenti politici, lo Stato fiorentino veniva travolto direttamente dalle vicende esterne, subendo rovesci di governo e violente contrapposizioni di parti. In questo agitato clima politico visse Niccolò Machiavelli. Era nato nel 1469 a Firenze. Della sua giovinezza e degli studi seguiti si sa poco; tuttavia, pur non essendo un umanista nel significato pieno della parola, ebbe vasta cultura classica. Quando nel 1494 i Medici vennero cacciati da Firenze e si instaurò la Repubblica, si avvicinò all’ambiente politico; sicché, alla morte del Savonarola quattro anni dopo, ottenne la carica di Segretario della Cancelleria. Non era una carica di grande importanza, ma gli rendeva possibile, mediante prestigiose legazioni, l’incontro con i grandi della politica italiana e straniera. Paradossalmente, proprio l’autore dell’atteggiamento che sarà detto “machiavellismo” – cioè spregiudicatezza politica – fu tutt’altro che “machiavellico”: e quando, nel 1512, i Medici tornarono Signori a Firenze, non attuò compromessi né si sprecò in adulazioni. Fu perciò messo da parte. Anzi, l’anno seguente, accusato a torto di aver partecipato ad una congiura antimedicea, fu imprigionato e torturato. Liberato, fu costretto al confino: scelse S. Andrea in Percussina, dove aveva la sua villa detta l’Albergaccio. Così, ad appena 43 anni, Machiavelli concludeva con un insuccesso la sua carriera diplomatica e politica. Si era rifugiato all’Albergaccio – come scrisse all’amico Francesco Vettori il 10 dicembre 1513 – «votato a non pensare più a cose di Stato né a ragionare»; ma purtroppo, i quindici anni spesi al servizio della repubblica, con tutti gli eventi e i grandi personaggi di quel tempo, gli tornavano fatalmente alla memoria. E con quei ricordi lo assaliva il rammarico dell’inoperosità, sicché si dichiarava disposto – come scrisse sempre al Vettori – anche a «voltolare un sasso» pur di sentirsi vivo. Comunque – come ancora comunicava al Vettori – gli anni dell’Albergaccio egli non li trascorse «né dormiti, né giocati»: i suoi propositi di non ragionare di Stato si infransero e dalla meditazione delle cose moderne e dalla lezione degli antichi nacquero nella solitudine del suo romitorio le sue più importanti opere. Intanto si andava riavvicinando ai Medici, ottenendone qualche modesto incarico, ma ancora una volta sbagliando calcolo politico: quando, infatti, nel 1527 i Medici vennero di nuovo cacciati da Firenze e venne ristabilita la repubbli140

Niccolò Machiavelli, Il Principe, Dedica.

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Il Cinquecento ca, invano chiese di rioccupare la vecchia carica di Segretario. E così, mentre a Firenze si esultava per la recuperata libertà, Machiavelli per la seconda volta si ritrovava solo e smentito dagli eventi. Logorato fisicamente e più ancora avvilito nello spirito, morì in quello stesso anno e fu sepolto in Santa Croce.

Le premesse del pensiero politico Ragionare di politica era per Machiavelli, politico mancato, una vocazione. Scrivendo al Vettori confessava: perché la fortuna ha fatto che, non sapendo ragionare né dell’arte della seta, né dell’arte della lana, né dei guadagni, né delle perdite, e’ mi conviene ragionare dello Stato, e mi bisogna o votarmi di stare cheto, o ragionare di questo.

Così, anche senza il forzato esilio dell’Albergaccio, Machiavelli sarebbe stato lo stesso pensatore e scrittore politico, perché questa attività, più che la stessa politica militante, era la sua vera anima. Inoltre, ragionando e scrivendo di politica, egli dava vita alla sua «cognizione delle antiche e moderne cose»141, a quanto appreso cioè attraverso lo studio del passato e l’esperienza del presente. Era perciò il suo un ragionar non per immaginazione, ma per dati di fatto, tenendo conto cioè della realtà effettuale di ogni situazione, delle cose vere e non di quelle immaginate. Ma la speculazione politica di Machiavelli parte da lontano, muove dall’analisi stessa dell’uomo, convinto com’è che la molla che muove la storia siano le passioni umane. Ed in questa analisi Machiavelli si dimostra subito pessimista, sostenendo che l’uomo sia agitato dalle passioni, spietato nel cercare il proprio utile, guidato dal cieco determinismo dei suoi istinti; di conseguenza è sempre astuto e vile – concezione pessimistica, questa, nella quale si manifesta chiaramente la crisi dell’uomo come era stato delineato dall’Umanesimo. Ora, come tutti i pessimisti, Machiavelli era portato a lodare il tempo passato (gli ottimisti, invece, sono fiduciosi nel futuro). Da questa posizione intellettuale nascevano in lui due atteggiamenti: da una parte l’esaltazione di Roma antica, soprattutto della Roma repubblicana, additata come modello per il presente; dall’altra l’esaltazione del valore stesso della storia, la quale veniva considerata maestra della politica, proprio come la natura è maestra della scienza. La politica, infatti, deve sempre intendere la lezione del passato e trarne profitto: In modo che gli è facil cosa, a chi esamina con diligenza le cose passate, prevedere in ogni repubblica le future, e farvi quegli rimedi che dagli antichi sono stati usati.142

I Discorsi Da queste premesse nascono le opere politiche di Machiavelli. Prima fra tutte in ordine di tempo, in quanto concepita ed iniziata nel 1513, i tre libri dei Discorsi sopra la prima deca di 141 142

Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Introduzione. Idem, Libro 1, cap. 39.

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Il Cinquecento Tito Livio. Si tratta di considerazioni politiche ispirate dai primi dieci libri della storia di Roma scritta da Tito Livio. Tali considerazioni, pur senza giungere ad una vera e propria trattazione sistematica, si organizzano su questi temi fondamentali: la struttura interna dello Stato (libro primo), la sua attività militare (libro secondo), cause di grandezza e di decadenza (libro terzo). Se il motivo che potremmo dire pedagogico dell’opera è nell’affermazione della validità della storia come complesso di esempi utili al presente, il motivo ideologico è invece l’esaltazione della repubblica quale migliore forma di governo possibile per la libertà che assicura al cittadino. Si tratta di una predilezione dovuta in parte alla formazione classica dell’autore – in modo particolare alla lettura degli storici romani, tutti più o meno nostalgici del regime repubblicano –, in parte anche ad alla polemica antimedicea – non si dimentichi, infatti, che appena l’anno precedente aveva subito la condanna da parte della ristabilita Signoria. Comunque, sul filo di questa ispirazione repubblicana Machiavelli giunge nei Discorsi ad interpretazioni realmente ardite per i suoi tempi, come quando sostiene che i tumulti sociali a Roma non indebolirono lo Stato, anzi ne rafforzarono la costituzione: Io dico che coloro che dannano i tumulti intra i nobili e la plebe, mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma, e che considerino più a’ romori e alle grida che di tali tumulti nascevano, che a’ buoni effetti che quelli partorivano.143

o quando afferma che il popolo è più prudente, più stabile e di migliore giudizio che un principe.144

Il Principe a) La tesi politica Affermazione, questa, però smentita nel Principe. La ragione è nel fatto che la dolorosa constatazione di tristi eventi politici – la corruttela degli Stati italiani cui faceva contrasto la formazione dei forti Stati nazionali stranieri, le invasioni e le devastazioni subite dalla nostra penisola – costringeva Machiavelli ad uscire da un discorso generico e in un certo senso astratto per intraprenderne un altro più contingente e più energico, necessitato, insomma, dalla particolare situazione italiana145. Pertanto, tra le posizioni dei Discorsi e quelle del Principe non c’è contraddizione, ma soltanto un modo diverso di mettere a fuoco i problemi: nei Discorsi visti nei loro principi generali, nel Principe considerati nell’attualità italiana. Insomma, sempre nel 1513, sospesa la stesura dei Discorsi, Machiavelli scrisse in pochi mesi, quasi di getto, Il Principe, un trattato in 26 capitoli, nel quale si proponeva di trattare delle varie forme di principati e del come si acquistano o si perdono; ed ancora – 143

Idem, Libro 1, cap. 4. Idem, Libro 1, cap. 58. 145 Scartiamo senz’altro le tesi di Cecil H. Clough e di altri critici, soprattutto di scuola anglosassone, secondo cui il Principe sarebbe stato scritto per uno scopo pratico: quello, cioè, di rientrare nelle grazie dei Medici, e di Giuliano in particolare, dandogli consigli nel caso fosse divenuto, come si ventilava, signore di Parma e di Reggio. 144

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Il Cinquecento ed è questa la parte più interessante del libro – di quelli che devono essere i rapporti del principe con i propri sudditi. Ed è a questo proposito che si esprimono il pessimismo del Machiavelli, al quale abbiamo già accennato, e la sua concezione naturalistica dell’uomo. Tenendo presente gli uomini “come sono” – ingordi, vili, infidi e mossi sempre da basse passioni – Machiavelli costruisce il suo tipo ideale di principe, capace di adeguarsi alla realtà degli uomini al fine di poterli governare e tenere obbedienti: perché uno uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene che ruini in fra tanti che non sono buoni. Onde è necessario, volendosi uno principe mantenere, imparare a potere essere non buono e usarlo e non usarlo secondo la necessità.146

Tanto premesso, il principe può fare suoi tutti i vizi degli uomini; anzi quei vizi in lui divengono virtù, se strumento della difesa dello Stato: non si curi di incorrere nella fama di quelli vizi, senza quali e’ possa difficilmente salvare lo stato; perché, se vi si considerrà ben tutto, si troverrà qualche cosa che parrà virtù e, seguendola, sarebbe la ruina sua; e qualcuna altra che parrà vizio, e, seguendola, ne riesce la sicurtà e il bene essere suo.147

La virtù del principe è una qualità ambigua: non esclude del tutto la virtù nel senso morale, ma include anche tutti i vizi necessari al politico secondo le circostanze: è dolcezza, ma può essere anche durezza; è bontà, ma può essere anche crudeltà, secondo i casi; queste ed altre doti devono essere usate con astuzia e con calcolo freddo e rapido: sempre per il fine politico, cioè una repubblica (nel senso di res publica) ordinata, attuabile solo con la repressione delle passioni umane. Nel principe, quindi, virtù e vizi non sono giudicati dal punto di vista morale, ma da quello politico e del successo: se una virtù mette in pericolo lo Stato, bisogna abbandonarla; se un vizio lo salva o lo rafforza, bisogna seguirlo. Nell’attività politica, pertanto, non c’è un bene che sia bene e un male che sia male, ma è bene quel che fa prosperare lo Stato e rafforza il potere del principe anche se moralmente è male; di conseguenza è male quel che lo danneggia anche se moralmente è bene. È questo quello che comunemente dicesi “machiavellismo”: che non è far prevalere l’utile politico sul bene morale, ma distinguere il concetto dell’utile dal concetto del bene, un prendere atto: a) che la prassi politica segue una propria strada e proprie virtù; b) che non si può costruire una scienza politica se non rendendola autonoma da considerazioni e remore morali. In questo aver posto le basi di una scienza politica autonoma si riconosce il più stretto legame di Machiavelli con l’Umanesimo, perché, come si è già detto, è proprio dell’Umanesimo la tendenza a rendere autonome le varie attività dello spirito umano. Ma, tornando alla “virtù” del principe, Machiavelli avvertiva che essa non è sempre, né può essere del tutto protagonista della storia. Ad impedirne, ostacolarne, condizionarne 146 147

Niccolò Machiavelli, Il Principe, cap. 15. Ibidem.

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Il Cinquecento l’azione c’è la “qualità de’ tempi”, ovvero la situazione storica; c’è un coefficiente di imponderabilità, un insieme di elementi imprevedibili che sfuggono all’azione della virtù ed a cui Machiavelli da il nome ambiguo e ammaliante di “fortuna”. Essa è come una fiumana che, quando si adira, trascina ogni cosa alla deriva. Sta alla virtù del principe, però, preparare argini e ripari, perché la fortuna dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle; e quivi volta li sua impeti, dove la sa che non sono fatti gli argini e li ripari a tenerla.148

Perciò il rapporto fortuna-virtù è un rapporto dialettico e dinamico: maggiore è la forza della virtù, minore sarà l’opposizione della fortuna; maggiore l’energia costruttrice del principe, minore l’opposizione del quadro storico. Qui si conclude la teoria politica di Machiavelli, sviluppatasi con lucida e spietata logica. Ma la fine del libro (cap. XXVI) è di tutt’altra natura. «Quando su quel gioco di violenze, di frode, di virtù animalesche, si leva come un canto l’esortazione a liberare l’Italia dai barbari, la teoria del Principe così limpidamente oggettivata e tecnica scopre le sue origini passionali. La vera occasione di quell’opera, il continuo sotterraneo riferimento, nell’animo del Machiavelli era la patria» (Flora). Qui, nell’esposizione addolorata della tragica situazione italiana si ravvisa non solo il perché dell’urgenza della composizione del trattato – si ricordi che per comporlo l’autore sospese la stesura dei Discorsi – ma anche lo stato di necessità per cui Machiavelli, non senza intimo tormento, perviene all’elaborazione della sia spietata teoria politica. E qui, trascinato dall’entusiasmo nella prospettiva luminosa di un’Italia finalmente redenta, Machiavelli contraddice se stesso: dimentica il suo pessimismo, dimentica come gli uomini siano preda soltanto e sempre di basse passioni, dimentica l’opposizione mai del tutto superabile della fortuna e vede un popolo in armi, dietro un eroico principe, dar prova di valore e riconquistare la libertà. A questo sogno poetico Petrarca presta i suoi versi: Virtù contro a furore prenderà l’arme, e fia el combatter corto; che l’antico valore nelli italici cor non è ancor morto.149

b) Limiti e pregi del Principe Si avverte nel Principe per la prima volta, in termini di pensosa riflessione, il problema della libertà e dell’unità italiana. «C’è nel Machiavelli la piena consapevolezza che le forme politiche elaborate dalle città e dagli Stati cittadini italiani nell’età dei comuni e delle signorie non hanno più alcuna vitalità […] ed ancora la coscienza che le grandi formazioni territoriali d’oltralpe rappresentano un fenomeno politico di grande importanza» (Procacci). Certamente Machiavelli non risolse, né poteva certamente risolvere, tale 148 149

Idem, cap. 25. Idem, cap. 26 citando Francesco Petrarca, Canzoniere, 128, vv. 93-96.

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Il Cinquecento problema: resta però a lui il merito di averlo penosamente avvertito ed additato alla classe politica italiana. Altro merito di Machiavelli è quello di avere intuito – emergendo così dalla concezione pragmatica della storiografia dell’Umanesimo che riteneva l’azione politica effetto delle virtù e dei vizi dei singoli individui – le ragioni della situazione storica, ovvero la resistenza dei tempi. Certamente, oltre questo, Machiavelli, uomo del Cinquecento, non poteva andare; e pertanto, pretendere che egli approfondisse il concetto della resistenza dei tempi – anticipando Vico – o che ritenesse che a muovere gli uomini non fossero soltanto passioni individuali, ma bisogni economici – anticipando Marx – è pretendere l’impossibile. Quel che fa difetto in Machiavelli è invece il fatto che nella sua intuizione politica non c’è posto per la libertà dell’individuo – in quanto tutto è finalizzato nello Stato in cui l’individuo resta soffocato –; così come non c’è posto per i valori sentimentali, che Machiavelli, tutto preso dalla diagnosi delle basse passioni umane, sembra disconoscere del tutto. È stato anche detto che nel pensiero del Machiavelli non mancano contraddizioni – ed una di queste è la stessa chiusura entusiastica ed eloquente del Principe –: ma quale scrittore geniale non è a volte contraddittorio per la capacità che gli è propria di vedere un problema da prospettive diverse ed in tutta la sua complessità? Solo gli scrittori mediocri sono unilaterali e perciò angusti. Ma, pensiero politico a parte, qui occorre mettere in evidenza le doti di Machiavelli quale autore del Principe. Anche sotto il profilo artistico oltre che speculativo, il Principe è l’opera più affascinante del Machiavelli. Anche se i Discorsi hanno una maggiore ampiezza di disegno e una maggiore larghezza di respiro, il Principe – nota Matteucci – col suo svolgimento rapido e serrato, senza una pausa o una digressione, con la sua tensione ideale e la concentrazione delle idee, col suo metodo discorsivo che pur si impenna a volte, sotto la tensione delle idee, a vero lirismo, con le sue immagini vive, potenti, illuminanti è un vero capolavoro, a cui può stare alla pari soltanto la prosa del Boccaccio. c) La fortuna del libro Invece di ispirare Lorenzo dei Medici duca di Urbino, a cui pure era dedicato, o altri principi italiani, il Principe divenne paradossalmente «un galateo professionale ad uso dei principi europei» (Russo). La ragione è che non c’era ancora in Italia quella “qualità de’ tempi” adatta ad accogliere la lezione del Segretario fiorentino. Machiavelli è, comunque, uno degli autori più discussi: ora esaltato come fondatore della scienza politica ed ideologo dello Stato moderno, ora denigrato come colui che scisse la politica dall’etica. Dopo la sua morte prevalse un atteggiamento critico ed ostile verso il suo pensiero politico: l’età della Controriforma e della Riforma cattolica rimproverava all’autore del Principe i suoi attacchi alla Chiesa cattolica ed al cristianesimo150 nonché, soprattutto, la sua affermazione di una politica autonoma dalla legge morale. Fu allo150

Machiavelli considera la religione una superstizione necessaria per tenere ubbidienti i sudditi e così salvare lo Stato. È per questo che egli inveisce spesso contro la corruzione della Chiesa: perché ciò toglie alla religione il suo prestigio, impedendole così il suo compito politico.

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Il Cinquecento ra che venne coniato il termine di “machiavellismo”, usato a significare atteggiamento eretico ed immorale. Ma l’opposizione a Machiavelli fu piuttosto esteriore e formale, a volte ipocrita addirittura. Mentre, infatti, si denigravano le affermazioni politiche dello scrittore fiorentino, si ammetteva che esistesse pure una “ragione di Stato”, la quale rendeva accettabili procedimenti politici discordi dalla morale, purché fossero finalizzati alla difesa di uno Stato religioso e cristiano. Nel corso del Seicento, per opera dello scrittore Traiano Boccalini, nacque un’originale interpretazione del pensiero politico di Machiavelli con intento senz’altro elogiativo. L’interpretazione, condivisa poi da Rousseau, da Alfieri, da Foscolo in un famoso passo dei Sepolcri151 e in certo senso anche da Gramsci, il quale sostiene che Machiavelli non intese fornire consigli ai tiranni, già conoscitori ed utilizzatori di quei metodi, bensì rivolgersi al popolo: o per fargli intendere quanto dura e spietata fosse la tirannide (Foscolo) oppure per svegliarne la volontà collettiva (Gramsci). L’esaltazione di Machiavelli, soprattutto quale scrittore-profeta della libertà e dell’unità nazionale, si ebbe, come era naturale, nel clima ardente del Risorgimento. Recentemente, però, e soprattutto per opera di critici stranieri, si è rimessa in discussione la validità del pensiero politico del Machiavelli: ora ravvisando in lui posizioni anticristiane ed eccessivamente autoritarie, ora accostandolo al marxismo, ma in senso peggiorativo, in quanto il suo sarebbe un materialismo non economicamente fondato. Si potrebbe emettere su Machiavelli anche un giudizio neutro, considerandolo come un proto-sociologo, intento cioè a descrivere nel modo più freddo possibile la situazione che osservava, senza intenti critici152. L’invocazione finale all’Italia, in questa visione, si ridurrebbe ad un’aggiunta posticcia, ad una chiusura di prammatica, slegata dal resto dell’opera.

Le altre opere politiche a) L’arte della guerra Il problema militare è un problema centrale nelle riflessioni politiche di Machiavelli. Lo aveva già affrontato nei Discorsi: «Il fondamento di tutti li stati è la buona milizia»153 e nel Principe: «E’ principali fondamenti che abbino tutti li stati, così nuovi come vecchi o misti, sono le buone legge e le buone arme»154. Tra il 1519-20 lo affronta in modo specifico nel dialogo in sette libri sull’Arte della guerra, unica opera ad essere pubblicata ancor vivo l’autore. Vi si discute dell’ordinamento dell’esercito e precisamente: della necessità di un esercito cittadino al posto delle infide truppe mercenarie, della superiorità della fanteria nei 151

Per Foscolo, Machiavelli «temprando lo scettro ai regnatori / gli allor ne sfronda ed alle genti svela / di che lagrime grondi e di che sangue» (vv. 156-158). 152 Si pensi alla “obbiettività scientifica” che traspare fin dal titolo della sua prima opera (1503): del modo tenuto dal duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini. 153 Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Libro 3, cap. 31. 154 Niccolò Machiavelli, Il Principe, cap. 12.

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Il Cinquecento confronti della cavalleria, dell’inutilità delle armi da fuoco. Certamente, queste tesi mettono in evidenza limiti di impostazione tecnica – soprattutto a proposito delle armi da fuoco, di cui Machiavelli non riesce a prevedere i possibili sviluppi –: tuttavia esse contribuiscono ad illuminare la visione politica dello scrittore. Quelle armi cittadine di cui Machiavelli parla non rappresentano, infatti, soltanto una scelta di tecnica militare, ma vogliono significare, sull’esempio di Roma antica – dove il cittadino-contadino era tutt’uno col soldato – la partecipazione alla vita dello Stato, l’interesse collettivo del popolo alla soluzione dei problemi d’Italia: uno strumento, insomma, di quella visione ottimistica e profetica con cui si chiude il Principe. b) Opere minori La Vita di Castruccio Castracani e le Istorie fiorentine – dalle origini della città alla morte di Lorenzo il Magnifico (1492) – pur appartenendo alla storiografia biografica e cronachistica, possono ben rientrare nelle opere politiche di Machiavelli, in quanto in esse il racconto degli avvenimenti – sia che si parli della vita del Castracani, sia che si parli dei casi di Firenze – è sempre in funzione del pensiero politico dell’autore, quasi un’esemplificazione delle tesi esposte nei trattati maggiori.

Le opere letterarie Sbaglierebbe chi si creasse l’immagine di un Machiavelli sempre chiuso nelle sue profonde meditazioni politiche. Altri interessi umani ed altri contenuti letterari non erano estranei alla sua personalità assai complessa di uomo e di scrittore. Certamente, anche quando tratta altri generi letterari che non siano il trattato politico e la storia, Machiavelli esprime il suo pessimismo e la sua insoddisfazione morale nei confronti della società nella quale vive. E lo fa con una profondità di analisi, con un tono chiaro ed incisivo che non fanno dimenticare le forti pagine del Principe. a) La Mandragola Si tratta senza dubbio della migliore commedia del Cinquecento. Una signora, Lucrezia, cede alle brame del suo spasimante, perché convinta a ciò dal suo confessore, fra’ Timoteo, corrotto a sua volta dal denaro di un mezzano. C’è quindi, alla base della commedia, lo stesso mondo del Principe – gli istinti bassi e volgari, il meschino interesse, la greve ingordigia – senza che si avverta però la presenza correttiva del principe. Inutile quindi cercare nella commedia, come ha fatto qualcuno, un forzato significato di allegoria politica – Lucrezia sarebbe Firenze, condotta al peggio da certe meschine manovre a cui non era estranea la gente di Chiesa –, in quanto la politica della commedia è assai più profonda e remota ed investe tutta la machiavellica intuizione delle cose del mondo. Fu scritta intorno al 1518.

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Il Cinquecento b) Opere minori Oltre alla Mandragola, Machiavelli compose anche un’altra commedia, la Clizia (1524), che non regge minimamente al paragone di quella. Emblematica, invece, del pessimismo di Machiavelli è la novella Belfagor arcidiavolo, nella quale l’esplorazione dei vizi delle donne ricorda il Corbaccio di Boccaccio. Quanto ancora scrisse Machiavelli (canti carnascialeschi, rime, cronache in versi) significa soltanto la sua partecipazione di scrittore alle mode letterarie del tempo.

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Il Cinquecento

Francesco Guicciardini Dotato di una spietata capacità di analisi e di logica, Guicciardini, polemizzando con Machiavelli, distrugge una per una quelle contraddizioni attraverso le quali l’autore del Principe aveva lasciata aperta una via alla speranza. Per questo il suo pensiero politico va sempre considerato e giudicato in rapporto a quello di Machiavelli, apparendo, nel confronto, assai più sconsolante.

La vita Concittadino e contemporaneo di Machiavelli, anche se più giovane di lui – nacque infatti nel 1483 – Guicciardini visse grosso modo le stesse vicende politiche, ma con diversa fortuna. La sua, infatti, fu una brillante carriera politica e diplomatica – conosceva bene quell’arte dei compromessi a cui per temperamento non era portato il Segretario fiorentino –: fu ambasciatore presso il re Ferdinando il Cattolico di Spagna, governatore di Modena, di Reggio, di Parma, presidente della Romagna per incarico di Clemente VII, organizzatore della lega di Cognac contro Carlo V e luogotenente generale delle truppe pontificie e fiorentine. Ma la sconfitta della lega, con il sacco di Roma e la cacciata dei Medici da Firenze (1527), inflisse un duro colpo alla sua brillante carriera politica: dovette allora abbandonare ogni attività e ritirarsi nella sua villa di Finocchietto, poi a Roma. Quando i Medici ritornarono a Firenze riebbe qualche incarico, ma non dell’importanza di una volta. Deluso, si ritirò ad Arcetri, dove scrisse la Storia d’Italia e dove nel 1540 morì.

Il pensiero politico Guicciardini parte dalle stesse pessimistiche premesse machiavelliche circa la natura umana. Ma il suo pessimismo è più greve e sconsolato, perché, rispetto a Machiavelli gli manca la passione politica e la volontà di costruire qualcosa, pur sulla base della corruttela degli uomini e della “ruina” d’Italia. Se, infatti, Machiavelli aveva cercato nell’esempio della storia e nell’azione-guida del principe dei fattori formanti e liberatori, Guicciardini distrugge l’uno e l’altra. Per quanto riguarda la storia egli non crede che possa insegnare alcunché agli uomini, perché ogni periodo storico presenta proprie caratteristiche, sicché le soluzioni buone in un certo momento non lo sono in momenti diversi: Però non si possono giudicare le cose del mondo sì da discosto, ma bisogna giudicarle e risolverle giornata per giornata.155

Pertanto l’abilità del politico deve consistere nel saper valutare le singole situazioni, notando quanto hanno di particolare e di irripetibile. Guicciardini definisce tale abilità 155

Francesco Guicciardini, Ricordi, 114.

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Il Cinquecento discrezione, cioè un saper distinguere con «buono e perspicace occhio […] ogni minima varietà nel caso»156: È grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente e assolutamente e, per dire così, per regola; perché quasi tutte hanno distinzione e eccezione per la varietà delle circunstanze, le quali non si possono fermare con una medesima misura: e queste distinzione e eccezione non si truovano scritte in su’ libri, ma bisogna le insegni la discrezione.157

Eguale opera distruttrice Guicciardini opera, per rigore di logica, anche a proposito dell’azione-guida del principe. Se il principe è un uomo, perché dovrebbe essere libero da quelle passioni e da quegli interessi che caratterizzano l’azione di ogni uomo? Non esistono, quindi, eroi-guida e neanche apostoli disinteressati e sinceri: Non crediate a coloro che predicano sì efficacemente la libertà, perché quasi tutti, anzi non è forse nessuno che non abbia l’obietto agli interessi particulari.158

Gli interessi particulari: ecco l’espressione che scandalizzerà generazioni e generazioni di critici e di lettori. Machiavelli voleva che il principe si servisse delle sue spietate e disumane virtù in nome dello Stato, che nelle recondite pieghe del suo sentimento era la patria italiana: era quella la lex suprema, il fine ultimo della sua lezione politica. Per Guicciardini il fine della discrezione sono gli interessi particulari. Ma, si badi bene, non è un consiglio, è una constatazione; ovvero è anche un consiglio – per se stesso e per gli altri – ma che nasce da una inconfutabile constatazione: perché in una società di uomini che ricercano ciascuno il suo particulare sarebbe follia non fare altrettanto. Una lucida saggezza, una oculata discrezione protegge Guicciardini dagli inutili atteggiamenti messianici, tarpa le ali al suo sentimento ed alle sue potenziali idealità e lo tiene saldamente e saggiamente legato al suo particulare: Io non so a chi dispiaccia più che a me la ambizione, la avarizia e la mollizie de’ preti: sì perché ognuno di questi vizi in sé è odioso, sì perché ciascuno e tutti insieme si convengono poco a chi fa professione di vita dependente da Dio, e ancora perché sono vizi sì contrari che non possono stare insieme se non in uno subietto molto strano. Nondimeno el grado che ho avuto con più pontefici m’ha necessitato a amare per el particulare mio la grandezza loro; e se non fussi questo rispetto, arei amato Martino Luther quanto me medesimo: non per liberarmi dalle legge indotte dalla religione cristiana nel modo che è interpretata e intesa communemente, ma per vedere ridurre questa caterva di scelerati a’ termini debiti, cioè a restare o sanza vizi o sanza autorità.159

Certamente, il particulare di cui Guicciardini parla non consiste in piaceri ed interessi volgari, ma nel prestigio personale, nel buon nome, nella dignità degli incarichi ed anche in una sicura e tranquilla libertà personale; insomma, in una serie di aspetti umanistici, spogli però del loro valore ideale e ridimensionati a puri interessi pratici:

156

Idem, 117. Idem, 6. 158 Idem, 66. 159 Idem, 28. 157

130

Il Cinquecento Quegli uomini conducono bene le cose loro in questo mondo, che hanno sempre innanzi agli occhi lo interesse propio, e tutte le azione sue misurano con questo fine. Ma la fallacia è in quegli che non conoscono bene quale sia lo interesse suo, cioè che reputano che sempre consista in qualche commodo pecuniario più che nell'onore, nel sapere mantenersi la riputazione e el buono nome.160

Le opere minori I passi che abbiamo citato per chiarire e testimoniare il pensiero di Guicciardini sono tratti dai suoi Ricordi civili e politici: circa quattrocento pensieri dedicati ai nipoti, quasi una specie di suo testamento spirituale. Più che essere il libro di un moralista – come a qualcuno è parso – a noi i Ricordi danno l’impressione di essere il “libro bianco” della realtà politico-morale del Rinascimento: una specie di anti-Cortegiano, in quanto alla visione idealistica della vita pubblica se ne contrappone un’altra profondamente scavata nella realtà. Vogliamo insomma ribadire – e ci sembra questo il modo per meglio capire Guicciardini – che egli non intende tanto dar consigli quanto invece fare osservazioni su una realtà spiacevole e crudele e sulla quale, nel fondo della sua coscienza, può anche non essere d’accordo. Si noti, infatti, il modo obbiettivo e distaccato col quale egli afferma squallide verità come questa: Pregate Dio sempre di trovarvi dove si vince, perché vi è data laude di quelle cose ancora di che non avete parte alcuna: come per el contrario chi si truova dove si perde è imputato di infinite cose delle quali è inculpabilissimo.161

Nei Ricordi, che pur sono oggetto di una attenta elaborazione, lo stile, in armonia con la durezza delle osservazioni, è icastico e nervoso, sì da ricordare alcune tra le più potenti e drammatiche pagine del Principe. L’opera nella quale Guicciardini polemizza direttamente con Machiavelli sono le Considerazione sui Discorsi di Machiavelli. Prendendo in esame alcuni capitoli dell’opera del segretario fiorentino, Guicciardini non ne condivide, per le ragioni che abbiamo esposto, il disegno di trarre dalla storia di Roma esempi validi al presente. Lo conferma del resto anche nei Ricordi: Quanto si ingannono coloro che a ogni parola allegano e Romani! Bisognerebbe avere una città condizionata come era loro, e poi governarsi secondo quello essemplo: el quale a chi ha le qualità disproporzionate è tanto disproporzionato, quanto sarebbe volere che uno asino facessi el corso di uno cavallo.162

Anche le Storie fiorentine, che abbracciano le vicende di Firenze dal 1378 al 1509, esprimono il pensiero politico di Guicciardini, che, in fondo, era un conservatore. Nella rassegna dei fatti, egli vuole dimostrare che la città decadeva ogniqualvolta il popolo otteneva il governo. D’altra parte si dimostra contrario anche al regime autoritario instaura160

Idem, 218. Idem, 176. 162 Idem, 110. 161

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Il Cinquecento to a volte dai Medici. Il suo ideale istituzionale è perciò quello del quale parla anche nel trattato Del reggimento di Firenze: un reggimento aristocratico ristretto, formato da uomini “savi”, capace di assicurare alla città pace e benessere163.

La Storia d’Italia Il capolavoro di Guicciardini è la Storia d’Italia. L’opera, scritta tra il 1537-40, abbraccia, in venti libri, gli avvenimenti che vanno dal 1494 – l’anno della discesa di Carlo VIII – al 1534. Ideata forse come continuazione delle Istorie fiorentine di Machiavelli, il disegno dell’opera si ampliò subito nella mente dell’autore, data l’impossibilità di restringere la narrazione alla sola Firenze per un periodo nel quale tutte le forze politiche italiane, nonché straniere, concorrevano nella determinazione degli eventi di ogni singolo Stato. Interessante, infatti, è il panorama politico d’Italia – che fa da introduzione alla Storia – nel quale Guicciardini con acuta analisi mette in evidenza quei fattori che scatenarono la crisi politica italiana, coinvolgendo naturalmente anche lo Stato fiorentino. Pregio di Guicciardini storiografo è la capacità di analizzare gli eventi, mettendone in luce tutte le componenti: in primo luogo – com’era del resto nella concezione della storiografia rinascimentale – quelle umane. Ed è così che il racconto degli avvenimenti si arricchisce di ritratti umani, veri capolavori di indagine psicologica. Lo stile è solenne come la materia ed il periodare ampio e complesso mette in evidenza, attraverso il gioco sapiente delle subordinate, tutte le componenti del fatto storico.

Conclusione Al tempo del Risorgimento, quando (con senso antistorico degno di certo Medioevo) si cercava nella letteratura e nel pensiero del passato una base ideologica alla situazione politica ottocentesca, da un alto si esaltava la figura di Machiavelli quale profeta dell’indipendenza e dell’unità nazionale, dall’altro si condannava severamente la rinunzia ad ogni ideale e lo scetticismo circa l’unità nazionale propri di Guicciardini: «La razza italiana non è ancora sanata da questa fiacchezza morale, e non è ancora scomparso dalla sua fronte quel marchio che ci ha impresso la storia di doppiezza e di simulazione. L’uomo del Guicciardini vivit, immo in senatum venit e lo incontri ad ogni passo. E quest’uomo fatale ci impedisce la via, se non abbiamo la forza di ucciderlo nella nostra coscienza» (De Sanctis). Che manchi nel Guicciardini la prospettiva dell’unità d’Italia è indiscutibile. Anche se confessa di odiare lo straniero, ritiene – obbiettivamente – che in Italia siano troppo radi163

L’ideale politico di una “forma mista” di governo che contemperi il governo monarchico con le istanze democratiche – ideale politico desunto anch’esso dal pensiero classico – ritorna frequentemente anche negli storici minori di questo periodo. Citiamo: DONATO GIANNOTTO, Della repubblica de Veniziani e Della repubblica fiorentina; JACOPO NARDI, Istorie della città di Firenze; BENEDETTO VARCHI, Storia fiorentina; PIER FRANCESCO GIAMBULLARI, Storia d’Europa. In tutti, secondo il modulo della storiografia rinascimentale – adottato anche da Guicciardini – c’è l’intento di accordare l’esigenza scientifica con l’esposizione oratoria.

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Il Cinquecento cati la tradizione autonomista ed il senso delle libertà comunali per potere intravedere l’ipotesi di un’unità nazionale: «Il Guicciardini era legato alla posizione politica di quella classe che tendeva a conservare i vecchi istituti comunali e non riusciva a superare la fase economico-corporativa per porsi il problema dello Stato nazionale […]. Perciò egli guarda indietro verso lo Stato corporativo e comunale o regionale e non in avanti, come il Machiavelli, verso lo Stato nazionale» (Salinari). Per quanto riguarda, invece, la spregiudicata visione della realtà, l’amaro scetticismo ed il rifiuto di ogni ideale, ci sembra giusto riaffermare che tutto ciò non fu una scelta morale di Guicciardini, ma il risultato di un’attenta, disincantata ed in certo senso coraggiosa osservazione della realtà. Sol che in lui, spirito essenzialmente logico e portato perciò a raggiungere da certe premesse adeguate conseguenze, mancò lo slancio messianico che fu di Machiavelli e la sua capacità di allungare lo sguardo in un futuro ipotetico e lontano164.

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Abbiamo peraltro già potuto osservare come anche l’afflato unitario di Machiavelli possa sembrare posticcio.

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Tra classicismo e gusto popolare Mentre la letteratura di cui abbiamo finora parlato, per un verso o per l’altro di ispirazione classica, si rivolgeva soprattutto ad un pubblico aristocratico – si ricordi che Ariosto componeva il suo poema per leggerlo ai cortigiani e che Machiavelli e Guicciardini scrivevano per i politici – le forme letterarie di cui si parlerà ora, pur fruendo di generi o schemi classici, mirano ad un più vasto pubblico e pertanto assumono contenuti e modi espressivi dall’ambiente contemporaneo e popolare. Naturalmente, il rapporto tra aspetto classicheggiante ed aspetto popolareggiante si attua a livelli diversi: e se, per esempio, la tragedia è quasi ancor tutta un genere classicheggiante e destinata perciò ad un ristretto pubblico di persone colte, la commedia, aperta ad un più vasto pubblico, del repertorio classico non ripete altro che schemi e strutture. Ed in questo si ravvisa, sociologicamente parlando, il grande merito della cultura del Cinquecento. Se, infatti, nel Quattrocento la cultura e la letteratura classica restavano patrimonio quasi esclusivo dei letterati, nel Cinquecento esse hanno un pubblico senz’altro più vasto: il che dipendeva per un verso dal migliorato livello culturale medio, per l’altro da un processo di volgarizzazione del patrimonio classico-umanistico.

Il teatro Nel Cinquecento il teatro non costituisce ancora un’attività professionale: non esistono teatri stabili e compagnie di attori, ma le rappresentazioni vengono date in luoghi privati (giardini o sale delle corti, case di nobili e prelati, etc.) da attori dilettanti (cortigiani, paggi, gentiluomini, studenti). Sul piano tecnico questo teatro si vale di un elemento nuovo: la scenografia pittorica dovuta all’invenzione della prospettiva. Precedentemente, infatti, le scene erano costruite: ora si scopre che non è necessario costruirle, ma basta disegnarle. Nello schema e, fino ad un certo punto, anche nella sostanza, il teatro del Cinquecento, come già si è detto a proposito delle commedie di Ariosto, è classico: imita i modelli greco-romani ed obbedisce alle regole di quel teatro. Fatto, questo, deplorato da molti critici – in quanto avrebbe soffocato il naturale svolgimento del dramma medioevale – ma che si inquadra in quel momento di ripresa classicistica che caratterizza l’Umanesimo. a) La tragedia La tragedia, assai più della commedia, rimase legata ai modelli antichi, soprattutto greci: da ciò quel suo carattere costantemente scolastico e retorico. «Il letterato italiano del Cinquecento aveva smarrito il filone genuino, quello del dramma sacro medioevale, o almeno del suo spirito, che aveva portato Dante alla Commedia divina, Michelangelo agli affreschi della Sistina, Palestrina alle sue Messe; il letterato italiano credette che ad attingere lo spirito classico gli bastasse guardare ai modelli dell’antichità; s’abbracciò ai loro miti, ch’erano ben morti; soprattutto s’attenne alle loro formule esteriori» (D’Amico).

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Il Cinquecento La prima tragedia classica o regalare del Cinquecento venne composta da GIAN GIORGIO TRISSINO (Vicenza 1478 - Roma 1550) nel 1515 e s’intitolò Sofonisba165. Verso la metà del secolo un letterato che ebbe grande prestigio nel suo tempo, GIAMBATTISTA GIRALDI CINZIO (Ferrara 1504-1573), volle offrire al suo pubblico una tragedia basata sull’orrido al fine di creare più patetici effetti. Per questo ai tragici greci preferì Seneca e condì le sue tragedie con vicende avventurose e di atrocità. Fu autore delle tragedie Orbecche, Didone, Cleopatra, della raccolta di cento novelle Hecatonmithi, nonché di un trattato, Intorno al compor delle tragedie e delle commedie (1544), in cui sostenne l’esigenza di obbedire, nella composizione dei drammi, alle unità aristoteliche di azione e di tempo166. b) La commedia La commedia fu senz’altro più libera e meno scolastica della tragedia. Ed era naturale che così fosse: meno austera e seriosa, oggetto di attenzione di un pubblico più vasto che non fosse quello aristocratico ed erudito della tragedia, la commedia si apri ad accogliere, pur rimanendo vincolata agli schemi ed alle regole del teatro classico, motivi e spunti dalla società contemporanea. Lo si è visto nella Mandragola di Machiavelli, nella quale tutta la vicenda ed il suo succo sono imperniati nell’abile e corrotta azione di fra’ Timoteo: situazione e personaggio che non sono certamente della commedia classica. Avviene insomma nella commedia del Cinquecento che lo schema desunto da Plauto o anche da Terenzio si adatti alla realtà socio-morale del Cinquecento. Il tema dell’amore, infatti, che nelle commedie di quegli autori latini era soprattutto un pretesto atto a creare equivoci, scambi di persone, contrasti generazionali tra padri e figli, nella commedia del Cinquecento sviluppa il suo significato erotico fino alla licenziosità. Fatto che potrebbe sembrare strano a chi pensa al neoplatonismo, al petrarchismo, insomma a tutto quell’amore ideale sostenuto dai trattati del secolo ed espresso nelle poesie. Ma con la commedia ci troviamo in un altro mondo: il modello classico – pagano e sensuale – era pretesto per dar libera voce ad una realtà prosaica che la “predicazione” platoneggiante aveva soltanto mascherato e soffocato. E poiché la realtà della vita stessa delle corti era duplice (lo si è visto già nel rapporto tra Cortegiano di Castiglione e Principe di Machiavelli) e, mentre si esaltava l’amore platonico come un aspetto della gentilezza cortigiana, ci si divertiva in licenziose avventure amorose, ne derivava che il primo e più appassionato pubblico di queste commedie fosse costituito proprio da cortigiani e da prelati. I quali non ne costituivano soltanto il pubblico, ma spesso anche gli autori, come fu per il cardinale BERNARDO DOVIZI detto il BIBBIENA (Bibbiena, Arezzo 1470 - Roma 1520), che compose la più licenziosa commedia del Cinquecento, la Calandria (1513) e la rappresentò poi alla presenza del Papa. 165

Tra gli altri autori di tragedie citiamo: LUIGI ALAMANNI (Antigone), GIOVANNI RUCELLAI (Oreste, Rosmunda). PIETRO ARETINO (Orazia). 166 Curiosamente William Shakespeare, il drammaturgo che più di ogni altro infranse le tre unità “aristoteliche” codificate da Cinzio, per l’argomento di Otello si ispirò proprio ad una delle cento novelle dello scrittore ferrarese.

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Il Cinquecento Autore di commedie pregevoli fu anche PIETRO ARETINO (Arezzo 1492 - Venezia 1556), un singolare personaggio della nostra letteratura su cui ci soffermeremo in seguito. Nelle sue commedie La Talanta, Il marescalco, La cortigiana, Lo ipocrito, Il filosofo la comicità non nasce soltanto da lubriche avventure d’amore, ma anche e soprattutto da una satira gustosa contro la pedanteria e l’ipocrisia, che erano i mali peggiori che affliggevano il secolo. Bella commedia è anche la Venexiana, di autore anonimo e mista di lingua e dialetto veneto, in cui si narra di due giovani donne che cinicamente si contendono lo stesso uomo. ANGELO BEOLCO, detto il RUZANTE (o Ruzzante, Padova 1496 ca. -1542) compose tutte le sue commedie in dialetto patavino, la parlata rusticana del retroterra veneto. Le sue opere migliori – la Fiorina, il Bilora, il Parlamento di Ruzante che torna dalla guerra – a mezza strada tra commedia e farsa, hanno un intreccio semplicissimo ed uno svolgimento rapido e sciolto. In esse il Ruzante – che oltre ad essere autore fu anche interprete delle sue commedie – introdusse un elemento nuovo e popolare: la rappresentazione del villico, non solo nei suoi modi espressivi, ma nella sua interiore umanità. Che è un’umanità fatta di rozzezza, scaltrezza, avidità, ma anche di istintiva sapienza e genuinità di affetti, che l’autore non vede con l’occhio ironico della persona colta, ma che accompagna con cordiale simpatia, quasi con affettuosa compartecipazione. Il carattere vivace, movimentato, popolare ed antiletterario delle commedie del Ruzante non è un fatto isolato nel secolo: lo si riscontra anche – ma certamente senza l’arte del Ruzante – nelle rappresentazioni tra pastorale e rusticano (un insieme di villani, ninfe e pastori) della CONGREGA DEI ROZZI, una specie di circolo ricreativo senese fatto di artigiani e borghesi; e lo si ritrova ancora nelle commedie del veneziano ANDREA CALMO (1509-1571). Ma la nostra trattazione sulla commedia del Cinquecento non può chiudersi senza ricordare che va all’Ariosto, come si è detto, il merito di avere scritto la prima commedia regolare del secolo ed a Machiavelli quello di essere stato l’autore del capolavoro del genere: La Mandragola167.

La novella La novella ha, nel Cinquecento, lo stesso svolgimento della commedia: sulla base, cioè, di uno schema classico – che in questo caso è italiano, non latino o greco – risente degli aspetti e del gusto del secolo e così all’intento letterario aggiunge, a volte finisce per far prevalere addirittura, un intento di trattenimento e divertimento. E trattenimento non solo di cortigiani e aristocratici, ma di un pubblico più vasto, fatto di persone di spirito anche se non dotte. Lo schema al quale alludevamo, seguito da tutta la novella del Cinquecento, è quello della novella del Boccaccio: se ne imitano le situazioni, i temi, la vena erotica, la cornice 167

Altri autori di commedie nel Cinquecento furono ANTON FRANCESCO GRAZZINI, detto il LASCA (La Strega), ANNIBAL CARO (Gli straccioni), GIAMBATTISTA GELLI (La Sporta), GIORDANO BRUNO (Il candelaio).

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Il Cinquecento unificatrice. Entro questo schema, però, i narratori del Cinquecento, almeno quelli dotati di maggiore originalità e fantasia creativa, concedono spazio agli aspetti della società loro contemporanea. Così è nelle duecentoquattordici novelle168 del domenicano MATTEO BANDELLO (Castelnuovo Scrivia, Alessandria 1480 - Agen 1561). Ciascuna novella è preceduta da una lettera dedicatoria – una specie di variante della cornice boccaccesca – nella quale l’autore, al fine di attribuire veridicità al “caso” che racconta, cita l’occasione e l’ambiente in cui è venuto a conoscerlo. Nel loro insieme queste introduzioni ci danno così un quadro degli ambienti signorili frequentati dall’autore. Non senza ragione Bandello chiamava “casi” le vicende delle sue novelle: in esse, infatti, dato il largo spazio affidato al fortuito ed all’irrazionale; di conseguenza il vero protagonista è il caso e non il personaggio – com’era invece nel Decameron. Nasce da ciò l’impressione che l’abilità dello scrittore consista più nell’intreccio delle vicende e nella misura narrativa che non nella psicologia dei personaggi. Lombardo di origine, Bandello riconosceva di non poter scrivere nella pura lingua fiorentina, anzi confessava di non porsi affatto preoccupazioni linguistiche. Egli voleva essere soltanto lo “storico” di fatti, spesso violenti e tragici – si ricordi la storia di Giulietta e Romeo – che meritavano di non essere dimenticati. Sempre attento allo stile è invece AGNOLO FIRENZUOLA (1493-1543), il monaco vallombrosano di cui abbiamo già conosciuto l’Epistola in lode delle donne. La sua attività di narratore è rappresentata dai Ragionamenti d’amore (1523), una raccolta di novelle raccontate da tre giovani e tre donne in lieti conversari, e dalla Prima veste dei discorsi degli animali (1540), una libera riduzione di novelle indiane. Nelle novelle del Firenzuola non è la materia che conta, ma la prosa elegante, più spigliata di quella boccaccesca e perciò di gradevole lettura. Più legato allo schema del Decameron è ANTONFRANCESCO GRAZZINI detto il LASCA (Firenze 1503-1584). Le sue Cene sono una raccolta di ventidue novelle – ma sarebbero dovute essere trenta nel piano dell’autore – che una lieta brigata di cinque giovani ed altrettante ragazze raccontano in tre giovedì di carnevale. Tema predominante delle novelle è la beffa, che spesso ha una soluzione tragica per un complicarsi fortuito ed imprevedibile di casi. Con GIANFRANCESCO STRAPAROLA (Caravaggio, Bergamo 1490 ca. - post 1557) la novella cinquecentesca si arricchisce di un elemento nuovo: il fiabesco. Le sue Piacevoli notti (1550) sono infatti una raccolta di fiabe popolari raccontante da dodici gentiluomini (uno di essi è il Bembo). Di per se stesse le novelle non presentano pregi d’arte: manca l’arte del raccontare e lo stile è disarmonico e sciatto. Comunque le Piacevoli notti segnano l’inizio della trascrizione letteraria delle fiabe popolari italiane.

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I Quattro libri delle Novelle furono editi tra il 1554 (i primi tre a Lucca) ed il 1573 (l’ultimo a Lione).

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La letteratura di opposizione Al di là della letteratura di moduli classici ma di ispirazione fondamentalmente realistica – quali la commedia e la novella, di cui ora si è parlato – si sviluppa nel Cinquecento un filone letterario non solo estraneo all’aspetto classicheggiante ed aristocratico che fu al vertice del gusto del secolo, ma addirittura in posizione dichiaratamente contestataria nei suoi confronti. Si tratta di scrittori che molto opportunamente sono stati definiti “scapigliati”, che ebbero vita avventurosa, ora incoerente ora al limite della legalità, e che amarono contestare gli aspetti più ufficiali e convenzionali del loro tempo. In contrapposizione a tutto l’idealismo platonizzante del secolo esaltarono l’amore sensuale; colpirono con la loro satira l’ideale aristocratico-cortigiano; crearono la parodia della pedanteria erudita e del purismo linguistico; ed alle regole, ai modelli, a tutti i condizionamenti stilistici e linguistici sostituirono una forma espressiva più sciolta e moderna. Era naturale che una siffatta letteratura, anche se non di origine popolare – in quanto a comporla erano per la maggior parte letterati che per una ragione o per un’altra erano legati agli ambienti dell’aristocrazia culturale e sociale – avesse una maggiore apertura e un maggior successo nei ceti popolari. Così come è innegabile che serpeggiasse alla sua base un certo, anche se poco precisato, atteggiamento ideologico. Tuttavia suo rischio fu quello di cadere da una retorica in un’altra o, più precisamente, come scrive Momigliano, dalla “retorica in toga” nella “retorica in maniche di camicia”. Vogliamo dire, insomma, che c’era il rischio che vivacità e libertà espressive non fossero fatti spontanei, ma un atteggiamento, una specie di sciatteria forzata e stucchevole.

Pietro l’Aretino Pietro Bembo aveva scritto gli Asolani per esaltare l’amore platonico, Pietro Aretino (Arezzo 1492 - Venezia 1556) scrisse i Ragionamenti169 per fornire consigli di amore sensuale. Uomo di mondo, abile ed elegante conversatore, visse la sua gioventù negli ambienti signorili. Scoprì la sua vera vena quando, morto Leone X – di cui era stato al servizio – i cardinali si riunirono a conclave per eleggere il nuovo pontefice. Allora Aretino compose pasquinate – componimenti satirici non firmati che venivano affissi sul torso di una statua romana che il popolo aveva denominato Pasquino – piene di maldicenze, insinuazioni, accuse contro i cardinali ed anche contro colui che dal conclave uscì papa col nome di Adriano VI. Per questo dovette abbandonare Roma, ma fu conteso da signori di ogni parte d’Italia che, avendo saputo della sua penna spregiudicata e malefica, volevano tenerselo amico. Così questo “flagello dei principi”, pur detestato e temuto, anzi proprio per questo, fu ovunque ricoperto di onori e ricchezze. Geniale più che profondamente colto, abile nel trattare generi diversi, l’Aretino compose oltre ai Ragionamenti, alle pasquinate ed alle commedie – delle quali si è parlato nel ca169

Titolo complessivo che raccoglie le tre giornate del Ragionamento della Nanna e dell’Antonia (1534) e le tre giornate del Dialogo nel quale la Nanna insegna a la Pippa (1536). Noti anche come Sei giornate o Dialoghi delle prostitute.

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Il Cinquecento pitolo precedente – anche una tragedia, l’Orazia (1546), considerata tra le migliori del secolo, nonché prose religiose ed agiografiche e sei libri di Lettere. Queste, destinate a grandi uomini politici italiani e stranieri e ad illustri personaggi della cultura del tempo, costituiscono uno dei più interessanti epistolari del Cinquecento: non solo per la testimonianza che ci danno degli atteggiamenti polemici e degli interessi dell’Aretino – l’antipetrarchismo, l’antiplatonismo, l’anticortigianeria – ma anche per il vivace, realistico e spesso anche fedele quadro che ci forniscono dell’ambiente politico e culturale del Cinquecento.

Niccolò Franco Segretario ed amico (e poi nemico) di Pietro Aretino (che di lui disse: «Dopo di me, sarà un altro me») il beneventano Niccolò Franco (1515-1570) è ricordato soprattutto per la propria fine (pagò con la morte alcuni scritti contro papa Paolo IV Carafa170) e per l’opuscolo Il petrarchista (1539), un documento di indipendenza dal petrarchismo imperante, scritto peraltro da un profondo ammiratore di Petrarca. E sempre nello stile del poeta trecentesco sono le 55 Rime marittime (1547), forse la sua migliore composizione. È autore anche di una raccolta di cento epigrammi latini (Hisabella) e di una serie di opere, in rima e in prosa, contro Pietro Aretino (Pistole vulgari, Dialoghi piacevoli, Priapea, Sonetti contro Aretino).

Antonfrancesco Doni Un atteggiamento contestatario – meno polemico e beffardo di quello dell’Aretino, perciò più bonario e per questo forse anche più costruttivo – è alla base degli scritti di ANTONFRANCESCO DONI (Firenze, 1513 - Monselice, Padova 1594), che, prima frate e poi spogliatosi, visse una vita vagabonda ed inquieta, traendo guadagni dall’attività non solo di scrittore, ma anche di editore. Dotato di una mentalità da giornalista e di una penna facile, fu curioso di tutto, di tutto si interessò e di tutto scrisse. La sua Zucca (1552), ad esempio, è un libro che contiene di tutto, una specie di registro delle chiacchiere, filastrocche, frappe, chimere, castelli in aria, saviezze, aggiramenti e lambiccamenti di cervello, fanfaluche, sentenzie, bugie, girelle, ghiribizzi, pappolate, capricci, frascherie, anfanamenti, viluppi, giralli, novelli, cicalecci, parabole, baie, proverbi, motti, umori ed altre giravolte e storie.

I Marmi (1555), invece, sono le conversazioni che i fiorentini fanno sugli scalini di marmo del Duomo e che l’autore coglie, una volta trasformatosi in uccello. Nei Mondi (1553), trascrizione di un dialogo tra un pazzo ed un savio, si profila l’immagine di un mondo utopistico, in cui si viva in pace e in libertà, senza problemi economici, senza ricchezza e povertà. Considerazioni, queste, che hanno fatto vedere in Doni un “socialista del Cinquecento”, ma che invece nascevano in parte dal suo atteggiamento protestatario e in fondo anche dalla sua simpa170

I suoi scritti, successivi alla morte di Paolo IV e accettati sotto il bonario Pio V, non vennero tollerati da S. Pio V: l’accanimento contro Niccolò Franco (varie accuse di natura religiosa prima che politica, l’uso della tortura durante il processo) può apparire esagerato, ma è comprensibile tenendo conto della eccessiva licenza che la libellistica si stava prendendo.

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Il Cinquecento tia per la gente umile e povera – «i poveri cascan per le strade di fame» – in parte dal riflesso delle correnti utopistiche diffuse nel tempo, da quella di Platone a quella di Tommaso Moro.

Francesco Berni In tono umoristico, o più semplicemente scherzoso, si esprime l’atteggiamento contestatario di Francesco Berni, nato a Lamporecchio (Pistoia) intorno al 1497 e vissuto tra Verona, Roma e Firenze (dove morì nel 1535) al servizio di eminenti prelati. Riallacciandosi alla tradizione di quella poesia realistica e giocosa che, iniziatasi con Cecco Angiolieri, aveva trovato nel Quattrocento un valido ed originale continuatore nel Burchiello, Berni compose Rime in varie forme metriche – sonetti, sonetti caudati, capitoli171 – nelle quali, con tono tra parodistico e canzonatorio, se la prende ora col petrarchismo e la mania di far versi anche senza ispirazione, ora con i cattivi medici, ora con personaggi di fama: come Clemente VII o Adriano VI, Bembo o l’Aretino. Riscrisse in toscano l’Orlando innamorato (1524-31) emendandolo dei suoi “emilianismi”, ma i suoi lavori migliori sono quelli in cui il tono satirico lascia il posto ad una comicità disimpegnata, che meglio risponde alle attitudini del Berni, a cui mancava la coscienza morale per divenire degno critico e giudice. Ed allora, nella celebrazione solenne di cose futili (la pèsca, l’orinale, il caldo del letto, l’anguilla) o nel racconto pittoresco di facili avventure (la mala notte in casa di un prete) si genera una vena di comicità irresistibile che diverte e suscita il riso. Grande fu comunque l’influsso che Berni esercitò con la sua poesia anche nel corso dei secoli seguenti, tanto che da lui prese nome il genere bernesco.

Benvenuto Cellini Nato a Firenze nel 1500, Benvenuto Cellini, scultore ed orafo tra i più illustri nella storia dell’arte, rappresenta il vero tipo dell’avventuriero del Cinquecento. La sua, infatti, fu una vita assai agitata e ricca di avvenimenti stravaganti e bizzarri ed al limite della credibilità. Per risse, furti, uccisioni fu costretto a fughe continue e mirabolanti. Dopo aver partecipato alla difesa di Castel S. Angelo nell’assedio del 1527 ed aver ucciso – è lui che racconta – con un’archibugiata uno dei principali condottieri nemici, fu imprigionato nel castello stesso per aver rubato gioielli del Papa: tentò la fuga, ma nel saltare da un muro si ruppe una gamba. Liberato, riparò in Francia, ospite del re Francesco I; anche lì, però, inciampò nell’inspiegabile avversione di una gran dama di corte, sicché se ne tornò a Firenze. Pur vecchio ormai, non trovò ancor pace e visse gli ultimi anni della sua vita tra risse, rivalità, malattie. Morì a Firenze nel 1571. Abbiamo avvertito la necessità di raccontare, per sommi capi, la vita di Cellini, perché è essa il contenuto del suo capolavoro, che appunto si intitola la Vita. Qui il ritmo del raccontare è quello stesso del vivere: vale a dire che il racconto de gli avvenimenti (che l’autore non scrisse di suo pugno, ma dettò) procede – meglio: prorompe – rapido, movimentato, caotico, senza essere mai rallentato da ripensamenti o preoccupazioni stilistiche. 171

Sono detti sonetti caudati i sonetti che ai quattordici versi della loro struttura ne aggiungevano altri in coda. I capitoli sono componimenti giocosi in terzine.

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Il Cinquecento Cellini ha una sola cura: raccontare la propria vita, che sente epica e grandiosa; e non tanto per la straordinarietà delle proprie avventure, quanto perché per lui è epica la vita di ogni grande artista. Per questo, le pagine in cui si racconta la fusione del Perseo non sono meno epiche di quelle in cui si racconta la sua avventurosa fuga da Castel S. Angelo; per questo, non c’è mai falsità nel racconto – anche quando non corrisponde esattamente alla realtà dei fatti – perché Cellini si rappresenta sempre quale “sente” di essere. La lingua della Vita – mobile, rapida, brusca, estranea ad ogni modello e regola, anche a quelle della sintassi – non è soltanto simbolo di una contestazione nei confronti delle preoccupazioni linguistiche del secolo, ma è segno di quell’atteggiamento epico ed anarcoide proprio dell’artista, per il quale la lingua, come la pietra o il metallo, è soltanto materia da plasmare a proprio piacimento.

Teofilo Folengo e il latino maccheronico La protesta nei confronti del petrarchismo e della pedanteria linguistica, che negli scrittori precedenti abbiamo visto espressa nell’assunzione di un linguaggio vivo, sciolto, “realistico” a volte anche – come in Cellini – ribelle agli schemi sintattici, portava Teofilo Folengo (Mantova 1491 - Bassano del Grappa 1544) a servirsi della lingua maccheronica. Questa lingua, nata tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento negli ambienti goliardici padovani allo scopo forse di parodiare l’umanesimo latino ed i suoi sostenitori, era una strana fusione di latino e volgare: i vocaboli erano volgari, latine, invece, la morfologia e la sintassi172. Assumendo questa lingua, Teofilo Folengo ne faceva uno strumento di parodia nei confronti del classicismo contemporaneo ed anche un mirabile mezzo espressivo del suo mondo poetico. Spirito bizzarro ed inquieto – fu monaco benedettino, lasciò il convento, poi vi ritornò – Folengo volle raccontare la sua caotica vita in un altrettanto caotico poemetto, misto di italiano, latino e lingua maccheronica, che si intitola appunto il Caos del Triperuno. In sola lingua maccheronica, invece, compose la Zanitonella – poemetto rusticano in cui si raccontano gli amori dei due contadini Tonello e Zanina – e la Moschaea, un poema in cui si narra la guerra tra le mosche e le formiche. Ma il capolavoro di Teofilo Folengo è il Baldus. Scritto in lingua maccheronica ed in esametri e pubblicato con lo pseudonimo di Merlin Cocai, il Baldus si ricollega, anche se con spirito parodistico, alla materia cavalleresca. Vi si raccontano le furfanterie di Baldus, discendente di Rinaldo, e dei suoi degni compagni: Fracasso, della stirpe di Morgante, e Cingar, postero di Margutte. Dall’accostamento della cornice cavalleresca con un mondo sostanzialmente furfantesco e rusticano e quindi ad essa diametralmente opposto – Baldus in fondo è un villano allevato da contadini – nasce non solo l’intento parodistico del libro, ma anche la sua comicità: una comicità fatta di deformazioni grottesche della realtà, di spassose caricature, di rocambolesche situazioni.

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A fianco della lingua maccheronica nacque la lingua “fidenziana” o “pedantesca” (così detta da Fidenzio Glottocrisio Ludimagistro, pseudonimo del vicentino CAMILLO SCROFFA – 1526-1565), che è proprio l’inverso di quella: vocaboli latini, ma morfologia e sintassi italiane.

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La crisi del rinascimento La grande stagione del Rinascimento si espande nella prima metà del Cinquecento; iniziano poi i segni della crisi. Non solo perché si avvertono ora, sul piano culturale, le conseguenze e i riflessi di quella crisi politica italiana che si era iniziata alla fine del Quattrocento; ma soprattutto perché l’ottimismo antropocentrico che faceva dell’uomo il centro dell’universo e che aveva portato ad una crisi spirituale senza precedenza (1517: inizio della predicazione luterana; 1534: scisma anglicano con l’Atto di Supremazia; 1559: diffusione del calvinismo e fondazione dell’Accademia Ginevrina; etc.) da cui deriveranno le guerre di religione. Il Concilio di Trento (1545-63) non riesce ad arrestare lo Scisma d’Occidente, anche perché, nonostante la dislocazione favorevole ai teologi protestanti, questi rifiutano qualsiasi confronto. Mentre in Europa prendeva piede il protestantesimo (adottato da molti principi tedeschi per questioni politiche – liberarsi dalla sudditanza verso Papa e Imperatore – e non per intime convinzioni religiose) l’Italia rimaneva pressoché immune dal vento protestante e, dopo essere stata oggetto degli interessi della Francia, passò in gran parte (Regno di Napoli, Sicilia, Sardegna, Ducato di Milano e Stato dei Presidi) sotto la Corona di Spagna (pace di Cateau Cambrésis, 1559). Ne conseguì un periodo di relativa calma politica e di straordinaria effervescenza culturale: alla grandeza importata dalla corte iberica si aggiunge la politica della Riforma cattolica che, dopo il Concilio di Trento173 esalta il ruolo della Chiesa nella vita pubblica; da un lato nasce la Congregazione del Santo Uffizio e viene stilato l’Indice dei Libri Proibiti174, dall’altro prosegue senza soluzione di continuità la “gara” dell’aristocrazia ad ingaggiare i migliori artisti: alla generazione dei Michelangelo e dei Raffaello segue quella dei Tiziano e dei Caravaggio (mentre in alcune parti d’Europa imperversa la furia iconoclasta protestante).

Precettistica e dispute letterarie Il segno più caratteristico della crisi del Rinascimento nel campo delle lettere è nel fatto che esse vengono ora regolate – o si pretende almeno che siano regolate – da una rigida precettistica.

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Gli storici distinguono la Controriforma (l’azione contro il protestantesimo) dalla Riforma cattolica, consistente nel moto di rinnovamento – iniziato ben prima del Concilio di Trento: già nei primi decenni del XVI secolo erano nate numerose congregazioni religiose (come la Compagnia di Gesù, fondata da S. Ignazio da Lodola nel 1534). Tra le varie innovazioni la Riforma porterà, con S. Pio V, alla condanna della simonia, all’obbligo di residenza dei vescovi nelle loro diocesi ed alla visita annuale nelle parrocchie, alla messa. 174 La prima edizione dell’Index librorum prohibitorum (1557) si deve a monsignor Giovanni Della Casa. L’Index del Santo Uffizio fu voluto per evitare arbitrii dei vescovati locali nella condanna dei libri.

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Il Cinquecento Anche la prima metà del Cinquecento aveva avuto i suoi maestri e i suoi modelli – Bembo ed il petrarchismo ne sono una conferma – ma si era trattato di maestri e modelli tendenti soltanto a proporre ideali di perfezione umana ed artistica. Ora, invece, si pretende – con un autoritarismo formalistico che si aggiunge a quello politico e religioso – di determinare con regole precise la composizione letteraria, sottraendola così al libero gioco della fantasia. Al centro di questo autoritarismo furono Aristotele e la sua Poetica: e ciò da quando (1548) il letterato FRANCESCO ROBORTELLO (1516-1567) pubblicò il commento di quell’opera. Da allora, infatti, si iniziò a parlare di aristotelismo e si chiamò sempre Aristotele a giudice di ogni controversia letteraria. Dalla Poetica di Aristotele si traevano ora, non come semplici suggerimenti, ma come precetti e norme dogmatiche, le già note regole dell’unità. Quasi generalmente accettate dagli scrittori del tempo, le regole aristoteliche trovarono in LUDOVICO CASTELVETRO (1505-1571), uno dei più autorevoli letterati del tempo, il più convinto e fanatico sostenitore. Queste regole stabilivano che la tragedia dovesse obbedire oltre che all’unità d’azione, comune anche al poema eroico, anche all’unità di tempo e di luogo: il che significava che l’azione rappresentata non dovesse durare più di un giorno e dovesse svolgersi in un sol luogo. Un altro problema, derivante anch’esso dalla Poetica di Aristotele, fu quello relativo alla determinazione dei generi letterari. Come classificare, ad esempio, l’Orlando Furioso, se esso non poteva trovare posto tra i generi menzionati da Aristotele? Ad interessarsi della questione fu un altro assai illustre letterato del tempo, GIAMBATTISTA GIRALDI CINZIO (cfr supra), che lo fece nel suo Discorso intorno al comporre i romanzi. Profondo ammiratore dell’Orlando Furioso, che definiva “romanzo”, Giraldi Cinzio sostenne che Ariosto aveva conferito ad esso «la istessa autorità che diedero alle loro composizioni i grandi scrittori greci e latini» e che pertanto la sua opera aveva pieno diritto di figurare quale genere autonomo nel repertorio dei generi fissati dalla Poetica di Aristotele. Ma le questioni citate non sono che esempi a significare da un verso la rigida precettistica che gravava sugli scrittori del tempo imprigionandoli negli schemi del conformismo, dall’altro l’abbassamento delle speculazioni e delle trattazioni culturali ad un livello di dispute puramente teoriche e minuziosamente formalistiche.

L’Accademia della Crusca ed il suo vocabolario Altro esempio della rigida precettistica di fine secolo, riguardante, questo, la lingua letteraria, è costituito dalla fondazione dell’Accademia della Crusca e dal suo vocabolario. Vero è che già agli inizi del secolo Pietro Bembo, con le sue Prose sulla volgar lingua, si era fatto assertore della lingua fiorentina arcaica proponendo come modelli linguistici soprattutto Petrarca e Boccaccio; ma la sua tesi, pur accolta da buona parte degli scrittori, non aveva mai rivestito il carattere di una precettistica linguistica: era soltanto il frutto di una certa educazione culturale e di una certa inclinazione del gusto. Invece con l’accademia della Crusca – sorta nel 1582 a Firenze per opera di alcuni amici letterati tra cui LEONARDO SALVIATI (1540-1589) – la tesi del Bembo assume il valore di una vera e propria posizione dogmatica, tanto che si riconosce buona lingua solo quella che era “nelle buone scritture” precedenti il Quattrocento, mentre tutto il resto va considerato soltanto

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Il Cinquecento crusca. Si mira, insomma, a codificare la lingua italiana e per questo si programma un Vocabolario della lingua italiana, che vedrà poi la luce nel 1612. Certamente la Crusca, se da una parte portò ad “imbalsamare” la nostra lingua letteraria – onde le polemiche che subito suscitò – d’altra parte costituì pure un punto costante di riferimento dei nostri scrittori, un nucleo fondamentale intorno al quale si sviluppò, progressivamente arricchendosi, la nostra lingua nazionale.

Il pensiero politico Era naturale che nel clima promosso dalla Riforma cattolica il pensiero di Machiavelli venisse giudicato immorale: di qui l’impegno costante degli scrittori politici di legare di nuovo la politica all’etica, negando che si potesse perseguire un utile politico che fosse in contrasto col bene morale. Ad interessarsi di questo problema furono PAOLO PARUTA (Venezia 1540-1598) col suo dialogo intitolato La perfezione della vita politica e soprattutto GIOVANNI BOTERO (Bene, Cuneo 1544 - Torino 1617) col suo trattato in dieci libri intitolato Ragion di Stato. Qui l’autore, pur confutando le teorie di Machiavelli che, secondo lui, instaurano una “barbara maniera di governo” e pur condannando una “ragione di Stato” che fosse giustificazione di ogni delitto e di ogni azione immorale, non ne esclude la validità del principio in se stesso sempre che esso non contrasti, però, con i valori morali e religiosi. Ed à così che, nel pensiero di Botero, la guerra – non solo quella difensiva ma anche quella espansionistica – ed il regime autoritario e forte possono trovare la loro giustificazione e legalizzazione. In fondo in fondo, quindi, necessario non è non offendere la morale, ma trovare per ogni azione politica una giustificazione morale. Nasceva, così, un nuovo machiavellismo, diverso da quello chiaro ed aperto enunciato nel Principe; un machiavellismo sintomatico della mentalità di questo ultimo Cinquecento, che mirava sempre a nascondere la sostanza dei problemi dietro sottili argomentazioni. Al pensiero machiavellico175 si contrapponeva inoltre una lunga schiera di autori, tra cui il filosofo TOMMASO CAMPANELLA (pur se con molte contraddizioni, come vedremo a suo tempo); il poeta materano TOMMASO STIGLIANI (1573-1651); l’economista calabrese ANTONIO SERRA; il giurista cosentino GIOVAN ANTONIO PALAZZO, che parte dal pensiero di Machiavelli per superarlo; il molisano VINCENZO GRAMIGNA176, che contrappone all’instabilità della tirannide la solidità della monarchia; l’intera scuola tacitista177, che rappresenta la risposta umanista all’impianto machiavellico del realismo politico, in altri termini la soluzione di convenienza con la quale si voleva ricondurre a realtà le correnti pressioni della politica attiva, togliendola dal sentiero strettamente teologico delle schemi del pensiero scolastico. Parimenti antimachiavellico fu l’antitacitismo178. 175

Cfr Francisco Elias de Tejada, Napoli spagnola, vol. IV, Controcorrente, Napoli 2007. Di questi tre scrittori si ignorano le date esatte di nascita – circa la metà del XVI secolo – e di morte – nella prima metà del secolo successivo. 177 Tra i cui rappresenti si ricordano Girolamo Frachetta (1558-1620), Fabio Frezza. 178 Il cui massimo esponente fu Giulio Cesare Capaccio (1552-1636), autore del Il Forestiero (1630). 176

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Il Cinquecento

Torquato Tasso L’unica vera voce di poesia della seconda metà del Cinquecento è quella di Torquato Tasso. Non perché non agiscano su di lui quegli atteggiamenti che costituiscono la crisi del suo tempo; ma perché dal loro incontro con la sua tormentata personalità di poeta nasce un canto elevato e spesso drammatico.

La vita Torquato Tasso nacque a Sorrento nel 1544. Il padre Bernardo, un letterato cortigiano al servizio dei principi Sanseverino, era stato mediocre autore di poemi cavallereschi scritti ad imitazione del Furioso. La fanciullezza di Torquato fu assai triste e fu questo certamente uno dei motivi che determinarono quegli scompensi psichici di cui poi parleremo. Il padre, costretto a seguire nell’esilio il suo sfortunato signore, non fu accompagnato dalla moglie che, per l’intromissione interessata dei fratelli, venne addirittura chiusa in un convento, dove morì. E così Torquato, ancora fanciullo, fu privato dell’affetto materno: Me dal sen de la madre empia fortuna pargoletto divelse […]179

Seguendo il padre nelle tappe della sua peregrinazione politica, Tasso effettuò i suoi studi tra Salerno, Napoli – presso i Gesuiti –, Roma, Bergamo, Urbino. A Padova studiò prima diritto, poi lettere e filosofia: e fu allora che venne a contatto con quella Poetica di Aristotele che era il testo base della cultura letteraria. Iniziava intanto l’attività del poeta: conosciuta una dama della corte estense, Lucrezia Bendidio, scrisse per lei molte poesie; altre ne compose per Laura Peperara, Intanto componeva il Rinaldo, un poema epico che volle dedicare al cardinale Luigi d’Este: fu per questo, forse, che nel 1565 entrò al suo servizio, accolto così in quella corte estense che per il giovane poeta, suggestionato dalla fama ariostesca, era la meta dei sogni, una specie di pantheon dell’arte. E fu quello un periodo felice per Tasso, forse l’unico periodo felice della sua vita: al fervore dell’attività letteraria – fu il tempo in cui compose l’Aminta e la Gerusalemme liberata – si aggiungevano la stima del duca Alfonso – al cui diretto servizio era intanto passato –, la simpatia affettuosa delle principesse Lucrezia ed Eleonora, le facili avventure d’amore, il riconoscimento generale dei suoi meriti poetici. Poi comparvero i primi segni del male che lo tormenterà per tutto il resto della vita: il poeta fu preso da atroci dubbi sui risultati della sua opera poetica; temette che essa non corrispondesse né alla rigidità morale instaurato dalla Controriforma, né a quella “regolarità” dell’opera letteraria richiesta dalle tesi aristoteliche allora dominanti. Non solo volle che il suo poema venisse esaminato da una commissione di letterati – Sperone Speroni, Scipione Gonzaga, Silvio Antoniani – ma egli stesso volle essere esaminato 179

Torquato Tasso, Rime, 573 (O del grand’Appennino), vv. 31-32

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Il Cinquecento dall’Inquisitore di Ferrara per accertarsi di non esser caduto in atteggiamenti eretici. Questi riconobbe la sua buona coscienza di cattolico, ma questo non gli bastò. I dubbi, i contrasti interiori continuarono a tormentarlo e presto assunsero le forme di psicopatici complessi di persecuzione e di abbandono. Una volta, nella corte estense, credendosi spiato da un servitore, lanciò contro di lui un coltello. Fu per questo ricoverato nel convento di S. Francesco; fuggitone, si presentò travestito alla sorella annunziandole la propria morte per accertarsi, dalle reazioni di lei, dell’affetto che ancora gli si portava. Tornato a Ferrara mentre si celebravano le nozze del Duca, credendo che nessuno si curasse di lui, cominciò ad inveire contro il Duca e la corte. Perciò lo chiusero nell’ospedale di S. Anna a Ferrara, in una condizione di carcerato più che di degente. Qui fu afflitto da penose allucinazioni e da incubi: credeva di udir grida e di vedere folletti. Non mancarono però momenti di tranquillità, durante i quali attese alla composizione dei Dialoghi e di molte Lettere. Uscito da quell’ospedale-carcere, passò a Mantova, a Roma, quindi a Napoli, dove fu ospitato dai frati Olivetani, per i quali scrisse il poema Il Monte Uliveto. Recatosi a Roma, dove sarebbe dovuto essere incoronato poeta, vi morì qualche giorno prima che si effettuasse la cerimonia. Era il 25 aprile del 1595.

La malattia Si parla assai comunemente di pazzia del Tasso. Sebbene “pazzia” non sia termine scientifico che determini una particolare malattia mentale, crediamo che Tasso non sia stato pazzo nell’accezione comune del termine: un pazzo non può comporre quei dialoghi e quelle lettere scritte nell’ospedale di S. Anna, né soprattutto può operare – quanto appunto fece in quegli anni – quel rifacimento della Gerusalemme liberata in Gerusalemme Conquistata che, mediocre da un punto di vista della poesia, è comunque effetto di una pianificazione strutturale così logica e consequenziale, che non può essere di una mente malata. Quello del Tasso fu soprattutto un male del temperamento. Era un ipocondriaco e perciò disposto a crisi depressive e nevrotiche: lo stato depressivo lo portava all’insoddisfazione di quanto faceva, alla preoccupazione di sbagliare, all’incapacità di assumere energiche posizioni e di difenderle a fondo, alle contraddizioni continue, alla malinconia, all’impressione di sentirsi ora abbandonato e trascurato, ora perseguitato e minacciato. Scriveva ad un amico: O io sono non solo d’umor malinconico, ma quasi matto, o ch’io sono troppo fieramente perseguitato!

È stato detto che Tasso atteggiava nel dichiararsi e dimostrarsi malato. Forse è vero: ma anche quell’atteggiare era un sintomo di malattia, anche quel ritenersi malato era un soffrire della propria convinzione di soffrire: Sono frenetico già molti anni, e per la frenesia impedito in tutte le operazioni della mente […] la mia fortuna è stanca come l’ingegno; e l’infermità mi ha fatto più povero di speranze.

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Il Cinquecento Si è cercato qual fosse la causa del male del Tasso; i critici l’hanno trovata in una complessità di ragioni, tutte più o meno legate alla sua condizione di poeta, alla sua formazione letteraria, alla sua posizione nella storia della cultura italiana. C’è chi, come i romantici, vede in lui il poeta puro che si scontra con la realtà gretta e meschina ed impazzisce per essere rimasto fedele ai suoi sogni; chi, come De Sanctis, lo ritiene vittima del dissidio tra il Rinascimento “pagano” e la Controriforma cattolica; chi ancora, come Croce, pretende che il suo animo rinascimentale abbia subito violenza da parte della rigidità cattolica e della precettistica aristotelica. Certamente, ciascuna di queste ragioni o tutte insieme acuirono o diedero forma al male del Tasso. Ma esso nasceva dal di dentro, affondava le sue radici nelle zone patologiche del suo temperamento, era effetto dei traumi psicologici dell’infanzia. Forse, l’amore di una donna o una salda coscienza morale lo avrebbe guarito: ma Tasso, che pur amò tante donne e nutrì tante preoccupazioni morali, non ebbe né l’uno né l’altra.

Le prime opere a) Il Rinaldo Tralasciando i primi componimenti, quelli adolescenziali aventi semplice significato di tirocinio poetico, il Rinaldo, composto dal Tasso all’età di appena diciotto anni, ci sembra la prima opera degna di essere presa in esame. Si tratta di un poema epico cavalleresco, naturalmente in ottave, scritto ad imitazione non tanto del Furioso, quanto invece dell’Amadigi del padre o di Girone il cortese dell’Alamanni180. Infatti l’autore, seguendo la precettistica aristotelica che voleva si rispettasse nei poemi l’unità di azione, sviluppa il racconto intorno ad un solo personaggio. Questi è Rinaldo che, per emulare la gloria del cugino Orlando e per conquistare l’amore della sua Clarice, si fa cavaliere errante. Ma in questo Rinaldo assetato di gloria e d’amore s’intravede già un riflesso dell’animo del Tasso e si prospetta così una delle caratteristiche della sua poesia: l’egocentrismo dell’ispirazione. b) L’Aminta Nel 1573, per una festa di corte, Tasso compose di getto l’Aminta, dramma pastorale – il poeta lo disse favola pastorale – in cinque atti. Il genere non era nuovo: si ricollegava al filone della poesia pastorale trattata da Poliziano e Sannazaro, intorno al quale già Agostino Beccari aveva composto un dramma pastorale intitolato Il Sacrificio. Si trattava insomma di un genere che nasceva dal dare forma drammatica e teatrale all’ecloga pastorale di derivazione classica. Tasso rese “regolare” questo genere, rispettando in esso le regole aristoteliche: perciò l’azione del dramma si svolge in un sol giorno ed in un sol luogo: un passo tra i boschi. L’azione è semplice, essenziale: il pastore Aminta è innamorato,

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LUIGI ALAMANNI (Firenze 1495 - Amboise 1556), autore dei poemi Girone il cortese (1548) e l’Avarchide (postumo), nonché del poema didascalico La coltivazione (1546).

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Il Cinquecento non corrisposto, della bella Silvia; soltanto una sua indiscutibile prova d’amore potrà alla fine piegare la fanciulla e le nozze saranno così celebrate. Qui, però, il mondo pastorale è soltanto una veste: sotto le sembianze dei pastori si scoprono le maniere dei cortigiani ed il loro modo elegante – nonché artificioso – di agire e parlare. «Quest’opera che voleva essere celebrazione di un’età di natura fuori di ogni convenzione sociale, si risolve poi in una celebrazione della corte e dei suoi eroi» (Petronio). Quel che di realmente naturale e spontaneo è nell’Aminta è la sua filosofia: «S’ei piace, ei lice»181. Nato in un momento di grazia del poeta, in uno dei suoi pochi momenti sereni e felici, questo dramma pastorale ripete per l’ultima volta quello che era stato il canto edonistico di Lorenzo e di Poliziano: il canto di una società assetata del piacere di vivere, forse perché presaga della brevità dei tempi felici: Amiam, che il sol si muore, e poi rinasce; a noi sua breve luce s’asconde e ’l sonno eterna morte adduce182.

È leggendo versi come questi, che Croce ricavava l’impressione che Tasso fosse «l’ultima grande voce del Rinascimento». c) Le Rime Sono quasi duemila e di vario metro: sonetti, madrigali, canzoni. Quelle encomiastiche e di circostanza, e sono purtroppo la maggior parte, hanno scarso valore artistico; ma le rimanenti hanno tali pregi d’arte da essere tra le composizioni più belle della lirica del Cinquecento. Tema predominante è l’amore – per la Bendiddio, per la Peperara, per Eleonora e Lucrezia d’Este –: un amore languido e sensuale, che della passione non conosce la forza, ma la tristezza e i sospiri. Da un tal sentimento non poteva che nascere un linguaggio poetico fatto di immagini delicate e lucenti, di parole belle, vaghe e graziose.

La Gerusalemme Liberata La Gerusalemme liberata è il capolavoro del Tasso, perché è l’opera nella quale confluiscono, armonizzandosi tra loro e trasfigurandosi poeticamente, tutti gli atteggiamenti della sua personalità e le componenti della sua cultura: religiosità, spirito cavalleresco, aspirazione all’eroico ed al grandioso, intuizione malinconica del vivere, sentimentalismo voluttuoso; ed anche: impegno morale, cultura classica, accettazione del gusto e della retorica del tempo. a) La composizione Non è facile determinare gli anni durante i quali il Tasso lavorò intorno al suo poema, perché fu esso l’oggetto costante dei suoi pensieri e delle sue cure per quasi tutta la vita: 181 182

Torquato Tasso, Aminta, Atto I, sc. 2. Idem, Atto I, sc. 2. I versi sono quasi la trascrizione di un carme di Catullo.

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Il Cinquecento infatti, aveva sedici anni appena il poeta quando compose il primo libro della Gerusalemme – poi da lui rifiutato – e sarà vicino alla morte quando pubblicherà quel poco fortunato rifacimento del poema di cui in seguito parleremo. Comunque, la Gerusalemme liberata, nella sua stesura più perfetta, fu terminata intorno al 1575. Tanto impegno nasceva dal fatto che il poeta sentiva che quello e non altro poteva essere il poema del suo tempo. Scrivere, infatti, un poema sulla prima crociata in un periodo di rilancio religioso qual era quello della Controriforma ed in un momento in cui il pericolo turco costituiva il problema dominante – si ricordino la caduta di Costantinopoli, il massacro di Otranto, la battaglia di Lepanto – significava scrivere un libro che noi oggi definiremmo “impegnato” e di grande attualità. b) Il genere e l’argomento La Gerusalemme liberata è un poema eroico in venti canti, il cui metro è l’ottava. Per comprendere cosa significhi “poema eroico” è necessario rifarsi a quanto Tasso stesso dice nei suoi trattati di retorica: Discorsi dell’arte poetica e Discorsi del poema eroico. In questi trattati l’autore, inserendosi nelle dispute retoriche del tempo e credendo di cogliere lo spirito della Poetica di Aristotele, sostiene che il poema eroico deve essere «azione illustre, grande e perfetta tutta», deve essere sostenuto dalla «autorità della storia» e dalla «verità della religione» ed arricchito da un «meraviglioso verosimile», che altro perciò non può essere che il soprannaturale cristiano. Un poema, insomma, nel quale: qui si leggano ordinanze di eserciti, qui battaglie terrestri e navali, qui espugnazioni di città, scaramucce e duelli, qui giostre, qui descrizione di fame e di sete, qui tempeste, qui incendi, qui prodigi; là si trovino concili celesti ed infernali, là si vedano sedizioni, là discordie, là errori, là venture, là incanti, là opere di crudeltà, di audacia, di cortesia, di generosità, là avvenimenti d’amore, or felici, or infelici, or lieti, or compassionevoli; ma che nondimeno uno sia il poema, che tanta varietà di materia contenga, una la forma e la favola sua, e che tutte queste cose siano di maniera composte che l’una l’altra riguardi, l’una all’altra corrisponda, l’una dall’altra o necessariamente o verisimilmente dipenda, sì che, una sola parte o tolta via o mutata di sito, il tutto ruini.

Da ciò è facile notare quanto, almeno nella struttura, il poema eroico si differenzi dal poema cavalleresco: quello era tutto affidato alla fantasia del suo autore, era ricco di una varietà infinità di episodi, era determinato dal fortuito e dal magico; questo è basato su un fatto storico, è raccolto intorno ad un solo fatto centrale, ha uno svolgimento vero o verosimile. Perciò, semplice è la trama della Liberata. L’armata crociata, guidata da Goffredo di Buglione, giunge dinanzi a Gerusalemme, di cui è re Aladino, e la cinge d’assedio. Ma espugnare la città risulta sempre più difficile per i Cristiani: una maga saracena, la bella Armida, riesce con le sue arti a sottrarre molti valorosi guerrieri al campo crociato. Anche Rinaldo, ucciso in un impeto d’ira un compagno d’armi, abbandona il campo per sfuggire al giusto castigo. Per di più una grande torre degli assedianti viene bruciata dai nemici, né è facile sostituirla perché la vicina selva da cui trarre il legname necessario è stata incantata. Finalmente Rinaldo torna al campo e libera la selva dall’incantesimo. Ora gli avvenimenti precipitano verso una felice conclusione: i Cristiani assalgono Gerusalemme e la espugnano.

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Il Cinquecento In questa breve sintesi dell’argomento non hanno trovato posto altri personaggi – come Tancredi, Clorinda, Erminia, Argante – importanti sotto il profilo psicologico ed artistico, non indispensabili però nell’economia generale del poema. c) I motivi poetici Il perché ora personaggi non fondamentali per quanto riguarda l’azione del poema abbiano grande rilievo psicologico ed artistico dipende dal fatto che nello schema epico-eroico della Liberata, si sviluppa tutta una vena elegiaca che nasce dalla particolare visione che il poeta ha della vita e del destino degli uomini. Ne deriva così che non Goffredo – che pur in un primo progetto avrebbe dovuto dar nome al poema – è il protagonista della Liberata, quale eroe-duce della Guerra Santa, ma invece Tancredi o Rinaldo, per il fatto che essi rappresentano particolari aspetti del sentimento e dell’animo tassesco. Rinaldo rappresenta l’irrequietezza del Tasso, gli scatti d’ira, il desiderio di gloria, la sensualità; Tancredi, invece, ne rappresenta le intime contraddizioni, i dubbi insolubili, la profonda malinconia. Ma per corrispondenza di sentimenti, o anche per contrasto, Tasso vive un po’ in tutti, o quasi, i suoi personaggi, che non hanno perciò quella vita autonoma e distaccata che avevano i personaggi del Furioso. Ed oltre che nei personaggi, la presenza del poeta si avverte nelle situazioni stesse del racconto, che volgono spesso al dramma e nascondono sempre un proprio rischio ed una ragione di infelicità; e nelle descrizioni della natura, che, agitata, mossa, quasi animata, diviene sfondo e riflesso delle ansie e dei tormenti dei personaggi – e la selva incantata da Ismeno e resa perciò indiavolata e furente ne è la voce più potente. Ciò spiega la preferenza del Tasso non per i meriggi panici e festosi, ma per le trepide albe e per i malinconici tramonti, per i paesaggi notturni e lunari. È su questi sfondi che Tasso colloca i momenti più drammatici e vitali del poema: è l’alba che spunta sulla morte di Clorinda e sulla purificazione di Rinaldo; è la notte che accompagna la trepida e sospirosa fuga di Erminia verso il campo cristiano. In situazioni come queste il personaggio e la natura diventano una sola cosa, vivono di una stessa trepidazione, hanno una sola anima. La nota fondamentale della Liberata, il suo tono melodico, è la tristezza: né poteva essere diversamente se in essa il poeta riversa tutto il proprio animo. Ne deriva che tutti i personaggi hanno una loro interiorità perplessa, malinconica, una vita fatta assai più di pensiero che di azione – perfino Solimano, personaggio minore e paladinesco, considera «l’aspra tragedia dello stato umano»183 – e sono tanto più grandi quanto più soffrono e sono infelici. E ne deriva anche che tutti gli amori hanno una loro storia patetica: non conoscono mai l’ebbrezza senza pensieri, ma ora sono avvolti da una sensualità malinconica, torbida e quasi malata – com’è di Rinaldo ed Armida –, ora sono resi impossibili dalla legge morale – com’è quello di Erminia per Tancredi –, ora si risolvono, quasi si attuano, nella morte – come quello di Tancredi e Clorinda. In un mondo così concepito, dove non c’è posto per il riso e neanche per il sorriso, dove ogni storia vive di una sua prospettiva fatalmente triste ed inesorabile, l’eroicità se non è una maschera – ché in effetti apparteneva anch’essa ai sogni sinceri del poeta – è un ideale remoto: nella realtà poetica della Liberata i potenti e rumorosi colpi di spada hanno un suono fioco nei confronti dei sospiri e delle voci dell’anima. 183

Torquato Tasso, Gerusalemme liberata, canto XX, 73.

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Il Cinquecento d) Lo stile e la lingua Da quel mondo poetico vagamente eroico e profondamente e sostanzialmente lirico ed elegiaco nasce il particolare stile del Tasso: che ora da l’impressione di essere grave e solenne, ora appare patetico e commosso; comunque mai serenamente e misuratamente disteso come il raccontare ariostesco. Sembra, insomma, che più che farci vedere le cose il Tasso voglia darcene l’impressione: perciò il suo descrivere, più che il suo raccontare, rifuggendo le linee chiare e nette, crea tutto un gioco di ombre e di penombre, una musicalità sospesa e sospirosa. Se a ciò si aggiunge un certo amore per le espressioni concettose, il gusto delle ripetizioni e delle contrapposizioni, la propensione al “parlar disgiunto”, alle pause, ad un proceder fratto e nervoso, si capirà quanto Tasso sia lontano dallo stile spiegato dell’Ariosto e come preannunzi la maniera barocca. Anche la lingua obbedisce ad una particolare ricerca retorica: le parole – come egli stesso diceva nell’Arte poetica – sono «non comuni, ma peregrine e dall’uso popolare lontane», sono «alte e magnifiche», vogliono avere una loro intonazione solenne che spesso contrasta con l’ispirazione sentimentale e dolente del canto. e) Il rifacimento: la Gerusalemme conquistata Quando Tasso, preso dai soliti scrupoli e dai dubbi sulla validità del suo poema, lo diede a leggere ad amici letterati – il Gonzaga, lo Speroni, l’Antoniano – questi vi rinvennero difetti di ogni specie: sul genere, sulla lingua, sullo stile ed anche sulla sincerità dell’ispirazione religiosa. Soprattutto lamentavano il fatto che il poeta poco si era attenuto ai modelli classici del genere eroico – Omero e Virgilio – e che aveva tenuto scarso conto della precettistica classicista. Tasso si difese, ma come sapeva far lui, cioè senza profonda convinzione sulla giustezza delle sue ragioni, concludendo che, forse, erano i suoi critici ad aver ragione e lui ad aver torto. E così si diede da fare per modificare, tagliare, aggiungere: portò i canti da venti a ventiquattro (com’erano quelli dell’Iliade), soppresse alcuni episodi di amore (come quelli di Olindo e Sofronia), altri tagliò o modificò (come quelli di Armida e di Rinaldo) – e questo perché gli sembravano non degni di entrare in un poema di ispirazione religiosa – aggiunse descrizioni di armi e di battaglie, rivide la lingua: insomma cercò di dare al poema un aspetto più coerentemente religioso e più rispettoso delle regole retoriche correnti. Il poema, così rifatto, vide la luce nel 1593 e prese il titolo di Gerusalemme conquistata: soddisfece l’autore, che lo difese con una nuova Apologia – la prima l’aveva scritta precedentemente, in difesa della Liberata – soddisfece in parte qualche letterato del tempo, ma non certo la critica ed i lettori, perché non era opera di fantasia e di sentimento, ma un lavoro arido, nato da semplice programmazione letteraria.

Le ultime opere Nell’ospedale-carcere di S. Anna, nelle pause dei suoi incubi e delle sue allucinazioni, Tasso compose quasi tutti i suoi venti Dialoghi, che, seguendo lo schema dei dialoghi di Platone – sebbene l’autore si definisca peripatetico, cioè aristotelico – trattano di vari argomenti: l’arte, l’amicizia, la virtù, l’amore e la bellezza, la vita di corte, la famiglia. Il contenuto e le tesi di questi dialoghi sono ben poco originali, in quanto esprimono idealità e concetti diffusi

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Il Cinquecento nella trattatistica del tempo; tuttavia l’autore si dimostra sempre ragionatore sottile e scrittore assai accorto. Né mancano pagine vigorose e belle, quando – come avviene nel dialogo Il padre di famiglia – al di sotto della tesi che si discute affiora la tristezza del poeta per lo stato della sua esistenza o la nostalgia per una pace ed una serenità vanamente ricercate. Anche buona parte delle Lettere, senz’altro le più commoventi e drammatiche, vennero scritte nello stesso periodo. Non bisogna però credere che esse siano uno sfogo immediato dell’animo e tentare così di costruire su di esse una biografia intima del poeta: come tutto quanto è scritto per il pubblico – e le Lettere vennero scritte per essere diffuse – non manca in esse quell’attenzione letteraria che finisce col dare una veste alterata alla realtà interiore. Tralasciando altri componimenti encomiastici o d’occasione – come la Genealogia di Casa Gonzaga, il Monte Uliveto, le Lagrime di Maria Vergine, le Lagrime di Cristo – particolare citazione merita la tragedia Re Torrismondo (prima versione 1574, rifacimento 1587), la quale, anche se per l’argomento richiama Eschilo, per il gusto degli intrighi e del tenebroso può dirsi di tipo senecano. È una tragica e fosca storia d’incesti ambientata in un tenebroso settentrione e nella sua disperata tristezza rappresenta il polo opposto dell’Aminta: non il momento di grazia e di serenità del poeta, ma gli anni più grevi e più cupi della sua esistenza. Il mondo creato chiude la carriera poetica e letteraria del Tasso: è un poema di argomento biblico e di grandi prospettive, ma composto da un poeta ormai stanco e vicino a morire.

La fortuna del Tasso Non appena diffusa, la Gerusalemme liberata venne giudicata sul metro dell’Orlando Furioso; ed i letterati, o almeno coloro che tali si ritenevano, si divisero subito in sostenitori dell’uno o dell’altro poema. Ne nascevano dispute lunghe ed oziose, che spesso degeneravano anche in liti e duelli; ed avveniva a volte, dopo tanto disputare, che i due avversari, riappacificandosi, confessassero di non aver mai letto né l’uno né l’altro poema. C’era a base di queste discussioni – alle quali peraltro parteciparono anche uomini illustri nel campo della cultura – un errore di fondo: quello di voler paragonare tra loro libri assai diversi, non tanto per il genere – l’uno cavalleresco, l’altro eroico – quanto per le diverse qualità poetiche e le diverse disposizioni spirituali dei loro autori. Epigoni illustri comunque il Tasso non ne ebbe, almeno per quanto riguarda la Liberata: il genere eroico, infatti, morrà sul nascere, seppellito nel corso del Seicento sotto i colpi della sua parodia. E la ragione era nel fatto che i tempi non erano più tali da ispirare un poema eroico. Ma se non si impose a modello con la Liberata, Tasso lo fu, ed in rilevante misura, con l’Aminta. Dopo di lui, infatti, il dramma pastorale ebbe grande sviluppo: ed anche qui la ragione era nella corrispondenza con l’anima del tempo. Tra i tanti autori di questo genere fortunato – almeno per quanto riguarda numero di opere – fu BATTISTA GUARINI (Ferrara 1538 Venezia 1612), autore del Pastor fido (1590), che incontrò subito il consenso dei lettori per la sua melodia verbale e i dolci sospiri. Ma il magistero tassesco non è in funzione di generi letterari, bensì di stile e maniera espressiva: in questo egli fu il vero maestro di quella letteratura dei secoli seguenti che accorderà la sua preferenza alla maniera sentimentale e musicale del dire.

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Il Seicento

Il Barocco Il quadro storico Il conflitto religioso tra il cattolicesimo e protestantesimo, acuito da fermenti culturali, motivazioni nazionalistiche, interessi economici, rivendicazioni sociali, pretese dinastiche, sfocia in una serie di guerre. Iniziate nella seconda metà del Cinquecento – la rivolta dei Paesi Bassi, la guerra dei tre Enrichi in Francia, la guerra nordica dei Sette Anni – questi conflitti interessano, nella prima parte del Seicento, tutta l’Europa: nella Guerra dei Trent’anni (1618-1648) vengono coinvolti Boemi, Tedeschi, Spagnoli, Olandesi, Danesi, Svedesi, Francesi; contemporaneamente una spietata guerra civile travolge l’Inghilterra e nel 1650 scoppia la Prima Guerra del Nord. Ma questi conflitti, se da una parte determinano orrende devastazioni, dall’altra accelerano il processo delle autonomie nazionali – la stessa guerra dei Trent’anni inizia come guerra di religione e termina come guerra nazionalistica – contribuendo a creare una nuova configurazione politica dell’Europa: una configurazione nella quale, tramontato l’asse asburgico Spagna-Austria, l’Inghilterra e la Francia (e per un certo tempo anche la calvinista Olanda) assumono la funzione di protagoniste. L’Italia rimane estranea a questi conflitti, anche se ne è indirettamente interessata in quanto facente parte della Corona spagnola184: paga dunque la perdita di prestigio di Madrid e la politica dello Stato della Chiesa, interessato a mantenere un equilibrio talvolta troppo simile ad un immobilismo. Dal punto di vista economico, quindi, l’Italia segue la decadenza spagnola, rimanendo coinvolta prima nella crisi dell’oro, poi nella “corsa agli armamenti” della Guerra dei Trent’anni, che soffoca soprattutto il ceto dei piccoli imprenditori. I continui screzi tra la nobiltà locale e gli amministratori mandati dalla Spagna non favoriscono l’applicazione delle leggi e spesso la pubblica amministrazione si rivela incapace o corrotta, comunque inefficace: la violenza armata domina nelle città e le campagne sono malsicure ad opera dei briganti. Infine lo spostamento dei grandi traffici al di fuori del Mediterraneo ha gravi conseguenze sull’economia portuale italiana. Si assiste ad una nuova decadenza della città, che nei secoli precedenti – attraverso le istituzioni politiche del Comune, della Signoria e del Principato – era stata il centro della vita politica ed economica: ora sono i castelli extraurbani, spesso abitati da aristocratici di sangue spagnolo, a rivaleggiare con le maggiori città quali centri dell’effettivo potere. La vita religiosa sembra perdere di interiorità e risolversi in pratiche religiose formali. Anche se la propaganda successiva sottolineerà ossessivamente i temi della morale gesuitica, della Congregazione dell’Indice, del Sant’Uffizio, etc. evidenziando le pretese influenze spagnole, in realtà si tratta di un fenomeno generale europeo certo non dovuto alla presenza controriformista (nei Paesi protestanti, specie calvinisti, la rigidità del for184

Fatta eccezione, infatti, per la Repubblica di Venezia, per il ducato di Savoia, per lo Stato Pontificio e per qualche altro piccolo Stato, la maggior parte della penisola è fusa con la Spagna, che regna sopra la Lombardia, il Napoletano, la Sicilia, la Sardegna e lo Stato dei Presidi in Toscana.

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Il Seicento malismo è ossessiva). Una delle principali cause della perdita di senso religioso consiste principalmente in quell’afflato antropocentrico – se non addirittura ateistico – proprio dell’umanesimo. Sul piano letterario la principale conseguenza è che la maggior parte della cultura, almeno quella ufficiale, è accademica e legata all’aristotelismo e produce il tipo del “pedante” (di cui preclaro esempio è il don Ferrante manzoniano), incapace di stabilire rapporti con le masse popolari, che si allontanano sempre più dall’alta cultura.

La vera anima del Seicento Del Seicento culturale si è detto per il passato un gran male. In realtà si voleva colpire il secolo per colpire la potenza egemone politicamente e culturalmente: la Spagna. La Spagna cattolica, per esattezza, che assieme all’Austria continuava a difendere l’Europa all’esterno dall’invasione musulmana e all’interno dall’infiltrazione eretica. Nel primo Ottocento, andando alla ricerca di un elemento coagulante per giustificare i tentativi di unificazione (e, successivamente all’Unità, l’arretratezza italiana rispetto ai principali Paesi europei), i risorgimentali nostrani individuarono nel periodo spagnolo (rectius: nella loro rappresentazione del periodo spagnolo) quel “comune nemico” che cementasse una nazione altrimenti inesistente: di qui gli stereotipi (amplificati dal successo dei Promessi sposi) del malgoverno spagnolo come oscurantista ed oppressore, arretrato, attento all’esteriorità e vuotamente pomposo185. Al motivo politico si aggiungeva l’effettiva mancanza, in Italia, di veri poeti. Indubbiamente, il raffronto con i fasti letterari dei due secoli precedenti, che avevano visto l’Italia modello culturale per l’Europa, era perdente; ma una più attenta considerazione del secolo porta ad un ridimensionamento del giudizio negativo espresso su di esso in passato, mettendo in luce aspetti culturalmente nuovi e positivi. Comunque, al di là dei pensatori che criticheranno la situazione politica in cui vivevano – e ai quali si potrebbero contrapporre altrettanti, se non più, scrittori “filospagnoli”186, primi tra tutti il Marino – e del fervore artistico, con la nascita del barocco in scul185

Cfr Alle origini di una nazione. Antispagnolismo e identità italiana, a cura di A. Musi, Guerini, Milano 2003. Uno dei maggiori detrattori del Seicento fu Francesco De Sanctis, che nella sua Storia della letteratura italiana pronunciò una condanna che per molto tempo sembrò inconfutabile e definitiva. Secondo il critico irpino, quel secolo segnava una triste decadenza nella storia delle lettere italiane, la cui causa era da ricercare nella «vita morale, religiosa e nazionale italiana a quel tempo» (Storia, cit., cap. Marino, 21). Immediatamente prima aveva scritto: «I contemporanei erano pure fatti così; e ammiravano quel bel sonetto tirato giù con un solo impeto tra mille splendori di una calda immaginazione, come ammiravano una bella predica, salvo a far tutto il contrario di quello che diceva il Vangelo e il predicatore». 186 In particolare Napoli – seconda città della corona spagnola dopo Madrid, tra le prime tre città più popolose d’Europa, dopo Londra e Parigi – era allora importatrice e non esportatrice di cultura: nel senso che gli “uomini di lettere” si recavano a Napoli, anziché lasciarla, come avviene adesso. Lunghissima la schiera di scrittori che la visitarono, vi ambientarono le loro opere, da Cervantes (che vi visse a lungo) a Lope de Vega. Parimenti, altrettanto lunga è la lista degli autori (soprattutto giuristi e filosofi della politica) che esaltarono il periodo spagnolo (cfr Francisco Elias de Tejada,

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Il Seicento tura, pittura ed architettura, che animerà l’Italia seicentesca, è proprio sotto l’aspetto culturale che si rivelano i più evidenti ed importanti fermenti del secolo. Si è parlato di una cultura ufficiale accademica e fossilizzata nell’aristotelismo (ancora don Ferrante…), mentre proprio nel corso del secolo si hanno pensatori irrazionali (Campanella – e prima di lui Bruno) o scienziati ribelli al principio di autorità rappresentato dallo Stagirita (Galilei) capaci di aprire nuove frontiere all’epistemologia. Non solo i filosofi, ma anche i letterati mettono in discussione l’autorità di Aristotele assieme a quella dei modelli classici, sostenendo l’esigenza di bandire l’imitazione e intraprendere vie nuove. Ed è proprio in questa esigenza di liberarsi dall’autorità e dall’imitazione del passato, in questo bisogno di respirare un’aria più nuova e più libera, nel coraggio di sostenere per la prima volta la superiorità dei moderni nei confronti degli antichi, l’anima vera del Seicento: il quale, se fu un secolo di crisi, lo fu soltanto nella misura in cui fu età di crisi il Medioevo: entrambi periodi di rottura e per questo stesso di profonde mutazioni. Da queste mutazioni, in primo luogo la nuova metodologia scientifica e l’universo nuovo che essa prospetta – si pensi al superamento del vecchio sistema geocentrico ed all’ampliarsi enorme delle cognizioni cosmologiche – nasce negli uomini una sensazione di disorientamento e di sgomento: l’uomo non si riconosce più al centro dell’universo; la verità non appare più dogmatica ed immutabile. È un “conquasso”187, quello prodotto dalla nuova scienza, che si riflette nella coscienza di ognuno: ed è proprio in questo stato d’animo di disorientamento, in questo atteggiamento mentale fatto di stupore e di disancoramento da ogni punto fermo, in questa posizione di squilibrio tra vecchio e nuovo l’aspetto più profondo e vero del “barocco”, che, prima di essere un gusto od una moda, è proprio un atteggiamento mentale ed uno stato di coscienza. Il termine, nato nel Medioevo per significare una figura del sillogismo scolastico, venne a significare nel Cinquecento un modo di ragionare illogico ed artificioso. Quindi, nella seconda metà del Settecento esso servì a caratterizzare, con evidente allusione dispregiativa, l’arte figurativa del secolo precedente, che allora apparve eccessivamente vistosa e di cattivo gusto. L’attributo fu poi esteso, nel corso del XIX secolo, anche alla produzione letteraria del Seicento.

Il Barocco letterario o secentismo Mutata la forma del conoscere, muta anche la forma del dire. Perciò la caratteristica fondamentale del barocco letterario, detto anche “secentismo”, è la tendenza ad infrangere la tradizione, ad escludere l’imitazione, a liberarsi dagli impacci delle regole, ad assumere, insomma, un atteggiamento decisamente anticlassicistico. Anticlassicistica diviene, ad esempio, la concezione della poesia: essa non deve essere guidata dalla ragione, ma Napoli spagnola, Madrid 1960, traduzione italiana in corso di pubblicazione presso Controcorrente, Napoli). 187 Simplicio, un personaggio del Dialogo dei due massimi sistemi di Galileo Galilei lamenta il fatto che la nuova filosofia tenda a «disordinare e mettere in conquasso il cielo e la terra e tutto l’universo» (Giornata I).

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Il Seicento nutrita dall’“ingegno”; non deve porsi scopi educativi, ma deve mirare soltanto al “diletto”. “Ingegno” e “diletto” sono così a fondamento della poetica del secolo. Non più espressione del sentimento e voce dell’anima, la poesia è considerata opera dell’ingegno (dell’ingegno. non della ragione e neanche dell’intelligenza) e perciò è tanto più elevata, quanto più è arguta, fatta di ingegnosi concetti, di studiati e sottili accostamenti, di ardite metafore. In tal modo e con tali mezzi essa, suscitando stupore e meraviglia nel lettore, consegue il fine del diletto. Purtroppo, nell’uso delle ingegnose “acutezze” e nell’intento della “meraviglia” a tutti i costi, si trasmodò assai frequentemente, cadendo nel cattivo gusto e nel goffo. E così gli scritti vennero infarciti di metafore bizzarre, di accostamenti assurdi, di combinazioni stravaganti di immagini, di curiose antitesi, di sonore allitterazioni. Naturalmente, anche se tutto questo fu moda, fu una moda alla quale aderirono quegli scrittori a cui da natura era stata negata intuizione poetica – il che dimostra ancora una volta, se mai ce ne fosse bisogno, che non è l’adesione ad una certa poetica che rende mediocre un poeta, ma soltanto i limiti della sua personalità e della sua fantasia. Altri scrittori infatti, proprio perché di più ricca personalità, pur rimanendo nell’ambito del barocco, seppero dare ad esso una voce diversa e più profonda. In costoro il senso della mutabilità di tutto, l’incertezza e le contraddizioni della scienza, l’ampliarsi dell’universo, il senso della piccolezza umana in un mondo divenuto all’improvviso immensamente più grande, il senso stesso della fugacità del tempo o ispirarono malinconiche immagini del disfacimento umano ed ossessive meditazioni sulla morte o consigliarono una diversione verso una sensualità complicata e non meno ossessiva. E così il senso della instabilità e fugacità del tutto e quello di un amore inquieto e sensuale costituirono le uniche vene di vera poesia del barocco.

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Il Seicento

Il Marinismo e l’Antimarinismo Il secentismo non fu un fatto esclusivamente italiano, ma interessò quasi tutta l’Europa: il che conferma che esso non può legarsi, in modo esclusivo e determinante, alle tristi condizioni politiche nazionali. Ci fu secentismo nella Francia del Re Sole, e si chiamò “preziosismo”; nell’Inghilterra marinara e imperialista, e si chiamò “eufuismo”188; nella Spagna cullante ancora sogni di gloria, e si chiamò “gongorismo”189. Vero è che in quei Paesi il secentismo né impegnò tutto il secolo né raggiunse quegli aspetti eccessivi e goffi che spesso raggiunse tra noi; e vero è anche che in quei Paesi, a fianco a scrittori secentisti si ebbero scrittori come Corneille e Racine, Shakespeare e Milton, Cervantes e Lope de Vega; ma ciò, se in parte fu dovuto alle condizioni nazionali diverse, fu effetto soprattutto del fatto che ora si venivano a determinare in quei Paesi quelle condizioni culturali che avevano permesso, un secolo prima, l’esplosione rinascimentale in Italia. Da noi il secentismo, o almeno la sua corrente più nutrita di autori e più vistosa, si chiamò “marinismo”, prendendo nome dallo scrittore che ne fu il maggiore rappresentante, Giambattista Marino.

Giambattista Marino Giambattista Marino (Napoli 1569-1625) ebbe vita assai movimentata. Visse tra Roma, Torino, Parigi, Napoli, cortigiano e segretario di vari signori, che lo colmarono di onori, ma che a volte furono anche costretti, per le sue maldicenze o per le sue malefatte, a farlo condannare e rinchiudere in carcere per brevi periodi. A Torino, presso la corte di Carlo Emanuele I, forse l’unico mecenate del tempo, ebbe un aspro contrasto con un altro poeta di corte, Gaspare Murtola, che attentò finanche alla sua vita190. Nessun poeta, ha mai avuto, come Marino, tanti riconoscimenti in vita e tanti onori: dovunque era acclamato come il degno emulo del Tasso, il vero “sole del secolo”; e dovunque gli faceva codazzo una schiera di discepoli e di imitatori. Fu proprio per polemizzare col Murtola, che Marino scrisse: È del poeta il fin la meraviglia (parlo dell’eccellente e non del goffo): chi non sa far stupir vada alla striglia.

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Dal romanzo Euphues (1580) di John Lyly (1554-1606). Notevole l’influenza sulla letteratura successiva (in particolare cfr Pene d’amor perdute di Shakespeare). 189 Dal nome dello scrittore Louis de Gòngora y Argote (Cordoba 1561-1627). Detto anche “culteranesimo”, si contrappone al “concettismo” di poeti realisti come Quevedo. Combattuto perché giudicato aristocratico e di scarsi contenuti, tornò in auge grazie ai poeti simbolisti francesi, che sottolinearono la modernità di un sistema di puri suoni verbali. 190 La polemica tra i due fu condensata, una decina di anni dopo i fatti, in una pubblicazione (1619) che univa i sonetti dei due contendenti: la Murtoleide di Marino e la Marineide di Murtola.

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Il Seicento Sono versi che, se da una parte confermano la poetica del secentismo, d’altra parte stabiliscono anche i limiti al di là dei quali essa non può e non deve andare. Marino, infatti, è convinto che la poesia debba basarsi sulla meraviglia, ma sa anche che i mezzi espressivi per meravigliare non devono trasmodare nel “goffo”. A determinare in lui questo apprezzabile senso della misura sono sia il suo innegabile gusto d’artista sia la sua stessa educazione letteraria basata sui classici. Sebbene, infatti, Marino sostenga la necessità del nuovo nell’arte, tuttavia si avverte nella sua produzione se non l’imitazione, certamente la scuola dei poeti antichi, soprattutto di Ovidio, il suo autore preferito, perché certamente quello a lui più congeniale. La vena poetica del Marino, quella più vera e spontanea, è fatta di una sensualità languida e molle, di un lussureggiare di immagini, di una capacità descrittiva cromatica e plastica. Per questo è stato detto di lui che aveva l’anima negli occhi e negli orecchi e per questo è inutile cercare nella sua poesia l’eco di una qualsiasi idealità o di una qualsiasi passione. E per questo ancora la Sampogna, una raccolta di idilli pastorali e di liriche voluttuose, è considerata oggi la sua opera migliore. Ma il poeta ebbe fama in vita soprattutto per avere scritto l’Adone (1603) e come autore dell’Adone è stato sempre oggetto di particolare attenzione da parte dei critici. Si tratta di un lunghissimo191 poema mitologico in venti canti di ottave: si racconta l’amore tra Adone e Venere e la morte di lui per effetto della gelosia di Marte. Ma nella struttura del poema appaiono evidenti i limiti del Marino: portato a descrivere immagini e sensazioni, e pertanto disposto più alla lirica che all’epica, gli manca ogni abilità di strutturare organicamente la narrazione. Perciò il suo poema appare squilibrato, con descrizioni sproporzionate nei confronti del motivo narrativo centrale, con digressioni che, come disse un critico del tempo, lo Stigliani (cfr sotto), «stanno appiccicate l’una all’altra senza appoggio di favola, in quella guisa appunto che le foglie di fichi d’India si uniscono tra sé senza troncone». Tra le altre opere del Marino basti ricordare La galeria, descrizione in versi di quadri e sculture (veri e immaginari), e La lira, una raccolta di liriche di argomento assai vario. Interessanti anche le Dicerie sacre, raccolta di prediche, ed infine lo scritto politico antiluterano La sferza.

I marinisti Marino fu, nel suo tempo, un caposcuola. Ma i suoi discepoli ed imitatori, detti marinisti, non solo non ebbero la naturale disposizione all’arte che fu del maestro, ma non ne compresero appieno neanche la poetica. Pur di meravigliare a tutti i costi, essi caddero in quel “goffo” che Marino deprecava, portando il secentismo a risultati senz’altro negativi sul piano dell’arte e del buon gusto. Purtroppo essi furono tanti, troppi addirittura, e finirono perciò con l’essere l’espressione più usuale e diffusa dei gusti letterari del secolo. Le loro poesie si risolvono in abilità puramente intellettualistica, quando non cadono addirittura in espressioni paradossali e ridicole, in deliranti accostamenti, in allitterazioni e giochi di parole.

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40.000 versi, quasi tre volte la Divina Commedia.

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Il Seicento Così CLAUDIO ACHILLINI (Bologna, 1574-1640), per celebrare la presa di La Rochelle da parte del re di Francia Luigi XIII, vuole che si appresti il metallo per costruire statue al re e scrive: Sudate o fuochi a preparar metalli.192

Così GIUSEPPE SALOMONI (Udine post 1570-1650), avendo paragonato l’uomo ad un cavallo corridore e Dio al cavaliere che lo guida, conclude dicendo che all’uomo saggio Dio promette in dono: Biade d’eternità, stalla di stelle.193

E così ancora – ma non sono che esempi – GIUSEPPE ARTALE (Caltanisetta 1628 - Napoli 1679), volendo descrivere la Maddalena che bagna con i suoi occhi belli come soli i piedi del Cristo e li asciuga con i suoi capelli simili a fiumi d’oro, scrive: Che il crin s’è un Tago e son due Soli i lumi, prodigio tal non rimirò natura: bagnar coi Soli e rasciugar coi fiumi.194

Certamente, però, nonostante il cattivo gusto di metafore e accostamenti bizzarri e paradossali, è da riconoscere al marinismo un suo valore storico, in quanto ha contribuito, ed in misura non modesta, alla formazione del gusto moderno ed alle premesse di certe recenti mode letterarie: basti pensare alla poesia d’avanguardia.

La reazione classicheggiante Certamente il marinismo non occupò tutto il secolo, né soddisfece e convinse tutto l’ambiente letterario italiano. Molti letterati, infatti, pur condividendo l’esigenza del nuovo, tipica dell’atteggiamento culturale barocco, rifiutarono i mezzi e le forme con cui i marinisti lo ricercavano. Costoro perciò si misero alla ricerca del nuovo tornando all’antico, il che vuol dire tornando all’imitazione dei modelli classici. Questo fatto non era del tutto contraddittorio: sia perché tornare all’imitazione degli antichi costituiva un fatto nuovo in un ambiente saturo e stanco di marinismo, sia perché quel ritorno agli antichi non voleva tener in alcun conto la precettistica classicheggiante dell’ultimo Rinascimento. Gli scrittori Teorico dell’antimarinismo fu TOMMASO STIGLIANI (Matera 1573 - Roma 1651), autore del trattato L’occhiale (1627). La sua, però, fu più una presa di posizione polemica nei confronti di Marino che non l’affermazione di una coerente posizione critica e di proposte validamente alternative. Si dichiarò petrarchista: ma anche quest’atteggiamento, più che nascere da profonda ammirazione per il poeta aretino, nasceva dall’intento di opporsi alla moda cor-

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Verso iniziale del sonetto omonimo. Verso finale del sonetto L’uomo è nel mondo un corridore umano. 194 Versi finali del sonetto Gradir Cristo ben dèe di pianto un rio. 193

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Il Seicento rente. Nonostante i suoi giudizi duri e spesso astiosi nei confronti di Marino e dei marinisti, nei suoi versi – certamente di nessun pregio – ne ripeté frequentemente i moduli. Tra i poeti classicheggianti il più noto – fors’anche per l’abbondanza della produzione dovuta alla lunga vita – fu GABRIELLO CHIABRERA (Savona 1552-1638). Stanco delle bizzarrie mariniste, si propose di “cercar nuovo mondo o affogare”. E poiché i marinisti avevano rinnegato la scuola degli antichi, egli si pose per la strada opposta e restaurò l’imitazione dei modelli classici latini e greci. Predilesse tra i greci Pindaro e Anacreonte, tra i latini Orazio: e da essi trasse, oltre a temi e forme poetiche, anche versi e strofe, arricchendo così di nuove forme metriche la poesia italiana. Sulle orme di Pindaro compose alcuni poemetti didascalici, mentre sulle orme di Orazio scrisse i Sermoni. Ma poiché non aveva egli né il senso dell’eroico ed il sentimento religioso di Pindaro né la distaccata saggezza di Orazio, i suoi lavori si rivelano prive di ispirazione poetica. Pregevoli, invece, sono le Canzonette195, scritte ad imitazione di Anacreonte: in esse il poeta tratta temi idillici, lascivi, encomiastici con una grazia di immagini, una sobrietà verbale, una intonazione musicale che hanno incantato, nei secoli seguenti, più di un critico e di un poeta, compreso lo stesso Leopardi. Minore abilità tecnica, ma maggiore robustezza di pensiero e di sentimento dimostrò di possedere FULVIO TESTI (Ferrara 1593 - Modena 1646): e non tanto nei suoi Sermoni oraziani nei quali, con tono grave e pacato, condannò le ricchezze, gli onori, la vanità, la corruzione dei costumi, quanto nelle liriche patriottiche, tra cui il Pianto d’Italia, nelle quali espresse la sua profonda avversione agli Spagnoli, il dolore per le condizioni d’Italia, la speranza della libertà. Liriche civili e politiche compose anche VINCENZO DA FILICAIA (Firenze 1642-1707): in esse però non si avverte la robusta personalità del Testi, ma intonazione retorica e studiata strutturazione del verso. Ancor più povera di interiorità è la lirica di ALESSANDRO GUIDI (Pavia 1650 - Frascati 1712) che si convertì dal marinismo al classicismo e che, tanto nei temi encomiastici quanto in quelli accademicamente moralistici, non seppe mai liberarsi da una stucchevole solennità retorica. Un posto a parte tra i poeti classicheggianti spetta a FRANCESCO REDI (Arezzo 1626 - Pisa 1698). Scienziato insigne oltre che poeta – compì importanti studi e scrisse pregevoli opere sul veleno delle vipere e sugli insetti – fu autore di un ditirambo dal titolo Bacco in Toscana. Qui il poeta immagina che Bacco, giunto in Toscana, saggiandone i vini e decantandone le lodi, cada in stato di ubriachezza. Il componimento, classico nel suo genere, procede in tono assai vivace, con ritmo brioso e con un’armonia imitativa che rende magnificamente lo stato di ebbrezza del dio: Quali strani capogiri d’improvviso mi fan guerra? Parmi proprio che la terra sotto i pie’ mi si raggiri: ma se la terra comincia a tremare, e, traballando, minaccia disastri, lascio la terra, mi salvo nel mare. 195

Si ricordano Belle rose porporine e La violetta in su l’erbetta.

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Gli spiriti inquieti del secolo L’inquietudine del barocco, che nei marinisti si riduceva a ricerca di una nuova poetica e nuovi modi espressivi, impegna in modo diverso e più profondo altri scrittori, pensosi, anche se spesso in modo bizzarro ed anarchico, delle tristi condizioni del secolo. Il loro, perciò, non può essere che un atteggiamento di ribellione: contro la dominazione straniera, il formalismo religioso, il malcostume diffuso, l’aristotelismo ed il petrarchismo della cultura ufficiale. È un malcontento, questo, che si esprime ora in pagine gravi e violente, più spesso in forme originali, bizzarre, addirittura grottesche.

Alessandro Tassoni Spirito inquieto e bizzarro fu Alessandro Tassoni (Modena 1565-1635), vissuto soprattutto tra Roma e Torino. Nella capitale dello Stato sabaudo fu segretario del duca Carlo Emanuele I, ma fu poi rimosso dall’incarico per il suo atteggiamento decisamente antispagnolo. Era poco diplomatico, infatti, per il duca avere per segretario e confidente colui che passava quale autore delle Filippiche196, due violenti scritti contro il regime spagnolo in Italia; né bastò al Tassoni smentire la paternità di quell’opera: tutti vedevano in essa – e la critica moderna concorda – lo stile acceso ed eloquente del polemico scrittore modenese. Ma se nelle Filippiche si esprime lo sdegno sentito del Tassoni per la soggezione dell’Italia alla Spagna – alcune pagine, infatti, ricordano le più fervide pagine del Machiavelli –, l’opera nella quale si manifestano appieno la cultura vasta anche se non profonda né ben organizzata del nostro autore, il suo bizzarro ingegno, la sua mania della polemica, soprattutto nei confronti delle posizioni tradizionali, il suo desiderio di novità, il gusto delle affermazioni paradossali è quella intitolata Pensieri diversi. Sono dieci libri di considerazioni su questioni scientifiche, filosofiche, letterarie, esposte ora in tono grave e serio ora in tono faceto e bizzarro. Nonostante l’inclusione di considerazioni stravaganti (perché le donne non hanno la barba, perché non nascono peli verdi, perché i gamberi camminano all’indietro…. ) corre in tutta l’opera quello che era l’atteggiamento mentale positivo del secolo: e cioè la critica all’aristotelismo accademico, al vieto petrarchismo di mediocri letterati, al culto soffocante dei modelli antichi. Quest’ultimo punto è ampiamente trattato nel decimo libro dell’opera, laddove il poeta pone la questione dei rapporti tra gli antichi e i moderni, dando inizio alle dispute che abbondantemente si fecero, non soltanto in Italia, sull’argomento. Tassoni, naturalmente, è per i moderni: e lo sostiene con una irruenza polemica che lo porta a volte ad affermazioni paradossali, come quando afferma che Omero «se mai disse nulla di buono, lo disse a caso».

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Difuse nel 1615, furono così intitolate sia perché criticavano la politica del re di Spagna Filippo III, sia per il riferimento alle Filippiche di Cicerone.

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Il Seicento Ma l’opera più bizzarra del Tassoni – quella che gli ha assegnato un posto di rilievo nella storia letteraria – è la Secchia rapita197. La Secchia rapita: nasce il genere eroicomico Connessa con la mentalità barocca, cioè col suo gusto del bizzarro e la sua ricerca del nuovo, è la nascita del poema eroicomico. Lo inventò Tassoni, componendo la Secchia rapita, un poema in dodici canti di ottave, in cui si narrano le vicende ora eroiche ora comiche di una guerra combattuta tra Modena e Bologna per il possesso di una secchia di legno. A sentire l’autore, il disegno dell’opera sarebbe nato da un capriccio o meglio da un esperimento letterario: «Per passatempo e per curiosità di vedere come riuscivano questi due stili mischiati insieme: grave e burlesco; immaginando che, se ambedue dilettavano separati, avrebbero eziandio dilettato congiunti». Ma, conoscendo il temperamento polemico del Tassoni, il suo antiaristotelismo e la sua posizione di scontento nei confronti di certi aspetti della società contemporanea, altre più serie motivazioni possono ravvisarsi a base della Secchia: fare la parodia del poema eroico esemplato su Omero ed obbediente alle regole aristoteliche; scaricare polemiche, asti, contrasti personali; forse anche fare la satira delle guerre che per futili motivi avvenivano tra gli Stati della penisola. Se così fosse, la Secchia non sarebbe solo «un’abilità di pupazzettista» (Momigliano) o un’opera «senza salda unità interiore o un forte affetto morale» (Petronio). Tuttavia, anche se non esistessero nel risvolto dell’ispirazione motivi di impegno e di satira, l’opera resterebbe comunque una delle più bizzarre, vivaci e divertenti opere della nostra letteratura: sia per l’umorismo sottile con cui vanno spiritosamente disincantate le situazioni o meglio le premesse eroiche: Così finir le guerre e le tenzoni e ’l giorno d’Ogni Santi al dì nascente ognun partì da la campagna rasa, e tornò lieto a mangiar l’oca a casa.198

sia per le felici caricature, com’è quella del conte di Culagna: cavalier bravo e galante, filosofo, poeta e bacchettone; ch’era fuor de’ perigli un Sacripante, ma ne’ perigli un pezzo di polmone.199

Che il poema piacesse anche ai contemporanei, facendo loro dimenticare la passione, o meglio la mania, per il poema eroico di tipo classicheggiante, è dimostrato dal fatto che ne nacquero subito delle imitazioni: come lo Scherno degli dei200 di FRANCESCO 197

Terminata nel 1615, pubblicata inizialmente nel 1622 con il titolo La Secchia e rielaborata su richiesta del S. Uffizio nel 1624. 198 Alessandro Tassoni, La Secchia rapita, canto 12, 78 199 Idem, canto 3, 12 200 La prima fu parte pubblicata nel 1618, la seconda nel 1626. Contende alla Secchia rapita il primato dell’invenzione del genere eroicomico.

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Il Seicento BRACCIOLINI (Pistoia 1566-1645) e il Malmantile riacquistato di LORENZO LIPPI (Firenze 1606-1665)

Salvator Rosa e la satira Temperamento romantico e vita assai movimentata ebbe Salvator Rosa (Napoli 1615 Roma 1673). Impulsivo, facile all’ira e agli entusiasmi, sembrava andasse in cerca di brighe e perciò incappò più di una volta in processi, uno anche dinanzi al Tribunale dell’Inquisizione. Fu pittore – soprattutto di battaglie e di paesaggi – musicista, attore, scenografo ed anche poeta. E come tale scrisse Satire in terzine, che sono lo specchio del suo temperamento, in quanto dimostrano impulso di ispirazione, esuberanza espressiva, ma anche forma approssimativa e priva di elaborazione. Oggetto delle Satire è la condanna, appassionata e sincera, delle debolezze e dei vizi della società contemporanea: il che dimostra che c’era al fondo dell’animo del poeta, nonostante i suoi aspetti stravaganti, una profonda serietà morale. Quello, infatti, che lo indigna non è solo la corruzione dei costumi, ma la faciloneria degli artisti e il disimpegno dei poeti. Nella satira intitolata La poesia prende posizione contro i versi vuoti dei marinisti, infarciti soltanto di dissennate metafore: Le metafore il sole han consumato; e convertito in baccalà Nettuno fu nomato da un certo: il dio salato.

Oltre a Salvator Rosa, trattarono il genere della satira nel Seicento altri poeti, tra cui basti ricordare BENEDETTO MENZINI (Firenze 1646 - Roma 1704). Le sue tredici Satire in terzine dimostrano veemenza aggressiva, effetto piuttosto di un temperamento acre ed astioso che di salda coscienza morale.

Traiano Boccalini Tra gli spiriti inquieti del secolo può collocarsi anche Traiano Boccalini, il quale, seppure non ebbe la vita agitata e l’estro bizzarro di un Tassoni o di un Salvator Rosa, nutrì non minore scontento e insofferenza nei confronti del suo tempo. Nato a Loreto nel 1556, visse tra Roma, ove fu al servizio della curia papale, Benevento, di cui fu governatore pontificio, e Venezia, ove finì per rifugiarsi per amore di libertà (e dove morì nel 1613). Dotato di buona cultura e portato per natura alla polemica ed alla critica, esercitò queste sue facoltà opponendosi contemporaneamente e con eguale convinzione alla dominazione spagnola, alle regole di Aristotele ed alla poetica del secentismo. E lo fece in una forma letteraria nuova, quella del resoconto giornalistico. Nei suoi Ragguagli di Parnaso – pubblicati a Venezia tra il 1612 e il 1613 – egli immagina, infatti, di essere stato mandato come “menante” (oggi diremmo “inviato speciale”) nel regno di Apollo sul Parnaso, per trascrivere le discussioni che lì si tenevano tra eminenti uomini di cultura sulle condizioni politiche, civili e culturali d’Italia. È, insomma, un espediente nuovo, più vivace e piacevole, per trattare di cose contemporanee; ce lo dice l’autore stesso:

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Il Seicento Delle cose politiche e morali seriamente hanno scritto molti belli ingegni italiani, e bene; con gli scherzi e le piacevolezze niuno, ch’io sappia. Questa piazza come vòta, questa materia come nuova mi son forzato di trattare e di occupare io, con quella felicità che dirà il mondo.201

E così con argute invenzioni, con un discorso ora spiritoso e satirico, ora allusivo e allegorico, l’autore informa il lettore con “avvisi” – oggi diremmo articoli di giornale – sulla situazione italiana e soprattutto: sull’assolutismo politico che opprime i sudditi, sul dominio spagnolo che dissangua gli Italiani, sull’aristotelismo che soffoca la poesia, sul secentismo frivolo e vacuo. Qualche anno dopo la pubblicazione dei Ragguagli, Boccalini compose la Pietra di paragone politico, che dell’opera precedente conserva la struttura apparendo quasi un’appendice di quella. Qui però predomina il motivo della satira politica antispagnola, motivo sul quale l’autore tornerà ancora nelle sue ultime opere: i Commentari sopra Tacito e le Lettere politiche ed istoriche.

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Traiano Boccalini, Ragguagli di Parnaso, Centuria 2, dedica.

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Il Seicento

Prosa narrativa e prosa d’arte I nuovi lettori Nei confronti della lirica, marinista o classicheggiante, la prosa, in modo particolare quella narrativa, ebbe certamente un più vasto pubblico di lettori. È qui è il caso di considerare i rapporti, nel Seicento, tra la letteratura ed il suo pubblico. Pur contestando al secolo il fatto di aver determinato, per effetto delle condizioni sociali e civili, una certa regressione delle masse sul piano culturale – si è parlato dell’altissimo indice di analfabetismo toccato in questo periodo – non si può negare che riprende ora quel processo di dilatazione della destinazione del prodotto letterario, processo che il Rinascimento classicheggiante ed aristocratico aveva in certo senso interrotto. Vogliamo dire che ora la letteratura, anche per l’assenza di grandi mecenati – unica eccezione, forse, Carlo Emanuele I di Savoia – non è più cortigiana o non lo è nella misura e nelle forme in cui lo era stata nei due secoli precedenti. Ora gli scrittori sanno che il loro pubblico non è più il pubblico aristocratico dei cortigiani – si ricordi per chi avevano scritto Castiglione ed Ariosto – ma un pubblico più ampio che, pur escludendo ancora i ceti popolari, era certamente più vario e meno raffinato. In certo senso, lo stesso gusto barocco – col suo senso dello spettacolare, del realistico, del macabro – può spiegarsi come effetto della mutata destinazione delle opere letterarie. «Si pone agli intellettuali il problema di un pubblico più vasto e meno raffinato delle corti rinascimentali. Di qui la rottura dell’aristocratica armonia del classicismo e un’accentuazione degli aspetti più spettacolari nella direzione del meraviglioso, del macabro, della rappresentazione realistica (anche del brutto e dello sporco): aspetti più spettacolari, meno raffinati certo delle misurate e controllate linee classiche, ma più efficaci per colpire la fantasia del nuovo pubblico» (Salinari).

Nasce il romanzo Con l’ampliarsi del pubblico dei lettori si spiega, nel Seicento, la nascita del romanzo. Esso, infatti, sorge come una riduzione in prosa e come un’ambientazione meno remota ed eroica, della materia leggendaria dei poemi cavallereschi che erano destinati invece ad un pubblico più fine e ristretto. Ma alla nascita del romanzo contribuisce anche il gusto barocco, il quale trova, nella macchinosità eccessiva dell’intreccio, nella straordinarietà di fatti, nelle situazioni meravigliose, nell’insistenza descrittiva, una sua propria espressione narrativa. Tra i più noti romanzi del secolo figurano quelli scritti da GIOVANNI AMBROGIO MARINI (Genova 1594 ca. - Venezia 1662 ca.): il Colloandro sconosciuto ed il Colloandro fedele. Vi si raccontano le romanzesche e complicate avventure del protagonista, figlio dell’imperatore di Costantinopoli, che, per amore della sua Leonida, deve nascondere la sua identità. Si tratta però di romanzi prolissi, appesantiti da digressioni, nei quali la

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Il Seicento traccia narrativa viene spesso sopraffatta da lunghe e stancanti parti descrittive: il corrispondente in prosa, insomma, dell’Adone del Marino, tolto, però quanto di artistico era in quel poema. In un ambiente non più cavalleresco, ma più borghese e moderno ci ritroviamo con i romanzi di GIROLAMO BRUSONI (Polesine 1614 - Torino post 1686): La gondola a tre remi, Il carrozzino alla moda, La peota smarrita. Si tratta di una trilogia in cui, sullo sfondo delle Venezia contemporanea, si raccontano le avventure mondane del protagonista. Un posto a parte spetta alle Sottilissime astuzie di Bertoldo di GIULIO CESARE CROCE (Bologna 1550-1609), trascrizione, in una lingua arguta e vivace, di un’antica storia popolare che narrava le avventure dell’astuto montanaro Bertoldo e del suo sciocco figlio Bertoldino alla corte di re Alboino. È evidente il carattere popolaresco del racconto, non soltanto per la vicenda che vede protagonisti gente semplice e rozza, ma anche per lo stile e la lingua.

La novella: Giambattista Basile Per la struttura ancora legata al modello boccaccesco e per la sua finalità di trattenimento e di svago, la novella del Seicento continua la tradizione di quella del Cinquecento; solo che ora essa, come era ovvio che fosse, si appesantisce, secondo il gusto barocco, di elementi meravigliosi e di esuberanza descrittiva. Caratteristiche, queste, che si riscontrano nelle novelle, famose al loro tempo ma ora considerate mediocri, di GIOVANNI SAGREDO (Venezia 1617-1682). La sua Arcadia in Brenta è una raccolta di quarantacinque novelle raccontate da tre dame e tre cavalieri che, come si legge nella novellacornice, «per godere della quiete della campagna, nella più placida e più tiepida stagione dell’anno» si ritirano in una villa sul Brenta, passando il tempo in canti, giochi e lieto novellare. Maggiore attenzione merita Lo cunto de li cunti o Trattenimento de’ peccerille del napoletano GIAMBATTISTA BASILE (1575-1638). Anche qui la struttura è boccaccesca: in cinque giornate – perciò la raccolta fu chiamata anche Pentamerone – dieci vecchiette raccontano ciascuna una novella al giorno. Diversa, invece, è la sostanza delle novelle, le quali si ispirano a fiabe della tradizione popolare napoletana. Si tratta, perciò, di storie di magia, di stregoneria, di bestie parlanti, di pietre miracolose, che l’autore racconta con un tono di amabile stupore, senza però mai assumere nei loro confronti atteggiamento canzonatorio o ironico. Anzi, quelle inverosimili fiabe sembrano avere per l’autore una loro verità morale: sono, infatti, motivo per trarre utili considerazioni ed indicazioni comportamentali. La lingua, che è il dialetto napoletano, è vivace e sciolta e dimostra l’attenzione simpatica dell’autore per la parlata popolare della sua gente; lo stile, che non rifugge da metafore e ardite figurazioni, risente certamente del gusto barocco. Comunque Lo cunto de li cunti ha anche una sua importanza storica: quella di essere stato fonte di ispirazione per illustri favolisti stranieri come Charles Perrault, Ludwig Tieck, i fratelli Grimm. Da ricordare infine TOMMASO COSTO (Napoli 1545 ca. - 1620 ca.) e le sue Otto giornate di Fuggilozio (1596), raccolta di novelle assai utili per ricostruire la vita sociale na-

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Il Seicento poletana del suo tempo. Costo fu anche autore di due opere poetiche sulla battaglia di Lepanto: La rotta di Lepanto (1573) e La vittoria navale (1582).

La prosa d’arte Se nella prosa narrativa il barocco si esprime soprattutto nelle vicende complicate, nella ricerca del meraviglioso, nell’insistenza descrittiva, in altri scritti in prosa – il cui argomento va dalla monografia alla prosa di viaggio, dal trattato morale a quello letterario, dall’agiografia alla predica religiosa – esso diviene, non diversamente dalla poesia, concettismo, ricerca di effetti, gioco di accostamenti e di metafore. Ne nasce perciò una prosa d’arte, attentamente elaborata, una specie di marinismo in prosa. Tra gli autori di tal genere di prosa è da porre al primo posto DANIELLO BARTOLI (Ferrara 1608 - Roma 1685). Gesuita, volle scrivere la storia del suo ordine: nacque così la Istoria della Compagnia di Gesù, preceduta da una Vita di santo Ignazio, che fu appunto il fondatore dell’ordine. L’intento era quello di raccontare ed esaltare, a fine propagandistico, l’instancabile ed a volte eroica attività dei Gesuiti nel propagandare la Fede nei paesi lontani; ma il migliore pregio dell’opera è nella descrizione degli aspetti esotici di quelle terre, nel senso di ammirato stupore con cui l’autore – che fu anche un appassionato naturalista – osserva e descrive, nel piacere di raccontare cose che – l’autore lo sa bene – appariranno meravigliose ai lettori. Naturalmente, alla meraviglia determinata dalle cose descritte si unisce anche – ed in ciò il suo marinismo – quella derivante dal concettismo dello stile e dalla studiata, ma mai stancante, ricerca di effetti espressivi. Non diversa è la caratteristica della prosa di un altro gesuita, il romano PAOLO SEGNERI (1624-1694), che raccolse in un Quaresimale le sue prediche fatte per ispirare la penitenza nei fedeli. Il giudizio pronunciato su di lui dal De Sanctis («non ha altra serietà che letteraria; ornare e abbellire il luogo comune con citazioni, esempi, paragoni e figure retoriche: perciò stemperato, superficiale, volgare, ciarliero») è senz’altro eccessivo, perché in lui non mancavano né sincerità religiosa né senso della misura espressiva. Laddove, invece, si trasmoda in un secentismo eccessivo e di indiscutibile cattivo gusto è in un altro Quaresimale, quello di EMANUELE ORCHI (Como inizi ’600 - Procida, Napoli 1649). Qui il tono è enfatico, quasi teatrale, abbondano le metafore e le similitudini, gli accostamenti sono lambiccati e stucchevoli, le descrizioni prolisse e stancanti. Ecco come l’autore paragona la confessione ad una lavandaia che: nudata il gomito, succinta il fianco, prende il panno sucido, ginocchioni si mette presso d’una fiumana, curva si piega su d’una pietra pendente, inzuppa il panno nell’acqua, con le palme lo batte, lo sciacqua, lo aggira, lo avvolge, lo scuote, lo aggroppa, lo torce; indi postolo entro un secchione, poi al fervore del fuoco in un caldaio, fatto nell’acqua con le ceneri un mordente liscio, bollente glielo cola di sopra; giuoca di nuovo di schiena, rinforza le braccia, rincalza la mano, liberale di sudore non meno che di sapone; e finalmente fattasi all’acqua chiara, in quattro stropicciate, tre scosse, due sciacquature, una storta, candido più che prima e delicato ne cava il pannolino.

È una citazione che vale a caratterizzare lo stile non solo di padre Orchi, ma di tanta parte della prosa secentista.

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Il Seicento

Il teatro Il Seicento ebbe grande trasporto per il teatro. Ed era naturale, dal momento che esso amava la teatralità in ogni manifestazione: nel culto religioso come nell’amministrazione pubblica, nell’arte figurativa come nella letteratura. Si può addirittura affermare che il Seicento considerava la vita stessa come teatro: dato il suo amore per le scenografie fastose, per gli effetti plateali, per tutto quanto fosse spettacolare e meraviglioso, per l’esuberanza verbale. Perciò il teatro nel corso del secolo fu ricco e vario; non solo, ma vide anche ampliarsi il suo pubblico: esso, infatti, per merito soprattutto della commedia dell’arte, usciva dalle corti e raggiungeva il popolo.

La tradizione classicheggiante Si continuò nel Seicento il teatro classicheggiante del Cinquecento, pur presentando, come era ovvio, atteggiamenti barocchi. Più importante fu la tragedia, per la presenza di un vero poeta, FEDERICO DELLA VALLE. Nato probabilmente ad Asti intorno al 1560, visse per molto tempo alla corte di Carlo Emanuele I. Qui compose, tra l’altro, tre tragedie, rimaste lungamente in oblio finché non vennero scoperte da Benedetto Croce: Judith, Ester, La Reina di Scozia. Seguendo le regole del teatro classico, il poeta rispettò in esse l’unità di tempo, di luogo e di azione, ridusse al minimo il numero dei personaggi, rese essenziale e privo di inutili digressioni lo svolgimento. E fin qui egli appare legato alla tradizione del teatro classico, quasi uno scrittore in ritardo o in anticipo di un secolo – dato il ritorno di quel teatro per opera dell’Alfieri. Ma ecco, in quello schema classico e tradizionale, rivelarsi l’anima di un poeta del Seicento: nella novità dei temi desunti dalla Bibbia (Judith e Ester) e dalla storia contemporanea (La Reina di Scozia), in una certa vena di morbida sensualità, nell’insistenza con cui si rappresentano scene di morte e lugubri notturni ed anche nella condiscendenza, però sempre contenuta e misurata, allo stile ed ai lessico barocchi. Ci sono comunque nel teatro di Della Valle una grande serietà morale ed un sincero sentimento religioso. «Senti il dramma umano con strazio, con pietà, con gentilezza, con ammirazione per le prove della virtù in tutte le sue forme. […] C’è in queste tragedie un che di schietto che viene dalla mente e dal cuore del loro autore e spesso la parola prende un accento lirico e poetico» (Croce). Al confronto con le tragedie del Della Valle minor cosa appare l’Aristodemo di CARLO DE’ DOTTORI (Padova 1618-1685), nella quale non mancano però scene potenti ed il senso di una certa umana, eroica grandezza. La commedia regolare rivive nel Seicento nelle opere di MICHELANGELO BUONARROTI IL GIOVANE (Firenze 1568-1646) – nipote del celebre artista – che oltre che commediografo fu anche membro dell’Accademia della Crusca e perciò interessato alle questioni linguistiche. Sono sue la Tancia (1612), commedia di argomento rustico, e la Fiera (1618), commedia in cinque giornate per complessivi venticinque atti in cui è rap-

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Il Seicento presentato con vivacità l’ambiente cittadino. Il poeta, infatti, raccoglie e trascrive con brio le voci di una fiera: quelle dei mercanti, dei bottegai, delle massaie, del farmacista, del medico; ne nasce un dialogo ricco di colore ed anche linguisticamente interessante. Un certo distacco dalla tradizione si avverte nelle commedie spagnoleggianti, composte ad imitazione di quelle di Lope de Vega e Calderon de la Barca, – ne scrisse GIACINTO ANDREA CICOGNINI (Firenze 1606 - Venezia 1660) – ed in quelle dialettali di CARLO MARIA MAGGI (Milano 1630-1699), nelle quali appare per la prima volta la maschera popolare di Meneghino.

La commedia dell’arte Ma la vera novità del teatro del Seicento, forse di tutta quanta la letteratura del secolo, è costituita dalla commedia dell’arte. Si tratta di una fatto completamente nuovo: e se punti di contatto si possono rivenire, come vedremo, tra essa e forme drammatiche latine, non si tratta di imitazione letteraria, ma di spontanea germinazione per effetto di congenialità etnica. Questa commedia era detta “dell’arte”, in quanto non era rappresentata, come era avvenuto fino allora, da attori improvvisati e dilettanti, bensì da attori di mestiere – “arte”, infatti, significa qui “mestiere”, “professione”. Essa inoltre era chiamata anche commedia a soggetto o commedia d’improvvisazione, poiché di scritto non vi era che il soggetto o “canovaccio” e tutto il resto – dialoghi, battute, lazzi – era affidato all’abilità dell’attore: il quale, perciò, non poteva non essere un attore di mestiere. Bisogna intendere però con restrizione il senso della parola “improvvisazione”; gli attori, a seconda del pubblico che avevano dinanzi e di altre particolari situazioni, inventavano le battute: ma le inventavano nel senso che le sceglievano da un repertorio preconfezionato che faceva parte della loro preparazione al mestiere. Esistevano, infatti, raccolte scritte di “prime uscite”, di “saluti”, di “chiusette”, di “consigli”, di “imprecazioni al figlio”, di “lodi amorose”: la bravura dei comici consisteva nel saper inserire le battute al momento giusto nel corso della rappresentazione. Comunque, in un teatro così concepito, nel quale l’autore non faceva che inventare il “canovaccio” e tutto il resto lo aggiungevano gli attori, pur desumendolo da formulari che essi si tramandavano, quel che contava non era la parte scritta o letteraria, ma la rappresentazione scenica: ecco perché della commedia dell’arte non ci sono stati tramandati nomi di autori, ma di attori: come quel famoso Domenico Biancolelli, che interpretava la maschera di Arlecchino o quel non meno famoso Francesco Andreini, che impersonava Capitan Spaventa. Tanto più poi che l’attore, per divertire il pubblico e suscitare gli applausi, non si serviva soltanto della parola, ma anche e soprattutto dei “lazzi” (dal latino actio): cioè di caricature mimiche e di gesti. Altra caratteristica di questa commedia consisteva nel fatto che i personaggi erano maschere fisse – Arlecchino, Pulcinella, Brighella, Pantalone, il Capitan Spaventa, Balanzone, Colombina – che ora impersonavano caratteri umani oppure ordini sociali, ora invece caratteristiche regionali. In effetti, la maschera era un’esigenza della commedia dell’arte. «Il comico dell’arte (salvo rarissime eccezioni), per raggiungere l’eccellenza,

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Il Seicento rinuncia all’illusione di potersi rinnovare sera per sera; e decide una volta per sempre di limitarsi, in perpetuo, a una sola parte. Per tutta la vita e in tutte le commedie che reciterà, il comico dell’arte sarà un solo personaggio: sarà unicamente Pantalone o Arlecchino, Rosaura o Colombina» (D’Amico). Del resto, la presenza di maschere fisse non era una novità nella storia universale del teatro. Un precedente lo si rinviene nelle “atellane” romane, rappresentazioni teatrali in cui di scritto c’era ben poco e tutto veniva inventato sulla scena da maschere fisse: Maccus (lo sciocco), Pappus (il vecchio babbeo), Bucco (il ciarliero), Dossennus (il gobbo furbo). Ma, come s’è detto, il rapporto tra la commedia dell’arte e l’atellana non è rapporto di imitazione letteraria, ma di congenialità espressiva e rappresentativa; tanto l’una quanto l’altra nascevano da una particolare disposizione della razza italica202. Il gusto barocco influì senz’altro nello sviluppo della commedia dell’arte: la mania delle novità, la ricerca del teatrale e del meraviglioso, l’esuberanza espressiva, il valore sonoro più che concettuale ed ideale della parola e della frase, portavano nel teatro ad un prevalere della scenografia, dei costumi, della mimica sulla parola. Del resto, la stessa parte verbale della commedia dell’arte non era immune da secentismo. Si senta questa “tirata” del Capitano alla sua bella: codeste treccie son ligami d’oro, funi e cordelle ch’han cinto d’intorno lo erede della Magna Grecia; quegli occhi che vibran saette, hanno pertugiato, succhiato, bucato, perforato il cuore al cuore di tutti i cuori miei; la bocca è un fiatone ove hanno nido le Grazie; e l’Amore fatto Ape vola tra i fiori succhiandone il miele… Le tue narici sono pezzi di artiglieria che sparando e colpendo in questo petto fanno un dirupo della casamatta della bravura del mondo: insomma, codesta bellezza è lo specchio d’Archimede che accende un incendio nelle viscere del più gran capitano degli eserciti […].

Nonostante i suoi limiti letterari – mancanza di un copione, prevalenza della mimica sulla parola – la commedia dell’arte, che ebbe grande fama anche all’estero (in Francia soprattutto dove era conosciuta come la comédie italienne), rappresenta un momento assai importante nella storia del teatro. Con essa, infatti, nasce l’organizzazione del teatro moderno: col professionismo degli attori, con le compagnie stabili, con la specializzazione dei ruoli.

Il melodramma Come la commedia dell’arte, così il melodramma o dramma musicale è una creazione del Seicento e, come quella, si inquadra nel gusto barocco. A spiegarne la nascita, infatti, non è tanto il progetto proposto verso la fine del Cinquecento da alcuni musicisti – la famosa CAMERATA DEI BARDI – di restaurare la tragedia greca nella sua unità di poesia e musica, quanto invece il trasporto che il Seicento ebbe per la musica203. Tant’è che il rap202

Ha scritto la critica inglese Vernon Lee (1856-1935): «La commedia dell’arte, ossia la farsa improvvisata, è vecchia quanto la razza italiana» (Il Settecento in Italia, 1880). 203 È qui il caso di ricordare che per tutto il Seicento e fino a buona parte del Settecento la musica italiana – con i suoi Monteverdi, Scarlatti, Frescobaldi e con la fiorente Scuola napoletana (Pergolesi, Paisiello, Cimarosa, etc.) – fu modello a tutta l’Europa. Uno dei maestri di Mozart fu Hasse,

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Il Seicento porto tra poesia e musica va col melodramma molto al di là di quello che era stato nella tragedia greca; ora si vuole che la musica non abbia più semplice funzione di commento o sottofondo all’azione, ma valore espressivo: insomma, si vuole che si reciti cantando. «La novità del melodramma rispetto alla tragedia greca consiste in ciò: che mentre nella tragedia è essenziale la parola del poeta, a cui musica e danza servono solo di commento, nel melodramma la parola è solo un canovaccio, uno schema più o meno ricco e precisato: l’espressione è affidata alla musica, “l’autore” è il musicista» (D’Amico). Il primo melodramma fu Dafne, composto (per la musica di Iacopo Peri204) da OTTAVIO RINUCCINI (Firenze 1564-1621): in esso la poesia aveva ancora una sua importanza ed una sua autonomia nei confronti della musica. Poi, l’equilibrio si ruppe a tutto vantaggio della musica e gli autori della parte scritta si trasformarono da poeti in semplici “librettisti”. «Scrivetemi uno spartito musicale – diceva l’imperatore Carlo VI d’Austria ai suoi musicisti – io poi mi farò scrivere il libretto». A rendere sempre meno importante il testo poetico nel melodramma non era soltanto il prevalere della musica, ma anche gli artifici di una macchinosa scenografia e il virtuosismo degli attori – cioè dei cantanti – che pretendevano che si scrivessero parti atte a mettere in luce le loro virtù canore205. Ma anche per il melodramma vale, in conclusione, il giudizio espresso sulla commedia dell’arte: che cioè esso segnò un momento assai importante nella storia del teatro. Lo conferma il fatto che da esso nacque la gloriosa opera lirica del Settecento e dell’Ottocento.

considerato l’ultimo esponente della scuola napoletana ed il giovane Ludwig van Beethoven si firmava, in gioventù, «Luigi» perché andava di moda “fare l’Italiano”. 204 Iacopo Peri (1561-1633). La Dafne fu rappresentata per la prima volta nel carnevale del 1598. L’opera è ora in parte perduta, ma sempre di Peri (in collaborazione con Giulio Caccini, donde la polemica sulla paternità dell’invenzione della modalità espressiva detta “recitar cantando”) è l’Euridice (1600), anch’essa su testo di Rinuccini, rappresentata in occasione delle nozze tra Maria de’ Medici ed Enrico IV di Francia, prima opera a noi giunta integralmente. 205 Sull’argomento si vedano, tra le altre, le opere – rappresentate contemporaneamente a Vienna su richiesta di Giuseppe II – Der Schauspieldirektor di Mozart e Prima la musica, poi le parole di Antonio Salieri su testo di GIAMBATTISTA CASTI (1724-1803), inquieto abate, prolifico autore di libretti e di opere satiriche, tra cui Gli animali parlanti (1802).

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Il Seicento

La storiografia La caratteristica fondamentale della storiografia del Seicento è di essere, almeno negli scrittori maggiori e più rappresentativi, non annalistica ma monografica: alla trattazione di un periodo storico più o meno ampio si preferisce la trattazione di una determinata questione storica, naturalmente contemporanea. Da questo fatto deriva, per logica conseguenza, un’altra caratteristica: la stretta connessione di questa storiografia con la politica del tempo e, quindi, la sua tendenziosità. Per quanto riguarda lo stile, molti sono ancora gli storiografi che restano legati alla concezione umanistica della storia, quale “opus maxime oratorium”, cioè quale racconto sempre attento ad uno stile elegante ed eloquente; altri, invece, – e sono i maggiori – preferiscono presentare i fatti, spesso documentati, e le loro motivazioni politiche in una forma scarna e priva di ornamenti.

Paolo Sarpi Tra questi ultimi è Paolo Sarpi (Venezia 1552-1623), il più illustre storiografo del secolo. Ancora ragazzo entrò nell’ordine monastico dei Serviti e, pur laureandosi in teologia, ebbe profonda cultura anche in scienze e soprattutto in diritto. Perciò, quando scoppiò una questione giurisdizionalista – cioè di competenza ad amministrare il diritto – tra Roma e Venezia e Paolo V colpì con l’interdetto la Repubblica, questa nominò Sarpi consultore di Stato, cioè delegato a difenderne gli interessi206. Ed il Sarpi assolse il compito con tanta competenza e convinzione, che non solo fu scomunicato dalla Chiesa, ma fu anche aggredito e ferito da alcuni fanatici. Era egli persuaso, infatti, che la “sopranità” del papa e la sua ingerenza nella vita degli Stati fossero la causa fondamentale della decadenza della Chiesa; e pertanto riteneva che il cammino della Chiesa e quello dello Stato non dovessero reciprocamente intralciarsi, dal momento che: non si possono incontrare e urtarsi se non quei che camminano per la medesima via; ma quei che vanno per diverse strade non possono né urtarsi né incomodarsi: che il regno di Cristo non è di questo mondo, ma in cielo, e che però la religione cammina per via celeste e il governo di stato per via mondana.

Queste considerazioni ispiravano sia la sua azione di consultore di Stato a Venezia che le varie opere storiche in cui egli ne raccontano le vicende: il Trattato dell’interdetto (1606) e l’Historia particolare delle cose passate tra il romano pontefice Paolo V e la Repubblica di Venezia (postumo, 1624).

206 La questione, scoppiata nel 1605, fu dovuta al fatto che la Chiesa voleva assumere il giudizio di due monaci veneziani che, per essersi macchiati di delitti comuni e non ecclesiastici, sarebbero dovuti essere giudicati invece dallo Stato veneziano.

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Il Seicento Ma l’opera principale del Sarpi è la Historia del Concilio tridentino, che venne stampata a Londra nel 1619 con lo pseudonimo di Pietro Soave Polano. La narrazione delle vicende del Concilio – che egli definisce ironicamente “Iliade del secolo” – è costantemente accompagnata dall’opinione critica dell’autore, secondo cui il Concilio: desiderato e procurato dagli uomini pii per riunire la Chiesa che principiava a dividersi, per contrario ha così stabilito lo scisma ed ostinato le parti, che ha fatto le discordie irreconciliabili. […] Sì che non sarà inconveniente chiamarlo la Iliade del secol nostro: nella esplicazione della quale seguirò direttamente la verità, non essendo posseduto dalla passione che mi possi far deviare.

Che Sarpi non si sia fatto guidare dalla passione è vero, ma dalla convinzione certamente sì: una convinzione così chiaramente radicata in lui, da farlo a volte cadere in errori di fatto; errori dovuti, del resto, anche al fatto che non aveva consultato i documenti vaticani. Del resto quel che interessa a Sarpi era mettere in evidenza il meccanismo degli interessi nascosti e degli intrighi che covavano sotto le riunioni del Concilio: e lo fece con grande capacità di penetrazione e con uno stile rapido e scarno, privo di ornamenti retorici e soprattutto assai lontano dalle ricercatezze del secentismo, tanto da diventare un modello di prosa antibarocca.

Gli storici minori Per controbattere la tesi del Sarpi la Chiesa incaricò il gesuita e futuro cardinale PIETRO SFORZA PALLAVICINO (Roma 1607-1667) di scrivere una storia ufficiale sul Concilio: ne nacque l’Istoria del Concilio di Trento (1657). Disponendo di tutti i documenti di archivio, il Pallavicino era in grado di confutare molti degli errori di fatto in cui era caduto il Sarpi: non per questo, però, la sua è opera meno tendenziosa e polemica. Inoltre, poeta e letterato oltre che teologo e storiografo207, il Pallavicino volle dare alla narrazione una veste elaborata ed elegante, cadendo a volte nel retorico. Altri storici degni di menzione furono ARRIGO DAVILA (Piove di Sacco, Padova 1576 - Verona 1631) e GUIDO BENTIVOGLIO (Ferrara 1577 - Roma 1644). Il primo compose la Historia delle guerre civili in Francia (1630) – alle quali aveva partecipato – e lo fece con abilità di analisi politica e con un racconto disinvolto ed efficace; il secondo, con altrettanto acume politico, ma in una forma non priva di studiate eleganze formali, scrisse invece la Storia della guerra di Fiandra (1632-39).

207

Di Pallavicino si ricordano il poema in ottave Fasti cristiani (1636), le tragedie Ermenegildo (1644) e il Trattato dell’arte e dello stile del dialogo (1662).

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Il Seicento

Pensatori e scienziati L’inclusione di pensatori e scienziati in una storia letteraria potrebbe apparire strana a chi non tenesse conto del posto che essi occuparono nella cultura del Seicento, della loro formazione intellettuale, del valore dei loro scritti e delle caratteristiche stesse della loro prosa. Se, infatti, si considera che la preparazione culturale di questi pensatori e scienziati fu – dato il tipo dell’istruzione del tempo – fondamentalmente letteraria e di tipo umanistico, che le loro opere, molto spesso sotto forma di dibattito polemico, miravano ad avere carattere persuasorio e divulgativo più che di vera e propria enunciazione scientifica, che la loro non era una lingua tecnica – anche per deficienza del vocabolario contemporaneo – e che il loro stile era sempre letterariamente misurato, se non ricercato, si intenderà allora il perché della loro inclusione di diritto nella storia letteraria.

Giordano Bruno Il nolano Giordano Bruno (1548-1600), rientra cronologicamente nel Cinquecento: della sua attività di commediografo si è parlato, infatti, a proposito del teatro di quel secolo. Ma il suo atteggiamento spirituale lo colloca idealmente tra quegli spiriti ribelli del Seicento che furono i precursori del pensiero e della scienza moderna. Del Seicento, infatti, Giordano Bruno condivide l’adesione al copernicanesimo, l’anticlassicismo e l’antipetrarchismo, la concezione che i moderni sono più vecchi e saggi degli antichi, lo stile stesso disordinato, esuberante e ricco di immagini. Ad esser sinceri, Bruno deve la propria fama soprattutto alla celeberrima fine, senza la quale il suo nome sarebbe assai più oscuro: il rogo il domenicano su cui venne arso in Campo de’ Fiori ne ha fatto un martire del libero pensiero, adottato dalla cultura liberale anticlericale – ed in particolare dalla massoneria – quale preclaro esempio della cieca brutalità della Chiesa. Per questo è nata intorno a lui una sorta di “agiografia” da cui bisogna distaccarsi per analizzare serenamente le sue opere letterarie e filosofiche208. Le più importanti delle quali, o quelle almeno che gli hanno dato maggior fama già presso i contemporanei, sono i dialoghi Lo spaccio della bestia trionfante (1584, su temi morali), La cena delle ceneri (dello stesso anno, di argomento scientifico sulle teorie copernicane) e gli Eroici furori (1585, ispirato alla filosofia telesiana), che si ispirano al senso dell’infinità dell’universo, della quale l’anima umana è partecipe sol che ad essa sappia elevarsi con la sua potenza intellettiva e con quell’eroico furore che è: un calor acceso dal sole intelligenziale ne l’anima e impeto divino che gl’impronta l’ali, onde più e più avvicinandosi al sole intelligenziale, rigettando la ruggine de l’umane cure,

208

Una valida – e non agiografica – biografia del Nolano è quella di Matteo D’Amico (Giordano Bruno, Piemme, Casale Monferrato, AL 2000).

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Il Seicento dovien un oro probato e puro, ha sentimento della divina ed interna armonia, concorda gli suoi pensieri e gesti con la simmetria della legge insita in tutte le cose.209

Sempre negli Eroici furori riprende la convinta opposizione del Bruno alle regole letterarie: La poesia non nasce da le regole, se non per leggerissimo accidente; ma le regole derivano da le poesie; e però tanti son geni e specie de vere regole, quanti son geni e specie de veri poeti.210

Corre nelle opere del Bruno, e soprattutto nei due dialoghi citati, una vena di entusiasmo eroico e quasi delirante, che conferisce alle pagine un tono poetico, ma che genera anche quel suo particolare stile nervoso, disorganico ed ai limiti dell’enfasi.

Tommaso Campanella Non molto diverse da quelle di Giordano Bruno furono la forma mentis, le idee e le vicende stesse della vita di Tommaso Campanella (Stilo di Calabria 1568 - Parigi 1639). Frate domenicano come Bruno, fu processato dalla giustizia ordinaria per aver promosso una rivolta antispagnola (in Calabria), da quella ecclesiastica per sodomia (a Padova) e quindi dal S. Uffizio per eresia (a Napoli). Fintosi pazzo, ebbe una condanna lunga nei tempi, ma mite nella esecuzione (in pratica fu messo agli arresti domiciliari in convento) e, fattosi trasferire a Roma, entrò nelle grazie del Papa, che adulò come aveva già fatto con il Re di Spagna ed avrebbe poi fatto con il Re di Francia. Fiero sostenitore dell’astrologia come scienza esatta – astrologia, non astronomia –, era prodigo di consigli ai regnanti (si vantò in particolare di poter risolvere la crisi economica spagnola e di essere capace di far rientrare la riforma luterana con un solo mese di predicazione). Poligrafo (scrisse di teologia, di filosofia, di letteratura, di politica, di economia), Campanella ha condensato la sua folle utopia di un mondo futuribile e perfetto nella Città del Sole (1602), che prefigura spaventosamente il totalitarismo. In questo caso, un totalitarismo retto da astrologhi-sacerdoti. Nel dialogo, scritto originariamente in latino e poi da lui stesso tradotto in italiano, un immaginario nocchiero di Colombo descrive un’altrettanto immaginaria città dell’isola di Taprobana, nella quale gli uomini vivono felici, nel più assoluto comunismo dei beni di consumo, sotto il governo di un principe sacerdote: È un principe sacerdote tra loro, che s’appella Sole, e in lingua nostra si dice Metafisico: questo e capo di tutti in spirituale e temporale, e tutti li negozi in lui si terminano. Ha tre prìncipi collaterali: Pon, Sin, Mor, che vuol dir: Potestà, Sapienza, Amore.

Ma il vero pregio del libro non è tanto nel suo significato di pericolosa utopia politica, quanto piuttosto nella stupita descrizione di un paese favoloso (l’autore stesso, del resto, aveva definito “dialogo poetico” il suo libro): «Nella summità del monte vi è un gran pi209 210

Giordano Bruno, Degli eroici furori, Parte I, dialogo 3. Idem, dial. 1.

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Il Seicento ano e un gran tempio in mezzo, di stupendo artifizio». Infatti, oltre che di pensatore, Campanella ebbe anche animo di poeta. Lo testimoniano le sue poesie, di cui alcune “fatte con misura latina”, cioè in distici: bella tra queste l’Inno al Sole. Ma la sua è una poesia spesso aspra e difficile, destinata perciò a pochi lettori. Anch’egli, del resto, come Giordano Bruno, beneficia di una vulgata che lo vorrebbe vittima dei torturatori dell’Inquisizione, tesi che cade alla lettura dei verbali del processo211.

Galileo Galilei Il pensatore e lo scienziato più illustre del Seicento, anzi la personalità di maggior rilievo di tutto il secolo è senz’altro Galileo Galilei – anch’egli arruolato dalla massoneria come esempio del preteso oscurantismo ecclesiale con la leggenda di un processo a suo carico perché, sostenendo l’eliocentrismo, avrebbe contraddetto la Bibbia212. a) La vita Nato a Pisa nel 1564, studiò in quell’università prima medicina e filosofia, poi matematica e fisica. Compì allora le prime scoperte (come le leggi sul pendolo) e le prime invenzioni (come la bilancia idrostatica). Scriveva intanto anche saggi letterari (Sulla figura, il sito e la grandezza dell’Inferno di Dante; Postille e correzioni al Furioso; Considerazioni sul poema del Tasso): il che dimostra, come abbiamo già detto, che allora gli scienziati erano sempre letterati-scienziati. Qualche anno più tardi, inventando l’“occhiale” (cannocchiale astronomico) – anche sulla scorta di notizie di una simile invenzione fatta in Olanda – poté esplorare la volta celeste studiando la composizione delle nebulose e scoprendo i quattro satelliti di Giove. Di queste scoperte diede notizia al mondo con un trattato in latino, il Sidereus Nuncius, composto nel 1610. Traspare nel libro l’emozione dell’uomo che può finalmente esplorare, con vista tanto ravvicinata, la volta infinita del cielo; e traspare anche la commossa soddisfazione per il fatto che tutto ciò era concesso a lui, primo fra tutti gli uomini: Infinitamente rendo grazie a Dio che si sia compiaciuto di far me solo primo osservatore di cosa così ammiranda e tenuta a tutti i secoli occulta.

211

Cfr Francisco Elias de Tejada, Napoli spagnola, vol. IV, cap. II, Controcorrente, Napoli 2007. Arcinota è la leggenda secondo cui il principale passo biblico in questione sarebbe stato quello in cui Giosuè comandò al sole di fermarsi, dimostrando che è esso a muoversi, e non la terra. In realtà l’assunzione del testo biblico come testo scientifico fu fatta da Lutero e dai suoi prima contro Copernico (che era un canonico polacco, cattolico) e poi contro Keplero (tedesco e protestante, costretto a lasciare la Germania ed a rifugiarsi in Boemia, donde venne invitato ad insegnare all’università di Bologna, nei territori pontifici). Peraltro la famosa frase «La Bibbia insegna come si va al Cielo e non come va il cielo», usualmente attribuita a Galileo, in realtà è proprio di un uomo di Chiesa, il cardinale e storico CESARE BARONIO (1538-1607), autore della monumentale opera storiografica Annales ecclesiastici (12 volumi, 1588-1607), ricostruendo minuziosamente le vicende della Chiesa dalle origini al 1198, interrotta per la morte e proseguita da altri studiosi. 212

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Il Seicento L’opera, dedicata a Cosimo II dei Medici, gli valse anche la nomina, da parte di costui, di “primario matematico” nello studio di Pisa. Molto si è scritto circa la “persecuzione” ecclesiastica, che in realtà si limitò ad una sorta di residenza obbligatoria213 prima in una villa di Trinità dei Monti a Roma, poi a Siena e ad Arcetri, dove morì nel 1642, nonché nell’obbligo di recitare alcune preghiere. Il mito di un Galileo fiero oppositore dell’oscurantismo religioso nacque nel 1757 con Baretti214 e proseguì fino all’opera teatrale di Bertold Brecht (ultima versione 1955). In realtà l’attrito con la Chiesa nacque essenzialmente per questioni di forma e non di contenuto, che veniva sostanzialmente accettato. In particolare Galileo era stato ripreso per il mancato rispetto di alcuni criteri scientifici: egli aveva avuto l’imprimatur alla pubblicazione del Dialogo sopra i due massimi sistemi dell’universo (1632) assicurando che avrebbe descritto quale semplice ipotesi – e non quale dato di fatto, come invece fece – la teoria copernicana, senza peraltro portare prove esaustive215. Fondamentale è comunque l’apporto di Galileo nel campo della metodologia scientifica, con la necessità di sperimentare le affermazioni scientifiche e di non limitarsi, quindi, alle affermazioni teoriche, magari sulla scorta dell’onnipresente Aristotele. È questo il messaggio principale del Saggiatore (1623) – arguta polemica col gesuita Orazio Grassi sulla natura delle comete, che contiene peraltro un grossolano errore da parte dello scienziato pisano216 – assieme alla necessità di adottare in fisica modelli matematici. b) Tra scienza e letteratura L’opera più importante di Galilei è il Dialogo sopra i due massimi sistemi dell’universo217 il dialogo, diviso in quattro giornate, si svolge nel palazzo Sagredo sul Canal Grande a Venezia ed ha per interlocutori il fiorentino Filippo Salviati, che sostiene con convinzione e dottrina la teoria copernicana; il veneziano Giovan Francesco Sagredo, che pur partendo da dubbi finisce per condividerla entusiasticamente, e Simplicio, un immaginario filosofo peripatetico – qualcuno vi intravide papa Urbano VIII – il quale, chiuso nella sua cultura tradizionale, non riesce ad aderire a quelle nuove tesi scientifiche. E proprio quest’ultimo è il miglior personaggio del dialogo, anzi l’unico vero personaggio delle opere di Galilei: infatti, mentre tutti gli altri non sono che semplici portavoce di tesi scientifiche, Semplicio ha una sua sofferta umanità, vive penosamente i limiti della propria forma mentis, è sconvolto e disorientato da quanto si muove e si trasforma intorno a lui, soffre appieno, insomma, la situazione barocca del suo tempo:

213

Durante la quale poté ricevere costanti visite di colleghi e discepoli ed attendere alla stesura di altre opere, tra cui i Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze (1638). 214 Sembra sia stato lui l’inventore della frase ad effetto «Eppur si muove!». (Messori, p. 384) 215 La prima prova sperimentale della rotazione della terra fu eseguita nel 1748 ed il pendolo di Foucault, che permette di “vedere” tale rotazione, è del 1851. 216 Galileo affermava, contro la tesi dello scienziato ecclesiastico, che le comete fossero soltanto un’illusione ottica. 217 I due massimi sistemi sono il tolemaico (geocentrico) ed il copernicano (eliocentrico).

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Il Seicento Io vi confesso che tutta questa notte sono andato ruminando le cose di ieri, e veramente trovo di molto belle, nuove e gagliarde considerazioni; con tutto ciò mi sento stringer assai più dall’autorità di tanti grandi scrittori, ed in particolare… Voi scotete la testa, Signor Sagredo, e sogghignate, come se io dicessi qualche grande esorbitanza.218

L’ironia non priva di una certa umana comprensione con cui Galilei presenta il personaggio Simplicio è prova di come egli conduca la polemica scientifica, la quale non assume mai toni irruenti né mai trascende nell’invettiva. Del resto, la forma stessa del dialogo, da Galilei preferita per esporre il suo pensiero, dimostra che egli gradisce il dibattito, rifuggendo dalle affermazioni categoriche. La grandezza di Galileo Galilei è certamente nella sua attività di scienziato e di pensatore: attività che si saldano in quella sua metodologia sperimentale che è base della filosofia e della scienza moderne. Tuttavia, anche sotto il profilo letterario sono da valutare la perfetta ed organica architettura delle sue opere, la chiarezza espositiva – «parlare oscuratamente lo sa fare ognuno, chiaro pochissimi» scrisse egli una volta –, il tono lirico che pervade la sua pagina quando l’entusiasmo della scoperta o del possesso della verità prende il sopravvento sul discorso puramente scientifico. Il pensiero e l’opera di Galilei ebbero subito dei continuatori. Tra questi ricorderemo: EVANGELISTA TORRICELLI (Faenza 1608 - Firenze 1647), inventore del barometro ed autore di Lettere accademiche; VINCENZO VIVIANI (Firenze 1622-1703), traduttore di Euclide e primo biografo del maestro e, più importante di tutti, LORENZO MAGALOTTI (Roma 1637 - Firenze 1712), che nei suoi Saggi di naturali esperienze e nelle Lettere scientifiche ed erudite si dimostrò di essere prosatore elegante e vivace.

218

Galileo Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi, Giornata II.

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Il Settecento

L’età dell’Arcadia La prima metà del Settecento è definita, sotto il profilo letterario e, più ampiamente, culturale, età dell’Arcadia, perché a caratterizzare l’attività letteraria e gli orientamenti culturali di questo periodo fu un’accademia che ebbe nome di “Arcadia” e che costituì un fatto di grande importanza nella storia della nostra letteratura ed anche del nostro costume.

Il momento storico e culturale In Europa si combattono le guerre dinastiche o di “successione”219 e l’Italia ne è interessata non per l’attiva partecipazione alle attività belliche – fatto, questo, riservato al solo Piemonte e sempre al seguito ora di questa ora di quell’altra potenza – ma per i mutamenti del suo quadro politico imposti dalle potenze straniere. Il più importante di questi cambiamenti è quello determinato dai trattati di Utrecht (1713) e Rastadt (1714), che segnano il sostituirsi in Italia della dominazione austriaca a quella spagnola. Sul piano culturale si assiste alla supremazia della Francia e dell’Inghilterra: dominano l’empirismo lockiano ed il razionalismo cartesiano, di cui si notano le implicazioni nella concezione della poesia e nelle impostazioni storiografiche. Da noi Giambattista Vico si fa assertore di una nuova corrente di pensiero, lo storicismo; ma la sua voce resta per il momento sopraffatta dalla cultura razionalista: dovrà attendere circa un secolo per farsi sentire e segnare un nuovo corso alla cultura europea.

L’Arcadia come accademia Un giorno, correva l’anno 1690, il senese Agostino Maria Taja – uno dei letterati che erano soliti riunirsi in cenacolo a Roma creato dalla regina Cristina di Svezia (1626-89), la quale, convertitasi al cattolicesimo e costretta ad abdicare, era venuta a Roma raccogliendo intorno a sé poeti e uomini di cultura – udendo recitare alcune poesie pastorali esclamò: «Egli sembra che noi oggi abbiamo rinnovato l’Arcadia!». Così nasceva l’Arcadia: a fondarla erano quattordici letterati, tra cui i più illustri furono il maceratese GIOVANNI MARIA CRESCIMBENI (1663-1728), il cosentino GIAN VINCENZO GRAVINA (1664-1718) e l’imolese GIAMBATTISTA ZAPPI (1667-1719), tutti e tre morti a Roma. Il nome dell’accademia era simbolico: voleva ricordare la regione della Grecia celebrata dai poeti come patria e sfondo della poesia pastorale. E simbolica fu anche tutta quanta la sua impalcatura coreografica: e così “pastori” si dicevano i poeti, i quali si attribuivano pseudonimi tratti dalla poesia pastorale; “bosco parrasio” era chiamato il luogo delle adunanze; la siringa del dio Pan ne era l’insegna; Gesù bambino, perché vissuto tra i pastori, ne era il protettore. C’erano, a base del programma letterario dell’Arcadia, il che vuol dire della sua poetica, l’indubbia consapevolezza della decadenza che la poesia italiana aveva subito nel Seicento e 219

Guerra del Nord (1700-21), guerre di successione spagnola (1701-14), polacca (1733-35), austriaca (1740-48), guerra dei Sette Anni (1756-63). Sono dette “guerre cavalleresche” perché risolte da poche, decisive battaglie a cui partecipava esclusivamente l’esercito professionale, senza coinvolgimento della popolazione civile.

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Il Settecento quindi il proposito di ridarle dignità e pregio. Combattere la «barbarie dell’ultimo secolo […], esterminare il cattivo gusto e […] curare che più non avesse a risorgere»: questa la meta statutaria che gli arcadi si proposero. Per raggiungerla, ritennero che non vi fosse altra strada che quella del ritorno all’imitazione dei modelli classici, concepiti come esempi insuperabili di chiarezza espressiva, buon gusto e senso della misura in contrapposizione alle astruserie bizzarre e deliranti del secentismo. Un arcade, Vincenzo Leonio, candidamente ammise: «La nobiltà della poesia non consiste nell’altezza dei concetti, ma nella bontà dell’imitazione». Tornò così di moda il petrarchismo – dopo la dura guerra che gli aveva mosso il barocco – e tornarono di moda i poeti bucolici greci e latini, nonché Pindaro assieme a Gabriello Chiabrera: e ci furono così arcadi petrarcheggianti, arcadi anacreontici ed arcadi pindarici. Questo rinnovato classicismo non era però un puro e semplice ritorno all’imitazione dei modelli e all’obbedienza delle regole. C’era alla base qualcosa di più profondo: ed era la concezione di una poesia che, lontana dagli “ingegnosi deliri” del Seicento, fosse guidata dalla ragione ed avesse una finalità didattica. L’appello, infatti, alla chiarezza, alla misura, al ragionevole nella poesia ritornò costantemente in tutti i teorici dell’arte di questo periodo ed era il riflesso di quel razionalismo cartesiano che ora dominava l’ambiente culturale europeo220. Il sentimento doveva essere guidato dalla ragione, la fantasia doveva trovare la sua misura nella realtà, l’espressione doveva essere lineare, lucida, senza complicazioni ermetiche. Ma l’opera di recupero e di ricostruzione dell’Arcadia fu tutta letteraria, non investì l’essenza vera della poesia. Fu essa «educatrice di misura e di gusto letterario» (Croce), ma non seppe rivitalizzare la poesia con sentimenti ed idee nuove. Amò la naturalezza espressiva, ma rifuggì dal concreto cantando miti antichi e cullandosi nel sogno di una beata quanto anacronistica atmosfera pastorale; volle essere semplice, ma in effetti fu studiata e insincera. Da ciò quell’impressione di vuotaggine, di superficialità, di bellezza tutta esteriore e musicale, di eleganza leziosa che essa ha sempre prodotto nei lettori. Da ciò anche quella impressione di gioco letterario, avulso da ogni impegno, che faceva dire al Muratori che l’Arcadia «bamboleggiava» e al Baretti «quella celebratissima letteraria fanciullaggine chiamata Arcadia»221.

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Il primo assertore del classicismo e del razionalismo nell’arte fu il francese NICOLAS BOILEAU (1636-1711). Sulle sue orme un altro critico francese, il gesuita DOMINIQUE BOUHOURS (16281702), intendendo l’arte come pura attività logica, espresse duri giudizi sulla nostra poesia, e non solo quella secentista, che definì bizzarra e stravagante. In Italia GIAN GIUSEPPE FELICE ORSI (16521733), rivendicando le glorie della tradizione letteraria italiana, sostenne che bisognava accettare con discernimento e moderazione il razionalismo nell’arte per non comprometterne la fantasia. GIAN VINCENZO GRAVINA, uno dei fondatori dell’Arcadia, di cui scrisse una specie di statuto in latino arcaico, nella sua Ragion poetica sostenne che la poesia doveva essere sintesi di fantasia e di ragione. Non diversa fu la posizione di LUDOVICO ANTONIO MURATORI che, nel suo trattato Della perfetta poesia (1706), cercò un compromesso tra il vero proposto dal razionalismo e la fantasia, concludendo che argomento della poesia deve essere il verosimile, cioè un vero ideale e meraviglioso. 221 Giuseppe Baretti, La Frusta letteraria, n. 1, Memorie degli Arcadi.

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Il Settecento

L’Arcadia come atteggiamento del gusto e come mentalità In verità, l’Arcadia non era affatto slegata dalla realtà del suo tempo. Le sue atmosfere, rarefatte ed idilliache, erano quelle stesse della musica e della pittura222; il ritmo delle sue “ariette” riecheggiava il tempo dei minuetti; i suoi paesaggi così raffinati e leggiadri ricordavano l’architettura rococò dei parchi; la galanteria stessa dei suoi pastori e la grazia civettuola delle sue ninfe era variante letteraria dei baciamano e delle riverenze dei cicisbei e delle damine del tempo (nonché del senso di “cavalleria” nelle battaglie a cui si è prima accennato)223. Insomma, il mondo che fa da sfondo alla poesia degli arcadi è il mondo stesso del Settecento, quello almeno della parte aristocratica della società. È un mondo che tende ad allontanare da sé i problemi e per questo è portato all’evasione, alla superficialità, all’idealizzazione ed alla stilizzazione di tutto. Il senso stesso della cortesia e del gusto, così esasperati in quel tempo, sono proprio effetto di questa tendenza all’idealizzazione e di questa capacità di fermarsi agli aspetti superficiali ed esteriori di ogni cosa. Il Foscolo scrisse nel Gazzettino del Bel Mondo che le madri allora insegnavano ai figli a «parlare a bassa voce, sembrar dolce, non avere nessuna personalità». Pur nel suo ristretto valore di polemica giornalistica di costume, l’affermazione del Foscolo coglieva l’interesse tipico di quel tempo per tutto quanto fosse garbato, dolce, esteriore. Non c’è quindi da meravigliarsi se questi stessi interessi costituissero l’ispirazione della poesia degli arcadi. Resta ora da considerare quale sia stata la caratteristica sul piano sociologico della poesia degli arcadi. Certamente, la maggiore semplicità espressiva ampliava il pubblico dei lettori; tuttavia l’Arcadia rappresentava una ripresa del concetto aristocratico della letteratura, se non altro per quella trasposizione della realtà su un livello di idealizzazione e di stilizzazione, che erano state estranee invece alla poesia del Seicento.

Poeti arcadi L’Arcadia ebbe subito grande diffusione – conferma questa della sua corrispondenza all’atteggiamento mentale ed al gusto del tempo – e sorsero ben presto in Italia circa cento diramazioni o “colonie”. La sua produzione letteraria fu per la maggior parte in versi – ed era naturale che così fosse, dati i temi e i moduli che si proponeva – e venne raccolta in ben tredici volumi di Rime. Tra tanti versi e tanti autori non si poteva certo non riscontrare, pur entro i termini dello stesso programma e del gusto comune, varietà non tanto di temi quanto di modelli e forme metriche. È possibile pertanto operare una suddivisione in periodi dell’attività arcadica:

222

Si pensi al celebre quadro di Jean-Antoine Watteau (1684-1721) Imbarco per Citera (1717), che ben rappresenta gli ideali ed il gusto del secolo: sulla riva del mare, dove è il busto marmoreo di Venere, coppie di innamorati felici si avviano all’imbarco per Citera, l’isola dell’amore. 223 Secondo Voltaire (Le siècle de Louis XV) alla battaglia di Fontenoy (1745) il comandante inglese Charles Hay si rivolse al suo omologo francese gridando: «Signori della Guardia francese, tirate!». Al che il Conte d’Auteroche, luogotenente, avrebbe risposto: «Signori, non tiriamo mai per primi, a voi il primo colpo!».

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Il Settecento •

primo periodo o petrarchesco: predominano Petrarca come modello ed il sonetto come forma metrica;



secondo periodo o pastorale: i modelli sono i poeti bucolici del mondo classico ed il metro è la canzonetta;



terzo periodo o rococò: influenze diverse e con prevalenza del verso sciolto (cioè privo di rima).

Della prima maniera il poeta più noto fu GIAMBATTISTA FELICE ZAPPI (Imola 1667 - Roma 1719), tra i fondatori dell’Arcadia. Nei suoi sonetti, sotto una strutturazione ed un’intonazione petrarcheggiante del verso, si scoprono subito l’anima ed il mondo vero dell’Arcadia: la trasfigurazione pastorale della situazione; l’idealizzazione e la schematizzazione della natura nel bel boschetto, nel praticello erboso, nella fresca fonte; la leziosità delle immagini e delle espressioni. Per questo il Baretti disse di lui: «Il mio lezioso, il mio galante, il mio inzuccheratissimo Zappi è il poeta favorito di tutte le nobili damigelle che si fanno spose»224. Una profondità maggiore e minore leziosità ci sembra rinvenire nelle poesie della moglie di Zappi, FAUSTINA MARATTI ZAPPI (Roma 1679-1745), nelle quali non manca qualche bel verso, più vicino all’animo petrarchesco: ma tale era il gusto del tempo che lei, proprio per essere meno “inzuccherata” del marito, non ne raggiunse la fama. La seconda maniera, quella anacreontica o pastorale, era la più congeniale all’anima degli arcadi, i quali, come abbiamo visto con lo Zappi, anche nelle poesie d’amore finivano sempre con l’ispirarsi alla natura più che alla donna, quasi che la loro voluttà trasferissero nell’immaginazione di paesaggi sereni e lucenti. Di questa seconda maniera il maggior rappresentante fu PAOLO ROLLI (Roma 1687 - Todi 1765), autore di canzonette dai metri vari e assai mossi, in cui si ispirò ai paesaggi ideali intravisti dalla sua fantasia. Realmente mirabili nei suoi versi sono la grazia, l’eleganza e soprattutto la musicalità. Eccone un esempio: Solitario bosco ombroso, a te viene afflitto cor, per trovar qualche riposo tra i silenzi in questo orror.

Sono versi questi, nei quali «non dobbiamo ricercare alcuna intensità di motivi: qui tutto è risolto e disperso in una lieve malinconia, in una fragile grazia, in un incanto dolce-amaro di sospiri, di echi, di mormorii musicali» (Gianni). A questa fase della poesia arcadica appartengono anche i componimenti melodrammatici, nei quali si cimentò anche il Rolli, ma con poco successo; in questo genere il meglio, come vedremo, sarà espresso dal Metastasio.

224

Giuseppe Baretti, ibidem. E prosegue: «Il nome del Zappi galleggerà un gran tempo su quel fiume di Lete, e non s’affonderà sintanto che non cessa in Italia il gusto della poesia eunuca. Oh cari que’ suoi smascolinati sonettini, pargoletti piccinini, mollemente femminini, tutti pieni d’amorini!».

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Il Settecento Infine la terza maniera, rappresentata soprattutto dall’abate CARLO INNOCENZO FRUGONI (Genova 1692 - Parma 1768). La versatilità poetica e la facilità con cui componeva versi, anche estemporanei, gli permisero di cantare temi diversi passando con disinvoltura dall’imitazione di Anacreonte a quella di Orazio, da toni petrarcheggianti a toni berneschi. Varie furono anche le forme metriche della sua poesia, anche se preferì il verso sciolto, quello che caratterizzò questo terzo periodo della lirica arcadica. Scrisse poesie di occasione, rievocazioni storiche, sermoni moraleggianti; ma il meglio va ricercato nei componimenti nei quali traspare una vena tra galante e sensuale non senza un sottofondo di vaga malinconia: come è nei suoi “imbarchi per Citera”, composti su ispirazione del citato quadro di Watteau. Per l’abbondanza della sua produzione poetica – dieci libri di liriche –, per la varietà dei temi trattati e dei metri usati, per la facilità del verseggiare, Frugoni fu una specie di caposcuola: nacque da lui il frugonianismo (o le frugonerie, come si disse con certo tono dispregiativo): specie di poesia dal ritmo facile, ma povera di pensiero e di sentimento.

L’eredità dell’Arcadia L’Arcadia caratterizzò la prima metà del Settecento, ma ebbe continuatori anche nella seconda metà del secolo e finanche nei primi anni del secolo successivo225. Questo perché gli aspetti del gusto e della moda che avevano caratterizzato l’età dell’Arcadia – cioè la prima metà del Settecento – non si esaurirono nella seconda parte del secolo, nonostante l’affiorare di nuovi atteggiamenti spirituali e di nuovi problemi. E così LUDOVICO SAVIOLI FONTANA CASTELLI (Bologna 1729-1804) nei suoi Amori – raccolta di liriche in strofe di settenari – rappresenta la vita galante del Settecento: nelle discussioni di salotto, negli spettacoli, negli incontri sentimentali, nelle danze. JACOPO VITTORELLI (Bassano 1749-1835) nelle sue Anacreontiche ritorna invece ai temi ed alle atmosfere del Rolli, cantando le sue donne sullo sfondo del tipico paesaggio arcadico. Una ventata di aria nuova nell’area arcadica è portata dalla poesia dell’abate GIOVANNI MELI (Palermo 1740-1815). E ciò non tanto per gli argomenti di satira sociale che compaiono nei suoi poemi (La fata galanti, L’origini di lu munnu e Don Chisciotte e Sanciu Panza) quanto per l’adozione del dialetto siciliano, che gli permetteva di rivitalizzare la lingua poetica e soprattutto per un nuovo sentimento della natura, non più cantata come un bel paesaggio, ma sentita come aspirazione dello spirito ad uno stato di primitiva innocenza. La stessa bellezza femminile, che il poeta canta nelle sue canzonette anacreontiche Li capiddi (I capelli), L’occhi, Lu labbru, La vucca (La bocca), più che ispirare sensualità, assume il significato di una grazia infantile e vivace, oggetto di serena contemplazione.

225

È stato rilevato, nel corso del Novecento, l’influsso che la poetica arcade ebbe anche su romantici come Foscolo e Leopardi. L’Accademia, tuttora esistente, dal 1925 ha preso il sottotitolo di Accademia Letteraria Italiana.

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Il Settecento

Pietro Metastasio Uno dei generi della poesia arcadica fu il melodramma. Di esso il maggiore poeta fu il Metastasio, legato del resto all’Arcadia oltre che dal genere trattato, dal fatto che ne condivise appieno gli atteggiamenti, il gusto e la poetica.

La vita Un giorno del 1708 Gian Vincenzo Gravina, uno dei letterati fondatori dell’Arcadia, incontrò per strada a Roma un ragazzetto che recitava versi improvvisati: ne rimase colpito e chiese ai genitori di affidarglielo perché potesse avviarlo agli studi letterari. Quel ragazzetto era Pietro Trapassi, nato a Roma nel 1698, al quale subito il Gravina mutò il nome in Metastasio per grecizzarlo. Compiuti gli studi di greco e di latino e presi gli ordini minori, il giovane Metastasio entrò nell’Arcadia col nome di Artino Corasio. Intanto il Gravina moriva, prima ancora che potesse rallegrarsi del primo successo colto nel 1721 dal giovane poeta con la rappresentazione degli Orti Esperidi su musiche di Niccolò Porpora. Protagonista di questa azione scenica era stata la cantante Marianna Bulgarelli, detta la Romanina, che divenne poi l’amica e l’ispiratrice del poeta. Fu per lei, infatti, che Metastasio compose il suo primo vero melodramma, la Didone abbandonata (1724), al quale seguirono il Siroe, il Catone in Utica, l’Alessandro nelle Indie, la Semiramide, l’Artaserse. La rappresentazione di questi melodrammi rese celebre l’autore, che fu così invitato nel 1730 a Vienna da Carlo VI, perché succedesse ad Apostolo Zeno come poeta di corte. Nella capitale austriaca Metastasio visse anni felici: applaudito dal suo pubblico, stimato da Carlo VI prima, poi dalla regina Maria Teresa, amato dalla contessa d’Althann – che sembra avesse sposato segretamente –, confortato da un’ispirazione fervida e costante. Fu allora che scrisse alcuni dei suoi più famosi melodrammi: l’Adriano in Siria, l’Olimpiade, la Clemenza di Tito, l’Achille in Sciro, il Temistocle, fino all’Attilio Regolo (1740). Ma il nuovo imperatore Giuseppe II, salito al trono nel 1765, con le sue idee volterriane ed illuministe, con la sua politica anticlericale (che da lui prese il nome di “giuseppinismo”), andò poco a genio al nostro poeta. Il quale malinconicamente avvertiva che il suo mondo stava ormai scomparendo, travolto da un mondo nuovo che egli non riusciva a capire. Tra lo sconforto di queste considerazioni, che gli davano il senso del proprio isolamento, moriva a Vienna nel 1782.

La riforma del melodramma Come si è visto, nel corso del Seicento il melodramma era andato progressivamente decadendo. Il gusto barocco, con la sua ricerca del complicato, del bizzarro, del meraviglioso, aveva influenzato anche il melodramma, facendogli preferire gli intrecci complicati e le scenografie macchinose e spettacolari col fine evidente di meravigliare gli spettatori. A questo motivo di decadenza se ne aggiungeva un altro: non solo il progressivo

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Il Settecento prevalere della musica sul libretto, ma anche le pretese dei “virtuosi” che volevano si scrivessero parti in cui potessero mostrare tutta la loro abilità canora. APOSTOLO ZENO (Venezia 1668-1750), poeta teatrale alla corte di Vienna prima del Metastasio, meditò una riforma del melodramma per liberarlo dagli artifici secenteschi e per renderlo più coerente e più sobrio in conformità con i principi del razionalismo arcadico. Ma mancavano a lui animo di poeta e sensibilità musicale, sicché i suoi melodrammi (Lucio Vero, Alessandro Severo, Semiramide) appaiono fredde esercitazioni letterarie. La sua perciò fu riforma teorica di un letterato: occorreva ora un poeta che potesse attuarla. Il poeta fu Metastasio. Discepolo ed erede del Gravina, il che vuol dire del teorico dell’Arcadia, oltre che seguace del cammino intrapreso dallo Zeno, Metastasio non mirava soltanto a riformare tecnicamente il melodramma, ma si poneva un fine senz’altro più impegnativo: ricreare in Italia la tragedia greca, essere il Sofocle italiano; insomma, creare melodrammi dalla sostanza tragica ed eroica.

L’essenza del melodramma Ma per far questo Metastasio avrebbe avuto bisogno di due cose: di un animo eroico e di un pubblico – perché uno scrittore di teatro scrive innanzi tutto per il suo pubblico immediato – che avesse nell’animo il senso dell’eroismo. Ma l’una cosa e l’altra mancavano al poeta: lui aveva un’indole mite, un sentimento idilliaco, certamente non eroico della vita; il suo pubblico rifuggiva dalle situazioni troppo tese e drammatiche, mostrava interesse per la virtù e per l’eroismo a patto che fossero vistosi e coreografici e non costassero sangue e sacrificio. Perciò l’eroismo che traspare dai melodrammi metastasiani è un eroismo tutto esteriore, precostituito: nasce dal mito o dalla storia da cui quei melodrammi traggono la loro materia, non nasce dall’azione e dai sentimenti dei personaggi. È, insomma, un punto di partenza, non un punto di arrivo. Metastasio, infatti, non fa agire i suoi personaggi in modo tale che diventino eroi: li assume come eroi e li fa agire e parlare da cavalieri galanti226. Nell’Achille in Sciro il protagonista boriosamente dice: Ma lo so ch’io sono Achille, e mi sento Achille in sen.227

La sua virtù, il suo valore sono dati per scontati, sono enunciazioni. In effetti, sulla scena, egli invece parla ed agisce come una femminetta gelosa: Almeno qui tacito in disparte lascia ch’io vegga il mio rivale.228

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Del resto, i personaggi dei melodrammi metastasiani vestivano sulla scena i costumi del Settecento. 227 Metastasio, Achille in Sciro, Atto I, sc. 3. 228 Idem, Atto I, sc. 13.

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Il Settecento Neanche Enea, nella Didone abbandonata, agisce da eroe. La sua stessa pietà è tutta esteriore: sembra nata più dal Concilio di Trento che da un concilio di dei e sembra che sia basata sulla casistica gesuitica («si non caste, tamen caute»). Cerca tutte le attenuanti alla sua coscienza per spiegare e giustificare l’abbandono di Didone: Ah! piacesse agli dei che Dido fosse infida, o ch’io potessi figurarmela infida un sol momento.229

Ed alfine, abile nell’escogitare compromessi e mezzucci, trova un’attenuante alla sua condotta nel pensiero – che è anche un consiglio volgare – che Didone possa consolarsi presto con un nuovo amante: Stenda a Iarba la destra e si consoli.230

Anche Didone – sebbene Metastasio sia portato di più a rappresentare il mondo muliebre che il virile o addirittura a trasformare in femineo il carattere stesso degli uomini – ci appare una damina sentimentale perfino nel momento conclusivo e tragico della sua vita. In personaggi così costruiti, eroici esteriormente, ma interiormente imbelli, la passione è declamatoria, la virtù è esibizionista. Prima di compiere la loro azione eroica e virtuosa i personaggi posano, si mettono in vista, richiamano l’attenzione della gente. Prima di agire eroicamente, Temistocle richiama l’attenzione di tutti: Sentimi, o Serse; Lisimaco, m’ascolta. Udite, o voi, popoli spettatori, di Temistocle i sensi; e ognun ne sia testimone e custode.231

Nella Clemenza di Tito l’imperatore ha già deciso di perdonare il suo nemico Sesto; tuttavia vuole che scenda nell’arena per il supplizio, per perdonarlo lì, alla presenza di tutti. «Non gli basta la virtù, vuole lo spettacolo e la sorpresa» (De Sanctis). Da situazioni come queste nasce, come notava ancora De Sanctis, qualcosa di comico: nasce dal contrasto che è nei personaggi tra il grandioso del di fuori e la vacuità del di dentro, dall’esibizione della virtù, dai continui sì e no della passione. Ecco il monologo di Enea, incerto se partire o restar fedele a Didone: Se resto sul lido, se sciolgo le vele, infido, crudele mi sento chiamar. E intanto, confuso nel dubbio funesto non parto, non resto, 229

Metastasio, Didone abbandonata, Atto I, sc. 9. Idem, Atto III, sc. 6. 231 Metastasio, Temistocle, Atto III, sc. 11. 230

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Il Settecento ma provo il martire, che avrei nel partire, che avrei nel restar.232

L’arte Ma se le caratteristiche del proprio mondo interiore e quelle del suo tempo – pochi poeti, come Metastasio, hanno subito in modo così evidente la psicologia della società contemporanea – impedirono al poeta di comporre melodrammi di sostanza tragica ed eroica, resta a lui il merito di avere scritto dei melodrammi strutturalmente perfetti, cioè coerenti, organici e tali da poter essere letti e far spettacolo di per se stessi, anche senza l’accompagnamento musicale: il che, naturalmente, era un grande fatto letterario. Del resto, un poeta deve essere giudicato per quel che ci ha dato e non per quello che avrebbe potuto darci: Metastasio non ci ha dato la vera tragedia, ma ci ha dato il melodramma che il suo tempo poteva e voleva avere. Inoltre, egli ha mostrato di possedere, come pochissimi altri nostri poeti, un tal dominio della parola sì da ottenere contemporaneamente da essa le massime rese logica e musicale. Se, infatti, rileggiamo il dianzi citato monologo di Enea, notiamo come la musicalità dei versi sia ottenuta mediante una limpida ed essenziale trama di parole. È per questo che alcuni suoi versi, facili e musicali insieme, restano subito in mente e vanno ripetuti quasi fossero proverbi: Non è ver che sia la morte il peggior di tutt’i mali, è un sollievo de’ mortali che son stanchi di soffrir.233 È la fede degli amanti come l’araba fenice: che vi sia, ciascun lo dice; dove sia, nessun lo sa.234 Se a ciascun l’interno affanno si leggesse in volto scritto, quanti mai che invidia fanno ci farebbero pietà!235

Ed è per questo, ancora, che i poeti lirici seguenti – come Leopardi o Carducci – non hanno potuto non risentire l’influenza della lingua poetica del Metastasio.

232

Metastasio, Didone abbandonata, Atto I, sc. 18. Metastasio, Adriano in Siria, Atto III, sc. 6. 234 Metastasio, Demetrio, Atto II, sc. 3. E prosegue: « Se tu sai dov’ha ricetto, / dove muore e torna in vita, / me l’addìta, e ti prometto / di serbar la fedeltà». 235 Metastasio, Arie, XXIX. 233

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Le canzonette I versi che abbiamo citati per essere stati quasi assunti a proverbi appartengono alle “ariette” dei melodrammi, cioè non alle parti dialogate, ma a quelle in cui il personaggio esprime, con effusioni liriche, il proprio stato d’animo. È qui che si rinviene la vena più congeniale del Metastasio, cioè la sua disposizione all’idillio ed all’elegia. La stessa vena ispira anche le sue tre canzonette dedicate a Nice: La libertà, La palinodia, La partenza. Qui il sentimento d’amore, non profondo, ma sincero, si vela di malinconia e si effonde in versi che – come quelli della migliore tradizione arcadica – si rendono piacevoli per la loro grazia, la loro intonazione recitativa e melodica, quasi fossero stati composti per esser cantati più che recitati: Ecco quel fiero istante: Nice, mia Nice, addio: come vivrò, ben mio, così lontan da te?236

236

Metastasio, La partenza, vv. 1-4.

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Storiografia e filosofia della storia L’interesse che il primo Settecento mostra per la storia è anch’esso da collegarsi col razionalismo arcadico: caratteristiche del quale sono il programma di recupero del passato, la ricerca del vero, l’esigenza di un’organica e razionale sistemazione culturale. Tuttavia, questa connessione con gli atteggiamenti culturali del tempo non è che un punto di partenza: infatti nelle opere dei più grandi scrittori – Muratori, Giannone e soprattutto Vico – si delineano chiaramente nuove prospettive culturali e nuovi orientamenti di pensiero che meglio saranno intesi e svolti in tempo successivo.

Ludovico Antonio Muratori Ludovico Antonio Muratori può considerarsi il fondatore della moderna storiografia su basi scientifiche e documentarie. Nato a Vignola (Modena) nel 1672, si avviò giovanissimo al sacerdozio: sia per intima vocazione sia per assicurarsi i mezzi per lo studio che, provenendo da povera famiglia, gli mancavano. Laureatosi in diritto civile e canonico, fu prima bibliotecario all’Ambrosiana di Milano, poi bibliotecario ed archivista degli Estensi a Modena. Qui morì nel 1750. Forse l’idea di una storiografia basata sulla ricerca documentata dei fatti gli dovette nascere quando, sorta una polemica tra la Chiesa e gli Estensi circa i diritti su Comacchio e Ferrara, per sostenere le ragioni di questi ultimi, intraprese un’accurata e paziente ricerca di documenti che, ordinati, pubblicò poi nelle Antichità estensi. Quel lavoro, infatti, gli fece concepire un disegno realmente colossale: raccogliere e pubblicare tutti i documenti e gli scritti riguardanti la storia d’Italia dal VI al XVI secolo. Per attuarlo promosse anche la fondazione di una “Società Palatina”, la quale però non gli bastò per vincere la diffidenza di alcuni governi che si rifiutarono di mettere a sua disposizione gli archivi di Stato. Finalmente l’opera venne alla luce: si intitolò Rerum italicarum scriptores (1723-51) e risultò di 28 volumi di gran formato, contenenti cronache, diplomi, documenti, statuti. Fu – come disse Carducci – «il più gran corpo di storia nazionale che fosse fin allora pubblicato in Europa». Contemporaneamente Muratori attendeva alla composizione delle Antiquitates italicae Medii Aevi (1743), un’opera scritta in latino e composta di sei libri, a proposito della quale l’autore stesso disse: «La libertà e la servitù degli uomini, i giudizi, la milizia, le leggi, le monete, le arti, gli studi delle lettere, l’origine della lingua italiana, la mercatura e tante altre cose a queste somiglianti furono l’oggetto delle mie ricerche». Poi compose gli Annali d’Italia (1744-49), un’opera in sette volumi nella quale, col metodo annalistico, è narrata la storia d’Italia dalla nascita di Cristo al 1749, cioè fino all’assetto stabilito dalla pace di Aquisgrana (fine della guerra di successione austriaca). La caratteristica dell’opera storiografica del Muratori è, come si è detto, scientificodocumentaria. Lo scrittore va in cerca di documenti, ne studia l’autenticità, li compara, li dispone in ordine, perché da essi scaturisca la verità dei fatti storici: per conto suo non aggiunge interpretazioni, commenti, giudizi. Concepire in tal modo la storiografia significava applicare

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Il Settecento ad essa il metodo della ricerca scientifica che Galilei aveva inaugurato. E significava anche non mirare ad un’opera di bella letteratura, ad una narrazione ricercata ed elegante; tuttavia, la stessa sobrietà del discorso e la chiarezza dell’esposizione determinavano uno stile essenziale, ma mai sciatto e frettoloso.

Pietro Giannone Quanto scientifica e documentaria è la storiografia del Muratori, tanto critica e tendenziosa, essendo ispirata da premesse ideali, è quella di Pietro Giannone. Nato nel 1676 ad Ischitella di Puglia, nel foggiano, studiò diritto ed esercitò l’avvocatura a Napoli. La pubblicazione della sua Istoria civile del Regno di Napoli (1723) gli procurò la scomunica ed un’ostinata persecuzione: si rifugiò a Vienna, poi a Ginevra; infine, attratto con un tranello a Torino, vi fu incarcerato nel 1736 e finì i suoi giorni in stato di prigionia nel 1748. Il perché di quella persecuzione stava nel fatto che la sua Istoria, che narrava in venti libri le vicende del regno di Napoli dall’età romana fino agli inizi del Settecento, era, come diceva il titolo stesso, una storia civile: non si soffermava sullo «strepito delle battaglie» e sul «romor dell’armi» e neanche sui trattati internazionali e le paci o quanto altro riguarda la vita militare e la politica estera degli Stati, ma invece sulla politica interna, sulle leggi, sulla forma di governo e soprattutto sui rapporti tra Stato e Chiesa o, come dice l’autore, tra “temporale” ed “ecclesiastico”. Era naturale che una storia così concepita fosse ideologizzata; la tesi è perciò chiara e costante: mostrare i soprusi del potere “ecclesiastico” e spiegarne l’illegittimità. Tesi certamente non nuova – a parte le premesse ideali già presenti in Dante, Machiavelli, Guicciardini, essa aveva già ispirato e condotto la storiografia del Sarpi – ma comunque di grande attualità, data la frequenza, in quel tempo, di contrasti giurisdizionali. Da ciò la grande diffusione che il libro ebbe, la sua risonanza europea, il consenso dei governi e, quindi, la condanna della Chiesa. Durante l’esilio di Vienna il Giannone compose un’altra opera, il Triregno, un saggio storico nel quale si traccia una specie di storia del Cristianesimo: partendo dal “regno terreno”, qual era quello auspicato dagli ebrei in attesa del Messia, si passa al “regno celeste”, il regno tutto spirituale promesso dal Cristo, e si conclude col “regno papale”, che segna il tradimento della spiritualità cristiana ed il ritorno agli interessi terreni. Anche in quest’opera è evidente l’intento polemico che aveva ispirato la Istoria; ed anche qui non mancano inesattezze e forzature per amore della tesi. Lo stile, poco curato sul piano letterario, ma non privo di accorgimenti avvocateschi, è quello di chi non si preoccupa di fare opera di letteratura, ma di convinzione e di proselitismo. Ed infatti, in seguito, le battaglie giurisdizionalistiche si combatterono anche all’insegna delle opere del Giannone.

Giambattista Vico a) La vita Con Giambattista Vico si passa dalla storiografia alla filosofia della storia o, addirittura, ad un nuovo orientamento di pensiero – lo storicismo – che, restato senza seguito al tempo del suo autore, sarà ampiamente svolto nell’età successiva.

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Il Settecento Nato a Napoli nel 1668, Vico compì, da autodidatta, gli studi di grammatica, filosofia e diritto. Un grave incidente occorsogli da fanciullo – cadde da una scala e riportò la frattura di un osso cranico – influì non solo sul suo stato di salute, ma anche, forse, sul suo stesso temperamento. Nella sua autobiografia, infatti, lo scrittore confessava di essere di «natura malinconica ed acre, qual dee essere di uomini ingegnosi e profondi»237. Prima precettore in casa del marchese Domenico Rocca nel Cilento, fu poi lettore di eloquenza all’Università di Napoli e quindi, sempre a Napoli, ebbe da Carlo di Borbone l’incarico di storiografo regio. Morì nella sua città nell’anno 1744. L’autobiografia, a cui si è accennato, più che essere il racconto di episodi e di avvenimenti concreti – del resto la vita di Vico fu povera di avvenimenti importanti – è tutta rivolta alla ricostruzione della storia del suo pensiero, della sua formazione culturale, della meditazione che lo portò alla composizione della sua Scienza nuova; ed è anche un’esplorazione del suo animo, una ricerca dei motivi della sua solitudine e della sua malinconia. A questa indagine introspettiva si ricollega anche la canzone Affetti di un disperato, iscritta dai critici nel clima arcadico – si pensi che anche Vico, come del resto quasi tutti i letterati ed i pensatori del tempo, era accademico dell’Arcadia –, ma pervasa da una malinconia così profonda e dolorosa che sembra anticipare quella del Leopardi: talché di rimembrar meco pavento le mie sciagure. […] almeno il mio piacer e’ fosse il venir meno.238

b) Lo storicismo A sollevar Vico dalla malinconia e a riconciliarlo con la vita fu solo l’intima gioia che gli veniva dalla composizione di quell’opera che era frutto delle ricerche e delle riflessioni di tutta la sua attività di pensatore: Principi di una Scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni. L’opera, in cinque libri, venne pubblicata per la prima volta nel 1725; ma l’autore continuò a lavorarvi fino agli ultimi giorni della sua vita, rivedendo ed ampliando la stesura originaria. La storia delle nazioni, sostiene Vico, si svolge secondo leggi comuni a tutte ed eguali alle leggi stesse che determinano le modificazioni della mente umana. Come: Gli uomini prima sentono senza avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura.239

così la storia del genere umano si svolge attraverso tre età: degli dèi o del senso, degli eroi o della fantasia, degli uomini o della ragione. La storia, quindi, passa dallo stato ferino a quello civile; ma, compiuto il percorso, torna ad uno stato di rinnovata barbarie per ripercorrere ancora lo stesso cammino, ma con accresciuta consapevolezza ed umanità. Così, attraverso i “corsi e ricorsi”, l’umanità tesse la sua “storia ideale eterna”. Pur essendo questa la parte più nota della Scienza nuova, l’aspetto più importante del pensiero vichiano consiste nell’aver fatto della storia il parametro della conoscenza umana: da ciò il suo storicismo. 237

Giovan Battista Vico, Vita scritta da lui medesimo, cap. 1. Giovan Battista Vico, Poesie, Affetti di un disperato, vv 7-8 e 112-113. 239 Giovan Battista Vico, Principi di Scienza nuova, Libro I, sez. 2, 53. 238

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Il Settecento Mentre il razionalismo allora dominante si basava sulle scienze della natura, Vico avvertì la natura come distaccata dallo spirito umano, come qualcosa che lo spirito umano può descrivere, ma non intendere. Ciò perché la natura è opera di Dio e Dio soltanto può intenderla: si può intendere, infatti soltanto quel che si fa e si crea. L’uomo quindi non può conoscere che ciò che fa, cioè la storia. Da ciò il principio fondamentale del suo storicismo: Verum ipsum factum: vero è proprio ciò che è stato fatto. Deriveranno da questa intuizione non soltanto il culto della storia – che caratterizzerà soprattutto la cultura del secolo XIX – ma anche importanti fondamenti pedagogici. c) L’estetica Intanto, l’aver distinto nella storia dell’umanità i tre momenti del senso, della fantasia e della ragione e l’averli considerati autonomi l’uno dall’altro, portava Vico ad un’altra importantissima intuizione – svolta ampiamente dall’estetica successiva – quella cioè che la poesia è un prodotto della fantasia. Ancora una volta in contrapposizione col razionalismo dominante, Vico rigettava il principio di una poesia che dovesse essere guidata dalla ragione o dovesse trovare nella ragione un freno alla fantasia. Per lui la poesia nasce esclusivamente dalla fantasia, cioè dallo stupore e dalla meraviglia con cui l’umanità fanciulla, uscita dall’età ferina, guarda il mondo che la circonda. Per questo i grandi poeti appartengono sempre a questo particolare passaggio della storia delle nazioni: Omero rappresenta questo momento nella storia greca, Dante lo rappresenta nella storia cristiana. Un poeta, perciò, è tanto più grande, quanto più parla in lui la fantasia e meno la ragione. Lo stesso Dante – sostiene Vico anticipando in un certo senso Croce – se non avesse saputo né di scolastica né di latino, sarebbe riuscito più gran poeta. d) Lo stile e la lingua Vico è sembrato a molti uno scrittore trascurato ed oscuro. Certamente il suo stile è disarmonico, la sua sintassi è spesso anomala, la lingua è arcaica. Tuttavia, leggendo la Scienza nuova, si ha l’impressione di essere di fronte ad una prosa assai personale e vigorosa: e per la incisività delle affermazioni – molte hanno la chiarezza e la precisione delle norme e Vico le chiamò “degnità” – e per la forza delle immagini. Insomma, quel Vico che si compiacque di scrivere anche poesie, raggiunse la vera poesia proprio in alcune pagine della Scienza nuova. Perciò De Sanctis definì quest’opera una specie di Divina Commedia e Tommaseo scrisse: «Dalle metafisiche astrazioni trae immagini vive; raccontando ragiona e ragionando dipinge; e per le cime dei pensieri non passeggia ma vola, onde in un suo periodo sovente è più estro lirico che in odi assai», e) Conclusione La critica recente ha cercato di sfatare l’immagine di un Vico pensatore e scrittore solitario in contrasto col suo tempo ed è andata perciò esplorando i punti di rapporto tra lui e la cultura della sua età. È inutile dire che tali rapporti esistono e sarebbe assurdo pensare il contrario; ma essi non bastano però a negare quanto il pensiero vichiano superi gli atteggiamenti culturali del Settecento e come sia proiettato verso il futuro. Lo conferma il fatto che dopo la morte Vico rimase ignorato e che a riscoprirne il pensiero fu solo il grande movimento culturale dell’Ottocento: il Romanticismo.

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Il Settecento

L’età dell’Illuminismo Se la prima metà del Settecento letterario italiano venne caratterizzata dal programma razionalistico-classicheggiante dell’Arcadia, la seconda parte fu invece influenzata dall’Illuminismo, un vasto movimento di idee che ebbe in Francia ed in Inghilterra i principali centri di diffusione.

Il quadro storico-politico Il lungo periodo di pace che, iniziato con il trattato di Aquisgrana (1748), si estese per quasi tutta la seconda metà del Settecento, favorì una vasta attività di riforme politiche, sociali, economiche nell’ambito di ciascuno Stato. L’assolutismo statale (teorizzato da Hobbes240 e realizzato da Luigi XIV241) andava trasformandosi in un “dispotismo illuminato”242, che, pur lasciando al sovrano ogni potere, lo vedeva però impegnato in una saggia azione di governo a favore dei propri sudditi. Il programma di questo “dispotismo illuminato” poteva infatti riassumersi nella formula «tutto per il popolo, nulla per mezzo del popolo». In tale opera di riformismo i sovrani d’Europa sembrarono gareggiare tra loro: Giuseppe I di Portogallo, Federico Il di Prussia, Caterina II di Russia, Maria Teresa e Giuseppe II d’Austria snellirono le strutture burocratiche dei loro Stati, abolirono i privilegi nobiliari ed ecclesiastici, ammodernarono i sistemi giudiziari e resero meno duri quelli penali, programmarono una nuova politica economica e promossero la diffusione dell’istruzione. Anche in Italia si diffuse il riformismo illuministico. Gli Stati più attivi in tal senso furono la Lombardia, legata all’Austria, dove si attuavano i programmi riformistici di Maria Teresa e di Giuseppe II; il regno di Napoli, retto dell’energico ed attivo Carlo di Borbone243; il granducato di Toscana, che ebbe in Pietro Leopoldo di Lorena un vero sovrano illuminato. Più lentamente sulla strada delle riforme procedettero il Piemonte, legato alla politica militarista ed autoritaria dei Savoia, e la repubblica di Venezia, ben retta dal suo tradizionale governo aristocratico, ma non più potenza militare e quindi condannata ad una progressiva, inarrestabile decadenza. Verso la fine del secolo le riforme si dimostrarono insufficienti ed inadeguate nei confronti dei fermenti innovatori dell’Illuminismo e della consapevolezza dei diritti che quel 240

Thomas Hobbes (1588-1679), filosofo inglese. Con il Leviatano teorizzò il conferimento di tutti i poteri da parte del popolo al sovrano – con relativa assoluta sottomissione – per evitare la guerra di tutti contro tutti. 241 In particolare Luigi XIV accentrò il potere a Parigi ed esautorò la nobiltà portandola a Versailles, tagliandone le radici con le terre di appartenenza e trasformandola in una fatua classe parassitaria, spogliata dei diritti – e soprattutto dei doveri – che le spettavano nel mondo feudale. 242 Notevole influsso in tale cambiamento ebbero la teoria della divisione dei tre poteri sostenuta dal barone di Montesquieu (Lo spirito delle leggi, 1748) e le teorie contrattualistiche intorno all’origine dello Stato di Jean-Jacques Rousseau (Il contratto sociale, 1762). 243 Re dal 1734 con il nome di Carlo VII. Nel 1759 diverrà re di Spagna con il nome di Carlo III.

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Il Settecento movimento aveva determinato negli uomini. E proprio là dove maggiore era stata la propaganda delle nuove idee e minori erano state le riforme – cioè in Francia – scoppiò il più grande moto popolare della storia: la Rivoluzione Francese. Fu un avvenimento di tale portata che coinvolse tutta l’Europa: non solo per il propagarsi delle idee nuove, ma per i conflitti che ora si determinarono tra la Francia repubblicana e le monarchie d’Europa. Anche in queste guerre l’Italia venne coinvolta, diventando terreno di conquista per le armate giacobine guidate da Napoleone Bonaparte.

Le tesi illuministiche A base dell’Illuminismo c’era una grande fede nella ragione umana: il nome stesso del movimento derivava dall’espressione “i lumi della ragione”, espressione allora assai frequente. A determinare tanta fiducia nella ragione erano state non soltanto le correnti del pensiero filosofico – il razionalismo francese e l’empirismo inglese – ma anche quelle nuove scienze della natura che, postulate dal pensiero del Rinascimento, avevano trovato in Galileo Galilei il loro più illustre sostenitore. Si esaltava il pensiero umano, mentre la morale ed il diritto, considerati sue emanazioni, perdevano il loro valore di rivelazione divina. Entrava perciò in crisi la religione tradizionale, che veniva ora considerata come un ostacolo all’affermazione del pensiero. Se si ammetteva l’esistenza di Dio, era solo per porre un’ipotesi metafisica dell’esistenza e dell’ordine dell’universo (deismo). E non solo la religione entrava in crisi, ma anche il concetto stesso dello Stato: si riteneva infatti che esso, non di origine divina, ma creato dall’uomo stesso su basi contrattuali per regolare la convivenza umana, avesse finito nel corso dei secoli per privare l’uomo della sua libertà e della sua originaria perfezione. Per questo gli illuministi erano antistoricisti: guardavano cioè alla storia come ad una serie ininterrotta di errori, di soprusi, di autolimitazioni; ed auspicavano – ecco il loro ottimismo – il ritorno alla libertà ed alla perfezione originale, una volta distrutti, con i lumi della ragione, tutti gli impedimenti e le deviazioni determinati dal passato. Da tali premesse filosofiche nasceva una grande ansia di rinnovamento in tutti i campi. La propaganda sosteneva che bisognasse distruggere o mutare tutto quanto il presente non poteva più accettare dal passato: le superstizioni, i vecchi sistemi di governo, i metodi disumani nell’amministrazione della giustizia, i privilegi feudali ed ecclesiastici, l’arretratezza sociale, le disfunzioni amministrative; ed anche – sempre per un recupero di razionalità – le regole letterarie e i modelli linguistici. Era così che l’Illuminismo determinava un vasto fermento di idee innovatrici: nella scienza politica come in quella economica, nei sistemi di amministrazione della giustizia come nella lotta ai pregiudizi e ai privilegi, nella diffusione della cultura come nella volgarizzazione della scienza, nello svecchiamento della letteratura come nell’ammodernamento della lingua.

L’Illuminismo in Italia Tra il 1758 ed il 1778 l’Enciclopedia francese, che era l’organo più importante della cultura illuministica alla cui compilazione avevano collaborato Diderot e D’Alambert,

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Il Settecento venne tradotta e pubblicata per ben due volte in Italia. L’Illuminismo si diffondeva così tra noi, determinando un vasto movimento culturale che, anche senza condividere a fondo le tesi filosofiche dei pensatori d’oltralpe – mai, infatti, assunse carattere antireligioso – si ispirò all’esigenza di un radicale rinnovamento della vita civile e delle lettere. Diventò di moda la filosofia, ma una filosofia pratica il cui scopo fu, come allora si disse, “la felicità di tutto il genere umano”. Perciò essa si rivolse soprattutto allo studio di situazioni politiche, sociali, economiche; perciò i suoi cultori, non più rappresentanti il tipo del “filosofo” tradizionale immerso in solitarie ed astratte meditazioni, furono pensatori-letterati aperti alla vita ed ai suoi problemi contingenti, coscienti di assolvere non soltanto una ricerca scientifica, ma una specie di illuminazione collettiva e di sacerdozio. Scriveva, infatti, Filangieri nella sua Scienza della legislazione: Finché i mali che affliggono l’umanità non saranno guariti, finché gli errori e i pregiudizi, che li perpetuano, troveranno dei partigiani, finché la verità, conosciuta da pochi uomini privilegiati, sarà nascosta alla più gran parte del genere umano, finché apparirà lontana dai troni, il dovere del filosofo è di predicarla, di sostenerla, di promuoverla, di illustrarla.

Anche l’attività scientifica ebbe lo stesso carattere pratico e sociale, non subordinato alla morale ed alla religione e con particolare attenzione al problema della propria diffusione.

La diffusione della cultura: saggi e giornali Se pratica e sociale era la funzione della filosofia e della scienza, nasceva, di conseguenza, l’esigenza di divulgarne il pensiero e di diffonderne la conoscenza: finalità raggiunta dall’Illuminismo soltanto nella misura in cui era possibile in un tempo nel quale gli influssi culturali non andavano al di là della borghesia, per giunta non ancora consistente. Nascevano perciò nuovi moduli comunicativi del pensiero (nuovi generi letterari e concezioni editoriali) che, essendo meno impegnativi, anche sotto il profilo economico, e più agili e vivaci, potevano raggiungere un maggior numero di lettori. Scriveva Voltaire: «Venti volumi in folio non faranno mai una rivoluzione: sono i piccoli tascabili da trenta soldi quelli di cui si deve aver paura. Se il Vangelo fosse costato milleduecento sesterzi, la religione cristiana non avrebbe trionfato». I trattati ponderosi ed in più volumi lasciavano perciò il posto ai saggi, pubblicazioni brevi, scritte in uno stile più agevole e spigliato e non preoccupato della bella forma – si pensi al carattere strumentale che ora assumeva la letteratura: come di mezzo, cioè, per diffondere le conquiste del pensiero. Nascevano anche, o meglio si diffondevano, i giornali. Tra i primi fortunati esempi di attività giornalistica in Italia si distinse il Giornale dei letterati italiani, fondato e diretto da SCIPIONE MAFFEI e APOSTOLO ZENO, pubblicato con buoni risultati tra il 1710 e il 1740244. Ora i giornali nascono con una certa frequenza – anche se hanno spesso vita breve e resa difficile da ostilità e ristrettezze economiche – e 244

Tra i precedenti “giornalistici”, oltre alla Bibliotheca o Myrobiblion di Fozio (IX secolo) e ad alcuni esempi cinquecenteschi (dalle Lettere dell’Aretino alle Librerie di Doni, dai Catalogi Librorum dei librai italiani ai Ragguagli di Parnaso), la prima vera e propria pubblicazione pèeriodica fu il Giornale dei letterati di Roma dell’abate FRANCESCO NAZARI (1668-81).

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Il Settecento si aprono a problematiche più vaste: dalle discussioni letterarie e linguistiche ai quadri di costume, dalle questioni giuridiche a quelle sociali e politiche. Il periodico più rappresentativo di una tale concezione giornalistica fu Il caffè. Fondato a Milano da PIETRO VERRI in collaborazione col fratello ALESSANDRO e con altri amici appartenenti all’Accademia dei Pugni – anch’essa da lui fondata – si pubblicò tre volte al mese tra il 1764 ed il 1766. Programma del giornale fu quello di combattere i pregiudizi, le assurde regole letterarie, i vincoli e i modelli che immiserivano la nostra lingua: e tale programma attuò in forma vivace, polemica, coraggiosa, anche se non priva di inaccettabili esagerazioni. La Frusta letteraria, fondata e scritta quasi esclusivamente da GIUSEPPE BARETTI a Venezia tra il 1763 ed il 1765, ebbe invece carattere più specificamente letterario, col proposito polemico di combattere il cattivo costume delle lettere italiane, monotonamente ferme al classicismo ed al boccaccismo. Per questa sua intransigente posizione critica la Frusta fu aspramente avversata e quindi costretta a sospendere le pubblicazioni. Carattere diverso ebbero la Gazzetta veneta (1760-61) e l’Osservatore veneto (176162), fondati e pubblicati a Venezia da GASPARO GOZZI. Vi si stampava di tutto: cronache, aneddoti curiosi, novelle, recensioni bibliografiche e teatrali, finanche annunzi commerciali. Quel che mancava in essi era una presa di posizione ideologica, fatto dovuto all’atteggiamento mentale del Gozzi, che era uno scrittore cauto, moderato ed indulgente verso la tradizione.

I centri dell’illuminismo italiano I centri più attivi dell’Illuminismo italiano furono Napoli e Milano – dove le riforme illuminate compiute da quei sovrani avevano determinato un ambiente predisposto alla sua diffusione – ed in qualche misura anche Venezia – dove le questioni giurisdizionalistiche (si ricordi Sarpi) avevano operato una certa rottura di posizioni conservatrici; non la Toscana, invece, e neanche Roma: legata, la prima, ad una sua irrinunciabile tradizione letteraria; la seconda, perché sede dello Stato Pontificio e dell’Arcadia245. a) L’Illuminismo napoletano L’Illuminismo napoletano, se da una parte appare come un movimento di idee innovatrici atto a collaborare, sul piano dottrinario, con le riforme intraprese dal governo, d’altra parte, svolgendo la sua indagine su problemi ed aspetti della vita civile e politica, è anche documento dello stato di arretratezza in cui ancora, nonostante le riforme stesse, versavano le masse. Il più illustre degli illuministi napoletani fu l’abate ANTONIO GENOVESI (Castiglione di Salerno 1712 - Napoli 1769), primo insegnante di economia politica nella cattedra isti245

Durante i drammatici avvenimenti dell’invasione giacobina, l’Arcadia generalmente costituì un argine all’affermarsi delle nuove idee all’interno dei ceti intellettuali. Cfr Edoardo Spagnolo, L’Arcadia reale e il 1799. Un’accademia letteraria alla riconquista del Regno di Napoli, Edizioni Nazione Napoletana, Napoli, 2000.

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Il Settecento tuita nel 1754 nell’Università di Napoli (dopo esserlo stato di metafisica). La sua fama, infatti, è affidata soprattutto alle sue Lezioni di commercio ossia di economia civile, frutto dell’insegnamento universitario. Qui l’autore sostiene che il benessere ed il progresso delle nazioni sono frutto soprattutto dell’attività agricola, ma che ad essi contribuiscono anche l’attività commerciale e quella industriale; combatte quindi i privilegi feudali ed ecclesiastici come causa dello stato di arretratezza delle masse e deplora la divisione politica d’Italia quale ragione fondamentale della sua decadenza economica. Oltre che di economia, GAETANO FILANGIERI (Napoli 1752 - Vico Equense, Napoli 1788) si occupò di problemi politici e sociali. La sua Scienza della legislazione (17801791), sebbene incompiuta, è una delle opere più rappresentative dell’Illuminismo italiano e forse europeo: vi si esprime il caratteristico ottimismo dell’Illuminismo sul progresso della vita civile per effetto di una legislazione razionale ed illuminata e di una saggia istruzione affidata allo Stato. Illustre, oltre che per i suoi scritti, anche per essere stato uno dei capi della sanguinaria Repubblica Napoletana 246, fu l’avvocato FRANCESCO MARIO PAGANO (Brienza in Basilicata 1748 - Napoli 1799). Autore di alcuni drammi storici (Gerbino, Agamennone, Corradino) e delle Considerazioni sul processo criminale, tradotte in molte lingue, va ricordato soprattutto per i suoi Saggi politici dei principi, progressi e decadenza della società (prima edizione 1783-85, seconda 1791-92), nei quali è evidente l’influenza del Vico. Un posto a parte tra gli illuministi napoletani spetta a FERDINANDO GALIANI (Chieti 1728 - Napoli 1787), un uomo a metà tra lo scrittore galante e il pensatore illuminista. Viaggiò molto e scrisse di tutto: di economia, di finanze, di diritto internazionale, di teatro; ed in tutto dimostrò acume critico, autonomia di giudizio – non si allineò mai completamente con le posizioni illuministiche – nonché estro e vivacità espressiva. Di lui si ricordano soprattutto il saggio Della moneta (1751) ed il dramma satirico Il Socrate immaginario (1775). Le Lettere che ha lasciato costituiscono inoltre una miniera di notizie bizzarre ed interessanti sulla sua vita e i suoi tempi. b) L’Illuminismo lombardo Con l’Illuminismo Milano e la Lombardia occupano un’importante posizione di centro culturale-letterario che conserveranno nel secolo seguente col Romanticismo e le correnti post-romantiche. Raccolti per la maggior parte intorno al giornale Il caffè e alla Società dei Pugni, gli illuministi lombardi furono meno dottrinari e più spregiudicati e polemici a confronto di quelli napoletani – lo stesso nome dato alla loro Società è un programma di rivolta e di battaglia – e volsero la loro attenzione, oltre che alle questioni civili, anche a quelle letterarie: cioè di stile e di lingua.

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La repubblica giacobina costò – per la sola instaurazione – dai cinque ai diecimila morti (i cosiddetti “lazzari” che si opposero all’ingresso delle truppe francesi) e comminò nel corso di meno di sei mesi di vita, oltre 1.500 condanne a morte. Stranamente della sua sanguinaria storia vengono ricordati soltanto i 99 cosiddetti “martiri”, cioè i capi giacobini che, accusati di tradimento al ritorno del Re, vennero giustiziati.

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Il Settecento Proprio perché Il Caffè fu il centro ideale di questo gruppo, è bene iniziare il discorso da PIETRO VERRI (Milano 1728-1797) che ne fu non solo fondatore e direttore, ma forse il redattore più geniale e battagliero. Proprio su Il Caffè pubblicò vivaci e polemici articoli contro il costume letterario italiano tutto Arcadia e Crusca. Importante, in quanto testimonia l’adesione del Verri alle tesi del sensismo247, è il suo Discorso sull’indole del piacere e del dolore (1773). Qui l’autore, dopo aver sostenuto che il piacere nasce sempre dalla cessazione del dolore, «principio motore di tutto l’uman genere»248, afferma che a liberare l’uomo dal dolore è solo l’arte, per il diletto, sia pure momentaneo, che produce. Né soltanto letterari furono gli interessi di Pietro Verri, che, scrittore instancabile e versatile, si occupò anche di economia politica (Meditazioni sull’economia politica, 1771), di storia (Storia di Milano, 1783), di diritto commerciale (Sulle leggi vincolanti il commercio dei grani). Nei suoi scritti, condotti forse con poco ordine e molta fretta, traspare sempre l’interesse per il bene pubblico, quello stesso interesse che lo guidò nelle importanti cariche ricoperte a Milano. Fratello di Pietro, ALESSANDRO VERRI (Milano 1741 - Roma 1816) fu anch’egli tra i collaboratori de Il Caffè. Suo fu l’articolo, divenuto famoso, nel quale, in nome di una lingua più libera e viva, muoveva guerra al vocabolario della Crusca: Cum sit, che gli autori del Caffè siano estremamente portati a preferire le idee alle parole, ed essendo inimicissimi d’ogni laccio ingiusto che imporre si voglia all’onesta libertà de’ loro pensieri e della ragion loro, perciò sono venuti in parere di fare nelle forme solenne rinunzia alla pretesa purezza della toscana favella, e ciò per le seguenti ragioni. Perché se Petrarca, se Dante, se Bocaccio [sic], se Casa e gli altri testi di lingua hanno avuta la facoltà d’inventar parole nuove e buone, così pretendiamo che tale libertà convenga ancora a noi; […] Perché, sino a che non sarà dimostrato che una lingua sia giunta all’ultima sua perfezione, ella è un’ingiusta schiavitù il pretendere che non s’osi arricchirla e migliorarla. Perché nessuna legge ci obbliga a venerare gli oracoli della Crusca ed a scrivere o parlare soltanto con quelle parole che si stimò bene di racchiudervi. Perché se italianizzando le parole francesi, tedesche, inglesi, turche, greche, arabe, sclavone noi potremo rendere meglio le nostre idee, non ci asterremo di farlo per timore o del Casa o del Crescinbeni o del Villani o di tant’altri, che non hanno mai pensato di erigersi in tiranni delle menti del decimo ottavo secolo e che risorgendo sarebbero stupitissimi in ritrovarsi tanto celebri […]. Consideriamo ch’ella è cosa ragionevole che le parole servano alle idee, ma non le idee alle parole, onde noi vogliamo prendere il buono quand’anche fosse ai confini dell’Universo, e se dall’inda o dall’americana lingua ci si fornisse qualche vocabolo ch’esprimesse un’idea

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Il sensismo è una corrente filosofica il cui maggior esponente fu il filosofo e sacerdote francese ÉTIENNE BONNOT DE CONDILLAC (1715-1780). Secondo tale corrente lo spirito umano è facoltà di ricevere sensazioni, quindi “sensibilità”. Importanti le implicazioni estetiche del sensismo: l’arte, respingendo ogni elemento razionalistico ed ogni finalità didattica, deve far proprio il solo fine di provocare nell’uomo sensazioni di piacere. 248 Pietro Verri, Del piacere e del dolore, cap. 11.

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Il Settecento nostra, meglio che colla lingua italiana, noi lo adopereremo, sempre però con quel giudizio, che non muta a capriccio la lingua, ma l’arricchisce e la fa migliorare.249

Questa lunga citazione non è un omaggio ad Alessandro Verri o alla sua prosa: vale a documentare un aspetto che fu non soltanto suo e non solo de Il Caffè, ma della cultura illuministica italiana: il rifiuto di una lingua ferma a modelli letterari e remoti, la consapevolezza che la lingua serve ad esprimere le idee e le cose, la rinunzia alla stessa purità della lingua se tale rinunzia può servire ad una maggiore espressività e ad una maggiore chiarezza. Più tardi però Alessandro Verri rinnegò queste posizioni; disse che scrivere in tal modo significava «non conoscere i fondamenti e saltare sui tetti»; ripiegò sui classici componendo in uno stile elaborato ed in una lingua attenta ai modelli le Notti romane al sepolcro degli Scipioni250: un libro a metà tra il romanzo storico e la monografia archeologica, non privo di una certa sensibilità preromantica e di una certa atmosfera macabra. Anche CESARE BECCARIA (Milano 1738-1794) fu tra i fondatori ed i collaboratori de Il Caffè ed anch’egli come Pietro Verri risentì le influenze del sensismo, come dimostrano le sue Ricerche intorno alla natura dello stile (1770). Ma l’opera alla quale è affidato il suo nome è il saggio Dei delitti e delle pene (1764), che ebbe presto risonanza internazionale. Nello spirito del rinnovamento della vita civile legato all’Illuminismo, Beccaria auspicava un’integrale riforma del sistema penale che comportasse l’abolizione della pena di morte e della tortura, in quanto esse offendono non solo la dignità ma la natura stessa dell’uomo né giovano alla causa della giustizia251.

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Il Caffè, n. 1 (1764), Rinunzia avanti notaio degli autori del presente foglio periodico al Vocabolario della Crusca di Alessandro Verri. 250 La prima parte uscì nel 1792, la seconda nel 1804, la terza solo nel 1967. 251 A Beccaria rispose idealmente il conte Joseph de Maistre (cfr nota 386) con il suo “elogio del boia” contenuto nelle Serate di Pietroburgo (1821).

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La letteratura dell’Illuminismo Raramente negli scrittori-pensatori di cui abbiamo parlato si incontrano pagine di letteratura: le loro opere devono considerarsi documentarie dell’impegno di rinnovamento – civile, letterario, linguistico – nello spirito dell’Illuminismo. Ora vedremo invece scrittori che, pur muovendosi nella temperie illuministica, non solo ne accettano con molta libertà ed autonomia di atteggiamento le premesse, che peraltro cercano armonizzare con la tradizione, ma non rinunciano quasi mai alla suggestione della “bella pagina”, cioè ad interessi fondamentalmente letterari.

Francesco Algarotti Francesco Algarotti (Venezia 1712 - Pisa 1764) viaggiò molto attraverso l’Europa con lo spirito proprio dei grandi viaggiatori del Settecento: cioè con l’esigenza di uscire dall’ambiente culturale italiano e di venire a contatto con le grandi correnti di cultura europee. Fu perciò in Inghilterra, in Francia, in Germania, in Russia, stringendo amicizia con Voltaire, Federico II di Prussia, Augusto III di Sassonia. Dalla sua visita nelle terre degli zar furono ispirate le lettere dei Viaggi di Russia, ricche non solo di importanti notizie, ma anche di attente considerazioni politiche; com’è quando, parlando degli Stati che potrebbero dar fastidio alla Russia, esprime questo giudizio sulla fragile situazione della Polonia del suo tempo: Della Polonia non parlo, la quale risponde verso il ponente della Russia. Un paese che non ha milizia, non ha piazze, nel cui governo ci vuole la unanimità di tutta la dieta per fare una legge, e una sola proposizione, qualunque siasi, che non passi, scioglie una dieta per altro unanime nel rimanente; un tal paese è, come era altre volte l’America, conquista e preda di chiunque l’assalta.

Di cultura vasta, anche se non profonda, e disposto con passione anche agli studi scientifici, Algarotti volle dare una volgarizzazione delle scoperte di Newton – dimostrando così di condividere gli interessi divulgativi dell’Illuminismo – componendo il Newtonianismo per le dame (1737): un esempio di chiara ed efficace prosa scientifica. Qui, come in tutti gli altri suoi scritti, Algarotti, pur ispirandosi a contenuti validi e nuovi, è sempre attento allo stile, che vuole brillante ed elegante.

Saverio Bettinelli Carattere complesso e contraddittorio ebbe Saverio Bettinelli (Mantova 1718-1808). Fu infatti gesuita e viaggiatore galante, arcade e volterriano, classicista e illuminista. Eppure, tra tanti contrastanti aspetti della sua personalità, un atteggiamento fu in lui costante: il gusto della polemica spinta fino al paradosso, che era anche un modo con cui provocare scandalistica attenzione. Quando, infatti, pubblicò le Lettere dieci di Virgilio agli Ar-

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Il Settecento cadi (1758) – più comunemente dette Lettere virgiliane – suscitò una tale polemica da essere per anni al centro dell’attenzione della vita letteraria italiana. Con una finzione letteraria che ricorda i Ragguagli di Parnaso del Boccalini e con una durezza di giudizi che ricorda invece il Tassoni, Bettinelli immagina che Virgilio scriva agli arcadi una serie di lettere per lagnarsi del fatto di essere stato preso da Dante per guida nel suo viaggio ultraterreno. Il succo di quelle lettere è che la Commedia di Dante, fatta eccezione per pochi episodi – ad esempio: quelli di Francesca e del conte Ugolino – è «un caos di confusione […], un imbroglio non definibile, […] [un] poema tessuto di prediche, di dialoghi, di quistioni […]. Quattordicimila versi di tai sermoni, chi può leggerli senza svenir d’affanno o di sonno»252. Quanto siano esagerati ed errati simili giudizi è inutile dire: comunque essi rientravano in un atteggiamento dissacratorio, che era anch’esso di marca illuministica. A tale atteggiamento si atteneva Bettinelli, non solo nelle citate Lettere virgiliane, ma anche nelle successive Lettere inglesi, nelle quali coinvolgeva in un comune, negativo giudizio quasi tutta la letteratura italiana, che diceva malata di tradizionalismo e di accademismo. Il fatto è che Bettinelli, mentre dell’Illuminismo riprendeva l’atteggiamento dissacratorio con una furia addirittura iconoclastica, non sempre era coerente nei giudizi: non sempre cioè combatteva la letteratura accademica, né sempre esaltava quella nuova ed antitradizionalista: e così esaltava l’Aminta del Tasso – di cui diceva che Atene e Roma avrebbero voluto averne una pari – e non capiva le novità del Goldoni; esaltava Frugoni e non apprezzava la tragedia dell’Alfieri.

Gasparo Gozzi A difendere Dante dalle accuse mossegli dal Bettinelli si fece avanti Gasparo Gozzi (Venezia 1713 - Padova 1786), di famiglia aristocratica ma vissuto in problematiche condizioni economiche. Di temperamento cauto, riflessivo, malinconico, egli sembrò impersonare alla perfezione la cultura di quella Venezia timidamente disposta alle innovazioni, nella quale alla modernità delle tesi giurisdizionalistiche si contrapponeva un’attenta censura sugli scritti letterari e dove la presenza di un forte ordine borghese era bilanciata da un governo nelle mani dell’aristocrazia. La sua Difesa di Dante (1758) – o più precisamente: Giudizio degli antichi poeti sopra la moderna censura di Dante – nacque più da un impegno morale (era infatti un uomo sinceramente onesto) che dal gusto della polemica. L’autore immagina che lo scrittore del Cinquecento Anton Francesco Doni scriva delle lettere dai campi Elisi ad un editore veneziano vantando tutte le doti di Dante e del suo poema; in fondo, la difesa di Gozzi è condotta più su basi sentimentali che su basi critiche: non è tanto l’apologia di Dante che gli è a cuore quanto quella della parte migliore della nostra tradizione culturale e letteraria. Letterato di professione e scrittore anche per esigenze economiche, Gasparo Gozzi trattò vari generi, in prosa ed in versi, sempre fedele alla sua vocazione e al suo impegno di moralista. Infatti, il costante riferimento delle sue favole esopiane, dei suoi Sermoni in versi sciolti (1763), dei suoi articoli di giornale – si ricordi che fondò e diresse prima la Gazzetta veneta, poi l’Osservatore veneto – è un 252

Saverio Bettinelli, Lettere virgiliane, lett. 2.

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Il Settecento moralismo arguto ma non privo di bonarietà e comprensione, un’accettazione malinconica della società e del mondo così come purtroppo sono. Scrisse in modo vivace e pur sempre attento all’eleganza formale: tuttavia era tale il suo decoro di letterato, che spesso lamentò il fatto di dover scrivere in fretta sotto l’urgenza di necessità pratiche.

Giuseppe Baretti Il più grande critico di questa età fu senz’altro Giuseppe Baretti (Torino 1719 - Londra 1789). Per avere un’idea della sua critica bisogna pensare all’uomo, qual egli stesso confessa di essere: un amator miracoloso degli amici, anzi un uomo fatto apposta per amar la gente dotta e dabbene; un uomo collerico, che per poco va in bestia e mette mano alla spada; […] piacevole e pieghevolissimo con le donne, senza complimenti e cerimonie con gli uomini; di poche lettere, ma che sa quel che cinguetta; disprezzator dei tristi e degli ignoranti, quantunque siano grandi, e tanto mordace, satirico e severo con quelli, quanto sincero e cordiale e generoso quanto può con quei che tristi ed ignoranti non sono.

Viaggiò molto per tutt’Europa, incappando anche in disavventure – uccise un uomo per legittima difesa, fu processato e quindi assolto. Dei suoi viaggi rimane traccia nelle Lettere familiari a’ suoi tre fratelli (1762), nelle quali, con una prosa vivace di tipo giornalistico, ci ha lasciato sagge e profonde considerazioni, come quelle sul folclore portoghese e spagnolo. Ma la sua opera principale, quella nella quale svolse la sua attività di critico letterario, è la Frusta letteraria (1763-5), un periodico scritto unicamente da lui con lo pseudonimo di Aristarco Scannabue. Tanto il titolo del giornale quanto lo pseudonimo dell’autore ben significavano il carattere di critica violenta che si intendeva svolgere: soprattutto contro il costume letterario dell’Arcadia e contro le pretese linguistiche del boccaccismo e della Crusca. E fin qui il programma critico era lineare e coerente con le premesse illuministiche; ma i singoli giudizi appaiono spesso contraddittori e contrari all’impostazione critica generale. Così Baretti critica l’Arcadia, “letteraria fanciullaggine”, ma esalta il “sublimissimo” Metastasio; fa guerra al Verri e al Goldoni ed elogia invece Carlo Gozzi e Passeroni253. La ragione di tali contraddizioni era nel fatto che i suoi giudizi, più che obbedire ad una salda impostazione critica, obbedivano all’estro dell’uomo, alle sue immediate impressioni, alle sue personali simpatie. Tuttavia essi non mancano di felici intuizioni – come la scoperta di Cellini –, di indipendenza di giudizio, di chiarezza, incisività, robustezza polemica.

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GIAN CARLO PASSERONI (1713-1803), autore del Cicerone, poema in 101 canti pieno di digressioni sulla vita dell’oratore romano. Nel lodare Passeroni, Baretti era peraltro in buona compagnia: Rousseau, Sterne e Manzoni.

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Melchiorre Cesarotti e la questione della lingua Si è venuto fin qui delineando – con Il Caffè, i Verri, Algarotti, Baretti – l’atteggiamento della cultura illuministica a proposito della questione della lingua. Costanti di tale atteggiamento erano l’insofferenza del vocabolario della Crusca, con le sue regole e le sue restrizioni, e l’esigenza di un ampliamento ed ammodernamento del lessico. Naturalmente, nella foga della polemica era facile cadere in esagerazioni: come avvenne da parte dei collaboratori de Il Caffè, disposti ad accettare qualsiasi vocabolo, senza discernimento alcuno, italiano o straniero che fosse. Costoro dovevano certamente apparire “barbari” ai puristi o conservatori; a loro volta questi “barbari” definivano “pedanti” i loro avversari. Alla controversia parteciparono non soltanto scrittori isolati, ma intere accademie – i Pugni, i Granelleschi, i Trasformati – con una massa enorme di lettere, saggi, articoli di giornali. Il letterato che portò un valido contributo a questa questione delta lingua, giungendo a delle conclusioni temperate ed organiche, fu MELCHIORRE CESAROTTI (Padova 17301808). Uomo di vasta cultura – era conoscitore dell’ebraico e del greco e tradusse Omero – aveva una disposizione mentale pronta a centrare l’essenza dei problemi e ad organizzarli in logiche ed armoniche visioni di insieme. Inoltre, il suo carattere meditativo lo teneva lontano dagli eccessi della polemica e dall’assunzione di posizioni radicali. Subito egli intese che il problema della lingua era un problema che non poteva andare risolto né con un “aumento precario dei vocaboli”, come volevano i moderati, né con la scioperata rinuncia di ogni norma, come volevano i più accesi innovatori; si trattava, invece, come scrisse in una Lettera, di: togliere la lingua al despotismo dell’autorità e ai capricci della moda e dell’uso, per metterla sotto il governo legittimo della ragione e del gusto.

Contro il “libertinaggio” ed il “rigorismo” egli si dichiarava così per una libertà ragionevole, per una lingua «lontana dalle stravaganze, regolata dal gusto, autorizzata dalla ragione». Questa la tesi di fondo del suo Saggio sopra la lingua italiana, ripubblicato poi col titolo di Saggio sulla filosofia delle lingue (1785); nel quale non mancano però altre interessanti intuizioni: nessuna lingua è superiore alle altre; ogni lingua nasce rozza e sobria e diviene poi col tempo sempre più precisa; la lingua scritta è diversa dalla parlata. Spetta ancora al Cesarotti il merito di aver tradotto e fatto conoscere i poemi del così detto Ossian254, che, come vedremo, ispireranno una vena della letteratura, quella lugubre e sepolcrale, tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento.

254

Immaginario bardo che sarebbe stato tradotto dal poeta scozzese James Macpherson. La prima edizione italiana risale al 1763, appena un anno dalla pubblicazione dell’opera di Macpherson.

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Carlo Goldoni Nella temperie dell’Illuminismo si inquadra anche l’attività letteraria del Goldoni. Se, infatti, l’aspetto tecnico della sua riforma della commedia può mettersi in connessione con il recupero letterario operato dall’Arcadia, la sostanza di quella riforma, col suo senso del reale, è in rapporto col grande fermento di pensiero del secondo Settecento.

La vita Sulla sua vita lo stesso Goldoni ci ha lasciato ricchezza di notizie con i suoi Mémoires, scritti in Francia ed in lingua francese all’età di quasi ottant’anni. Nato a Venezia da famiglia borghese nel 1707, sentì sin da fanciullo l’attrazione per il teatro. Racconta che a quattro anni trovava «delizioso divertimento» assistere al teatro delle marionette; che a otto anni, lette tutte le commedie della biblioteca domestica, ebbe «la temerità di abbozzare una commedia»; che a tredici anni sostenne una parte da donna in una commedia rappresentata a Perugia; che, in collegio a Rimini, fatta conoscenza con una compagnia di comici, se ne fuggì sulla loro barca per tornare a Venezia. Tuttavia il padre volle che studiasse diritto: e così, dopo varie disavventure occorsegli tra Pavia, Udine, Modena, si laureò finalmente in giurisprudenza nella città di Padova. Tornò quindi a Venezia per esercitarvi l’avvocatura, mai dimenticando però il teatro, anzi alternando l’attività professionale – per la verità mai soddisfacente e fortunata – con la composizione di tragedie e commedie: scrisse l’Amalasunta, una tragedia per musica; il Belisario, una tragicommedia; quindi il Mòmolo cortesàn, la sua prima commedia (in parte a soggetto e in parte scritta). Nel 1748 la sua vita ebbe una svolta importante: rappresentata con successo una nuova commedia, I due gemelli veneziani, ebbe la proposta di un contratto di lavoro dal capocomico Medebach, allora impegnato al teatro S. Angelo a Venezia; il Goldoni accettò e, lasciata definitivamente l’avvocatura, si diede unicamente al teatro, facendo di esso la sua attività professionale. Iniziò così un periodo di feconda attività letteraria: basti pensare che in cinque anni dovette scrivere quaranta commedie (di cui diciassette furono composte nella sola stagione teatrale del 1750-51). Nel 1752, scaduto l’impegno col Medebach, Goldoni non lo rinnovò, passando al teatro San Luca, di cui era proprietario e gestore il nobile Vendramin, e rimanendovi fino al 1762. In quell’anno – stanco delle polemiche, divenute sempre più violente, che gli erano mosse da concorrenti come Pietro Chiari (che lo aveva sostituito al S. Angelo) o da letterati come Carlo Gozzi – decise di accettar l’invito di recarsi a Parigi per lavorare alla “Comédie italienne”, celebre teatro nel quale venivano rappresentate quasi esclusivamente commedie dell’arte. A Parigi a quest’incarico se ne aggiunse un altro: quello di insegnante di italiano alle principesse reali. Per questo gli venne assegnata una pensione, toltagli dalla Rivoluzione, ma che l’Assemblea costituente, su proposta del poeta Chénier, gli restituì: ma Goldoni non poté valersene, perché morì – di morte naturale, nonostante fosse il 1793, l’anno del Terrore – proprio il giorno precedente a quello del provvedimento legislativo.

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La riforma della commedia a) Il programma La commedia dell’arte dominava le scene del teatro comico italiano; manifestava tutti i segni di decadenza di un genere che aveva esaurito il suo estro – le trame oramai rancide o troppo complicate, le oscenità verbali, i lazzi sconci – ma era ancora la delizia delle platee. Non soddisfaceva però i letterati, che vedevano in essa avvilito e sacrificato il valore letterario della parola e perciò sognavano la restaurazione della commedia classica e regolare, del resto mai del tutto morta, però relegata nelle accademie. Goldoni non era un letterato nel significato tecnico o usuale del termine; aveva letto pochi autori e quasi esclusivamente di teatro: Plauto, Terenzio, La Mandragola di Machiavelli, Molière; ma aveva una tale passione per il teatro da non potersi contentare di una commedia che vedeva diventare sempre più sciatta, più monotona, più lubrica. Ecco che cosa egli pensava di una tale commedia: Non correvano sulle pubbliche scene se non sconce arlecchinate, laidi e scandalosi amoreggiamenti, e motteggi; favole mal inventate e peggio condotte, senza costume, senza ordine, le quali, anziché correggere il vizio, come pur è primario, antico e più nobile oggetto della commedia, lo fomentavano, e riscuotendo le risa dall’ignorante plebe, dalla gioventù scapestrata, e dalle genti più scostumate, noia poi facevano ed ira alle persone dotte e dabbene.

Senso dell’arte e senso morale, quindi, erano alla base della riforma goldoniana della commedia. E ciò comportava essenzialmente due cose: che la commedia venisse tutta scritta dal suo autore, perché niente più fosse affidato all’arbitrio, alla licenza ed alle intemperanze degli attori; e che la comicità nascesse non dagli strani e macchinosi casi dell’intreccio, ma dal gioco dei caratteri, perché – come l’autore faceva dire da un suo personaggio ne Il teatro comico: La commedia l’è stada inventada per corregger i vizi e metter in ridicolo i cattivi costumi; e quando le commedie dai antichi se faceva così, tutto el popolo decideva, perché, vedendo la copia d’un carattere in scena, ognun trovava, o in se stesso o in qualchedun’altro l’original.255

Ora, questo volere una “commedia di carattere” doveva portare per logica conseguenza all’eliminazione delle maschere, giacché quelle rappresentavano dei caratteri astratti, tipi emblematici privi di quella varietà infinita che caratterizza gli aspetti dell’animo umano. Una commedia così concepita – tutta scritta e priva di maschere – correva il rischio di riallacciarsi alla commedia classica e regolare. Ma il Goldoni confessava subito due cose assai importanti: che i suoi modelli erano esclusivamente il Mondo ed il Teatro – intesi come esperienza di vita teatrale, non come modelli letterari; e che egli non avrebbe mai sacrificato una commedia che sarebbe potuta essere buona a preconcetti, regole e modelli che avrebbero potuto renderla cattiva.

255

Carlo Goldoni, Il teatro comico, Atto III, sc. 1.

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Il Settecento b) Le fasi La riforma della commedia fu una battaglia che Goldoni dovette affrontare due volte: a Venezia, naturalmente, e poi a Parigi, quando dovette iniziare daccapo col persuadere i Parigini di quanto aveva già persuaso i Veneziani. E fu una battaglia dura, perché combattuta contemporaneamente su più fronti: contro i gusti di un pubblico affezionato alla vecchia commedia, contro le pretese degli attori abituati ai vecchi repertori, contro gli interessi di “cassetta” degli imprenditori; ed anche contro quanti scoprivano nella sua commedia pericolosi atteggiamenti ideologici. Naturalmente il fronte che più impegnava il Goldoni era quello del pubblico: un autore di teatro scrive per un pubblico immediato; ha bisogno di consensi e di applausi, non può aspettare serenamente il giudizio dei posteri. Ed il pubblico, lo sappiamo, è istintivamente misoneista: teme gli urti improvvisi e repentini con le novità. Questo consigliava Goldoni non a rinunziare alla sua riforma, ma a trovare punti di incontro col suo pubblico; a proposito dell’eliminazione delle maschere, diceva infatti: Guai a noi se facessimo una tal novità; non è ancora tempo di farla. In tutte le cose non è da mettersi di fronte contro l’universale.

Così la sua riforma procedette per gradi. In un primo momento – com’è nel Momolo cortesan – scrisse soltanto la parte del protagonista, lasciando che il resto del canovaccio venisse liberamente svolto ed «improvvosato» dagli attori. In un secondo momento – come fece per la Donna di garbo, suo primo lavoro integrale – scrisse tutta quanta la commedia, non osando però togliere le maschere. Queste le tolse via per la prima volta nella Pamela nubile (1750). Non contento, dieci anni dopo – precisamente con i Rusteghi – eliminò anche i “servi”, perché legati alla tipicizzazione delle maschere. Questi, però, non sono che momenti ed aspetti di una riforma tecnica, sotto la quale si nasconde una riforma sostanziale assai più profonda ed interessante. c) Il senso del reale Quando Goldoni affermava di aver per modello “il mondo”, ne spiegava anche il perché: mi mostra tanti e poi tanti veri caratteri di persone, me li dipinge così al naturale, che paion fatti apposta per somministrarmi abbondantissimi argomenti di graziose ed istruttive commedie; mi rappresenta i segni, la forza, gli effetti di tutte le umane passioni: mi provvede di avvenimenti curiosi: m’informa de’ correnti costumi: m’instruisce de’ vizi e de’ difetti che son più comuni del nostro secolo e della nostra nazione, i quali meritano la nostra disapprovazione o la derisione de’ saggi; e nel tempo stesso mi addita in qualche virtuosa persona i mezzi coi quali la virtù a codeste corruttele resiste.

Ed è qui l’aspetto più importante della riforma del Goldoni. Questa, infatti, non significava soltanto scrivere tutta la commedia, togliere i lazzi, eliminare le maschere, sopprimere i servi: significava portare la vita sulla scena, ispirarsi alla realtà, osservare la società del tempo e rappresentarla: costruire, insomma, una commedia veramente nuova, realistica, borghese. È da vedere, però, fino a che punto Goldoni abbia tenuto fede a questo programma ed in che misura, invece, abbia sentito il fascino della “teatralità”; cioè di

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Il Settecento quanti toni abbia alzato il reale perché divenisse teatrale; o se addirittura abbia mosso «non dalla vita al Teatro, ma dal Teatro alla vita» (D’Amico): quasi sia andato scoprendo nella vita solo gli aspetti più scenografici e teatrali; quasi sia andato osservando gli ambienti della sua Venezia, solo per scoprire il colorito tutto teatrale e scenico che essi gli potevano fornire. Cosa vera in certa misura, ma spiegabile dall’incontro di due circostanze, oggettiva l’una, soggettiva l’altra: la prima è che il mondo rappresentato dal Goldoni – quei campielli, quei caffè, quelle botteghe, quei salotti della sua Venezia – era di per se stesso un mondo vivace, cromatico, luminoso, chiacchierone, tutto vocii, spirito, pettegolezzi; la seconda è che Goldoni non era un pensatore – o quel che allora si definiva un “filosofo” – ma un uomo tranquillo ed in fondo contento della vita e perciò non portato ad esplorazioni ed analisi che andassero al di là delle apparenze. La realtà delle sue commedie è quindi in certo senso “teatrale”, ma non per una contaminazione operata dall’autore, quanto invece per le caratteristiche che aveva in sé.

Essenza della commedia goldoniana a) La società e la ideologia Tutto questo non toglieva però alla commedia del Goldoni il suo carattere di teatro sociale o borghese: ovvero di rappresentazione di quella che era la società borghese del suo tempo. E ciò perché quella società, soddisfatta del suo benessere, contenta dei privilegi raggiunti, non mossa da programmi o idealità, non agitata da problemi e scosse, volta tutta ad un’esistenza esteriore e beata, conduceva essa stessa una vita che sapeva di teatro. Si pensi, infatti, alla identificazione che Goldoni faceva del mercante – il protagonista della società borghese del suo tempo – con la maschera di Pantalone o, se si vuole, col nome di Pantalone; e come lo rendeva impegnato soltanto a sciogliere, col suo patrimonio, le situazioni imbrogliate determinate da giovani scapestrati. Ora, la rappresentazione di una società senza ideologie doveva far sì che lo stesso autore non ne avesse alcuna ed il prendere per atteggiamento ideologico certe battute – come quella di Madama Jevre nella Pamela: «Verrà giorno che dei piccoli e dei grandi si farà novamente tutta una pasta»256; o quella di Pantalone: «Se el fumo della nobiltà, che avè acquistà in sta casa, ve va alla testa, considerè un poco meggio quel che sè, quel che sè stada, e quel, che poderessi esser, se mi no ve avesse volesto ben. Sè muggier de un Conte, sè deventada Contessa, ma el titolo non basta per farve portar respetto, quando no ve acquistè l’amor della zente colla dolcezza, e colla umiltà»257 – è andare oltre la realtà dei fatti. Goldoni, col suo sorriso bonario, scopriva debolezze e vizi nella realtà psicologica degli uomini, al di là del loro stato sociale: li scopriva nei nobili, nei borghesi, nel popolo. Si avverte, insomma, che l’ideologia che gli era a cuore non era di natura sociale, ma morale; e nasceva dal suo temperamento e dal carattere moraleggiante che voleva dare alla sua commedia. È da respingere pertanto il giudizio polemico di Carlo Gozzi, secondo cui Goldoni nelle sue 256 257

Carlo Goldoni, La Pamela, Atto III, sc. 3. Carlo Goldoni, La famiglia dell’antiquario, atto I, sc. 19.

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Il Settecento commedie avrebbe attribuito «le truffe, le barerìe, e il ridicolo ai personaggi nobili, e le azioni eroiche, serie e generose ai personaggi della plebe per cattivarsi l’animo di quella». b) I caratteri e gli ambienti Così, pur visti nell’ambiente sociale al quale appartengono – che certamente senza questa connessione ne verrebbero fuori delle astrazioni – i personaggi goldoniani interessano per la loro caratterizzazione psicologica: una caratterizzazione sempre concreta ed individualizzata, mai tipicizzata. Vogliamo dire, insomma, che non si ha il tipo del bugiardo, ma il bugiardo Lelio; non il tipo della civetta, ma la deliziosa e maliziosamente civetta Mirandolina; non il tipo del “rustego”, cioè del ruvido e gretto moralista, ma ben quattro diversi rusteghi in una sola commedia; per non parlar poi di Sior Todaro brontolon, del Burbero benefico e di tanti altri rusteghi e burberi di tante altre commedie: l’uno sempre diverso dagli altri. Ma l’attenzione psicologica del Goldoni non si sofferma soltanto sui vecchi mercanti, conservatori e brontoloni; o sulle loro mogli smaniose; o sulle giovani donne civettuole; o sui giovani galanti, spensierati e spenderecci e per questo spesso in conflitto con i loro padri; ma investe, con eguale acume ed arte, gli ambienti, considerati non come cornice pittoresca dell’azione, ma motivo psicologico di azione essi stessi. Nascono allora le belle commedie di ambiente – Il campiello, Le baruffe chiozzotte – dove protagonisti non sono più personaggi borghesi, ma protagonista è il mondo popolare, che ha una vivacità, un colore, un’effervescenza espressiva che non si rinvengono nelle commedie borghesi. Qui c’è «la calle dove le donne, sedute dinanzi agli scanni che reggono i cuscini, lavorano di merletto, ma, con il cuore ai loro uomini in mare, sentono per epidermide il minimo mutare del vento; […] il canale con le barche del pesce in arrivo, e lo scarico e la vendita del pesce; […] i costumi delle donne, “el donzelon” delle ragazze da marito; […] gli usi, che vanno dal tabacco di Sinigallia o di Malamocco e dalla zucca arrostita alla instituzione pubblica delle doti. E ci sono i vari gradi di mestiere […]: tutti con i loro nomi e con soprannomi calzanti che par di vederli di persona: “Bara Canocchi”, “Bara Losco”, “Caicchio”» (Dazzi). Un mondo popolare e corale come questo dovrà attendere un secolo e mezzo o due per tornare alla ribalta della letteratura prima col Verga, poi con Pratolini. c) Un mondo di grazia e di serenità Si rimprovera a Goldoni di non aver saputo scendere a fondo nell’analisi psicologica dei personaggi, come aveva fatto Molière; o di non averci dato commedie fortemente impegnate o di forte rilievo drammatico. Il che significa non aver capito Goldoni e averlo collocato in una luce e in una dimensione non sue. Uomo «pacifico e di sangue freddo» – come egli confessava di essere nei suoi Mémoires – uomo contento anzi contentissimo del suo tempo e della sua società, uomo che, come i contemporanei, sentiva forte il fascino del garbo, dei bei modi, della levità, Goldoni poteva darci un teatro fatto non di potenza, ma di grazia. Al fondo della sua attività drammatica c’è una grande abilità rappresentativa propria solamente di chi è sereno e non si pone problemi. Perciò nelle sue comme-

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Il Settecento die non vi sono grandi virtù, vituperevoli vizi e neanche grandi passioni; non vi è niente di complicato, di drammatico, di eroico. Il suo è un mondo disegnato con mano leggera, fatto di levità, nel quale i vizi diventano difetti, gli odi diventano bronci, l’amore civetteria, le passioni puntigli. Tutte le situazioni, anche quelle apparentemente più intricate, si dipanano facilmente e si risolvono in lieto fine. Quel che conta, perciò, non è la trama e neanche la sua conclusione, sempre prevedibile, quanto invece il ritmo della rappresentazione: che non conosce scatti, imprevisti, sobbalzi, ma è tutto serenità, levità, grazia.

La lingua La produzione del Goldoni è assai cospicua e tra commedie, tragicommedie, tragedie, altri scritti per il teatro, i Mémoires e le poesie – queste in verità né molte, né pregevoli – costituisce una grande mole raccolta in quattordici grossi volumi. Le commedie, che di così vasta attività rappresentano la parte vitale, sono centoventi. Elencarle perciò è impossibile: basti citare le migliori e più rappresentative: La famiglia dell’antiquario, La Pamela, Il bugiardo, La bottega del caffè, La serva amorosa, Le donne curiose, Il campiello, I rusteghi, La casa nova, Sior Todero Brontolon, la trilogia della Villeggiatura, Le baruffe chiozzotte, Il ventaglio, Il burbero benefico. Di tali commedie, alcune sono scritte in italiano, altre in veneziano, altre ancora parte in italiano e parte in veneziano ed una – Il burbero benefico – in francese, perché, come i Mémoires, fu composta in Francia. La lingua di cui Goldoni ha maggiore padronanza e che più sciolta e vivace appare nella bocca dei suoi personaggi è senz’altro la veneta: «L’italiano frammezzo al veneziano fa la figura di un asmatico di fiato corto fra persone di polmoni sani e di torace ben costruito; e il veneziano che interrompe l’italiano, anche se è veneziano di Arlecchino o di Truffaldino, è come una folata di aria buona in una stanza dove si respiri a disagio» (Del Lungo). Del resto, lo stesso Goldoni era cosciente che la sua lingua italiana non era quella pura e letteraria voluta dalla Crusca: Lo fo sapere agli esteri e ai posteri, ch’io non sono accademico della Crusca, ma sono un poeta comico, che ha scritto per essere inteso in Toscana, in Lombardia, in Venezia principalmente: e che tutto il mondo può capire quell’italiano stile di cui mi son servito; e che, essendo la commedia un’imitazione delle persone che parlano, più di quelle che scrivono, mi sono servito del linguaggio più comune rispetto all’universale italiano.

Il fatto è, però, che la critica che si muove all’italiano del Goldoni è tutto l’opposto di quella che si muoveva l’autore stesso: non è, infatti, il non aver obbedito alla Crusca o il non aver imitato i modelli letterari che gli si rimprovera, ma il non riuscire a maneggiare la lingua italiana con scioltezza e con vivacità, con la stessa padronanza che aveva sul dialetto veneziano258.

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Va anche accennato l’uso polemico nel caratterizzare alcuni personaggi nelle commedie “bilingui”: nei Quattro rusteghi, ad esempio, in italiano parlano soltanto i cicisbei.

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L’opposizione al Goldoni La riforma goldoniana della commedia ed il successo che essa progressivamente coglieva sulle scene da una parte veniva a ledere gli interessi di autori e di impresari rimasti legati al vecchio teatro, d’altra parte colpiva posizioni ideologiche tradizionali e conservatrici. Da ciò il duplice ordine di oppositori al Goldoni. Tra i primi fu l’ex gesuita PIETRO CHIARI (Brescia 1711-1785): per combattere le commedie del Goldoni – che sostituì nel 1753 al teatro di S. Angelo di Medebach – pensò, da uomo pratico e scrittore mestierante qual era, di far presa sui gusti deteriori del pubblico teatrale, scrivendo commedie infarcite di situazioni avventurose e romanzesche o proiettate su sfondi esotici: di grande successo allora, ma prive di ogni valore artistico. Di ben altro significato e valore fu l’opposizione che venne al Goldoni da CARLO GOZZI (Venezia 1720-1806), fratello di Gasparo, serio letterato di idee intransigentemente conservatrici. La sua non fu un’opposizione interessata, ma ideologica: era convinto che le novità proposte dal Goldoni fossero una seria minaccia per l’attuale ordine sociale; che invitare sulla scena la borghesia o addirittura il popolo era come invitarli a farsi avanti nella più vasta ed impegnativa scena politica. Perciò iniziò contro Goldoni una battaglia assai vivace e non senza trovate intelligenti. Fidando, infatti, su quell’istintivo trasporto che è nel popolo – forse nell’uomo in genere – per gli aspetti straordinari, miracolosi, magici dell’esistenza, al fine di distrarre gli spettatori dal teatro nuovo del Goldoni, scrisse fiabe teatrali, cioè commedie di argomento fiabesco composte in prosa e versi, di cui le più note sono: L’amore delle tre melarance (1761), Turandot (1762), L’Augellin Belverde (1765). La risposta del pubblico non deluse le aspettative del Gozzi, tanto che Goldoni, avvilito, finì con l’accettare l’invito che da anni gli era stato fatto dalla Comédie italienne: abbandonò tutto e se ne andò a Parigi. In effetti, le fiabe del Gozzi, pur se scritte per ripicca nei confronti del Goldoni e pur se appesantite qua e là da allegorie e spunti polemici, non mancano di una loro attrattiva – quella proprio derivante dal fascino del meraviglioso – tanto che vennero riscoperte dai romantici tedeschi e considerate, con un giudizio forse troppo benevolo, opere di grande poesia.

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Giuseppe Parini In Giuseppe Parini le esigenze di rinnovamento morale, civile e sociale avvertite dall’Illuminismo si fondono col culto costante dei valori formali e della tradizione letteraria. Sembra perciò che egli attui la proposta poetica di Andrea Chénier: quella cioè di comporre «versi antichi su pensieri nuovi».

La vita Giuseppe Parini nacque a Bosisio, in Brianza, nel 1729. Il padre, che era un modesto commerciante, lo inviò ancora fanciullo a Milano, da una prozia, perché frequentasse le scuole dei Barnabiti. Quando la prozia morì, gli lasciò in eredità una modesta rendita annua a condizione però che si facesse prete. Fu così che, pur senza profonda vocazione, Parini abbracciò lo stato sacerdotale. Cosa che, facendolo assumere come precettore dei figli del duca Serbelloni, gli rese possibile conoscere da vicino quel mondo nobiliare che ispirerà, con gli atteggiamenti che vedremo, tanta parte della sua poesia. Lasciata quindi casa Serbelloni a causa di un contrasto con la duchessa – il poeta aveva osato difendere dalle ire della padrona la figlia del maestro di musica che frequentava la casa – divenne precettore del figlio del conte Giuseppe Imbonati, capo dell’Accademia dei Trasformati della quale intanto il poeta, a seguito di una prima raccolta di versi, era entrato a far parte. Finalmente la pubblicazione del Mattino (1763) e del Mezzogiorno (1765), rendendo assai noto il poeta negli ambienti politici oltre che culturali, gli faceva ottenere incarichi che lo liberavano dalle ristrettezze nelle quali fino ad allora era vissuto: fu, infatti, prima docente di Belle lettere nelle scuole palatine, poi soprintendente superiore delle scuole pubbliche. Quando nel 1796, succedutisi i Francesi agli Austriaci, venne proclamata a Milano la Repubblica Cisalpina, Parini fu chiamato a far parte del comitato della Municipalità che provvedeva all’istruzione: rimase in carica pochi mesi soltanto; poi, mal sopportando la violenza e l’arbitrio, preferì dimettersi. Nel 1799, proprio il giorno in cui gli Austriaci tornavano a Milano, il Parini moriva: aveva avuto appena il tempo di indirizzare ai vecchi dominatori che tornavano a Milano un sonetto di saluto e di monito perché non ricadessero negli errori di prima.

L’uomo Quel che innanzi tutto colpisce leggendo il Parini è la presenza costante dell’uomo sotto l’artista: la presenza, cioè, di un atteggiamento morale, di una posizione ideologica, di una valutazione critica di avvenimenti e persone. Egli fu, insomma, quel che oggi potrebbe definirsi uno “scrittore impegnato”: impegnato in senso morale, civile, sociale. Ed è fatto, questo, che la collocazione storica del Parini rende più evidente ed apprezzabile: «Parini è il primo poeta della nuova letteratura che sia un uomo, cioè che abbia dentro di sé un contenuto vivace ed appassionato, religioso, politico e morale. […] L’Italia da gran tempo aveva artisti, non aveva poeti. Qui comincia a spuntare il poeta, perché dietro all’artista c’è l’uomo» (De Sanctis).

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Il Settecento Si dice che a formare il Parini fu l’Illuminismo e che i suoi atteggiamenti di pensiero si inquadrano nel moto innovatore illuministico. Il che è soltanto in parte vero. E non solo perché Parini non accolse mai integralmente le tesi illuministiche – non condivise la critica alla religione, il cosmopolitismo e fu d’accordo con Voltaire e con Rousseau soltanto a proposito del loro ideale egualitario –, ma anche e soprattutto perché le sue convinzioni erano qualcosa di più della semplice adesione ad un movimento di idee: erano parte della sua stessa natura ed effetto di sofferte esperienze di vita. Prendete, infatti, un uomo onesto e dabbene, fatelo convinto cristiano e sincero sacerdote, legatelo al meglio delle idee illuministiche e della tradizione culturale e letteraria: ed avrete il Parini. Quel che, infatti, più si ammira nel suo carattere e nei suoi atteggiamenti di uomo e di scrittore, non è tanto l’integrità morale, la sobrietà dei costumi, la cordiale simpatia verso gli umili – si ricordi che aveva perduto l’incarico di precettore in casa Serbelloni per aver difeso la figlia del maestro di musica contro le prepotenze della sua padrona – quanto un costante senso di moderazione, un’autonomia spirituale e di giudizio che non gli facevano mai accettare passivamente ed incondizionatamente anche le idee che nel fondo condivideva e che non gli facevano mai assumere posizioni estremistiche e immoderate. Fu così riformista, ma non rivoluzionario; provò sdegno per la nobiltà pigra ed oziosa, ma non riuscì ad odiarla; fu progressista, ma mai condivise od accettò gli atteggiamenti violenti, provocatori ed iconoclastici della Rivoluzione259. La sua moderazione non era soltanto segno caratteriale di un innato buonsenso, ma anche effetto di una lezione che gli veniva dalla sua concezione cristiana della vita e dalla sua formazione classica. Emblematiche di questo atteggiamento pariniana sono le polemiche, sempre contenute nei limiti di soluzioni che non scartano mai a priori, per presa di posizione, le tesi avversarie, né mai sono univoche ed estremistiche – com’è nelle polemiche col padre Bandiera e col padre Branda, dei quali respinge il purismo arcaicizzante, senza mostrare però di tollerare la sciatteria linguistica. Ed emblematico anche il suo Dialogo della nobiltà – artisticamente non pregevole – nel quale l’autore denuncia con calore e sincerità difetti e vizi della nobiltà, ma non giunge mai a condannarla di per se stessa: in quanto essa, se si coronasse di virtù morali e civili, sarebbe di per sé pregevole. Una posizione, insomma, non dissimile da quella dell’aristocratico e trecentesco Dante.

Il poeta Un poeta che, secondo quanto dice De Sanctis, scriveva soltanto quando aveva qualcosa di importante da dire, doveva naturalmente avere una concezione didattica della poesia: conce259

Sono tanti gli episodi che dimostrano il senso di moderazione in Parini. Opponendosi all’uso indistinto del “tu”, di chiara marca giacobina, Parini affermava: «L’uguaglianza non consiste nell’abbassare me al vostro livello, ma nell’alzare voi al mio, se tanto valete. Ma per poterlo, non ci vogliono ciancie sonanti ed urli di piazza…». Un’altra volta in teatro volevano che egli si unisse al coro unanime di «Viva la libertà! morte agli aristocratici!»; ma egli invece gridò fermamente: «Viva la libertà! morte a nessuno!». Del resto, è probabile che a togliere al poeta l’interesse di portare a termine il Giorno sia stata proprio la considerazione che ormai la nobiltà aveva già avuto dalla Rivoluzione la sua dura lezione, e pertanto lui, col suo poema, non avrebbe fatto altro che “insaevire in mortuum”.

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Il Settecento zione derivante non tanto dalla tesi illuministica di una poesia civile e morale, quanto dalla propria etica, dall’adesione al Cristianesimo, dalla formazione classica. Ripetutamente nei suoi scritti Parini ribadisce tale funzione della poesia, che deve tendere «alla civile conversazione, ai costumi, alla comune benevolenza degli uomini, alla probità, alla virtù e allo stesso eroismo dei cittadini». In lui, però, un simile interesse per i contenuti poetici e per la loro finalità educativa si accompagna costantemente ad un’estrema attenzione alla forma ed allo stile – di derivazione certamente classicheggiante ed arcadica – e ad una non meno costante ricerca di “diletto” – effetto, detta ricerca, della sua adesione all’estetica del sensismo. Nasce da questo equilibrio tra contenuto e forma, peraltro non sempre armonicamente raggiunto dal poeta, la soddisfatta affermazione della propria poetica: Va per negletta via ognora l’util cercando la calda fantasia che sol felice è quando l’utile unir può al vanto di lusinghevol canto.260

«Schematizzando si potrebbe dire che Parini è arcade nella forma e illuminista nel contenuto. Di qui l’originalità e, insieme, la precarietà della sua poesia» (Salinari).

L’itinerario poetico a) I primi versi In effetti, come tanti, per non dir tutti i poeti tra il secondo Settecento ed il primo Ottocento, anche Parini iniziò a scrivere versi di gusto prettamente arcadico. Poco più che ventenne pubblicò una raccolta di componimenti poetici intitolata Alcune poesie e firmata con lo pseudonimo di Ripano Eupilino261. Si trattava di versi tutti di scuola, ora seri ora giocosi, che rappresentano la preistoria della poesia pariniana, ovvero il suo tirocinio poetico compiuto sulla scorta di evidenti modelli letterari. Di scarso valore artistico – nonostante la rivalutazione che ora si sta tentando di essi da parte di certa critica stilistica – questi versi rappresentano tuttavia il momento di affinamento della lingua poetica e dello stile pariniano. b) Le Odi Le Odi sono diciannove e vennero composte in un lungo periodo di tempo tra il 1757 ed il 1795. Per la maggior parte si ispiravano a quegli ideali morali, civili, sociali che caratterizzavano il sentimento pariniano e che erano i temi ricorrenti del riformismo illuministico. L’impegno di collegarsi a problemi della vita civile contemporanea faceva sì che esse avessero 260

Giuseppe Parini, La salubrità dell’aria, vv. 127-132. Il nome contiene un delicato accenno al lago di Pusiano, poeticamente chiamato Eupili, sulle cui rive sorgeva il paese natale del poeta. Ripano è anche anagramma di Parino. 261

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Il Settecento spesso una loro motivazione occasionale. Così una presa di coscienza ecologica sull’aria viziata di Milano e sulla cupidigia degli uomini che ne era causa faceva rimpiangere al poeta l’aria pura dei campi ne La salubrità dell’aria; la scoperta della vaccinazione antivaiolosa ispirava L’innesto del vaiuolo; il saggio del Beccaria sulla riforma dei metodi giudiziari era alla base de Il bisogno; l’inumana usanza femminile di vestire alla ghigliottina era motivo dell’ode A Silvia; l’usanza ancor più disumana di evirare giovinetti per farne “voci bianche” ispirava l’ode Sull’evirazione dei cantori. Meno legate a fatti particolari della vita contemporanea, ma sempre ispirate però da motivazioni civili e morali sono L’educazione, La caduta, Alla Musa. Nella prima il poeta traccia il suo ideale pedagogico: che è quello in cui prevale l’educazione dello spirito. Ne La caduta esprime il suo ideale eroico di poeta, meglio di cittadino-poeta: Buon cittadino, al segno dove natura e i primi casi ordinar, lo ingegno guida così che lui la patria estimi. […] Né si abbassa per duolo, né s’alza per orgoglio.262

Nell’ode Alla Musa ribadisce, con un respiro più ampio e disteso, tale suo ideale di poeta: che ai buoni, ovunque sia, dona favore; e cerca il vero; e il bello ama innocente; e passa l’età sua tranquilla, il core sano e la mente.263

Nelle Odi di cui finora si è detto quel caratteristico equilibrio tutto pariniano tra l’urgenza morale del contenuto ed il culto della forma è sempre vicino al punto di rottura. Esso si ricomporrà, invece, in quelle odi in cui l’ispirazione perde di impegno civile e di polemica aggressiva e si distende in un canto fatto di più intime e malinconiche suggestioni. Così è ne Il pericolo, Il dono, Il messaggio, nelle quali il poeta, evadendo dalla realtà quotidiana e dalle preoccupazioni morali e civili, si rifugia nella obliosa contemplazione della bellezza e della grazia, raggiungendo toni che preannunziano la poesia neoclassica del Foscolo. Il che avviene soprattutto ne Il messaggio (noto anche come Per l’inclita Nice), senz’altro il capolavoro delle odi: commosso dalla premura con cui la bella e giovane contessa di Castelbarco s’informa del suo stato di salute, il poeta eleva alla bellezza ed alla grazia muliebre l’ultimo canto ed anche il più triste, presago com’è della morte non lontana.

Il Giorno L’opera più nota del Parini è Il Giorno: un poemetto didattico-satirico in endecasillabi sciolti. La prima parte, Il Mattino, venne pubblicata nel 1763 suscitando grande interesse; la seconda parte, Il Mezzogiorno, segui a due anni di distanza. Stando al piano dell’opera, doveva seguire, a due anni ancora di distanza, la pubblicazione di una terza parte, la Sera. 262 263

Giuseppe Parini, La caduta, vv. 85-88 e 97-98. Giuseppe Parini, Alla musa, vv. 29-32.

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Il Settecento Ma questa fu poi suddivisa dal poeta in due parti: il Vespro e la Notte, che vennero pubblicate postume ed incomplete da un discepolo del poeta, il Reina. Nel poema il Parini si finge precettore di un “giovin signore” – cioè di un giovane dell’aristocrazia contemporanea – e lo accompagna così per tutta la giornata allo scopo di mettere in luce quanto oziosa e vuota sia la vita dei nobili. Quando il giovin signore si desta, il sole è già alto nel cielo e i contadini sono da tempo all’opera: il confronto tra l’ozio improduttivo dei nobili e le feconde attività dei lavoratori è frequente nel Giorno e accresce nel poema il senso di aspra satira sociale; iniziano allora i “riti” della giornata: prendere il caffè o la cioccolata, ricevere le visite dei maestri di ballo, di canto e di francese con cui si fanno futili pettegolezzi; quindi la lunga toletta, l’accurata pettinatura, l’incipriatura. Ora il giovin signore è pronto per recarsi, da bravo cicisbeo, in visita alla sua dama. È già mezzogiorno: nel suo palazzo la dama lo attende tra una folla di bellimbusti, fanatici ed imbecilli; con costoro si banchetta lautamente, poi si passa nella sala da gioco. Al vespro il giovin signore e la sua dama – «la pudica d’altrui sposa» – escono per la città. La passeggiata con i suoi incontri da modo al poeta di presentarci una nuova galleria di caratteri: il nobile decaduto, il nuovo nobile, le anziane signore in cerca di marito per le figlie, le donnine di facili costumi. Altri tipi – l’assiduo frequentatore dei caffè, il suonatore di tromba, l’arbitro nelle controversie di gioco, l’appassionato di cavalli – si incontreranno sul far della notte nel salone dei ricevimenti nella casa di una gran dama, tutto luccichio di specchi, scintillio di stucchi dorati, fruscio di tendaggi. Dopo il gioco e i rinfreschi, il teatro dovrebbe chiudere la giornata: ma a questo punto il poema rimane interrotto. Il valore satirico del poema nasce ora dal finto tono epico con cui il poeta descrive le frivole occupazioni della nobiltà, ora dallo sdegno e dall’aperto sarcasmo che prorompono dall’animo suo quando quella frivolezza si trasforma in sopruso e crudeltà – com’è nell’episodio della «vergine cuccia de le Grazie alunna»264 – o quando ad essa il pensiero contrappone le dure fatiche e le sofferenze del popolo. È anche vero, però, che a volte Parini sente il fascino di quel mondo raffinato che il suo senso morale e la sua coscienza civica rifiutano e condannano: è l’artista allora che, facile preda delle suggestioni del bello, prende il sopravvento sull’uomo e resta ammirato, descrivendo con una minuzia compiaciuta il lusso dei costumi e lo sfarzo dei salotti. Lo notarono anche i suoi contemporanei, che, col Verri, lo chiamarono, con un giudizio senz’altro sproporzionato e spietato, “Diogene incipriato”. Il fatto è che quel mondo, con tutti i suoi difetti sul piano morale, civile e sociale, esercitava con la sua raffinata eleganza un fascino dal quale Parini, come Goldoni e come tutti gli artisti del tempo, difficilmente poteva rendersi schivo265. Artisticamente, il Vespro e la Notte sono le parti più riuscite del Giorno: e non solo perché qui la monotona sequenza delle operazioni del giovin signore, che costituiscono la materia del Mattino e del Mezzogiorno, lascia il posto a potenti e suggestivi quadri 264

È un episodio raccontato da un commensale durante il banchetto di mezzogiorno: un servo, per aver colpito col piede una cagnetta, viene scacciato dalla padrona e costretto a morir di fame con la famiglia. 265 Era pensando a quel mondo che Talleyrand diceva che chi non era vissuto prima del 1789 non sapeva che cosa fosse la felicità terrena.

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Il Settecento d’insieme – il corso pubblico, il salotto della gran dama –, ma anche perché qui si fa meno teso l’ardore polemico e l’acre satira sociale si attenua in una bonaria satira di costume da cui nascono mirabili ed indimenticabili caricature di tipi umani.

Conclusione Certamente, Parini non è tra i poeti più amati e più letti. Si ammira l’uomo, si loda l’alta perfezione dell’artista, ma si avverte anche che tra l’uno e l’altro manca qualcosa: forse manca proprio il poeta. Era anche l’impressione di Leopardi, quando diceva che Parini non ebbe «bastante forza di passione e di sentimento per essere vero poeta»266. Forse, non furono la passione e il sentimento che mancarono al Parini, ma la fantasia poetica, quella divina facoltà dello spirito che traduce immediatamente la passione in poesia. Nasceva da ciò quel suo lavoro tutto esteriore sulla forma – quella ricerca dell’espressione elaborata, del verso perfetto, della parola appropriata e poetica – che crea l’impressione di frammentarietà ed anche di “letterarietà” della sua poesia.

266

Giacomo Leopardi, Zibaldone, 27 gennaio 1822.

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Il Settecento

Vittorio Alfieri Tradizione classica e fermenti illuministici, che erano stati gli elementi portanti della poesia del Parini, si riscontrano anche nella poesia dell’Alfieri, ma restano sullo sfondo: in primo piano balza prepotente la figura solitaria, malinconica, passionale del poeta. Perciò in lui il Settecento è presente, ma è, insieme, superato; mentre già s’intravede la temperie romantica.

Vita e storia interiore Non è possibile tracciare la biografia di Vittorio Alfieri, nato ad Asti nel 1749 da famiglia nobile e possidente, senza tener conto di quanto egli stesso ci dice nella sua Vita, scritta a Parigi nel 1790. Né è possibile parlare dei fatti esteriori senza riflettere contemporaneamente sulla sua vita interiore, tale è la connessione tra questi due aspetti della sua esistenza. Infatti, se Alfieri ebbe vita movimentata è perché a ciò lo spingeva il suo temperamento irrequieto e passionale. La prima “epoca” della sua vita, che egli definì «vegetazione»267, non dovette essere affatto felice, ma già tormentata da una precoce malinconia, se una volta (aveva appena sette anni!) si riempì la bocca di erba, sperando di masticare anche cicuta. A nove anni fu “ingabbiato” nell’Accademia di Torino, che egli definì «più una locanda che una educazione»268: qui studiò poco e male per otto anni – «asino, tra gli asini, e sotto un asino»269 – e ne uscì col grado di port’insegna del reggimento di Asti. Ma la vita militare non lo soddisfaceva: perciò chiese ed ottenne il congedo. Iniziò allora la terza epoca della sua vita, quella “dei viaggi e delle dissolutezze”, che se non fu la più importante, fu certamente quella a lui più congeniale. Insoddisfatto di tutto, irrequieto, tormentato assiduamente dalla malinconia e dalla noia, si diede ai viaggi: e non tanto per il desiderio di conoscere il mondo o per il gusto dell’avventura, quanto, invece, per conoscere e misurare meglio se stesso e per cercare un rimedio alla sua tetra e agitata malinconia. Viaggiò così in Francia, in Inghilterra, in Olanda; poi in Austria, Germania, Danimarca, Belgio, Prussia, Russia, percorrendo lunghissime tappe in diligenza o a cavallo, spinto sempre da un’irrequietezza impaziente di soste e di fisse dimore. Osservava poco e nessun Paese gli piaceva, gustando solo la solitudine che provava nel sentirsi straniero tra stranieri. Scrisse, infatti, che quand’era solo gli nascevano nell’animo grandi pensieri e profonde meditazioni che lo facevano ridere e piangere forsennatamente. Perciò, tra tutti i Paesi che visitò preferì quelli scandinavi, con le loro foreste sconfinate ed i silenzi glaciali che gli facevano nascere nell’anima «idee fantastiche»270, malinconiche e grandiose. A rompere la sua solitudine nei viaggi erano soltanto amori «feroci» e burrascosi e le letture preferite: 267

Vittorio Alfieri, Vita, Epoca 1, cap. 2. Idem, Epoca 2, cap. 1. 269 Idem, Epoca 2, cap. 2. 270 Idem, Epoca 2, cap. 5; Epoca 3, cap. 9.. 268

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Il Settecento Voltaire, Rousseau, Machiavelli, Shakespeare, ma soprattutto Plutarco. Quest’ultimo, con i suoi ritratti dei grandi eroi del passato, esasperava il suo furente desiderio di gloria e perciò lo leggeva «con un tale trasporto di grida, di pianti e di furori pur anche, che chi fosse stato a sentirmi nella camera vicina mi avrebbe certamente tenuto per impazzato»271. Finalmente, nel 1774, mentre assisteva la sua donna ammalata – amava allora la marchesa Gabriella Falletti Turinetti – scoprì la sua vocazione poetica ed ideò la sua prima tragedia, la Cleopatra. Aveva così inizio una nuova epoca della sua vita: trenta e più anni di composizioni, traduzioni e studi diversi. Avendo ora scoperto il suo destino di poeta tragico, Alfieri si applicò allo studio per impossessarsi dei necessari mezzi espressivi: la lingua e lo stile. Quindi, per «avvezzarmi a parlare, udire, pensare, e sognare in toscano»272 si recò prima a Pisa, poi a Siena, poi ancora a Firenze. Qui incontrò colei che sarebbe dovuta essere la compagna per tutto il resto della sua vita, la contessa Luisa Stolberg d’Albany, moglie divorziata di Carlo Edoardo Stuart, pretendente al trono d’Inghilterra. Componeva intanto le sue tragedie, che poi, nel 1786, pubblicò a Parigi. Ed era a Parigi quando scoppiò la Rivoluzione: la sua prima reazione fu di entusiasmo, tanto che per salutare l’evento scrisse un’ode, Parigi sbastigliata. Ma poi, sconvolto e disilluso dalla piega che prendevano gli avvenimenti, lasciò Parigi e compose, contro i Francesi, il Misogallo (1798). Continuava intanto a studiare – tradusse dal latino, imparò il greco – ed a scrivere. Qui si arresta la sua Vita, che, secondo l’intenzione del suo autore, avrebbe dovuto comprendere un’altra epoca: la vecchiaia. Ma a sospenderne il racconto fu la morte, avvenuta a Firenze nel 1803: la sua donna lo fece seppellire in Santa Croce, in una tomba scolpita dal Canova.

Egocentrismo e sentimento della libertà Il Settecento illuminista aveva messo in atto tutto un fermento di idee democratiche e liberali: aveva rivendicato i diritti del cittadino sulla tirannide dello Stato e i diritti dell’uomo contro i privilegi, i soprusi, i vecchi e logori metodi politici e giudiziari. Ed aveva tutto questo fatto in nome della ragione. Alfieri condivide lo spirito innovatore dell’Illuminismo, ma non si ferma alla fase riformistica: secondo lui, per assicurare la libertà dell’uomo non si tratta di rendere “illuminati” i sovrani, ma di eliminarli addirittura: forse, di eliminare addirittura lo Stato. È stato detto che a determinare questo radicalismo politico dell’Alfieri era il fatto che egli era cresciuto nello Stato sabaudo retrivo e conservatore, non in città più aperte alle riforme come Napoli e Milano. Ma la ragione di fondo è un’altra: è che per il temperamento appassionato ed egocentrico dell’Alfieri la libertà dell’“io” deve essere assoluta e non può essere condizionata da alcun vincolo politico273. In lui, perciò, non vi sono precise e costruttive idee politiche, ma soltanto il sentimento impetuoso e furente della libertà. 271

Idem, Epoca 3, cap. 7. Idem, Epoca 4, cap. 2. 273 Si è anche ipotizzato un Alfieri anarchico, quasi un anticipatore del filosofo tedesco MAX STIRNER (1806-1856), autore de L’Unico e la sua proprietà (1845). Cfr Umberto Calosso, L’anarchia di Vittorio Alfieri. Discorso critico sulle tragedie alfieriane, Laterza, Bari 1924). 272

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Il Settecento «Il suo pensiero politico è dominato dall’avversione alla tirannide: e tale avversione potrebbe sembrare mutuata dal liberalismo del pensiero illuministico. Ma l’atteggiamento dell’Alfieri non è liberale, è libertario. Egli non crede affatto che la tirannide possa essere eliminata attraverso un nuovo assetto della società e determinate istituzioni politiche. Ancora meno crede che il potere cambi natura se viene trasferito dalla persona del monarca o da una stretta oligarchia al popolo intero. È il potere stesso che egli rifiuta sia che venga esercitato da uno solo sia che venga esercitato da molti. E il momento esaltante della rivoluzione è per lui quello iniziale, che demolisce le vecchie istituzioni (abbattendo la Bastiglia), non quello che segue inevitabilmente e costruisce un ordine nuovo, un nuovo potere. In tal modo l’uomo libero, per essere libero, non deve impegnarsi alla trasformazione della società in senso liberale (come volevano gli illuministi), ma deve sottrarsi alla società o con il suicidio (e una variante del suicidio appare anche il tirannicidio) o con il più completo isolamento» (Salinari). La lotta politica, quindi, egli la considera non un gioco di forze collettive, ma l’opera singola di un uomo, effetto cioè di azione individuale: concezione, questa, nella quale si manifestano l’egocentrismo dell’Alfieri e la sua concezione non democratica, ma estremamente aristocratica della vita.

Gli scritti politici Si spiega ora perché, scoppiata la Rivoluzione francese, Alfieri la salutò con entusiasmo componendo la già citata ode Parigi sbastigliata; e come poi, instauratosi al posto del potere del re quello della repubblica, inveì contro la «ribelle genia di Francia» col Misogallo: un’aspra opera polemica formata di prose e poesie. A fargli assumere tale posizione di avversione contro i Francesi non era soltanto la considerazione che quelli ora erano i nuovi dominatori d’Italia, ma anche il ritenere che essi avevano tradito la libertà di cui si erano fatti garanti ed avevano permesso l’affermarsi di una nuova dittatura, quella della plebe: peggiore, secondo i suoi sentimenti aristocratici, della precedente. Emblematiche di tale sentimento politico sono anche alcune tra le sue Satire e le sue Commedie, tra le ultime opere da lui composte. Nelle prime, in tutto diciassette e composte in terzine, esplode ancora la sua ira contro la tirannide, che al solito egli vede rappresentata non solo dall’assolutismo monarchico (I re), ma anche dal potere micidiale della plebe (La plebe; La sesquiplebe). Così nelle Commedie la sua passione libertaria pone sullo stesso piano di derisione e condanna l’assolutismo monarchico (L’uno), il governo oligarchico (I pochi) ed il governo democratico (I troppi); anche se poi aggiunge una quarta commedia (L’antidoto), nella quale intravede in una forma di governo misto un rimedio al male che possono provocare tutti gli altri reggimenti politici274. Più spiccatamente politico è il trattato in due libri Della tirannide, composto nel 1777 dopo aver meditato sul Principe del Machiavelli. Il tiranno è inteso come quel principe che, non essendo condizionato dalla legge ma identificandosi con essa, ha «una facoltà

274

Altre due commedie sono: La Finestrina (basata sul tema dell’ipocrisia morale e dell’impostura) e il Divorzio (allusione alla decadenza morale della famiglia).

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Il Settecento illimitata di nuocere»275. Tuttavia, chi non voglia compromettersi con la tirannide, condividendone le responsabilità morali, può isolarsi in un’austera e dignitosa solitudine; e, se neanche ciò gli è concesso, dovrà scegliere tra questi estremi rimedi: il suicidio o il tirannicidio. All’avversione nei confronti della tirannide si ispira anche il Panegirico di Plinio a Traiano, nel quale Alfieri immagina che Plinio – del quale finge di aver trovato l’antico manoscritto – consigli l’imperatore, se realmente vuol dar mostra delle sue virtù, a rinunziare al potere, costi la sopravvivenza stessa dello Stato romano. Anche qui è evidente come il furore libertario di Alfieri si ponga in termini di astratto ideologismo ed in posizione manifestamente antistoricistica. Più importante è il trattato in tre libri Del principe e delle lettere – ideato nel 1778 e completato nel 1786 – per la fusione che in esso si attua tra l’ideologia politica e quella letteraria. Impossibile è il rapporto tra il potere e le lettere, tendendo quello per sua natura a negare la libertà dell’individuo e mirando queste ad esaltare nell’uomo la coscienza dei propri diritti. Lo stesso mecenatismo del principe avvilisce e corrompe le lettere, perché nuoce «alla perfezione vera di esse, la quale nella sublimità del pensare e nella libertà del dire si dee principalmente riporre». Il poeta, invece, deve farsi maestro di libertà, perché il suo compito è uguale a quello degli eroi, anzi superiore: un Omero ha dato e vita e fama perenne ad Achille; ma nessun Achille mai, non che un Omero creare, bastato sarebbe con le proprie forze a dar vita e perenne fama a se stesso.

Le tragedie La passionalità del temperamento, la tragica solitudine e la spietata malinconia, l’egocentrismo esasperato e la furia libertaria, l’esaltazione titanica dell’uomo che combatte solo contro il potere – quello del tiranno o quello delle passioni – ed ancora la concezione di una poesia come vaticinio e scuola di virtù: ecco la sostanza poetica delle tragedie di Vittorio Alfieri. a) La vocazione alla tragedia Alfieri era portato alla tragedia per il temperamento, per la intuizione della vita e per la concezione dell’arte. Ritenere che la scelta del genere sia stata motivata in lui, anche in parte, dalla considerazione che in Italia, a differenza di quanto era avvenuto all’estero, mancava ancora un teatro tragico, significa ridurre la sua opera a pura operazione retorica276. La tragedia era il genere a lui congeniale, quello che gli permetteva di esprimere la passione, l’ira, il corruccio che gli ribollivano dentro: la sua scoperta della poesia fu insieme scoperta della tragedia; tutti gli altri generi vennero dopo, con la riflessione e con lo studio. E se a questa congeniale disposizione alla tragedia si vuole aggiungere una fi275

Vittorio Alfieri, Della tirannide, libro 1, cap. 1. L’unica tragedia italiana di un certo rilievo tra tanti componimenti vuoti e retorici era stata nel Settecento la Merope di SCIPIONE MAFFEI (Verona 1675-1755). 276

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Il Settecento nalità, questa non è senz’altro quella retorica di cui si è detto, ma una finalità educativa, anch’essa del resto un fatto vocazionale, perché connessa alla sua convinta concezione della poesia: Io credo fermamente che gli uomini debbano imparare in teatro ad essere liberi, forti, generosi, trasportati per le loro virtù, insofferenti d’ogni violenza, amanti della patria, veri conoscitori dei propri diritti in tutte le passioni loro ardenti, retti e magnanimi.

b) Struttura, stile, verso Nella struttura la tragedia alfierana ripeteva quella classica o regolare: con le sue unità di tempo, di luogo e di azione, col numero ridotto dei personaggi, con la sua essenzialità. Non si trattava, però, di un ossequio alla tradizione, ma della giusta maniera espressiva di un teatro che voleva essere espressione di forti passioni e che precipitava rapido verso la catastrofe senza inutili pause e divagazioni. Così, infatti, Alfieri definiva la sua tragedia ideale: Vorrei la tragedia di cinque atti, piena, per quanto il soggetto da, del solo soggetto; dialogizzata dai soli personaggi attori, e non consultori o spettatori; la tragedia di un solo filo ordita; rapida per quanto si può servendo alle passioni, che tutte più o meno sogliono pur dilungarsi; semplice per quanto uso d’arte il comporta; tetra e feroce per quanto la natura lo soffra; calda quanto era in me.

Per questo gran cura egli poneva alla concisione – che era anche tensione drammatica – provando gran piacere se in una successiva revisione riusciva a ridurre di qualche centinaio di versi la precedente stesura della tragedia277. Ne vien fuori, così, una tragedia che procede rapida, con poco o nessuno spazio riservato alla natura – quasi, è stato detto, che i personaggi non abbiano tempo di guardarsi attorno – con un dialogo denso, ridotto all’essenziale. Ecco un verso dell’Antigone278: – Scegliesti? – Ho scelto. – Emon? – Morte. – L’avrai.

Da una tale concisione nasceva una certa impressione di durezza e di oscurità. Era questa l’accusa che si muoveva al poeta. Ma egli rispondeva: Mi trovan duro? Anch’io lo so: Pensar li fo. Taccia ho d’oscuro?

277

La critica delle varianti ha messo in evidenza come il Filippo passò dai 2000 versi della prima stesura ai 1413 versi della quinta. 278 Atto IV, sc. 1.

225

Il Settecento Mi schiarirà poi libertà.279

Ma quegli endecasillabi così nudi, aspri e apparentemente disarmonici nascevano da una lunga ed accurata ricerca. Egli voleva, infatti, un verso che non fosse cantabile e che nella sua durezza esprimesse bene la vigoria delle passioni. Scartò perciò tutti i modelli preesistenti, rinvenendo qualche riferimento soltanto negli endecasillabi con cui Cesarotti aveva tradotto Ossian. c) La rappresentazione titanica delle passioni Nelle tragedie di Alfieri le passioni sono così forti, così potente e marcata la personalità dei personaggi, da sembrare che tutto sia elevato di un tono al di sopra del normale; che non uomini siano sulla scena, ma eroi titanici; che lo sfondo non sia la terra, ma un pantheon di eroi. La passione della libertà dell’«io» costituisce il gioco drammatico dei rapporti tra i personaggi. Da ciò la polarizzazione tra il tiranno e la vittima del tiranno: tra chi toglie la libertà e chi lotta per recuperarla. In effetti, poiché non si tratta di una libertà politica, ma di una libertà ben più profonda – quella dell’affermazione della propria personalità – avviene paradossalmente che anche il tiranno lotta per la libertà di affermare la propria volontà di potenza. Ciò spiega perché Alfieri non faccia distinzione tra i tiranni ed i loro antagonisti e non li separi in due diverse ed opposte categorie morali. A volte, anzi, la sua simpatia è più per il tiranno che per la sua vittima, quasi abbia scoperto in lui maggiore forza titanica, un maggiore spasimo nell’affrontare la lotta per la propria affermazione. Comunque, è nella rappresentazione del tiranno il meglio della poesia alfieriana, sicché questi è sempre il protagonista ideale ed estetico delle tragedie. Alla sua costruzione poetica concorrono motivazioni psicologiche – la critica psicanalitica ha affacciato l’ipotesi che l’ossessione titanica nascesse in Alfieri da un ideale di vita vagheggiato e mancato – e fatti culturali: il catilinarismo (che conferisce al tiranno l’aspetto truce), il machiavellismo (che gli conferisce l’aspetto centauresco di un essere violento ai confini della bestialità), il vichismo (per la presenza in lui di una forza primitiva ed istintiva), l’agostinianesimo (per la concezione che la tirannide è ineluttabile nella storia umana). d) I capolavori Le tragedie stampate a cura stessa dell’autore a Parigi sono diciannove. A queste bisogna però aggiungere la Cleopatra, prima tragedia da lui poi ripudiata, e l’Alcesti seconda, l’ultima tragedia pubblicata postuma. Gli argomenti – tratti dal mito greco e dalla tragedia greca (Polinice, Antigone, Agamennone, Oreste, Timoleone, Merope, Agide, Mirra), dalla tradizione romana (Virginia, Sofonisba, Ottavia, Bruto primo, Bruto secondo), dalla storia medioevale e moderna (Rosmunda, La congiura dei Pazzi, Don Garzia, Filippo, Maria Stuarda), dalla Bibbia (Saul) – hanno sempre una loro dimensione epica, derivante non solo dalla presenza di personaggi illustri ed eccezionali, ma anche dal filtro idealizzante del mito e della storia. 279

Vittorio Alfieri, Rime, 213 (Mi trovan duro?).

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Il Settecento I capolavori sono il Saul e la Mirra: qui infatti il conflitto, non più tra personaggi antagonisti – il tiranno e la vittima del tiranno –, si interiorizza, conferendo alle tragedie una profonda dimensione psicologica. Il Saul è, come dice lo stesso poeta, la tragedia di «un uomo appassionato di due passioni fra loro contrarie che a vicenda vuole e disvuole una cosa stessa». Il vecchio re Saul, geloso del suo potere e di una gloria che gli viene da cento battaglie e cento vittorie, è tormentato da un cieco rancore per i successi e i trionfi che va ora cogliendo il genero Davide, che pur ama come un figlio. Il sospetto del tradimento, l’angoscia della solitudine, la paura di venir dimenticato e trascurato combattono nel suo animo con l’amore paterno, portandolo all’allucinazione, alla follia e quindi al suicidio finale. In lui il contrasto tiranno-vittima diviene perciò urto intimo di passioni (odioamore), che non può trovar soluzione se non nella morte. Anche in Mirra, protagonista dell’omonima tragedia, una spietata passione – l’ossessiva attrazione amorosa per il padre – lotta col rimorso e con un’impotente volontà di liberazione; ed anche lei, come Saul, tiranno e vittima di se stessa, può trovare la libertà soltanto nel suicidio.

Le rime La sostanza lirica delle tragedie, tutte proiezione drammatica di un’interiore passionalità – non esauriva il bisogno confessionale del poeta. A tale bisogno si ispirano le sue Rime, circa trecento componimenti, tra sonetti, canzoni, odi, epigrammi, composti nel corso di un triennio. Motivi ispiratori sono l’amore, la natura – tetra e selvaggia come lui sapeva concepirla –, ma soprattutto la solitudine e la malinconia: Malinconia dolcissima, che ognora fida vieni e invisibile al mio fianco tu sei pur quella che vieppiù ristora (benché il sembri offuscar) l’ingegno stanco.280

Quale diversità di tono, però, tra la malinconia cantata in questi versi e quella grandiosa e titanica di un Filippo o di un Saul! Il che dimostra come solo nella trasposizione eroica e tragica potevano adeguatamente esprimersi la passionalità del poeta, la sua tragica solitudine, la sua ossessiva malinconia. E dimostra ancora come le tragedie e non le rime – come pur sostiene qualche critico – sono il genere congeniale dell’Alfieri, in cui esprime il meglio della sua arte. È evidente nelle Rime una certa consonanza col Petrarca: non però consonanza psicologica – dal momento che diversa ci sembra la tempra stessa della malinconia tra i due poeti –, ma un’eguale disposizione all’introspezione, alla trasposizione poetica di ogni moto interiore. Se a ciò aggiungiamo l’impegno stilistico dell’Alfieri, procedente sulle orme della poesia del Petrarca, si può allora senz’altro parlare, a proposito delle Rime, di un petrarchismo alfieriano.

280

Idem, Malinconia dolcissima, vv. 1-4.

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Il Settecento Pur non raggiungendo la perfezione stilistica e linguistica della poesia pariniana, la lirica dell’Alfieri, per profondità psicologica e vigore sentimentale, è quanto di meglio in questo genere ci abbia dato il Settecento.

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L’Ottocento

La letteratura del periodo napoleonico Il momento storico Nel 1799, col colpo di Stato del 18 brumaio (9 novembre) che esautorava il Direttorio, si chiudeva l’età della Rivoluzione francese ed iniziava quella napoleonica. Sul piano sociale ciò rappresentava il definitivo trionfo della borghesia con l’esclusione del proletariato dalla scena politica. Sul piano internazionale confermava la politica espansionistica della Francia in Europa, che coinvolgeva in primo luogo l’Italia. Già nel 1796 il Bonaparte, allora generale della Repubblica, era sceso trionfalmente in Italia e, scacciando gli Austriaci dalla Lombardia e gli altri sovrani dai loro Stati, aveva fondato repubbliche legate alla politica francese. Tre anni dopo, però, sotto i colpi della controffensiva austro-russa e dell’opposizione interna, il fragile quadro politico imposto dai giacobini crollava e gli Austriaci rimettevano piede a Milano. Con la vittoria di Marengo (1800) Napoleone riaffermava il dominio francese in Italia: al Nord faceva nascere la Repubblica Italiana, aggregata naturalmente alla Francia e costretta poi a mutare il suo nome in Regno d’Italia, allorquando Napoleone, divenuto imperatore dei Francesi, non sopportava più l’esistenza di repubbliche nell’orbita del suo Impero; al Sud Napoleone concesse il Regno di Napoli prima al fratello Giuseppe e poi al cognato Murat. Il dominio francese in Italia, che comprendeva quasi tutta la penisola, continuò fino al crollo della potenza napoleonica, estinguendosi tra il 1813-15 e determinando il definitivo ritorno degli Austriaci e delle monarchie tradizionali. Nel corso di appena due decenni l’Italia visse pertanto drammatiche e tumultuose vicende: vide alternarsi dominazioni austriache e francesi; soffrì devastazioni, spoliazioni, rapine; conobbe la triste delusione di speranze a lungo covate. I Francesi, salutati come liberatori dalla dominazione austriaca, si dimostrarono ben presto più fiscali, più rapaci, più violenti di quelli281. Irrefrenabile esplose la rivolta antigiacobina: un popolo abituato da secoli al passaggio di truppe straniere, si ribellò spontaneamente all’arrivo dei giacobini, dando vita a quel fenomeno (poco) conosciuto come Insorgenza, che contrastò l’imposizione della mentalità giacobina ovunque essa si espresse. Peraltro i quasi quindici anni di dominazione francese – anche grazie alla forte propaganda politica che la accompagnava282 – modificò profondamente la mentalità italiana, spingendola verso un nazionalismo prima inesistente. La classe dirigente borghese che 281

Il motivo che spinse una nazione, la Francia rivoluzionaria, dilaniata dai conflitti interni, a “esportare la rivoluzione” fu quello di indebolire gli avversari. L’invasione dell’Italia, invece, più che da motivazioni politiche, fu dettata dal desiderio di far bottino: era nel contempo militarmente debole ed assai ricca. Di qui la continua, scientifica spoliazione di ogni tesoro che l’esercito francese incontrava. Le rapine francesi furono tante e tali che un secolo dopo un operaio italiano rubò al Louvre la Gioconda di Leonardo, certo – in buona fede – che il quadro fosse stato sottratto in Italia da Napoleone. 282 Si pensi quanto scrisse Cesare Balbo nel suo Sommario d’Italia: «Fra i tempi d’obbedienza, niuno fu lieto, operoso, forse utile, quasi grande e glorioso come questo».

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L’Ottocento aveva dominato sotto Napoleone venne inglobata nei quadri burocratici della Restaurazione (cosiddetta “politica dell’amalgama”), di fatto vanificando gli sforzi di ritorno allo status quo operati dal Congresso di Vienna283. Sul piano letterario era naturale che vicende politiche così importanti e drammatiche influenzassero molto da vicino l’attività degli scrittori e che il susseguirsi rapido, tumultuoso, sconcertante degli avvenimenti determinasse in essi atteggiamenti ed espressioni a volte contraddittori ed incoerenti.

La concezione neoclassica dell’arte Il panorama letterario italiano del periodo napoleonico, poiché risente di differenti atteggiamenti culturali ed artistici, appare assai vario e complesso. Infatti mentre gli ambienti letterari sono ancora saturi di rinnovamento illuminista, di estetica sensista e di classicismo arcadico, si fanno strada – finendo col prevalere – il gusto neoclassico e la moda della letteratura lugubre ed ossianica. Il Neoclassicismo non deve considerarsi tanto una restaurazione classicistica – dal momento che tutto il Settecento, apertosi col Gravina e chiusosi con l’Alfieri, si era rivolto, in un modo o in un altro, verso il classicismo – quanto un innesto sul classicismo preesistente di una tematica nuova o meglio di un modo nuovo di sentire ed avvicinare il mondo classico. Ritenere che tale movimento fosse in connessione con gli atteggiamenti cesarei del potere napoleonico o col senso dell’autorità da quello ristabilito, significherebbe ridurlo a fenomeno puramente formale e retorico: invece il fatto che più e meglio contraddistingue il Neoclassicismo dal classicismo precedente sta proprio in un modo più profondo e diverso di guardare all’arte antica, senza più soffermarsi al rispetto dei generi letterari, delle regole aristoteliche, dei modelli di stile e di quanto fosse esteriore e formale. Padre e teorico del Neoclassicismo fu lo studioso tedesco Johann Joachim Winckelmann, nato a Stendal in Prussia nel 1717 e profondo conoscitore del mondo classico, soprattutto greco. Nella sua Storia dell’arte nell’antichità (1764) Winckelmann sostiene che l’arte sia la rappresentazione della bellezza ideale non contaminata da passionalità né reperibile nella realtà quotidiana. Ne deriva che caratteristiche dell’arte devono essere l’impassibilità, l’imperturbabilità, la serenità: non nel senso che l’artista debba essere estraneo al mondo umano delle passioni, ma nel senso che deve sapersi sollevare da tali passioni per giungere alla contemplazione della pura bellezza. Per questo l’arte assume valore catartico e liberatorio, diviene il solo mezzo per liberare l’uomo da una terrenità passionale, imperfetta, contingente e sollevarlo in un’atmosfera di pura contemplazione. Nel dominio dell’arte, infatti, anche il dolore e la morte diventano belli perché, sciolti da fattori passionali, diventano pacata e serena rappresentazione. Paradigmatica di tale concezione era, per il Winckelmann, l’arte classica (soprattutto la greca, in quanto quella romana non ne fu che un’imitazione non sempre riuscita e perfetta). Così l’Ellade venne 283

Per una storia delle Insorgenze, cfr Massimo Viglione, Rivolte dimenticate, Città Nuova, Roma 1999. Per una storia generale del periodo risorgimentale, cfr La Rivoluzione italiana (a cura di M. Viglione), Il Minotauro, Roma 2001.

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L’Ottocento concepita come un mondo di serenità e di bellezza, come il simbolo di un paradiso remoto e perduto. Così il tipo ideale di bellezza venne fissato in Apollo ed in Venere, figure emblematiche di un’esistenza che è rigoglio di giovinezza ed espressione di un equilibrio che non conosce affanni. Così Vincenzo Monti, nel suo Sermone sulla mitologia, ci dava del mondo classico una rappresentazione affascinante: L’universo poetico degli antichi era infatti popolato da mille simulacri ed idoli della fantasia che il rendeano sommamente vago e mirabile. Gli oggetti, che non han senso, vi prendeano anima, e vita, e forme sensibili quelli che ne son privi. Di Driadi rideano i boschi, di Najadi le acque, e a’ loro canti rispondea da’ sassi l’eco dogliosa. La bella foriera del giorno spargea pel cielo tenebroso gigli e viole, mentre le giovinette Ore precedeano vispe e ridenti il carro del Sole. E nel silenzio della notte la pallida Luna spaziava su argentea biga per gli immensi campi dell’Empireo. Tutto in fine prendea dalla beata fantasia de’ Greci un aspetto lieto, sì amabile, sì pittoresco, tutto era abbellito da sì vaghe, ed eccelse immagini, che nulla puossi idear di più atto ad arricchir la poesia e le belle arti.

Il Neoclassicismo quindi non prospettava particolari modelli letterari da imitare o regole da seguire, ma additava nell’arte classica un parametro estetico ed etico contemporaneamente – dato il valore catartico e liberatorio della contemplazione artistica. Il modello, insomma, di una bellezza ideale e serenatrice.

Il gusto lugubre e sepolcrale A fianco all’esaltazione dei lumi della ragione erano andate sempre più affermandosi, nel tardo Settecento, l’esaltazione della natura e le ragioni del cuore e del sentimento. Mentre infatti in Francia Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) con l’Emilio e con le Confessioni esaltava il valore genuino della natura contro il condizionamento delle convenzioni sociali, in Inghilterra Samuel Richardson (1689-1761) esplorava nei suoi romanzi Pamela e Clarissa i sentimenti e le passioni umane. Come accennato, più tardi erano andati diffondendosi i Canti di Ossian, pseudonimo dello scrittore scozzese James Macpherson (1736-1796), il quale, con finzione letteraria, affermava di aver raccolto e tradotto canti epici di un antico bardo. Si trattava di canti malinconici e lugubri, nei quali prevalevano argomenti sepolcrali e descrizioni di paesaggi tetri e notturni. Appena diffusasi – in Italia i canti apparvero grazie a Melchiorre Cesarotti che li tradusse per la prima volta nel 1763 – questa poesia determinò dappertutto un consenso più che entusiastico addirittura fanatico, sì da essere considerata superiore alla poesia stessa di Omero. Da essa nacquero il genere sepolcrale e la moda di una poesia malinconica e tutta intrisa di nordiche atmosfere.

Il purismo Era naturale che il Neoclassicismo determinasse una reazione alla licenza linguistica instaurata dall’Illuminismo – si ricordi Il Caffè e la sua posizione a proposito del problema linguistico – ed auspicasse il ritorno ad una lingua più legata alla tradizione letteraria: per la loro presa di posizione contro l’“infranciosamento” della lingua, i sostenitori del

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L’Ottocento ritorno alla tradizione si dissero “puristi”. Si riaccese così la questione linguistica; ma, dato il clima fervido di avvenimenti politici e di propaganda ideologica, essa andò al di là di un’impostazione puramente tecnica, assumendo anche risvolti politico-ideali e la difesa della purezza della lingua italiana assunse il significato di difesa delle nostre tradizioni nazionali e dell’autonomia stessa della nostra cultura. BASILIO PUOTI (Napoli 1782-1847), che fu uno dei più famosi puristi, scriveva infatti: «Se vi dico di scrivere la vera lingua d’Italia, voglio avvezzarvi a sentire italianamente e avere in cuore la patria nostra» e De Sanctis, rievocando la scuola del Puoti, affermava che «il purismo fu il primo atto di questo gran dramma compiuto nel 1860; il primo segno di vita che dava di sé la nuova generazione». La tesi linguistica del Puoti era «lingua del Trecento, stile del Cinquecento»; voleva cioè che dagli scrittori del Trecento si traessero le “parole”, da quelli del Cinquecento lo “stile”. Altro insigne purista fu ANTONIO CESARI (Verona 1760 - Ravenna 1828) che, con la sua copiosa attività letteraria – edizioni di testi trecenteschi, traduzioni dal latino, ristampe del Vocabolario della Crusca, composizioni di opere ascetiche, di novelle, di saggi – si fece intransigente sostenitore della lingua del Trecento, conseguendo così gli aspetti più pedanteschi e deteriori del purismo. Ma lo scrittore che più degli altri si collega all’ambiente della cultura neoclassica fu PIETRO GIORDANI (Piacenza 1774 - Parma 1848), in quanto, profondo studioso ed ammiratore della letteratura greca, consigliò di rifarsi per la lingua ai trecentisti, per lo stile ai greci. Tra i trecentisti, però, scartava il Boccaccio, consigliando piuttosto l’imitazione di quegli autori – come Domenico Cavalca, Giovanni Villani, l’anonimo autore dei Fioretti – la cui lingua appariva più pura, energica e primitiva. Fatto, questo, che mostrava ancor più la connessione del purismo col neoclassicismo e con la sua aspirazione a rivolgersi alle età primitive. Anche VINCENZO MONTI si inserì nelle dispute linguistiche con la sua Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al vocabolario della Crusca (1817-1826), grossa opera in sette libri nella quale, pur condividendo le tesi del purismo, sostenne la necessità di liberare la lingua dalla tirannia del Trecento toscano e di operarne un ampliamento alla luce delle nuove esperienze letterarie nazionali. Nel sostenere tale tesi il Monti si valse della collaborazione del genero GIULIO PERTICARI (Savignano di Romagna 1779 - Pesaro 1822), il quale, col suo saggio Dell’amor patrio di Dante e del suo libro intorno al Volgare Eloquio (1820), rimise in luce la tesi dantesca di una lingua comune a tutta l’Italia.

Vincenzo Monti Della letteratura del periodo napoleonico Vincenzo Monti fu il rappresentante più emblematico: e ciò per la immediata ripercussione che le vicende agitate e contraddittorie del tempo ebbero nei temi e nello spirito della sua poesia. a) La vita e le opere Pur non prendendo attiva parte agli avvenimenti politici del suo tempo, Monti ne fu sempre coinvolto; meglio, ne fu coinvolta la sua attività di poeta. Sicché non è possibile

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L’Ottocento parlare dei fatti e dei momenti della sua vita senza parlare contemporaneamente delle sue opere, che della sua vita rappresentano appunto i fatti più importanti e significativi. Nato ad Alfonsine (Ravenna) nel 1754, Monti compì i suoi studi prima a Faenza, poi a Ferrara. Ed a Ferrara compì anche il suo tirocinio poetico, componendo, tra l’altro, una Visione di Ezechiele, poemetto di ispirazione religiosa che gli procurò notorietà soprattutto nell’ambiente della curia romana. E fu proprio per effetto di questa notorietà che nel 1778 il poeta poté trasferirsi a Roma e divenire segretario del duca Luigi Braschi, nipote di papa Pio VI. Aveva inizio così il “periodo romano” dell’attività poetica del Monti, caratterizzato da un atteggiamento ideologico conservatore. Certamente non mancano in questo periodo componimenti estranei ad una presa di posizione politica: Al signor di Montgolfier, infatti, è un’ode composta per celebrare i primi esperimenti di navigazione aerea; La bellezza dell’Universo è un poemetto in terzine in cui, secondo il mito neoclassico, si esalta la Bellezza come figlia di Dio e sorella di Amore; i versi sciolti Al principe Sigismondo Chigi sono la malinconica rievocazione di un amore infranto; la Musogonia è un poema che esalta l’incivilimento del genere umano promosso dalle Muse attraverso l’opera sublimatrice della poesia. Tuttavia, predominano le opere di manifesta intonazione conservatrice e perciò encomiastiche nei confronti del pontefice e di opposizione nei confronti delle idee che venivano dalla Francia rivoluzionaria. La stessa Prosopopea di Pericle, che sembra un’ode di occasione ispirata dal ritrovamento di un busto dello statista ateniese, si risolve in un omaggio sperticato al mecenatismo di Pio VI. Un elogio del quale è anche il Pellegrino apostolico, rievocazione in tono epico del viaggio compiuto dal papa a Vienna per dissuadere Giuseppe II dalle sue riforme in seno alla Chiesa austriaca. Ma l’opera più importante tra quelle di intonazione encomiastica ed anche una delle più pregevoli di tutta la produzione montiana – vi lavorò, infatti, per quasi tutta la vita – è la Feroniade: qui il poeta, rievocando il mito della ninfa Feronia, esalta il tentativo di Pio VI di bonificare le paludi pontine. Ad una presa di posizione critica nei confronti della Rivoluzione francese si ispira la Basvilliana, un poema in terzine rimasto incompiuto (1793). Il poeta immagina che l’anima di Ugo Basville, venuto in Italia per difendere la causa della Rivoluzione ed ucciso a Roma dalla plebe inferocita dal regicidio, per espiare le proprie colpe sia costretta a constatare dall’aldilà gli orrori causati dalla Rivoluzione e dalla nefanda decapitazione del re Luigi XVI. La ragione dell’interruzione della composizione della Basvilliana è da cercarsi nel fatto che il poeta, convinto ormai del successo che la Rivoluzione era destinata a cogliere, abbandonò quasi furtivamente Roma, roccaforte dell’opposizione antifrancese, e si trasferì a Milano, capitale della Repubblica Cisalpina. Ebbe così inizio il “secondo periodo” dell’attività letteraria del Monti, un periodo anch’esso ideologicamente impegnato, ma in senso opposto al precedente; ora il “cittadino Monti” è poeta di spiriti giacobini: rinnega la Basvilliana; scrive accese e violenti cantiche in terzine (il Fanatismo, la Superstizione e il Pericolo) contro la tirannide pontificia e la superstizione religiosa; giunge finanche ad esaltare quel regidicio che aveva deplorato nella Basvilliana:

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L’Ottocento Il tiranno è caduto. Sorgete, genti oppresse; Natura respira; re superbi, tremate, scendete: il più grande dei troni crollò.284

Ma nuovi avvenimenti politici travolgono il poeta. Gli Austriaci nel 1799 rioccupano Milano. Monti ripara a Parigi; ritornerà a Milano nel 1800, al seguito delle truppe francesi vincitrici a Marengo e saluterà la patria con accenti da donnicciola: Bell’Italia, amate sponde pur vi torno a riveder, trema in petto, e si confonde l’alma oppressa dal piacer.285

Ora il protagonista della vita politica è Napoleone Bonaparte, non più soltanto generale della Repubblica, ma manifesto aspirante ad un potere assoluto che, in nome della restaurazione dell’ordine, dovrà mettere a tacere i fervori giacobini. Ed anche Monti, deposta la passionalità giacobina, diviene un moderato, un poeta cesareo destinato ad esaltare i fasti del nuovo Impero. Inizia allora il “terzo periodo” dell’attività montiana: per Napoleone che passa da una vittoria ad un’altra e promette all’Europa, esausta dalle guerre, la pace e la giustizia, il poeta compone la Mascheroniana, Il Bardo della Selva Nera, La spada di Federico II. Poi la fiducia nella missione del Bonaparte si affievolisce e la musa del Monti cerca altrove, in motivi che non siano soltanto politici e d’attualità, la sua ispirazione. Nasce così quella traduzione286 dell’Iliade di Omero alla quale aveva già pensato da anni e che, come vedremo, costituirà il suo capolavoro. “Quarto periodo”: tramonta l’astro napoleonico e gli Austriaci tornano definitivamente a Milano; il Monti li saluta entusiasta, esaltando col Ritorno di Astrea il ripristino dell’ordine e della legalità dopo il disordine giacobino ed il dispotismo napoleonico. E dagli Austriaci accetta anche l’incarico di collaborare al periodico culturale La Biblioteca italiana287. Intanto gravi dispiaceri affliggono il poeta già vecchio: la morte del genero Giulio Perticari (prezioso suo collaboratore nella redazione della già citata Proposta), le calunnie di presunti scandali familiari, la paralisi. Uno degli ultimi suoi canti, ed anche dei più belli (Per l’onomastico della mia donna), si ispira al tenero affetto per la moglie Teresa Pikler ed al malinconico pensiero della morte vicina. Muore a Milano nel 1828. b) L’uomo Attraverso la periodizzazione della produzione montiana, tenendo soprattutto conto della disposizione ideologica, si può notare quanto incostante e palesemente contradditto284

Vincenzo Monti, Nell’anniversario della morte di Luigi XVI, vv. 1-4. Vincenzo Monti, Dopo la battaglia di Marengo, vv. 1-4. 286 Terminata nel 1810 e più volte ritoccata fino al 1825. 287 Rivista attiva dal 1816 al 1859. 285

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L’Ottocento rio sia il pensiero politico del poeta, che sdegnosamente condanna la Rivoluzione e subito dopo ne condivide il fervore giacobino, che esalta la religione e poi ne scopre i fondamenti superstiziosi, che prova obbrobrio per l’assassinio di Luigi XVI e poi esalta il regidicio come conquista di libertà, che divinizza Napoleone e poi ne smaschera il dispotismo, che esalta con eguale entusiasmo i Francesi che vengono a liberarci dal dominio dell’Austria e gli Austriaci che vengono a riscattarci da quello della Francia. A proposito dell’uomo Monti: «Non aveva l’indipendenza sociale dell’Alfieri e non la virile moralità del Parini: era un buon uomo che avrebbe voluto conciliare insieme idee vecchie e nuove, tutte le opinioni e, dovendo pur scegliere, si teneva stretto alla maggioranza, e non gli piaceva di fare il martire. Fu dunque il segretario dell’opinione dominante, il poeta del buon successo» (De Sanctis). E ancora: «Accanto al poeta bisogna saper collocare il giornalista Monti, la voce dei tempi, un giornalista come poteva costumare allora, che scriveva i suoi libelli col soccorso di tutto il vocale Elicona. E ai giornalisti per le loro cosiddette conversioni è noto che non si usa fare il processo: essi sono le guide passive delle passioni popolari, la personificazione eminente della volubilità del volgo. Un processo a loro deve convertirsi più equamente in un processo agli umori variabili della storia» (Russo). In effetti, erano senz’altro tempi quelli di disordine politico e di confusione di idee: e difficile era comprendere da qual parte fosse la ragione, da quale invece la violenza; chi fosse l’amico e il liberatore, chi invece il nemico e l’oppressore. Riferendosi a Napoleone, il lucchese Lazzaro Papi288 si chiedeva in un suo sonetto: quel che dall’Alpi ora discende […] ceppi a noi reca o libertà ci rende?

Monti, insomma, ebbe il destino di vivere in una generazione che, sentendosi soccombere tra tante speranze deluse e gli strazi di venti anni di guerra, era pronta ad acclamare ora questo straniero ora quest’altro sol che sembrasse portar pace e libertà. E si pensi che a fianco al Monti che salutava gli Austriaci col suo Ritorno di Astrea, tra la folla acclamante c’era lo stesso Federico Confalonieri che sarebbe stato poi inviato allo Spielberg per i moti del 1820-21. c) Il poeta Del resto, al Monti non interessava la coerenza delle idee, ma la coerenza della poesia. Scrivendo ad un amico a proposito della Basvilliana diceva che «costretto a sacrificare la sua opinione, si era adoperato di salvare se non altro la fama di non cattivo scrittore» e che «l’amore della gloria poetica era prevalso in lui al rossore del mal ragionare». E non interessavano al poeta neanche gli avvenimenti contemporanei – anche se la maggior parte delle sue opere da quegli avvenimenti prendevano spunto – bensì la trasfigurazione mitica che egli veniva compiendo di tali avvenimenti. Pur se aveva l’apparenza di nascere dalla realtà, la sua poesia tendeva ad emigrare verso il mito e la visione. I fatti 288

LAZZARO PAPI (1763-1834) è noto soprattutto per la traduzione (1811) del Paradiso perduto di John Milton.

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L’Ottocento e le idee, come i sentimenti e le passioni, una volta che egli voleva tradurli in poesia, si velavano di miti e si annullavano in essi. Voleva esaltare Montgolfier che aveva costruito il pallone aerostatico ed il suo pensiero correva a Giasone che con la sua nave Argo per la prima volta solcò il mare; voleva condannare Parigi sanguinaria e la chiamava Tebe. Il mito non era mai però per Monti erudizione e riempitivo; era, secondo il concetto neoclassico, trasferimento della realtà nel mondo dell’immaginazione e dell’arte, affinamento e sublimazione di tutto nei termini della pura bellezza. In una tale concezione della poesia gli affetti e i sentimenti sfumano e si diluiscono in immagini e musicalità. Era quanto notava Leopardi, quando nello Zibaldone scriveva che Monti era poeta dell’orecchio e dell’immaginazione, ma del cuore in nessun modo. Il che, come precisò Croce, non significava che Monti fosse non poeta, un retore letterario e tecnico, un uomo di immaginazione privo di sentimento e fantasia; significava, invece, che se difettava di quel sentimento nel senso comunemente inteso (cioè del sentimento per le cose reali, morali, politiche, religiose), era però ispirato dal sentimento estetico: cioè l’amore per la bella forma, per l’arte, per la letteratura. Il che vuol dire ancora che Monti era commosso non da un sentimento colto nella sua immediata realtà, ma dalla rappresentazione letteraria di quel sentimento. Era naturale che un poeta che si ispirava non alla vita ma all’arte – e che faceva la poesia sulla poesia – avvertisse il bisogno costante di modelli letterari. Infatti, qualunque sia l’avvenimento contemporaneo che vuol cantare, Monti va subito alla ricerca di un modello letterario che lo ispiri: vuol parlare degli errori di Basville (La Basvilliana) o della missione ordinatrice e pacificatrice di Napoleone (La Mascheroniana) e ripensa alla Commedia di Dante; vuol celebrare il tentativo di bonifica delle paludi (la Feroniade) e rispolvera Virgilio e Ovidio; è attratto dagli applausi del teatro (Aristodemo, Galeotto Manfredi, Caio Gracco) e rilegge Alfieri, Shakespeare, Ossian. Ed era naturale ancora – dal momento che, ripetiamo, la più profonda commozione riusciva egli a trarre non dalla vita, ma dalla letteratura – che il suo capolavoro fosse un’opera di traduzione: la traduzione dell’Iliade di Omero. Non interessava che non conoscesse a fondo il greco (cosa del resto discutibile e che comunque Foscolo gli rimproverava289) interessava la profonda commozione che egli provava di fronte a quei versi sublimi. Da tale commozione, tutta estetica e letteraria, nacque il suo capolavoro. d) L’arte Leggendo la poesia del Monti, anche quando si avvertono i limiti dell’uomo, anche quando si cerca invano una maggiore partecipazione sentimentale e si sente invece che la vita nell’urgenza delle passioni, nell’effervescenza dei sentimenti, nella vitalità degli ideali sfugge e si dilegua tra versi immaginifici e canori, sempre si resta stupiti ed ammirati delle belle forme, delle belle immagini, dei bei ritmi di quella poesia. «Monti è artista squisitissimo in tutte le sue cose, in tutti i particolari di esse e, direi, in ogni sua parola, in ogni suo accento. Non mai immagine alcuna entrò nella sua fantasia senza uscirne come farfalla dalle ali dorate e scintillanti. Anche in poeti sommi si trova qualche parte in cui 289

«Ecco il Monti, poeta e cavaliero / gran traduttor dei traduttor d’Omero».

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L’Ottocento l’arte langue e rimane greggia. Ma nel Monti l’immagine almeno non manca mai, anche là dove manca un’idea intima e propria. Nei suoi campi tutto verdeggia e olisce, e, a percorrer dall’un termine all’altro, non c’è caso di imbattersi in un luogo, non dico deserto, ma neppur disameno. Nel suo cielo non c’è mai nebbia, non c’è un lembo soltanto che non splenda e non rida» (Zumbini). Per queste caratteristiche della sua poesia Monti non poté né può certamente essere un poeta popolare: per intendere il significato dei suoi miti e il valore immaginifico e musicale dei suoi versi si richiedono cultura e laboriose esperienze tecniche.

La letteratura minore a) Ippolito Pindemonte Tra i poeti minori di questo periodo particolare menzione merita Ippolito Pindemonte (Verona 1753-1828): e non tanto per la ricchezza della sua produzione letteraria – tragedie, romanzi, novelle in versi, traduzioni, poesie liriche e poesie satiriche – quanto per la sua apertura a tutti gli atteggiamenti della cultura contemporanea: dal neoclassicismo al preromanticismo lugubre ed ossianico. Tuttavia, pur in tanta varietà di esperienze letterarie, la nota costante della poesia di Pindemonte è la malinconia: sia che il poeta contempli, come fa nelle Poesie campestri (1788), la pace dei campi e la bellezza della natura; sia che affronti, come fa nel carme epistolare I sepolcri (1807, dedicato a Foscolo), il tema della morte e della caducità di tutto quanto è terreno; sia ancora che, traducendo l’Odissea di Omero290, interpreti con intensa consonanza spirituale la malinconia del protagonista, esule dalla patria e dagli affetti. b) La storiografia Al clima del purismo si riallacciano le opere storiografiche di CARLO BOTTA (S. Giorgio Canavese 1766 - Parigi 1837) e PIETRO COLLETTA (Napoli 1775 - Firenze 1831): e non solo per un attento interesse formale ed un’assidua ricerca di purità linguistica, ma anche per la costante e convinta difesa delle nostre tradizioni classiche e della nostra autonomia nazionale, delle quali la purità della lingua voleva essere appunto garanzia e testimonianza291. Alla concezione storicistica vichiana si ricollega invece VINCENZO CUOCO (Civitacampomarano, Campobasso 1770 - Napoli 1823), autore di un Saggio sulla rivoluzione napoletana del 1799 (1801). Analizzando le ragioni dell’insuccesso della rivoluzione napoletana, il Cuoco le rinviene nel fatto che assente fu in quei moti la coscienza popolare e che si volle imporre da noi il modello della rivoluzione francese, non adeguato alla parti290

Traduzione terminata nel 1815, ma pubblicata solo sette anni dopo. Carlo Botta scrisse la Storia della guerra degli Stati Uniti d’America, la Storia d’Italia dal 1789 al 1814 e la Storia d’Italia continuata da quella del Guicciardini fino al 1789. Pietro Colletta fu autore di una discutibile Storia del reame di Napoli dal 1734 al 1825.

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L’Ottocento colare situazione del Napoletano. È facile notare come una storiografia così concepita, non più intenta ad interpretare l’azione dei singoli ma le condizioni storico-ambientali, era un fatto nuovo, una esemplificazione addirittura delle tesi dello storicismo vichiano. Coerente con tale assunto anche Platone in Italia (1804), romanzo archeologico-politico in forma epistolare che esaltava le origini autoctone della cultura italiana e che ebbe grande fortuna nel Risorgimento. Ispirata a sentimento patriottico e perciò anch’essa utile alla causa del Risorgimento fu anche l’opera di FRANCESCO LOMONACO (Montalbano Ionico, Matera 1772 - Pavia 1810). Pur avendo avuto una formazione illuministica – aveva scritto L’analisi della sensibilità, connessa alle teorie di Condillac292 – non condivise il cosmopolitismo razionalistico e si fece sostenitore della coscienza nazionale e delle glorie patrie. A questi sentimenti si ispirarono le sue Vite degli eccellenti italiani (1802), da Dante a Filangieri, e le Vite de’ famosi capitani d’Italia (1804). Di ispirazione giacobina è invece il Rapporto al cittadino Carnet (1800), requisitoria contro il comandante francese a Napoli, reo di non aver difeso la città dalle forze legittimiste.

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Cfr nota 243.

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L’Ottocento

Ugo Foscolo Un posto a parte entro l’area letteraria del periodo napoleonico spetta ad Ugo Foscolo: e non solo perché in lui confluiscono tutti gli atteggiamenti culturali e le esperienze letterarie di quel periodo, ma soprattutto perché quegli atteggiamenti e quelle esperienze egli riplasmò e rivisse alla luce della sua forte personalità di uomo e di poeta.

La vita La vita di Ugo Foscolo, intensa, travagliata e ricca di avvenimenti avventurosi – amori e battaglie, mondanità aristocratica e spietata miseria, fama ed esilio, forse arresto per debiti – è il tipico caso di esistenza che si presta ad una biografia romanzata. Tentazione alla quale mal resistono i biografi del poeta e gli stessi autori di storie letterarie, che spesso impegnano molte pagine sull’argomento. Per conto nostro, fedeli al programma di ridurre al minimo indispensabile le nozioni, accenneremo soltanto ai fatti principali ed indispensabili per la conoscenza dell’uomo e del poeta. Ugo293 Foscolo nacque nel 1778 a Zante, isola dello Ionio, chiamata Zacinto dai poeti greci ed allora possedimento della Repubblica veneta: il padre era un medico di origine veneziana, la madre era greca. Frequentò le scuole tra Spalato, Zante e Venezia, dove, morto il padre, si trasferì con la famiglia vivendo in dura povertà. Qui compose le prime poesie – sonetti, canzonette, anacreontiche – che gli procurarono qualche riconoscimento nell’ambiente letterario e, soprattutto, la simpatia e l’amore della gentildonna Isabella Teotochi, che fu la prima delle tante donne amate dal poeta. Intanto, per effetto della sua formazione culturale, di cui parleremo in seguito, il poeta accoglieva con entusiasmo le idee rivoluzionarie che venivano dalla Francia e si schierava apertamente per esse: perciò fu preso di mira dal governo veneziano al punto che ritenne opportuno lasciare Venezia e rifugiarsi per qualche mese sui Colli Euganei, dove concepì la prima idea del futuro Ortis. Di là si trasferì a Bologna, allora capitale della Repubblica Cispadana, arruolandosi come Cacciatore a cavallo. Allorquando le truppe francesi entrarono in Venezia, Foscolo poté finalmente tornare in città, divenendo uno dei quattro segretari della nuova Municipalità. Ma l’entusiasmo del ritorno durò poco: il trattato di Campoformio, col quale Napoleone tradiva Venezia cedendola all’Austria, lo riempì di sdegno, gli fece nascere un’avversione inestinguibile per il tiranno francese e lo costrinse a riparare a Milano, capitale della Repubblica Cisalpina. Mentre tuonava contro ogni forma di corruzione e di abuso politico dalle colonne di vari giornali, strinse amicizia col Monti – della cui moglie, Teresa Pikler, si invaghì – e conobbe il Parini già vecchio. Riprese le armi come luogotenente della Guardia Nazionale, combatté a Cento contro gli insorgenti, fu ferito. Trasferitosi a Firenze, incappò in un’altra fiera quanto sfortunata passione amorosa: lei questa volta è la bella Isabella Roncioni. Quindi, a Genova fece parte delle truppe del generale Massena assediate dagli Austriaci. A Milano, sentendosi trascurato da parte del governo della repubblica, cercò conforto nella vita mondana: ed è così che, frequentando i salotti dell’aristocrazia cittadina, conobbe e s’innamorò di Anto293

Il vero nome del poeta era Niccolò, ma a diciannove anni assunse quello di Ugo.

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L’Ottocento nietta Fagnani Arese. Tornato alle armi fu addetto allo Stato maggiore della divisione italiana che doveva far parte del corpo di spedizione contro l’Inghilterra; e mentre svernava con l’esercito in una cittadina francese sulla Manica ebbe una relazione amorosa con la giovane inglese Fanny Emerytt: da questa relazione avrà una figlia, Floriana, che gli prodigherà affettuosa assistenza negli ultimi anni della sua vita. Nel 1808, diffondendosi sempre più la fama dei suoi meriti letterari, ottenne la cattedra di eloquenza nell’Università di Pavia; ma non vi poté tenere che la prolusione al corso ed appena cinque lezioni, perché – come tutte le cattedre di eloquenza – venne soppressa per decreto napoleonico. Quindi a Milano, a Bologna e a Firenze incappò in altri amori: per Maddalena Bignami, Cornelia Martinetti e Quirina Mocenni Magiotti; quest’ultima fu senz’altro la sua amica più appassionata e devota. Era a Milano nel 1814, allorquando, tramontata la potenza napoleonica, gli Austriaci vi fecero ritorno: rifiutò gli incarichi che i nuovi padroni volevano offrirgli per ingraziarselo e di soppiatto partì esule per la Svizzera. Due anni dopo si trasferì a Londra, attrattovi dall’indomito e fiero amore per la libertà che gli Inglesi avevano sempre dimostrato nel corso della sua storia. Qui visse collaborando a riviste culturali. Raggiunto dalla figlia Floriana, con la dote di lei decise di costruire ed arredare una splendida villa – il Digamma Cottage –: ma il denaro non gli bastò e fu costretto a pesanti debiti; per pagarli dovette vivere di stenti ed impartire lezioni private. Ma neanche questo gli valse: la villa gli venne sequestrata e sembra che, in quell’occasione, per effetto delle dure leggi inglesi, subisse anche l’arresto. Fu così costretto a trasferirsi in quartieri poveri e a vivere di stenti; ma alla fine poté finalmente consolarsi al pensiero di aver pagato tutto e di non aver più creditori. Colpito da idropisia, mori nel villaggio di Tumham Green, presso Londra, nel 1827.

L’uomo a) Il carattere I fatti della vita del Foscolo che siamo andati esponendo già danno l’idea di qual fosse il suo carattere. Aveva tutte le caratteristiche di quello che suol definirsi un temperamento romantico: fu sensibile, sentimentale, malinconico, irrequieto, passionale, irruente. Scrisse una volta: «L’unico mio compagno, il solo che mi è rimasto tra le disgrazie, è il cuore» ed altra volta, scherzando sul suo cognome e attribuendogli un’etimologia greca – fos (luce) e colos (bile) – disse che egli era tutto ardore e risentimento, sempre aperto e disposto ai più accesi moti del cuore. E nel sonetto nel quale traccia il suo autoritratto con espressioni scultoree, confessa sinceramente, anche se con accenti alfieriani, di essere: Ratti i passi, i pensier, gli atti, gli accenti; sobrio, umano, leal, prodigo, schietto; avverso al mondo, avversi a me gli eventi: talor di lingua, e spesso di man prode; mesto i più giorni e solo, ognor pensoso; pronto, iracondo, inquieto, tenace: di vizi ricco e di virtù, do lode

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L’Ottocento alla ragion, ma corro ove al cor piace: morte sol mi darà pace e riposo.294

Questi aspetti del suo carattere, spinti a volte al limite massimo, potevano dare l’impressione di qualcosa di eccessivo, di esaltato in lui, quasi di un atteggiamento tra megalomane e donchisciottesco: non a caso si firmò qualche volta “Ugo Foscolo detto Ugo Chisciotte”; e non diversamente possono spiegarsi il suo compiacersi di esser solo e contrario a tutti i partiti, il suo cambiar nome da Niccolò ad Ugo e le spese smodate e avventate che sostenne per costruirsi e splendidamente arredarsi il Digamma Cottage. Difetti di coerenza e di calcolo, certamente, ma difetti a cui pervengono i temperamenti istintivi e gli animi aperti agl’impeti disinteressati e generosi. b) La formazione culturale Il suo carattere istintivo e ribelle dovette naturalmente fargli avversare il grigiore chiuso e rigido delle scuole e delle accademie. Rievocando in una lettera al Monti alcuni momenti della sua fanciullezza, scrisse: So poco: nella mia fanciullezza fui tardo, caparbio, infermo spesso per malinconia e talvolta insano e feroce per ira; fuggivo dalle scuole e ruppi la testa a due maestri. Vidi appena un collegio e ne fui cacciato. Spuntò in me a sedici anni la voglia di studiare, ma ho dovuto studiare da me.

I suoi studi, infatti, doveva sceglierseli da sé, perché dovevano appagare le sue esigenze spirituali. Senza sviarsi dietro letture che riteneva inutili – «parco cultor di pochi libri vivo» – lesse e rilesse con passione Plutarco, Tacito, Machiavelli; e naturalmente i classici greci che, greco in parte qual era, conosceva quasi fossero scrittori italiani. Ma tutto questo costituiva il retroterra della sua cultura. La sua più vera ed intensa formazione culturale e spirituale ha altri e più vicini maestri e modelli; e sono: il sensismo condillachiano, che gli forniva la concezione meccanicistica e materialistica dell’esistenza; lo storicismo vichiano, che oltre a fargli intendere le leggi evolutive che guidano il cammino delle nazioni e il corso stesso della civiltà, gli faceva intravedere nell’operosità creativa un rimedio al tedio della vita; la lezione pariniana, che gli prospettava la funzione didattica e quasi sacerdotale della poesia; l’animus alfieriano, che gli dava il senso dell’eroicità della vita e della poesia; la poesia nordica e sepolcrale, che gli forniva i toni e le immagini per esprimere il suo senso pessimistico e doloroso del vivere; ed ancora la concezione neoclassica dell’arte, che gli permetteva di approdare ad una visione serenatrice e catartica della poesia. Elementi formativi che appaiono contraddittori, e che in se stessi lo sono, ma che, rivissuti dall’animo del Foscolo, ne costituivano la dialettica dei sentimenti e delle idee.

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Ugo Foscolo, Sonetto n. 7 (Solcata ho la fronte), vv. 6-14.

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L’Ottocento c) L’intuizione dell’esistenza La poesia lugubre e sepolcrale non era soltanto una moda venuta dal Nord, era l’espressione poetica di un diffuso stato d’animo, di quel senso di smarrimento e di angoscia che aveva preso gli uomini tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento e che si disse le mal du siécle. Le promesse ottimistiche dell’Illuminismo erano state travolte da un duplice tradimento: prima dagli eccessi sanguinari della Rivoluzione, poi dall’involuzione segnata dal dispotismo napoleonico. Per di più il sensismo prospettava agli uomini una concezione dell’esistenza in cui non era spazio per i valori spirituali ed in cui tutto si risolveva a gioco meccanicistico e senza finalità alcuna di elementi materiali. In un universo senza Dio e senza fini gli uomini si sentirono smarriti. «Ora i temi del pensiero europeo s’eran fatti cupi e tetri, mentre anche la poesia tendeva a temi sepolcrali, e venivano in onore prima che i notturni nella musica, le notti nella letteratura» (Flora). Anche Foscolo condivise la concezione materialistica dell’esistenza, ma, pur condividendola, ne avvertiva il profondo squallore. Quelle premesse materialistiche e meccanicistiche, cui pur tenne fede sul piano razionale per tutta la vita, urtavano le esigenze del suo spirito bisognoso di dare un significato alla vita dell’uomo ed al suo agire. Ne nacque un dissidio profondo tra meccanicismo e finalismo, tra materialismo e spiritualismo, il che vuol dire, insomma, tra le ragioni dell’intelletto e quelle del cuore. Da ciò la sua cupa intuizione dell’esistenza; da ciò la sua struggente malinconia, la sua “consunzione dell’anima”; da ciò quel suo costante rivolgere il pensiero alla morte. «Il pensiero della morte fu in lui pensiero, se non predominante, dominante: con la morte gli piacque sin da fanciullo domesticarsi, appunto come un personaggio shakespeariano, e non solo con quella forma di morte che sopraggiunge come fato, ma anche con l’altra che bisogna chiamare e volere col suicidio, via di uscita da serbare sempre sgombra» (Croce). Ma c’erano in Foscolo una straordinaria energia spirituale, un continuo bisogno di espansione e di azione, un’esigenza creativa (che gli veniva anche dalla lezione vichiana) che non solo lo trattenevano dal suicidio, ma che gli facevano addirittura accettare la vita con una sorprendente carica di energia, quasi di furore operativo. Il suo stesso amar tante donne (i biografi ne contano diciotto), il suo combattere eroicamente anche senza profonda convinzione politica e senza l’assoluta sicurezza della bontà della causa, il suo irrefrenabile bisogno di scrivere, comunicare, conoscere e farsi conoscere ne erano una dimostrazione. Sia un bene o un male la vita, vero è che viviamo.

Se quindi si vive, necessario è legare la vita a miti che la rendano bella e che le diano un significato: l’amore, la patria, l’eroismo, la poesia, l’immortalità, la bellezza. Che l’intelletto, imbevuto di sensismo, abbia distrutto questi valori non conta: negati dall’intelletto, essi vengono riposti dal sentimento; se non possono aver nome di ideali, avranno nome di illusioni. Ecco la foscoliana teoria delle illusioni, ovvero la sua “filosofia del sentimento”: una creazione del poeta, il frutto della sua energia spirituale, del suo pensiero dialettico, del suo urgente bisogno di credere e di operare; ma nella quale confluiscono anche il titanismo alfieriano col suo senso eroico dell’esistenza ed il pensiero di

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L’Ottocento Kant, che con la sua Ragion pratica aveva riaffermato, per un bisogno vitale, quei valori che la Ragion pura aveva negati e distrutti.

Il tirocinio poetico Foscolo iniziò assai precocemente a scrivere versi, ma tutti poi li ripudiò, dichiarando che li aveva scritti soltanto per “vanità giovanile”. Il primo modello lo desunse dai poeti arcadi: le sue stesse anacreontiche sono – come notò Luigi Russo – tutta Arcadia e niente Anacreonte. Negli sciolti Al Sole, pur nei moduli desunti dalla poesia ossianica e younghiana, si avverte già una debole eco di quelli che saranno i temi della grande poesia foscoliana: in una dolorosa intuizione del vivere, il poeta canta, infatti, il continuo trasformarsi e dissolversi di ogni cosa. Importante non per i pregi dell’arte, ma quale documento del giovanile entusiasmo col quale Foscolo abbracciò le idee rivoluzionarie, è l’ode A Bonaparte liberatore, composta nel 1797 e ripubblicata, dopo il trattato di Campoformio, con un’altera lettera dedicatoria a Napoleone, nella quale gli rammentava le responsabilità che ogni uomo politico ha nei confronti della storia: «Avrà il nostro secolo un Tacito, il quale commetterà la tua sentenza alla severa posterità». Con la tragedia Tieste, rappresentata con successo a Venezia nel 1797, si passa dalla preistoria alla storia della poesia foscoliana. Ma anche essa, nonostante qualche verso potente, è da ascriversi – come le altre due tragedie che il poeta comporrà in seguito: l’Aiace e la Ricciarda – tra le opere minori del Foscolo.

Le Ultime lettere di Jacopo Ortis Le Ultime lettere di Jacopo Ortis – romanzo epistolare la cui stesura fu lunga e soggetta a varie vicissitudini – rappresentano la prima importante opera del Foscolo ed una di quelle che meglio ne caratterizzano gli stati d’animo e i sentimenti. La prima idea del romanzo risale al tempo del Tieste, allorquando il poeta stese alcune Lettere a Laura, nome sotto cui sembra che si celasse Isabella Teotochi Albrizzi della quale egli era allora innamorato. La prima edizione del romanzo – quella che comunemente si definisce il “primo” Ortis – è del 1799; si tratta però di un’edizione che il Foscolo ripudiò, protestando anzi contro l’editore che, per dar subito alle stampe il romanzo – il poeta era allora impegnato in fatti d’arme – ne aveva fatto scrivere la conclusione ad un certo Sassoli. La seconda edizione, invece – quella che suol definirsi il “secondo” Ortis – è del 1801-2. In questa seconda edizione l’autore non purgò soltanto il romanzo delle adulterazioni compiute dal Sassoli, ma compì importanti variazioni, anche a proposito dei personaggi295. Protagonista del romanzo è il giovane veneziano Jacopo Ortis che, costretto a riparare esule sui colli Euganei, a seguito del Trattato di Campoformio, scrive di là una serie di 295

La donna amata da Ortis nella prima edizione era una bruna vedova, nella seconda, invece, una bionda fanciulla. La variazione era forse dovuta al fatto che intanto il poeta aveva avuto una nuova esperienza d’amore, quella dolorosa per la giovane Isabella Roncioni.

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L’Ottocento lettere all’amico Lorenzo Alderani296. Nelle lettere egli da sfogo non solo al suo dolore di esule, ma anche alla sua disperata passione d’amore: è invaghito della giovane Teresa, già promessa dal padre ad un Odoardo. È inutile dire come sotto Jacopo si celi lo stesso Ugo Foscolo e come tutto il romanzo abbia valore autobiografico: e non tanto per le vicende esteriori – il rifugio del poeta sui colli Euganei, la sua sfortunata passione per la Isabella Roncioni – quanto per gli stati d’animo: l’amore irraggiungibile, la patria perduta, l’angoscia del vivere, la costante meditazione della morte, l’ossessione della sepoltura, il vagheggiamento delle illusioni. E se, nonostante questo vagheggiamento delle illusioni, Jacopo, sopraffatto dalla sfortunata e tragica passione d’amore, approda al suicidio piantandosi un pugnale nel petto – ed è questa la conclusione del romanzo – è perché Foscolo ha voluto proiettare in Jacopo la idealizzazione eroica del suo “io”, giungendo ad una soluzione titanica – ancora la suggestione alfieriana! – che non è una rinunzia, ma una conquista: la conquista dell’assoluta libertà dello spirito dai condizionamenti della realtà. Jacopo, insomma, è un tipico eroe alfieriano, che, insofferente degli adattamenti e dei compromessi imposti dalla vita, se ne libera uccidendosi. La vocazione alla morte sembra perciò congenita in lui, al punto che la passione amorosa sembra un pretesto per attuarla. Perciò il romanzo appare privo di sviluppo e povero di episodi: la soluzione è già tutta quanta nell’apertura. Jacopo non ha ancora conosciuto Teresa e già, per lo stato servile della sua patria, è disperato e disposto alla morte. Già nella prima lettera si legge: Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto; e la vita, seppure ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure, e la nostra infamia. […] Per me segua quel che può. Poiché ho disperato e della mia patria e di me, aspetto tranquillamente la prigione e la morte. Il mio cadavere almeno non cadrà fra braccia straniere […].297

Si disse che componendo l’Ortis Foscolo subisse l’influenza delle I dolori del giovane Werther del Goethe. La somiglianza, in superficie, è innegabile; ma lo stesso Foscolo in una sua lettera chiarì la profonda diversità tra i due romanzi e, soprattutto, tra i due protagonisti «per natura e circostanze differentissimi»: perché mentre Werther si mostra felice e pieno di speranze ad apertura del romanzo, Jacopo «disperando dell’amore e dell’indipendenza della sua patria, si mostra già dalle prime parole com’uomo che si crede di aver vissuto già troppo». Questa costante tensione psichica del protagonista rende lirica più che narrativa la sostanza dell’opera. Da ciò quel linguaggio tanto spesso declamatorio del protagonista, a volte esclamativo ed interrogativo, che costituisce senz’altro un limite dell’opera, almeno per il nostro gusto di moderni. Tuttavia l’Ortis, destinato a grande diffusione e a grande fama tra le generazioni del Romanticismo e del Risorgimento italiano, è opera tra le più importanti del Foscolo: e 296

Il nome di Jacopo deriva forse da quello di Rousseau (autore anch’egli di un romanzo epistolare, La nouvelle Héloise), il cognome da un certo Ortis, studente padovano finito suicida. Sembra che sotto l’Alderani si celi lo scrittore Giambattista Niccolini, amico del Foscolo (cfr oltre § Il dramma storico). 297 Ugo Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, lettera del 11 ottobre 1797.

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L’Ottocento non solo perché «è come una proiezione su uno schermo cinematografico di un giovanile autoritratto del Foscolo stesso in movimento» (Citanna), ma perché già contiene quei motivi che saranno poi liricamente ripresi nei Sepolcri.

I sonetti e le odi Intanto, quei motivi tornano in alcuni tra i migliori sonetti del Foscolo, che in tutto sono dodici e vennero composti tra il 1798 ed il 1802. Il primo, nell’ordine cronologico, è ispirato dallo sdegno del poeta nei confronti del decreto (che egli chiama “sentenza capitale”) della Cisalpina che proponeva l’abolizione dell’insegnamento del latino. Seguono tre sonetti di ispirazione autobiografica, nei quali il Foscolo o traccia, secondo il modello alfieriano, il suo autoritratto o esprime il suo pianto di esule, la sua passione di amante senza speranza, le condizioni tristi della sua esistenza: Figlio infelice e disperato amante, e senza patria, a tutti aspro e a te stesso; giovine d’anni e rugoso in sembiante.298

Ecco quindi quattro sonetti amorosi, ispirati – sostengono i biografi – dall’amore per Isabella Roncioni. Sotto l’eloquenza della forma ed il tono un po’ melodrammatico non si avverte la sincerità del sentimento amoroso; tutti i concetti sono di origine petrarchesca e la stessa donna amata è ritratta in modo del tutto impersonale. In effetti Foscolo qui, come altrove – si ricordi che la stessa Teresa dell’Ortis è personaggio freddo e privo di rilievo – non riesce mai a dare ai personaggi femminili potente e drammatica personalità a meno che non li proietti – come farà nelle odi – nel mondo del mito. E la ragione non è tanto nel fatto – come notava Citanna – che poco profondi e sinceri erano i suoi sentimenti d’amore, ma nel fatto che altri interessi ed altre passioni prevalevano in lui, bruciando appieno la sua fantasia poetica. Vengono ora i sonetti migliori: in quello In morte del fratello Giovanni il canto degli affetti domestici – il fratello morto giovane e suicida, la madre vecchia piangente sulla sua tomba – si innalza a canto universale della solitudine dell’uomo sulla terra; in quello A Zacinto la prospettiva della “illacrimata sepoltura” trasforma in elegia il canto di una terra mitica, sede dell’armonia e della bellezza; in quello Alla sera, una delle poesie più belle della lirica non solo foscoliana, ma italiana, la coscienza dell’avversità del destino si placa nel pensiero e nell’invocazione della morte, in un piano di melanconica e placida serenità cosmica. Ultimo della raccolta è il sonetto Alla Musa, nel quale il poeta confessa malinconicamente l’inaridirsi dell’ispirazione poetica: in effetti, per una certa intonazione intellettualistica, questo sonetto non regge al paragone dei tre precedenti. Epigrafe dell’edizione dei sonetti era l’espressione oraziana «Sollicitae oblivia vitae», che voleva indicare il valore lenitivo che la poesia ha sulle cure e i travagli dell’esistenza: il che era senz’altro un modo neoclassico di intendere la poesia. Alla concezione neoclassica si ispirano anche le due odi del Foscolo: A Luigia Pallavicini caduta da cavallo, composta a Genova nel 1800, e All’Amica risanata, composta a Milano nel 1802. 298

Ugo Foscolo, Sonetto n. 12 (Che stai?), vv. 9-11.

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L’Ottocento Nella prima ode il poeta, prendendo spunto da un fatto di cronaca genovese – la caduta da cavallo ed il ferimento della gentildonna Luigia Pallavicini – e facendo suo un compito consolatorio e galante che ricorda la poesia arcadica e salottiera del Settecento, innalza un canto alla bellezza e alla grazia muliebre. Nella seconda il poeta si ispira invece alla donna amata Antonietta Fagnani Arese che, guarita da una lunga malattia, riacquista tutta la sua splendida bellezza. Ma mentre nella prima ode la Pallavicini è semplice pretesto per un sogno mitologico nel quale domina la divina bellezza di Venere e di Diana, nella seconda ode è la stessa Antonietta che dal mondo della realtà migra in quello del mito. In altri termini, qui il poeta non paragona la donna che lo ispira ad una dea, ma fa di ella stessa una dea: perché è funzione della poesia rendere eterna e divina la bellezza. Furono i poeti a rendere dee Diana, che era una mortale cacciatrice, e Bellona, che era un Amazzone invitta; così la bella Antonietta sarà resa divina dal canto del suo poeta: Ond’io, pien del nativo aer sacro, sull’itala grave cetra derivo per te le corde eolie; e avrai, divina, i voti, fra gl’inni miei, delle insubri nepoti. 299

Ma motivo centrale ed unificante di entrambe le odi è l’invocazione della bellezza ideale che, secondo la concezione neoclassica, è il conforto unico dei mali dell’esistenza: L’aurea beltate, ond’ebbero ristoro unico a’ mali le nate a vaneggiar menti mortali.300

I sepolcri Come la Divina Commedia, capolavoro del genere delle visioni, accoglieva entro lo schema del genere tutto il mondo ideale e passionale di Dante, così I Sepolcri, nei moduli del genere sepolcrale, di cui costituiscono il capolavoro, accoglievano tutto il mondo del Foscolo: il suo concetto di poesia, la sua ideologia, la sua filosofia del sentimento, i suoi miti, le ossessioni stesse della sua psiche. a) Composizione e struttura Nel 1806 venne esteso all’Italia l’editto napoleonico di Saint Cloud – che era del 1804 – che imponeva, per motivi di igiene pubblica, che i morti venissero seppelliti soltanto in cimiteri suburbani, e, per motivazioni egalitarie, che non vi fosse distinzione nelle tombe tra uomini oscuri e uomini illustri. Il democratico Foscolo avrebbe dovuto consentire; ed in un primo momento, nelle discussioni tra amici, consentì. Poi prevalsero in lui il con299 300

Ugo Foscolo, Alla amica risanata, vv. 91-96. Ivi, vv. 10-12.

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L’Ottocento cetto eroico dell’esistenza e gli spiriti alfieriani e prese allora sdegnata posizione contro quei provvedimenti. Da quello sdegno appassionato e convinto nacque il carme epistolare Dei Sepolcri, composto quasi di getto nel 1806 e pubblicato a Brescia l’anno seguente301. Qual fosse il pensiero del Foscolo a proposito di quelle norme lo si deduce chiaramente da una sua lettera al signor Guillon: I monumenti inutili ai morti giovano ai vivi, perché destano affetti virtuosi lasciati in eredità dalle persone dabbene; solo i malvagi che si sentono immeritevoli di memoria, non li curano; a torto dunque la legge accomuna le sepolture dei tristi e dei buoni, degli illustri e degli infami.

In queste parole è tutto lo schema concettuale del carme, ovvero il suo intento didascalico; ma la sua intima sostanza lirica si sviluppa per sentimenti ed immagini che si richiamano e si rincorrono sul filo del pensiero delle tombe. Ora questo rincorrersi ed accavallarsi di immagini e di miti può creare l’impressione di un carme che proceda senza intima connessione ed unità. E lo stesso Guillon, a cui si è accennato, lo definì oscuro, mentre il Giordani lo disse un «fumoso enigma». Invece, lo svolgimento del carme obbedisce ad una logica che ne assicura l’unità ideale ed ogni immagine è sempre in connessione con le altre, ha sempre una sua iunctura di sottofondo – che quale momento intellettualistico è e deve essere di sottofondo – non difficile da intuire. Il fatto è che Foscolo intendeva parlare non alla ragione, ma alla fantasia ed al sentimento dei lettori, trasformando così i concetti e le idee in immagini e in miti. Egli stesso confessava: «Ho desunto questo modo di poesia dai Greci, i quali dalle antiche tradizioni traevano sentenze morali e politiche, presentandole non alla ragione dei lettori, ma alla fantasia e al cuore». Avviene così, per fare qualche esempio, che il poeta renda con l’immagine dei cimiteri classici e di quelli inglesi il concetto della religione delle tombe; che a rappresentare l’umana preoccupazione del sepolcro ricordi Orazio Nelson; che il senso dell’eternità del ricordo canti col mito triste di Elettra; che esprima la sua concezione della poesia che immortala gli eroi con l’esaltazione del valore di Ettore reso immortale dalla poesia di Omero. b) La dialettica realtà-illusioni La foscoliana filosofia del sentimento – ovvero la sua fede nelle illusioni – trova il suo canto appunto nei Sepolcri. Il carme si apre, infatti, con la sconsolata ammissione del poeta dell’inutilità per i morti di tutto quanto è connesso al loro culto. È un’affermazione che nasce dalla sua convinta adesione al materialismo sensistico, che negava ogni forma di sopravvivenza spirituale al di là della morte del corpo:

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Il carme era idealmente indirizzato all’amico Ippolito Pindemonte, che stava allora componendo un poemetto sui cimiteri.

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L’Ottocento Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme, ultima Dea, fugge i sepolcri; e involve tutte cose l’obblio nella sua notte;302

Ma è proprio sulla base di questa squallida e desolante constatazione che si mette in moto la dialettica ragione-sentimento e, in contrasto dialettico con la realtà, nascono le illusioni: Ma perché pria del Tempo a sé il mortale invidierà l’illusion che spento pur lo sofferma al limitar di Dite?303

Da questo revirement, annunziato da quel “ma” contrappositivo all’inizio del verso, nasce il canto delle illusioni: i sepolcri, inutili ai morti, sono utili ai vivi, perché determinano in essi il senso illusorio di un’inestinguibile «eredità di affetti»304, di una «corrispondenza di amorosi sensi»305, di un sopravvivere, insomma, nel ricordo dei propri cari. Né i sepolcri assolvono soltanto questa funzione illusoria, ché il loro è anche un compito pedagogico: A egregie cose il forte animo accendono l’urne de’ forti, o Pindemonte; e bella e santa fanno al peregrin la terra che le ricetta.306

Testimonianza del valore umano, i sepolcri tramandano quel valore nel tempo; anzi lo affidano all’eternità: perché prima che il tempo distrugga la materialità delle tombe, un poeta ad esse si sarà ispirato e col suo canto «che vince di mille secoli il silenzio»307 renderà eterno il valore degli eroi che lì erano sepolti. Così Omero, ispiratosi sulle tombe di Troia, renderà eterno il valore di Achille e quello di Ettore: E tu onore di pianti, Ettore, avrai ove fia santo e lagrimato il sangue per la patria versato, e finché il sole risplenderà su le sciagure umane.308

Così, per effetto della dialettica realtà-illusioni, i Sepolcri, apertisi con la desolata ammissione dell’oblio, si chiudono con l’affermazione dell’immortalità dell’umana virtù. Ma l’immortalità affermata dal Foscolo non è quella cristiana dell’anima, ma quella del ricordo delle virtù umane, poiché la religione del Foscolo «è una religione terrena senza promessa di resurrezione, senza neppur promessa di sopravvivenza nella sottil materia 302

Ugo Foscolo, Dei sepolcri, vv. 16-18. Idem, vv. 23-25. 304 Idem, v. 41. 305 Idem, v. 30. 306 Idem, vv. 151-154. Da notare il superamento dell’egualitarismo, con quella sottolineatura (il forte animo) delle qualità di chi deve e può imparare. 307 Idem, v. 234 308 Idem, vv. 292-295. 303

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L’Ottocento dell’anima: si vive nella coscienza dei superstiti, si continua a vivere nella loro opera migliore, si vive nel canto eterno delle muse. All’aldilà dell’anima si sostituisce l’aldilà della poesia: l’Eliso diventa il Parnaso» (Flora). È un concetto che trova la sua immagine lirica nel mito di Elettra: cosciente che non le è concessa dal Fato l’immortalità dell’esistenza, la ninfa supplica Giove perché le sia concessa almeno l’eternità del ricordo: Se, diceva, a te fur care le mie chiome e il viso e le dolci vigilie, e non mi assente premio miglior la volontà de’ fati, la morta amica almen guarda dal cielo, onde d’Elettra tua resti la fama.309

Nella preghiera disperata d’Elettra è il disperato e titanico sforzo di Foscolo di costruirsi un nuovo concetto di immortalità al posto di quella dell’anima che la ragione gli nega: ma è un’immortalità, questa sua, aristocratica, perché riservata solo ai grandi, conseguita soltanto per egregie imprese. c) Le ossessioni foscoliane Tutto quanto il carme è pieno dell’anima del Foscolo – non soltanto là dove, come notava Russo, è manifesta la presenza grammaticale del pronome “io” – e dappertutto si esprimono le idee fisse del poeta, quelle che potremmo definire addirittura le sue ossessioni. E fu un pensiero ossessivo per il Foscolo quello della sepoltura, meglio di una sepoltura «illacrimata»310 (la parola è creazione sua). Questo pensiero è presente nell’Ortis, nel sonetto In morte del fratello Giovanni ed in quello A Zacinto ed è parte fondamentale nell’ispirazione dei Sepolcri311. Altro pensiero costante nel Foscolo fu quello del mancato riconoscimento dei meriti nel giudizio dei contemporanei. È un’ossessione, questa, che il poeta rende col mito di Aiace, defraudato, per erroneo e subdolo giudizio dei condottieri greci, delle armi di Achille. Ne parla due volte: nella tragedia Aiace e nei Sepolcri: ma qui, per la dialettica delle illusioni, l’ingiustizia umana trova riparazione nella morte: […] e la marea mugghiar portando alle prode retèe l’armi d’Achille sovra l’ossa d’Ajace: a’ generosi giusta di glorie dispensiera è morte.312

309

Idem, vv. 244-249. Ugo Foscolo, Sonetto 9 (A Zacinto), v. 14. 311 Un’indagine computazionale o quantitativa metterebbe infatti in evidenza come le parole morte, sepolcro, tomba, reliquie, ceneri, polve, urna, fossa, sepoltura etc. siano le parole “tema” e le parole “chiave” della poesia foscoliana; sarebbe quindi compito di un’indagine psicologica spiegare il perché di questa ossessione. 312 Ugo Foscolo, Dei sepolcri, vv. 218-221. 310

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L’Ottocento d) L’ideologia L’umana simpatia del Foscolo è sempre per i vinti – si pensi all’apoteosi di Ettore con cui si chiudono i Sepolcri –, per coloro insomma che sono osteggiati dagli “avversi numi” o dall’errato giudizio degli uomini. Se a questo suo atteggiamento istintivo e passionale si aggiunge la ragionata e politica avversione a Napoleone, il traditore di Campoformio, si comprenderà perché i Sepolcri sono pieni di accenti antinapoleonici ed antifrancesi. Nella teoria degli eroi ricordati nel carme non vi è un solo accenno a Napoleone, che pure era in quegli anni il trionfatore di Austerlitz e di Jena; mentre invece si esalta il suo diretto avversario, Orazio Nelson, l’eroe di Abukir e Trafalgar, e si lodano le civili e nobili costumanze di quell’Inghilterra che in quel periodo era quasi d’obbligo esecrare. Inoltre, l’allusione sarcastica al “bello italo regno”, legato all’Impero francese, dimostra chiaramente qual fossero i sentimenti del poeta nei confronti di Napoleone e della sua politica. E se, ciononostante, egli in quel periodo militava al servizio della Francia, non era perché ne condividesse la politica, ma perché riteneva che, nel paragone con la dominazione austriaca, quella francese fosse preferibile per il fatto soltanto che rendeva gli Italiani più attivi e più partecipi della vita politica e dell’attività militare313. e) L’arte Se esiste poesia che dia l’impressione di essere stata composta in stato di invasamento poetico, questa è la poesia dei Sepolcri: per il susseguirsi rapido ed incalzante delle immagini di alta tensione lirica; per il trascorrere, in meno di trecento versi, di tutto il mondo e di tutta la storia (sicché, dopo aver letto quei versi, sembra di aver letto un intero poema); per il carattere energico, vibrante ed epigrammatico dello stile; per la densità dei concetti, la sublimità delle idee, la forza delle passioni; per l’armonia dei versi, che non nasce dalla strofa, non nasce dalla rima – il carme è in endecasillabi sciolti – ma nasce dalla costante tensione lirica e dalla vibrazione del sentimento.

Le Grazie Ad un poema sulle Grazie Foscolo pensò già dal 1803, quando scrisse alcuni frammenti di un Inno alle Grazie. Ma fu tra il 1812-13 che compose i tre inni in versi sciolti che compongono le Grazie, rimaste tuttavia incompiute314. Poiché le Grazie erano creature mitologiche, intermediarie tra gli dèi e gli uomini, che agli uomini dispensavano i beni preziosi della grazia, del garbo, della moderazione degli affetti, un poema su di loro voleva essere l’esaltazione stessa di questi doni celesti. È faci313

Il pensiero delle sventurate sorti d’Italia è costante nei Sepolcri, ispirati anche dal sentimento della patria sia che canti la sventura di Troia, sia che rievochi il canto disperato di Cassandra, sia che interpreti il “pallore” dell’Alfieri. 314 L’attuale edizione critica delle Grazie venne realizzata dal critico Giuseppe Chiarini (18331908), amico “pedante” del Carducci verso la fine dell’Ottocento. Servendosi della Dissertazione e di altre carte foscoliane, il Chiarini ordinò i frammenti del poema secondo l’ordine prestabilito dal poeta.

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L’Ottocento le quindi avvertire come la concezione dell’opera rientri nella concezione stessa dell’arte neoclassica. Scrivendo al Monti, il poeta dichiarava di voler dedicare un inno alle Grazie «ove saranno idoleggiate tutte le idee metafisiche sul bello»: il che significava, insomma, che egli mirava all’esaltazione della bellezza ideale e del suo valore catartico e liberatorio, alla costruzione di un mondo luminoso e sereno, in cui i mali dell’esistenza non più s’avvertissero e, placate le passioni, lo spirito tendesse unicamente al culto della bellezza. Restava da vedere ora se l’animo appassionato del Foscolo – «la mia vita è tutta nelle mie passioni» egli scrisse – fosse capace di raggiungere una tale armonia spirituale che gli consentisse di distendere un canto di serena e distaccata contemplazione della bellezza ideale. Un dubbio che lo stesso Foscolo avvertì, visto che, scrivendo ad un amico, confessava; «darà meraviglia che sì fatta poesia possa essere uscita in sì fatti tempi e da un’anima angariata dalla fortuna e per decreto di natura nutrita sempre dalla pensosa malinconia». Forse, il fatto che il poeta non riuscì mai a completare il disegno dell’opera deve ascriversi proprio all’impossibilità di liberarsi delle sue passioni ed aderire al paradiso dell’Armonia che per lui rimase sempre un sogno ed un’illusione, mai una conquista totale dello spirito. Da ciò il carattere di poesia episodica, quasi di liriche separate ed autonome, che il poema presenta. Nell’inno primo, dedicato a Venere, si canta l’origine divina delle Grazie e l’incivilimento del genere umano per opera loro. Nell’inno secondo, dedicato a Vesta, il poeta celebra un rituale alle Grazie nella località di Bellosguardo, introducendo «tre vaghissime donne»315 da lui amate (la Nencini, la Rossi Martinetti, la Bignami), che rappresentano rispettivamente la musica, la poesia e la danza. Nell’inno terzo, dedicato a Pallade, la scena si sposta nella favolosa Atlantide; e qui Pallade, per proteggere le Grazie dalle passioni divoratrici degli uomini, fa tessere un velo per avvolgerle, sul quale sono raffigurati momenti e passioni della vita umana. Nel loro complesso le Grazie appaiono una “mitografia dell’esistenza”: un cantare, attraverso i miti, la storia morale dell’uomo. Ma qui i miti sono diversi da quelli cantati nei Sepolcri: non hanno più il valore emblematico di una passione umana – si ripensi a Cassandra o ad Elettra –, ma della passione umana rappresentano la sintesi e la proiezione in un mondo di pacata e serena armonia.

Le opere minori Tra le opere minori bisogna ascrivere le tragedie – il Tieste, l’Aiace, la Ricciarda –, il cui limite consiste nella costante presenza nei personaggi del mondo passionale dell’autore. Mediocri anche le satire, sfogo immediato di rancore e di collera e prive così di quel distacco spirituale che permette di ridere sapidamente degli uomini e del mondo. Tra queste basterà ricordare soltanto l’Ipercalisse (1814), libretto satirico a firma di Didimo

315

Ugo Foscolo, Le Grazie, Vesta, v. 1.

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L’Ottocento Chierico316, composto in latino e nello stile dell’Apocalisse: con vena tra satirica ed umoristica il poeta si difendeva, contrattaccando, dalle calunnie che gli venivano mosse da uomini vili e opportunisti, legati anima e corpo alla politica del Regno Italico. Da ricordare anche il Commento (1803) alla Chioma di Berenice, in cui pone le origini della poesia nell’incontro tra le passioni contemporanee e la dimensione mitica classica. In prosa Foscolo compose i quattro discorsi Della servitù italiana, sconsolata diagnosi ed eziologia dei mali che affliggevano l’Italia; e l’Epistolario, importante per ricostruire fatti del suo tempo e soprattutto aspetti della sua personalità. Caratteristica della prosa foscoliana è quella di essere a tendenza poetica. Egli stesso disse una volta che i pensieri assumevano sempre nella sua mente un certo ritmo poetico, quasi una scansione in versi, aggiungendo che mal riesce prosatore chi è fondamentalmente poeta.

Foscolo critico Foscolo svolse un’intensa attività di critico letterario nell’ultimo periodo della sua vita e soprattutto durante il suo soggiorno in Inghilterra. Importanti sono i Saggi sul Petrarca, il Discorso sul testo della Divina Commedia, Le Epoche della lingua italiana, il Saggio sulla letteratura contemporanea in Italia. La caratteristica della critica foscoliana è la penetrazione psicologica dell’animo degli scrittori. «Foscolo è il primo tra i critici italiani che considera un lavoro d’arte come un fenomeno psicologico e ne cerca i motivi nell’animo dello scrittore e nell’ambiente del secolo in cui nacque. Foscolo guarda più all’uomo che allo scrittore, più le cose che le forme, più la vita interiore che l’esterno meccanismo» (De Sanctis). Perciò la critica, secondo Foscolo, non può essere opera di chiusi e ristretti ambienti di eruditi, ma di uomini che sappiano sentire la poesia per avere essi stessi animo di poeti.

316

Didimo Chierico – che rappresenta l’alter ego foscoliano della maturità, come Ortis lo era stato della giovinezza – fu lo pseudonimo utilizzato anche per la traduzione (1813) de Un viaggio sentimentale dell’anglo-irlandese Laurence Sterne (1713-1768).

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L’Ottocento

Il Romanticismo “Classico” – scrisse Goethe – è colui che ha la sensazione di vivere sotto lo stesso cielo di Omero e concepisce quindi la vita come continuità. “Romantico” è invece chi avverte il presente completamente diverso dal passato, mentre il futuro gli si presenta misterioso e indecifrabile: infranto il senso della continuità, la vita gli appare perciò come un continuo divenire, sempre nuova, mutabile, incerta. Ne deriva così che classicismo significa: essere, sintesi, equilibrio, ottimismo; e romanticismo, invece: divenire, antitesi, impeto, pessimismo. Così considerati, classicismo e romanticismo sono due perenni categorie dello spirito, due modi diversi dell’uomo di porsi di fronte alla realtà e di intuirla. Ma il Romanticismo come fenomeno culturale – quel che ci interessa conoscere in queste pagine – è invece un fatto “storico”: lo si ha quando nasce la coscienza critica di quella sensibilità e di quella spiritualità; quando quella sensibilità e quella spiritualità divengono atteggiamento culturale, orientando il pensiero, l’arte, il costume. E questo avveniva agli inizi dell’Ottocento.

Il momento storico Il momento storico del fenomeno romantico è quello della restaurazione prima, dei risorgimenti nazionali poi. Rinchiuso Napoleone nell’isola di S. Elena, si restaurano in Europa i vecchi regimi. Nel dare all’Europa un assetto politico il Congresso di Vienna trascura il principio di nazionalità: e non soltanto perché mira ad un equilibrio di forze tra le grandi potenze o perché i suoi protagonisti – soprattutto il Metternich e il Castelreagh – vogliano risuscitare l’ideale cosmopolita dell’Illuminismoma perché il concetto di nazione, freddo e burocratico, nato con la Rivoluzione, si poneva in antitesi con quello di patria, cioè terra degli avi, con la quale esiste un vivo vincolo di sangue317. Allo stesso principio tradizionale si ispira anche l’azione della Santa Alleanza, sempre pronta a soffocare i fermenti nazionalistici in nome del mantenimento della pace europea. Ma, se da una parte i principi del cosmopolitismo illuministico ispirano le cancellerie delle grandi potenze – o danno una giustificazione alle loro direttive politiche – d’altra parte l’esperienza derivata dalla Rivoluzione francese e dalle guerre napoleoniche contribuisce a riaffermare – per un complesso di ragioni spesso anche contraddittorie tra loro – il concetto ed il sentimento di nazione. Mentre infatti in Italia la conquista napoleonica, con la costituzione della Repubblica Cisalpina e poi del Regno d’Italia, aveva fatto introdotto con forza il desiderio di un’indipendenza nazionale, in Germania la stessa conquista aveva risvegliato, per opposizione, l’esigenza dell’indipendenza della nazione tedesca nei confronti del dominatore francese. Comunque, in Italia come in Germania, in Belgio come in Grecia e in Ungheria, la prima metà dell’Ottocento è caratterizzata da una vasta attività di propaganda tendente all’affermazione ed al riconoscimento politico del princi317

Si ricordino le parole di François Charette de la Contrie, insorgente vandeano: «La patria, loro ce l’hanno nel cervello, noi la sentiamo sotto i nostri piedi».

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L’Ottocento pio di nazionalità, ovvero all’indipendenza nazionale. Perciò tale attività tende contemporaneamente all’indipendenza nazionale, alla libertà politica e soprattutto al rovesciamento dei principi cardine del mondo rappresentato dall’Ancien Régime: il Trono e l’Altare. È per questo che, tanto in Italia quanto nelle altre parti d’Europa in cui si combatte per l’indipendenza nazionale, essere un patriota significa essere un liberale (e spesso un anticlericale) e viceversa. E significa anche, tanto spesso, essere un romantico: perché di questo clima politico il Romanticismo rappresenta, per le connessioni che vedremo, l’aspetto culturale e, più specificamente, letterario.

L’origine del romanticismo Se mai si voglia cercare una data che stabilisca la nascita ufficiale del Romanticismo – ma è procedimento azzardato in quanto i grandi fenomeni culturali vanno determinandosi lentamente nel tempo – questa potrebbe essere il 1799, allorquando usciva a Berlino il primo numero della rivista Athenaeum, che annoverava tra i suoi collaboratori i fratelli Schlegel, Novalis, Tieck, Goethe e Schiller. Costoro si facevano sostenitori di una poesia sentimentale, inquieta, drammatica – e non invece d’immaginazione qual era quella classica – e la definivano “romantica”, servendosi del termine inglese romantic che, sorto intorno alla metà del Seicento, aveva conservato fino ad allora il significato spregiativo di “romanzesco”, “fantasioso”. Già prima però, e precisamente tra il 1770 ed il 1785, si era sviluppato nella stessa Germania, in opposizione alla cultura illuministica e francesizzante, un movimento letterario detto dello Sturm und Drang (impeto e passione), le cui caratteristiche fondamentali erano il disprezzo per una poesia razionale e classica e l’esaltazione di una poesia che fosse invece l’espressione immediata ed impetuosa della passione individuale. Se ora, oltre a questo movimento tedesco, consideriamo anche quel fenomeno della poesia lugubre e sepolcrale che nella seconda metà del Settecento – come si è visto a suo tempo – si era diffuso soprattutto in Inghilterra, vediamo delinearsi già allora un quadro preromantico in Europa nel quale vanno costituendosi quegli atteggiamenti spirituali e quegli orientamenti del gusto che caratterizzeranno poi il Romanticismo.

La spiritualità romantica Alla base del movimento romantico c’è l’opposizione alla cultura illuministica e francesizzante: non a caso esso trova la sua origine proprio in quella Germania che era impegnata allora in una dura lotta contro il dominio napoleonico. In effetti, per un complesso di ragioni, erano stati proprio la Rivoluzione francese e l’Impero napoleonico a determinare la crisi degli ideali illuministici: perché gli eccessi del “Terrore” avevano dimostrato i limiti dello “stato di ragione” e l’incoercibile forza della passionalità; perché le guerre continue avevano determinato il fallimento del cosmopolitismo vivificando il sentimento nazionale; perché la complessità delle vicende politiche aveva provato come non fosse possibile risolvere i problemi dei vari popoli con metodi universali ed astratti – e Cuoco stesso aveva dimostrato come la rivoluzione attuata in Francia non poteva invece essere attuata a Napoli.

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L’Ottocento Fallite così le promesse illuministiche, naufragato il sogno ottimistico di una felicità conseguibile con la ragione, l’uomo riscopre le intime e solitarie voci del sentimento. Sono voci che gli prospettano nuovi miti al posto di quelli distrutti: miti sostanziati però di malinconia e di dolore. Per i romantici il dolore è considerato insopprimibile, quasi consustanziale alla natura umana: del dolore essi avvertono la voluttà, a volte – naturalmente nei casi deteriori – ne fanno una moda, una posa addirittura. Intimamente legato al senso del dolore è quello del mistero: l’indistinto, il vago, il remoto, il primitivo, l’esotico attraggono i romantici come una forma di ulterioris ripae amor – in questa prospettiva lo stesso Neoclassicismo, col suo pensiero rivolto ad un’Ellade remota e primitiva, può considerarsi un atteggiamento romantico. Guardando il mondo con gli occhi velati di malinconia e di dolore, i romantici scorgono dramma e mistero dappertutto: anche nella natura. E questa allora, non più contemplata come uno spettacolo di bellezza, diviene tumultuosa, tempestosa, tenebrosa: un riflesso, insomma, dei sentimenti dell’animo. Ed è così che i romantici danno al brutto e all’orrido pieno diritto di accesso nel mondo dell’arte: anzi, ispirandosi agli aspetti più squallidi della natura e dell’esistenza, esprimono la loro voluttà di soffrire, il loro intimo cupio dissolvi.

La poetica romantica Per il Romanticismo la poesia è espressione immediata del sentimento individuale del poeta. Tanto premesso, parlare di una poetica romantica, ovvero di un complesso di canoni di cui il poeta debba tener conto scrivendo, è un controsenso. Nella sua Lettera semiseria Giovanni Berchet racconta che il buon curato di Monte Atino si dimenava sul seggiolone come un energumeno se solo sentiva parlare di poetiche. Semmai, quindi, una poetica romantica può essere costituita solamente dalla pars destruens, cioè può soltanto stabilire ciò che la poesia non debba essere, contestando così canoni, regole e retoriche di ogni genere. Innanzi tutto la poesia romantica si pone su di una strada diversa, anzi opposta alla poetica classica: non deve porsi modelli letterari e soprattutto non deve obbedire a regole prestabilite (quali, ad esempio, le famose “unità”): non deve mai frapporre, insomma, un diaframma tra la realtà dell’ispirazione e la sua trascrizione. Deve inoltre bandire la mitologia: sia perché legata alla civiltà greco-romana ormai conclusa; sia perché, non significando più niente per il sentimento e la fede del poeta, non è altro che un complesso di immagini poetiche desunte da modelli letterari. Ora, da questa ricognizione in negativo della poetica romantica si deducono, anche se con minore rigidità, i suoi aspetti in positivo. Se, infatti, la poesia non deve imitare modelli né tener conto di regole, vuol dire che deve essere spontanea, ingenua, aurorale, quasi primitiva e popolare. Se essa non deve rifarsi alla civiltà greco-romana, vuol dire che deve ispirarsi alla civiltà moderna – che per i romantici ha inizio col Medioevo, cioè con l’avvento del Cristianesimo e del Germanesimo e col profilarsi delle nazioni europee. Se essa non deve ispirarsi alla mitologia, perché insignificante per la fede del poeta, vuol dire che deve tener conto della realtà religiosa contemporanea – e del resto, anche per effetto della riviviscenza dei valori sentimentali, il Romanticismo si accompagna ad un risveglio della fede cristiana, tanto nella sua versione cattolica quanto in quella protestante. Se ora si considera che una poesia spontanea, primitiva e non fatta di cultura letteraria, ispirata ad una realtà moderna, con riflessi di una fe-

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L’Ottocento de viva e sentita, non poteva non essere popolare, si scopre l’importante aspetto positivo del Romanticismo sul piano sociologico: la poesia è popolare e deve riferirsi al popolo. Fino a che punto poi questa premessa romantica troverà applicazione e che cosa essa intendesse per popolo lo si vedrà in seguito. Intanto è da notare che l’impossibilità di porsi una precisa e rigida poetica in positivo faceva sì che il Romanticismo assumesse spesso atteggiamenti diversi, addirittura contraddittori. Il sostenere infatti che la poesia dovesse ispirarsi o al sentimento individuale o alla realtà storica ed alla civiltà attuale determinava quello che è stato definito il “bifrontismo” del Romanticismo, cioè il sorgere nel suo seno di due correnti diverse: il lirismo individualistico da una parte ed il realismo storicistico prima e veristico poi dall’altra. Due correnti alle quali si legheranno poi, sempre più divergendo tra loro, i futuri movimenti letterari fino all’ermetismo da una parte ed il neorealismo dall’altra.

Il romanticismo italiano a) Il Conciliatore A diffondere le tesi romantiche in Italia fu la scrittrice francese ANNE-LOUISE-GERMAINE NECKER DE STAËL (1766-1817): e non tanto col suo famoso libro sulla civiltà tedesca, De l’Allemagne, quanto con un articolo Sull’utilità delle traduzioni, pubblicato nel 1816 sulla “Biblioteca Italiana” di Milano. In questo articolo la Staël, mentre criticava come retorica, accademica, avulsa dalla vita tutta la letteratura italiana contemporanea, invitava i nostri scrittori a tradurre e conoscere le grandi opere delle letterature moderne straniere. Era naturale che quello scritto, offendendo la nostra tradizione letteraria, determinasse la risentita reazione della nostra cultura ufficiale: risposero polemizzando il Giordani, il Monti (col suo Sermone sulla Mitologia, vero manifesto antiromantico) e lo stesso Leopardi, anche se, come vedremo a suo tempo, con qualche ammissione e riconoscimento. Altri scrittori invece, più giovani, non ancora illustri e tutti di idee liberali, considerando che le tesi della Staël avrebbero legato ad un maggiore impegno politico le nostre lettere e pertanto avrebbero giovato alla causa nazionale, le accettarono pur cercando di contemperarle con la nostra tradizione letteraria. Da questo tentativo di conciliazione nacque il Conciliatore, periodico bisettimale milanese che questi scrittori – erano Pellico, Berchet, Di Breme, Visconti, Maroncelli, Confalonieri, Borsieri – fondarono nel settembre del 1818 e tennero in vita fino all’ottobre del 1819, allorquando venne soppresso dal governo austriaco per le sue tendenze liberali. Si avvertiva nel Conciliatore l’influenza della tradizione del Caffè e di tutta la cultura illuministica milanese di fine settecento, in quanto era costante il concetto dell’utilità della letteratura e della sua funzione civile e politica. b) La Lettera semiseria del Berchet Manifesto del Romanticismo italiano è a buon diritto considerata la Lettera semiseria di Grisostomo, scritta da GIOVANNI BERCHET (Milano 1783 - Torino 1851), autore del quale torneremo a parlare in seguito. Grisostomo, l’immaginario mittente della lettera, espone al fi-

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L’Ottocento gliuolo in collegio le tesi del Romanticismo, chiaramente condividendole. In conclusione, però, finge di aver scherzato – onde l’aggettivo di semiseria dato alla lettera – facendo un’ironica difesa dei classicisti conservatori. Il Berchet individua nella “popolarità” la caratteristica fondamentale della poesia romantica: la poesia deve farsi intendere dal popolo e perciò ne deve esprimere i sentimenti, le tradizioni, i problemi. Il popolo al quale allude il Berchet non include però la plebe analfabeta (sotto il suo limite inferiore) e neanche i raffinati e pedanti (oltre il suo limite superiore): è costituito, grosso modo, dalla piccola e media borghesia ed ha innata la tendenza a sentire la poesia. Analfabeti e raffinati invece – che Berchet simbolicamente chiama “ottentotti” e “parigini” – o per rozzezza o per eccessiva pedanteria non sono disposti alla poesia e ne restano esclusi. Importante ancora è nella Lettera del Berchet la precisazione che l’autore fa del significato e del valore delle definizioni di “poesia classica” e “poesia romantica”. Se, infatti, il Romanticismo significa poesia che si ispira ad una realtà viva e sentita e non invece ad un mondo concluso e perciò privo ormai di interesse per il popolo, allora romantici possono a buon diritto essere definiti i poeti antichi che al loro tempo ed alla loro civiltà si ispirarono: Né temo d’ingannarmi dicendo che Omero, Pindaro, Sofocle, Euripide ecc. ecc., al tempo loro furono in certo modo romantici, perché non cantarono le cose degli Egizi o de’ Caldei, ma quelle dei loro Greci; siccome il Milton non cantò le superstizioni omeriche ma le tradizioni cristiane.318

La polemica del Berchet non si sviluppa quindi in opposizione ai “classici”, ma ai “classicisti”, a coloro cioè che credono di dover ripetere le cose che gli antichi hanno detto, di doversi ispirare alla civiltà alla quale essi si ispirarono. Invece, ammirare gli antichi e cercare di imitarli significa fare come essi hanno fatto: ispirarsi cioè ai propri tempi ed ai propri sentimenti. È questa l’unica strada per rispettare davvero la letteratura dei Greci e dei Latini – continua Berchet – e per giovarsene davvero. c) La Lettera sul Romanticismo del Manzoni La concezione berchettiana di una poesia che rappresenti la vita umana “tal qual è” e gli uomini “come sono”, che possa essere fruita dal popolo e soprattutto la moderazione della polemica contro la tradizione danno già la misura degli atteggiamenti che il Romanticismo assume in Italia. A precisarli interverrà il Manzoni con i suoi scritti critici, dei quali parleremo a suo tempo. Per ora basterà accennare a qualche sua idea fondamentale espressa nella Lettera sul Romanticismo al marchese d’Azeglio. Innanzi tutto l’autore afferma di non condividere appieno il Romanticismo tedesco che si risolve spesso in un «guazzabuglio di streghe, di spettri, un disordine sistematico, una rivolta stravagante, un’abiura in termini dal senso comune», sostenendo che a Milano invece il termine “romanticismo” è usato «a rappresentare un complesso di idee più ragionevole, più ordinato, più generale che in nessun altro luogo». Distingue quindi nella poetica romantica una parte negativa ed una positiva: e se la prima fa consistere nella rinunzia all’imitazione, alle regole, alla mitologia, della seconda dice che deve mirare al buono, al vero, all’utile, al ragionevole nella poesia.

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Giovanni Berchet, Lettera semiseria…, parte 1, 35.

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L’Ottocento Era evidente quindi che il nostro Romanticismo dovesse essere diverso da quello tedesco. Meno passionale e fantasioso, ma più ragionevole e legato al vero, il Romanticismo italiano o meglio lombardo – ché la Lombardia fu la prima dimora del nuovo movimento letterario – accogliendo la lezione illuministica di una letteratura nutrita di motivazioni morali e civili, assumeva una sua funzione didattica e non solo in chiave morale e civile, ma soprattutto politica e religiosa. Per questo, non sono mancati critici letterari che hanno sostenuto che non si possa parlare in Italia di un vero e proprio Romanticismo, piuttosto di una letteratura risorgimentale319: giudizio inaccettabile, però, dal momento che, nonostante tutte le modificazioni, i ridimensionamenti e gli adattamenti che il Romanticismo subì tra noi, esso impresse un’innegabile svolta nella storia delle nostre lettere, determinando nuove concezioni ed atteggiamenti poetici.

Romanticismo e Risorgimento La “Biblioteca Italiana”, periodico controllato dal governo austriaco, aveva pubblicato di buon grado l’articolo della Necker de Staël, perché vi aveva intravisto una dura lezione alla boria italiana poggiata sul monotono ricordo di glorie passate. Poi assunse posizioni chiaramente antiromantiche, ospitando gli scritti – come il Sermone montiano sulla mitologia – apertamente ostili alle nuove teorie letterarie. A far mutare parere alla “Biblioteca Italiana” era l’aver capito quanto il Romanticismo potesse giovare alla causa italiana. Anche se non è possibile – come s’è detto – risolvere la letteratura romantica in letteratura risorgimentale, né è possibile impiantare una pura e semplice equazione Romanticismo=Risorgimento, resta il fatto che, vinto il primo sbigottimento – determinato dal fatto di dover prendere posizione contro la nostra tradizione classica ed accettare suggerimenti nuovi provenienti proprio da Paesi tedeschi – come accennato, tutti i liberali, fatte poche eccezioni, furono romantici, e tutti i romantici furono liberali. La prima ragione di questa convergenza era nel fatto che il Romanticismo, volendo una poesia che si ispirasse ad una realtà sentita e presente, faceva sì che i problemi politici d’Italia divenissero i temi più frequenti delle nostre lettere. Ma non basta: romantici e liberali avevano in comune la passione della libertà: libertà del poeta da ogni regola ed ogni canone letterario, libertà del cittadino da ogni dominazione, interna o straniera che fosse. E si aggiunga ancora che la spiritualità romantica, concependo la vita come divenire e come rifiuto di un ordine precostituito, invitava a guardare avanti, a proiettarsi nel futuro, a combattere per un assetto nuovo, a concepire l’esistenza come una battaglia, tanto più bella quanto più pericolosa ed incerta.

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Pietro Maroncelli proponeva di sostituire, per quanto riguardava la letteratura italiana, al termine romanticismo quello di “cormentalismo”, che meglio indicava la fusione tra le passioni del cuore e la ragionevolezza dell’intelletto. E Gina Martegiani, in un saggio dal titolo esplosivo, Il romanticismo italiano non esiste (1908), sosteneva che non v’è alcuna opera in Italia che presenti i caratteri del tipico romanticismo tedesco.

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L’Ottocento

Alessandro Manzoni Il più illustre rappresentante del Romanticismo italiano fu Alessandro Manzoni; certamente, però, non il più emblematico: perché la sua spiccata personalità di uomo e di poeta, la sua particolare e profonda intuizione dell’esistenza, il suo mirabile equilibrio spirituale e la sua formazione culturale – nella quale intervenivano abbondantemente anche elementi classici – davano una fisionomia propria alla sua adesione al Romanticismo. Egli, insomma, si muove nell’ambito del Romanticismo come Dante in quello dello stilnovismo o come ogni grande scrittore nell’ambito della corrente o del movimento dal quale prende le mosse.

La vita Il fatto centrale nella vita di Alessandro Manzoni è la cosiddetta conversione religiosa, meglio la sua adesione convinta, entusiastica e senza riserve a quella fede cattolica che, fino ad allora, era stata da lui trascurata o vissuta con scettica indifferenza, talvolta addirittura oggetto di mordace ironia. Perciò tutte le vicende della sua vita, tanto quelle precedenti quanto quelle seguenti, gravitano intorno a questo avvenimento e da esso assumono un particolare significato. Nato nel 1785 a Milano dal conte Pietro e da Giulia Beccaria, figlia di Cesare Beccaria, Alessandro frequentò gli studi in collegi religiosi – quelli dei padri somaschi a Merate e a Lugano320 e poi quello dei padri barnabiti a Milano. A Milano, dove visse quasi ininterrottamente fino al 1805, la sua formazione ideologica fu influenzata dall’ambiente illuministico lombardo e quella letteraria risentì del successo che allora andava raccogliendo la poesia montiana. Nel 1805 raggiunse a Parigi la madre che, separatasi legalmente dal marito, era vissuta colà con Carlo Imbonati – lo stesso per cui, giovinetto, Parini aveva composto l’ode L’educazione – e alla sua morte ne aveva raccolto l’eredità. A Parigi Manzoni rimase, pur con qualche breve interruzione, fino al 1810, entrando in contatto con quegli ambienti culturali e contraendo una profonda amicizia con Claude Fauriel321, dotto storiografo e letterato, che influì molto sulla sua formazione spirituale e letteraria. Intanto, nel 1808, aveva sposato Enrichetta Blondel, figlia di un ricco banchiere ginevrino e di religione calvinista. Ma dopo due anni Enrichetta, per effetto delle conversa-

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Qui Alessandro ebbe come insegnante padre FRANCESCO SOAVE (1743-1806), già direttore generale delle scuole elementari della Lombardia – dove applicò un innovativo metodo di insegnamento – e costretto nel 1796 alla fuga in Svizzera per evitare la persecuzione dei Francesi. Padre Soave fu autore fra l’altro di Novelle morali (1792) per l’infanzia, molto apprezzate nell’Ottocento. Manzoni ricorderà con stima quest’uomo rigido ma di grande prestigio e dirittura morale. 321 Claude Fauriel (1772-1844), studioso di letteratura medioevale francese ed italiana, nel 1823 tradusse in francese le tragedie di Manzoni.

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L’Ottocento zioni avute con un dotto sacerdote amico di famiglia, Eustachio Degola322, si convertì al Cattolicesimo; e fu un fatto questo che certamente influì nella vita spirituale di Manzoni, dati i rapporti di profonda stima e vero amore che legavano i due coniugi: infatti nello stesso anno – si era nel 1810 – il poeta riconquistò appieno la fede. Sull’avvenimento Manzoni, sempre discreto sulle sue vicende intime, preferì tacere. E ciò ha dato adito alle più diverse interpretazioni da parte dei biografi. Si è parlato così di folgorazione di Grazia o di “miracolo di San Rocco”323. Ma pur senza negare la realtà di questo episodio, non può vedersi in esso che un semplice motivo scatenante di una crisi più profonda e remota che si agitava nel suo animo. La ragione della conversione manzoniana va da ricercarsi, insomma, in una lenta maturazione del suo pensiero, in una sofferta ricerca di coerenza interiore. Il Manzoni che guardava con volterriano scetticismo ai dogmi della fede, era, per il moralismo del suo temperamento, già intimamente cristiano sul piano etico: un contrasto spirituale, questo, che il suo temperamento logico e consequenziario mal sopportava e che prima o poi avrebbe dovuto risolversi in un atteggiamento spirituale unitario e coerente. Dal 1810 Manzoni dimorò quasi sempre a Milano, conducendo vita appartata e modesta nella sua casa di città o nella sua villa di Brusùglio. Gli studi e la composizione delle opere letterarie – il periodo più fertile va dal 1812 al 1827 – costituirono l’unico sollievo di una vita che si faceva sempre più triste per il tragico susseguirsi di disgrazie familiari: gli premorirono sei figli, nonché la moglie Enrichetta ed anche la seconda moglie, Teresa Borri Stampa. Fatto senatore, partecipò alla seduta del 1861 nella quale fu proclamato il regno d’Italia, Morì a Milano nel 1873: nel primo anniversario della sua morte fu cantata la Messa funebre che il suo amico Giuseppe Verdi aveva composto appositamente per lui.

Le opere precedenti la conversione Tutto quanto il Manzoni compose prima della conversione, ovvero prima del 1810, appartiene alla preistoria della sua poesia: non è un documento della sua arte, piuttosto un documento della sua formazione ideologica e letteraria, nonché degli aspetti del suo temperamento. Dallo studio dei classici latini nacquero le traduzioni di alcuni brani dell’Eneide virgiliana e delle Satire di Orazio. Della lezione pariniana risentono i Sonetti, mentre il poemetto Il trionfo della libertà, di intonazione montiana, esprime il momento più acutamente giacobino, cioè rivoluzionario ed anticlericale, del Manzoni. Espressione del suo caratteriale moralismo sono i quattro Sermoni di tipo oraziano e soprattutto il Carme in morte

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Eustachio Dègola (1761-1826), sacerdote ligure, influì sulla conversione di Enrichetta, mentre Manzoni proseguì il suo commino spirituale sotto la guida di mons. Luigi Tosi, allora canonico di S. Ambrogio, poi vescovo di Pavia. 323 Nell’aprile del 1810 a Parigi, durante una manifestazione popolare per le nozze di Napoleone, Manzoni si trovò improvvisamente separato dalla moglie; disperato, si rifugiò nella chiesa di san Rocco, dove chiese a Dio che gli desse, col ritrovamento della moglie, una prova della sua esistenza; ritrovò la moglie e assieme ad essa la fede in Dio.

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L’Ottocento di Carlo Imbonati, che, pur traendo spunto dall’intento di consolare la madre della morte dell’amico, da modo al poeta di esprimere le sue convinzioni morali: «Sentir» riprese «e meditar: di poco esser contento: da la meta mai non torcer gli occhi: conservar la mano pura e la mente: de le umane cose tanto sperimentar quanto ti basti per non curarle: non ti far mai servo: non far lega coi vili: il santo Vero mai non tradir: né proferir mai verbo, che plauda al vizio, o la virtù derida».324

Di ispirazione montiana – e dedicato proprio a Monti – è l’idillio in versi sciolti l’Adda. Miglior cosa è l’Urania, poemetto di concezione neoclassica composto ad imitazione della Musogonia di Monti, in cui si esalta appunto la funzione di incivilimento che le Muse e le Grazie producono sugli uomini. Tutte le opere di questo periodo ci danno quindi l’immagine di un poeta classicista che non sa far poesia se non fruendo di modelli letterari, anche quando – come nei Sermoni e nel Carme per l’Imbonati – sente il bisogno di esprimere personali convinzioni.

Conversione religiosa e conversione letteraria Composta l’Urania – siamo nel 1809 – Manzoni scriveva all’amico Fauriel confessando che era insoddisfatto di quell’opera; che d’ora in avanti avrebbe forse scritto versi peggiori di quelli, ma senz’altro diversi. E qualche tempo dopo, scrivendo sempre a Fauriel, diceva: «Io sono più che mai della vostra opinione sulla poesia; bisogna che sia tratta dal fondo del cuore; bisogna sentire e saper esprimere i propri sentimenti con sincerità». Ma l’insoddisfazione e il ripudio addirittura della sua precedente produzione letteraria non erano effetto tanto di un giudizio estetico, quanto di una valutazione morale. Il poeta stava allora vivendo la sua crisi spirituale, stava conquistando la coscienza di un impegno religioso alla cui luce i versi costruiti su moduli classicheggianti dovevano apparirgli vuoti e privi di interesse. Voleva ora nella poesia partecipazione sentimentale. Era naturale quindi che, diffusesi in Italia le tesi romantiche, egli le accettasse con entusiasmo: non per il gusto di seguire una moda né soltanto per la convinzione della loro convenienza sul piano dell’arte, quanto soprattutto perché esse gli permettevano di realizzare quella poesia di impegno cristiano che andava meditando. E perciò anche, aderendo al Romanticismo, si dichiarava subito non per la corrente lirico-soggettiva, ma per quella storica, in quanto meglio s’adattava ad esprimere un “vero” utile a molti. La sua concezione dell’arte era infatti che essa dovesse servire a concorrere «se non altro con le parole, allo scopo del Cristianesimo». Affermazione dalla quale è facile dedurre come conversione religiosa e conversione letteraria fossero una sola cosa in Manzoni: aspetti e momenti di

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Alessandro Manzoni, In morte di Carlo Imbonati, vv. 207-215.

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L’Ottocento uno stesso finalizzarsi del suo caratteriale moralismo verso una più coerente e operosa consapevolezza.

La religione del Manzoni e le Osservazioni sulla morale cattolica Lo storico ginevrino Sismondi325, in un capitolo della sua Storia delle repubbliche italiane del Medio Evo, aveva indicato nella religione e morale cattolica la causa della decadenza spirituale degli italiani dopo l’epoca comunale. Il Manzoni, spinto anche da monsignor Tosi, pio sacerdote amico di famiglia, rispose con le sue Osservazioni sulla morale cattolica, la cui prima parte venne pubblicata nel 1819, mentre la seconda parte non venne mai data alle stampe. Nell’opera Manzoni si proponeva di dimostrare non solo che la morale cattolica non fu mai motivo di corruttela per gli Italiani, ma che anzi essa è la sola morale santa e ragionata, che ogni corruttela viene anzi dal trasgredirla, dal non conoscerla, o dall’interpretarla a rovescio, che è impossibile trovare contro di essa un argomento valido;326

Ma più che per il loro aspetto polemico nei confronti del libro del Sismondi o del loro carattere apologetico nei confronti della morale cattolica, le Osservazioni importano perché servirono a chiarire al poeta – e li spiegano quindi a noi – i caratteri che era andata assumendo la sua fede religiosa. La quale, non rinnegando mai la vocazione logica che era propria del Manzoni e la sua formazione razionalistica, conservò sempre un certo carattere non solo intellettualistico, ma anche democratico e liberale. Il suo fu insomma un cattolicesimo “illuminato”, che mai confuse la religione con la superstizione o con gli interessi temporali. Scrivendo all’amico Rosmini327 si proclamò “laico in tutti i sensi”: affermazione alla quale tenne fede in ogni occasione, soprattutto quando, senza esitazione, si schierò contro il potere temporale ed acclamò Roma capitale d’Italia. Certamente, come scrisse nelle Osservazioni sulla morale cattolica, una tale posizione non era affatto comoda: La situazione di chi, professando altamente la religione cattolica, confessa nello stesso tempo e condanna gli abusi e le superstizioni è la più esposta a tutte le inimicizie e la più lontana dagli applausi.

Dal punto di vista dottrinario la religione del Manzoni è apparsa a qualche critico venata di giansenismo328. Ma, pur avendo certamente subito l’influenza del pensiero religio325

Jean-Charles-Léonard Sismonde de Sismondi (1773-1842), economista, storico e critico svizzero. La sua Historie des républiques italiennes au moyen âge, in 20 volumi, apparve tra il 1809 ed il 1818. 326 Alessandro Manzoni, Osservazioni sulla morale cattolica, Prefazione. 327 ANTONIO ROSMINI SERBATI (1797-1855), filosofo e teologo, fondatore dell’Istituto della Carità (detto dei Rosminiani) ed autore prolifico. Cercò di accordare religione e filosofia contro il sensismo e l’illuminismo. La sua opera Le cinque piaghe della santa Chiesa (1848) fu messa all’Indice. 328 Il Giansenismo, setta religiosa fondata nel Seicento da Cornelio Giansenio (Cornelis Jansen, 1585-1638), vescovo di Ypres, accentua l’efficacia della Grazia per la salvezza umana e propone un rigido comportamento morale. Esso si scontrò sia con il molinismo (dal pensiero del gesuita

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L’Ottocento so del Degola e del Tosi, sacerdoti aperti al rigorismo morale dei giansenisti, sempre il poeta affermò di volere rimanere nell’ambito della dottrina del Cattolicesimo. Il giansenismo lasciò in lui tracce di natura psicologica, non dogmatica: da una parte gli faceva più che mai avvertire la debolezza dell’uomo, dall’altra gli prospettava un’etica che ben s’adattava al rigido moralismo del suo carattere.

La poetica Del Romanticismo, come si è detto, Manzoni accettava la corrente che proponeva una poesia che si ispirasse ad una realtà oggettiva più che al sentimento individuale del poeta. Ma quale sarebbe dovuta essere questa realtà, quali i rapporti tra la realtà e la poesia? Proprio nella trattazione di questi problemi consiste la parte più interessante e valida della poetica manzoniana. Anche perché il problema è affrontato dal Manzoni durante un lungo arco di tempo, sicché le soluzioni risultano diverse passando da uno scritto all’altro, cioè da un momento all’altro della sua esistenza e da un’esperienza all’altra della sua attività letteraria. Nella Lettera al signor Chauvet che, scritta nel 1820, fu pubblicata nel 1823, Manzoni sostiene che oggetto dell’arte non può essere che il “vero”, oggetto anche della storiografia. La diversità tra storia e poesia è però in questo: mentre la storia accerta e descrive i fatti nella loro obiettività, la poesia in quei fatti rivela il battito di umanità che li illumina dal di dentro. La poesia, insomma, parte: dall’interesse che i grandi fatti della storia eccitano in noi, e dal desiderio che ci lasciano di conoscere o di immaginare i sentimenti reconditi, i discorsi che questi fatti hanno fatto nascere, e coi quali si sono sviluppati, desiderio che la storia non può, né vuole accontentare.

Intesa come vero, la poesia viene ad assumere anche un’alta funzione morale, cioè di illuminazione. Funzione che non può naturalmente restringersi a pochi, ma deve espandersi a tutti. Da ciò viene confermata la popolarità dell’arte e l’allargarsi del campo sociale della narrazione, mediante quella che è stata detta la “poetica degli umili”. Altra conseguenza di queste premesse letterarie è la dottrina della popolarità del linguaggio: se l’arte è colloquio con tutti gli uomini, è evidente che debba servirsi della lingua comune e viva, non accademica ed aristocratica, peregrina ed arcaicizzante. Quindi, nella lettera Sul Romanticismo al marchese Cesare d’Azeglio, scritta nel 1823, ma pubblicata molto più tardi, Manzoni conferma i rapporti tra la poesia ed il vero. Ma la novità dell’indagine è qui tutta sul concetto di “vero” poetico. Se, infatti, nella Lettera allo Chauvet Manzoni aveva inteso il vero della poesia come un vero integrativo di quello storico, qui sostiene che il vero della poesia è un vero diverso da quello della storia, un vero specialissimo che si può trovare anche in ciò che è inventato, ma che è assai difficile a definirsi: «Non voglio dissimulare […] quanto indeterminato, incerto e vacillante nell’applicazione sia il senso della parola “vero” riguardo ai lavori di immaginazione». Ora, in questa accettazione di un vero anche non storico, ma comunque storicamente verosimile, ci sembra di intravedere la parte immaginata dei Promessi sposi, cioè la vicenda di spagnolo Luis de Molina, 1536-1600), sia con il luteranesimo. Centro del giansenismo fu l’abbazia di Port-Royal ed il suo più noto sostenitore Blaise Pascal, con le sue Lettere provinciali.

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L’Ottocento Renzo e Lucia, la quale, però, niente toglie al carattere storico del romanzo, in quanto esattamente si inquadra nell’ambiente, di cui anzi diviene una nota caratterizzante. Ed ecco il Discorso del romanzo storico e in genere dei componimenti misti di storia ed immaginazione, composto o meglio abbozzato intorno al 1830 e pubblicato solo nel 1845. Qui la distinzione tra arte e storia, cui si accennava nella lettera Sul Romanticismo, diviene addirittura esclusione. Non è infatti possibile, afferma Manzoni, mescolare storia e invenzione senza nuocere all’una e all’altra e senza cadere nell’ibrido. Mentre fino ad ora arte e storia si integravano, ora si separano e si respingono, acquistando ciascuna la propria autonomia. Ultimo, tra gli scritti di poetica, è il dialogo Dell’invenzione (1850), nel quale l’autore, sotto l’influenza dello spiritualismo dell’amico Rosmini, sostiene che il poeta nulla crea, ma “inventa” – nel significato etimologico del verbo invenio (rinvenire) – e che perciò la poesia non è creazione dell’“io”, ma realtà che vive al di fuori del poeta e dal poeta viene rivissuta ed elaborata. Qualunque sia la natura del “vero”, sempre esso deve essere, secondo Manzoni, a base della poesia. Ciò spiega perché preferisca quei generi poetici, come il genere drammatico e quello narrativo, che permettono la rappresentazione di una realtà oggettiva; e spiega anche perché la sua lirica non è frutto di introspezione e canto dell’“io”, ma interpretazione e commento del poeta di momenti della storia e di verità della fede.

Gli Inni sacri Dall’ardore del neofita nacque in Manzoni l’idea di scrivere dodici Inni sacri per cantare le maggiori ricorrenze religiose. In effetti ne scrisse cinque soltanto: quattro – La Resurrezione, Il nome di Maria, Il Natale, La Passione – tra il 1812 e il 1815; il quinto, La Pentecoste, iniziato nel 1817 e terminato nel 1822. Come genere letterario gli Inni sacri non erano nuovi, perché di innografia liturgica era ricca la nostra letteratura, soprattutto quella del Seicento e del Settecento (con un remoto precedente nelle stesse laude medioevali). Nuovo, però, era il modo di sentire la religione in questi Inni. Uno dei caratteri precipui della spiritualità manzoniana era quello di sentire il divino nell’umano, cioè di avvertire Dio operante nella terrena esistenza, volto pietosamente ad illuminare e confortare la vita degli uomini: perciò gli Inni sacri non celebrano le ricorrenze religiose in se stesse, ma in rapporto alla storia del genere umano. Si avverte che il poeta non ha bruciato nella fede la sua ideologia giovanile: l’ha soltanto spogliata del furore giacobino e le ha dato un valore ed una prospettiva diversi. Qui – notava De Sanctis – la religione è ancora tutta penetrata dei principi della Rivoluzione e gli ideali settecenteschi di uguaglianza, fratellanza, libertà sopravvivono, ma evangelizzati: conferma che tra il Manzoni pre- ed il Manzoni post-conversione non c’era soluzione di continuità sul piano morale, ma soltanto una visione diversamente angolata dei problemi dell’uomo. Premesso che Manzoni intuiva la fede sempre in stretto rapporto con la storia del genere umano, il capolavoro degli Inni doveva di necessità essere La Pentecoste. Qui la celebrazione della discesa dello Spirito Santo sulla terra dava, più che altrove, la possibilità al Manzoni di sentire la fede strettamente legata alla storia del mondo; ne nasceva un canto sublime, che è il sogno di un credente: il sogno di un’umanità completamente rigenerata dalla discesa dello

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L’Ottocento Spirito Santo, di un’umanità nella quale non trovano più posto le disuguaglianze sociali e razziali, le prepotenze dell’uomo sull’uomo: Perché baciando i pargoli, la schiava ancor sospira? e il sen che nutre i liberi invidïando mira? Non sa che al regno i miseri seco il Signor solleva? che a tutti i figli d’Eva nel suo dolor pensò?329

Qui non abbiamo più l’uomo che, secondo l’ascetismo medioevale, rinunzia alla giustizia sulla terra, tutto proteso ai premi del cielo; qui abbiamo Dio che scende dal cielo tra gli uomini, per rendere legittima e sacra la rivendicazione dei loro diritti. In genere gli Inni sacri sono così costruiti: si aprono con la rievocazione del fatto liturgico e del suo valore teologico, quindi rappresentano l’aspetto terreno di quell’evento e si concludono con un’invocazione corale. Di queste parti la più bella non è certamente la rievocazione dell’evento religioso, ma la considerazione delle sue umane e terrene conseguenze. Pur essendo liberi da ogni ornamento mitologico e decorativo, gli Inni sacri conservano la lingua poetica tradizionale ed il ritmo strofico della lirica settecentesca.

Le tragedie a) Composizione e struttura Quando Manzoni scriveva le sue due tragedie – Il Conte di Carmagnola (1816-20) e l’Adelchi (1820-22) – il “vero” si identificava per lui con gli eventi storici. E storiche, infatti, sono le due tragedie. Anzi, grande cura pone il poeta al rispetto scrupoloso dei fatti – eccetto poche eccezioni dovute ad esigenza di strutturazione drammatica – tanto che entrambe le tragedie sono precedute da notizie storiche sui fatti rappresentati e l’Adelchi è accompagnata addirittura da un Discorso su alcuni punti della storia longobardica in Italia. Il rispetto della storia comportava di necessità la rinunzia delle unità di tempo, di luogo e di azione, del resto già ripudiate dal Manzoni romantico come precetti inutili, anzi opprimenti, della retorica classicistica. Così l’azione del Conte di Carmagnola abbraccia sette anni, rappresentando fatti che si svolsero tra il 1425 e il 1432 e che riguardavano un episodio della guerra tra Venezia e Milano. Il Senato veneziano affida a Francesco Bussone, detto Conte di Carmagnola, la condotta della guerra contro i Milanesi. Il Conte batte i Milanesi nella battaglia di Maclodio, ma non insegue i nemici in fuga, anzi libera anche alcuni prigionieri: viene perciò accusato di tradimento. Il senatore Marco, suo amico e sicuro della sua innocenza, lo difende energicamente, ma è costretto all’esilio di Tessalonica, dopo aver giurato alla Repubblica di non rivelare

329

Alessandro Manzoni, La Pentecoste, vv. 66-73.

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L’Ottocento all’amico quello che si sta tramando contro di lui: infatti il Conte è richiamato a Venezia e condannato a morte. L’azione dell’Adelchi abbraccia gli anni 772-774 e rappresenta le ultime vicende del regno longobardo in Italia. Carlo, re dei Franchi, invitato dal papa Adriano I, viene in Italia per debellare i Longobardi che minacciano di occupare le terre della Chiesa. Prima di intraprendere la guerra, Carlo ripudia la moglie Ermengarda, figlia di Desiderio, re dei Longobardi; la sventurata, affranta dal dolore, muore in un convento di Brescia. Intanto Adelchi, l’altro figlio di Desiderio, pur sentendo ingiusta la politica del padre nei confronti del Papato, si unisce a lui nella condotta della guerra. Ma i duchi longobardi, guidati dall’ambizioso Svarto, tradiscono il loro re, mentre il diacono Martino mostra a Carlo un sentiero attraverso le Alpi per piombare addosso alle forze longobarde. Così Desiderio viene sconfitto a Pavia e fatto prigioniero; e Adelchi, ferito a Verona, morrà dinanzi agli occhi del vecchio padre. b) Il pessimismo manzoniano L’ispirazione poetica delle tragedie nasce da una dolorosa contemplazione della realtà: la violenza domina il mondo; dominatori degli eventi sono gli spregiudicati che non tengono conto della legge morale; essere giusti significa essere travolti dalla ferocia che regola l’esistenza. Nel mondo, dice Adelchi – ed in questa dolorosa intuizione dell’esistenza è la ragione del suo dramma: loco a gentile ed innocente opra non v’è; non resta che far torto, o patirlo.330

Far male o patirlo, stare tra gli oppressori o gli oppressi: tutto il ritmo della vita non è che un alternarsi di sopraffazioni e soggezioni. Sembra, addirittura, che l’umanità si schematizzi e si divida in due categorie umane (e morali): quelli che soffrono e quelli che fanno soffrire. Ermengarda morente così prega: io pregherò, per quell’amato Adelchi, per te, per quei che soffrono, per quelli che fan soffrir, per tutti.331

La dolorosa intuizione manzoniana del mondo è quindi proprio nella violenza dei potenti sugli umili: intesi come prepotenti e spregiudicati i primi, come innocenti, semplici, miti, oppressi i secondi. Le tragedie del Manzoni, infatti, sono drammi di persone, di singoli individui, drammi di ingiustizia e di crudeltà: sono la rappresentazione degli uomini buoni travolti necessariamente dall’accorta, astuta, violenta azione dei dominatori degli eventi. Il Conte di Carmagnola è, in tal caso, un umile: la sua umanità – parliamo naturalmente del personaggio della tragedia, non del Carmagnola storico – la sua dirittura incapace di finzioni e di adattamenti lo rendono già, in un mondo così feroce, predestinato alla disfatta. Il suo 330 331

Alessandro Manzoni, Adelchi, atto V, sc. 8. Idem, atto IV, sc. 1.

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L’Ottocento animo eroico, il suo cuore franco, le sue intenzioni generose e disinteressate non possono opporsi alla spietata politica veneziana, rappresentata dal Doge, dai commissari al campo, soprattutto dal senatore Marino. Anche la poesia dell’Adelchi è segno della feroce forza che possiede il mondo. E non soltanto di quella forza brutale di un popolo, il longobardo, che tiene soggetto e schiavo un altro popolo, il latino; ma anche di quella forza più subdola e spietata che è la “ragion di Stato”. Per essa il re Carlo, che pur si professa vindice dei diritti del Papa e della libertà di Roma, non si astiene dall’ignominia di un ripudio infame, infrangendo anche i sacri nodi coniugali: Tu fosti un vile, quando oltraggiasti una innocente.332

Innocente, quindi, Ermengarda, nonostante la sua origine regale e la sua discendenza da una stirpe di oppressori; innocente ed umile anche lei, perché vittima di quella violenza spietata che domina il mondo. Non è quindi il rango che conta e che determina la storia morale di un personaggio e l’atteggiamento del Manzoni nei suoi confronti, quanto invece il suo porsi tra «quei che soffrono» o «quelli che fan soffrir»333. Prendiamo Svarto. È un semplice soldato longobardo che tradisce il suo re passando dalla parte dei Franchi. Nel suo tradimento qualcuno ha voluto vedere un segno della rivolta degli umili, nata, finalmente, dalla stanchezza della soggezione ai potenti. Ma poteva mai la moralità del Manzoni suggerire una rivolta che si fondasse sul tradimento? Quel tradimento non è il segno della rivolta degli umili, ma l’affermazione della volontà di potenza di chi, facendo tacere la propria coscienza ed obbedendo alla logica del proprio tornaconto, sa porsi al di là del bene e del male: egli è Svarto, un che tra noi era da men di te; che ora tra i Franchi in alto sta, sol perché seppe accorto e segreto servir.334

Ora, è l’“accorto” Svarto un umile, un innocente o non è invece, nonostante la sua origine di semplice soldato, un oppressore, perché ha dalla sua quella che è la forza maggiore del mondo: l’accortezza subdola, interessata, spietata ed insensibile ad ogni legge morale? Qui il rapporto tra potenti ed umili è completamente capovolto. Se nel rapporto Carlo-Ermengarda, sovrana era chi soffriva, sovrano chi faceva soffrire, qui a far soffrire, ad operare violenza è proprio un semplice soldato, mentre a subirne la violenza è nientedimeno che un re: Desiderio. Non v’è infatti chi non avverta che, nonostante le premesse storico-politiche che vogliono Desiderio usurpatore dei diritti del Papa, nel corso della tragedia la simpatia del Manzoni e la sua pietà vanno a Desiderio e non certo a Carlo né a Svarto. A questo vecchio re che si vede restituita ed umiliata la figlia Ermengarda, ucciso il figlio Adelchi, strappato il regno, che è costretto a supplicare umilmente e ad impetrar perdono. A questo 332

Idem, atto I, sc. 1. Idem, atto IV, sc. 1. 334 Idem, atto IV, sc. 2. 333

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L’Ottocento re non “accorto” che, pur avendo offeso con la spada l’altrui libertà, non aveva saputo salvaguardarsi da armi più squallide e tristi come il tradimento ed i raggiri politici: Vili! Nel fango han trascinato i bianchi capelli del loro re; l’hanno costretto come un vile a fuggir.335

Né si intenda la fine tragica di Desiderio come pena dovuta ai suoi soprusi politici. Nelle tragedie domina la violenza, non la giustizia. Il senso della provvidenza non manca, ma è relegato nell’aldilà: intravisto soltanto come estrema consolazione del dolore dell’esistenza. Ma è proprio per questa visuale provvidenziale del proprio dolore che i personaggi delle tragedie manzoniane, pur se sopraffatti dalla violenza, non sono travolti dalla disperazione: scompaiono serenamente dalla scena, in un’atmosfera che sa di elegia più che di tragedia. Le ultime parole di Adelchi morente hanno il sapore di una gioia intima, finalmente riacquistata: vengo alla pace tua: l’anima stanca accogli.336

c) I cori Nonostante il rispetto della realtà storica, nonostante l’intenzione del poeta di non lasciarsi prendere dalla tentazione di parlare per bocca dei personaggi – è per vincere tale tentazione che si riserva nei cori un “cantuccio” per commentare l’azione – le tragedie manzoniane difettano di vera struttura drammatica, dando l’impressione di “poemi drammatici” più che di tragedie vere e proprie. Non sono, insomma, “tragedie-spettacolo” che trascinino gli spettatori verso soluzioni imprevedibili: tutto è già previsto, in quanto tutto rientra nell’intuizione manzoniana dell’esistenza: tanto il terreno prevalere della violenza, quanto la metastorica, cioè ultraterrena, affermazione della giustizia. Questa intuizione di una giustizia ultraterrena, riparatrice delle violenze subite in vita, ispira il coro dell’atto quarto dell’Adelchi, facendo da commento a tutta quanta l’azione della tragedia. Per bocca delle suore che assistono Ermengarda morente parla il poeta, consolando la donna che muore affranta dal dolore del ripudio e prospettandole la pace eterna, premio del suo umano soffrire: Te dalla rea progenie degli oppressor discesa, […] te collocò la provida sventura in fra gli oppressi: muori compianta e placida; scendi a dormir con essi.337

335

Idem, atto III, sc. 8. Idem, atto V, sc. 10. 337 Idem, atto IV, coro. 336

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L’Ottocento L’altro coro dell’Adelchi, quello che chiude l’atto terzo, ha un significato più specificamente storico, ma sempre di una storia come sapeva concepirla Manzoni: dramma di popoli, non resoconto dell’azione degli uomini grandi. Vi si esprime la spietata dialettica storica tra i popoli dominatori e i popoli dominati, tra i popoli che fanno la storia e quelli che la subiscono – che è poi un proiettare a livello di popoli quegli spietati rapporti umani che costituivano la dolorosa intuizione manzoniana dell’esistenza. Per il popolo latino non c’è possibilità di fare storia, per esso la fanno Longobardi e Franchi, avversari, ma pur accomunati dalla brama di dominio e dall’azione violenta: Il forte si mesce col vinto nemico, col nuovo signore rimane l’antico, l’un popolo e l’altro sul collo vi sta. Dividono i servi, dividon gli armenti; si posano insieme sui campi cruenti di un volgo disperso che nome non ha.338

Anche nell’unico coro del Conte di Carmagnola (che chiude l’atto secondo) la considerazione del fatto storico si eleva a contemplazione metastorica. C’è sì una parte del coro che risente della polemica risorgimentale e dell’eloquenza patriottica – laddove il poeta ravvisa nella lotta fratricida rinascimentale la causa delle nostre sventure politiche –, ma subito dopo il discorso si fa più ampio e profondo e riprende il solito tema della dialettica tra violenza e sofferenza e della metastorica prospettiva della giustizia: Stolto anch’esso! Beata fu mai gente alcuna per sangue ed oltraggio? Solo al vinto non toccano i guai; torna in pianto dell’empio il gioir. Ben talor nel superbo viaggio non l’abbatte l’eterna vendetta; ma lo segna; ma veglia ed aspetta; ma lo coglie all’estremo sospir.339

Le odi Anche nelle due odi Marzo 1821 e Cinque Maggio – composte entrambe nel 1821 – la considerazione del fatto storico si eleva a considerazione metastorica, conduce cioè il poeta alla scoperta di un fattore trascendente e provvidenziale che al fatto storico da un proprio significato ed un proprio valore. In Marzo 1821, scritta a seguito dei moti piemontesi, Manzoni già vede attuate le giornate del riscatto nazionale; non è l’utopistica visione di un patriota, ma la certezza di un credente che, convinto del senso provvidenziale della storia, sa che Dio è garante delle giuste ragioni d’Italia: 338

Idem, atto III, coro. È una dura premonizione sui reali intenti dell’“aiuto” straniero che giungerà in Italia sia nel Risorgimento che nel secolo successivo. 339 Alessandro Manzoni, Il Conte di Carmagnola, atto II, coro.

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L’Ottocento chi v’ha detto che sterile, eterno sarìa il lutto dell’itale genti? chi v’ha detto che ai nostri lamenti sarìa sordo quel Dio che v’udì?340

Anche l’ode Cinque maggio, composta di getto non appena si seppe la notizia della morte di Napoleone, non è celebrazione delle imprese politiche e militari del grande Corso, ma poesia di ispirazione insieme storica e religiosa. L’opera di Napoleone è vista infatti dal poeta come attuazione di un disegno provvidenziale di Dio: Fu vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza: nui chiniam la fronte al Massimo Fattor, che volle in lui del creator suo spirito più vasta orma stampar.341

Non è la storia dell’imperatore che commuove e ispira il poeta, ma la storia intima dell’uomo che, dopo aver raggiunto una gloria umanamente insperabile, cade nella sventura ed è tormentato dal dolore straziante dei ricordi; ma che proprio in quel dolore trova la salvezza e la Fede, perché esso lo riscatta dal rango dei violenti e lo pone accanto a coloro che soffrono. Così anche il dramma umano di Napoleone si inscrive, come quello di Ermengarda, di Adelchi, di Desiderio, entro i termini della cristiana intuizione manzoniana della vita.

I promessi sposi a) La composizione La più alta espressione dell’arte manzoniana è costituita dal romanzo I promessi sposi. Sembra che la prima idea sia venuta al Manzoni leggendo una “grida” del 1627, emanata dal governatore di Milano, nella quale si minacciavano pene per chi avesse impedito ad un parroco di consacrare un matrimonio. Ma volendo scrivere un romanzo storico sul modello di quelli composti da Walter Scott342, Manzoni si diede ad un’intensa ricerca e lettura di documenti, di cronache e di opere storiche sul periodo che lo interessava; e moltissimo in tal senso gli giovarono le opere storiografiche del Ripamonti343. La stesura del romanze fu iniziata nell’aprile del 1821 e fu completata nel settembre del 1823: il suo titolo provvisorio fu Fermo e Lucia344. Ma l’autore non diede alle stampe 340

Alessandro Manzoni, Marzo 1821, vv. 62-65. Alessandro Manzoni, Il Cinque Maggio, vv. 32-37. 342 Walter Scott (1771-1832), di antica e nobile famiglia scozzese, ambientò nella sua terra una serie di romanzi, da Waverley a Ivanhoe, da I puritani di Scozia e La sposa di Lammermoor – ambedue divenuti opere liriche grazie a Bellini e Donizetti – lanciando la voga del romanzo storico. 343 Giuseppe Ripamonti (1573-1643), storico comasco. 344 Fermo era il nome del protagonista in quella prima stesura. 341

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L’Ottocento il suo manoscritto: guidato dal suo fine senso artistico e da consigli e critiche di amici letterati – tra cui Ermes Visconti345 – vi ritornò su, riducendo le digressioni storiche e morali che erano in quella prima stesura abbastanza prolisse, ritoccando qua e là la vicenda e cambiando anche il nome di qualche personaggio – Fermo divenne Renzo e il Conte del Sagrato l’Innominato. Così modificato, il manoscritto venne dato alle stampe nel 1827 col titolo di I promessi sposi. Immediato e grande fu il successo del romanzo: unico ad essere insoddisfatto fu l’autore stesso, al cui fine gusto non sfuggivano incertezze linguistiche, lombardismi, arcaismi e costrutti lambiccati. Decise perciò di trasferirsi per qualche tempo in Toscana «per mettere quel povero testo nella lingua viva di Firenze» ovvero «risciacquare i cenci in Arno». Così, dopo un’accurata revisione linguistica, il romanzo veniva nuovamente stampato, tra il 1840-42, nella sua veste definitiva. b) Il carattere storico del romanzo Il Romanticismo voleva un’arte che si ispirasse alla realtà. Ma la realtà quotidiana è umile ed in contrasto quindi con tutta la tradizione delle nostre lettere che, per formazione classica, prediligeva i toni epici ed eroici. Allora ecco il compromesso: realtà sì, ma realtà del passato, aulicizzata dal tempo; per mezzo della storia la realtà acquistava diritto di cittadinanza letteraria. Il romanzo storico nasceva quindi da un compromesso tra la tradizione antirealistica e l’esigenza realistica del Romanticismo. I promessi sposi sono il primo romanzo storico – primo di una lunga serie – della letteratura italiana. La vicenda si svolge nel Seicento – e precisamente tra il novembre del 1628 e gli ultimi mesi del 1630 – e di quel tempo sono rappresentati vicende e personaggi. Sono infatti vicende storiche, cioè realmente accadute, la carestia di Milano, la guerra per la successione del ducato di Mantova, la discesa dei Lanzichenecchi, la peste. Sono personaggi realmente esistiti il cardinale Federigo Borromeo, l’Innominato (che fu Bernardino Visconti), la monaca di Monza (che fu Virginia de Leyva), il governatore Ferrer e, in qualche tratto, padre Cristoforo. Ma la concezione del “vero” poetico che guida qui il Manzoni non è la stessa che gli aveva ispirato le tragedie: non è quella della Lettera allo Chauvet. ma quella della lettera Sul Romanticismo al d’Azeglio: non si identifica cioè con i fatti della storia, ma con vicende immaginate purché storicamente verosimili. Il carattere storico de I promessi sposi va infatti al di là della presenza dei fatti realmente accaduti e dei personaggi realmente esistiti: storica è la stessa vicenda immaginata, quella di Renzo e Lucia, in quanto spiegabile soltanto in quel tempo. Tutto, insomma, nel romanzo sa di storia, perché tutto magnificamente si inquadra negli usi, nei costumi, negli aspetti di vita, soprattutto nella mentalità dei Seicento. Ecco perché il vero protagonista del romanzo è il “signor Seicento”: perché è esso che dà il significato alle vicende narrate. Soltanto nel Seicento poteva spiegarsi – ed è questa la trama del romanzo – come un semplice puntiglio, quello del prepotente signorotto don Rodrigo, ed una semplice scommessa, quella da lui fatta col cugino 345

Ermes Visconti (1784-1841), letterato e critico, tra i principali esponenti della scuola romantica milanese, collaborò fra l’altro alla rivista “Il Conciliatore”.

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L’Ottocento Attilio, potessero impedire il matrimonio tra Renzo e Lucia, provocando loro tante tribolazioni; soltanto nel Seicento era possibile ambientare personaggi come don Ferrante o il padre della monaca di Monza; soltanto nel Seicento potevano spadroneggiare impuniti uomini prepotenti e violenti come i “bravi” di don Rodrigo o dell’Innominato. Soltanto nel Seicento, per essere più precisi, nel concetto che del Seicento aveva l’Ottocento346. Ed è proprio qui la ragione del perché Manzoni abbia impiantato il suo romanzo sullo sfondo del Seicento: quel secolo con tante “gride”, ma nessun senso del diritto era lo sfondo adatto per una vicenda che significasse in modo emblematico il tema del pessimismo del Manzoni: la sopraffazione dei prepotenti e dei malvagi ai danni degli umili e dei buoni. A conferire maggior verosimiglianza e carattere storico anche alla vicenda inventata Manzoni finge di trascrivere quella vicenda da un «dilavato e graffiato autografo»347 di autore anonimo. Questa finzione, che può sembrare un vecchio espediente letterario, è un felice accorgimento: gli consente di meglio confondere i confini tra l’accaduto e l’inventato; gli permette di narrare con l’atteggiamento distaccato di chi racconta una storia non sua, concedendosi così la possibilità di commentarla e colpirla col suo fine umorismo; e giustifica inoltre, trattandosi di trascrizione, il tono dei dialoghi di quei personaggi umili, dialoghi che, pur essendo piani e vivaci, sono certamente superiori di qualche tono alle loro effettive possibilità intellettuali. c) L’apoteosi della Provvidenza Se si considerano le vicende de I promessi sposi si noterà come esse nella prima parte del romanzo – e precisamente fino al capitolo XXII – volgano a danno dei due protagonisti: Renzo, scambiato per un sobillatore, è perseguitato dalla giustizia; Lucia, prigioniera dell’Innominato, trascorre la notte più brutta della sua vita; la madre di Lucia, Agnese, è lontana; il buon padre Cristoforo, per le diaboliche arti dei parenti di don Rodrigo, è stato mandato distante e non può essere di conforto ai due poveri giovani. Si ha così l’impressione di respirare la stessa aria delle tragedie; e Renzo, che dice che le leggi i potenti le fanno loro e a loro piacere, sembra un Adelchi in formato ridotto costretto a meditare sulla violenza che domina il mondo, sull’impossibilità di vivere in pace e secondo giustizia. Ma il capitolo XXII, che narra la crisi morale dell’Innominato, fa da cerniera tra la prima e la seconda parte del romanzo: convertitosi, l’Innominato libera Lucia, che così può riunirsi alla madre Agnese; la peste, col trambusto che determina, rende possibile a Renzo tornare liberamente a Milano; la stessa peste, togliendo di mezzo don Rodrigo, elimina ogni ostacolo al matrimonio tra Renzo e Lucia. Insomma, la vicenda precipita verso il lieto fine e la Provvidenza, che sembrava assente nella prima parte del romanzo – ma viveva però anche allora nella coscienza dei buoni come conforto e speranza, tanto che Renzo, già nel cap. XVII, aveva esclamato: «La c’è la Provvidenza!» – celebra ora la sua apoteosi. Sicché tutto nel romanzo “odora”, come è stato detto, di Provvidenza: è provvidenziale lo scampanio del sacrestano Ambrogio che mette in fuga i bravi che erano an346 347

Cfr nota 181. Alessandro Manzoni, I promessi sposi, Introduzione.

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L’Ottocento dati a rapire Lucia; è provvidenziale la conversione dell’Innominato che rende libera la povera fanciulla; è provvidenziale la peste che, come una ramazza, spazza via don Rodrigo e alcuni suoi bravi; è provvidenziale il temporale che a sua volta distrugge i germi della peste. Questo trionfo del senso provvidenziale della vita, al quale approda la fede religiosa del Manzoni, è apparso ad alcuni critici un limite nella concezione del romanzo. Già Giovita Scalvini348, contemporaneo del Manzoni, aveva notato che leggendo I promessi sposi sembrava di essere «non sotto l’ampia volta del firmamento, ma sotto la ristretta volta di una chiesa che copre soltanto i fedeli e l’altare», volendo così dire che mancano nel romanzo le grandi passioni e tutto è mosso dalla Provvidenza ed ha un valore sacrale. Non diversamente intese Croce in un primo momento, ravvisando nel romanzo manzoniano solo un carattere di eloquenza e di persuasione; insomma una finalità pratica, non una pura e disinteressata realizzazione artistica. Più tardi però Croce, sulle orme del Russo, rivide il suo giudizio ed ammise che il romanzo è un’opera di alta poesia, nella quale tutti gli elementi sono perfettamente fusi: l’elemento religioso è insieme elemento profondamente umano e l’elemento lirico-poetico si fonde con quello critico-riflessivo. Per questo i personaggi, anche quelli che sembrano voler rappresentare l’ideale del bene o l’ideale del male, non sono tipi astratti e paradigmatici, ma hanno sempre una propria dimensione umana: non c’è forse tanto temperamento impulsivo nella missione religiosa di padre Cristoforo? E, d’altra parte, non si legge forse compassione negli occhi del Nibbio quando rapisce Lucia? O ritegno nello sguardo del Griso, quando tradisce e deruba il suo signore? Certamente, però, quei personaggi che non rientrano nella categoria morale degli spregiudicati operatori di violenza – don Rodrigo e i suoi parenti, l’Innominato prima della conversione, i bravi – né in quella delle vittime dirette della violenza altrui – Lucia, Renzo, padre Cristoforo –, ma che pur vivono e soffrono la triste condizione di uomini in un mondo senza pace e senza giustizia reagendo ad essa in mille modi diversi – come don Abbondio, Agnese, Perpetua, il dottor Azzeccagarbugli, il sarto – hanno una dimensione umana più variegata, più naturale e riescono perciò personaggi indimenticabili e tra i più vivi di ogni letteratura. d) L’ideologia Ne I promessi sposi – è stato detto – il “terzo Stato” diviene protagonista della vicenda. Se è una rivoluzione – non bisogna dimenticare però le commedie del Goldoni – è una rivoluzione che Manzoni affronta assai timidamente ed alla quale non dà tutto il peso che le daranno poi i critici. Ed è una rivoluzione legata più alla concezione della popolarità dell’arte ed al sentimento cristiano della fratellanza umana, che non, invece, a profonda istanza sociale. Manzoni, infatti, se da una parte non tralascia di condannare nel romanzo le colpe dei potenti – la dissolutezza di don Rodrigo e di don Attilio, la violenza dell’Innominato, 348

GIOVITA SCALVINI (Brescia, 1791-1843), redattore della “Biblioteca italiana”, patriota ed esule dopo il 1821 (a Londra coabitò con Foscolo, ma criticò l’Ortis perché troppo rinunciatario) e primo traduttore del Faust di Goethe. Tra i suoi lavori si ricorda il diario degli anni 1818-21 (pubblicato postumo) intitolato Sciocchezzaio.

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L’Ottocento l’albagia del conte zio, la pedanteria di don Ferrante, l’indiscrezione pettegola e la falsa morale di donna Prassede, il cieco autoritarismo del padre di Gertrude – d’altra parte ravvisa il più luminoso esempio di virtù proprio in quell’aristocratico e principe della Chiesa che fu il cardinale Federigo Borromeo. E se vede nei “grandi della terra” i responsabili dei mali che affliggono la povera gente, d’altra parte non crede che essa debba farsi giustizia da sé. Il fatto è – come è stato giustamente notato – che il sentimento cristiano del Manzoni, se da una parte lo portava a guardare con commossa simpatia ai ceti sociali più umili, d’altra parte gli impediva di assumerne in pieno la difesa, che trasferiva, invece, alla Provvidenza. Del resto la vera, profonda ispirazione del Manzoni non è di natura sociale, ma morale: il suo grande problema è l’uomo, inteso come persona morale. Da ciò deriva non il disinteresse ai problemi sociali, ma la loro assunzione a problemi etici. Egli avverte che ogni forma di sopraffazione che l’uomo soffre dall’uomo è sempre di natura morale, perché opera di egoismo, di inganno, di subdola spregiudicatezza. Sono questi i soprusi e le angherie per cui il Manzoni, come il suo padre Cristoforo, avverte un «orrore spontaneo e sincero»349, mirando a farsi, come lui, «un protettor degli oppressi e un vendicatore de’ torti»350.

Le ultime opere Se la vita del Manzoni fu lunga, breve fu il periodo della sua fertilità creativa. Dopo I promessi sposi, infatti, tace la fantasia del poeta e gli anni seguenti saranno impegnati soltanto in opere di riflessione, non di poesia. Caratteristica comune di queste opere è un irrigidirsi del suo moralismo. Da tale atteggiamento spirituale nacque il già citato Discorso del romanzo storico, una condanna dei componimenti misti di storia e di immaginazione – quindi, indirettamente, degli stessi Promessi sposi – in quanto in essi la realtà storica finisce sempre con l’essere mistificata. Moralismo e legalismo sono anche alla base delle sue opere di storia. Nel saggio La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859, incompiuto e pubblicato postumo, l’autore vuol dimostrare l’illegalità della Rivoluzione francese per i mezzi di cui si valse, contrapponendo ad essa i moti italiani rimasti sempre nel solco della legalità. Anche nella Storia della colonna infame lo sdegno del moralista non consente all’autore di valutare serenamente le ragioni dei tempi: sicché per lui non ci sono attenuanti all’obbrobrioso errore giuridico commesso a danno dei presunti untori della peste. Più importanti sono i vari scritti del Manzoni – appunti, lettere, relazioni – intorno al problema della lingua, che avrebbero dovuto far parte di un’opera, Della lingua italiana, che non fu mai compiuta. Il modo in cui il Manzoni imposta il problema della lingua risente della sua adesione alle tesi romantiche. La lingua deve essere «un mezzo di comunicazione d’ogni sorte di concetti fra tutti gl’Italiani» e perciò deve essere unitaria, viva e popolare. Tale lingua egli identifica con la lingua fiorentina, ma non quella del Trecento, come volevano i puristi, bensì quella viva, attualmente parlata dalle persone “civili”. 349 350

Idem, cap. IV. Ibidem.

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L’Ottocento

Giacomo Leopardi Mentre Manzoni meditava, stendeva e rielaborava i suoi Promessi sposi, Leopardi componeva i suoi Canti: le due tendenze del Romanticismo, quella storico-realistica e quella lirico-soggettiva, trovavano così, contemporaneamente, la loro massima espressione artistica nella storia delle nostre lettere.

La vita esterna ed intima A ventuno anni di età Giacomo Leopardi scriveva: Sono stordito del niente che mi circonda… Se in questo momento impazzissi, io credo che la mia pazzia sarebbe di seder sempre cogli occhi attoniti, colla bocca aperta, colle mani tra le ginocchia, senza né ridere né piangere, né movermi, altro che per forza, dal luogo dove mi trovassi. Non ho più lena di concepire nessun desiderio, neanche della morte… Questa è la prima volta che la noia non solamente mi opprime e stanca, ma mi affanna e lacera come un dolore gravissimo…

Queste parole sono la confessione dello stato di disperazione nel quale allora versava il poeta e nel quale visse per quasi tutta la vita, breve del resto, dall’acquisto della coscienza in poi. Era nato nel 1798 a Recanati, nelle Marche, da una famiglia nobile, legata alle antiche tradizioni feudali. Il padre Monaldo, che si compiaceva di chiamarsi “l’ultimo spadifero d’Italia”, era un ottimo uomo, ma privo di senso pratico; un po’ perché sopraffatto dalla propria attività di lettore – costituì una formidabile biblioteca – e di scrittore, come vedremo oltre, un po’ perché si lasciò coinvolgere in errate speculazioni, fu certamente cattivo amministratore delle sostanze familiari al punto di doverne lasciar la cura alla moglie Adelaide Antici. Costei era donna arida ed autoritaria e, tutta presa dalla cura del patrimonio domestico – che poté infine vantarsi di aver riassestato –, trascurò di adempiere gli affettuosi doveri materni, creando in famiglia un’atmosfera gelida e squallida. Ce ne danno un’idea le parole della figlia Paolina, la terzogenita di casa Leopardi, in una lettera ad un’amica: «Mamà è una persona ultrarigorista, un vero eccesso di perfezione cristiana, la quale non potete immaginare quanta dose di severità metta in tutti i dettagli della vita domestica. […] Marianna mia, non se ne può più affatto, affatto, io vorrei che tu potessi stare un giorno solo in casa mia, per prendere un’idea del come si possa vivere senza vita, senza anima, senza corpo!». All’atmosfera grigia e senza slanci affettivi di casa Leopardi faceva eco l’ambiente pigro, chiuso, retrivo di Recanati: incapaci entrambi di appagare la vivace sensibilità del piccolo Giacomo, il suo bisogno di affetto, il suo smoderato e precoce desiderio di gloria. E sia per questo desiderio di affermazione di se stesso, che non lo abbandonerà mai nella vita e che costituirà una nota caratteristica della sua indole, sia per la solitudine in cui lo ricacciavano l’ambiente familiare e quello del paese, si tuffò nella lettura e nello

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L’Ottocento studio, rimanendo, come scrisse il fratello Carlo, «sino a tarda notte in ginocchio avanti il tavolino per poter scrivere fino all’ultimo momento del lume che si spegneva». Ed egli stesso, in una lettera all’amico Giordani, dichiarava: Io sono andato un pezzo in traccia dell’erudizione più pellegrina e recondita, e dai tredici ai diciassette anni ho dato dentro a questo studio profondamente, tanto che ho scritto da sei a sette tomi non piccoli sopra cose erudite.

Furono anni di studio «matto e disperatissimo» che, se gli procurarono una cultura realmente eccezionale e prodigiosa per la sua età – imparò il latino, il greco, l’ebraico, varie lingue straniere; fece traduzioni di opere classiche, scrisse di filosofia, di storia e di altri argomenti – influirono certamente ed in modo irreparabile sullo stato di salute. Divenne gracile, pallido, la schiena gli si incurvò, la vista si indebolì: presentava, insomma, il tipico quadro clinico di un ragazzo avvizzito e malaticcio a cui sono mancati l’aria, il moto, i giochi sereni e spensierati tra compagni della propria età. E non furono tanto i mali fisici di per se stessi a tormentarlo, quanto l’ossessiva coscienza che ebbe della propria deformità, si da ripiegare sempre più in una disperata solitudine e da considerare, con straziante nostalgia, che la giovinezza, l’amore e forse anche la gloria erano beni ormai per lui irrimediabilmente perduti. Un anno di particolare crisi fu il 1819: il poeta aveva ventuno anni e l’aggravarsi dello stato di salute lo privò quasi completamente della vista. Scrisse poi nello Zibaldone (una specie di diario in cui annotava cose lette, pensate, ideate): Privato dell’uso della vista e della continua distrazione della lettura, cominciai a sentire la mia infelicità in un modo assai tenebroso, cominciai ad abbandonar la speranza, a riflettere profondamente sopra le cose […] a diventar filosofo di professione (di poeta ch’io era), a sentire l’infelicità certa del mondo […].351

Eppure, tra tanta disperazione resta ancora un barlume di speranza nel fondo della sua coscienza: crede che, uscendo da Recanati, da «quel paese di frati», possa ancora sentirsi vivere. Già qualche anno prima, scrivendo al Giordani, aveva detto: Iddio ha fatto tanto bello questo nostro mondo, tante cose belle ci hanno fatto gli uomini, tanti uomini ci sono, che chi non è insensato arde di vedere e di conoscere; la terra è piena di meraviglia, ed io di diciott’anni potrò dire: in questa caverna vivrò e morrò dove son nato?

Fu così che, nello stesso 1819, preparò un tentativo di fuga; ma il tentativo fu scoperto dai suoi e il poeta dovette rinunziarvi. Ed è a questo proposito che si evidenzia un’altra motivazione del dolore leopardiano: che non è tanto quel suo stato di forzata prigionia in Recanati, a cui è costretto dai suoi, quanto l’impressione psicologica che il giovane deve dedurne: quasi fosse ancora un immaturo – a ventun anni! – sì che i suoi genitori debbano pensare e decidere per lui. Se a ciò si aggiungono poi la mancata indipendenza economica ed il dover ricorrere in famiglia per ogni minima necessità, si capirà bene qual fosse allora lo stato d’animo dei giovane Leopardi. 351

Giacomo Leopardi, Zibaldone, 27 giugno - 2 luglio 1820.

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L’Ottocento Finalmente, nel 1822 – aveva già ventiquattro anni – i suoi acconsentirono che si recasse a Roma, ospite di uno zio. Ma per il poeta quell’esperienza si risolse in una completa delusione e scrivendo al fratello confessava: Delle grandi cose ch’io vedo non provo il menomo piacere perché conosco che sono meravigliose, ma non lo sento, e t’accerto che la grandezza loro m’è venuta a noia dopo il primo giorno.

Cadeva così l’ultima speranza del poeta, quella di trovare un sollievo alla sua infelicità fuori del «natio borgo selvaggio»352 e si confermava in lui l’idea che le cose sono belle solo se viste di lontano. Alla sorella Paolina, anche lei insofferente della prigionia recanatese, per consolarla scriveva: La felicità umana è un sogno; il mondo non è bello, anzi non è sopportabile, se non veduto come tu lo vedi, cioè di lontano.

Tornò così a Recanati, ma per ripartire, nel 1825, alla volta di Milano, invitato dall’editore Stella a curare un’edizione delle opere di Cicerone. Il clima di Milano gli era micidiale e perciò si trasferì a Bologna, poi a Firenze (dove conobbe i letterati che si riunivano intorno all’Antologia: Viesseux, Colletta, Capponi, Niccolini, Tommaseo); quindi nel 1827 fu a Pisa, dove, forse per il clima a lui propizio, gli sembrò di rivivere. Ma le strettezze economiche – del tutto insufficiente infatti era l’assegno dell’editore Stella – lo costrinsero a tornare a Recanati. Qui lo raggiunse una lettera del Colletta che gli offriva con molta discrezione un assegno mensile, raccolto tra gli amici fiorentini, perché tornasse a Firenze. Leopardi accettò e a Firenze incontrò la signora Fanny Targioni Tozzetti che lo fece invaghire di sé senza peraltro ricambiare il suo amore. Era la seconda volta che il poeta s’innamorava: la prima era stata quando, nel 1817, era venuta in casa Leopardi una cugina del padre, la giovane signora Geltrude Cassi; ma vedremo in seguito qual fosse la natura degli amori leopardiani. Stretta fraterna amicizia col napoletano Antonio Ranieri – che diverrà poi il biografo non sempre discreto del poeta – Leopardi accettò di vivere in sodalizio con lui prima a Firenze, poi a Napoli. Intanto le sue condizioni di salute andavano progressivamente aggravandosi. Nel maggio del 1837 scriveva al padre: I miei patimenti fisici giornalieri e incurabili sono arrivati con l’età a un grado tale, che non possono più crescere; spero che, superata finalmente la piccola resistenza che oppone loro il moribondo mio corpo, mi condurranno all’eterno riposo, che invoco caldamente ogni giorno, non per eroismo, ma per il rigore delle pene che provo.

Pochi giorni dopo, sopraffatto da un attacco d’asma, moriva. Aveva 39 anni.

Il pessimismo Per effetto di una vita tanto infelice era naturale che dovesse derivare nel poeta una dolorosa e pessimistica concezione dell’esistenza. Eppure il poeta, tanto nella lettera al 352

Giacomo Leopardi, Le ricordanze, v. 30.

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L’Ottocento De Sinner del 1832 quanto nel Dialogo di Tristano e di un amico affermava che le sue convinzioni sull’esistenza umana nascevano dall’osservazione della realtà e niente avevano a che fare pertanto con le particolari e dolorose esperienze della sua vita. Affermazioni che ci sembrano, però, poco persuasive e che nascevano forse da una duplice esigenza: non voler suscitare la pietà degli uomini e dare alle sue concezioni una maggiore e più obbiettiva validità. Del resto, quella che dicesi filosofia leopardiana non è affatto né sistematica – e certamente non poteva esserlo giacché il Leopardi era un poeta non un filosofo – e neanche sempre coerente. Nel suo pensiero non mancano antinomie e contraddizioni: ciò perché il poeta deduceva indistintamente dalla cultura filosofica, soprattutto del Settecento, ogni concezione che potesse avvalorare la sua intuizione pessimistica dell’esistenza. Così la contrapposizione operata dal Rousseau dei concetti natura-cultura dava modo al Leopardi di svolgere ed approfondire la tesi di una infelicità umana derivante dalla cultura e dalla ragione; le tesi sensistiche sull’indole del piacere e del dolore lo confermavano nell’idea che il piacere fosse la rapida cessazione del dolore; le stesse concezioni meccanicistiche e materialistiche del sensismo gli spiegavano il perché dell’inutilità del tutto, del «solido nulla»353 che lo circondava. Per meglio intendere e chiarire le forme e gli atteggiamenti del pessimismo leopardiano i critici parlano di fasi o momenti diversi354. Giudizio accettabilissimo senz’altro sempre che, però, non si intendano queste fasi come momenti cronologici diversi, ma come modi e forme che il suo pessimismo va di volta in volta assumendo. La prima fase sarebbe quella del pessimismo empirico e soggettivo: le dolorose esperienze di vita, il crollo delle illusioni giovanili, la «sua condizione di angelo decaduto e smarrito in un lugubre deserto» (Sapegno) danno al poeta la coscienza della propria infelicità alla quale la sua immaginazione riesce ancora a contrapporre un mondo, per gli altri, sereno e felice. Da qui il credere che, se mai potesse uscire dalla «tana» di Recanati, riuscirebbe finalmente ad essere felice; da qui il suo tentativo di fuga; da qui ancora lo stato d’animo del Passero solitario: gli altri augelli contenti a gara insieme per lo libero ciel fan mille giri, pur festeggiando il loro tempo migliore: tu pensoso in disparte il tutto miri; non compagni, non voli, non ti cal d’allegria, schivi gli spassi; canti, e così trapassi dell’anno e di tua vita il più bel fiore.355

A chi volesse vedere una connessione temporale tra queste fasi o atteggiamenti del pessimismo leopardiano e i fatti della sua vita, potrebbe sembrare che la disillusione provocata dal soggiorno romano abbia determinato il passaggio dal pessimismo empirico e 353

Giacomo Leopardi, Zibaldone, dicembre 1818 - 8 gennaio 1820, p. 84. Pessimismo empirico e soggettivo; quindi storico e sociale; infine cosmico o naturale. 355 Giacomo Leopardi, Il passero solitario, vv. 9-16. 354

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L’Ottocento soggettivo a quello storico e sociale. Ma, come si è detto, è azzardato dare a queste fasi uno svolgimento nel tempo: sicché a mutare l’atteggiamento del pessimismo leopardiano era soprattutto una motivazione psicologica. Vittimismo e titanismo erano due aspetti contraddittori e dialettici dello spirito leopardiano. Allorquando il poeta considerava solo sé infelice assumeva un atteggiamento di vittima contro il quale reagiva poi il suo titanismo, che era una nota tipica della sua indole e che gli metteva nell’animo quel «grandissimo, forse smoderato e insolente, desiderio di gloria» (Sapegno). Questo titanismo lo voleva non vittima, ma superiore agli altri: la conclusione, allora, era che l’infelicità non era solo sua, ma di tutti gli uomini, che anzi lui, avendone coscienza, poteva smascherare agli altri la realtà dell’esistenza. A questo dolore di tutti il poeta dava una determinazione storica: è l’infelicità dei moderni, condizionati dalle strutture sociali, ossessionati dall’ansia di conoscere il vero e perciò distruttori del velo illusorio che avvolge le cose. È evidente come ora Leopardi si ispiri a Rousseau, facendo coincidere la felicità umana con la vita allo stato di natura. Leopardi però dà al pensiero rousseauiano un’interpretazione romantica, dal momento che confonde il termine di “cultura” con quello di “ragione”. La ragione, infatti, che per il filosofo francese era un fattore positivo e si identificava con la natura e non con la cultura, diviene per Leopardi una forza demoniaca che toglie agli uomini la gioia di fantasticare e di sognare. Scrisse infatti: «Solo la natura è grande, mentre la ragione è piccola e nemica di quelle grandi azioni che la natura ispira».356 In contrapposizione all’infelicità dei moderni il poeta immagina così una primitiva età felice, una specie di paradiso perduto in cui gli uomini vivevano di favole e di sogni. Sono queste le suggestioni che gli ispirano Alla primavera e l’Inno ai Patriarchi, in cui, mentre maledice lo «scellerato ardimento»357 della civiltà presente, invidia il tempo felice in cui gli dèi e le ninfe abitavano la terra. Ma quando all’influenza rousseauiana si unisce quella del meccanicismo materialista del sensismo, allora il concetto di natura assume per Leopardi una significazione diversa: non rappresenta più uno stato di vita primitivo e felice, ma una legge meccanica che distrugge per riprodurre, che non si cura, né può curarsi, dell’uomo e della sua infelicità. Si ha allora la fase del pessimismo cosmico o naturale: la natura è matrigna, perpetuamente persecutrice e nemica mortale di tutti gli individui d’ogni genere e specie ch’ella da alla luce; e comincia a perseguitarli dal punto medesimo in cui li ha prodotti».358 Il dolore diviene allora legge naturale, perciò ineluttabile, e l’uomo, acquistandone coscienza, precipita nella noia data dall’assenza assoluta di ogni desiderio e di ogni speranza, la consapevolezza della vanità di tutto.

356

Giacomo Leopardi, Zibaldone, dicembre 1818 - 8 gennaio 1820, p. 37. Giacomo Leopardi, Inno ai Patriarchi, v. 111. 358 Idem, 11 aprile 1829. 357

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L’Ottocento

La formazione letteraria La prima attività letteraria del Leopardi fu di natura erudita e filologica. Scriveva nello Zibaldone: «Fu un tempo in cui non trovava altro studio piacevole che la pura e secca filologia, che ad altri par noiosissima».359 Da quell’attività, infatti, e non dalla poesia si aspettava la gloria. Ad appena quindici anni di età attendeva alla composizione di una Storia dell’astronomia, il cui disegno era nato non tanto da puro interesse scientifico quanto dal desiderio di conoscere più da vicino il cielo stellato, che sempre suscitò in lui commozione ed attrazione. Due anni dopo componeva il Saggio sugli errori popolari degli antichi, in cui, pur mostrando di combattere illuministicamente le false credenze dell’antichità, ne subiva l’incanto, perché sempre in lui fu rimpianto ed amore per tutto quanto fosse primitivo ed ingenuo. Intanto componeva opere più specificamente filologiche: studi su Porfirio, sui retori dei primi secoli dopo Cristo, su Frontone ed altri autori minori. Ma tra il 1815-16 si manifesta in Leopardi un radicale cambiamento di orientamenti letterari: non gli interessano più gli autori minori come oggetto di studio e di indagine filologica, ma i poeti maggiori delle letterature classiche greca e romana, considerati come modello di poesia. Si ha così quella conversione che il poeta stesso definì «dall’erudizione al bello»360, il che voleva significare: dalla filologia alla poesia. Ci da allora le traduzioni poetiche degli Idilli di Mosco, della Batracomiomachia, del I libro dell’Odissea, del II libro dell’Eneide, mentre compone le prime liriche. Qualche anno dopo, e precisamente tra il 1818 e il 1819, cade la seconda conversione degli interessi e degli orientamenti letterari leopardiani: quella «dalle lettere alla filosofia»361, ovvero dalla poesia d’immaginazione alla poesia filosofica e sentimentale. A determinarla sono, oltre a motivi biografici – il peggiorare della vista e la crisi fisicopsichica –, la lettura di opere di profonda ispirazione sentimentale – l’Ortis, il Werther, i libri della Staël – ed il persuadersi, sulle orme del poeta tedesco Schiller, che la poesia degli antichi era poesia di immaginazione, ma che quella dei moderni non potesse che essere poesia di sentimento. Da questa seconda conversione letteraria, sviluppatasi in connessione col progressivo avvicinamento alle tesi romantiche, nascerà la grande poesia leopardiana.

La poetica Quando nel 1816 la Staël pubblicò il noto articolo sulla “Biblioteca italiana”, il Leopardi rispose con una lettera alla redazione di quel giornale che però non venne pubblicata. Due anni dopo scrisse – in polemica ora con Ludovico di Breme362 che si faceva so359

Idem, 29 luglio 1820. Idem, 19 settembre 1821. 361 Ibidem. 362 Ludovico Arboreo Gattinara di Breme (1780-1820), di nobile famiglia torinese, abate, di idee liberali sia in politica (fu Consigliere di Stato sotto Napoleone) che in letteratura (difese Madame de Stäel e propugnò l’uso di una lingua fecondata dall’apporto dei dialetti). 360

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L’Ottocento stenitore delle stesse tesi della Staël – il Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica. In questi scritti Leopardi accoglieva la pars destruens del Romanticismo – il rifiuto dell’imitazione, delle regole, della mitologia – sostenendo però che tutto questo non era innovazione romantica, in quanto esigenza già avvertita dai letterati italiani nel corso del secolo precedente; per quanto riguardava invece la pars costruens di quella poetica, rifiutava la tendenza oggettivo-realistica, condividendo quella soggettivo-sentimentale. A tale scelta il poeta era portato, oltre che dalla sua personale disposizione ad una poesia che fosse sentimentale ed espressione di quella intuizione dolorosa dell’esistenza che andava maturando in lui, anche da quella distinzione, cui si è già accennato, tra poesia di immaginazione e poesia di sentimento: la prima possibile soltanto agli antichi, in quanto nutrita di fantasie e di miti, la seconda tipica invece dei moderni, perché fatta di affetti e di idee363. Tanto premesso, era naturale che Leopardi rifiutasse, per il loro aspetto realistico e oggettivo, il genere narrativo e quello drammatico e propendesse invece per la lirica, in quanto poesia soggettivo-sentimentale. La lirica anzi era per lui il solo genere essenzialmente poetico in quanto, sgorgando spontaneamente dal cuore e non obbedendo ad un’architettura complessa e a piani concepiti a priori – come fanno invece la poesia narrativa e quella drammatica – non presenta residui intellettualistici (intuizione importante, questa, che anticipa la distinzione operata dall’estetica crociana tra poesia e non poesia). La poesia, insomma, è tanto più elevata quanto più si allontana dalla narrazione o dalla rappresentazione dei fatti; quando non rappresenta ma esprime, quando non imita ma canta, operando così una trasfigurazione lirica del motivo ispiratore sì da raggiungere la sublime indeterminatezza musicale. Per questo le impressioni vaghe e remote, le sensazioni oscure e indeterminate, le cose lontane nel tempo e nello spazio hanno un loro intimo valore poetico; per questo “infinito”, “rimembranze”, “ricordanze” sono non soltanto temi e titoli della poesia leopardiana, ma anche parole tema e parole chiave dei suoi Canti. Scrisse infatti nello Zibaldone: Un oggetto qualunque, per esempio un luogo, un sito, una campagna, per bella che sia, se non desta alcuna rimembranza, non è poetica punto a vederla. La medesima, ed anche un sito, un oggetto qualunque, affatto impoetico in sé, sarà poetichissimo a rimembrarlo. La rimembranza è essenziale e principale nel sentimento poetico, non per altro, se non perché il presente, qual ch’egli sia, non può esser poetico; e il poetico, in uno o in un altro modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell’indefinito, nel vago.364

Anche la lingua nella poesia deve avere i caratteri della indeterminatezza: deve essere vaga e musicale, non invece “geometrica”, chiara e precisa come quella della prosa o ancor più delle comunicazioni pratiche. Così si spiega come il poeta, con improprietà lessi-

363

«I moderni – sosteneva Leopardi – che vogliono fare della poesia di immaginazione, non avendo più la disposizione spirituale degli antichi, risultano freddi, e le loro opere sono frutto di imitazione e di artificio». A questo proposito Leopardi esprimeva il suo noto e già citato giudizio negativo sul Monti. 364 Giacomo Leopardi, Zibaldone, 14 dicembre 1828.

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L’Ottocento cale, ma grande resa poetica, chiami “canto” nelle Ricordanze il gracidio della rana (ma qui interviene anche la trasfigurazione lirica operata dalla poeticità dei ricordi): il canto / della rana rimota alla campagna!365

E come ancora, nel Sabato del villaggio, chiami “romore” il chiasso dei fanciulli: I fanciulli gridando su la piazzuola in frotta, e qua e là saltando, fanno un lieto romore.366

Avviene così che la lingua del Leopardi è semplice, elementare; eppure acquista, per effetto del sentimento del poeta, una potenza espressiva nuova, un’intensa carica lirica; assume, cioè, una sua propria connotazione. Leggiamo i versi: Siede con le vicine / su la scala a filar la vecchierella367

Qui non vi sono termini peregrini, arcaici, altisonanti e magniloquenti; ogni parola è semplice, usuale, quasi popolare. Eppure, nella rievocazione nostalgica dei ricordi, l’espressione – che, isolata dalla lirica, potrebbe sembrare un semplice enunciato comunicativo – assume un suo particolare incanto poetico.

I Canti a) Le canzoni civili e i piccoli idilli Nel 1831 il Leopardi diede per la prima volta alle stampe le sue liriche col nome di Canti: un nome nuovo nella tradizione letteraria italiana, ma che corrispondeva proprio a quel suo concetto della poesia lirica di cui si è parlato. Nell’edizione del 1835 – l’ultima da lui curata – i Canti erano trentanove; divennero poi quarantuno nell’edizione postuma, curata dall’amico Ranieri, essendo stati aggiunti Il tramonto della luna e La ginestra. Aprono la raccolta – il cui ordine non è rigidamente cronologico – le canzoni patriottiche e civili: All’Italia, Sopra il monumento di Dante, Ad Angelo Mai, Nelle nozze della sorella Paolina, A un vincitore nel pallone. Alla loro composizione (1818-21) concorsero i modelli montiani e alfieriani e soprattutto l’amicizia col Giordani, che fu un fervido patriota e che fu ospite di casa Leopardi proprio nel 1818. Certamente non si rinviene qui il vero Leopardi, quello dei grandi temi personali e dolorosi: il poeta cade spesso nell’oratoria, anche se dignitosa ed eloquente, e la stessa strutturazione delle canzoni non va al di là degli stampi della lirica settecentesca. Tuttavia l’insistente nostalgia del glorioso passato, pur nascendo qui dalla considerazione della situazione attuale d’Italia – ben lungi da quella del tempo di Roma – già preannunzia la costante ammirazione leopardiana per le età antiche e primitive. Ammirazione che ispira in modo più esplicito Alla Pri365

Giacomo Leopardi, Le ricordanze, vv. 12-13. Giacomo Leopardi, Il sabato del villaggio, vv. 24-27. 367 Idem, vv. 8-9. 366

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L’Ottocento mavera e l’Inno ai Patriarchi: esaltazione dei tempi in cui gli uomini, non ancora guasti dalla ragione, vivevano ignari e felici a contatto con la natura. Nei canti Bruto minore e l’Ultimo canto di Saffo l’umana vicenda dei protagonisti assume valore emblematico di un tema del pessimismo leopardiano: la vanità della virtù. Ma alla squallida intuizione della vanità di tutto l’animo non si prostra precipitando nella noia – come avverrà nel più maturo Leopardi –, reagisce, invece, riscattandosi nei suicidio. Bruto e Saffo hanno ancora l’animo degli eroi alfieriani e di Ortis: Bruto, quando vede perduta ogni speranza di difendere la repubblica e la libertà, si uccide imprecando contro la vita e la divinità; Saffo, quando constata che «virtù non luce in disadorno ammanto»368, si uccide gettandosi dalla rupe di Leucade. Seguono nella raccolta i cinque Idilli che furono composti tra il 1819 e il 1821: L’infinito, La sera del dì di festa, Alla luna, Il sogno, La vita solitaria. La definizione di idilli non faccia credere che si tratti di componimenti pastorali come quelli composti da Teocrito o da Mosco e neanche di quadretti di vita agreste: si tratta invece – come disse lo stesso autore – di elegie «esprimenti situazioni, affezioni, avventure storiche del [suo] animo». Il poeta non è più proteso verso l’esterno, intento a cercare in situazioni e personaggi della storia o del mito allegorie del suo sentimento e della sua filosofia, né è interessato a persuadere gli uomini delle sue tesi. Qui scompare ogni residuo ideologico: la filosofia diviene sentimento ed il poeta è tutto raccolto in se stesso, attento a cogliere i più secreti moti del cuore, così come vengono messi in moto da un’immagine naturale, una contemplazione, un ricordo. Perciò gli Idilli rappresentano uno dei momenti più felici della poesia leopardiana (se non addirittura il più felice, secondo il giudizio di Croce). Prendiamo l’Infinito, l’idillio più meritamente famoso: l’impossibilità per il poeta di vedere al di là della siepe sul monte Tabor, gli fa immaginare «interminati spazi» e «sovrumani silenzi»; un senso di pace cosmica gli invade l’animo, quasi risucchiandolo e annullandolo in sé: Così tra questa immensità s’annega il pensier mio: e il naufragar m’è dolce in questo mare.369

Così nell’idillio Alla luna contemplare l’astro che sembra pendere sulla selva gli ricorda come eguale spettacolo si offriva, l’anno precedente, dinanzi ai suoi occhi velati di lacrime per la travagliata sua esistenza: Ma nebuloso e tremulo dal pianto che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci il tuo volto apparia, che travagliosa era mia vita: ed è, né cangia stile, o mia diletta luna.370

368

Giacomo Leopardi, Ultimo canto di Saffo, v. 54 Giacomo Leopardi, L’infinito, vv. 13-15. 370 Giacomo Leopardi, Alla luna, vv. 9-10. 369

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L’Ottocento b) I grandi idilli e gli ultimi canti Dal 1824 al 1827 tace la musa leopardiana. Non sarà però questo un periodo di inoperosità, dal momento che vedranno allora la luce le Operette morali di cui si parlerà in seguito. Nel 1828, a Pisa, in uno dei pochi periodi se non di felicità, almeno di distensione psico-fisica che ebbe la sua vita, Leopardi sentì rinascere l’ispirazione poetica e la salutò col canto Il risorgimento: Meco ritorna a vivere la pioggia, il bosco, il monte; parla al mio core il fonte, meco favella il mar.371

Spiace forse, dopo la distesa e sobria musicalità degli idilli, composti in endecasillabi sciolti, l’uso della cantabile strofetta arcadica; ma forse il poeta voleva esprimere, anche attraverso la facile melodia dei versi, quel suo particolare momento di grazia psicologica. Seguirono, tra il 1828 ed il 1830, quelli che i critici hanno definito “i grandi idilli”, dato il loro riallacciarsi, per i temi e la poetica, agli idilli giovanili. Ma qui quella poetica ritorna «con un rigore nuovo ed una consapevolezza ben altrimenti ferma e chiara, e quindi con un respiro più ampio e vigoroso, che consente al discorso poetico di spaziare e di articolarsi in forme più larghe e complesse, una maggior durata insomma del tono e del tema propriamente lirico» (Sapegno). Nel canto A Silvia il ricordo della giovinetta Teresa Fattorini, morta di tisi sul “limitare di gioventù”, si identifica e confonde col ricordo della fine della giovinezza e del dissolversi della speranza. Nelle Ricordanze, una delle liriche di più ampio respiro e di più dolente ispirazione, il poeta, stato costretto a tornare a Recanati sotto l’urgenza delle ristrettezze economiche, rivedendo i luoghi e gli ambienti dell’adolescenza rievoca le illusioni e le speranze di quell’età: e dal contrasto tra quegli “ameni inganni” e il disperato stato presente nasce un canto soffuso di profonda e pur pudica malinconia. Nel Passero solitario – di cui è incerta la data della composizione tanto che è considerato da alcuni un idillio giovanile – l’attenzione rivolta alle abitudini di un passero solitario ispira il canto della disperata solitudine del poeta. Nella Quiete dopo la tempesta e nel Sabato del villaggio due scenette di vita paesana, ritratte con “sognato verismo”, divengono allegoria di due temi del pessimismo leopardiano: l’unico diletto concesso agli uomini consiste nella fine di un affanno precedente; la felicità è soltanto nell’attesa e nella speranza. Nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia – con cui Leopardi giunse, secondo il giudizio del Giordani, «all’estremo della grandezza e dello stile» – la disperazione ed il tedio assumono non solo una dimensione, ma anche un’intonazione cosmica: non soltanto cioè il poeta li considera mali di tutto l’universo, ma – quel che poeticamente più importa – li esprime con la suggestione dell’infinito, con versi che sembrano avere l’agghiacciante risonanza del cosmo: 371

Giacomo Leopardi, Il risorgimento, vv. 97-100.

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L’Ottocento E quando miro in cielo arder le stelle; dico fra me pensando: a che tante facelle? che fa l’aria infinita, e quel profondo infinito seren? che vuol dir questa solitudine immensa? ed io che sono?372

Poesia più alta ed insieme più profonda di questa Leopardi non poteva darci. Gli ultimi canti, anche se sempre tecnicamente perfetti – Leopardi non è un poeta che scrive di getto e la sua spontaneità è sempre frutto di un attento amore alla forma poetica, effetto, questo, della sua formazione filologica – non hanno quell’equilibrio tra il sentimento e la sua forma artistica, quella classica naturalezza dell’espressione che avevano caratterizzato gli idilli piccoli e grandi. I canti del cosiddetto ciclo di Aspasia373 – ispirati, forse, dall’amore per Fanny Targioni Tozzetti – si muovono in un’atmosfera troppo rarefatta e presentano toni lacrimosi e patetici che sembrano anticipare gli eccessi sentimentalistici del secondo romanticismo. La ginestra, considerata il testamento spirituale del Leopardi per la sua esortazione agli uomini di unirsi per rendere più sopportabile il dolore che ad essi procura la natura matrigna, presenta residui intellettualistici ed oratorii. Il tramonto della luna – di cui sembra che gli ultimi versi siano stati dettati dal poeta poche ore prima della morte – riprende, per l’ultima volta, il sofferto motivo del dissolversi della giovinezza e delle speranze: Ma la vita mortal, poi che la bella giovinezza sparì, non si colora d’altra luce giammai, né d’altra aurora.374

c) I motivi poetici Prima Gioberti, poi De Sanctis ed altri hanno affermato che Leopardi, nonostante la sua filosofia pessimistica e nonostante le sue apostrofi contro la vita e la natura, invece di persuaderci di quanto dolorosa e vana sia l’esistenza, ce la fa amare più che mai. Partendo da tali considerazioni si è parlato addirittura di un ottimismo leopardiano. Il fatto è che Leopardi si duole del crollo delle illusioni e tanto più disperato è il suo pianto quanto più quelle illusioni gli appaiono mirabili ed incantevoli nel ricordo. In altri termini, Leopardi non avrebbe sofferto tanto se non avesse immaginato tanto bella la vita. In questi termini si inscrive non soltanto la vicenda umana del Leopardi, ma anche quella di Silvia (Teresa Fattorini?) o della Nerina (Maria Belardinelli?) delle Ricordanze. Il loro venir meno sulle soglie della giovinezza – che pur sarebbe dovuta essere per loro una fortunata liberazione dalla pena del vivere stando alla filosofia del loro autore – sa di pianto, perché non potettero esse godere delle gioie della giovinezza. Di Silvia, morta, il poeta dice:

372

Giacomo Leopardi, Canto notturno…, vv. 84-89. Il pensiero dominante, Amore e morte, A se stesso, Aspasia. 374 Giacomo Leopardi, Il tramonto della luna, vv. 24-27.63-65. 373

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L’Ottocento E non vedevi il fior degli anni tuoi; non ti molceva il core la dolce lode or delle negre chiome, or degli sguardi innamorati e schivi; né teco le compagne ai dì festivi ragionavan d’amore.375

Altrettanto triste è la sorte di Nerina, perché: Dico: o Nerina, a radunanze, a feste tu non ti acconci più, tu più non movi. Se torna maggio, e ramoscelli e suoni van gli amanti recando alle fanciulle, dico: Nerina mia, per te non torna primavera giammai, non torna amore. Ogni giorno sereno, ogni fiorita piaggia ch’io miro, ogni goder ch’io sento, dico: Nerina or più non gode; i campi, l’aria non mira.376

Tutt’altro che triste la vita quindi, tutt’altro che brutta e cupa la natura: il triste destino umano è nel fatto che le bellezze della vita sono tanto fugaci da apparire illusorie; vivono tanto quanto basti perché l’uomo di esse s’innamori e subito poi s’infrangono e si dileguano. Sono speranze, sono inganni; ma sono tutto quanto popola e ispira il canto del poeta, la sostanza poetica della sua lirica: O speranze, speranze: ameni inganni della mia prima età! sempre, parlando, ritorno a voi: che per andar di tempo, per variar d’affetti e di pensieri, obliarvi non so.377

Anche Leopardi quindi, come il Foscolo, è un poeta delle illusioni – si noti come la dialettica tra sostantivo e aggettivo presente nel foscoliano «pietosa insania»378 ritorni identica nel leopardiano «ameni inganni». Solo che le illusioni del Foscolo sono un punto di arrivo, una conquista eroica del suo spirito; quelle del Leopardi, invece, sono un punto di partenza, un bene perduto che il poeta perciò canta con lo strazio con cui si cantano i beni perduti per sempre. Odiosamate le speranze e le illusioni giovanili e odiosamata Recanati. Il poeta la chiama «natio borgo selvaggio», «sepolcro dei vivi», «caverna», «tana», mostrando di spregiarla non soltanto come sua prigione, ma anche come simbolo della sua prigionia nel mondo; d’altra parte, però, sente che senza Recanati non può darci poesia: perché quella 375

Giacomo Leopardi, A Silvia, vv. 42-48. Giacomo Leopardi, Le Ricordanze, vv. 160-169. 377 Idem, vv. 77-81. 378 Ugo Foscolo, Dei sepolcri, v. 130. 376

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L’Ottocento «tana» è stata il nido dei suoi sogni e delle sue speranze. E così Recanati è onnipresente nella poesia del Leopardi: col suo colle dell’Infinito, con la sua torre del Passero solitario, con la sua «piazzola» del Sabato del villaggio, con i «veroni del paterno ostello»379 da cui contempla Silvia curva sul suo telaio, con la selva su cui sembra pendere la luna, con «la via corrente»380, col suo «mar da lungi»381. Fatta eccezione per la poesia cosmica del Canto notturno, sembra addirittura che Leopardi non sappia essere poeta della natura, se questa natura non sia il paesaggio recanatese. Leopardi non è un grande poeta d’amore: l’amore è marginale nella sua ispirazione poetica. E ciò perché non ebbe mai il conforto di un vero amore, corrisposto, vissuto appieno e tempestosamente, ma conobbe soltanto amori unilaterali presto disincantati dalla realtà dei fatti. L’essere respinto da donne reali, o più ancora la coscienza di essere respinto, lo portarono ad amare un tipo ideale di donna, la donna del sogno o, come egli stesso disse, una di quelle immagini, uno di quei fantasmi di bellezza e virtù celeste e ineffabile, che ci occorrono spesso alla fantasia nel sonno o nella veglia, quando siamo poco più che fanciulli, e poi qualche rara volta nel sonno o in una qualsiasi alienazione della mente, quando siamo giovani… Infine è la donna che non si trova.

Perciò le donne delle sue poesie, più che donne reali, sono immagini evanescenti, simbolo dell’amore, che il poeta amò più che la donna stessa.

Le Operette morali A mezza strada tra la poesia e la prosa sono da collocarsi le Operette morali, che lo stesso autore in una lettera al padre definì «poesia in prosa». Nonostante, infatti, la loro importanza sul piano della speculazione e dell’argomentazione ideologica, le Operette morali interessano soprattutto per l’invenzione narrativa, l’ispirazione sentimentale ed il tono poetico. Ricorrono in esse le stesse intuizioni e gli stessi stati d’animo che ispirano i Canti, anche se trasferiti su un piano meno autobiografico e più universale e resi in modo più rasserenato e disteso. Le ventiquattro Operette morali vennero composte quasi tutte nel 1824 a Recanati. Sulla scorta di quel che l’autore scrisse all’editore Stella, che cioè la sua opera doveva «esser giudicata dall’insieme e dal complesso sistematico», la critica si è data da fare per rinvenire un ordinamento logico tra le varie operette, giungendo però ad interpretazioni diverse, suggestive alcune ma non sempre altrettanto convincenti. A noi sembra, invece, che come nei Canti così nelle Operette morali sia impossibile ricercare un’evoluzione logica e sistematica del pensiero leopardiano, dal momento che – come si è già detto a suo tempo – i vari atteggiamenti del suo pessimismo non sono momenti che si svolgono cronologicamente, ma forme che esso viene di volta in volta ad assumere. Si alternano anche qui, infatti, come nei Canti, gli atteggiamenti del pessimismo storico e di quello 379

Giacomo Leopardi, A Silvia, v. 19. Giacomo Leopardi, La quiete dopo la tempesta, v. 22. 381 Giacomo Leopardi, A Silvia, v. 25. 380

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L’Ottocento cosmico: e se nella Storia del genere umano l’autore fa risalire l’infelicità degli uomini, primitivamente felici, all’uso della ragione ed alla scoperta della verità, nel Dialogo della Natura e di un Islandese l’infelicità è considerata invece come condizione naturale dell’uomo; mentre ancora nel Dialogo di Plotino e di Porfirio, pur attribuendo alla natura la causa prima dell’infelicità umana, l’autore aggiunge che il male peggiore l’uomo se lo procura da sé con l’uso malefico del proprio ingegno. Nel Dialogo di Tristano e di un amico la polemica contro il “vero” si storicizza: l’autore non si oppone alla cultura in astratto, quale causa dell’infelicità umana, ma alla cultura mistificata ed adulterata del suo tempo, esprimendo così un concetto che è anche alla base del canto La ginestra. Ed in comune con La ginestra quest’operetta esprime la necessità di un affratellamento degli uomini in nome del comune destino di dolore e di sventura: Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte, che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie. Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l’un l’altro e andiamoci incoraggiando e dando mano e soccorso scambievolmente.382

Le Operette morali sono per la maggior parte composte in forma dialogata; forse perché l’autore credeva in tal modo di meglio oggettivare il proprio pensiero e di non parlare in modo assiomatico; tuttavia – come notava Croce – i dialoghi si riducono sostanzialmente in monologhi ed i personaggi (presi dalla storia, dal mito o inventati) si riducono a meri nomi: perché tutto qui parla a nome di Leopardi e della sua ideologia. La prosa delle Operette, che ora sa essere comica e satirica, ora vivace e polemica ed ora ancora commossa e dolente, è sempre misurata e stilisticamente perfetta. La sua eleganza levigata ed elaborata, frutto della profonda preparazione filologica dell’autore, sembra attuare in pieno quanto allora il Giordani andava consigliando alla nuova generazione di letterati: stile greco e lingua del Cinquecento. La prosa del Leopardi è insomma diversissima da quella del Foscolo e da quella del Manzoni: non ha della prima la tensione lirica ed il calore sentimentale; della seconda le manca il tono familiare e discorsivo. È una prosa, invece, che ha lo splendore e la levigatezza, forse un po’ fredda, del marmo.

Le opere minori a) In prosa Dello Zibaldone e delle Lettere si è avuto più volte modo di parlare nelle pagine precedenti: la loro importanza, infatti, è tutta nel valore documentario del sentimento, della ideologia e della formazione culturale del Leopardi. Lo Zibaldone è una specie di grosso diario nel quale il Leopardi raccolse, dal 1817 al 1832, considerazioni su letture fatte, meditazioni personali, le prime idee dei Canti o delle Operette morali, appunti e notazioni di argomento culturale. Scritto per utilità personale e certamente non con l’intento di essere dato alle stampe, lo Zibaldone venne poi pubblicato, nel primo centenario della nascita del poeta, col titolo di Pensieri di varia filoso382

Giacomo Leopardi, Dialogo di Plotino e di Porfirio.

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L’Ottocento fia e di bella letteratura. Carducci, che presiedette la commissione preposta all’edizione dello Zibaldone, così ce lo presenta: Una mole di ben 4526 facce lunghe e larghe mezzanamente, tutte vergate di man dell’autore, d’una scrittura spesso fitta, sempre compatta, eguale, accurata, corretta. Contengono un numero grandissimo di pensieri, appunti, ricordi, osservazioni, note, conversazioni e discussioni, per così dire, del giovine illustre con se stesso, su l’animo suo, la sua vita, le circostanze; a proposito delle sue letture e cognizioni; di filosofia, di letteratura, di politica: su l’uomo, su le nazioni, su l’universo.

L’Epistolario è composto di circa novecento lettere indirizzate ad amici – in primo luogo a Giordani ed anche a Colletta – al padre, ai fratelli, agli editori. Pur se non nascondono una certa cura letteraria, tipica in uno scrittore sempre controllato come Leopardi, le lettere sono sincere e spontanee e costituiscono perciò la vera storia della sua anima. Per questo le più belle e commoventi, oltre che più interessanti, sono quelle in cui il poeta, che pur rifuggiva dagli atteggiamenti di penoso vittimismo, confessa apertamente tutti i suoi mali fisici e spirituali (com’è in quella scritta nel 1819 all’amico Giordani citata in apertura del nostro discorso sul poeta). Scritti per essere pubblicati – ma vennero dati alle stampe postumi dall’amico Ranieri – sono i centoundici Pensieri che, secondo il disegno dell’autore, dovevano esser compresi in una specie di Manuale di filosofia pratica. Essi, infatti, costituiscono una specie di manuale del pensiero leopardiano e sono espressi in uno stile spesso epigrammatico, sempre levigato ma freddo: La morte non è un male: perché libera l’uomo da tutti i mali, e insieme coi beni gli toglie i desiderii. La vecchiezza è male sommo: perché priva l’uomo di tutti i piaceri, lasciandogliene gli appetiti; e porta seco tutti i dolori. Nondimeno gli uomini temono la morte, e desiderano la vecchiezza.383

b) Le opere satiriche in versi Tra il 1835 ed il 1837 Leopardi compose operette satiriche che, rappresentando il cambiamento della sua ispirazione da fantastico-sentimentale in ironica e beffarda significavano anche un certo ripiegamento del poeta, reso tetro e quasi astioso dall’aggravarsi dei suoi mali, verso atteggiamenti angusti e retrivi, dispregiatori delle novità, del progresso e di ogni nobile tentativo per migliorare lo stato delle cose. Proprio perché nate da un simile atteggiamento spirituale queste opere satiriche dimostrano il «cattivo riso» di un poeta che non sa ridere e – come è stato notato – quando ride, ride male. Così nella Palinodia a Gino Capponi il poeta finge ironicamente di ritrattare l’ideologia espressa nelle Operette morali; nei Nuovi credenti irride all’ottimismo della filosofia idealistica contemporanea; nei Paralipomeni alla Batracomiomachia condanna in un sol fascio liberali, conservatori ed austriacanti, protagonisti dei moti napoletani del 1820-21.

383

Giacomo Leopardi, Pensieri, n. 6.

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L’Ottocento

La prima generazione romantica Il termine di “generazione” non ha qui un significato rigidamente cronologico: sta invece ad indicare il complesso di quegli autori che restarono più o meno legati alle indicazioni programmatiche del Romanticismo “italiano”, quali erano state proposte dai collaboratori del “Conciliatore”, dal Berchet e dal Manzoni: di un Romanticismo, insomma, che guardasse alla realtà nazionale e che mirasse a finalità morali e politiche. Per questo la produzione letteraria di questa prima generazione romantica è quasi tutta dominata dalla passione politica, facendosi interprete ora dei fatti, ora delle aspirazioni del nostro Risorgimento e mirando a creare nel popolo una entusiastica coscienza nazionale. Da ciò deriva da una parte la sua caratteristica di letteratura impegnata che ci riscattava decisamente dalla tradizione degli ozi arcadici, dall’altra il suo valore praticistico e quindi i suoi limiti estetici. Significativo a questo proposito è quanto Berchet scriveva nella prefazione delle sue Fantasie: Io mi son messo su una strada dove spesso fo sacrificio della pura intenzione estetica ad un’altra intenzione, dei doveri di poeta ai doveri di cittadino. […] Per male che andasse la causa mia dinanzi a voi, questo almeno sarete tratti a dover dire: ha fatto un cattivo poema, ma una buona azione.

La scuola liberale e quella democratica Data la connessione tra politica e letteratura, avviene che gli scrittori si raggruppino in alcune principali scuole o correnti, in funzione delle direttrici della politica contemporanea: la scuola liberale (o moderata o cattolica); la scuola democratica (o neoghibellina); la scuola legittimista (o tradizionalista). Gli scrittori di scuola liberale condividono l’ideologia di Vincenzo Gioberti e Cesare Balbo: ritengono cioè che il problema nazionale possa risolversi con piani moderati, con la collaborazione dei Principi, costituendo una federazione ed in accordo con la Chiesa che considerano difesa e sostegno della civiltà italiana. Gli scrittori di scuola democratica o neoghibellina condividono invece la tesi di Giuseppe Mazzini e di Carlo Cattaneo: credono nell’iniziativa popolare – naturalmente guidata, come sarà evidente soprattutto nel 1860, da una ristretta élite – come unica strada possibile per risolvere il problema italiano, respingono l’intervento dei sovrani, auspicano la rivoluzione nazionale e accusano la Chiesa di aver sempre osteggiato l’unità d’Italia. Infine la scuola cattolica si espresse anche attraverso il filone legittimista, favorevole al mantenimento non tanto della divisione tra gli Stati preunitari, quanto al rispetto dei valori che quelle singole teste coronate rappresentavano. Queste principali maggiori correnti di pensiero non orientano soltanto la trattatistica politica e la storiografia, ma anche il romanzo storico ed il dramma storico, in quanto gli

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L’Ottocento autori, a seconda della loro ideologia, cercano nella storia quei fatti e quei momenti che possano avvalorare le proprie tesi. Inoltre, anche la maniera espressiva è tanto frequentemente legata alla “scuola”: sicché avviene che gli scrittori di scuola liberale, anche per l’influenza che su di essi esercita Manzoni, usano una prosa più discorsiva, piana, familiare; mentre quelli della scuola democratica, dato il carattere più acceso, polemico e passionale della propria ideologia, usano una prosa più eloquente, a volte addirittura declamatoria e tribunizia, prendendo così a modello non Manzoni, ma piuttosto il Foscolo dei discorsi Della servitù d’Italia e della prolusione Sull’ufficio della letteratura. Il filone (è forse eccessivo chiamarlo “scuola”) legittimista non ha un proprio stile, essendo alquanto diverso quello dei singoli autori che ad esso fanno riferimento.

Scrittori politici e storiografi a) Gli scritti politici L’abbondanza degli scritti politici testimonia quanto vivace sia stato nel Risorgimento il fermento ideologico e quanta parte la propaganda politica abbia avuto nella determinazione di una coscienza nazionale. Lo scrittore politico che maggiore influenza esercitò e sull’opinione pubblica e sugli stessi scrittori del Risorgimento fu certamente GIUSEPPE MAZZINI (Genova 1805 - Pisa 1872). Pur rimandando ai testi di storia per quanto riguarda la sua ideologia e la sua attività politica, sarà opportuno in questa sede ricordare come egli considerasse il popolo il protagonista della storia e come pertanto disdegnasse, per la soluzione del problema italiano, tanto l’intervento dei principi quanto la soluzione monarchica, propugnando invece la rivoluzione popolare e la repubblica unitaria d’Italia. Di tali idee si fece banditore con la sua poderosa attività giornalistica svolta su vari periodici384 (per la maggior parte da lui stesso fondati). La sua opera più importante resta però i Doveri dell’uomo: considerata conclusa con la Rivoluzione francese l’epoca che aveva sancito i diritti dell’uomo, l’autore sostiene che con l’Ottocento si inizia un’era nuova nella storia dell’umanità, quella sociale, nella quale l’uomo non può vantare diritti se prima non riconosce e adempie i propri doveri. Pervasi da una profonda ansia religiosa385, gli scritti del Mazzini presentano uno stile caldo, eloquente, un tono oratorio e profetico che ricorda il Savonarola. Ostile alle tesi mazziniane fu VINCENZO GIOBERTI (Torino 1801 - Parigi 1852). Egli infatti era convinto che il Risorgimento nazionale dovesse avvenire senza rivoluzioni e mediante un accordo tra Principi e popoli della penisola e dovesse concludersi con una confederazione di principati sotto la presidenza del Papa. Proprio per questa importante 384

Tra cui “Indicatore genovese”, “Indicatore livornese”, “Apostolato popolare”, “Pensiero e azione”. 385 Si tratta comunque di una religione ben particolare, ferocemente anticlericale e con deviazioni nell’occultismo, nel satanismo (fu amico della nota esoterista Elena Blavatsky) ed in una curiosa metempsicosi interplanetaria (cfr Cecilia Gatto Trocchi, Il Risorgimento esoterico, Mondadori, Milano 1996, in particolare il capitolo Mazzini profeta della reincarnazione, pp.23-30.

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L’Ottocento funzione politica che egli attribuiva al Papato, il suo pensiero politico fu definito neoguelfo. Nel Primato civile e morale degli Italiani (1843) l’autore, partendo dalla tesi – in buona parte retorica – di una supremazia spirituale italiana, sosteneva l’esigenza dell’unità e dell’indipendenza d’Italia, perché potesse svolgere la sua missione di civiltà a favore dell’Europa. Nel Rinnovamento civile d’Italia, scritto nove anni dopo il Primato, Gioberti, che per effetto degli avvenimenti della prima guerra d’indipendenza aveva perduto fiducia nel programma federalistico neoguelfo, propendeva verso una soluzione unitaria e liberale del problema italiano386. Lo stile della sua prosa ha una sua lucidezza e presenta un impianto classicistico e solenne del periodo; in passi di particolare ispirazione diviene anche caldo ed eloquente, mai però appassionato e vibrante come quello di Mazzini. Tra gli scritti politici bisogna annoverare anche Le speranze d’Italia di CESARE BALBO (Torino 1785-1853), che fu uomo politico di idee moderate e sostenitore di una confederazione di principati italiani sotto la guida del Piemonte. Le sue Speranze d’Italia si fondano su un’occasione storica favorevole: lo sbriciolamento dell’Impero turco da all’Austria la possibilità di espandersi verso oriente e di alleggerire così, per compenso, la sua pressione in Italia. La tesi, debole senz’altro sotto il profilo politico, è espressa dall’autore con una fiducia appassionata dalla quale deriva lo stile nervoso e vigoroso del libro. Gli “scritti sani”, volti ad insegnare il rispetto del Trono e dell’Altare, sono invece una prerogativa di alcuni esponenti legittimisti, primo fra tutti ANTONIO CAPECE MINUTOLO, più noto con il titolo di PRINCIPE DI CANOSA387 (Napoli 1768 - Pesaro 1838), che fu esponente di punta della rivista modenese La Voce della Verità388. Altro fondamentale nome del legittimismo fu il conte MONALDO LEOPARDI (1776-1846), padre di Giacomo, propugnatore di scritti – saggistici o letterari – che fossero brevi in maniera da poter raggiungere un più vasto pubblico, ciò che fece con la rivista La Voce della ragione389 ed i vivacissimi Dialoghetti sulle materie correnti nell’anno 1831 o le esilaranti Prediche di Don Muso Duro.

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È stato sottolineato come la sconfitta nella prima guerra d’indipendenza, l’unica guerra realmente popolare e voluta dagli Stati italiani, sia stata procurata per impedire la realizzazione del progetto politico neoguelfo. Cfr Massimo Viglione, “Libera Chiesa in libero Stato”? Il Risorgimento e i cattolici: uno scontro epocale, Città Nuova, Roma 2005 e L’identità ferita. Il Risorgimento come Rivoluzione e la Guerra Civile Italiana, Ares, Milano 2006. 387 Uomo politico (due volte ministro del Regno delle Due Sicilie) rappresentante il tradizionalismo e l’irriducibile lotta al liberalismo, il Principe di Canosa è noto anche per il saggio I Pifferi di montagna (1820) ed il dramma satirico L’isola dei ladroni (1821). Proprio la sua ferrea lotta alla politica “dell’amalgama” (cioè la consuetudine di reintegrare nella burocrazia napoletana i funzionari legati al regime dei Napoleonidi) gli alienò le simpatie della Corte e lo costrinse all’esilio. 388 La rivista uscì dal 1831 al 1841 sotto la direzione dello storiografo Cesare Carlo Galvani (18011863). 389 Uscita tra il 1832 ed il 1835, raggiunse la tiratura di duemila copie, una cifra enorme per quell’epoca.

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L’Ottocento Non parleremo qui, perché pur essendo italiano, scrisse sempre in francese, del conte sabaudo JOSEPH DE MAISTRE390, mentre ricorderemo CLEMENTE SOLARO DELLA MARGHERITA (Cuneo 1792 - Torino 1869), per dodici anni ministro degli esteri di Carlo Alberto e quindi fiero oppositore della spregiudicata politica di Cavour, autore de L’uomo di stato indirizzato al governo della cosa pubblica (1864). Già avversati prima dell’Unità (i governi preunitari erano comunque filo-liberali – come insegna l’esclusione dal governo del Principe di Canosa), dopo il 1860 vita brevissima ebbero i fogli di opposizione, in particolare La Tragicommedia (sequestrato al quarto numero dalla polizia sabauda) diretta dal giornalista e storico GIACINTO DE’ SIVO (Maddaloni, Caserta 1814 - Roma 1867), autore anche dei pamphlet filoborbonici L’Italia e il suo dramma politico nel 1861 e I Napolitani al cospetto delle nazioni civili (ambedue del 1861). La voce più duratura della cultura legittimista fu senz’altro quella espressa dal gruppo di Gesuiti391 che dette vita alla rivista quindicinale LA CIVILTÀ CATTOLICA, nata nel 1850 a Napoli, quindi trasferitasi a Roma dove continua a pubblicare ininterrottamente392 fino ai nostri giorni. La Civiltà Cattolica riprendeva la forma e lo stile di altre riviste contemporanee (alleate o avversarie) proponendo approfondite riflessioni su problemi politici, morali, scientifici, letterari a fianco della pubblicazione a puntate dei romanzi popolari del padre Bresciani (vedi oltre), di una selezione delle principali notizie di politica internazionale e di una rassegna stampa commentata. È stata sempre considerata la voce ufficiosa della Santa Sede. b) La storiografia Anche gli studi storici, come gli scritti politici, furono espressione della polemica ideologica che accompagnò il Risorgimento. Da ciò il loro polarizzarsi sulle diverse prospettive: neoguelfa, neoghibellina e legittimista. La storiografia neoguelfa, inaugurata dallo stesso Manzoni col suo Discorso sulla storia longobarda in Italia, è di orientamento cattolico, non nasconde una certa istanza moralistica e tende a provare la tesi del contributo offerto dalla Chiesa alla causa italiana; quella ghibellina, invece, è anticlericale e sostiene che il Papato è stato sempre di impedimento all’unità d’Italia. Tra gli storiografi neoguelfi bisogna ricordare il già citato CESARE BALBO, autore di un Sommario della storia d’Italia, che abbraccia, con mirabile sintesi, i fatti che vanno dal terzo millennio a.C. fino alla restaurazione. Una citazione spetta anche a CARLO TROYA (Napoli 1784-1858), autore di una Storia d’Italia nel Medio Evo e a GINO 390

Il conte Joseph de Maistre (1753-1821), ministro plenipotenziario in Russia per conto di Vittorio Emanuele I, è autore delle celebri Serate di Pietroburgo (postume, 1821), delle Considerazioni sulla Francia (1796), una forte critica alla rivoluzione francese e Del Papa (1819), considerato a tutt’oggi tra i più validi studi sulle motivazioni dell’autorità spirituale e temporale del Pontefice. 391 Tra cui Carlo Maria Curci, primo direttore, Luigi Taparelli d’Azeglio (fratello di Massimo), Antonio Bresciani, Matteo Liberatore. 392 Con un breve periodo di sospensione dopo la caduta di Roma nel 1870, quando la redazione fu costretta a spostarsi momentaneamente a Firenze.

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L’Ottocento CAPPONI (Firenze 1792-1876), autore della Storia della Repubblica di Firenze. Opera senz’altro più importante è la monumentale Storia universale in trentacinque volumi di CESARE CANTÙ (Brivio, Como 1804 - Milano 1895). Tra gli storiografi ghibellini è da ricordare CARLO CATTANEO (Milano 1801 - Lugano 1869), letterato di vasta e profonda cultura e fervente repubblicano – anche se si discostava dall’ideologia mazziniana in quanto non propendeva per una repubblica unitaria, ma per una federazione di repubbliche. Nelle sue Notizie naturali e civili sulla Lombardia dimostra abilità non soltanto di storiografo, ma anche di narratore e di letterato, valendosi di uno stile chiaro, preciso e sempre aderente alla materia della trattazione. Storiografo assai accurato e perciò rispettoso sempre della realtà storica, anche se giudicata «forse con passione», fu MICHELE AMARI (Palermo 1806 - Firenze 1889), che scrisse la Storia dei Mussulmani in Sicilia e la Guerra del Vespro, mentre Raffaele De Cesare (Spinazzola, Bari 1845 - Roma 1918), ricordato per le due opere La fine di un regno (dedicato alle Due Sicilie, 1895) e Roma e lo stato del papa da Pio IX al XX settembre (1907), si distingue per la ricchezza aneddotica – non sempre criticamente filtrata – con cui dipinge la fine dei due principali regni italiani. Forte impegno politico caratterizzano invece i lavori di due studiosi legittimisti: GIACINTO DE’ SIVO con la sua Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861 (1863-67) e don GIUSEPPE BUTTÀ (Naso, Messina 1826-1886) con I Borboni di Napoli al cospetto di due secoli (1875).

Le autobiografie Gli scritti autobiografici di questo periodo sono diversi non solo da quelli del secolo precedente, spesso pervasi dal gusto di disegnare ambienti pittoreschi e narrare casi avventurosi, ma anche da quelli dell’inizio del secolo – l’Ortis del Foscolo o l’incompiuta Storia di Giulio Rivalta del Leopardi ad esempio – ispirati ad un’indagine introspettiva. Sono, invece, una specie di storiografia minore, in quanto i ricordi personali sono rievocati sempre sullo sfondo delle vicende risorgimentali, delle quali anzi appaiono come un aspetto ed un contributo. Il più illustre di questi libri di memorie è Le mie prigioni di SILVIO PELLICO (Saluzzo 1789 - Torino 1854): racconto dei quindici anni scontati dall’autore nel carcere dello Spielberg in Moravia; un racconto di vicende sofferte, mai accompagnato da giudizi politici, da rancore verso gli Austriaci, ma tutto pervaso invece da un senso di profonda rassegnazione, illuminato quasi dalla gioia della ritrovata fede religiosa. Da ciò i giudizi contrastanti che sul libro furono dati dai contemporanei: mentre Cesare Balbo sosteneva che Le mie prigioni, con quel loro senso di sopportazione e di mitezza, avevano nociuto all’Austria più di una battaglia perduta, il Quinet scriveva: «Se tale sublime rassegnazione, se tale abnegazione della volontà umana fosse la parola definitiva dell’Italia, non si potrebbe far altro che piangere eternamente su lei! Perché avrebbe proprio tutte le virtù dei morti!». Sul piano artistico l’opera non manca di pagine pregevoli: come quelle in cui, con certo realismo rappresentativo, vengono disegnate le figure del carceriere Schiller – dall’aspetto burbero ma dal cuore generoso – o del mutolino o della Zanze.

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L’Ottocento Le Ricordanze della mia vita di LUIGI SETTEMBRINI (Napoli 1813-1876) narrano, in tono semplice e cordiale e con un linguaggio quasi parlato, le vicende politiche dell’autore, arricchendosi di lettere, documenti, descrizioni sull’ambiente contemporaneo. Nei postumi Miei Ricordi di MASSIMO TAPARELLI D’AZEGLIO (Torino 1798-1866) traspare evidente un intento educativo, quello di contribuire alla formazione del carattere degli Italiani (o imporre loro una nuova mentalità); infatti l’autore notava: «L’Italia è fatta, restano a fare gl’Italiani»393. Un libro di memorie è anche Da quarto al Volturno. Noterelle d’uno dei Mille, di GIULIO CESARE ABBA (Cairo Montenotte, Savona 1838 - Brescia 1910). Milite della spedizione, Abba aveva tracciato, nel corso stesso degli avvenimenti, un loro rapido resoconto. Venti anni dopo, sollecitato anche dal Carducci, ampliò, riordinò, diede forma letteraria a quegli appunti diaristici e pubblicò il suo volume: in esso l’evidente cura letteraria non soffoca il commosso ricordo di quelle epiche giornate. Contraltare alle memorie di Abba sono quelle del già citato GIUSEPPE BUTTÀ con il resoconto dell’avventurosa ritirata dell’esercito borbonico – di cui Buttà era cappellano militare – contenuta in Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta. Memorie della rivoluzione dal 1860 al 1861 (1862).

Il romanzo storico Già si è detto, a proposito dei Promessi sposi, come sia nato il romanzo storico e quali siano state le sue connessioni col gusto romantico. Aggiungiamo ora che di romanzi storici fu ricca la nostra letteratura della prima metà del secolo: e ciò non solo per l’influsso esercitato dal Manzoni – ed anche dallo Scott – ma anche per il grande interesse per la storia che fu caratteristico in quel periodo. Durante il corso del secolo si nota però una direttrice costante: la storia nel romanzo tenderà sempre più a farsi contemporanea, fino a divenire la storia dell’“oggi”. È così che il romanzo da storico si trasformerà in verista. Il più noto tra gli imitatori del Manzoni nel genere del romanzo storico fu TOMMASO GROSSI (Bellando di Como 1790 - Milano 1853), autore di Marco Visconti (1834), racconto di una tragica storia d’amore proiettata sullo sfondo del Trecento milanese. Manca però nel romanzo del Grossi quella mirabile fusione manzoniana tra storia ed immaginazione; inoltre l’azione è spesso slegata ed i personaggi, fatta eccezione per qualche figura secondaria, sono privi di rilievo. Con lo scopo di «mettere un po’ di fuoco in corpo agl’Italiani» – evidente quindi il suo intento patriottico – MASSIMO D’AZEGLIO compose due romanzi storici: Ettore Fieramosca o La disfida di Barletta (1833) e Niccolò de’ Lapi (1841). Trasformatosi da pittore in romanziere – l’idea di scrivere l’Ettore Fieramosca gli era venuta proprio da un quadro da lui dipinto sulla disfida di Barletta – d’Azeglio conferiva ai suoi romanzi una certa atmosfera pittorica, consistente in un aggrovigliarsi e confondersi di episodi dai colori ora tetri ora vivaci e nel disporre il racconto come su piani diversi, dei quali i più riusciti sono proprio i “secondi piani” dove spiccano vivaci e cromatiche macchiette. Una di 393

Sull’argomento – e sulla corretta interpretazione dell’ambigua frase di d’Azeglio – cfr i due saggi citati di Massimo Viglione.

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L’Ottocento queste è Fanfulla da Lodi, personaggio comune al primo ed al secondo romanzo, un tipo bizzarro e generoso, per metà frate e per metà uomo di spada. Mentre Grossi e d’Azeglio si dichiaravano manzoniani ed in effetti lo erano per aver preso a modello la lingua del Manzoni oltre che il genere stesso del romanzo, il livornese FRANCESCO DOMENICO GUERRAZZI (1804-1873) si staccava dal modello manzoniano per un complesso di ragioni: perché, ghibellino ed anticlericale, preferiva argomenti storici che attestassero i soprusi del Papato; perché prediligeva, entusiastico ammiratore del Byron, le descrizioni tetre e spaventose; perché aveva uno stile enfatico e declamatorio. Nei suoi due romanzi La battaglia di Benevento (1827) e L’assedio di Firenze (1836) non mancano descrizioni macabre, orrende visioni di battaglie, urli e imprecazioni. Forse, il tono teso dei suoi romanzi – più simili perciò a poemi epici che a romanzi veri e propri – non era soltanto effetto di un gusto letterario, ma anche ricerca di un mezzo con cui meglio giovare «all’odio della tirannide, all’amore della libertà»394. Lo stesso argomento del capolavoro di Guerrazzi – cioè la sconfitta di Manfredi di Svevia – fa da sfondo al più pacato Corrado Capece (1846) del sopra menzionato GIACINTO DE’ SIVO, più attento alle motivazioni psicologiche dei personaggi che al generale quadro politico.

Il dramma storico Storico in questo periodo è pure il dramma, che rappresenta la forma più diffusa del teatro romantico. Anche qui, come in tutti gli altri generi letterari, l’intento politico predomina a tutto danno dell’arte: per questo si ha un diluvio di drammi, ma nessun capolavoro. Gli argomenti – secondo il gusto del Romanticismo – sono tratti quasi sempre dalla storia medioevale; e la loro scelta – come avveniva nel romanzo storico – è spesso tendenziosa, in quanto è in funzione dell’ideologia neoguelfa o neoghibellina dell’autore. Così GIAMBATTISTA NICCOLINI (Bagni, Pisa 1782 - Firenze 1861), scrittore di fede ghibellina e repubblicana, rappresenta nell’Arnaldo da Brescia (1843) l’odio al governo papale ed imperiale e la fede nei diritti del popolo. La tesi politica, sempre e troppo evidente, finisce però col sopraffare l’arte, al punto che i personaggi, perdendo rilievo individuale, appaiono piuttosto simboli di idee politiche. Da questi difetti non si salvano certamente neanche gli altri drammi – Matilde, Antonio Foscarini e Giovanni da Procida – meno pregevoli dello stesso Arnaldo. Autori di diversi drammi storici furono anche SILVIO PELLICO con Francesca da Rimini, Eufemio da Messina, Ester d’Engaddi (di cui il più noto ed il più applaudito fu Francesca da Rimini (1815), anch’esso, però, languido, patetico ed artisticamente mediocre) e GIACINTO DE’ SIVO con una serie di drammi ordinari, ma di buona fattura, i cui argomenti provengono dal mondo biblico (Gedeone, La Figlia di Jefte, Manasse), dal mito (Partenope) e appunto dalla storia (La cena d’Alboino, Belisario, Costantino Dracosa,

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La finalità politica della scrittura guerrazziana era dichiarata: «Ho scritto questo libro perché non ho potuto dare una battaglia», confessava a Marco Monnier, L’Italia è ella la terra de’ morti? (Milano 1860, p. 308).

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L’Ottocento Florinda d’Algezira). Scritti prima della caduta del Regno delle Due Sicilie, vennero ristampati con prefazioni che sottolineavano gli elementi politici inconsciamente contenuti.

La lirica patriottica Tra i poeti patriottici il primo posto spetta a GIOVANNI BERCHET, lo stesso autore della Lettera semiseria di cui si è parlato a suo tempo. Per essere stato uno dei collaboratori del “Conciliatore” e per aver avuto rapporti di stretta amicizia con membri della Carboneria, fu indiziato di reato e, per sfuggire all’arresto, riparò prima in Svizzera poi a Londra. Il suo stato di esule dovette addolorarlo profondamente, se da esso prese ispirazione la parte migliore della sua poesia. Il suo poemetto I profughi di Parga (1821) canta infatti il dolore degli esuli parganioti, costretti ad abbandonare la loro città greca, consegnata dal governo inglese all’Impero turco. Anche nel Trovatore, una delle sue Romanze (1821-24), ritorna il tema del dolore dell’esule, della sua nostalgia per la terra lontana, della tenerezza dei ricordi. Nelle Fantasie (1829), un altro poemetto polimetro come I Profughi di Parga, è sempre un esule che nelle visioni del dormiveglia, quando, come avverte il poeta, «sta mezzo dormendo e mezzo sveglio, e gli si affacciano i sentimenti, i discorsi della giornata tradotti in fantasmi», per consolarsi del triste e vile stato presente, si rifugia nei ricordi: e rivede le imprese gloriose e vittoriose degli Italiani che, stretti intorno al Comune, debellano il prepotente Barbarossa: Su! nell’irto, increscioso Allemanno, su! Lombardi, puntate la spada: fate vostra la vostra contrada, questa bella che il ciel vi sortì.395

La lirica del Berchet si basa sui luoghi comuni della propaganda risorgimentale: le bellezze d’Italia, quasi terra prediletta da Dio; il ricordo delle glorie passate, soprattutto romane e comunali; l’odio verso la stirpe germanica e i suoi vari Barbarossa; la virtù mai sopita nei cuori italici; il patto d’unione tra gli Italiani per la lotta contro il comune nemico. Il vocabolario poetico, stretto a questi temi, è perciò vago e povero; i ritmi sono facili, cadenzati e marziali, quasi accompagnassero un corteo militare. Questi difetti, che nella poesia del Berchet trovano un loro limite ed una loro misura nell’accurata formazione letteraria dell’autore e soprattutto nel suo sincero e profondo dolore di esule, appaiono più evidenti negli altri poeti patriottici, quasi tutti cospiratori e combattenti: l’abruzzese GABRIELE ROSSETTI, il modenese PIETRO GIANNONE, il napoletano ALESSANDRO POERIO, il genovese GOFFREDO MAMELI (autore dell’inno Fratelli d’Italia), lo schiota ARNALDO FUSINATO (autore dell’ode È fosco l’aere, che ricorda l’assedio di Venezia), il marchigiano LUIGI MERCANTINI (autore della Spigolatrice di Sapri e dell’Inno di Garibaldi). È facile nella lirica di questi poeti rinvenire oggi l’andamento oratorio e declamatorio; ma non bisogna dimenticare che nel loro tempo, riecheggiando fatti vissuti e sofferti, queste poesie ispiravano profonda commozione ed erano considerate – nella generale mediocrità della poesia popolare – tra le cose meno brutte e più vive della nostra letteratura. 395

Giovanni Berchet, Le fantasie, vv. 89-92.

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L’Ottocento

La satira del Giusti Generalmente in un periodo di forti tensioni ideologiche e di vasta propaganda politica, e tale fu il Risorgimento, la satira trova il terreno adatto per germogliare. Per la verità in Italia non germogliò copiosa, almeno nel confronto con la vasta produzione della lirica patriottica: e ciò dipendeva non tanto dai ridotti limiti di libertà concessi allora agli scrittori – limiti che sarebbero valsi anche per la lirica patriottica – quanto invece dal fatto che quello fu un periodo di azione entusiastica ed eroica più che di riflessione critica, un periodo che perciò meglio esprimeva i canti tirteici che non gli scontenti e le disillusioni. Il poeta satirico del nostro Risorgimento fu GIUSEPPE GIUSTI (Monsummano in Val di Nievole 1809 - Firenze 1850). Le sue satire, che egli chiamò Scherzi, colpivano con bonarietà e senza l’acredine del sarcasmo e dell’invettiva quelli che erano allora i problemi ed i difetti della vita politica italiana: il malgoverno dei tiranni stranieri e nostrani, i metodi polizieschi, la disonestà dei funzionari, l’opportunismo dei voltabandiera, la pigrizia e l’indifferenza dei più. Parlando dell’origine degli Scherzi il poeta confessava: ma poi l’ira, il dolor, la meraviglia / si sciolse in riso;396

Versi che significano il programma del suo disporsi nei confronti della realtà del suo tempo e della sua società: verso cui il poeta preferisce rinunziare alla polemica irruente e battagliera e scegliere – ma era l’unica scelta possibile per il suo temperamento di uomo buono e pacifico – la strada della canzonatura, della sottile ironia, dei bozzetti caricaturali. Uno di tali bozzetti, forse il più noto ed ancora vivo, è quello di Girella – nel Brindisi di Girella dedicato con chiara allusione al Talleyrand – cioè del voltabandiera che, sempre abile e pronto a cambiar opinione, resta a galla comunque vadano le cose: Io, nelle scosse delle sommosse, tenni per àncora d’ogni burrasca da dieci a dodici coccarde in tasca.397

La fortuna e la vitalità di questo scherzo – e forse anche di Gingillino e della Chiocciola – è nel fatto che qui la satira è di costume e non è esclusivamente legata a particolari situazioni politiche del tempo in cui nacque. Il capolavoro del Giusti è generalmente considerato il Sant’Ambrogio, per il fondersi in esso del tono satirico con quello sentimentale, o addirittura per l’elevarsi del sentimento del poeta, nel corso stesso della poesia, da un atteggiamento scherzosamente satirico, che affonda le sue radici nella situazione politica risorgimentale, ad un impeto di fratellanza universale, che trascende quella situazione attingendo ad una verità più vasta ed eterna.

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Giuseppe Giusti, A Girolamo Tommasi, vv. 115-116. Giuseppe Giusti, Il brindisi di Girella, vv. 37-42.

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L’Ottocento Croce, con una formula critica non ancora superata, definì la poesia del Giusti “poesia prosastica”: volendo significare che essa non nasceva da un’impressione o commozione che direttamente s’innalzasse a contemplazione, ma «da una impressione o commozione che si è presto convertita in una riflessione, in un’osservazione, in un proposito oratorio d’imprimere tale o tale altra tendenza all’animo proprio o all’altrui». Deriva da ciò il fatto che la poesia del Giusti, considerata grande ai suoi tempi, è ora ritenuta mediocre: perché è rimasta troppo legata ai motivi contingenti della sua ispirazione, senza innalzarsi a pura e disinteressata contemplazione.

La satira in dialetto Se la satira del Giusti fu essenzialmente politica o di costume, quella di CARLO PORTA (Milano 1776-1821) fu di ispirazione soprattutto sociale. Il suo atteggiamento spirituale fu caratterizzato dal dispregio verso la corruzione e la prepotenza dei ceti privilegiati e dalla simpatia cordiale e affettuosa verso la gente umile: nell’accezione manzoniana di semplice e buona e perciò predisposta a subire l’altrui violenza, oltre che povera o di bassa estrazione sociale. In questa prospettiva bisogna iscrivere la satira di Giovannin Bongee, di un popolano a cui offendono la moglie e che, per rivalsa!, viene schiaffeggiato e quindi arrestato. Anche nel Lament del Marchion de gamb avert si fa la storia di un altro povero diavolo, sciancato suonatore di “armandolin”, che viene beffato da una ragazza la quale, dopo essersi fatta sposare, lo abbandona lasciandogli in casa un bambino di pochi mesi. Nella Ninetta del Verzee si fa la storia, rappresentata con un sorprendente verismo ante tempus, di una donna che, travolta da un’insana passione, giunge all’estremo del vizio e della miseria. La nomina del Cappellan è invece una satira antinobiliare di intonazione pariniana: vi fa da protagonista la cagnetta Lilla, per la quale, uno dopo l’altro, i poveri cappellani della casa vengono licenziati o muoiono di polmonite. Se Porta si servì del dialetto milanese, GIUSEPPE GIOACHINO BELLI (Roma 17911863) si valse con altrettanta padronanza e con eguale risultato artistico del dialetto romanesco. «Io ho deliberato di lasciare un monumento di quella che è oggi la plebe di Roma» disse egli a proposito dei suoi Sonetti (oltre duemila). Ed infatti l’indole, i problemi, le tradizioni e gli usi del popolo romano sono l’oggetto delle sue “istantanee”: così sono stati definiti i suoi sonetti, dato il modo distaccato e veristico con cui egli coglie e rappresenta la realtà. Eppure, questo distacco dell’autore dalla materia della rappresentazione è soltanto apparente, giacché in fondo in fondo si scopre un sorriso triste, proprio di chi è convinto che, purtroppo, «Annerà ssempre come sempre è ito!»398. Oltre che di indimenticabili bozzetti umani – il beccamorto, il vedovo, l’inquilina, etc. – la poesia del Belli si arricchisce di vivaci quadretti ambientali della Roma ottocentesca ed ancora papalina: Villa Borghese, Monte Citorio, La Ritonna.

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Giuseppe Gioachino Belli, Sonetto 652 (Er portone d’un zzignore), v. 11.

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L’Ottocento

Niccolò Tommaseo Un posto a parte tra i poeti e gli scrittori della prima generazione romantica spetta a Niccolò Tommaseo (Selenico, Dalmazia 1802 - Firenze 1874): e ciò per la complessità, o addirittura contraddittorietà, dei suoi atteggiamenti spirituali e la varietà e ricchezza dei suoi interessi letterari. Glottologo, filosofo e critico di grande valore399, fu autore di un Dizionario dei sinonimi (1830), di un Dizionario della lingua italiana (1858-79) e di un Dizionario estetico (1840) validi ancora oggi. Per avere un’idea della sua complessità spirituale e delle sue intime contraddizioni – fu infatti un temperamento insieme mistico e sensuale – basta leggere il suo romanzo Fede e bellezza (1840), storia d’amore tra un letterato e una signora, non più giovanissimi, che, dopo aver conosciuto il peccato, il disinganno, la povertà, si confessano scambievolmente il proprio passato. Pur essendo raccontato in terza persona, non è difficile scoprire il significato autobiografico del romanzo: e non certo per la vicenda raccontata, quanto perché nel protagonista si rispecchia l’inquietudine dell’autore stesso, sempre combattuto tra una rigida moralità ed una fervida sensualità. Nella storia del romanzo italiano la novità di Fede e bellezza sta proprio nel suo carattere psicologico, introspettivo, nell’analisi di forti e sofferte passioni. Non che l’analisi psicologica mancasse nei Promessi sposi, ma essa si fermava pudicamente alla soglia delle passioni e, se passioni c’erano – come in Gertrude e nell’Innominato –, esse erano più un antecedente o un ricordo della passione che passione in atto. E ciò perché Manzoni era un moralista e tutto passava attraverso il filtro delle sue preoccupazioni etiche. Anche Tommaseo è un moralista, ma, al contrario del Manzoni, è attratto dalle passioni voluttuose, dal mondo della carne, salvo a recitare, poi, il mea culpa. Per questo Manzoni disse che Fede e bellezza era «mezzo giovedì grasso e mezzo venerdì santo». Anche nel romanzo di Tommaseo c’è una certa cristiana simpatia per gli umili, solo che essi si sono trasformati in “poveri”: non più semplice gente di campagna, ma borghesi intellettuali e poveri. Quel che fa difetto nel romanzo è un coerente ritmo narrativo, sì che si ha l’impressione di trovarsi di fronte ad un diario più che ad un romanzo vero e proprio. Anche la lingua ha una sua tonalità lirica e mostra un’accurata ricerca letteraria. Del resto, oltre che prosatore, Tommaseo fu anche poeta: nelle sue liriche, ispirate per buona parte alla fede e all’amore, vive sempre il contrasto interiore di un uomo in cui moralismo e sensualità, fede e bellezza s’agitano senza possibilità di un’intima composizione.

399

Notevole in particolare il suo commento alla Divina Commedia (1837).

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L’Ottocento

La seconda generazione romantica Dopo il 1840 – ma la determinazione cronologica deve essere assunta in modo puramente indicativo – la tensione patriottica si allentò nelle nostre lettere, le quali perciò persero parte di quell’impegno civile e politico, nonché religioso e morale, che aveva caratterizzato la prima generazione romantica.

Il secondo Romanticismo Conseguenza fu che all’aspetto storico-oggettivo del Romanticismo si preferiva ora quello soggettivo-patetico, che veniva anzi esasperato sull’esempio di romantici d’oltralpe, come Byron, De Musset, Chateaubriand. Caratteristica, infatti, del secondo romanticismo fu un vago sentimentalismo, una malinconia svenevole, un gusto per gli atteggiamenti patetici, un insistere sulle descrizioni lugubri. Di tali scrittori fu scritto che intravidero il Romanticismo nei deliri di un’estasi vaga, misteriosa, contemplativa e si cacciarono metafisicando tra le nuvole, nelle solitudini del misticismo; quasi tutti sostituirono imitazioni inglesi o tedesche alle greche o latine e mitologie nordiche a quelle olimpiche. a) Giovanni Prati Di questo secondo romanticismo il poeta migliore fu Giovanni Prati (Campomaggiore, Trento 1814 - Roma 1884). Patriota e uomo di mondo, nella prima parte della sua produzione poetica si ispirò alla patria – soprattutto ai fasti dei Savoia – ed alla donna: sentimenti che spesso unificò, secondo un tipico atteggiamento romantico, in un unico ideale umano. Un fatto di cronaca rosa, che vide coinvolta la sorella di Daniele Manin, gli ispirò l’Edmenegarda (1841), una novella in versi – genere poetico assai diffuso nel romanticismo minore – che ebbe grande successo: ma non per l’intrinseco valore poetico, quanto piuttosto perché, ispirandosi ad un fatto reale, preannunziava quella tendenza realisticoborghese che affiorerà poi con la “scapigliatura”. Un poema di ambiziosa concezione fu l’Armando (1868), ispirato a quella che fu la “malattia morale” del secolo: la malattia delle cupe passioni, del tedio spirituale, delle pigre fantasticherie. Ma nel poema, tra gli ingorghi sentimentalistici tipici del secondo romanticismo, unico brano vivo è il Canto d’Igea, inno alla salute ed alla gioia di vivere. Più tardi, rinunziando definitivamente alla lirica di ispirazione civile ed anche a quella vagamente e vaporosamente sentimentale, Il Prati scoprì nella tenuità dell’idillio la sua vena migliore. Nacquero allora le raccolte Psiche (1876) e Iside (1878). In questa ultima raccolta soprattutto si rinvengono le cose più belle del Prati – Incantesimo, Azzarellina, Voci – perché qui, deposti gli accenti languidi e sentimentalistici, il poeta riscopriva – forse anche sotto l’influsso carducciano – il senso classico di una poesia raccolta e rasserenatrice.

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L’Ottocento b) Aleardo Aleardi Minor poeta a confronto di Prati, ma più di lui rappresentativo del secondo romanticismo fu Aleardo Aleardi (Verona 1812-1878). Pur definendosi un patriota più che un poeta, ebbe animo tenero, propenso alla malinconia e perciò disposto ad accogliere e rappresentare tutto il gusto del tempo. Volle ispirarsi alla storia, ma nel modo che sapeva fare, trasformando cioè la storia in evocazione fantasiosa e considerandola un pretesto per un’appassionata eloquenza. Caratteristiche della sua poesia sono l’eccessivo sentimentalismo, la languida musicalità dei versi ed anche un certo colorismo paesistico che gli derivava dalla sua disposizione alla pittura. La cosa migliore dell’Aleardi è il poemetto Monte Circello: e non per la patetica rievocazione del destino tragico di Corradino di Svevia, ma per la poetica descrizione della campagna romana, nella quale l’autore si valeva delle sue doti di “pennello”. Meno pregevoli, invece, per l’insistenza di un sentimentalismo che al limite massimo appare vaporoso e di maniera, sono le troppo patetiche e dolciastre Lettere a Maria e la fantasiosa rievocazione delle Città italiane marinare e commercianti.

La “Scapigliatura” Più tardi, e precisamente tra il 1860 ed il 1870, sorse a Milano la “scapigliatura”, un fenomeno a mezza strada tra il circolo ed il movimento letterario, che traeva il suo nome dal titolo del romanzo La Scapigliatura e il 6 febbraio (1862) di CLETTO ARRIGHI (Carlo Righetti, Milano 1830-1906), che traduceva a sua volta il termine francese bohème. È inutile chiedersi se la scapigliatura si allinei sulla corrente oggettivo-veristica o su quella soggettivo-patetica del Romanticismo, dal momento che essa rappresenta soprattutto una forma di contestazione che coinvolge insieme il sentimentalismo dolciastro del secondo romanticismo e le forme e le strutture della società borghese contemporanea. Gli scapigliati, che solevano riunirsi a Milano intorno al giornalista, critico e scrittore Giuseppe Rovani, volevano combattere la loro battaglia contro il quietismo e la pigrizia della vita politica italiana dopo la raggiunta unificazione nazionale, contro l’ipocrisia morale della società borghese e “perbenistica”, contro la tradizione letteraria e contro ogni regola ed ogni modulo che si volesse imporre all’arte dall’esterno. In tal modo, se da una parte essi finivano col proporre un romanticismo radicale, dall’altra sgombravano la strada ad una letteratura nuova e socialmente impegnata. Inoltre tali autori da scapigliati non soltanto scrivevano, ma vivevano: compiacendosi di condurre una vita da bohémiens, bruciando la loro esistenza con l’alcol e le sregolatezze e finendo molto spesso tisici o suicidi. Il che farebbe credere che la loro contestazione fosse convinta e profonda, investendo non solo l’arte ma la vita, sempre che non sorgesse il sospetto che quel modo di vivere fosse un atteggiamento o un condizionamento operato dalla stessa concezione dell’arte. Così, distrutto dall’alcol, moriva ancor giovane EMILIO PRAGA (Gorla, Milano 1839 Milano 1875), che si compiacque assumere l’atteggiamento del poeta satanico e “maledetto” di tipo baudelairiano, cantando con tono tra disperato e imprecante la propria umana avventura di sradicato e ribelle:

304

L’Ottocento Noi siamo i figli dei padri ammalati; aquile al tempo di mutar le piume, svolazziam muti, attoniti, affamati, sull’agonia di un nume.400

Un’avventura che doveva però sentire come profondamente amara, nonostante certo ostentato e trionfalistico cinismo, se, rivolgendo di tanto in tanto il pensiero alle tenere gioie dell’infanzia, ne soffriva nostalgicamente la perdita. Così ne I Re magi non è solo la rievocazione di felici ricordi d’infanzia, ma soprattutto la consapevolezza della loro irripetibilità: o son morti di freddo o son malati nei paesi del sole, i bei vegliardi dallo scettro d’oro!401

Nelle sue poesie, di cui ci ha lasciato quattro raccolte – Tavolozza, Penombre, Fiabe e leggende, Trasparenze – si avverte una certa negligenza dello stile, anch’essa connessa al suo aspetto di poeta ribelle anche alle regole del verso. Anche IGINO UGO TARCHETTI (San Salvatore di Alessandria, 1839 - Milano 1869) morì giovanissimo. Nelle sue poesie ossessivo è il tema della morte e del disfacimento fisico: Quando bacio il tuo labbro profumato cara fanciulla, non posso obliare che un bianco teschio vi è sotto celato. Quando a me strìngo il tuo corpo vezzoso, obliar non poss’io, cara fanciulla, che vi è sotto uno scheletro nascoso.

Questo tema macabro ed ossessivo della morte e del disfacimento corporeo – nel quale è evidente l’influsso operato da Hoffmann e Poe – non riguarda soltanto le poesie (Disjecta, postuma 1879), ma anche la narrativa (il romanzo Fosca, del 1869, i Racconti fantastici e i Racconti umoristici), in cui sono protagonisti ora scheletri (come in Un osso di morto), ora personaggi allucinati o pazzi addirittura (come in La lettera U). Stilisticamente vicino a Tarchetti fu CAMILLO BOITO (Roma 1836 - Milano 1914), di cui si ricordano le raccolte Storielle vane (1876) e Nuove storielle vane (1883) ed in particolare la novella Senso. E scapigliato fu (almeno inizialmente) anche suo fratello ARRIGO BOITO (Padova 1842 - Milano 1918), per il quale la scapigliatura fu soltanto un’esperienza giovanile: di questo periodo si ricordano la sua opera poetica con la ballata Re Orso (1865) e Il libro di versi (1877, che contiene le poesie Dualismo402, Case nuove, Ad una mummia) e narrativa (L’alfiere nero, 1867; Il pugno chiuso, 1870). Quindi si concentrò sul melodramma scri400

Emilio Praga, Preludio, vv. 1-4. Emilio Praga, I Re Magi, vv. 25-27. 402 In Dualismo sintetizzò l’estetica scapigliata «E sogno un’arte eterea / che forse in cielo ha norma / franca dai rudi vincoli / del metro e della forma». 401

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L’Ottocento vendo libretti, per musiche proprie, in cui cercò un’innovazione “wagneriana”403 (Mefistofele, Nerone), oppure di Ponchielli (Gioconda), Verdi (Otello, Falstaff – questi ultimi due considerati i massimi capolavori di tal genere letterario) ed altri. Infine ricordiamo VITTORIO IMBRIANI (Napoli 1840-1886), unico esempio di scapigliato meridionale, inizialmente garibaldino (combatté a Bezzecca), quindi fautore della monarchia. La sua scapigliatura ha radici in Basile e nel barocco. Ricordiamo il romanzo breve Dio ne scampi dagli Orsenigo (1876), satira sulla decadenza dell’aristocrazia, e Mastr’Impicca (1877), fiaba esaltatrice della pena di morte). Antimanzoniano a proposito delle teorie sulla lingua, si distinse anche come folclorista con raccolte di fiabe popolari napoletane, toscane e lombarde.

Il romanzo di storia contemporanea Nel romanzo storico, come si è detto, la storia tende a farsi sempre più contemporanea. Gli autori, cioè, invece di ispirarsi ad epoche remote preferiscono le età più vicine o addirittura contemporanea. E poiché in tal modo dei fatti storici essi diventano partecipi, grande importanza assumono le vicende autobiografiche e gli aspetti psicologici. a) Ippolito Nievo Questa tendenza, già evidente in due romanzi di GIOVANNI RUFFINI (Genova 1807 Imperia 1881) scritti in inglese (Lorenzo Bertoni e Il dottor Antonio), si attua appieno nelle Confessioni di un italiano. L’autore era Ippolito Nievo, un garibaldino che era nato a Padova nel 1831 e che morì misteriosamente404 per naufragio ad appena trent’anni di età. Nel suo romanzo – scritto di getto tra il 1857 ed il 1858 e pubblicato postumo col titolo Le confessioni di un ottuagenario – il Nievo immagina che un ottantenne, Carlo Altoviti detto Carlino, narri le vicende della propria vita, dominata dall’amore per la cugina detta la Pisana, e piena delle vicende della storia italiana ed europea. Si tratta di un romanzo dalla trama complessa, ricco di ambienti e di personaggi, i cui episodi abbracciano registri diversi che vanno dal tragico al comico, dal drammatico all’elegiaco. Le Confessioni sono un romanzo autobiografico, ma in un senso tutto particolare: dato lo scarto rilevante di anni tra l’autore ed il protagonista che ricorda e racconta, le esperienze storiche dell’uno non possano essere quelle dell’altro. Ma Nievo in un quadro storico diverso trasferisce i suoi ricordi personali: così, se le memorie dei fatti storici sono indirette, i ricordi autobiografici sono diretti, ma retrodatati e trasposti. Il che permette a 403

Se la sua musica tende al “wagnerianesimo” senza raggiungerlo, portò comunque un’importante innovazione nel mondo musicale italiano – eccessivamente legato al melodramma e poco sensibile alla musica sinfonica e da camera – grazie alla fondazione della celeberrima e tuttora esistente “Società del Quartetto” (1864). 404 Sono state fatte varie illazioni sulla causa della morte di Nievo, tra cui quella della eliminazione volontaria di un testimone scomodo dei pagamenti ai generali borbonici perché si arrendessero ai Mille. Rino Cammilleri ha dedicato alla vicenda il riuscito romanzo Sherlock Holmes e il misterioso caso di Ippolito Nievo.

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L’Ottocento Nievo di considerare da nipote le rievocazioni del nonno e quindi di sentir quei ricordi in tono cordiale e commosso, ma anche con simpatico umorismo. Nella seconda parte del romanzo l’aspetto memoriale lascia il posto all’intreccio e il romanzo si fa più precipitoso, avventuroso, romanzesco. Ne deriva così un certo squilibrio d’impostazione, dovuto certamente alla mancanza di una revisione, ma non tale da giustificare il giudizio negativo di Croce, secondo cui il romanzo si ridurrebbe ad un aggregato di frammenti. Della numerosa schiera di personaggi che popolano le Confessioni la Pisana è certamente il più vivo; sensuale e candida insieme, buona e crudele, umile e superba, sventata, bizzarra, bellissima, la Pisana è uno dei personaggi femminili più completi della narrativa italiana; «un personaggio non ritratto prima da fermo e poi posto in azione, al modo manzoniano, ma reso via via nel progredire degli anni e nel complicarsi delle vicende, descritto e insieme indagato nella sua psicologia inquieta e inquietante» (Bocelli). La lingua usata dal Nievo, non letteraria, ma neanche corrente, non sempre è aderente al livello intellettuale dei personaggi. Ma come Manzoni aveva risolto questo problema mediante il ricorso al presunto rifacimento del manoscritto dell’anonimo, così Nievo lo risolve mediante l’espediente dell’ottuagenario narratore: come a dire che egli trascrive dialoghi riferiti, non uditi direttamente. b) Giuseppe Rovani Negli stessi anni delle Confessioni vedeva la luce un altro romanzo di storia contemporanea, Cento anni405 di Giuseppe Rovani (Milano 1818-1874), lo scrittore intorno al quale, come si è detto, si radunavano gli scapigliati milanesi. Il romanzo ci da un quadro della civiltà milanese e lombarda nel periodo che va dalla metà del Settecento alla metà dell’Ottocento. Della novità del romanzo ci informava l’autore stesso nel “preludio”: la differenza originale tra il nostro libro e i libri congeneri, consistesse in ciò appunto, che, dove per consueto gli attori sono individui operanti nel tempo limitato d’un periodo della vita, nel nostro lavoro gli attori fossero invece famiglie, la cui vita si prolunga di padre in figlio e cammina colle generazioni, cogliendo da ciò occasione di tener dietro agli svolgimenti graduali di tutte le parti che costituiscono la civiltà di un paese.

Ciò spiega il sottotitolo di “romanzo ciclico” che l’autore diede al suo romanzo, la cui struttura ricalcava i romanzi di Dumas e soprattutto di Sue (I misteri di Parigi). Giornalista qual era, Rovani più che per i fatti storici mostrava interesse per i loro retroscena, prediligendo il pezzo di cronaca e l’aneddoto brillante: insomma, come è stato detto, degli avvenimenti egli non amava presentarci il prospetto, ma lo “spaccato”. Si assiste così alla dissoluzione del romanzo storico, in quanto non è più il quadro ambientale d’insieme che interessa, ma il particolare cronachistico. Sostenitore della teoria delle arti comunicanti – tesi allora d’avanguardia – Rovani volle un romanzo che fosse insieme dramma, lirica, elegia, critica, satira: e così vi mise

405

Apparso a puntate sulla “Gazzetta di Milano” (1857-58), quindi raccolto in volume (1868-69).

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L’Ottocento un po’ di tutto, appesantendolo di intrusioni che certamente ne rendono meno spedita la lettura. c) Antonio Bresciani Autore popolare e prolifico, il gesuita Antonio Bresciani (Trento 1798 - Roma 1862) collaborò alla rivista La Civiltà Cattolica, una delle più importanti del suo tempo (e la più antica tuttora esistente). Bresciani gode di fama negativa406 immeritata a causa di un attacco del De Sanctis ripreso da Gramsci407, ma i suoi romanzi storico-politici – Matilde di Canossa; Lorenzo o il coscritto: racconto ligure dal 1810 al 1814; L’Ebreo di Verona: racconto storico dall’anno 1846 al 1849; Lionello; Olderico ovvero Il zuavo pontificio: racconto del 1860; Ubaldo ed Irene: racconti dal 1790 al 1814; Don Giovanni, ossia Il benefattore occulto; L’orfana di Casamari – che fossero ambientati nel lontano Medioevo o nelle attuali guerre risorgimentali, sapevano affascinare il lettore ed erano basati su intenti educativi e politici408. Sul versante saggistico, Bresciani si distinse come studioso dei costumi popolari (sardi e tirolesi) e per lo studio Dialoghi degli dei. Del romanticismo italiano rispetto alle lettere, alla religione, alla politica e alla morale (1839).

406

In particolare L’Ebreo di Verona (1850) è stato (ed è tuttora) considerato un’opera antisemita, mentre il personaggio eponimo è invece un eroe positivo della vicenda. 407 Nei suoi Quaderni del carcere Gramsci dedicò alla letteratura popolare una sezione di aspra critica, intitolata sprezzantemente I nipotini di padre Bresciani. 408 Avvicinabile a padre Bresciani per la prospettiva tradizionalista da cui si muove (oltre che per gli studi sulla cultura popolare della propria terra), è il toscano NARCISO FELICIANO PELOSINI (Calcinaia, Pisa 1823 - Pistoia 1896), che con Maestro Domenico (1871) utilizza la forma della fiaba per inviare messaggi politici: lo scrittore (futuro deputato e senatore) descrive con riso amaro le tragicomiche avventure di un fedele suddito del Granduca che, addormentatosi durante una scampagnata ante 1859, si sveglia dopo vent’anni per destarsi nella Toscana sabauda. L’elemento meraviglioso (il salto temporale) serve a sottolineare i lati negativi ed assurdi di una situazione che tutti ormai accettavano passivamente come ineluttabile.

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L’Ottocento

Francesco De Sanctis e la critica Nel clima culturale del Romanticismo si inscrive anche la critica letteraria di Francesco De Sanctis: per il superamento che essa rappresenta della critica sensistica e della storiografia letteraria di tipo erudito del Settecento; per la sua connessione col vichismo, con l’idealismo tedesco e con tutto l’indirizzo storicistico della cultura europea contemporanea; per la sua opposizione alla retorica classicistica; e, soprattutto, per il rapporto che mira sempre a mettere in luce tra lo scrittore e la sua società.

La vita Francesco De Sanctis nacque a Morra nell’Irpinia nel 1817. A Napoli fu discepolo del purista Basilio Puoti, di cui poi divenne collaboratore. Aprì quindi una scuola privata (ma insegnava pure al collegio militare della Nunziatella) e con i suoi alunni, sui quali esercitava uno straordinario fascino per le sue virtù di uomo e di patriota oltre che per i suoi meriti di maestro, partecipò ai moti napoletani del 1848. Fu imprigionato tra il 1850 ed il 1853; quindi fu in esilio prima a Torino, poi a Zurigo, nel cui Politecnico ebbe la cattedra di letteratura italiana. Proclamata l’Unità nazionale, gli fu affidato da Cavour il Ministero dell’Istruzione che resse fino al 1862. Da allora in poi, sia come parlamentare che come giornalista, si fece promotore di una nuova sinistra, moderata e progressista. Intanto attendeva a riordinare e pubblicare i suoi scritti: nel 1866 raccolse i Saggi critici, nel 1869 pubblicò il Saggio sul Petrarca, tra il 1870 e il 1871 scrisse la Storia della letteratura italiana e i Nuovi saggi critici; negli ultimi anni della vita dettò le sue memorie, pubblicate postume col titolo La giovinezza di Francesco De Sanctis. Morì a Napoli nel 1883. Fu mirabile in De Sanctis la concezione di una cultura che fosse intimamente legata alla vita, di un magistero educativo che fosse soprattutto magistero morale e scuola di ideali vivi e mai astratti. Perciò in lui impossibile è separare e distinguere l’attività di letterato e quella di patriota: insieme si unificano in quella di maestro. Così, infatti, scrisse di sé: «La mia vita ha due pagine, l’una letteraria, l’altra politica, né penso a lacerare nessuna delle due: sono due doveri della mia storia che continuerò fino all’ultimo».

La critica della forma L’intuizione critica del De Sanctis andò maturando dialetticamente come sintesi di esperienze critiche precedenti. Discepolo del purista Puoti, ne subì l’influenza giungendo inizialmente ad un’impostazione di critica formalistica, attenta cioè ad esaminare e valutare gli aspetti esteriori e formali dell’opera d’arte. Era certamente una critica unilaterale ed astratta, in quanto, partendo da parametri convenzionali (i modelli letterari, le regole retoriche, la perfezione del verso, la purità della lingua), giudicava l’opera d’arte in rapporto ad essi. Insoddisfatto di tale impostazione critica, che non riusciva certamente a cogliere il valore interiore dell’opera d’arte e neanche l’animo del poeta nella sua carica ideale e pas-

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L’Ottocento sionale, De Sanctis si dispose ad accogliere la critica contenutistica sostenuta da Hegel409, il cui pensiero andava allora trovando entusiastici consensi nell’ambiente culturale napoletano. Secondo Hegel scopo della critica era quello di mettere in luce il contenuto dottrinale e filosofico che è alla base dell’opera d’arte. Ma ben presto De Sanctis doveva persuadersi che anche la critica contenutistica è una critica unilaterale ed astratta, perché neanche essa tiene conto della realtà viva e completa dell’opera d’arte nella sua indissolubile unità di contenuto e di forma. Fu così che pervenne alla sua intuizione critica, cioè alla critica della forma. L’arte non è né soltanto contenuto, né soltanto forma; e neanche contenuto a cui si aggiunge, come un vestito da sovrapporsi ab extra, la forma: La verità è che in poesia non c’è veramente né contenuto né forma, ma, come in natura, l’uno e l’altra. Quando separate la forma dal contenuto, e di quella vi occupate come parte tecnica e guardate al contenuto in sé, voi spezzate la vita, invece di concepirla nella sua unità.

L’arte quindi è sintesi a priori di contenuto e forma. è idea spogliata di quanto ha di astratto, di generico, di grezzo, colta dalla fantasia del poeta come “situazione” viva, particolare e concreta e divenuta perciò forma: Per me l’essenza dell’arte è la forma, non la forma veste, ma la forma in cui l’idea è già passata e a cui l’individuo si è già innalzato.

La vitalità di un’opera d’arte quindi, come non può consistere nei pregi tutto esteriori di perfezione formale, così non consiste neanche nella sola elevatezza e bontà del contenuto; consiste invece nella forma che quel contenuto, in quanto colto in “situazione” dalla fantasia del poeta, è venuto ad assumere: Il contenuto è transeunte, caduco, la forma è immortale. Gli dèi di Omero sono morti: l’Iliade è rimasta. Può morire l’Italia e ogni memoria di Guelfi e Ghibellini: rimarrà la Divina Commedia. Il contenuto è sottoposto a tutte le vicende della storia. Nasce e muore: la forma è immortale.

Così De Sanctis ribadiva, sulle orme di Vico, l’autonomia dell’opera d’arte, il suo valere di per se stessa al di là del suo significato filosofico, al di là del suo contenuto e delle sue finalità. E da Vico riprendeva anche la funzione della fantasia – intesa come momento autonomo nella vita dello spirito – quale elemento spirituale che solo riesce ad operare la sintesi a priori tra contenuto e forma.

La Storia della letteratura italiana Questa l’impostazione critica desanctisiana. Ma la sua passione di uomo del Risorgimento, la tensione eroica dei tempi nei quali viveva e operava, la sua alta coscienza civile lo portavano a cercare ed ammirare nell’arte proprio quell’elevatezza degli ideali e quella 409

Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831), filosofo tedesco, massimo rappresentante dell’idealismo. Le sue idee influenzeranno largamente tutta la filosofia europea fino al Novecento.

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L’Ottocento sublimità della passione che pur non bastano di per sé – secondo la sua teoria dell’arte – a fare un capolavoro. Da ciò derivava anche il suo voler interpretare sempre l’autore in connessione col suo ambiente storico e il voler cogliere in lui l’eco dei problemi morali, religiosi, sociali e politici del suo tempo. Da questo suo modo di porsi di fronte all’arte nasceva la sua Storia della letteratura italiana, che perciò non è soltanto la storia delle nostre lettere, ma la nostra storia religiosa, politica, sociale. Eccolo allora stilare un severo giudizio sull’Umanesimo, ritenuto estraneo alla realtà storica del suo tempo: Ma è l’Italia dei letterati, col suo centro di gravità nelle corti. Il movimento è tutto sulla superficie, e non viene dal popolo e non cala nel popolo. O per dir meglio, popolo non ci è. Cadute sono le repubbliche, mancata è ogni lotta intellettuale, ogni passione politica. Hai plebe infinita, cenciosa e superstiziosa, la cui voce è coperta dalla rumorosa gioia delle corti e de’ letterati, esaltata in versi latini. A’ letterati fama, onori e quattrini; a’ principi incensi. Questa fiacchezza e servilità di carattere, accompagnata con una profonda indifferenza religiosa, morale e politica, di cui vediamo gli albori fino dai tempi del Boccaccio, è giunta ora a tal punto che è costume e abito sociale; e si manifesta con una franchezza che oggi appare cinismo.410

Eccolo legare la decadenza della letteratura nel Seicento alla corruttela dello spirito italiano, che crede effetto della dominazione spagnola e del formalismo religioso controriformista: Questa è la vita morale, religiosa e nazionale italiana a quel tempo: un mondo tradizionale tornato di moda, favorito dagli interessi, mantenuto nelle sue apparenze, rimbombante nelle frasi, non sentito, non meditato […]. Il tarlo della società era l’ozio dello spirito, un’assoluta indifferenza sotto quelle forme abituali religiose ed etiche, le quali, appunto perché mere forme o apparenze, erano pompose e teatrali.411

Ed eccolo alfine salutare con entusiasmo l’apparizione del Giorno del Parini, come l’inizio di una letteratura che finalmente si saldava alla vita, ne coglieva i problemi, prospettava soluzioni: La poesia riacquista la serietà di un contenuto vivente nella coscienza. E la forma si rimpolpa, si realizza, diviene essa medesima l’idea, armonia tra l’idea e l’espressione.412

Alcune delle connessioni desanctisiane tra poesia e storia possono apparire oggi inaccettabili; tuttavia la sua Storia della letteratura resta, per le idealità civili che la ispirano, uno dei più alti documenti della cultura italiana. Ed anche una grande opera letteraria: per l’abilità dell’indagine psicologica, per l’organicità della struttura, per la vivezza delle immagini, per quella sua “prosa parlata” e ricca di espressioni scultoree e indimenticabili.

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Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana, cap. 11, Le stanze. Idem, cap. 18, Marino. 412 Idem, cap. 20, La nuova letteratura. 411

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L’Ottocento

Il Verismo Una nuova temperie politica, sociale, culturale caratterizza gli ultimi decenni dell’Ottocento: all’età romantico-risorgimentale segue l’età del positivismo e dei problemi post-unitari. Anche la letteratura, pur senza rinunziare alle grandi affermazioni del gusto e della sensibilità romantica, anzi sviluppandole in senso oggettivo-veristico, si nutre di nuovi contenuti e ricerca nuove forme espressive.

Il quadro politico-culturale Le elezioni politiche del 1876 vedevano la trionfale affermazione della Sinistra. La Destra perdeva pertanto il suo ruolo di protagonista nella guida del Paese: le restava però il generale riconoscimento di Destra storica per avere essa affrontato e risolto i problemi dell’unità e dell’indipendenza. Nuovi problemi attendevano ora la loro soluzione, ed erano problemi di politica interna e sociale: l’estensione dell’istruzione, l’alleggerimento fiscale, l’ampliamento del diritto di voto, una maggiore giustizia sociale. La soluzione di questi problemi costituì il programma della sinistra, che perciò trascurò ogni possibilità di più prestigioso inserimento dell’Italia nel quadro della politica internazionale, accantonando anche il problema dell’irredentismo giuliano e tridentino. Del resto, la tensione eroica del Risorgimento si era da tempo allentata: ed Aspromonte, Mentana, Lissa, Custoza erano state imbarazzanti pagine della recente storia italiana. Insomma, sulle prospettive ideali prevalevano ora le impostazioni reali dei problemi: e questa mutata visuale determinava da una parte il prevalere delle questioni di politica interna, economico-sociali, su quelle di politica estera; dall’altra il “trasformismo politico”, il costituirsi cioè di una maggioranza parlamentare non più legata ad una determinata ideologia, ma ad una visione pragmatica delle singole questioni da affrontare. Con lo svilupparsi di un proletariato industriale e contadino nasceva intanto la questione sociale, si formavano i partiti operai e contadini, si diffondeva il marxismo e si avevano le prime manifestazioni anarchiche. Data la non completa fusione – soprattutto sul piano economico – delle diverse regioni d’Italia nel quadro nazionale, la questione sociale si intrecciava con la questione meridionale, quasi esistesse, a fianco ad un proletariato “sociale”, un proletariato “geografico”, rappresentato dal Sud. Espressioni della questione meridionale erano lo scarso entusiasmo delle popolazioni del Sud per il compiuto Risorgimento, la sfiducia nelle leggi e nello Stato e quindi il brigantaggio politico prima e l’emigrazione poi. Al mutato quadro politico corrispondeva un mutato quadro culturale. Fino ad allora la cultura italiana si era mossa entro il quadro filosofico dell’idealismo romantico e dello spiritualismo cattolico. Ora si avvertiva la stanchezza dell’idealismo e si faceva strada la considerazione della sua insufficienza a risolvere i problemi pratici. Sempre più si diffondeva perciò il positivismo, una nuova corrente di pensiero che, dando il bando alle “fantasticherie metafisiche”, voleva attenersi ai “fatti positivi”, adottando il metodo proprio delle scienze sperimentali. A determinare questo nuovo atteggiamento culturale era soprat-

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L’Ottocento tutto il grande sviluppo della scienza in questo periodo: non solo ora le ferrovie e l’elettricità aprivano nuove prospettive alle attività economiche e modificavano il tenore stesso di vita, ma le scoperte nel campo della medicina – soprattutto quelle batteriologiche compiute dal tedesco Koch – rivoluzionavano tutto il campo della profilassi e della terapia. Le promesse della scienza apparivano infinite, promettendo quasi – secondo l’affermazione di Saint-Simon413 – la realizzazione in terra del regno di Dio, la trasformazione del mondo in un paradiso con tutti i conforti per l’uomo. In questo clima di novello ottimismo, che ricordava quello dell’illuminismo settecentesco, il tipo ideale umano non era più il santo, il poeta, il patriota, ma lo scienziato. Infatti, i grandi di quest’età erano Comte414, che formulava i principi del positivismo e costituiva la scienza sociologica; Darwin415, che enunciava la tesi della selezione naturale e della derivazione dell’uomo dalla specie inferiore; Spencer416 e Ardigò417, che delineavano la concezione evoluzionistica dell’universo; Bentham418 che fondava la morale utilitaristica del calcolo; Mill419, che determinava i procedimenti logici della scienza positivistica. Anche la poesia, per tanta parte – si pensi a Zanella, a Praga, a Carducci stesso – o si nutriva di scienza o plaudiva alle sue invenzioni. Mutava anche il tipo dello scrittore: non più cortigiano come nel Rinascimento; non più abate, precettore, viaggiatore irrequieto come nel Settecento; neanche patriota o partecipe dell’attività politica come nel Risorgimento; ma scrittore di professione che, fatte poche eccezioni, viveva del suo lavoro. Il che era possibile dato un ulteriore passo in avanti sul piano della diffusione della cultura, della quale erano testimonianza le collane economiche dei classici e le collane popolari di romanzi, nonché la diffusione dei “romanzi d’appendice” che, a puntate, venivano pubblicati sui giornali a grande tiratura. Pur diffondendosi, la letteratura rimaneva però sempre borghese: perché gli autori provenivano dalla borghesia; perché rappresentava stati d’animo ed interessi culturali borghesi; perché, anche quando tentava temi sociali, lo faceva sempre con spirito paternalistico. Valore soltanto marginale ebbero canti popolari ispirati a delusione e protesta.

La poetica del verismo Sul piano letterario la cultura positivistica determinò il “verismo”: come in filosofia, infatti, così in letteratura si vollero bandire le “fantasticherie metafisiche” e ci si volle basare sui “fatti”, il che voleva dire sul vero e sul reale. Certamente, questa tendenza al vero non era un fatto nuovo: affondava le sue radici nello stesso romanticismo e più precisa413

Claude-Henry de Rouvroy, conte di Saint-Simon (1760-1825), filosofo e storico francese, positivista, annoverato come socialista utopista, iniziatore del filone scientistico e tecnocratico del socialismo. 414 Auguste Comte (1798-1857), filosofo e sociologo francese. 415 Charles Robert Darwin (1809-1882), biologo e naturalista inglese. Autore de L’origine della specie (1859) che creò (e tuttora crea) notevolissime polemiche. 416 Herbert Spencer (1820-1903), filosofo inglese teorico dell’evoluzionismo. 417 Roberto Ardigò (1828-1920), filosofo italiano positivista. Sacerdote fino al 1871, morì suicida. 418 Jeremy Bentham (1748-1832), filosofo e giurista inglese, padre dell’utilitarismo. 419 John Stuart Mill (1806-1873), filosofo inglese positivista, allievo di Bentham.

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L’Ottocento mente nel suo aspetto oggettivo-realistico, quello stesso che aveva ispirato l’arte del Manzoni e di buona parte della nostra letteratura risorgimentale. Lo stesso De Sanctis, pur di formazione idealistico-romantica, aveva affermato che «il principio direttivo della letteratura è il suo graduale avvicinarsi alla natura ed al vero»; ed ancora: «Poco parlare noi e molto far parlare le cose: questo è il motivo di un’arte seria». Tuttavia fu tra il 1870 ed il 1890 che questa tendenza al vero si acuì e divenne un coerente ed organico programma letterario: e non solo in connessione con la temperie politico-culturale di cui abbiamo parlato, ma anche per effetto dell’influenza determinata dal “naturalismo” francese, che giungeva a noi soprattutto tramite i romanzi di Gustave Flaubert ed Émile Zola. Secondo il naturalismo l’arte doveva rinunziare ad ogni intrusione sentimentale e lirica, limitandosi invece alla narrazione del reale, nella più assoluta ed impersonale fedeltà alla verità oggettiva. Il critico Hippolyte-Adolphe Taine nella sua Filosofia dell’arte (1865) aveva addirittura sostenuto che la letteratura dovesse essere mediatrice e divulgatrice della scienza e che perciò i personaggi letterari non dovessero essere liberamente inventati dall’autore, ma che la loro vita, come quella di ogni essere umano, dovesse tener conto di tre elementi condizionanti: il fattore ereditario, l’ambiente sociale, il momento storico. Alle tesi del Taine aderì Zola, il quale nei suoi romanzi giunse ad una concezione “determinista” della vita dell’uomo: virtù e vizi, invece di essere libere scelte morali dell’individuo, erano considerati come risultanti di fattori ereditari ed ambientali. In Italia il naturalismo si disse “verismo”. Non mutava soltanto il nome del movimento letterario, ma diversa ne era in parte anche la sostanza. Nel verismo la poetica realistica del naturalismo appariva meno intransigente e più attenuata – qualcosa di simile a quanto era avvenuto del romanticismo tedesco nel momento in cui era stato accolto in Italia ed era stato corroso e smussato dalla nostra tradizione culturale e letteraria: conseguenza era che la letteratura non fu mai intesa da noi come una pura e semplice “operazione scientifica” e il canone dell’impersonalità dell’arte non impedì mai di contrabbandare una certa carica di sentimento e di idealismo. Inoltre, mentre gli ambienti prediletti dai naturalisti francesi erano quelli delle metropoli, soprattutto delle plebi cenciose delle grandi città – si ricordi Il ventre di Parigi di Zola (1873) –, rappresentati con certa compiacenza per gli aspetti più squallidi ed orridi, al contrario gli ambienti prediletti dal verismo italiano furono quelli della provincia e della campagna: in modo particolare del Mezzogiorno e delle isole. Predilezione che era determinata non certo dall’antica tradizione georgica ed arcadica, quanto dal fatto che la questione sociale si innestava con la questione meridionale e perciò un romanzo che volesse essere “documento sociale” trovava nel Mezzogiorno un fertile campo di indagine e di ispirazione.

Giovanni Verga Di una letteratura intesa come “documento umano” o “documento sociale”, libera da intrusioni sentimentali ed incrostazioni liriche, era scontato che la prosa ed in modo particolare il romanzo fosse il genere più confacente e preferito. Ed fu un romanzo, infatti, la prima opera del verismo: Giacinta (1879) di Luigi Capuana. Ma se a Capuana, di cui parleremo in seguito, spetta il merito di aver diffuso tra noi le tesi del naturalismo francese e

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L’Ottocento di essere stato quindi una specie di caposcuola del verismo, il maggior rappresentante del movimento fu Giovanni Verga. a) Il primo Verga Giovanni Verga (Catania 1840-1922), di famiglia benestante, frequentò gli studi giuridici, ma con scarso profitto, attratto com’era dall’amore per la scrittura. Ad appena sedici anni compose infatti il suo primo romanzo e due anni dopo scrisse I carbonari della montagna, un romanzo storico avente per argomento l’insurrezione dei calabresi contro Murat. Trasferitosi a Firenze e successivamente a Milano, venne a contatto con i principali esponenti del mondo letterario italiano e con l’ambiente della scapigliatura. Scrisse allora Una peccatrice, Storia di una capinera, Eva, Tigre reale, Eros, romanzi costruiti secondo il cliché della scapigliatura e perciò fatti di passioni ardenti e torbide e venati di un inquieto autobiografismo. Nel 1874 compose la Nedda, la prima novella di ambiente siciliano, che rappresenta il primo esperimento del Verga verista: Nedda non è più una signora sofisticata e sensuale, quali erano state, in buona parte, le protagoniste dei precedenti romanzi: è una povera ragazza di campagna che accetta con eroica rassegnazione il suo triste destino di fatica e di sofferenze. b) La conversione al verismo La conversione di Verga al verismo non fu semplice adesione ad una poetica nuova, ad una tecnica diversa di narrare. Fu, prima che una conversione letteraria, una conversione etica. Nasceva dalla stanchezza morale, quasi dalla nausea nei confronti di quella società che aveva fino ad allora rappresentato nei suoi romanzi scapigliati: una società di gente mondana, frivola, sofisticata e spostata. «Verga s’accostava insomma alla materia nuova degli umili e casalinghi affetti con l’atteggiamento dell’uomo di mondo che ha vuotato fino in fondo il calice di un’esistenza sterile e viziata, e se n’è distolto alla fine con ripugnanza, e ora si sforza di aprire nuove strade più riposate e più sane alla stanca fantasia, di placare, come diceva “le irrequietudini del pensiero vagabondo […] nella pace serena di quei sentimenti miti, semplici, che si succedono calmi e inalterati di generazione in generazione”. Nel Verga vita ed arte procedono sempre strettamente congiunte e interferenti: e la conversione doveva essere al tempo stesso una conquista di verità poetica e di serietà morale» (Sapegno). Ripudiando così la società mondana milanese e cercando ora la sua ispirazione nella gente semplice e laboriosa della sua Sicilia, Verga operava anche un recupero memoriale; ed operava una romantica scelta per un mondo primitivo, istintivo e naturale, non corroso e distorto dalle mondane convenienze della società. Queste le motivazioni e le caratteristiche fondamentali della conversione verghiana al verismo: la sua adesione a nuovi canoni narrativi, basati sull’impersonalità e sulla rappresentazione obiettiva e distaccata della realtà, sono un fatto secondario. Vero è che scrisse di auspicare un romanzo in cui la sincerità della realtà [sarà] così evidente, il suo modo e la sua ragione di essere così necessarie, che la mano dell’artista rimarrà assolutamente invisibile, e il romanzo avrà l’impronta dell’avvenimento reale, e l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé, aver matu-

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L’Ottocento rato ed essere sorta spontanea, come un fatto naturale, senza servare alcun punto di contatto col suo autore;420

tuttavia è sempre in lui tanta commossa simpatia per i suoi personaggi semplici e derelitti e per le loro elementari e primitive passioni, che la sua “impersonalità” è soltanto un fatto tecnico e mai ideologico: è soltanto un nascondere la propria presenza lasciando parlare le cose, lasciando parlare e muovere i suoi personaggi senza analizzarne o descriverne la psicologia, lasciandoli parlare come essi sanno parlare senza preoccuparsi di nobilitarne le espressioni. c) I Malavoglia Nel 1880 Verga pubblicava Vita dei campi, una raccolta di novelle tra le quali una, forse la meno bella, importa perché contiene il germe dei Malavoglia. La novella è Fantasticheria e l’autore, parlando della vita primitiva e semibarbara dei pescatori di Aci Trezza nel catanese, scriveva: Per altro il tenace attaccamento di quella povera gente allo scoglio sul quale la fortuna li ha lasciati cadere mentre seminava principi di qua e duchesse di là, questa rassegnazione coraggiosa ad una vita di stenti, questa religione della famiglia, che si riverbera sul mestiere, sulla casa, e sui sassi che la circondano, mi sembrano – forse pel quarto d’ora – cose serissime e rispettabilissime anch’esse.421

I Malavoglia, pubblicato nel 1881, nasceva quindi come “documento” di un ambiente povero e primitivo; ma nasceva anche come memoria lirica di una terra nella quale Verga aveva vissuto gli anni della fanciullezza e dell’adolescenza e che, vagheggiata da lontano – l’autore viveva ora a Milano – si colorava di nostalgia, divenendo, nel ricordo, più bella. Il romanzo è la storia di una famiglia di pescatori, i Malavoglia, che per il naufragio di una barca (la “Provvidenza”) precipita nella miseria perdendo anche la casa. Una storia emblematica della lotta per la vita, che ruota intorno a due figure: il nonno padron ’Ntoni e il nipote ’Ntoni. Padron ’Ntoni accetta la povertà e di fronte alla sventura non ha ribellione; egli sa che il «riso con i guai vanno a vicenda»422, che la vita è andata sempre così per i Malavoglia, che le sue sofferenze sono le stesse dei padri, che la saggezza consiste nel vivere come si è nati. Il nipote, invece, non sopporta più la condizione di suo padre e di suo nonno – «Non voglio più farla questa vita. Voglio cambiare stato, io e tutti voi. Voglio che siamo ricchi»423 –: per questo rifiuta il suo mondo, abbandona la casa e il paese, cerca la via della protesta e finisce col soccombere. Tanto la rassegnazione coraggiosa e la caparbietà eroica del nonno, quanto l’inutile protesta del nipote esprimono il pessimismo sociale del Verga: egli sa che per gli umili non c’è riscatto; sa che nella lotta per l’esistenza o in quella per il miglioramento sociale essi sono e resteranno sconfitti, “vinti”. Nessuna Provvidenza – si ricordi I promessi sposi – veglia più su di loro: la Provvidenza è diventata una barca. Ed è 420

Giovanni Verga, Vita dei campi, L’amante di Gramigna, premessa. Idem, Fantasticheria. 422 Giovanni Verga, I Malavoglia, cap. 8. 423 Idem, cap. 11. 421

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L’Ottocento affondata. Da ciò la sconfortata solitudine dei personaggi verghiani (giustamente è stato notato che la loro insularità è un dato spirituale più che un dato geografico); da ciò il rimaner sempre soli dinanzi al dolore («i Malavoglia rimasero soli dinanzi a quel lettuccio vuoto»424); da ciò la loro penosa sensazione di abbandono e di esclusione: [’Ntoni] se ne andò colla sua sporta sotto il braccio; poi, quando fu lontano, in mezzo alla piazza scura e deserta, che tutti gli usci erano chiusi, si fermò ad ascoltare se chiudessero la porta della casa del nespolo, mentre il cane gli abbaiava dietro, e gli diceva col suo abbaiare che era solo in mezzo al paese.425

I Malavoglia sono soli, ma possono – come disse l’autore – «disperarsi insieme»426. Ed è qui la coralità del romanzo; che non è tanto solidarietà e reciproca commiserazione – dal momento che ognuno ha da pensare alla sua pena – quanto un far eco con la propria alla sofferenza altrui: «Quando uno parla nelle sue parole c’è l’animo, la voce, il gesto dell’altro» (Russo). Verga fa parlare i suoi personaggi con il loro linguaggio di gente semplice e primitiva: un linguaggio ricco di paragoni tratti per lo più dal mondo degli animali («Le vicine avevano fatto come le lumache quando piove»427), di proverbi («Senza pilota barca non cammina»428), di espressioni ricche di colore popolare («la fame quest’inverno si sarebbe tagliata col coltello»429), di soprannomi (Piedipapera, zio Crocifisso, la Longa, padron Cipolla). Così, pur senza adoperare il dialetto – che avrebbe ridotto sensibilmente il numero dei suoi lettori – Verga piega la lingua nazionale ai costrutti ed alle cadenze del dialetto, ottenendo in tal modo una lingua perfettamente aderente al mondo che rappresenta. d) Mastro don Gesualdo I Malavoglia nell’intenzione del Verga dovevano costituire il primo di una serie di cinque romanzi avente per titolo I vinti. Il secondo romanzo, Mastro-don Gesualdo, venne pubblicato a puntate sulla “Nuova Antologia” nel 1888. È la storia di un operaio che, dopo aver stentato e lavorato eroicamente tutta la vita per farsi la “roba” e guadagnarsi un posto rispettabile in società, soffre continuamente il dileggio di chi gli rinfaccia la sua umile origine430 e finisce i suoi giorni dimenticato e solo come un cane. Anche mastro don Gesualdo quindi è un vinto; ed anche per lui, come per il giovane ’Ntoni, si ripete quel tragico destino – o legge sociale che sia – che non permette ad un uomo di uscire ed innalzarsi dalle condizioni in cui è nato; perché – come Verga diceva in Fantasticheria:

424

Ibidem. Idem, cap. 15. 426 Idem, cap. 11. 427 Idem, cap. 2. 428 Idem, cap. 1. 429 Idem, cap. 4. 430 Il titolo – pieno di ironia – di Gesualdo, “mastro-don”, indica il tentativo non riuscito di elevarsi socialmente: egli è diventato ricco ed ha sposato una nobile (per cui ha acquisito il “diritto” ad essere chiamato “don”), ma sarà sempre considerato un operaio (“mastro”). 425

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L’Ottocento allorquando uno di quei piccoli, o più debole, o più incauto, o più egoista degli altri, volle staccarsi dai suoi per vaghezza dell’ignoto, o per brama di meglio, o per curiosità di conoscere il mondo, il mondo, da pesce vorace com’è, se lo ingoiò, e i suoi più prossimi con lui.431

Negli altri tre romanzi della serie, che non furono mai scritti (La duchessa di Leyra432, L’onorevole Scipioni, L’uomo di lusso), l’autore aveva in mente di trattare della sconfitta dei protagonisti, rispettivamente, nelle ambizioni aristocratiche, nella ricerca del potere politico, nell’aspirazione alla gloria artistica.

Altri narratori veristi Una delle caratteristiche della letteratura verista fu il “regionalismo”: il fatto cioè che ogni autore cercava ispirazione nell’ambito della propria regione ed in esso collocava le vicende narrate. Ed era naturale che così fosse, dal momento che la letteratura non voleva esprimere ideali e sentimenti uguali dappertutto, ma voleva tener conto, invece, di. particolari condizioni ambientali socio-geografiche. All’ambiente siciliano si ispirarono, oltre al Verga (che rimase senz’altro il più illustre degli scrittori veristi, anche se – o forse proprio perché – meno rimase vincolato alle tesi naturalistiche e più spazio lasciò alla “sua” arte) Luigi Capuana e Federico De Roberto. LUIGI CAPUANA (Catania 1839-1915) fu, come s’è detto, lo scrittore che diffuse in Italia la poetica del naturalismo e che perciò venne considerato il caposcuola del nostro verismo. Oltre al romanzo Giacinta (1879), che fu la prima opera verista italiana, scrisse Il Marchese di Roccaverdina (1901), che costituì il meglio della sua produzione: un romanzo nel quale, con mirabile penetrazione psicologica, è narrato il caso drammatico di un nobile che, per avere ucciso per gelosia un contadino ed essendo sfuggito alla giustizia a spese di un innocente che finirà suicida per la disperazione, è tormentato dal rimorso giungendo alla follia. FEDERICO DE ROBERTO (Napoli 1861 - Catania 1927) fu l’autore del romanzo I Viceré (1894), che narra la lunga storia di una famiglia catanese, gli Uzeda, che, nonostante la sua origine e la sua mentalità feudale, riesce sempre a restare a galla attraverso gli avvenimenti politici che portano all’unificazione nazionale per l’abile e pronto adattamento a tutti i regimi: «Quando c’erano i Viceré, i nostri erano Viceré adesso che abbiamo il Parlamento, lo zio è deputato!»433 si vanta un membro della famiglia. La morale del romanzo è quindi scettica e pessimistica: anche cambiando di forma, il potere rimane sempre nelle mani di coloro che lo hanno esercitato nel passato. Pur non mancando di difetti – come il modo scarno di raccontare, quasi l’autore intendesse stendere una relazione più che comporre un romanzo – I Viceré rimangono un importante romanzo per l’ampio respiro e per il mirabile affresco della Sicilia pre- e post-unitaria.

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Giovanni Verga, Vita dei campi, Fantasticheria. Della Duchessa di Leyra sono giunti pochi capitoli iniziali. 433 Federico De Roberto, I Viceré, parte 1, cap. 9. 432

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L’Ottocento Il mondo napoletano, col suo vivido e cromatico folclore, vive invece negli scritti di MATILDE SERAO (Patrasso, Grecia 1856 - Napoli 1927). Vissuta a Napoli e dedicatasi con passione e successo al giornalismo, fu anche nei romanzi e nei racconti – come lei stessa confessava – «fedele e umile cronista della memoria». I suoi lavori migliori sono quelli in cui rappresentò la vita della plebe e della borghesia napoletana: Il Ventre di Napoli (1884), Il paese di Cuccagna (1890), La ballerina (1899). Meno pregevoli, invece, sono i romanzi nei quali, secondo la moda di certo psicologismo francese, volle descrivere passioni complicate e casi patologici. Il mondo rude e primitivo della Sardegna – più rude ed istintivo dello stesso mondo siciliano del Verga – ispira la maggior parte dei romanzi dell’autodidatta GRAZIA DELEDDA434 (Nuoro 1871 - Roma 1936): Elias Pòrtulu (1903), Cenere (1904), Canne al vento (1913), La madre (1920), Il paese del vento (1931). Nella Deledda, però, il verismo si riduce ad un fatto di pura tecnica narrativa, in quanto la sua ispirazione rivela un profondo travaglio etico e religioso. Secondo la scrittrice, ogni uomo nasce «col suo destino alle spalle», tutti sono «spinti dalla sorte, come sabbia al vento»: il male ed il peccato assumono così il peso della fatalità; altrettanto fatale però è il rimorso che grava sull’uomo dopo il peccato, un rimorso che è patimento, ma anche riscatto. Postumo venne pubblicato il romanzo autobiografico Cosima (1937). Scene di vita, di tipi e di paesaggi toscani rivivono nei bozzetti che il toscano RENATO FUCINI (1843-1921) raccolse in Le veglie di Neri (1884) e All’aria aperta (1887); ed anche, ma con maggiore attenzione ai problemi sociali, nei romanzi MARIO PRATESI (18421921), anch’egli toscano: L’eredità (1889) e Il mondo di Dolcetta (1895), entrambi di ambientazione senese. Un posto a parte tra i narratori veristi tocca a EMILIO DE MARCHI (Milano 18511901), per il confluire in lui di diverse esperienze letterarie: la tradizione manzoniana, la scapigliatura, il naturalismo degli scrittori francesi, i romanzi di Poe. Alla suggestione esercitata dal Poe sembra infatti ispirarsi Il cappello del prete (1887), una specie di romanzo giallo-psicologico. Miglior cosa sono, però, i due romanzi Demetrio Pianelli (1890) – considerato il suo capolavoro – e Giacomo l’idealista (1897), in cui si esprime il pessimismo dell’autore per la consapevolezza del destino di ineluttabile sconfitta e delusione che finisce sempre per gravare sugli uomini più buoni e generosi. Il che era anch’esso un modo cordiale di sentire, sulla scia di Manzoni e di Verga, il triste e drammatico destino degli umili e dei “vinti”. Infine va ricordato FRANCESCO MASTRIANI (Napoli 1819-91), che italianizzò i temi dei romanzi popolari di Eugène Sue (I misteri di Napoli, I vermi, La cieca di Sorrento, La sepolta viva).

Il teatro verista Anche nel teatro all’interesse per la realtà storica – come era stato nel Romanticismo – si sostituì l’interesse per la realtà quotidiana, o, come allora si disse, per la “realtà bor434

La Deledda venne insignita del Premio Nobel per la letteratura nel 1926.

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L’Ottocento ghese”. Il maggior rappresentante di questo teatro borghese fu il norvegese Henrik Ibsen (1828-1906), il più grande drammaturgo degli ultimi cento anni. Concordando con le tesi del Taine e dei naturalisti francesi a proposito dell’importanza che il fattore ereditario e quello ambientale hanno per la vita dell’uomo, Ibsen portava sulla scena il dramma dell’uomo che non riesce mai ad essere se stesso, a rinunziare ai pregiudizi, a liberarsi dall’eredità del passato, a conquistare la felicità. In Italia il teatro borghese fu degnamente rappresentato da PAOLO FERRARI (Modena 1822 - Milano 1889). La sua musa fu la morale borghese, che egli si accanì a difendere incondizionatamente. Cercò sempre, infatti, di spiegare il valore morale e sociale dei pregiudizi e dei luoghi comuni. Così nel Duello (1868), pur riconoscendo che quella era una consuetudine barbara e sciocca, affermava che comunque era il male meno grave per uscire da determinate situazioni. Priva di profondi pregi d’arte, la commedia di Ferrari deve essere considerata un documento d’ambiente, la voce della borghesia del secondo Ottocento che, uscita dal tormento romantico e non ancora immessa nella problematica del mondo contemporaneo, cercava stabilità nell’affermazione di certi valori borghesi. Altri noti titolo di Ferrari sono Goldoni e le sue sedici commedie nuove (1851), La satira e Parini (1856) e Il suicidio (1875). I temi più ricorrenti di questo teatro borghese – il matrimonio e l’eredità, i figli legittimi o bastardi, la distinzione tra donne caste e donne compromesse, la paura dello scandalo, l’immancabile soluzione del duello – ispirarono anche le commedie del napoletano ACHILLE TORELLI (I mariti, 1867), del piemontese GIUSEPPE GIACOSA435 (Tristi amori, 1897; Come le foglie, 1900), del milanese MARCO PRAGA (La moglie ideale, 1890), del piemontese PAOLO GIACOMETTI (1816-1882), di cui si ricorda soprattutto La morte civile (1851), dramma a tesi sociale che fu per decenni un successo straordinario in Italia ed all’estero (tra i suoi ammiratori ci fu Émile Zola). Un particolare aspetto il teatro borghese ebbe con PIETRO COSSA (Roma 1830 - Livorno 1881), il quale volle “borghesizzare” la tragedia classica in versi (Cola di Rienzo, 1874; Messalina, 1876; I Borgia, 1878). In Nerone436, il più noto dei suoi drammi, l’imperatore «non è più quel Nerone delle vecchie tragedie, una figura che spaventa», ma un personaggio borghese, che fa suo il compito dell’istrione. Notevole infine è stata la produzione teatrale dialettale in quasi tutte le regioni – dalla Sicilia del catanese NINO MARTOGLIO (1870-1921; San Giuvanni decullatu, L’aria del continente) al Piemonte di VITTORIO BERSEZIO (1828-1900; Le miserie d’Monssù Travet, 1863, considerato tra gli antesignani del dramma verista) – ma soprattutto proprio della “scuola napoletana”, con ANTONIO PETITO (1822-1876), modernizzatore della figura di Pulcinella; EDOARDO SCARPETTA (1853-1925), inventore del personaggio di Felice Scio-

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Giuseppe Giacosa (1847-1906) è anche autore della medioevaleggiante Una partita a scacchi (di cui sono arcinoti i versi: «E ancor, paggio Fernando, mi affissi e non favelli? / Io ti guardo negli occhi, che sono tanto belli»), di Non dire quattro se non l’hai nel sacco e soprattutto – in collaborazione con il piacentino Luigi Illica (1857-1919) – di alcuni libretti pucciniani (La bohéme, Tosca, Madama Butterfly). 436 Del 1872. La tragedia fu musicata da Mascagni nel 1935.

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L’Ottocento sciammocca ed importatore degli schemi comici alla Feydeau437; SALVATORE DI GIACOMO (1860-1934), a metà tra lirica e verismo438 (Assunta Spina, 1909); RAFFAELE VIVIANI (1888-1950), cantore della plebe.

La poesia verista Era naturale che il verismo, data la sua stessa concezione della letteratura, dovesse trovare nella prosa piuttosto che nella poesia la sua espressione più congeniale. Tuttavia non mancarono poeti di formazione positivistica, i quali vollero trarre ispirazione o dalla vita d’ogni giorno o dai progressi della scienza o ancora dalla realtà sociale. Uno di questi fu VITTORIO BETTELONI439 (Verona 1840 - Castelrotto, Bolzano 1910) che, in una forma scarna e molto vicina alla prosa, cantò gli amori con una sartina, le gioie domestiche, la realtà quotidiana, l’esistenza borghese e senza scossoni: Qual fu modesta e semplice la poesia che vissi tal verso vi adattai: umanamente amai, umanamente scrissi.

Più crudo invece fu il verismo di OLINDO GUERRINI (Forlì 1845 - Bologna 1916), che, sotto lo pseudonimo di Lorenzo Stecchetti, scrisse poesie sensuali, al limite della volgarità e della pornografia, a cui erano intrecciati accenti anticlericali ed antiborghesi. Non si può escludere, però, che a base del cinismo e della ribellione del Guerrini fosse un risentimento sincero, anche se male organizzato, per l’ingiustizia del mondo: Quando bella e gentil tu salirai di liete danze alle sonanti sale, volgiti indietro e la miseria udrai, la miseria che piange in sulle scale.

Polemica, anticlericale, socialistoide fu la poesia di MARIO RAPISARDI (Catania 18441912) di cui Lucifero (1873) fu il poema più noto. Lo stile, però, enfatico e retorico, non ha nulla della poetica veristica. Mezzo positivista e mezzo spiritualista fu il sacerdote vicentino GIACOMO ZANELLA (1820-1888) che cercò di accordare i progressi della scienza con le verità della Fede, la ragione con la religione. Nella sua poesia Sopra una conchiglia fossile, una delle sue liriche più note, adattò le teorie evoluzionistiche ad una visione provvidenziale del mondo, il tutto esprimendo in moduli classicheggianti di tipo settecentesco:

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Georges Feydeau (1862-1921), forse il massimo commediografo francese autore di vaudevilles (L’albergo del libero scambio, Occupati di Amelia, Il tacchino) dopo Eugène Labiche (1815-1888, Il cappello di paglia di Firenze). 438 Non a caso il compositore Umberto Giordano musicò i drammi Malavita e Il mese mariano. 439 Figlio di CESARE BETTELONI (1808-1858), a sua volta poeta romantico, ossessionato dalla morte (morì suicida) e imitatore di Hugo e Byron.

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L’Ottocento Eccelsa, segreta nel buio degli anni Dio pose la meta de’ nobili affanni. Con brando e con fiaccola sull’erta fatale ascendi, mortale!

Qualche anno più tardi lo stesso contrasto tra positivismo e spiritualismo tornerà nella poesia di ARTURO GRAF440 (Atene 1848 - Torino 1913), assumendo i toni di un canto sconsolato e pessimistico.

Poeti dialettali Nell’ambito del verismo può inscriversi anche la poesia dialettale dell’ultimo Ottocento, sia per il suo colorito regionale, che perché si fa interprete degli atteggiamenti e del gusto di un mondo popolare. CESARE PASCARELLA (Roma 1858-1940), uomo di cultura e di fine senso artistico, compose in romanesco due raccolte di sonetti rimaste meritamente famose: Villa Gloria (1886) e La scoperta de l’America (18893). In queste raccolte – ed è questo un altro aspetto del loro atteggiamento veristico – la materia epica viene come disincantata con un procedimento simile a quello che i nostri trovatori medioevali usavano nei confronti della materia cavalleresca, scende al livello del popolo e ne assume le fattezze e le espressioni. Ecco infatti come Cristoforo Colombo cerca di persuadere la regina di Spagna perché patrocini e sovvenzioni il suo viaggio: Ma che crede? che ce n’ho fatti pochi de ’sti viaggi? Percui, dico, che famo? Dico, sacra maestà!, famo li giochi? Dunque lo dica puro a suo marito, si me ce vò mannà che combinamo, si no vado a provà in quarch’artro sito.

In dialetto napoletano scrisse SALVATORE DI GIACOMO (Napoli 1860-1934), autore di novelle, poemetti, opere teatrali e soprattutto liriche (’O funneco verde, A San Francisco, Ariette e sunetti). Con nitido realismo Di Giacomo rappresenta l’anima di Napoli: nei suoi pittoreschi paesaggi, nei suoi folcloristici ambienti, nelle sue tradizioni e nei suoi costumi, nella vita grama eppure serena e contenta della parte più umile dei suoi abitanti. A volte però – ed è qui forse il meglio della sua poesia – lo squarcio paesistico o d’ambiente suscita nel poeta stati d’animo fatti di tenerezza e malinconia. Così è in Pianefforte ’e notte: Nu pianefforte ’e notte sona luntanamente, e ’a museca se sente 440

Noto soprattutto come saggista e studioso – dopo il ritorno alla fede – di simbologia.

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L’Ottocento pe ll’aria suspirà. Dio, quanta stelle in cielo! Che luna! E c’aria doce! Quanto ’na bella voce vurria senti’ canta!

Da ricordare – in una produzione generalmente mediocre – alcune composizioni in vernacolo napoletano di FERDINANDO RUSSO (Napoli 1866-1927), caratterizzate dalla nostalgia del periodo borbonico: ’O pezzente ‘e San Gennaro (1898) e nei più tardi ’O luciano d’‘o Rre (1910) e ’O surdato ’e Gaeta (1918).

Scrittori non veristi a) Antonio Fogazzaro Uno scrittore che non può certamente considerarsi verista, ma che presentiamo qui data la sua contemporaneità con i narratori di cui si è parlato – si pensi che il suo romanzo Malombra vide la luce nello stesso anno de I Malavoglia, il 1881 – è Antonio Fogazzaro (Vicenza 1842-1911). Di temperamento inquieto ed emotivo, mezzo mistico e mezzo sensuale, abbracciò l’ideologia dello spiritualismo cattolico, opponendosi al positivismo e mirando ad un recupero di valori ideali e cristiani. Quindi subì l’influenza del “modernismo”, movimento che auspicava una radicale riforma della Chiesa alla luce del progresso scientifico e sociale e che, al limite massimo, proponeva anche variazioni dogmatiche: ispirandosi a queste idee, scrisse Il santo (1905), romanzo che venne messo all’Indice. I lavori di Fogazzaro rappresentano proprio l’opposto della narrativa verista: per il loro carattere psicologico più che di ambiente; per il loro sentimentalismo ambiguo e complicato; perché pervasi di spiritualismo, misticismo, senso del mistero; per la loro ispirazione autobiografica: i protagonisti infatti hanno tutti la inquietudine spirituale del loro autore. Il suo primo romanzo – e forse, come è stato detto, il più “fogazzariano” – fu Malombra: la protagonista, Marina Malombra, convinta nella sua follia di incarnare l’anima di un’antenata morta per amore, si propone di vendicarla, giungendo infine al suicidio. Il lavoro, nel quale l’autore dimostra di possedere buone cognizioni di scienza occulta, rispecchia appieno la sua spiritualità torbida e contraddittoria: il suo contrasto tra senso e spirito, tra realtà e sentimento, tra azione pratica e misticismo. Il meglio è forse negli episodi marginali e nei personaggi secondari, allorquando cioè l’atmosfera tesa e patetica lascia il posto ad una garbata e quasi veristica tecnica rappresentativa. Il secondo romanzo, Daniele Cortis (1885), è chiaramente ispirato dai motivi della ideologia fogazzariana: la concezione cristiana della vita, l’esigenza di un rinnovamento sociale, la perennità dell’amore, la religione della famiglia e la indissolubilità del matrimonio. Il contrasto tra fede e ragione ispira invece Piccolo mondo antico, comunemente

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L’Ottocento considerato il capolavoro di Fogazzaro441. L’azione, che si svolge in Valsolda in pieno clima risorgimentale (1850-1859), s’impernia sul contrasto psicologico tra due coniugi: lui, Franco, è sentimentale, sognatore, cattolico; lei, Luisa, è uno spirito pratico e forte; la tragica morte della figlioletta Ombretta determina in essi reazioni diverse, che minacciano di dividerli maggiormente. Ma anche qui, come in Malombra, il meglio non è tanto nella rappresentazione della vicenda centrale, quanto, invece, nella rappresentazione del mondo che fa ad essa da sfondo: un mondo fatto di personaggi secondari, di macchiette colte dal vero, ricche di umanità e presentate con affettuosa simpatia. b) Alfredo Oriani Anche Alfredo Oriani (Faenza 1852 - Ravenna 1912), romantico per temperamento ed idealista in filosofia, si oppose al positivismo approdando ad una concezione spiritualistica dell’esistenza, nella quale trovarono posto la difesa della religione e della tradizione, l’esaltazione del nazionalismo e dello Stato autoritario, l’incoraggiamento del colonialismo, il culto della romanità. Per questi aspetti della sua ideologia – espressi negli scritti politici La lotta politica in Italia (1892) e La rivolta ideale (1908) – venne considerato precursore del fascismo442. In queste opere lo stile, pur essendo enfatico ed eloquente, non è privo di una certa suggestione. Tra i romanzi – alcuni dei quali di intonazione scapigliata (Il nemico e Gelosia, 1894; Vortice, 1899) – il migliore è senz’altro La disfatta (1896), drammatica storia di un uomo che, rimasto sconfitto nella vita, cerca conforto nella fede.

Narrativa per ragazzi Il massimo esponente – a livello non solo italiano, ma mondiale – della narrativa per fanciulli è sicuramente CARLO COLLODI (Carlo Lorenzini, Firenze, 1826-1890), il cui capolavoro, Pinocchio443, ha deliziato milioni e milioni di lettori (è considerato il romanzo italiano più conosciuto al mondo). Pur non privo di una chiara morale – la redenzione finale del burattino – si distanzia enormemente dai tentativi perbenisti di De Amicis e sa introdurre con eleganza e semplicità situazioni e spunti di riflessione molto profondi che fanno di Pinocchio un testo assai più profondo di quanto si potrebbe pensare ad una prima, superficiale lettura444. Quasi in risposta a Pinocchio, EDMONDO DE AMICIS (Oneglia 1846 - Bordighera 1908) scrisse il romanzo Cuore (1886), “diario” di un bambino di terza elementare letto 441

Piccolo mondo antico (1895), Piccolo mondo moderno (1900) e Il Santo (1905) costituiscono una trilogia. 442 Lo stesso Benito Mussolini curò l’opera omnia di Oriani (1922-33). 443 Pubblicato a puntate sul “Giornale dei Bambini” nel 1880, poi in volume nel 1883. 444 Non a caso – tra i moltissimi studi a lui dedicati – spiccano due contrapposti: la seria analisi teologica del Cardinal Biffi (Contro Mastro Ciliegia) e l’interpretazione misteriosofica di Nicola Coco e Alfredo Zambrano (Pinocchio e i simboli della “Grande Opra”). Ma esistono anche interpretazioni ateistiche, anarchiche, sociali, massoniche e, naturalmente, non è mancata una delirante interpretazione freudiana a proposito dell’allungamento del naso e del rapporto con Geppetto…

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L’Ottocento da intere generazioni di adolescenti. Pur intriso di positivismo (impegno di educazione civile, fede nel socialismo), “Edmondo dei languori”, autore anche di numerosi altri libri (resoconti di viaggi, ricordi, bozzetti), non riesce a liberarsi dalla propria disposizione verso il sentimentalismo e sembra ricollegarsi alla letteratura languida e dolciastra del secondo romanticismo. È stato inoltre fatto notare (Messori) come Cuore cerchi di creare un “pantheon laico parallelo” in cui ai santi sono sostituiti gli eroi, alla religione il culto della Patria, alle feste ecclesiali quelle civili, alla preghiera la lettura mensile. Decisamente più adatto al pubblico adolescenziale EMILIO SALGARI (Verona 1862 Torino 1911) autore di un’ottantina di romanzi avventurosi sulla scia di Verne, Sue e Dumas padre. Celebri il ciclo dei corsari (Il Corsaro Nero, Jolanda, la figlia del Corsaro Nero) e quello dei pirati (I pirati della Malesia, Le Tigri di Monpracem, Sandokan alla riscossa). Disprezzato dalla critica per il suo stile approssimativo, è però pregno di contenuti positivi (onore, fedeltà, amicizia, difesa dei più deboli, etc.). Sempre per i ragazzi scrissero VAMBA (Luigi Bertelli, Firenze 1858-1920) – celeberrimo il suo Giornalino di Giamburrasca (1920) – e YAMBO (Enrico Novelli, Pisa 1876 Firenze 1945), autore di Ciuffettino.

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L’Ottocento

Giosuè Carducci La reazione al secondo romanticismo, languido e patetico, assunse col Carducci aspetti diversi da quelli del verismo: scartando, infatti, la realtà quotidiana, considerata umile e prosaica, si mosse sulla strada di un recupero degli ideali e delle forme dell’arte classica.

La vita Giosuè Carducci nacque a Val di Castello, in Versilia, nel 1835. Trascorse l’infanzia a Bolgheri, in Maremma, dove il padre era medico condotto. Il paesaggio maremmano, semplice e selvaggio, non solo lasciò una decisiva impronta sul suo carattere – dandogli, come egli stesso confesserà, «l’abito fiero e lo sdegnoso canto»445 –, ma ispirò poi, sull’onda nostalgica dei ricordi, alcune delle cose migliori della sua poesia. Oltre alla suggestione operata dal paesaggio contribuirono allora alla formazione del suo carattere impulsivo e battagliero le vicissitudini del padre, perseguitato come mazziniano, e l’entusiastica lettura dell’Alfieri. Studiò a Firenze, poi a Pisa, nella cui Scuola Normale si laureò nel 1855. Nello stesso anno fondò con alcuni amici il cenacolo degli “Amici pedanti”, che si proponeva il compito di combattere insieme il romanticismo, gli influssi stranieri ed il conformismo letterario. L’anno seguente fu chiamato ad insegnare retorica nel ginnasio di San Miniato al Tedesco. Iniziò allora la sua carriera di docente, che lo vide ben presto (1860) sulla cattedra di letteratura italiana dell’Università di Bologna. Da questo momento la sua vita sarà costantemente impegnata, oltre che dall’insegnamento, dagli studi filologici e critici, dalla produzione poetica e dalle battaglie polemiche su temi politici e letterari. Duramente osteggiato nel corso della vita, sia per il suo carattere irruente e battagliero sia per le sua presa di posizione contro l’Italia ufficiale e la Chiesa, vide alfine pubblicamente ed ufficialmente riconosciuti i suoi meriti con la nomina a senatore (1890). Un altro riconoscimento, certamente più ambito, gli venne nel 1906, quando ottenne il premio Nobel per la letteratura. Morì a Bologna nel 1907. Sul piano sentimentale la sua vita fu priva di complicazioni: conobbe amori anche impetuosi, ma mai passionali e patetici cosicché la sua vita coniugale fu tranquilla. A sconvolgerlo affettivamente intervenne però la morte del figlioletto Dante a due anni di età: fu quello il momento più tragico della sua vita, che gli ispirò i versi più teneri e commossi che mai abbia composto (Pianto antico; Funere mersit acerbo).

Orientamenti culturali e poetica Per forma mentis Carducci era negato all’astrazione del pensiero filosofico, preferendo alla “metafisicheria”, come egli diceva, il senso del reale e dell’azione operosa: Meglio oprando obliar senza indagarlo questo immenso mister dell’universo.446

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Giosuè Carducci, Rime nuove, Traversando la Maremma toscana, v. 2. Idem, Idillio maremmano, vv. 38-39.

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L’Ottocento Da questa caratteristica fondamentale del suo spirito nascevano l’adesione al positivismo, la simpatia politica per i movimenti democratici e d’azione, il disprezzo per il misticismo religioso, l’avversione al romanticismo. Il romanticismo, infatti, significò per lui «i nervi che prevalgono sui muscoli, la femminilità che si sostituisce alla virilità, il lamento che prende il luogo del proposito, la vaga fantasticheria che infiacchisce e svoglia dal lavoro. Fu antiromantico altresì perché nel romanticismo sospettò qua e là il misticismo, la trascendenza, l’ascesi» (Croce). E per questo si dichiarò sostenitore del classicismo. Ma come il suo antiromanticismo non fu tanto avversione ad una poetica quanto espressione di un giudizio morale, così il suo classicismo fu anch’esso effetto di una scelta etica: era manifestazione di armonia interiore, di sanità spirituale, di energia morale, di forza ed operosità: era – come metaforicamente disse nella poesia Classicismo e romanticismo – il sole che soccorre benigno al lavoro degli uomini; laddove invece il romanticismo era la luna «monacella lasciva ed infeconda»447, motivo soltanto di languori e di sospiri. Del romanticismo non condivise neanche la concezione di una poesia che nascesse spontanea per effetto di ispirazione e furore poetico. Per lui invece la poesia era frutto di un duro travaglio; era come l’opera dura di un fabbro che nella fiamma getta gli elementi del pensiero per trarne versi: Il poeta è un grande artiere, che al mestiere fece i muscoli d’acciaio […]448

E scrisse inoltre: «Per me era dei rarissimi piaceri della mia gioventù gettare a pezzi e a brani in furia il mio pensiero nei canali del verso, formarlo in abbozzo, e dargli della lima e della stecca dentro e addosso rabbiosamente. Qualche volta andava tutto in bricioli: tanto meglio. Qualche volta resisteva: e io vi tornavo a sbalzi come un orsacchiotto rabbonito, brontolavo e non mi risolvevo a finire». Per un poeta come Carducci, che non conosceva i travagli spirituali e le tormentose passioni, che rifuggiva dal ripiegamento interiore e dagli atteggiamenti mistici e sentimentalistici – e che, d’altra parte, disprezzava anche l’umile realtà quotidiana – l’unica poesia possibile non poteva che essere la poesia della storia. Perciò la storia era la sua grande musa: non l’unica, però: ché anche la natura, ora paesaggio della storia umana (Alle fonti del Clitumno), ora paesaggio di una storia personale e più intima (Davanti San Guido), era per lui motivo di meditazione e di poesia.

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Giosuè Carducci, Rime nuove, Classicismo e Romanticismo, v. 39. Idem, Congedo, vv. 19-21.

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L’Ottocento

L’itinerario poetico a) Da Juvenilia a Giambi ed Epodi La storia della poesia carducciana – se si escludono i componimenti giovanili ripudiati poi dal poeta – si apre con la raccolta Juvenilia. Nonostante una tecnica già esperta nella strutturazione del verso, si tratta di poesia di scuola, nata dallo studio e dall’imitazione formale di modelli classici, desunti dal repertorio latino o da quello italiano (Orazio, Petrarca, Parini, Alfieri, Foscolo). Tanto che lo stesso Carducci affermò: «Se i Juvenilia dovessi risolvermi a lasciarli pubblicare oggi non ne farei probabilmente nulla: tanto essi mi appaiono non pure inferiori, ma per gran parte contrari al concetto che ora ho dell’arte del poetare». Non migliori sono le poesie di Levia Gravia: anch’esse rivelano un Carducci “scudiero dei classici”, un Carducci cioè che non ha ancora trovato una sua propria maniera espressiva e si lega perciò ad un classicismo retorico e ad una mitologia esornativa ed ingombrante. Nel 1863, con l’Inno a Satana, esplode la personalità esuberante, polemica e battagliera del Carducci. Artisticamente l’inno non è gran che (l’autore stesso lo definì poi una “chitarronata”449); tuttavia vi si esprime già tutta l’ideologia carducciana: la sua positivistica fede nel progresso della scienza (simboleggiato in Satana) ed il suo disprezzo per ogni forma di trascendenza e di preoccupazione metafisica. Segue con Giambi ed Epodi, composti tra il 1867 ed il 1872, il momento politico della poesia carducciana. Di fronte al triste spettacolo di un’Italia che passa «tra una pedata / e l’altra»450 – gli insuccessi di Custoza, Lissa e Mentana451 – e che scuote servile «la polve di un’adorazione / per cominciarne un’altra»452, l’opposizione del poeta si traduce in versi collerici: Tutto che questo mondo falso adora co’ l verso audace lo schiaffeggerò; ei mi tese le frodi in sull’aurora, a mezzogiorno io lo calpesterò.453

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E non gli si può dar torto: «Salute, o Satana, / o ribellione, / o forza vindice / de la ragione!» Giosuè Carducci, Inno a Satana, vv. 193-196. 450 Giosuè Carducci, Giambi ed epodi, Canto all’Italia, vv. 41-42. 451 Le prime due delle tre ignominiose disfatte avvennero nel 1866 durante la III guerra d’indipendenza contro gli Austriaci: a Custoza (29 giugno) e nello scontro navale di Lissa (29 luglio); nella sconfitta di Mentana (3 novembre 1867) le “camicie rosse” garibaldine furono fermate dagli zuavi pontifici nel tentativo di dirigersi verso Roma. 452 Idem, vv. 31-32. 453 Idem, Prologo, vv. 25-28.

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L’Ottocento I modelli ora non sono più i classici latini o italiani, ma scrittori stranieri e contemporanei: Hugo454, Barbier455, Heine456; le forme metriche non sono più armoniose e cantanti, ma rotte ed aspre, come di chi parla col tono rauco dell’ira. Ma proprio in quest’atteggiamento del poeta è il limite di questa raccolta: perché la passione è troppo violenta per potersi effondere in canto. b) Da Rime nuove a Rime e ritmi Con Rime nuove ed Odi Barbare, composte per la maggior parte tra il 1871 e il 1889, si entra nella grande stagione della lirica carducciana. Si avverte ora un rasserenamento dell’ispirazione: quasi assente è la polemica politica o comunque meno irruente ed aggressiva. In Rime nuove diffusa è la malinconia dei ricordi, che ispira alcune delle più belle e note liriche carducciane: Pianto antico, Traversando la Maremma toscana, Davanti San Guido. Alla rievocazione storica si ispirano invece Il comune rustico, Faida di comune, Il Parlamento, Sui campi di Marengo e i sonetti del Ça-ira. Ed è sintomatica la scelta degli argomenti che Carducci fa ora dal repertorio storico: il Comune medioevale e la Rivoluzione francese, due momenti storici accomunati dallo stesso ideale di libertà popolare. Nel Parlamento – che avrebbe dovuto far parte di una più vasta Canzone di Legnano – la lotta al Barbarossa è concepita come lotta di popolo: Fra i ruderi che neri verdeggiavan di spine, fra le basse case di legno, ne la breve piazza i milanesi tenner parlamento al sol di maggio. Da finestre e porte le donne riguardavano e i fanciulli.457

Così in Ça-ira è il popolo il protagonista della Rivoluzione, l’artefice stesso della storia: Stà, stà, bianco mugnaio. Oggi il destino per l’avvenire macina l’evento, e l’esercito scalzo cittadino da co’ l sangue a la ruota movimento.

Nelle Odi barbare il panorama storico s’allarga, sì che sembra che realmente il poeta sia salito «de’ secoli su ’l monte»458 per contemplare con ampio raggio il passato: dall’età gloriosa di Roma (Nell’annuale della fondazione di Roma, Dinanzi alle terme di Cara454

Victor Hugo (1802-1885), autore dei celebri romanzi I miserabili, Il Novantatre, L’uomo che ride, Nôtre-Dame. Capo della scuola romantica francese, influenzò fortemente la cultura italiana del secondo Ottocento. 455 Henry-Auguste Barbier (1805-1882), poeta francese (Jambes, 1831) 456 Heinrich Heine (1797-1856), poeta tedesco francofilo (morì a Parigi) di origine ebraica, sansimonista ed amico di Marx, considerato da alcuni il massimo rappresentante tedesco del passaggio da romanticismo a realismo, da altri (Kraus e Croce) aspramente criticato e ridimensionato. 457 Giosuè Carducci, Della canzone di Legnano, Il parlamento, vv. 15-20. 458 Giosuè Carducci, Giambi ed epodi, A certi censori, v. 16.

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L’Ottocento calla, Alle fonti del Clitumno) ai momenti ancor epici del Medioevo (Nella piazza di San Petronio) fino ai fatti più significativi della storia contemporanea (Scoglio di Quarto, Per la morte di Napoleone Eugenio, Miramar). La rievocazione storica non è mai però fine a se stessa: o è motivo di nostalgia per un’età forte ed eroica cui contrasta, espresso o sottinteso, il ripudio di un vile presente; o ispira un suggestivo quadro d’ambiente od un lirico squarcio panoramico – paesaggio e storia si richiamano reciprocamente in Carducci –; o promuove considerazioni morali, quasi metastoriche. Così nella lirica Alle fonti del Clitumno la rievocazione della civiltà classica e pagana gli ispira la polemica contro il cristianesimo mortificante e rinunciatario: quando una strana compagnia, tra i bianchi templi spogliati e i colonnati infranti, procedé lenta, in neri sacchi avvolta, litaniando, e sovra i campi del lavoro umano sonanti e i clivi memori d’Impero fece deserto, et il deserto disse regno di Dio.459

Così nell’ode Nella piazza di San Petronio, in un luminoso paesaggio di tramonto, affascinante è la rievocazione ambientale del Medioevo comunale: quando le donne gentili danzavano in piazza e co’ i re vinti i consoli tornavano.460

Così in Per la morte di Napoleone Eugenio e in Miramar egli esprime il concetto della “Nemesi storica”, di una forza che, pur non essendo trascendente come la Provvidenza manzoniana, ripara alle ingiustizie e alle violenze, determinando così il corso degli eventi, è infatti per espiare le colpe violente dei loro padri che i figli di Napoleone I e di Napoleone III perirono ancor giovani in terra straniera; è per espiare le prepotenze degli Asburgo che il duca Massimiliano, fratello dell’imperatore d’Austria, morì fucilato nel Messico. Altre odi barbare hanno un’ispirazione più personale ed intimistica (Alla stazione in una mattina d’autunno, Sogno d’Estate, Presso l’urna di P. B. Shelley), anticipando quell’atmosfera romantica che sarà fondamentale nella raccolta seguente. Intanto occorre dire che nelle Odi barbare Carducci volle imitare i metri classici antichi, riprendendo tentativi già fatti nella nostra letteratura ed ottenendo tonalità nuove e personalissime. Il perché poi abbia chiamato “barbare” queste odi ce lo spiega egli stesso: Queste odi le intitolai barbare, perché tali sonerebbero agli orecchi e a giudizio dei greci e dei romani, se bene volute comporre nelle forme metriche della loro lirica, e perché tali soneranno pur troppo ai moltissimi Italiani, se bene composte e armonizzate di versi e di accenti italiani.

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Giosuè Carducci, Odi barbare, Alle fonti del Clitumno, vv. 21-28. Idem, Nella piazza di San Petronio, vv. 17-18.

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L’Ottocento Nell’ultima raccolta di poesie, intitolata Rime e ritmi e pubblicata nel 1899, vi sono liriche in rima e liriche in versi barbari. Qui la vena storica sembra essersi esaurita, sfociando in costruzioni letterarie e stilizzate non prive di declamatoria solennità. Per alcuni critici l’involuzione ideologica sarebbe stata la causa dell’involuzione artistica, dato che il poeta avrebbe perduto la propria carica ideale, diventando un poeta conformista e benpensante, che osannava ai Savoia e plaudiva al nazionalismo ed al colonialismo. Sia come sia, il meglio deve ora essere cercato nelle liriche meditative e malinconiche, nelle quali è evidente un ripiegamento del poeta verso toni ed atmosfere romantiche. Di tali liriche le più belle e più note sono Jaufré Rudel, una patetica storia d’amore che, secondo un tema caro ai romantici, si rivela nel momento della morte; e la Chiesa di Polenta, nella quale una stanchezza malinconica ed un desiderio di pianto e di quiete invadono il poeta ormai vecchio: Un oblio lene de la faticosa vita, un pensoso sospirar quiete, una soave volontà di pianto l’anime invade.461

Il prosatore ed il critico Carducci fu un instancabile scrittore in prosa: lettere, articoli di giornale, polemiche (raccolte in Confessioni e battaglie e Ceneri e faville), discorsi politici e letterari, saggi critici. La sua prosa è vigorosa ed eloquente e si avverte in essa un’attenta cura stilistica ed una ricerca di effetti; quando però l’autore è ispirato dalla passione la pagina assume una sua propria bellezza poetica. La maggior parte delle prose carducciane riguarda la critica letteraria: interessanti i suoi Discorsi sullo svolgimento della letteratura nazionale (dal Medioevo al Cinquecento) ed i suoi saggi su Cino da Pistoia, su Poliziano, sulle rime di Dante, sull’Ariosto e sul Parini. Ostile alla critica estetica – né poteva non esserlo data la sua scarsa cultura filosofica e la sua avversione a tutti i “filosofemi” –, voleva una critica che non esprimesse giudizi opinabili, ma che fosse invece accertamento storico-filologico e che perciò facesse suo il compito di curare pazientemente i testi, di ricercare accuratamente documenti e dati, di studiare la formazione dell’autore e della sua opera inquadrandoli nel proprio ambiente storico. Tale orientamento critico, che si disse storico-filologico e che rappresentava l’aspetto critico-letterario della cultura positivistica, oltre a Carducci ebbe altri illustri cultori in DOMENICO COMPARETTI (1835-1927), ALESSANDRO D’ANCONA (1835-1914), ADOLFO BARTOLI (1833-1894), PIO RAJNA (1847-1930).

Giudizi critici L’accusa più frequentemente mossa alla poesia di Carducci è stata quella di essere “professorale”, costruita cioè di erudizione e di ricerche retoriche. Lo avvertì per primo il 461

Giosuè Carducci, Rime e ritmi, La chiesa di Polenta, vv. 121-124.

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L’Ottocento Fortebracci, contemporaneo del poeta, che disse che quella del Carducci era poesia di un professore incapace di dimenticare la cattedra. Il giudizio venne ripreso poi dal d’Annunzio, il quale, pur confessando di essere per tanti versi debitore al Carducci, lamentava il fatto che nelle sue poesie avvertiva a volte «il lezzo della scuola cancerosa». Accettabile a questo proposito ci sembra l’interpretazione critica del Croce: la poesia del Carducci non è professorale o almeno non è tutta professorale. Secondo il suo schema critico di “poesia” e “non poesia”, Croce ravvisa la grande poesia carducciana, fatta di motivazioni etico-politiche, storico-epiche ed autobiografiche, nelle Rime nuove e in Odi barbare; mentre invece tutto il resto – Juvenilia, Levia gravia, Giambi ed Epodi, Rime e ritmi – sarebbe “non poesia” o poesia professorale e praticistica.

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Il Novecento

Premessa Il primo problema che si presenta a chi si accinge a stendere un panorama della letteratura italiana del Novecento è quello della determinazione stessa del concetto di Novecento462. Se, infatti, una scansione di fatti letterari per secoli è sempre disagevole, essa si rende difficile addirittura allorquando si tratta di rinvenire la linea di scansione tra Otto e Novecento. E non tanto per puri dati anagrafici – si pensi alle biografie letterarie di d’Annunzio e Pascoli, divise tra i due secoli – quanto per l’interiorità stessa di scrittori – ed è sempre il caso dei due autori citati – che, se poer un verso sono ancora legati ad una cultura italiana ottocentesca, dall’altra già risentono di quella temperie nuova che è il Decadentismo, che – anche se con fasi e modi diversi – caratterizza il sorgere del secolo ventesimo.

Il Decadentismo Verso la fine dell’Ottocento andò sempre più diffondendosi uno stato di insoddisfazione e di scontento nei confronti della cultura positivistica. Nel 1893 Gabriele d’Annunzio scriveva: L’esperimento è compiuto. La scienza è incapace di ripopolare il disertato cielo, di rendere la felicità alle anime in cui ella ha distrutto l’ingenua pace […]. Non vogliamo più la verità. Dateci il sogno. Riposo non avremo se non nelle ombre dell’ignoto.

L’insoddisfazione in parte era dovuta ai limiti che il positivismo conteneva in se stesso – la povertà speculativa, il presumere di potere estendere a tutti i campi i metodi di ricerca delle scienze naturali, il determinismo psicologico, la pretesa di voler ridurre e delimitare i campi dell’arte ed anche della critica artistica – in parte anche ad un mutato quadro storico sociale ed al determinarsi quindi di nuovi atteggiamenti spirituali.

Il quadro storico-sociale Gli inizi del Novecento erano contrassegnati, sul piano politico, da una ripresa dei nazionalismi: il pangermanesimo, il panslavismo, l’imperialismo coloniale inglese, lo spirito della revanche in Francia. Si trattava di nazionalismi diversi da quelli dell’Ottocento, perché mentre quelli avevano teso al raggiungimento dell’indipendenza nazionale – risorgimenti italiano, belga, ungherese, greco, germanico – questi miravano all’affermazione imperialistica delle grandi potenze. L’Italia, nata da poco, priva di un’illustre tradizione militare (agli insuccessi di Custoza, di Lissa e di mentana va aggiunta la disfatta di Adua) ed occupata in problemi interni di natura sociale, economica, organizzativa, cercava a fatica di allinearsi tra le grandi potenze, intraprendendo anch’essa una timida e non sempre felice politica di espansione coloniale (conquista 462

Cfr Alessandro Zaccuri, Il futuro a vapore. L'Ottocento in cui viviamo, Medusa, Milano 2004.

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Il Novecento dell’Eritrea, della Somalia, della Libia). Le spinte nazionalistiche si accompagnavano naturalmente a posizioni ideologiche antidemocratiche, antiegualitarie, che esaltavano il culto della forza, della violenza, della guerra e che provavano attrazione per le forme di governo totalitario e dittatoriale. Si assisteva così in tutta Europa – e quindi anche in Italia – ad un’inversione ideologica: la spinta sociale, che si era fatta largo nel corso della seconda metà dell’Ottocento, con la nascita dei partiti operai e con le prime manifestazioni di “lotta di classe”, veniva ora contrastata dal diffondersi e prevalere dei programmi nazionalistici – per l’Italia anche irredentistici – che finiranno col coinvolgere l’Europa nella prima guerra mondiale; e che, per nulla indeboliti da quel lavacro di sangue, riprodurranno proprio nelle più giovani tra le grandi potenze europee, l’Italia e la Germania, le dittature fascista e nazista e nuovi programmi nazionalistici che avrebbero portato al conflitto mondiale.

L’atteggiamento culturale e spirituale Nella sua avversione al positivismo materialistico il decadentismo si poneva come reazione spiritualistica o – come dice Salinari – neo-romantica, accogliendo contemporaneamente e indistintamente idealismo, spiritualismo, vichismo, pragmatismo e, più tardi, anche neoidealismo, psicanalisi ed esistenzialismo. Quel che infatti meglio caratterizzava il decadentismo non era tanto un aspetto costruttivo unitario ed organico, quanto, invece, la convinta opposizione nei confronti della cultura che aveva caratterizzato la seconda metà dell’Ottocento e che Prezzolini così definiva: «Positivismo, erudizione, arte verista, metodo storico, materialismo, varietà borghesi e collettivistiche della democrazia: tutto questo puzzo di acido fenico, di grasso e di fumo, di sudor popolare». Da tale ripresa spiritualistica derivavano, di conseguenza, una svalutazione della scienza, uno scarso impegno per i problemi di natura economica e sociale e, all’inverso, un vasto interesse per la metafisica, per le scienze occulte e per la psicanalisi – è del 1903 la fondazione da parte di Freud della “Società viennese psicanalitica”. L’ondata antidemocratica ed antiegualitaria, il culto della violenza tanto a livello di vita collettiva – l’esaltazione della guerra – quanto a livello di vita individuale – si pensi al “superuomo” dannunziano – infrangevano il senso dei rapporti sociali esasperando l’individualismo. L’uomo, incapace di stabilire rapporti con i suoi simili, avvertiva il peso della sua solitudine, cadendo in un solipsismo angoscioso. D’altra parte, la perdita della fiducia nella scienza e nelle sue promesse apriva la strada ad una concezione relativistica della realtà: tutto appariva inorganico, mobile, sfuggente, misterioso. Religione e morale perdevano anch’esse di consistenza oggettiva: diventavano sensazioni, impressioni, manie, complessi, incubi; da qui la mancanza di un punto di riferimento valido ed oggettivo e quindi il senso di smarrimento dell’uomo in un universo in cui si sentiva solo ed estraneo.

Gli atteggiamenti letterari Il nome “decadentismo” nacque dalla testata del giornale “Le décadent” che nacque in Francia nel 1886. Inizialmente la parola aveva un significato negativo. In un articolo

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Il Novecento pubblicato da quella rivista il 10 aprile 1886, infatti, si leggeva: «Sarebbe il massimo della follia dissimularsi lo stato di decadenza a cui siamo arrivati. Religione, costumi, giustizia, tutto decade, […] la società si disgrega sotto l’azione corrosiva di una civiltà in deliquio. L’uomo moderno è sazio e indifferente. Raffinamento di appetiti, di sensazioni, di gusti, di lusso, di piaceri, nevrosi, isterismo, ipnotismo, morfinomania, ciarlatanesimo scientifico, schopenhauerismo, tali sono i prodromi dell’evoluzione sociale». In seguito la parola “decadentismo” perse il suo originario significato critico e negativo, assumendo quello di semplice definizione di un certo momento letterario e poi anche più ampiamente culturale che, iniziatosi con la fine dell’Ottocento – prime opere di Pascoli e d’Annunzio – si è continuato fino alla seconda guerra mondiale. Abbracciando un così ampio periodo storico, il decadentismo non poteva non determinare atteggiamenti letterari diversi – simbolismo, estetismo, crepuscolarismo, futurismo, ermetismo… – aventi però sempre una matrice comune – la spiritualità decadente di cui si è parlato – ed anche fattori comuni. Tali fattori comuni erano: il motivo della solitudine e dell’angoscia dell’uomo; la ribellione nei confronti del passato e l’attenzione rivolta al futuro; l’abbandono delle trame discorsive e narrative sostituite dall’introspezione, dalle impressioni sfuggenti, dalle effusioni liriche; la prevalenza dell’autobiografismo sulla narrazione obiettiva; il rifiuto delle tecniche tradizionali fondate su elementi logici, sostituite con tecniche nuove basate soprattutto sul valore emozionale e fonico della parola; la ricerca di un linguaggio nuovo non vincolato dalla sintassi, dalla punteggiatura, dalla stessa struttura logica, ma tutto balenii, ellissi, analogie. Anche la critica letteraria mostrava stanchezza nei confronti del metodo storicofilologico dell’età positivistica e, riprendendo l’indirizzo estetico desanctisiano, giungeva con Croce alla concezione dell’arte come “intuizione pura”. Pur senza volere affrontare ora il problema dell’estetica crociana – del quale si parlerà in seguito – giova dire intanto che, come l’arte decadente era intesa come impressioni, sensazioni, frammenti lirici, sciolti da ogni trama organica e liberi da impegni creativi e sociali, così la critica si studiava di cogliere nell’opera letteraria i momenti di pura poesia, isolandoli dal contesto pragmatico e prosastico.

Il pubblico Tali atteggiamenti letterari e tali nuove tecniche espressive rendevano certamente più difficile, più “ermetica” e meno comunicativa la pagina scritta, la cui fruizione era pertanto riservata a pochi iniziati. Questo però non vuol dire che si determinasse così una riduzione del pubblico letterario. E ciò perché, a fianco ad una letteratura che potremmo definire di “avanguardia” o anche di circoli culturali o antologica, i grandi mezzi di comunicazione di massa che ora andavano affermandosi – i rotocalchi, il cinema, la radio e più tardi la televisione – diffondevano (o producevano addirittura) una letteratura per un pubblico tanto vasto463, di 463

Si pensi a GUIDO DA VERONA (1881-1939), che “borghesizzava” gli aristocratici eroi del Vate e che fu definito dal critico Adriano Tilgher «il d’Annunzio delle dattilografe e delle manicure»; a CAROLINA INVERNIZIO (1851-1916) che si rivolgeva ad un pubblico ancor più popolare; a LUCIANO

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Il Novecento cui soltanto un decennio prima non si poteva immaginare l’eguale. E ciò questi mezzi di comunicazione riuscivano a fare mediante una pluralità di iniziative: o creando nuovi generi letterari – si pensi ai radiodrammi, agli atti unici, alle variazioni sul tema; alle novelle e ai romanzi a puntate pubblicati sui rotocalchi femminili; ai soggetti cinematografici; anche ai telefilm e agli sceneggiati televisivi – oppure riproponendo opere letterarie e teatrali del tempo precedente; o ancora presentando, con commento o adattamento o riduzione, opere d’avanguardia.

ZUCCOLI (1868-1912), scrittore passionale dalle forti tinte; a LIALA (Amalia Liana Cambiasi Negretti, 1902-1995) e a SIBILLA ALERAMO (1876-1960) che fecero nascere il romanzo rosa italiano.

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Il Novecento

I poeti dei miti decadenti Nel clima del decadentismo, che pur presenta una fenomenologia abbastanza complessa, si possono individuare due atteggiamenti fondamentali: uno che potremmo definire mitologico ed uno che, rivelando una lucida coscienza della crisi, potremmo dire critico. Rappresentano l’atteggiamento mitologico quegli scrittori che soffrono la crisi decadente senza porsi un’analisi delle sue ragioni, tentando invece di reagire ad essa proponendosi dei miti, nei quali cercano possibilità di salvezza e modelli di comportamento. Tale funzione assumono i miti del “fanciullino” pascoliano e del “superuomo” dannunziano.

Giovanni Pascoli «Tutta la poetica pascoliana s’indirizza in un’unica direzione: la scoperta dell’infanzia. Per lui il poeta coincide con il “fanciullino” che sta dentro di noi: anzi l’età veramente poetica è quella infantile e nel ricordo dell’infanzia si esaurisce la poesia più autentica» (Salinari). Questa scoperta dell’infanzia è un atteggiamento decadente, perché vuole essere un’evasione dai problemi del mondo moderno, una fuga dal reale, una difesa dall’alienazione, insomma «il vagheggiamento di un luogo che si sottragga al caos e alle contraddizioni della società contemporanea, di un’oasi di originale innocenza in cui non giungano gli echi delle violenze e delle brutture della nostra vita, in cui si spengano i contrasti e le lotte, in cui si vanifichino i nostri problemi» (Salinari). La stessa predilezione per la campagna – in contrasto con la città – ed anche la concezione evangelica e francescana dell’esistenza rientrano in questo culto per l’infanzia e per la sua innocenza. a) La vita Giovanni Pascoli nacque a San Mauro di Romagna, in provincia di Forlì, nel 1855. Il padre, che come fattore amministrava la tenuta dei principi Torlonia, venne ucciso da ignoti quando Giovanni aveva appena dodici anni. A quella tragedia, che lasciò un’impressione insanabile nell’animo del poeta, successero altri lutti: morirono, l’anno seguente, la madre e la sorella maggiore; e Giovanni rimase così il primo di sette orfani. Frequentò gli studi medi a Rimini, poi la facoltà di lettere a Bologna, dove fu discepolo del Carducci. Quindi, per la miseria, dovette abbandonare gli studi. Fu allora che, irritato e deluso, si iscrisse all’Associazione internazionale dei lavoratori, collaborando anche al giornale socialista “Il martello” e partecipando a dimostrazioni di piazza. Per questo fu finanche arrestato e rimase per più di due mesi in carcere. Uscitone, disperato per non riuscire a trovar lavoro, meditò il suicidio nel Reno, ma lo salvò la voce dei suoi morti: Una notte su la spalletta del Reno, coperta di neve,

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Il Novecento dritto e solo (passava in fretta l’acqua brontolando, Si beve?); dritto e solo, con un gran pianto d’avere a finire così, mi sentii d’un tratto daccanto quel soffio di voce… Zvanî…464

Poi uscì dalla politica – auspicando l’avvento di un socialismo ideale basato sul reciproco amore degli uomini –, riprese gli studi e si laureò. Insegnò in diversi licei; quindi, per i consensi che andavano raccogliendo le sue prime raccolte di versi e soprattutto per il merito di aver vinto la medaglia d’oro nel concorso di Amsterdam per un carme in latino, gli fu affidata la cattedra di grammatica greca e latina all’università di Bologna; e più tardi, realizzando così una sua grande aspirazione, salì sulla cattedra di letteratura italiana che era già stata di Carducci. Intanto viveva con la sorella Maria tra Bologna e Castelvecchio, dove aveva acquistato una casa di campagna. Era, la sua, una vita «innocua, appartata umile e pura», come egli stesso la definì, e a vederlo – è sempre lui che racconta – molti lo prendevano per un fattore anziché per un poeta. Morì a Bologna nel 1912. b) La poetica e la poesia Nella sua prosa Il fanciullino Pascoli traccia la sua poetica. Per lui in ogni poeta è un fanciullino: Egli è quello che ha paura del buio, perché al buio vede o crede di vedere; quello che alla luce sogna o sembra sognare, ricordando cose non vedute mai; quello che parla alle bestie, agli alberi, ai sassi, alle nuvole, alle stelle; che popola l’ombra di fantasmi e il cielo di dèi. Egli è quello che piange e ride senza perché, di cose che sfuggono ai nostri sensi e alla nostra ragione […]. E ciarla intanto, senza chetarsi mai; e, senza lui, non solo non vedremmo tante cose a cui non badiamo per solito, ma non potremmo nemmeno pensarle e ridirle, perché egli è l’Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente. Egli scopre nelle cose le somiglianze e le relazioni più ingegnose.

Da una simile poetica, che faceva prevalere il valore dell’immaginazione e della sensibilità – caratteristiche tipicamente infantili – non poteva che nascere una poesia alogica, frammentaria, priva di un tessuto narrativo e di schemi oratori, ma tutta impressioni, immagini, visioni, sensazioni; una poesia in cui il significato nascosto e l’anima profonda delle cose tenevano il posto della loro rappresentazione esteriore – in questo consiste il simbolismo pascoliano –, in cui il senso del mistero prevaleva sulla realtà, l’angoscia sull’azione. Una poesia che, guardando il mondo con gli occhi stupiti ed immaginosi dell’infanzia, dava anima alle cose, anche le più piccole ed inerti, suscitando in esse una vita ed una sensibilità quasi umane. La scoperta dell’infanzia non era soltanto un modo di concepire la poesia, ma materia stessa di poesia. Il recupero dei ricordi infantili è infatti uno dei motivi predominanti nella poesia pascoliana ed anche dei più autentici. Sia che il poeta rievochi – come fa in X 464

Giovanni Pascoli, Canti di Castelvecchio, La voce, vv. 17-24.

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Il Novecento Agosto e nella Cavallina storna – la tragica morte del padre, che ora, nella sua coscienza sgomenta e angosciata di adulto, assume il significato di quella brutale violenza umana che rende triste e disperata l’esistenza che, per sua natura, sarebbe bella e felice: E tu, Cielo, dall’alto dei mondi sereni, infinito, immortale, oh! d’un pianto di stelle lo inondi quest’atomo opaco del Male!465

Sia che cerchi il recupero delle memorie e del caldo e tenero ambiente familiare: Per un attimo fui nel mio villaggio, nella mia casa. Nulla era mutato. Stanco tornavo come da un viaggio; stanco, al mio padre, ai morti, ero tornato. Sentivo una gran gioia, una gran pena: una dolcezza ed un’angoscia muta. – Mamma? – È là che ti scalda un po’ di cena. – Povera mamma! e lei, non l’ho veduta.466

Sia che ricordi le sue paure di fanciullo: «Fratello, l’hai sentito ora un lamento lungo, nel buio?» «Sarà forse un cane…» «C’è gente all’uscio…» «Sarà forse il vento…»467

Intimamente connessi col recupero memoriale dell’infanzia sono i temi del mistero e del dolore, che hanno per il Pascoli un loro particolare fascino, perché di fronte ad essi egli avverte una specie di intima voluttà. Il mistero era infatti per lui (e non era stato così anche per Leopardi?) la sorgente del sogno: scrisse che era bello bussare a porte destinate a restar chiuse, seder sulla soglia e sognare. Il dolore gli appariva come il sale stesso della vita, il sentimento per cui l’uomo differisce dalle bestie: Dio non negare il sale alla mia mensa, non negare il dolore alla mia vita.468

I critici simbolisti (tra cui Barberi Squarotti) ha messo in evidenza quanta parte abbia nella poesia del Pascoli il mondo degli uccelli (i fringuelli, il pittiere469, la capinera, l’allodola, etc.); e non per una predilezione puramente zoologica o naturalistica, ma per una significazione simbolica: gli uccelli rappresentavano per lui un elemento aereo, il simbolo di un’evasione dal mondo reale, nato dalla coscienza che il mondo è dolore. La lingua poetica del Pascoli non è arcaica, aristocratica, peregrina: è fatta di parole usuali, quotidiane che però, incastonate nei versi, acquistano una loro propria vibrazione, 465

Giovanni Pascoli, Myricae, X agosto, vv. 21-24. Idem, Sogno. 467 Giovanni Pascoli, Primi poemetti, I due orfani, vv. 4-6. 468 Idem, L’eremita, vv. 2-3. 469 Pettirosso. 466

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Il Novecento una suggestione tutta particolare, una musicalità tenue e malinconica. È una lingua ricca di onomatopee e di elementi fonico-simbolici: don don; gre gre; tin tin; tac tac; uid uid, etc. Il linguaggio pregrammaticale e agrammaticale di Pascoli – scrive Contini – nasce dal suo modo tutto fanciullesco e alogico di intuire e vedere la realtà, un modo in cui i limiti tra realtà e mistero sono indeterminati e sfumati. c) Le opere Quel poeta-fanciullo che fu il Pascoli arrivò tardi alla poesia, se escludiamo gli esperimenti giovanili di quasi nessun valore artistico. Infatti, la prima raccolta di poesie, Myricae (il titolo è tratto da un verso di Virgilio e ricorda le tamerici, piccoli arbusti), fu pubblicata quando il poeta aveva già trentasei anni. Seguirono: i Poemetti (ripubblicati poi in due raccolte distinte: Primi poemetti e Nuovi poemetti) e i Canti di Castelvecchio. In queste raccolte non si nota un vero svolgimento della poesia pascoliana: in tutte predominano gli stessi temi a cui abbiamo accennato. Interessi ed atteggiamenti diversi si riscontrano invece nei Poemi conviviali (così detti per essere stati pubblicati nella rivista “Il Convito”) e nei Carmina in lingua latina: qui il poeta si ispira al mondo classico greco-latino, rievocandone miti e figure. Ma è una rievocazione quale poteva fare il Pascoli, tutta pervasa di sensibilità moderna e cristiana. Giustamente è stato notato che egli si avvicinava al mondo classico con un atteggiamento completamente diverso da quello degli scrittori classicheggianti, compreso lo stesso Carducci: se questi, infatti, tendevano a costruire il presente sul modello del mondo classico, Pascoli riplasmava il passato dandogli un’anima presente. Un atteggiamento ancora diverso si riscontra nelle raccolte Odi e Inni, le Canzoni di Re Enzio, Poemi italici e Poemi del Risorgimento. Qui il poeta, che per temperamento oltre che per orientamento poetico era sempre rifuggito dalla violenza e quindi dai temi eroici – e la storia stessa aveva giudicato un nastro di sangue che gli uomini lasciano alle loro spalle nel cammino attraverso i secoli – sia per l’estrema suggestione ancora esercitata dal recente Risorgimento, sia soprattutto perché influenzato dall’ideologia nazionalistica del suo tempo, tentava la poesia politica e civile ed affrontava i temi stessi della storia con risultati senz’altro scadenti nei confronti della sua poesia più autentica. Per concludere è necessario aggiungere qualcosa sulla prosa del Pascoli, il quale, data la sua caratteristica di scrittore alogico e poco disposto alle costruzioni architettoniche, doveva naturalmente riuscire più poeta che prosatore. Tra i suoi tre discorsi politici il più noto è quello stilato per celebrare l’impresa libica (La grande proletaria s’è mossa), nel quale, cercando fondere un certo sentimentalismo socialistoide con l’ideologia nazionalistica, inneggiava al colonialismo come ad una conquista del proletariato italiano. Più importanti sono gli scritti critici, soprattutto danteschi: Minerva oscura, Sotto il velame, La mirabile visione. La sua interpretazione del poema dantesco è ricca di simbo-

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Il Novecento li, di allegorie, di spiegazioni spiritualistiche a volte suggestive, ma spesso complicate e difficilmente accettabili470.

Gabriele d’Annunzio Se il decadente Pascoli cercava rifugio nel recupero dell’infanzia, d’Annunzio, anch’egli formatosi nella temperie decadente, lo cercava nel mito del “superuomo” ed in una concezione estetizzante della vita e dell’arte. a) La vita Come gli scapigliati, ma ad un livello diverso, Gabriele d’Annunzio tese ad identificare la vita con l’arte, vivendo effettivamente quella vita febbrile, erotica, estetizzante, da protagonista mondano che andava raffigurando ed esaltando nelle sue opere; sicché il fenomeno d’Annunzio non è soltanto un fenomeno letterario, ma un fenomeno umano: un tipo di esistenza esasperatamente erotica, panica, raffinata, mondana ed insieme eroica. Nacque a Pescara nel 1863, studiò in collegio a Prato e compose allora la sua prima raccolta di poesie: Primo vere. Trasferitosi a Roma, divenne presto, per la sua effervescente attività di giornalista e di scrittore, l’idolo dell’alta società romana, della quale condivise ed esaltò le mode. Nel 1897, a seguito di una brillante campagna elettorale, fu eletto deputato in Parlamento e si schierò all’estrema destra; ma poi, con un gesto clamoroso, passò all’estrema sinistra, pronunziando la famosa frase «Vado verso la vita!». Si era intanto stabilito in Toscana, in una splendida villa di Settignano (“la Capponcina”), dove, come egli stesso disse, «ritrovò i costumi e i gusti di un signore del Rinascimento fra cani, cavalli e belli arredi» e dove visse le sue relazioni amorose tra cui quella con la celebre attrice Eleonora Duse. Ma le spese affrontate per arredare la sua villa e per vivere tanto sontuosamente lo coprirono di debiti che non poté pagare: la villa fu sequestrata, mentre già il poeta si era trasferito in Francia, sulla costa atlantica. Lo scoppio della prima guerra mondiale nel 1914 lo fece tornare in Italia: si schierò subito per l’intervento, pronunziando infuocati discorsi contro la politica rinunciataria dell’Italia giolittiana. Partito per il fronte, si distinse in numerosi fatti d’arme, tra cui i più clamorosi furono la beffa di Buccari, il volo su Trieste e quello su Vienna, compiuti quando già, per una precedente azione di guerra, aveva perduto l’occhio destro. Insoddisfatto della pace e della “vittoria mutilata” e temendo per il destino di Fiume e della Dalmazia, compì con pochi fidi la marcia su Fiume, occupando la città ed assumendone il comando. Attaccato dalle stesse truppe italiane, per evitare che si spargesse altro sangue fraterno abbandonò la città, stabilendosi a Gardone, sul lago di Garda, in una villa che egli battezzò “il Vittoriale” ed arredò con gusto decisamente eclettico. Aderì ideologicamente al fascismo, ma poi si chiuse in un isolamento occupato soltanto dall’attività 470

Assieme a Gabriele Rossetti e a Luigi Valli, Giovanni Pascoli è tra i principali assertori dell’esistenza di un gruppo esoterico – i fedeli d’Amore – di cui avrebbe fatto parte Dante e i cui membri avrebbero comunicato tra di loro attraverso i componimenti poetici. Alla questione ha dato ampio spazio anche Julius Evola ne Il mistero del Graal.

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Il Novecento letteraria. Morì nel 1938 al “Vittoriale degli Italiani” che aveva donato da anni alla patria («Io ho quel che ho donato»). b) La poetica L’esasperante e raffinato erotismo, il gusto della vita sontuosa, i gesti clamorosi, le stesse imprese valorose non erano in d’Annunzio fine a se stesse. Erano modi con cui voleva attuare ed imporre la sua personalità, un modo per formarsi un senso della vita che sentiva mancargli. Il suo mito del “superuomo” non nacque dall’incontro culturale con Nietzsche – anche se quell’incontro chiarì il suo pensiero –, ma dal volersi prospettare una “morale eroica”, dal volere trasferire fatti, atteggiamenti, istinti in un mondo superiore, aristocratico. Il mito del superuomo consentiva inoltre al poeta la possibilità di configurarsi per proprio conto un mondo che, discostandosi dal reale, assumesse le forme della bellezza, delle sensazioni raffinate, dei piaceri squisiti. Il poeta-superuomo è infatti al di sopra della realtà; egli opera una continua traduzione “estetica” della natura, liberandosi da ogni legame concreto con le cose. Questa traduzione estetica della realtà il poetasuperuomo compie per mezzo della parola, la cui potenza e infinita: O poeta, divina è la Parola ne la pura Bellezza il ciel ripose ogni nostra letizia; e il Verso è tutto.471

E scrisse anche: «C’è una sola scienza al mondo, suprema, la scienza delle parole. Chi conosce questa, conosce tutto, perché tutto esiste per mezzo del verbo». Nasceva da ciò il suo “amore sensuale della parola”, il suo caricarla di allusioni simboliche, di sottili connotazioni, il suo dissolverla in musica. Scrisse nel Notturno: «La parola che scrivo nel buio, ecco, perde la sua lettera e il suo senso. È Musica». E nel Trionfo della morte: [gli scrittori italiani] hanno elementi musicali così varii e così efficaci da poter gareggiare con la grande orchestra wagneriana nel suggerire ciò che soltanto la Musica può suggerire all’anima moderna472.

Da questo esasperato culto della parola nasceva un rischio: quello di ridurre la poesia ad uno scintillio di immagini, ad un puro gioco di suoni e di colori senza un mondo interiore ed un contenuto ideale. Rischio nel quale il poeta cadde tutte le volte che non riuscì a legare alla musica dei suoi versi ed alla sua squisita sensibilità letteraria un sottofondo di emozioni spirituali: come era quella sua particolare voluttà di farsi e sentirsi natura (La pioggia nel pineto) o quella languida estenuazione e stanchezza dei sensi che lo pervadeva a tratti pur tra tanto decantato erotismo (Poema paradisiaco, Notturno).

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Gabriele d’Annunzio, Isotteo, Epodo, sonetto IV, vv. 12-14. Gabriele d’Annunzio, Trionfo della morte, Lettera dedicatoria a Francesco Paolo Michetti. Nel corso del romanzo, d’Annunzio gareggerà direttamente con Wagner, proponendo una descrizione dei brani salienti del Tristan und Isolde, ascoltato dal protagonista a Bayreuth, descrizione che vuole essere quasi una parafrasi e che ha il sapore di sfida. 472

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Il Novecento c) Le opere Gabriele d’Annunzio fu uno spirito eclettico; e come accolse e riplasmò le più varie e discordi influenze letterarie – dal classicismo paganeggiante del Carducci al verismo del Verga, dal parnassianesimo473 al simbolismo474, dal romanzo russo di Tolstoj a quello di Dostoevskij – così curò con eguale attenzione la narrativa, il teatro e la poesia. La poesia fu però la sua prima e più congeniale espressione artistica. Alla raccolta Primo vere, composta in collegio sotto l’influsso del classicismo carducciano, seguì Canto novo, che fu la prima rivelazione del vero d’Annunzio. Egli stesso scrisse: «Mi son trovato!… C’era quel mago di Carducci che mi schiacciava… Ho avuto la forza di ribellarmi, e con un lento e laborioso processo son venuto fuori io, tutto io». Infatti, sia che cantasse l’amore sia che cantasse la natura, i toni erano già quelli vividi, violenti e raffinati insieme, tipicamente dannunziani. Perciò Canto novo fu subito definito dalla critica «un’ebbrezza di luce e di colori», «un canto di giovinezza e d’amore, un canto di gloria per la poesia e la natura». Lo stesso poeta, infatti, scriveva: Canta l’immensa gioia di vivere d’esser forte, d’esser giovine475

Ad una sensualità istintiva e violenta si ispirava, invece, la raccolta Intermezzo, che nasceva da esperienze di una vita mondana raffinata ed elegante – fatta di «fulgidi amori e lussi mirabili ed ozi profondi» – e che perciò provocò molto scandalo quando venne alla luce, creando intorno al d’Annunzio la fama di poeta erotico e corrotto. Un’ispirazione più intimistica, fatta di un recupero di memorie, di un desiderio di innocenza, di una stanchezza malinconica, è alla base del Poema paradisiaco. Di questa raccolta la lirica più bella è Consolazione: il poeta, ormai «stanco di mentire», ricerca presso la madre l’innocenza di un tempo lontano; al contrario le Odi navali, celebrative di imprese eroiche e perciò poesia metà d’occasione e metà retorica, rappresentano un’involuzione nell’itinerario poetico del d’Annunzio. La grande poesia torna però con i quattro libri delle Laudi (Maia, Elettra, Alcyone, Merope), che vogliono nel loro complesso essere un poema in lode della vita, della bellezza, della gioia e del valore. Le liriche migliori sono nel terzo libro476: qui sostanza della lirica è un’esplosione di “panismo”, la capacità del poeta di fondersi con la natura, di coglierne i brividi e le voci, di sentire e rendere l’immensa sinfonia dell’universo. Ne La pioggia nel pineto, una delle liriche più belle del d’Annunzio, sotto la pioggia che imbeve ogni erba, due creature vi473

Il “parnassianesimo” è un movimento poetico sorto in Francia intorno al 1870. I parnassiani coltivano un ideale di poesia formalmente impeccabile ed emotivamente impassibile. In contrasto quindi con la tradizione romantica di un’arte passionale. 474 Il “simbolismo” è un movimento poetico sorto in Francia negli ultimi decenni dell’Ottocento. Secondo i simbolisti la poesia, procedendo per simboli, assume una funzione rivelatrice di profonde verità metafisiche e inconsce. 475 Gabriele d’Annunzio, Canto novo (versione 1896), Canto dell’Ospite, XI. 476 Alcyone ha anche il pregio dell’unità di luogo e di azione, descrivendo un’estate versiliana dalla tarda primavera all’autunno.

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Il Novecento venti sembrano farsi anch’esse sostanza arborea, dissolvendosi e fondendosi con la natura: E immersi noi siam nello spirto silvestre, d’arbòrea vita viventi; e il tuo volto ebro è molle di pioggia come una foglia, e le tue chiome auliscono come le chiare ginestre, o creatura terrestre che hai nome Ermione.477

Contemporaneamente d’Annunzio compiva felicemente le sue esperienze di prosatore. Dopo le raccolte di novelle Terra vergine (1883) e le Novelle della Pescara (1902), il cui modello (anche se remoto) era Verga, ecco il primo romanzo: Il Piacere (1889). Il protagonista, Andrea Sperelli, è un intellettuale “impregnato d’arte”, in cui la volontà ha lasciato campo agli istinti ed il senso estetico ha sostituito il senso morale. In un personaggio simile non è difficile scoprire un ritratto dello stesso autore. Del resto, in tutti i romanzi dannunziani costante si avverte la presenza di d’Annunzio. Nel Trionfo della morte (1894) il protagonista, Giorgio Aurispa, è anch’egli, come Andrea Sperelli, un sensuale abulico, che, per liberarsi dalla triste passione che lo lega alla sua donna e da una gelosia assurda che affonda le sue radici nell’inconscio e nell’analisi spietata dei sentimenti, finisce col trascinarla con sé nel suicidio. Di concezione tipicamente nietzscheana – il romanzo venne scritto, infatti, dopo che l’autore ebbe letto Nietzsche – è Le vergini delle rocce (1895): più che altrove vi si esprime la concezione aristocratica della vita, la volontà di potenza, l’amore per la violenza, l’ideologia, insomma, del superuomo. Il Fuoco (1900), ispirato dall’amore per la Duse, esalta le facoltà dell’artista, che può porsi al di sopra del bene e del male e che può servirsi anche dell’amore come di un mezzo per esaltare le proprie capacità creative. Un libro originalissimo, fatto di impressioni e ricordi, è il Notturno (1916-1921), «il commentano delle tenebre, scritto riga per riga su più che diecimila cartigli»478, quando l’autore, per la ferita all’occhio destro, fu costretto a rimanere per alcune settimane a letto con gli occhi bendati. Un libro di riflessioni, impressioni, ricordi ed appunti di studi è Le faville del maglio (1924-1928). Anche se non è vero che d’Annunzio non era portato al teatro e che a spingerlo ad esso fu soltanto l’incontro con la celebre attrice Duse, certamente i suoi drammi hanno una 477

Gabriele d’Annunzio, Alcyone, La pioggia nel pineto, v. 52-64. Impossibilitato a vedere, d’Annunzio scriveva su striscioline di carta che gli venivano porte, di volta in volta, dalla figlia che lo assisteva. Di qui anche il diverso stile, più sintetico, dell’opera. 478

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Il Novecento struttura lirica più che drammatica. L’azione, molto limitata, è sostituita da lunghi monologhi e racconti e da immaginifiche e sonore descrizioni, tanto che il suo è stato definito un “teatro di poesia”. Il capolavoro del teatro dannunziano – che annovera La città morta, La Gioconda, La gloria (tutte e tre del 1899), la “filologica” Francesca da Rimini (1902)479, La nave (1908) – è senz’altro La figlia di Iorio (1904): non un dramma di superuomini, ma un dramma di creature primitive ed appassionate, svoltosi nella forte e rude terra d’Abruzzo ed avente in sé qualcosa del dramma pastorale o addirittura della sacra rappresentazione. È un dramma di classica perfezione, nonostante che anche qui la concretezza delle figure e delle situazioni si diluisca spesso nel gioco mirabile delle immagini e nella malinconica musicalità dei versi. A tale capolavoro va affiancata La fiaccola sotto il moggio (1905), che d’Annunzio stesso definiva «la più perfetta delle sue tragedie», anch’essa ambientata in Abruzzo – un Abruzzo decadente in cui la restaurazione borbonica non può sanare i guasti della rivoluzione francese.

Il teatro tra due giganti Tra gli autori più interessanti di questo periodo – ancorché meno conosciuti, come necessariamente sarebbe dovuto avvenire, schiacciati come sono da due giganti della drammaturgia come d’Annunzio e Pirandello – va sicuramente annoverato ENRICO ANNIBALE BUTTI (Milano 1868-1912), narratore (con i romanzi L’automa ed il bellissimo racconto L’immorale) e drammaturgo. Importatore di temi ibseniani e per certi versi anticipatore di temi dannunziani e addirittura pirandelliani (vedi il finale irrisolto de Il vortice, che preannunzia quello di Così è se vi pare), Butti ebbe in vita un successo pari al Vate480 ed è tra i pochissimi autori che abbia affrontato in campo teatrale problematiche religiose nella Trilogia degli atei (La corsa al piacere, Lucifero, Una tempesta). Capace di satira sferzante contro la sinistra radical-chic (Sempre così), di dure accuse contro il pensiero anarchico, visto come causa di corruzione dei costumi (L’utopia) e contro la violenza degli agitatori comunisti (Una tempesta), Butti chiuse la propria carriera con un dramma poetico dalle altissime ambizioni che può essere considerato un testamento del decadentismo e della sua sconfitta: Il castello del sogno. Grande successo – ma minor spessore letterario – appartenne al livornese Dario Niccodemi (1874-1934), di cui si ricorda soprattutto il dramma La nemica (1917). Vanno poi ricordati il napoletano ROBERTO BRACCO (1862-1943), emulo di Sardou, Dumas ed Ibsen, in bilico tra commedia di argomento mondano (L’infedele, Ad armi corte) e dramma dal risvolto sociale (Sperduti nel buio, Notte di neve) ed il romano ALDO DE BENEDETTI (1892-1970), tipico rappresentante del teatro d’evasione (Due dozzine di rose scarlatte).

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In questa opera d’Annunzio utilizzò il linguaggio parlato del Duecento. La stessa compagnia Talli-Gramatica-Calabresi mise in scena, nel 1904, sia La figlia di Iorio che Fiamma nell’ombra, capolavoro drammaturgico di Butti. 480

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Il Novecento

La coscienza della crisi decadente Rifiutando i miti quali modelli di comportamento e vie di salvezza, altri scrittori pervengono ad una coscienza critica del decadentismo e dello stato di alienazione dell’uomo contemporaneo: ora rappresentando – come fa Pirandello – ora analizzando – come fa Svevo – l’inquietudine spirituale e la desolata condizione dell’uomo nel mondo contemporaneo.

Luigi Pirandello Al centro dell’opera di Pirandello è il sentimento dell’anarchia spirituale in cui vive l’uomo moderno: con le incongruenze e le contraddizioni della sua personalità, con l’impossibilità di essere se stesso e di comunicare con gli altri, con la consapevolezza della irraggiungibilità della verità. a) La vita e la formazione culturale Luigi Pirandello nacque ad Agrigento nel 1867. Compi gli studi tra Palermo, Roma e Bonn, dove si laureò discutendo una tesi in linguistica, disciplina preferita dei suoi studi. Tornato a Roma, collaborò a diversi giornali inserendosi così nell’ambiente letterario della capitale. Dominava allora l’influenza di d’Annunzio, ma Pirandello non ne venne sedotto. Rimase invece colpito dall’incontro con Capuana: fu infatti a contatto col caposcuola del verismo italiano che scoperse la sua vocazione di narratore e che compì le prime esperienze veriste: il romanzo L’esclusa e le novelle Amori senza amore. Il fallimento del padre commerciante ed una grave malattia psichica della moglie – ossessionata da una morbosa gelosia per il marito e finita in casa di cura – determinarono tempi neri per Pirandello e lo costrinsero all’insegnamento, facendogli accettare la cattedra di stilistica presso il Magistero di Roma. Intanto, anche per effetto di nuove esperienze culturali – l’idealismo tedesco, Schopenhauer – si allontanò dal positivismo avvertendo sempre più lucidamente la desolata condizione dell’uomo, incapace di pervenire a quella conoscenza della realtà che la cultura positivistica prometteva: Ci sentiamo come smarriti, anzi perduti in un cieco, immenso labirinto, circondato tutt’intorno da un mistero impenetrabile. Di vie ce ne sono tante: quale sarà la vera? per qual via andare? qual criterio direttivo seguire? […] Crollate le vecchie norme, non ancor sorte o bene stabilite le nuove, è naturale che il concetto della relatività d’ogni cosa si sia talmente allargato in noi […]. Non mai, credo, la vita nostra eticamente ed esteticamente fu più disgregata.

Fu però un rifiuto del positivismo filosofico, non tanto della poetica verista: perché anche nelle opere che seguirono quel rifiuto – e che costituiscono i suoi capolavori narrativi – Pirandello restò fermamente ancorato ad una letteratura fatta di “cose”, non di “parole”, criticando quegli autori per cui «la cosa non tanto vale per sé quanto per come è

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Il Novecento detta» ed esaltando invece quegli altri per i quali la parola vale soltanto come strumento per esprimere le cose. Naturalmente – come vedremo – “le cose” che materieranno l’arte di Pirandello non saranno gli ambienti sociali, ma le idee. Maturava intanto in Pirandello la passione per il teatro, e, fattosi impresario e regista oltre che autore, rappresentò i suoi drammi sui principali palcoscenici d’Italia e dell’estero tra consensi, ma anche tra tante polemiche e stroncature. Nel 1935 ottenne il premio Nobel per la letteratura: segno dell’attenzione con cui l’Europa ed il mondo seguivano ormai il suo teatro. Morì a Roma nel 1936. b) L’ideologia e i temi A base dell’ideologia pirandelliana c’è una intuizione pessimistica: nulla è vero, tutto è illusione creata da chi la pensa o la sogna e ciascuno se la crea e sogna a suo modo: Io penso che la vita è una molto triste buffoneria, poiché abbiamo in noi, senza poter sapere né come né perché, la necessità di ingannare di continuo noi stessi con la spontanea creazione di una realtà (una per ciascuno di noi e non mai la stessa per tutti) la quale di tratto in tratto si scopre vana e illusoria.

La realtà quindi è inafferrabile: Così è (se vi pare), del 1917, la più corrosiva commedia che mai sia apparsa sulle scene, dimostra l’impossibilità di sapere se una donna, di cui non esistono più documenti di stato civile, sia la prima o la seconda moglie di suo marito, sia Giulia o Lina, sia una pazza o la vittima di un pazzo: ognuno si crea su di lei la sua propria realtà. Il relativismo non investe soltanto la realtà oggettiva, ma il soggetto stesso, la identità stessa dell’uomo. Ciascuno di noi non è mai soltanto se stesso: si scompone in infinite rappresentazioni diverse; è quale appare o vuole apparire agli uomini con cui viene a contatto: perciò non è più “uno”, ma insieme nessuno o centomila persone diverse. È questa la tesi di uno dei più noti romanzi pirandelliani: Uno, nessuno e centomila (1926). Ognuno di noi esiste non in funzione dell’intimo fluire della vita, ma delle forme convenzionali che di volta in volta assume, delle etichette sociali che pone su di sé o che gli altri gli pongono addosso: se esce da queste convenzioni, da queste forme, da queste etichette non è più nessuno. Questo contrasto tra la “vita” e le “forme” è magnificamente reso dai romanzo Il fu Mattia Pascal (1904): la tragica storia di un uomo che, fintosi suicida per riacquistare una sua autenticità al di fuori dei vincoli e delle convenzioni sociali, si accorge che «fuori di quelle particolarità, liete o tristi che siano, per cui noi siamo noi… non è possibile vivere», non restandogli quindi altra soluzione che quella di continuare a sentirsi il “fu” Mattia Pascal. c) I drammi metateatrali I problemi filosofici ed in particolar modo esistenziali che Pirandello introduce nel suo teatro sono presenti in varie opere: il protagonista de Il piacere dell’onestà (1917) cita Kant e nel Gioco delle parti (1918) anche il cuoco discetta su Bergson. Con Sei personaggi in cerca d’autore (1921) si utilizza un meccanismo metateatrale (cioè di teatro

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Il Novecento nel teatro) per sottolineare come dall’impossibilità di apparire agli altri quali si è nasca il dramma dell’incomunicabilità. La trama dei Sei personaggi è abbastanza nota. Durante le prove di una commedia appaiono misteriosamente sulla scena sei personaggi: il Padre, la Madre, la Figliastra, il Figlio, due bambini. Essi sono nati, spiega il Padre all’esterrefatto capocomico (una sorta di regista), dalla fantasia di un autore che però non seppe o non volle farli vivere in un’opera compiuta; adesso smaniano di vedere rappresentato il loro dramma. La situazione – che durante il secondo atto gli attori tentano di riprodurre – è allo stesso tempo delicata e tragica, dimessa e violenta, tipica di molti racconti pirandelliani: il Padre, quando la moglie gli confessa l’amore per un altro si è fatto immediatamente da parte; vent’anni più tardi, dopo aver rischiato di avere un rapporto incestuoso con la Figliastra, finita in una casa di appuntamenti, decide di accogliere in casa l’intera famiglia della Madre, composta anche da altri due ragazzi che questa ha avuto dall’amante; provoca però il risentimento del Figlio legittimo, che si chiude in un ostinato mutismo nei confronti del resto della famiglia. La rappresentazione termina con il disperato racconto del Figlio: questi è sinceramente agghiacciato dall’imperturbabilità con cui il ragazzo rimane ad assistere alla morte della sorellina, caduta in una vasca, senza muovere un dito per intervenire a salvarla. Ma la freddezza del giovane è solo apparente, poiché egli dopo pochissimo tempo, non reggendo al rimorso, decide di suicidarsi. A questo punto i personaggi scompaiono ed il capocomico, come risvegliandosi da un sogno, si rammarica del tempo perduto e borbotta tra sé e sé: «Finzione! Realtà! Andate al diavolo tutti quanti! Luce! Luce! Luce!». I riflettori riportano la normalità sulla scena; ma si è fatto tardi e la compagnia decide di interrompere le prove. Allora, prima che cali definitivamente la tela, appaiono le ombre dei quattro personaggi sopravvissuti, ancora smaniosi di portare a compimento il loro dramma. Lo scrittore siciliano aveva già affrontato in un paio di racconti (entrambi del 1915) il rapporto tra un autore ed i personaggi da lui inventati, ma non aveva ancora deciso di affrontare tale relazione sulla scena. Pirandello, nella ampia prefazione all’opera, sottolinea l’intimo dramma di questi personaggi che, abbozzati dalla penna di uno scrittore, non vennero poi definiti. Io ho voluto rappresentare il dramma di questi sei personaggi che cercano un autore. Il dramma non riesce a realizzarsi appunto perché manca l’autore che essi cercano; e si rappresenta invece la commedia di questo loro vano tentativo, con tutto quello che essa ha di tragico per il fatto che questi personaggi sono stati rifiutati. […] Ed è avvenuto quel che doveva avvenire: un misto di tragico e di comico, di fantastico e di realistico.

Completamente diversa (e qui sta la grandezza di Pirandello, autore capace di affrontare da più angolazioni lo stesso tema senza mai rischiare di ripetersi) l’impostazione di Ciascuno a suo modo (1924), dramma che affronta l’imitazione tra vita reale e finzione scenica. Gli spettatori, giungendo a teatro, sono accolti da strilloni che annunciano la scandalosa opera di Pirandello in programma: pare che il drammaturgo si sia ispirato ad un fatto realmente accaduto, il suicidio di un artista a causa di una bella dama. Quest’ultima, presente in teatro e visibilmente scossa, chiede che la rappresentazione

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Il Novecento venga interrotta, poiché le rivelazioni sulla scena l’hanno turbata svelandole le reali motivazioni del suo comportamento. Lo spettatore si trova dunque sballottato tra due compagnie: quella che recita normalmente sulla scena e quella che si muove (soprattutto durante gli intervalli) tra il foyer e la platea. Tale disorientamento prosegue in Questa sera si recita a soggetto (1930). In platea prendono posto alcuni attori che recitano la parte degli spettatori e inizialmente dialogano col dottor Hinkfuss, regista della compagnia, la quale durante il secondo atto si ribella e decide di proseguire da sola, con grande soddisfazione degli attori, salvo poi ad accorgersi, al termine della recita, che Hinkfuss è stato tutto il tempo dietro le quinte a dirigere il lavoro dei macchinisti. Le accoglienze del pubblico e della critica non furono univocamente entusiaste: Croce definì i lavori «cattiva filosofia e cattivo teatro», altri parlarono di «pirandellismo che soffoca Pirandello». Comunque l’opera “metateatrale” di Pirandello non si esaurisce in questo trittico o trilogia: si pensi, ad esempio, a Enrico IV (1922), in cui gli amici di un gentiluomo impazzito recitano per lui le parti di personaggi medioevali, poiché egli crede (o finge di credere) di essere l’imperatore umiliatosi a Canossa; oppure al suo capolavoro rimasto incompiuto, I giganti della montagna, storia di una compagnia drammatica che cerca di rappresentare, senza successo, una grande tragedia sull’apparenza: La favola del figlio cambiato (sempre di Pirandello). Ma mai come nella trilogia, la tematica del “teatro nel teatro” è posta al centro dell’opera, riuscendo a coinvolgere, nel bene e nel male, l’attenzione del pubblico. d) Le caratteristiche della sua arte Nel saggio su L’umorismo, pubblicato nel 1908, Pirandello, distinguendo l’“umorismo” dal “comico”, lo identifica col “sentimento del contrario”, cioè il momento critico della riflessione che, seguendo quello sentimentale e creativo, ne vanifica ogni illusione. Nasce proprio dall’intervento di questo “sentimento del contrario” la spietata demolizione che Pirandello compie di ogni illusione, l’analisi cruda e spietata di ogni situazione, la ricognizione delle incongruenze e delle contraddizioni dell’uomo. Perciò l’uomo non è mai un “carattere” nella sua opera, ma un “personaggio”, il quale, nelle centomila sfaccettature della sua personalità, nel suo continuo modificarsi nel tempo – «Non c’è uomo che differisca più da un altro che da se stesso nella successione del tempo» – aspira invano ad una sua definizione psicologica. Da una simile concezione umoristica dell’arte – ispirata dal “sentimento del contrario” e derivante dalla stessa ideologia pirandelliana – non poteva che nascere una letteratura di idee, ai limiti con quel “cerebralismo” che tante volte è stato rimproverato all’autore (si ricordi che tante volte Croce mise in guardia i lettori contro “la sofistica” pirandelliana). Ma a parte il fatto che quel “cerebralismo” era un elemento insostituibile della sua narrativa e, soprattutto, del suo teatro, tanto posto nelle opere di Pirandello è riservato al sentimento: sia quando fa sentire la sua umana pietà per la vita dissociata e grottesca dei suoi personaggi; sia quando scopre in loro la malinconia con cui contemplano le “forme”

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Il Novecento della loro esistenza – è il caso della donna che, strappata alla famiglia dall’amante, non può fare a meno di spiare, attraverso la finestra, la famiglia che ha abbandonato (Il lume dell’altra casa) –; sia ancora quando – come avviene frequentemente nella novellistica – scopre la natura come riposo e rifugio per gli affanni umani. Che è proprio la scoperta liberatoria e beatificante del protagonista di Ciàula scopre la luna: E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell’averla scoperta, là, mentr’ella saliva pel cielo, la luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco nella notte ora piena del suo stupore.

Forse – assieme a d’Annunzio – il maggior rappresentante della letteratura italiana del Novecento, Pirandello anticipa le inquietudini che saranno il tema di due altri premi Nobel della drammaturgia, Samuel Beckett ed Harold Pinter. D’altro canto dimostra di possedere ricchezza d’invenzione e di saper elaborare grande varietà di temi nei suoi racconti, riuniti nell’imponente raccolta Novelle per un anno (1922)481, in cui la sua penna padroneggia senza problemi materia grottesca, fantastica, patetica senza rinunciare all’obbiettività tipica dei veristi.

Italo Svevo Mentre Pirandello rappresentava la situazione dell’uomo in eterno mutarsi, diverso ogni istante da se stesso, Svevo tentava di ricostruire, attraverso la memoria, lo scavo interiore e la psicanalisi, la solitudine dell’uomo moderno, la sua incapacità di inserirsi nel tessuto connettivo della società borghese, la sua condizione di inibito, di abulico, di alienato. a) La vita e la formazione culturale Italo Svevo nacque a Trieste nel 1861. Suo vero nome era Ettore Schmitz e lo pseudonimo fu da lui scelto a significare – come egli stesso disse – «l’italianità del suo sentire e il germanesimo della sua educazione». Studiò infatti in Germania, dove venne a contatto con la cultura “mitteleuropea” di cui faceva parte la stessa Trieste e che influì molto sulla sua formazione. Tornato a Trieste, si impiegò in una banca e, per rompere la monotonia di un lavoro che non lo soddisfaceva, compiva le prime esperienze letterarie: nel 1892 pubblicò a proprie spese il romanzo Una vita e nel 1898 Senilità, ma il loro insuc481

A proposito della novellistica va sottolineato il rapporto di interrelazione esistente tra opera narrativa e drammatica: rapporto non limitato alla drammatizzazione dei propri racconti (Pensaci, Giacomino! trasposto nella commedia omonima o La signora Frola ed il signor Ponza, suo genero che diventa Così è, se vi pare) o alla loro citazione (Leonora, addio! che sta alla base di Questa sera si recita a soggetto o L’angelo Centouno raccontato nei Giganti della montagna – dove peraltro una compagnia cerca di mettere in scena un’altra opera di Pirandello La favola del figlio cambiato, a sua volta tratta dall’omonimo racconto), ma presente anche nella composizione parallela e nello scambio di tematiche.

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Il Novecento cesso lo persuase a tenersi lontano da «quella ridicola e dannosa cosa che si chiama letteratura». Aveva intanto sposato la figlia di un industriale arricchitosi per aver inventato una vernice per navi che non veniva corrosa dall’acqua marina. Entrò così anche lui nell’azienda e, spinto da esigenze di lavoro, si iscrisse alla Berlitz School per imparare l’inglese. Gli fu maestro l’irlandese James Joyce, il futuro autore dell’Ulisse. L’amicizia che ne nacque influì certamente sugli orientamenti letterari di Svevo, così come influì la conoscenza delle dottrine di Siegmund Freud che andavano allora diffondendosi nell’ambiente culturale triestino. Una seduta psicanalitica, infatti, costituisce l’impianto di un suo nuovo romanzo, La coscienza di Zeno, che veniva pubblicato nel 1923, dopo più di vent’anni di inoperosità letteraria. Scoperto quasi contemporaneamente all’estero ed in Italia, per opera dello Joyce e del critico e poeta Montale, il romanzo ottenne, qualche anno dopo la sua pubblicazione, un enorme successo, facendo scoppiare il “caso Svevo”, cioè l’entusiastico se pur tardivo riconoscimento di uno dei più grandi narratori contemporanei. Poco tempo dopo, nel 1928, Svevo morì in seguito ad un incidente automobilistico. b) La coscienza di Zeno Il titolo originario del primo romanzo di Svevo, Una vita, era Un inetto. Ed era titolo emblematico a significare lo stato di abulia, di inibizione, di alienazione del protagonista Alfonso Nitti: che è poi la stessa condizione spirituale di Emilio Brentani, protagonista di Senilità, e di Zeno Cosini, protagonista della Coscienza di Zeno. Zeno Cosini, un maturo commerciante triestino, afflitto da complessi ed intossicato dal fumo, decide, per guarire, di sottoporsi alla psicanalisi. E così per sei mesi, tra incredulo e paziente, si abbandona al flusso dei ricordi che, su prescrizione del medico, fissa sulla carta. Perciò, argomento del romanzo non è la vita di Zeno, ma la “coscienza” di Zeno: cioè non i fatti in se stessi come vennero vissuti, ma la coscienza che il protagonista viene ora ad assumerne. Ne nasce così una tecnica narrativa completamente nuova, nella quale i piani del passato e del presente scambiano le loro posizioni, si intrecciano, si accavallano; nella quale il racconto dell’azione si trasforma in presa di coscienza e perciò la narrazione obiettiva lascia il posto ad un unico, ironico monologo interiore. Abbiamo detto che l’impianto del romanzo si fonda sulla psicanalisi, il fatto nuovo della terapia medica del tempo. Il che non vuol dire, però, che Svevo creda alle sue miracolose virtù terapeutiche; scrisse: «Lessi qualche cosa del Freud con fatica e piena antipatia». La conclusione del romanzo, infatti, è che non solo Zeno non guarisce, ma che anzi prende coscienza che la sua è una malattia inguaribile e collettiva: che tutto il mondo è sostanzialmente malato. Non la psicanalisi, quindi, ma soltanto un cataclisma potrà forse guarire l’uomo, riportandolo all’anno zero: Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il

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Il Novecento massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.

Così, quella debolezza morale e della volontà, quello stato di alienazione che nei precedenti romanzi era stato un fatto costituzionale dei protagonisti, si allarga, nella Coscienza di Zeno, fino a divenire condizione esistenziale dell’uomo. Si è parlato dello “scriver male” di Svevo. Non si dimentichi, però – e ne aveva coscienza egli stesso – che Svevo era un italo-tedesco, educato in Germania, vissuto a Trieste, città nella quale, prima ed anche intorno alla prima guerra mondiale, l’italiano era considerato una specie di lingua straniera. Né d’altra parte Svevo, tutto preso dalla concretezza del narrare, dallo studio dei caratteri e delle situazioni, svolse mai approfondite ricerche linguistiche, anzi disse che obbedire alla disciplina linguistica significava falsare la propria personalità di scrittore. Comunque, nonostante le sue spezzature, i suoi anacoluti, il suo tutto particolare andamento sintattico, la lingua di Svevo non dispiace, anzi può essere considerata un particolare e ben caratterizzato modo di dire. Secondo il giudizio di uno dei massimi studiosi dello scrittore triestino, Silvio Benco, Svevo era un artista cui mancava la padronanza completa dei mezzi tecnici, quasi un pittore che, in mancanza di pennelli, dipingesse con ciò che aveva in mano: con una piuma, con una scheggia di legno o con una punta di vetro, ma i cui esiti artistici, aggiungiamo, non sono affatto compromessi dalla mancanza dell’adeguato strumento di lavoro.

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Il Novecento

Crepuscolari e futuristi Alla prima generazione decadente, quella vissuta tra la fine dell’Ottocento ed il principio del Novecento, appartengono anche i poeti crepuscolari e quelli futuristi, i quali, pur nella diversità degli atteggiamenti ideologici – entrambi, come vedremo, di natura decadente – avvertirono in comune l’esigenza di uscire dalla tradizione poetica e di cercare nuovi moduli espressivi.

I crepuscolari Quasi in reazione al luminoso e soffocante meriggio panico dannunziano sorse la poesia crepuscolare, più affine, invece, alla poesia tenera e malinconica del Pascoli. Il termine “crepuscolarismo” venne usato per la prima volta dal critico Giuseppe Antonio Borgese nel 1910 con un’accezione chiaramente critica: La poesia italiana si spegne […] in un mite e lunghissimo crepuscolo, cui forse non seguirà la notte […] lirici che s’annoiano e non hanno che un’emozione da cantare: la torbida e minacciosa malinconia di non aver nulla da dire e da fare.

In seguito – come già era avvenuto a proposito del termine decadentismo – la parola crepuscolarismo perse il suo significato critico-negativo per acquistare un’accezione puramente storica e significare una corrente o scuola poetica di collocazione postpascoliana ed anti-dannunziana. Ammalati di stanchezza morale come tutti i decadenti, i crepuscolari esprimevano con i loro versi una vena di sfiduciata tristezza, assumendo un atteggiamento di fanciulli stanchi ed avviliti – la fanciullezza dei crepuscolari, infatti, aveva il sapore della senilità –, cantando un “piccolo mondo provinciale” e borghese, grigio e senza gloria, ispirandosi alle piccole cose ed agli aspetti più umili e banali del vivere quotidiano. Ma come la “fanciullezza” di questi poeti era diversa da quella ancora ammirata ed immaginosa del Pascoli, così le loro “piccole cose” non assumevano, attraverso un’interpretazione simbolica, le voci stesse dell’infinito: restavano “buone cose di pessimo gusto”, immagini quotidiane di un mondo visto con gli occhiali opachi della spossatezza e dell’apatia. Anche i moduli espressivi avevano un loro andamento stanco e prosastico: confidenziale e quasi fanciullesco il linguaggio con l’abuso delle forme diminutive, prosaica la sintassi, monotono il ritmo: tutto effetto di una studiata e volontaria sciatteria, di un atteggiamento antiretorico e convintamente e polemicamente antidannunziano. Uno di loro, Guido Gozzano, ringraziava il “buon Gesù” di non essere dannunziano: avresti anche potuto invece che farmi gozzano un po’ scimunito ma greggio, farmi gabrieldannunziano.

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Il Novecento Una delle prime voci del crepuscolarismo – ed anche forse una delle più tristi e rappresentative – fu quella di SERGIO CORAZZINI (Roma 1886-1907), che, morto di tisi ad appena venti anni, non poté raggiungere una piena maturità artistica. Tra le sue liriche bella è quella che s’intitola Desolazione del povero poeta sentimentale (1906). Pur riconoscendo che ci si muove al limite di un sentimentalismo di maniera, non si possono negare nella poesia la sincerità dell’ispirazione – tenuto conto anche che reali erano l’infermità del poeta ed il suo presentimento di morte – ed anche una tonalità espressiva che sa essere ricca di grazia e di musicalità pur nel rifiuto di ogni ricerca formale: Perché tu mi dici poeta? Io non sono poeta, Io non sono che un piccolo fanciullo che piange. […] Non sono, dunque, un poeta; io so che per esser detto poeta conviene vivere ben altra vita! Io non so, Dio mio, che morire. Amen.

Tra i poeti crepuscolari il più autentico è GUIDO GOZZANO (Torino 1883-1916). Sempre a Torino si laureò in legge, ma seguì sempre con profondo interesse la letteratura contemporanea italiana e straniera. Ammalatosi anch’egli di tisi, andò in India nella speranza di trovare in quel clima giovamento alla sua salute. Aggravatosi, tornò a Torino e qui morì all’età di appena trentatré anni. Aveva scritto due raccolte di poesie, La via del rifugio (1907) e Colloqui (1911), un libro sul viaggio in India intitolato Verso la cuna del mondo ed un poemetto entomologirimasto incompiuto, Le farfalle. Gozzano non si ferma, come Corazzini, alla triste esperienco za autobiografica, ma ci da la rappresentazione del “piccolo mondo provinciale” che gli vive dintorno, anche se colto con l’atteggiamento di un poeta disilluso e sentimentalmente inaridito. «Ognuno conosce la ricetta per fare del Gozzano: argomenti provinciali e infantili, signorine un po’ brutte, cose un po’ vecchie, crinoline, ricami, e del colore di rosa tea» (Serra). Ma in questo piccolo mondo provinciale e borghese, fatto di “buone cose di pessimo gusto”, Gozzano cercava la “possibilità impossibile” di un rifugio: da ciò il tono di affettuosa simpatia ed insieme di ironico distacco con cui egli lo rievocava nella sua poesia: Penso l’arredo – che malinconia! – penso l’arredo squallido e severo, antico e nuovo: la pirografia sui divani corinzi dell’Impero, la cartolina della Bella Otero alle specchiere… Che malinconia!482

La poesia di Gozzano, pur tutta racchiusa entro i termini del crepuscolarismo, non nasconde la ricca formazione letteraria dell’autore, condotta su Baudelaire, Betteloni, Pa482

Guido Gozzano, La signorina Felicita ovvero La felicità, I, 7 (da Colloqui, 1911).

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Il Novecento scoli, d’Annunzio, Francis Jammes, Albert Samain: ne sono prova non soltanto un respiro più ampio ed una più vasta tematica, che non sono negli altri crepuscolari, ma anche una maggiore varietà e consistenza di moduli espressivi e di forme metriche, non escluse quelle tradizionali, adattate però alla materia del suo mondo poetico. Identificare altri poeti crepuscolari non è facile – o meglio non è un’opera sicura – dal momento che per molti il crepuscolarismo non fu che una delle varie esperienze poetiche attraverso le quali passarono. Così per MARINO MORETTI (Cesenatico 1885-1979), autore delle Poesie scritte col lapis (1910), il crepuscolarismo fu soltanto un punto di partenza; mentre per ALDO PALAZZESCHI (Firenze 1885 - Roma 1974), per CORRADO GOVONI (Tamara, Ferrara 1884 - Roma 1965) e per altri l’esperienza crepuscolare rappresentò soltanto un momento del proprio itinerario poetico.

I futuristi Alla suggestione del superuomo dannunziano piuttosto che a quella del fanciullino pascoliano sembra rifarsi la poesia futurista, che perciò occupa, tanto sul piano ideologico quanto su quello dei moduli espressivi, una posizione completamente opposta a quella crepuscolare. Quanto, infatti, i crepuscolari amavano le piccole cose e gli aspetti umili e grigi della vita quotidiana esprimendosi in toni sommessi e “a punta di lapis”, tanto i futuristi prediligevano la vita attiva, dinamica, aggressiva ed i toni roboanti e gridati. Il che era, naturalmente, anch’esso un atteggiamento decadente, in quanto si collegava a quel nazionalismo esasperato e quindi a quell’esaltazione della guerra e della violenza individuale e collettiva che costituiva l’aspetto ideologico di quella temperie. Il programma del futurismo venne enunciato nel Manifesto futurista che FILIPPO TOMMASO MARINETTI (Alessandria d’Egitto 1876 - Bellagio, Como 1944), caposcuola del movimento, fece pubblicare, con abile mossa propagandistica, sul “Figaro” di Parigi nel 1909. In quel Manifesto tra l’altro si legge: La letteratura esaltò, fino ad oggi, l’immobilità pensosa, l’estasi e il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo e il pugno. […] Il coraggio, l’audacia, la ribellione saranno gli elementi essenziali della nostra poesia. […] Non v’è più bellezza se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro. La poesia deve essere concepita come un violento assalto contro le forze ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all’uomo. […] Noi vogliamo glorificare la guerra, sola igiene del mondo. […] Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere e dalla sommossa: canteremo le maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne, canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri. […] Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un’automobile da corsa col suo cofano lucente adorno di grandi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo, un’automobile ruggente che sembra correre sulla mitraglia, è più bella della Vittoria di Samotracia.

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Il Novecento Sul piano ideologico il futurismo si presentava quindi come un movimento antipassatista e nazionalista: tant’è che i futuristi plaudirono all’impresa di Libia, furono interventisti nella prima guerra mondiale e confluirono poi nelle schiere del fascismo. Sul piano dei moduli espressivi i futuristi erano per l’analogia (cioè per la similitudine che, per amore della velocità, elimina le espressioni intermedie della correlazione), per l’onomatopea (che al limite estremo sostituisce il suono della cosa al suo nome), per i toni enfatici, roboanti, gridati. Marinetti, detto per la sua esplosività “la caffeina d’Europa”, non solo accettò il verso libero e inventò “le parole in libertà”, ma scrisse anche poesie fatte di suoni e di rumori oltre che di parole. Ecco, infatti, la descrizione di una battaglia: Il ponte angolo ottuso arco teso gonfiare il suo ventre APRIIIIIRSI AAAAAH! PATAPUM PATRATRAACH maledizione canaglia canaglia gridare gridare urlare muggire SCOPPIO DI CUORI TURCHI squarciagola sfrangiarsi scapigliamento di HURRRRRRRAAAH tatatatatata […]483

Oltre a Marinetti, futuristi di passaggio – come li definisce Salinari – furono CORRADO GOVONI, che proveniva da una prima esperienza crepuscolare e che come futurista scrisse Poesie elettriche (1911) e L’inaugurazione della primavera (1915); ALDO PALAZZESCHI, anche lui già crepuscolare ed autore della celebre dichiarazione poetica Lasciatemi divertire484; ARDENGO SOFFICI (Rignano in Valdarno 1879 - Forte dei Marmi 1964), che aderì al futurismo, ma che legò il suo nome soprattutto a prose nate dalle esperienze della prima guerra mondiale alla quale partecipò (Giornale di bordo del 1915 e Kobilek: giornale di battaglia del 1919).

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Da L’assedio di Adrianopoli, nel Poema parolibero Zung-Tumb-Tumb (1914). «Tri tri tri, / fru fru fru, / uhi uhi uhi, / ihu ihu ihu. // Il poeta si diverte, / pazzamente, / smisuratamente» e via di seguito per 95 versi. Dalla raccolta L’incendiario (1910). 484

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La cultura letteraria del primo Novecento I primi due decenni del Novecento furono caratterizzati, oltre che dall’opera degli scrittori di cui si è parlato, da una fervida e tumultuosa attività culturale, da un rapido susseguirsi, confondersi e scontrarsi di movimenti e di atteggiamenti ideologico-letterari, da un rinnovarsi ed arricchirsi degli indirizzi critici. Di tale attiva vita intellettuale fu un segno il sorgere impetuoso di riviste letterarie e di cultura.

Le riviste Nel 1903, quasi contemporaneamente, nascevano tre riviste di orientamento ideologico diverso: “Il Regno” del nazionalista Enrico Corradini, “La critica” di Benedetto Croce, “Il Leonardo” di Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini. La prima, di ispirazione nazionalistica, condusse una battaglia quasi esclusivamente politica – antisocialista ed antigovernativa – anche se si valse, per qualche tempo, della collaborazione di uomini di cultura come Papini, Prezzolini e Borgese. Della seconda tratteremo tra poco a proposito della critica crociana. La terza, ispirata all’entusiastico proposito dei suoi giovani autori di risvegliare e trasformare la cultura italiana, perseguì un programma eclettico: dapprima polemizzando contro il positivismo ed il materialismo, poi aderendo al pragmatismo anglosassone ed infine approdando all’idealismo crociano. Maggiore importanza e risonanza ebbe “La Voce”, fondata a Firenze nel 1908, da GIUSEPPE PREZZOLINI (Perugia 1882 - Lugano 1982). Organizzatore di cultura più che letterato nel senso ristretto della parola, Prezzolini diede alla rivista un aspetto di concretezza, interessandola ai problemi del costume civile, del sindacalismo, della questione meridionale, dell’istruzione, delle strutture culturali e scolastiche. Ma in seguito, col passare della direzione a Papini e quindi a De Robertis, più largo spazio nella rivista fu dato ad argomenti specificamente letterari. Fu allora che essa presentò al pubblico tutta una nuova generazione di poeti – Umberto Saba, Camillo Sbarbaro, Clemente Rèbora, Dino Campana – che perciò vennero detti “vociani”, mentre si valse della collaborazione di nuovi critici, come Croce, Gentile, Serra. Nel 1913, lasciata “La Voce”, Giovanni Papini fondò a Firenze con Ardengo Soffici la rivista “Lacerba”485. Allineandosi col “futurismo” la rivista assumeva subito una posizione di rottura nei confronti della tradizione, del conservatorismo, della morale borghese giudicata ipocrita e falsa486. Nell’articolo di presentazione del primo numero si leggeva: Sarà questo un foglio stonato, urtante, spiacevole e personale. Sarà uno sfogo per nostro beneficio e per quelli che non sono del tutto rimbecilliti dagli odierni idealismi, riformismi, umanitarismi, cristianismi e moralismi. 485

Il titolo riprendeva un poema trecentesco di Cecco D’Ascoli, con l’eliminazione dell’apostrofo. Evidente era anche il suo atteggiamento polemico nei confronti de “La Voce”, espresso anche in versi scherzosamente satirici: «È la Voce quella cosa / che era nata per svegliare, / ora serve a far russare / gl’italiani maggiorment». 486

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Il Novecento Di “Lacerba”, come delle altre riviste, lo scrittore più attivo, più vivace, più irrequieto ed anche più noto fu GIOVANNI PAPINI (Firenze, 1881). Passò attraverso varie esperienze culturali – il che spiega il perché della sua immancabile presenza in tutte o quasi le riviste del tempo – approdando alfine ad un cattolicesimo non privo di qualche velleitaria interpretazione dogmatica: si ricordi il suo libro Il diavolo (1953). Già prima aveva scritto, oltre ai suoi “pezzi” giornalistici, Un uomo finito (1913), La vita di Cristo (1921), Dante vivo (1933); stroncature letterarie487 e filosofiche488 e vari racconti (alcuni dei quali dal sapore fantastico furono raccolti da Jorge Luis Borges nell’antologia Lo specchio che fugge).

La critica letteraria a) Benedetto Croce Nel 1903, come si è visto, Croce fondava “La critica”, una rivista scritta in massima parte se non esclusivamente da lui e rimasta in vita fino al 1944. Benedetto Croce (Pescasseroli, L’Aquila 1866 - Napoli 1952), perduti i genitori in seguito ad un terremoto, visse presso lo zio Silvio Spaventa a Roma e qui frequentò la facoltà di giurisprudenza senza però conseguire la laurea. Stabilitosi a Napoli, si diede con grande passione a studi di storia e letteratura, partecipando attivamente alla vita intellettuale della città e subendo l’influenza del positivismo e della critica storico-filologica. Scostatosi poi da questo indirizzo critico, che considerava esclusivamente erudito ed incapace di penetrare la personalità dello scrittore, studiò con attenzione Marx, Vico, Hegel, giungendo alfine alla formulazione della sua dottrina filosofica che era una “filosofia dello spirito”. Secondo tale concezione filosofica lo spirito si esplica attraverso due attività: quella “teoretica” rivolta al conoscere e quella “pratica” rivolta al fare. Ciascuna di queste due attività si svolge attraverso due gradi: l’attività teoretica è “intuizione” se tende alla conoscenza dell’individuale; è “logica” se invece tende alla conoscenza dell’universale; mentre l’attività pratica è “economia” se tende al bene individuale, “etica” se tende al bene universale. L’arte appartiene al momento dell’intuizione, anzi è “intuizione pura”, cioè autonoma dalla logica, dall’economia, dall’etica: perciò l’arte è una particolare forma di conoscenza, ma priva di ogni finalità. Nel momento in cui l’arte si pone una finalità – morale, religiosa, politica, sociale – non è più arte. Partendo da tale premessa Croce affrontava la lettura dell’opera d’arte, distinguendo in essa la “poesia” dalla “non poesia”. La “poesia” consisteva per lui nell’“intuizione pura” – aggiunse poi “liricamente espressa” –: cioè in un rapido bagliore, in una specie di interna illuminazione. Tutto il resto – la struttura, lo schema, il genere, la finalità – era 487

Stroncature (1916) Il crepuscolo dei filosofi (1907) in cui attaccava Kant, Hegel, Schopenhauer, Compte, Spencer e Nietzsche. 488

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Il Novecento “non poesia”: letteratura magari, cioè espressione culturale, ma certamente non poesia. Ecco un esempio tratto da un suo lavoro critico su La poesia di Dante, la Divina Commedia è nel suo insieme una struttura impoetica, nella quale la poesia è rappresentata soltanto dagli squarci lirici. È evidente il rischio che nasceva da una simile concezione critica: quello cioè di distruggere l’unicità dell’opera d’arte, di perdere di vista la personalità dell’autore, la sua ideologia, la sua problematica, il rapporto con i suoi tempi. Tornando infatti alla Divina Commedia: che cosa rimane del poema di Dante, se togliamo via la struttura dell’aldilà, il significato del viaggio, il movente etico e religioso? Quale significato conservano gli stessi squarci di “poesia”, una volta staccati dal complesso dell’opera? Croce non fu soltanto un teorico della critica letteraria, che definì nel suo libro Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale; ma compì anche un’intensa attività critica, tanto sulle pagine de “La critica” quanto nei suoi saggi. Una costante di tale attività critica fu la condanna delle manifestazioni della letteratura decadente, che egli giudicò addirittura aberranti. Eppure – ed era questo il segno della sua inscrizione nella temperie decadente – egli arrivava, anche se attraverso un sistema filosofico, a posizioni non dissimili da quelle dei decadenti, allorquando concordava con loro nel ripudiare ogni concezione discorsiva e suasiva della poesia ed anche ogni tessuto logico. b) Giovanni Gentile Alla rivista “La critica” collaborò anche Giovanni Gentile (Castelvetrano, Trapani 1875 - Firenze 1944), insigne filosofo ed uomo di cultura489, il quale poi si allontanò da Croce per contrasto ideologico e politico – sostenne infatti il fascismo, che invece Croce avversava – pervenendo ad una concezione filosofica che definì “idealismo attuale” o “attualismo”. Nelle sue opere (Arte e religione; La filosofia dell’arte), ricomponendo l’unità della vita dello spirito, egli sosteneva, diversamente da quanto aveva affermato Croce, che l’arte non può distinguersi dalle altre attività spirituali. Perciò nei suoi saggi critici – Dante e Manzoni, Manzoni e Leopardi, Poesia e filosofia di Giacomo Leopardi – egli si preoccupò sempre di considerare l’opera d’arte un’unità inscindibile, la cui bellezza non consiste soltanto nella capacità figuratrice della fantasia, ma in tutti i motivi umani che vi si rispecchiano. Considerato l’ideologo del regime, venne vilmente assassinato dai partigiani durante la guerra civile. c) Altri critici Partito da posizioni crociane, GIUSEPPE ANTONIO BORGESE (Polizzi, Palermo 1882 Fiesole, Firenze 1952) presto se ne discostò, affermando l’inscindibilità tra arte e morale e la funzione che l’arte ha sui destini della società. Ma oltre che per i suoi saggi critici, raccolti nel volume La vita e il libro (1910-13), Borgese è ricordato per il suo grosso ro489

Fu Ministro della Pubblica Istruzione (realizzò la famosa riforma scolastica che porta il suo nome), direttore dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana e presidente dell’Accademia Italiana (già Accademia dei Lincei).

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Il Novecento manzo Rubè (1921), storia di un intellettuale deluso inscritta in un clima tipicamente decadente. Saggi su Pascoli, su Beltramelli, su Carducci scrisse RENATO SERRA (Cesena 1884 Podgora, Gorizia 1915), fornendo intuizioni felici e di buon gusto sulla personalità degli autori e sulla loro opera, sempre preoccupato, nello svolgere l’attività critica, di «comprendere e sentire le qualità dell’animo, del pensiero e dello stile». Partito per la guerra mondiale, nella quale morì, scrisse l’Esame di coscienza di un letterato, un’indagine condotta con sincerità sull’atteggiamento di fronte al problema della guerra. Di posizioni anticrociane (ma anche antihegeliane, antigentiliane, antifasciste) fu ADRIANO TILGHER (Napoli 1887 - Roma 1941) filosofo “irrazionalista”490 e critico letterario, tra i primi a comprendere l’importanza di Pirandello. Notevoli i suoi Studi sul teatro italiano e La scena e la vita, nonché i suoi saggi sulla letteratura europea contemporanea.

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Al filone cosiddetto “irrazionalista” (ma sarebbe preferibile chiamarlo “tradizionalista”) – il cui principale esponente fu il filosofo romano Julius Evola (1898-1974) – appartenne anche Lorenzo Giusso (Napoli 1899 - Roma 1957), particolarmente attento alla letteratura europea contemporanea (Il viandante e le statue).

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La letteratura tra le due guerre L’attività letteraria che intercorse tra la prima e la seconda guerra mondiale, pur iscrivendosi ancora nella temperie decadente, presentò caratteristiche sue proprie, tanto che a proposito di essa si può parlare – come già si fece a proposito del romanticismo – di una “seconda generazione decadente”. A distinguere l’attività di questa generazione dalla precedente furono soprattutto i riflessi del mutato quadro politico: e non tanto l’acuirsi dei conflitti sociali dell’immediato dopoguerra – racchiusi in un breve arco di tempo (19191922) – quanto invece la dittatura fascista e le sue conseguenze di ordine culturale.

Il Fascismo e la letteratura Il fascismo non influì sulla letteratura come ideologia, ma come dittatura. L’ideologia fascista, infatti, – se si fa esclusione per una produzione a basso livello propagandistico svolta sui fogli di regime – non produsse nessuna opera originale e degna di rilievo. Non ebbe quindi capacità creativa, ma ricettiva: si valse di quegli autori, di quelle opere, di quei movimenti, per la maggior parte antecedenti, – Oriani, il nazionalismo, il futurismo, Gentile – in cui scopriva una certa vicinanza di idee. Come dittatura il fascismo influì certamente sulla letteratura, ma in maniera che potremmo definire ambigua: non tanto cioè con i provvedimenti di polizia – censura, sequestri – quanto invece col creare nei letterati la persuasione che altro non restava loro da fare che rinchiudersi nella vecchia torre d’avorio dell’arte per l’arte, estraniandosi dalla lotta politica, dai fermenti sociali, da ogni problema che potesse rendere attuali ed impegnate le proprie opere. Certamente, la dittatura fascista riusciva facilmente in tale intento in quanto faceva presa su un vecchio costume letterario italiano: sulla nostra congenita predisposizione ad isolare l’arte dalla vita, a considerarla rifugio, sogno, rimpianto o addirittura imitazione ed eleganza formale. Inoltre, il carattere paternalistico e raramente violento assunto dalla dittatura fascista, nonché i suoi conclamati successi in campo internazionale – si pensi al prestigio acquistato allora dall’Italia e l’enorme consenso interno in seguito alla conquista dell’Etiopia - resero più difficile, se non addirittura impossibile, una vasta e valida opposizione culturale e letteraria. Tanto da spingere Piero Gobetti, liberale di sicura fede antifascista, auspicare una maggiore violenza affinché venisse alla luce il vero (o presunto) volto della dittatura: «Bisogna sperare che i tiranni siano tiranni, che la reazione sia reazione, che ci sia chi avrà il coraggio di levare la ghigliottina; chiediamo le frustate perché qualcuno si svegli, chiediamo il boia perché si possa veder chiaro».

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Le riviste a) “La Ronda” e la “prosa d’arte” Si è parlato di distacco tra la letteratura e la vita. In realtà, esso era cominciato già prima del fascismo. Era cominciato con la rivista “La Ronda”, pubblicata a Roma, tra il 1919-23, da Riccardo Bacchelli, Antonio Baldini, Vincenzo Cardarelli, Emilio Cecchi, Lorenzo Montano, Marcello Cora, Adriano Tilgher e Aurelio E. Saffi, Era una rivista che – come indicava lo stesso titolo – voleva mettere ordine nell’ambiente letterario italiano e voleva liberare la letteratura da tutte quelle commistioni con la filosofia, la politica e i “problemismi” di ogni natura, che avevano caratterizzato l’attività delle riviste del primo Novecento. La letteratura doveva tornare ad essere un esercizio disinteressato di stile, con «quel tanto di riposo mentale, di freddezza e d’ironia che sembra necessario a rendere persuasivamente lirico il pensiero». Era, insomma, quella della “Ronda” una ripresa classicista, un rifarsi a Leopardi ed al suo ideale di «una lingua e uno stile, ch’essendo classico e antico, paia moderno, e sia facile a intendere e dilettevole così al volgo come ai letterati». Più che interessarsi di poesia, che consideravano troppo ubriacata di crepuscolarismo, frammentarismo, intimismo, i “rondisti” guardavano alla prosa, che volevano ben modellata e ragionata, riflessiva ed elegante. Nacque così la “prosa d’arte”: «La sottigliezza del contrappunto sintattico, al quale i migliori sottopongono ogni propria composizione, non è meno rigorosa del più intricato gioco di rime e d’assonanze d’una canzone e d’un sonetto. Ma l’impressione resta quella di una grazia e d’una scioltezza conquistate d’incanto» (Falqui). Si trattava, per la maggior parte, di “elzeviri” o “capitoli” – come preferì chiamarli Falqui – che occupavano le prime due colonne della terza pagina dei giornali ed il cui tema era libero e poteva andare dalle osservazioni di costume al taccuino di viaggio, dal racconto breve, alle notazioni di memoria, dalle note critiche alle divagazioni fantastiche. Principali rappresentanti di questa prosa d’arte furono: VINCENZO CARDARELLI (Nazareno Caldarelli, Tarquinia, Viterbo 1887 - Roma 1959), autore di Viaggi nel tempo, Il sole a picco, Favole della Genesi; UGO OJETTI (Roma 1871 - Firenze 1946), ricordato soprattutto per i suoi elzeviri Cose viste; EMILIO CECCHI (Firenze 1884 - Roma 1966), noto soprattutto per i suoi saggi critici, ma anche per un libro di viaggi, capricci e fantasie che intitolò Pesci rossi; ANTONIO BALDINI (Roma 1889-1962), che rappresentò in Michelaccio le sue fantasie ed il suo amore all’ozio letterario. Un posto a parte tra i cultori della prosa d’arte spetta ad ALFREDO PANZINI (Senigallia, Ancona 1863 - Roma 1939): oltre che di “capitoli” eleganti ed arguti, fu autore di novelle e romanzi – La lanterna di Diogene, Santippe, Novelle d’ambo i sessi, Viaggio di un povero letterato – che costituirono per qualche tempo la narrativa prediletta dagli uomini di cultura. In effetti, Panzini non era un narratore fertile e profondo, ma uno scrittore elegante ed un fine umorista.

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Il Novecento b) Strapaese e stracittà Strapaese e stracittà non furono due riviste, ma due movimenti culturali e letterari sostenuti da riviste. Strapaese respingeva le raffinatezze dell’estetismo, il culto della modernità, le promesse del progresso, esaltando invece le tradizione paesane, i gusti rurali, la sobrietà e la sanità del vivere campagnolo. In questa difesa di una tradizione agreste non era estraneo certamente un atteggiamento nazionalista, una palese mitizzazione di un’Italia rurale e perciò ancora sana nei confronti delle altre più progredite nazioni d’Europa: «Strapaese – si scrisse – è stato fatto apposta per difendere a spada tratta il carattere rurale e paesano della gente italiana […]. Noi dobbiamo difenderci con le unghie e coi denti dalle seduzioni, che da ogni parte premono, dei costumi e dei gusti dei popoli che prima di noi si sono assicurati, a loro modo, un reggimento politico unitario». Il movimento era sostenuto da due riviste: “Il selvaggio” di MINO MACCARI che si pubblicava a Firenze e “L’italiano” di LEO LONGANESI che si pubblicava a Bologna. Si trattava di riviste che godevano del consenso del regime per una certa collimazione ideologica, ma che non erano fasciste. Basti pensare al fatto che l’eccessivo ruralismo di queste riviste contrastava con la politica mussoliniana di risucchiare nel fascismo il vecchio ceto dirigente borghese. E Mino Maccari, che finì con l’essere espulso dal partito, ammoniva i suoi collaboratori a non cadere nelle maglie del conformismo: «Giovanotti, stiamo passando alla storia con dieci in condotta!». In contrapposizione a strapaese, stracittà s’inebriava di tecnicismo, progressismo, modernismo; esaltava la vita febbrile delle metropoli, ammirava le costruzioni in duralluminio e vetrocemento; plaudiva al futurismo, al cubismo e a tutti gli altri “ismi” della modernità. In effetti, stracittà era – come nota Bargellini – una specie di futurismo ripulito dalle verbosità marinettiane; un futurismo con lo scappamento chiuso e senza “clacson”. MASSIMO BONTEMPELLI (Como 1878 - Roma 1960), che con la sua rivista “Novecento” sosteneva stracittà, scriveva: «La vita più quotidiana e normale vogliamo vederla come un avventuroso miracolo: rischio continuo, e continuo sforzo di eroismo o di trappolerie per scampare». Ma neanche “Novecento” era una rivista fascista al cento per cento: il suo cosmopolitismo si muoveva, infatti, in direzione opposta al programma mussoliniano di richiamarsi alla tradizione italiana. Massimo Bontempelli non fu soltanto sostenitore di stracittà, ma anche il creatore di una nuova formula artistica che egli definì “realismo magico” e che consisteva da una parte nel creare intorno alle vicende reali e quotidiane un’atmosfera di rarefazione e di stupore, dall’altra nel narrare storie irreali ed impossibili con lucida, realistica chiarezza: e tutto questo mediante un gioco puramente cerebrale, che non aveva nulla a che fare con quel più vasto e profondo movimento artistico letterario che fu il surrealismo. Bontempelli fu anche autore di opere narrative (Il figlio di due madri, Gente nel tempo) e teatrali (Minnie, la candida; Nostra dea). c) “Solaria” e la narrativa Nel 1926, a Firenze, nasceva “Solaria”: era una gracile rivista a bassa tiratura, fondata da ALBERTO CAROCCI, ma destinata a crescere. Già dai primi numeri “Solaria” si poneva il pro-

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Il Novecento blema della narrativa – della narrativa, non della prosa, come aveva fatto “La Ronda” –: non si richiedevano più “elzeviri” o “capitoli”, ma racconti; si voleva una prosa che raccontasse, non che stilizzasse e liricizzasse. Perciò, pur se non mancarono i poeti, i collaboratori più assidui di “Solaria” furono i narratori, autori di racconti brevi o di romanzi a puntate: ALESSANDRO BONSANTI, ROMANO BILENCHI, GIOVANNI COMISSO, GIANI STUPARICH, GIANNA MANZINI, BONAVENTURA TECCHI. Si ebbe così intorno al 1930, sia per l’interesse alla narrativa incoraggiato da “Solaria”, sia per una più larga diffusione tra noi della narrativa straniera, un’apprezzabile ripresa del romanzo. FEDERIGO TOZZI (Siena 1883 - Roma 1920) narrò drammatiche vicende umane con una prosa asciutta e forte, subendo l’influenza del romanzo realista francese e di quello psicologico russo. Tra i suoi romanzi, oltre Con gli occhi chiusi (1919), il più meritamente noto è Tre croci (1920): racconto di una squallida vicenda familiare basata sull’interesse e sull’egoismo e conclusasi in modo miserevole e tragico. Con ALDO PALAZZESCHI – di cui già si è parlato a proposito dei crepuscolari – abbiamo un romanzo tipicamente borghese: non solo in senso sociale, ma nel senso delle aspirazioni, degli affetti, dei problemi dei personaggi, la cui psicologia non è più al limite della normalità – come avveniva nei romanzi di Pirandello, Svevo, Borgese ed anche Tozzi – ma rientra nella norma. Materia dei suoi romanzi sono, insomma, affetti umani e borghesi, problemi e sentimenti di sempre. Le sorelle Materassi (1930) sono la storia di due sorelle anziane rimaste nubili, che cercano un rimedio alla loro solitudine affezionandosi ad un nipote, che sarà invece la causa della loro disperazione. RICCARDO BACCHELLI (Bologna 1891 - Monza 1985), già incontrato tra i fondatori della “Ronda”, è, tra i contemporanei, il romanziere che più risente della lezione manzoniana: e ciò per il comune interesse alla storia, che Manzoni però vedeva come illuminata e diretta dalla Provvidenza, Bacchelli, invece, come fatta dagli uomini, abbandonati a se stessi e perciò meritevoli di tanta compassione. Il suo capolavoro è la trilogia Il mulino del Po (1938-1940), una specie di saga nordica in cui si narra la storia di una famiglia di mugnai padovani da Napoleone alla battaglia del Piave. Protagonista è la civiltà contadina padana: nel quadro di questa civiltà i personaggi sfumano, trasformandosi in ombre, divenendo popolo. Anche il paesaggio, non più un semplice dato naturale, viene storicizzato: è il paesaggio di quel certo tempo, fatto di quella certa fatica umana, di quelle certe sofferenze; è, insomma, il paesaggio-quadro di quella civiltà contadina. Tra l’individuo ed il paesaggio-quadro – che è fatica, umiliazione, dolore – si stabilisce una specie di lotta perenne: il che fa pensare un po’ a Verga, un po’ ai romanzi russi. Nello stile, sempre attento e sorvegliato, si avverte il tirocinio rondista dell’autore. Quando nel 1930 CORRADO ALVARO (San Luca, Reggio Calabria 1895 - Roma 1956) pubblicava il suo romanzo breve Gente in Aspromonte, sembrava ripetersi l’impegno che fu già dei veristi, di descrivere la vita problematica della gente del meridione. Ma tra Verga ed Alvaro intercorreva la temperie decadente, intercorreva il contrasto strapaese-stracittà: sicché l’ambientazione calabrese del suo romanzo non era motivata da polemica sociale e neanche da rappresentazione veristica di una situazione ambientale, ma dal desiderio di ricollegarsi al paradiso perduto dell’infanzia, dal bisogno spirituale di fuggire il “babelismo” della metropoli e

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Il Novecento della civiltà tecnologica. Motivi, questi, che tornavano insistentemente nelle altre opere dell’Alvaro: L’uomo è forte, la trilogia L’età breve, Mastrangelina e Tutto è accaduto (che narra le esperienze di un giovane calabrese inurbato), Quasi una vita e l’incompiuto Belmoro.

La letteratura umoristica Nel campo della produzione umoristica – e non senza riferimenti colti alla realtà culturale del tempo – va ricordata innanzitutto l’opera del prolifico ACHILLE CAMPANILE (Roma 19001977), senza dubbio il principe dell’umorismo italiano (Ma che cosa è quest’amore, In campagna è un’altra cosa, Agosto, moglie mia non ti conosco). Oltre ai suoi romanzi si devono citare le esilaranti opere teatrali Centocinquanta la gallina canta, L’inventore del cavallo e le Tragedie in due battute, riuscitissima parodia della sintesi futurista. Per il suo lavoro drammaturgico, Campanile è considerato l’antesignano del teatro dell’assurdo491. Altri scrittori che si cimentarono con la comicità furono CARLO MANZONI (Milano 19091975), l’inventore del surreale Signor Veneranda492; PITIGIRILLI (Dino Segre, Torino 18931975), prima “qualunquista”, poi “reazionario” e quindi convertito al cattolicesimo493; TRILUSSA (Carlo Alberto Sallustri, Roma 1871-1950), un po’ un moderno Fedro in dialetto romanesco, un po’ un Belli del Novecento.

La lirica La rinascita della narrativa, auspicata e incoraggiata da “Solaria”, era pur sempre condizionata dall’attuale situazione politico-culturale: sicché essa non approdò, per il momento, ad esiti nuovi ed originalmente validi sul piano stesso dell’arte. Più feconda continuò ad essere la poesia, la quale, essendo per sua natura destinata ad accogliere le voci intime della coscienza, meglio poteva estraniarsi dalla realtà del suo tempo. a) La poesia essenziale ed “ermetica” Se si fa eccezione per una poesia minore moventesi ancora nel solco della tradizione – ANTONIO ANILE, ADA NEGRI, FRANCESCO PASTONCHI, DIEGO VALERI – la poesia che va tra gli anni Venti-Quaranta è tutta impegnata in uno sperimentalismo che, fruendo di precedenti esperienze artistiche – il superamento degli schemi discorsivi operato dalla poetica decadente, le tendenze irrazionali del simbolismo e dell’impressionismo, l’analogia ed il verso libero dei futuristi, la cura stilistica dei “rondisti” ed anche la concezione crociana di una poesia intesa come intuizione lirica – mira ad un’essenzialità espressiva, nella quale, tolto via ogni elemento tecnico della poesia tradizionale, spetta alla “parola” ed al suo valore rivelatore cogliere e rappresentare «il lampo, l’illuminazione istantanea e folgorante» dell’intuizione poetica. Difficile 491

Che si svilupperà nel dopoguerra ed ha i suoi maggiori esponenti in Samuel Beckett ed Eugène Ionesco. 492 Nonché del “truce” detective Chico Pipa (Ti spacco il muso, bambola, Pancia da schiaffi, Ti faccio un occhio nero e un occhio blu, Io quella la faccio a fette! etc.). 493 Autore di gran successo negli anni Trenta, quindi osteggiato per la sua palese adesione al fascismo, narrò i motivi della sua conversione (era di origine ebraica) ne La piscina di Siloe.

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Il Novecento ed anche poco sicuro è distinguere in questa poesia nuova momenti cronologicamente diversi, che sarebbero il “frammentismo”, “la poesia essenziale”, l’“ermetismo”: e perché questi momenti si allineano e si confondono su una stessa direttrice artistica, che è quella di cui si è parlato; e poiché i rappresentanti di questa avanguardia poetica risentono sempre, anche se in maniera e misura diverse, dell’uno e dell’altro momento. Sicché, quando nel 1936, a seguito del saggio di Francesco Flora La poesia ermetica, si cominciò a parlare di ermetismo, non si apriva un momento nuovo della poesia sperimentale, ma si dava di essa una denominazione ed un giudizio. A Flora, infatti, sembrava che per l’abuso della tecnica dell’analogia la poesia di Giuseppe Ungaretti e di Paul Valéry fosse oscura ed ermetica. In seguito il termine “ermetismo” – come già era avvenuto per “decadentismo” e per “crepuscolarismo” – perse il suo significato negativo e venne accolto a rappresentare tutta quanta la nostra poesia d’avanguardia. Sul piano del contenuto – se di contenuto si può parlare a proposito di una poesia che non racconta, non rappresenta, non descrive, ma è soltanto «creazione di rapporti espressivi» (Onofri) – la poesia ermetica, escludendo ogni finalità morale, politica, civile, si fa evocazione di momenti della vita interiore del poeta ed espressione di quella crisi esistenziale dell’uomo che fu tipica del decadentismo. Da ciò la prevalenza del dolore e di un’angoscia profonda, di una disperazione che trova soltanto nella poesia un’estrema illusione di riscatto. «Il paradosso della lirica moderna sembra consistere in questo: una suprema illusione di canto che miracolosamente si sostiene dopo la distruzione di tutte le illusioni» (Solmi). b) I primi poeti nuovi Sulla strada di questa poesia nuova le prime presenze sono quelle di CAMILLO SBARBARO (Santa Margherita Ligure, Genova 1888 - Savona 1967), le cui liriche più belle sono ispirate agli affetti familiari (Se anche tu non fossi mio padre); di CLEMENTE REBORA (Milano 1885 Stresa, Verbania 1957), autore di una raccolta dal titolo significativo di Frammenti lirici; di PIETRO JAHIER (Genova 1884 - Firenze 1966), che cantò esperienze di guerra; e quindi di DINO CAMPANA (Marrani, Firenze 1885 Castelpulci, Firenze 1932), poeta che ebbe vita vagabonda e che, per una malattia di mente, venne ricoverato in una clinica psichiatrica dove finì i suoi giorni. Nei suoi Canti orfici ed altre liriche (1914) Campana dimostra di possedere la straordinaria attitudine – forse derivante dalla sua stessa eccitazione psichica – di cogliere sensazioni vivide ed immagini policrome, che rende poi attraverso un gioco fonico altrettanto acceso e suggestivo: Io vidi dal ponte della nave i colli di Spagna svanire, nel verde dentro il crepuscolo d’oro la bruna terra celando come una melodia: d’ignota scena fanciulla sola

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Il Novecento come una melodia blu, sulla riva dei colli ancora tremare una viola…494

c) Giuseppe Ungaretti Il “frammentismo” e l’essenzialità lirica sono le caratteristiche della poesia di Giuseppe Ungaretti (Alessandria d’Egitto 1888 - Milano 1970), una delle più rappresentative personalità della letteratura del Novecento. Dopo aver compiuto gli studi medi in Egitto, si recò a Parigi e frequentò la Sorbona. Qui conobbe i poeti dell’avanguardia francese Gide, Apollinaire, Valéry, che certamente influirono sugli orientamenti della sua poesia. Tornato in Italia, partecipò alla prima guerra mondiale, combattendo sul Carso e sull’Isonzo. Nel 1916 pubblicò la prima raccolta di liriche col titolo Il porto sepolto. Seguirono: Allegria di naufragi, Sentimento del tempo, Il dolore, La Terra promessa, Il taccuino del vecchio. Si era intanto stabilito a Roma, da cui si allontanò dal 1936 al 1942 per recarsi in Brasile come docente di letteratura italiana nell’università di S. Paolo. Ungaretti considera la poesia effetto di una folgorazione, di un fulmineo stato di grazia che gli permette una immediata e fugace rivelazione delle cose; nascono da qui il frammentismo e l’essenzialità della sua lirica, nonché la brevità estrema dei suoi componimenti. Si pensi, infatti, alla poesia che intitolò prima Cielo e mare, poi Mattina: M’illumino d’immenso

È innegabile come in questa poesia – che pur fu oggetto di critica e di caricatura da parte dei cultori della poesia tradizionale – vibri una vivida sensazione di luce e di immensità e come la parola, portata ad una tensione estrema, scandisca lo stupore del poeta di fronte a quella sensazione. Distrutto il metro, la rima, la sintassi, la stessa punteggiatura, la poesia di Ungaretti poggia tutta sulla “parola”, contemplata «nello spazio bianco dell’isolamento tipografico ed auscultata nelle più segrete qualità del peso, del colore, della ricchezza di risonanze possibili»: poesia è il mondo l’umanità la propria vita fioriti dalla parola

Poiché la poesia di Ungaretti si basa sulla parola singola non sulla sua sintassi contestuale, sulla parola incastonata nelle pause e negli spazi bianchi, essa spezza il ritmo melodico tradizionale, suggerendo un nuovo tipo di lettura, fratto e scandito – che è proprio quello con cui Ungaretti leggeva i suoi versi: In nessuna parte terra

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Dino Campana, Viaggio a Montevideo, da Canti orfici.

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Il Novecento mi posso accasare

Si esprime qui l’angoscia esistenziale del poeta, il motivo profondo della sua poesia. La vita gli appare come un continuo naufragio di sogni, di speranze, di illusioni: E subito riprende il viaggio come dopo il naufragio un superstite lupo di mare

Il sentimento del tempo gli fa sentire la precarietà dell’esistenza – tanto più se legata al destino della guerra –, il rapido fluire di ogni cosa: Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie

La spossatezza spirituale gli impedisce di tuffarsi nel vortice della vita: Non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo di strade Ho tanta stanchezza sulle spalle

d) Eugenio Montale Ungaretti aveva scritto che gli bastava un’illusione per farsi coraggio. Il mondo di Montale, invece, è più disperato, è un mondo privo di possibilità di evasione, è arido come una pietraia dove non cresce erba, è come una muraglia «che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia». Eugenio Montale (Genova 1896 - Milano 1981) fu in un primo momento attratto dalla musica: soltanto dopo la prima guerra mondiale, alla quale partecipò, incominciò a dedicarsi alla letteratura ed al giornalismo. Nel 1925 contribuì con un suo articolo alla scoperta di Italo Svevo, rimasto fino ad allora pressoché ignorato nell’ambiente culturale italiano. Trasferitosi a Firenze, collaborò alla rivista “Solaria”, Intanto pubblicava le sue raccolte di poesie: Ossi di seppia (1925), Le occasioni (1939), La bufera e altro (1956). Morì a Milano, dove si era trasferito nel 1948 per lavorare al Corriere della Sera, continuando a svolgere un’intensa attività letteraria che lo avrebbe portato, nel 1975, al premio Nobel. Il titolo della prima raccolta di poesie, Ossi di seppia, indica contemporaneamente l’arida angoscia del poeta per la desolata realtà del vivere e lo scrivere altrettanto arido e asciutto, fatto di «qualche storta sillaba e secca come un ramo». Colpisce infatti in Montale la caratteristi-

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Il Novecento ca della sua lingua poetica, profondamente antiletteraria, desunta ora dal linguaggio quotidiano, ora dai linguaggi tecnici ed alla quale concorrono anche parole dialettali. Il poeta lo sa e lo confessa apertamente in Ossi di seppia: Ascoltami, i poeti laureati si muovono soltanto fra le piante dai nomi poco usati: bossi, ligustri o acanti. Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi fossi dove in pozzanghere mezzo seccate agguantano i ragazzi qualche sparuta anguilla.

Eppure, questa lingua, di per se stessa scabra e impoetica, assume la potenza evocatrice di un’universale angoscia esistenziale: Spesso il male di vivere ho incontrato: era il rito strozzato che gorgoglia, era l’accartocciarsi della foglia riarsa, era il cavallo stramazzato.

Soltanto nell’indifferenza, nell’insensibilità o nel ritrovare nelle pieghe della memoria un passato perduto Montale ravvisa l’unico bene concesso agli uomini sulla terra. Ma queste occasioni consolatrici – che costituiscono la sostanza poetica de Le occasioni – sono un’illuminazione fugace, un’assurda pretesa della memoria: Tu non ricordi; altro tempo frastorna la tua memoria; un filo s’addipana.

Tra le raccolte successive vanno ricordate Xenia (raccolta in memoria della moglie scomparsa che confluirà nel volume Satura, 1971) e Dario postumo, pubblicato nel 1996. e) Umberto Saba Meno legata alle forme della poesia nuova e sperimentale, ma come quella ispirata ad un senso profondo di angoscia esistenziale è la poesia di Umberto Saba (Trieste 1883 - Gorizia 1957). Dopo aver compiuto studi irregolari e vissuto una giovinezza avventurosa, aprì a Trieste una piccola libreria antiquaria, che fu anche luogo di incontro di letterati ed artisti. Raccolse nel Canzoniere le sue poesie. Della sua posizione di isolato tra le correnti letterarie del tempo ci parla egli stesso nella sua autobiografia in versi: Gabriele d’Annunzio alla Versiglia vidi e conobbi; all’ospite fu assai egli cortese, altro per me non fece. A Giovanni Papini, alla famiglia che fu poi della “Voce”, io appena o mai non piacqui. Ero tra loro di un’altra specie.

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Il Novecento Già questi versi, con la loro intonazione narrativa e quasi prosastica di tipo crepuscolare, dimostrano quanto la poesia di Saba sia lontana dal frammentismo e dalla lirica essenziale di un Ungaretti o di un Montale. Al crepuscolarismo, o addirittura al decadentismo pascoliano, lo legavano anche l’amore per le piccole cose e la predilezione per il mondo animale, dal quale traeva ora ispirazione diretta, ora confronti ed analogie: Quell’uguale belato era fraterno al mio dolore. Ed io risposi, prima per celia, poi perché il dolore è eterno, ha una voce e non varia. Questa voce sentiva gemere in una capra solitaria.

Ma nel dolore eterno Saba intravedeva vie di salvezza: prima fra tutte quella di «saper uscir da se stessi» e di godere «l’alta gioia» di non essere più io, d’essere questo soltanto: fra gli uomini un uomo.

Poi quella offerta dalla poesia, che costituisce sempre una porta aperta lungo il muro della solitudine e della pena, una porta attraverso la quale si perviene alla «dolcezza di un caldo angolo». Importanti di Saba sono anche alcune sue notazioni critiche di indirizzo psicanalitico, effetto dell’interesse con cui anche egli – come il suo concittadino Svevo – aveva seguito le dottrine di Freud. f) Salvatore Quasimodo e gli altri ermetici Tra il 1930 ed il 1940 l’esasperazione dell’uso dell’analogia ed il col legare con essa termini sempre più distanti – nella convinzione che “maggiore è la distanza, maggiore è la poesia” – rendevano più ermetico e criptico, quasi da iniziati, il linguaggio poetico. Appartengono a questa fase dell’ermetismo il lucano LEONARDO SINISGALLI (1908-1981), il campano ALFONSO GATTO (1909-1976), il fiorentino MARIO LUZI (1914-2005), il lombardo VITTORIO SERENI (1913-1983) e, più noto fra tutti, il premio Nobel495 SALVATORE QUASIMODO (Modica, Ragusa 1901 - Napoli 1968). Inizialmente Quasimodo frequentò studi tecnici, conseguendo il diploma di geometra. Impiegatosi al genio civile, dopo il successo dei primi versi lasciò l’impiego per darsi al giornalismo. Alla prima importante raccolta di versi, Oboe sommerso (1932), fece seguire Ed è subito sera (1942), che prende titolo dalla sua lirica più nota: Ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera. 495

Ne fu insignito “a sorpresa” nel 1959 e ritirò il premio sostenendo la necessità per l’artista dell’impegno politico. Allora era iscritto al Pci, trent’anni prima era stato un fervido fascista… Peraltro, quella del repentino passaggio (generalmente in prossimità del 25 luglio 1943) dal fascismo all’antifascismo fu caratteristica della stragrande maggioranza degli intellettuali italiani (cfr note 495, 496 e 497).

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Il Novecento In seguito, con Giorno dopo giorno (1947) ed altre raccolte pubblicate dopo il secondo conflitto mondiale, Quasimodo ha superato la sua desolata visione del mondo per aprirsi con maggior senso di comprensione e di responsabilità alle vicende umane, soprattutto a quelle vicende tragiche dell’umanità colpita dalla violenza della guerra: E come potevamo noi cantare con il piede straniero sopra il cuore, tra i morti abbandonati nelle piazze sull’erba dura di ghiaccio, al lamento d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero della madre che andava incontro al figlio crocifisso sul palo del telegrafo?

Il teatro Il teatro tra le due guerre non approdò ad esiti nuovi ed originali, rimanendo legato al modello pirandelliano o a quello dannunziano. Lo stesso “teatro del grottesco”, iniziato da LUIGI CHIARELLI (Trani 1884 - Roma 1947) con la sua commedia La maschera e il volto (1916) e tendente a satireggiare in tono grottesco-caricaturale il “perbenismo” ipocrita, si ispirava sempre al contrasto pirandelliano tra la “vita” e “le forme”, anche se reso con un registro più espressionistico. Al teatro pirandelliano si ispirarono anche PIER MARIA ROSSO DI SAN SECONDO (Caltanissetta 1887 - Lucca 1956), autore tra gli altri di un dramma di successo, Marionette, che passione (1928), caratterizzato da un linguaggio adatto ad “evocare” piuttosto che a “rappresentare” passioni e situazioni; ed il già ricordato MASSIMO BONTEMPELLI, autore di Nostra dea (1925) e Minnie, la candida (1927). Al “teatro di poesia” dannunziano, fatto di passioni violente espresse in toni spesso declamatori, si ispirarono SEM BENELLI (Firenze 1877 - Genova 1949), autore de La cena delle beffe e L’amore dei tre re496; ed ERCOLE LUIGI MORSELLI (Pesaro 1882 - Roma 1921), autore dei drammi mitologici Orione e Glauco. Un posto a parte spetta ad UGO BETTI (Camerino 1892 - Roma 1953), che fu certamente il migliore drammaturgo della sua generazione. Il suo teatro – Frana allo scalo Nord; Corruzione a Palazzo di giustizia; Delitto all’isola delle capre – è ispirato da una forte carica morale che lo guida ad una profonda analisi nel dominio della coscienza e gli fa avvertire in modo drammatico la debolezza dell’uomo ed il suo destino di peccato e di espiazione. Infine va ricordato GIOVACCHINO FORZANO (Borgo San Lorenzo, Firenze 1884 - Roma 1970), autore di drammi497 e di libretti d’opera498. Politicamente impegnato, fu l’ideatore del “Carro di Tespi”, un’iniziativa per portare il grande teatro di prosa nelle contrade sfornite di un teatro. 496

Ambedue le opere vennero musicate, rispettivamente, da Umberto Giordano e Italo Montemezzi senza modifiche del testo originale (se non alcuni tagli). 497 Si ricordano Danton, I Fiordalisi d’oro e Il conte di Bréchard, di ambientazione rivoluzionaria e Gutlibi, sull’assassinio degli Zar a Ekaterinburg, oltre a Campo di maggio, scritto con Mussolini. 498 Tra cui Suor Angelica e Gianni Schicchi per Puccini, Lodoletta e Il piccolo Marat per Mascagni, Il Re per Giordano.

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La critica e Antonio Gramsci L’orientamento predominante della critica letteraria fu, in questo periodo, il “crocianesimo”. Pur ammettendo, infatti, i limiti e le latenti contraddizioni della critica crociana, se ne condividevano i principi fondamentali e si intendeva così la critica come riflessione sul fatto artistico, mirante a coglierne ed isolarne il nucleo vivo dal contesto praticistico, definendone la natura. Entro tali limiti furono “crociani” il siciliano LUIGI RUSSO (1892-1861), il calabrese UMBERTO BOSCO (1900-1987), l’aostano NATALINO SAPEGNO (1901-1990), avvicinatosi poi, per effetto della lezione gramsciana, alla critica sociologica; il piemontese ATTILIO MOMIGLIANO (1883-1952), il toscano PIETRO PANCRAZI (1893-1952), il sannita FRANCESCO FLORA (1891-1962). “Crociani” anch’essi, ma più attenti ai fatti stilistici dell’opera d’arte che non agli aspetti psicologici, furono il materano GIUSEPPE DE ROBERTIS (1888-1963), il torinese MARIO FUBINI (1900-1977) e tutti quei critici che appartennero alla scuola che fu detta di “critica stilistica”. Anticrociano fu invece ANTONIO GRAMSCI, una delle più spiccate personalità della vita politica e culturale del tempo. Nato ad Aies, provincia di Cagliari, nel 1891, fu uno dei fondatori del Partito Comunista d’Italia499. Per la sua attività antifascista venne arrestato e condannato a venti anni di reclusione. Trasferito poi in una clinica di Roma per le sue precarie condizioni di salute, vi morì nel 1937. Fu proprio durante la prigionia che egli cercò di dare ordine alle meditazioni e riflessioni sulla situazione politica e culturale d’Italia, che considerò sempre situazioni interdipendenti: nacquero così i Quaderni del carcere, pubblicati postumi nel 1948500. Convinto del grande contributo che una cultura progressista avrebbe portato alla lotta politica per il rinnovamento delle strutture sociali ed economiche, Gramsci rimproverava agli intellettuali italiani, ed in modo particolare ai letterati, l’incapacità di liberarsi dalle tradizioni umanistiche ed arcadiche ed il loro aristocratico distacco dalle masse popolari; auspicava invece il sorgere di una letteratura “nazional-popolare”, non asservita cioè agli interessi ed al gusto dei ceti al potere, e di un “nuovo intellettuale”, non più uno specialista dell’immaginazione, ma un uomo calato nel reale (il cosiddetto intellettuale “organico” al Partito). Partendo da tali premesse è facile dedurre qual dovesse essere l’orientamento della critica gramsciana, la quale mirava sempre a scoprire i rapporti tra l’artista e la società in cui viveva e a considerare «l’opera letteraria come la trasfigurazione artistica di un contenuto socialemorale». Orientamento critico, questo, nel quale è evidente da una parte la lezione desanctisiana, dall’altra la formazione marxista e sociologica di Gramsci.

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Nato da una scissione dal Partito Socialista verificatasi al congresso di Livorno del 1921. Sui Quaderni ha sempre pesato la “censura selettiva” operata da Togliatti, capo del partito comunista italiano e storico avversario di Gramsci (sembra ormai acclarato che fu Togliatti a far arrestare Gramsci e ad opporsi alla sua scarcerazione quando il regime fascista caldeggiava uno scambio di prigionieri con l’Urss – cfr Massimo Caprara, Gramsci e i suoi carcerieri, Ares, Milano 2001). 500

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Il Novecento

Dal dopoguerra ad oggi La nuova cultura La fine del secondo conflitto mondiale, con la fine del fascismo e, quindi, con il nuovo assetto democratico e repubblicano assunto dallo Stato italiano, determinò un orientamento nuovo della cultura, per tanti versi antitetico nei confronti della cultura del “ventennio”. I principali aspetti (e quelli più fertili di esiti) di questa nuova cultura furono: un’interpretazione critica dei fatti della nostra storia, soprattutto di quella risorgimentale, che più teneva conto dei fattori economico-sociali501; la valorizzazione di quegli autori che la dittatura aveva epurato dalla cultura ufficiale; la divulgazione del pensiero di Marx e Engels e la conseguente diffusione della critica marxista e dei suoi addentellati (come discipline fino ad allora quasi ignorate tra noi, quali la sociologia letteraria, la linguistica, lo strutturalismo, l’antropologia culturale, la psicanalisi, fino ad allora arginate dalla cultura italiana); una maggiore attenzione alla letteratura straniera contemporanea ed allo studio comparato delle letterature; una massiccia divulgazione culturale per opera di ricche collane “economiche” e “tascabili”; uno straordinario sviluppo dei mass-media, soprattutto della televisione che si diffuse molto rapidamente502. Per quanto riguarda gli orientamenti letterari, si avvertiva ora la stanchezza per una letteratura disimpegnata, attenta solo alla “prosa d’arte” o esprimente in versi ermetici l’individuale pena di vivere. Si voleva invece – ed in questo era viva la lezione gramsciana – una letteratura impegnata, specchio della realtà sociale contemporanea, mezzo di progresso culturale ed insieme sociale e politico. A rappresentare, in modo inequivocabile e polemico, questa esigenza, fu il “Politecnico”, la rivista che ELIO VITTORINI fondò a Milano nel 1945. Programma della rivista era infatti quello di strappare il letterato dal suo disimpegno per guidarlo sul «terreno dell’economia, della produzione e della distribuzione della ricchezza», per far coincidere in lui l’impegno di letterato con quello di uomo e di cittadino. Nell’articolo programmatico del primo numero così Vittorini scriveva: «Non più una cultura che consoli nelle sofferenze, ma una cultura che protegga dalle sofferenze, che le combatta e le elimini».

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Il Fascismo si era proposto come “secondo risorgimento”: di qui un’interpretazione positiva del periodo in questione. Dal canto suo, la critica marxista dette sì maggiore risalto al fenomeno dell’insorgenza antigiacobina (cioè la resistenza armata alle idee della rivoluzione francese) ed al brigantaggio politico antiunitario, ma inquadrando i due movimenti in uno scenario esclusivamente socioeconomico, senza quindi poter comprendere le loro intime e sostanziali motivazioni di tipo spirituale e religioso. 502 In Italia le trasmissioni televisive, già iniziate a livello sperimentale durante il Fascismo (che aveva prestato molta attenzione ai mezzi di comunicazione di massa, lanciando la radio e sostenendo il cinema) e sospese durante la guerra, cominciarono pubblicamente il 3 gennaio 1954.

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Il neorealismo Della letteratura del dopoguerra il fenomeno letterario più emblematico ed impegnativo non poteva essere, quindi, che il “neorealismo”. Se ne cominciò a parlare intorno al 1945, anche se già in alcune opere narrative precedenti si riscontravano certe sue caratteristiche, del resto mai rigidamente determinate. Inizialmente il termine ebbe un significato polemico: voleva indicare, in contrapposizione alla letteratura del tempo fascista, una letteratura di impegno socio-politico e di risposta all’ambiente reale ed al momento storico. Quindi, intorno al termine si polarizzarono esperienze e fatti culturali diversi. Per questo il neorealismo non era una scuola e neanche una corrente artistico-letteraria; era piuttosto un atteggiamento culturale. E per questo, come vedremo, si svilupparono in esso aspetti e tematiche diversi. Sul piano dei precedenti letterari, il neorealismo si poneva sul filone dell’arte verista del secondo Ottocento, tanto che a proposito di alcuni autori – o almeno di alcune loro opere, come Paesi tuoi di Pavese – non è facile la loro collocazione tra verismo o neorealismo. Ad interrompere quel filone era stato, oltre all’individualismo decadente, la cultura fascista503: che o aveva trasformato le istanze sociali del verismo regionalistico nei miti, spesso chiassosi, di strapaese e stracittà; o aveva ripudiato la realtà del presente in nome di una retorica rievocazione del passato; o, più frequentemente, aveva consigliato il disimpegno della letteratura ed il suo rifugiarsi nell’ideale dell’estrema pulizia formale – salvo organizzare, dal 1934 in poi, i Littoriali della Cultura504, stimolando un vivace dibattito interno, fine che raggiunse pure con le numerose riviste culturali ideologizzate, come Primato ed altre505. 503

Il Fascismo, anziché ostacolare gli intellettuali, cercò nella maggior parte dei casi di neutralizzarli, foraggiandoli e rendendoli dipendenti dal regime. È il caso delle numerosissime sovvenzioni a romanzieri, poeti e giornalisti (ogni tanto le liste dei beneficiari vengono ripubblicate facendo arrossire più d’uno). 504 I Littoriali della Cultura consistevano in un certame universitario (inizialmente riservato agli iscritto al Guf – Gruppi dei Fascisti Universitari – ma poi ampliato anche agli studenti di liceo) che rappresentava un’importante occasione di dibattito e di riflessione per le generazioni interamente formatesi sotto il fascismo. Tra gli entusiasti aderenti – la retorica era d’obbligo – alle varie edizioni dei Littoriali si incontrano quasi tutti i nomi degli intellettuali ed uomini politici che successivamente tardi avrebbero formato l’intellighentsia progressista. Ciò permise all’ex ministro Bottai, promotore dei Littoriali, di scrivere nel 1954: «Ai fascistissimi di ieri corrispondono i democraticissimi di oggi». 505 Tra le altre La vita italiana (direttore Giovanni Preziosi), La Torre (Julius Evola), Critica fascista e Primato (ambedue dirette da Bottai). Tanto per avere un’idea, a Primato collaborarono, tra gli altri: per la filosofia Nicola Abbagnano, Enzo Paci, Ugo Spirito; per la letteratura e la critica letteraria Walter Binni, Enrico Falqui, Francesco Flora, Mario Praz, Pietro Pancrazi; per le scienze politiche e la storia Manlio Lupinacci, Francesco Olgiati, Luigi Salvatorelli, Nicola Valeri, Giorgio Spini; per la narrativa Corrado Alvaro, Alessandro Bonsanti, Giorgio Comisso, Vittorio Brancati, Giuseppe Dessì, Vasco Pratolini, Cesare Pavese; per la poesia Alfonso Gatto, Mario Luzi, Sandro Penna, Salvatore Quasimodo, Eugenio Montale, Giuseppe Ungaretti; per il giornalismo Leo Longanesi, Paolo Monelli, Indro Montanelli; per la pittura Filippo De Pisis, Renato Guttuso, Orfeo Tamburi. Si può dunque comprendere l’amarezza di Bottai sopra riportata…

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Il Novecento Questo spiega la componente polemica che era alla base del nuovo realismo ed anche il suo carattere distintivo nei confronti del verismo. Insomma, l’esperienza della dittatura fascista e la dura esperienza umana della guerra, dei bombardamenti, degli sfollamenti, dei lager e delle foibe pretendevano di essere riscattate dalla letteratura e di riscattare a sua volta la letteratura dal comodo disimpegno e dalla futile “pagina d’arte”. In conclusione, rispetto al verismo, nel neorealismo c’era un maggiore impegno ideologico e l’intento di rappresentare i problemi socio-politici senza limitarsi ad un’oleografia pietistica e consolatoria, ma che assumesse un più dichiarato impegno polemico e costruttivo. Ed in tutto ciò erano evidenti, oltre alla lezione di Gramsci, le indicazioni della critica marxista e, più precisamente, del realismo critico di Lukács506, secondo cui la letteratura deve cogliere la linea di trasformazione della società, il tramonto dei vecchi ceti e l’ascesa delle nuove. Da queste indicazioni, però, nasceva un pericolo: presupposto che l’arte dovesse essere “rispecchiamento” di una realtà sociale, ne derivava non solo che l’engagement (l’impegno) era condizione necessaria di essa, ma che le opere che tenevano conto di questo presupposto erano nel “contemporaneo”, mentre quelle che lo ignoravano ne erano al di fuori. La critica da muoversi a questo criterio è evidente: non vi è teoria letteraria in diritto di delimitare il campo dell’arte, non vi è movimento letterario in grado di monopolizzare i problemi, gli ideali, le passioni dell’umanità. Ecco perché, anche se la maggior parte dei narratori italiani dal 1945 al 1955 – e forse anche da prima – gravitavano intorno all’orbita del neorealismo, hanno inteso in modo diverso il punto di incontro tra realtà e romanzo. Pochi, infatti, e certamente non tra i migliori, hanno considerato il neorealismo come una rappresentazione senza schermi della realtà sociale, nella esclusione di ogni diaframma culturale e letterario, nella trascrizione esatta del reale, nel nudo spaccato della vita, nella trascrizione immediata della lingua parlata, nel velleitario e polemico rifiuto del “bello scrivere”. Tutti gli altri, invece, hanno dato una propria interpretazione alle premesse realistiche. Così Cesare Pavese, pur considerato da molti un caposcuola del neorealismo, si teneva sempre con un piede dentro e con un piede fuori della «rugosa» realtà, inseguendo quella che per lui era la realtà più vera: quella dei suoi sogni e delle sue invenzioni. Così Italo Calvino non snaturava né deformava la realtà, ma ne proponeva un’interpretazione in chiave fiabesca, volta a coglierne un ritmo segreto, mentre Carlo Cassola, col suo “realismo elegiaco” e la sua poetica del “subliminare”, ci dava la cronaca psicologica di un’epoca ed Elio Vittorini ammantava di prosa lirica la sua attenta visione della realtà. a) I pre-neorealisti L’etichetta di neorealista, o addirittura di caposcuola del neorealismo, è assai discutibile a proposito di CESARE PAVESE (S. Stefano Belbo, Cuneo, 1908 - Torino 1950). In lui, infatti, l’interesse per la realtà si univa a quello per la forma e s’ammantava di atteggiamenti decadenti. Qualche settimana prima di uccidersi – si suicidò in un alberghetto di Torino – aveva confessato in un’intervista alla radio di aver sempre avuto «sguardo aper506

György Lukács (1885-1971), studioso ungherese di lingua tedesca, considerato il massimo esponente della critica marxista (Estetica, 1963).

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Il Novecento to alla realtà immediata, quotidiana, rugosa, e riserbo professionale, artigiano, umanistico; consuetudine coi classici come fossero contemporanei e coi contemporanei come fossero classici: la cultura, insomma, intesa come mestiere». Dopo avere esordito come poeta con la raccolta Lavorare stanca, Pavese aveva iniziato la sua attività di narratore col romanzo Paesi tuoi (1944), che si ispirava al contrasto tra città e campagna, col prevalere di quest’ultima. Seguirono altre opere narrative – Dialoghi di Leucò (1947), Prima che il gallo canti e La casa in collina (entrambi del 1948), La bella estate (1949), La luna e i falò (1950) – nelle quali la sostanza realistica – la vita contadina delle colline piemontesi e quella piccolo-borghese di Torino, la guerra, l’attività partigiana – si fondeva con l’elemento autobiografico e con la sua intima angoscia: quella stessa che gli ispirò il diario Il mestiere di vivere e che lo spinse ineluttabilmente al suicidio. ALBERTO MORAVIA (Alberto Pincherle, Roma 1907-1990) ad appena ventidue anni conquistò grande notorietà col suo romanzo Gli indifferenti507: un quadro di costume borghese, nel quale è rappresentata, in modo lucido e spietato, l’assenza di ogni valore spirituale e morale senza alcuna prospettiva di catarsi: «Né purificazione, né espiazione – dice uno dei personaggi – e neppure famiglia… indifferenza, indifferenza… soltanto indifferenza». Il romanzo fece chiasso, anche perché urtava contro la propaganda fascista che si preoccupava allora di dimostrare la salute della società italiana. Sempre la borghesia – una borghesia ammalata di apatia o sospinta da interessi ambigui e morbosi – fece da sfondo alle opere successive: Le ambizioni sbagliate (1935), L’imbroglio (1937), Agostino (1944). Poi Moravia spostò la sua attenzione dalla borghesia ricca e viziosa al popolo, scegliendo quello dei quartieri e delle borgate romane, facendo parlare nei suoi sessantuno Racconti romani (1954) facchini, stagnari, macellai, meccanici e garzoni in preda ciascuno ad un’ossessione, un desiderio, un guaio qualunque. Ne nasceva così un nuovo grande quadro di costume, non borghese ma popolare, rappresentato con pretesa oggettività senza alcuna conclusione ideologica o prospettiva morale. Ancora il popolo, ma visto nelle drammatiche vicende della guerra e perciò riscattato dalle pettegole beghe dei Racconti romani, è al centro del romanzo La Ciociara (1957): la triste storia di due popolane, madre e figlia, brutalmente violentate dai marocchini durante la guerra, con la difficoltà di superare quello spaventoso trauma. Si è parlato a proposito di Moravia di “moralismo freddo” – e la tesi piaceva allo stesso autore –, cioè di un moralismo non predicatorio, ma che nascerebbe dallo stesso interno dell’azione raccontata. Moravia, stilisticamente dimesso e scarno – come chi intenda fare soltanto cronaca –, ha abilità di narratore; resta comunque il fatto che il suo è il mondo dell’inerzia morale, del vizio, della passività – non si dimentichi che La noia (1960) è uno dei suoi romanzi più emblematici – e che i suoi personaggi, grigi e apatici, sembrano rispondere unicamente ai richiami materiali della vita. Infine le ultime prove di Moravia rasentano la pornografia. 507

«Il romanziere ventiduenne lo ha pubblicato a sue spese; ma questo investimento, secondo i maligni, gli consentirà di vivere letterariamente di rendita per tutta la vita». Enrico Nistri, Gli Anni Trenta, Loggia de’ Lanzi, Firenze 1995, p. 26.

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Il Novecento b) Il filone meridionalista ELIO VITTORINI (Siracusa 1908 - Milano 1966) diede al neorealismo una sua propria, lirica caratterizzazione, soprattutto nel romanzo che si ritiene sia il suo capolavoro: Conversazione in Sicilia (1941). Compare con esso una delle più frequenti tematiche del neorealismo: quella meridionalistica. Il perché di questa assidua presenza è facilmente intuibile: ad una letteratura impegnata, quale voleva essere il neorealismo, non poteva essere estraneo uno dei più ardui problemi della nostra vita nazionale, il problema del Mezzogiorno. Conversazione in Sicilia è infatti un incontro memorabile col mondo del Sud, raccontato in prima persona dal protagonista, un siciliano che vive da molti anni lontano dalla sua terra. Il significato del libro non sta nei fatti, ma nel valore che l’autore da alle cose di cui parla, nello stato d’animo con cui le presenta, nell’atmosfera – lirica e rarefatta – con cui le circonda. Sembra addirittura che qui Vittorini sia un neorealista soltanto per l’argomento che tratta, non per lo stile. Il fatto è che la coscienza di un mondo “offeso” dalla violenza, di un contrasto disumano tra deboli e potenti non si fa polemica battagliera, ma “non speranza” ed “astratti furori”; non si sviluppa in analisi dettagliata di situazioni, ma in commossa poesia. Il linguaggio stesso non è quello della prosa, ma quello della lirica; non il linguaggio aperto e chiaro nel neorealismo, ma quello difficile e chiuso dell’ermetismo, fatto di soppressione di nessi, di ellissi, di spezzature: Uno, a sette anni, ha miracoli in tutte le cose, e dalla nudità loro, dalla donna, ha la certezza di esse, come suppongo che lei, costola nostra, l’ha da noi. La morte c’è, ma non toglie nulla alla certezza; non reca mai offesa, allora, al mondo “Mille e una notte” dell’uomo. Ragazzo, uno non chiede che carta e vento, ha solo bisogno di lanciare un aquilone. Esce e lo lancia, ed è grido che si alza da lui, e il ragazzo lo porta per le sfere con filo lungo che non si vede, e così la sua fede consuma, celebra la certezza.

Qui la poesia è determinata anche dall’intrusione di quello che Cassola chiama il mondo “subliminare”, di quel che vive nel fondo dell’anima, al di là di ogni engagement col mondo presente: ed è la memoria, è l’infanzia con le sue illusioni. Onde avviene per Vittorini quello che era avvenuto per Verga e per Alvaro: il mondo meridionale, povero, umile, con la sofferenza atavica scavata sul volto degli uomini, è visto attraverso il ricordo-nostalgia di chi da esso si è distaccato, ad esso torna e ad esso mira come ad uno stato di innocenza primigenia, come ad un Eden perduto. Verga da Milano, Alvaro da Berlino o da Roma, Vittorini da Milano cantano con accenti lirici e commossi il mondo del Sud. Il fatto è che, in loro, Sud ed infanzia si confondono in un’unica, commossa rievocazione, dalla quale il Sud esce poeticizzato e come riscattato dai suoi mali e dai suoi dolori. Più realistico, invece, e cioè posto su una dimensione storico-sociale, non liricofavolosa, è il quadro del Sud nel romanzo di FRANCESCO JOVINE (Guardialfiera, Campobasso 1902 - Roma 1950) Le terre del Sacramento, in cui la lotta sociale dei contadini centro-meridionali si inquadra nella visione ottimistica di tutta una realtà in movimento. La denuncia dell’arretratezza della società contadina del Sud e la ricerca delle sue cause alla base del romanzo-saggio di CARLO LEVI (1902-1975) Cristo si è fermato ad Eboli, che descrive il periodo del confino dell’autore in Lucania.

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Il Novecento Immerso nella sua isola è poi VITALIANO BRANCATI (1907-1954) che con Don Giovanni in Sicilia e Il bell’Antonio ha lasciato due irridenti bozzetti della mentalità siciliana. Infine estremamente legato alla sua terra d’origine, Napoli (che peraltro ha lasciato per andare a vivere a Roma), è RAFFAELE LA CAPRIA (1922), autore degli struggenti Ferito a morte e L’armonia perduta. c) Il filone della guerra e della Resistenza Un’altra frequente tematica del neorealismo è costituita dalla guerra e dalla Resistenza. E sarebbe tematica che, prestandosi di meno alla trasfigurazione lirica operata dalla memoria – si tratta infatti di vicende vissute dagli autori già nella maturità – più dovrebbe rispondere all’esigenza del documentarismo, che è un aspetto del neorealismo. Se non che le tendenze oltranziste della corrente, pretendendo una letteratura politicamente impegnata, la fanno spesso approdare a posizioni manichee – da una parte tutto il bene, dall’altra tutto il male – e le fanno assumere assai spesso atteggiamenti propagandistici. Ed è per questo, forse, che non è nato tra noi il capolavoro del periodo bellico e postbellico, in cui, al di fuori delle valutazioni politiche, fosse tutto e soltanto il dramma del popolo: la fame, l’umiliazione, la prostituzione, il commercio umano. In questo senso una delle opere più riuscite è La pelle di CURZIO MALAPARTE508 (Curzio Suckert, Prato 1898 - Roma 1957), già “strapaesano” ed entusiasta fascista. Le parole di Eschilo, che Malaparte pone in testa al suo romanzo («Se rispettano i templi e gli dèi dei vinti, i vincitori si salveranno»), indicano già lo spirito con cui l’autore narra la tragedia italiana. Uscendo dagli schemi tristi e logori di “oppressori” e “liberatori”, Malaparte confonde Anglo-americani e Tedeschi in un’unica, nefanda opera perpetrata ai nostri danni. E lo fa in uno stile in cui il particolare realistico sfuma in una visione allucinante, in una specie di sogno e di incubo. La lotta armata clandestina è pure al centro dei romanzi di BEPPE FENOGLIO (Alba 1922 - Torino 1963). Partigiano, Fenoglio prese viva parte alle vicende che racconta nei suoi romanzi: I ventitré giorni della città di Alba, Una questione privata, Il partigiano Johnny. Ma partendo da quelle vicende, l’autore giunge all’intuizione di una tragica condizione umana, dominata dalla necessità della violenza. Il clima bellico e postbellico torna nei romanzi di CARLO CASSOLA (1917-1987) ed in quello che può considerarsi il suo capolavoro: La ragazza di Bube. Per effetto del suo «realismo elegiaco» (Battaglia) quel clima bellico subisce nei suoi romanzi quasi una rarefazione, perde la sua atmosfera violenta, lasciando spazio a sentimenti più intimi e miti. Così ne La ragazza di Bube compaiono figure elementari, quasi primitive, che, come tali, credono nei sentimenti elementari, primitivi dell’umanità: l’amore, la fedeltà, l’amicizia; e dunque soffrono nel vedere adulterati ed ingannati tali sentimenti. In questo filone vanno anche ricordati La storia di ELSA MORANTE (1912-1985), Uomini e no di Elio Vittorini ed infine Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino (cfr oltre), considerato il capolavoro del genere.

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Malaparte è anche autore, fra l’altro, di Kaputt e Maledetti Toscani.

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Il Novecento La letteratura “concentrazionaria” ha il suo apice in Se questo è un uomo di PRIMO LEVI (1919-1987) che ha raccontato anche, nel seguito La tregua la sua allucinante odissea per tornare a casa dal campo di concentramento di Auschwitz. C’è da segnalare anche una serie di romanzi che potremmo arditamente definire “revisionisti”: da Donne e mitra (1950) di ENRICO DE BOCCARD a La caduta di Varsavia (1963) di MARIO GANDINI, scritti da due reduci; da Notti e Nebbie di CARLO CASTELLANETA a Tiro al piccione di GIOSE RIMANELLI (dai quali sono stati tratti due validi film rispettivamente di M. T. Giordana e G. Montaldo); da A cercar la bella morte (1986) di CARLO MAZZANTINI fino al recentissimo Le uova del drago (2005) di PIETRANGELO BUTTAFUOCO, che hanno a protagonisti (solitamente positivi) militi della Repubblica Sociale Italiana509. d) Il filone populista Sentimenti, questi, che sono anche di quei popolani semplici e buoni che costituiscono i personaggi di VASCO PRATOLINI (Firenze 1913 - Roma 1991). Ci riferiamo soprattutto a quello che ci sembra il più riuscito dei suoi romanzi: Storia di poveri amanti (1947); che non è un romanzo sentimentale, come il titolo potrebbe far credere, ma il romanzo di una strada e di un’epoca: la strada è la popolare via del Corno a Firenze, l’epoca è quella delle prime manifestazioni dello squadrismo fascista. In questa strada, dove si vive seduti dinanzi agli usci di casa, affacciati alle finestre, ognuno si interessa cordialmente, simpaticamente ai fatti degli altri. Si determina così una coralità di rappresentazione sconosciuta anche ai Malavoglia del Verga ed un’atmosfera di pietosa solidarietà di fronte alle pene di ciascuno. Dalla fiorentina via del Corno alle borgate romane descritte da PIER PAOLO PASOLINI510 (Bologna 1922 - Ostia, Roma 1975): ma i personaggi, pur restando povera gente, sottoproletariato urbano, non sono più gli stessi. Il povero mondo di Pratolini è fatto di diseredati che nascondono nel fondo di se stessi una forza che non è di tutti, un’accettazione pudica e coraggiosa delle proprie sventure. Il mondo di Pasolini, invece, e ci riferiamo soprattutto al più emblematico dei suoi romanzi, Ragazzi di vita (1955), è fatto di ragazzi che vivono alla giornata, di espedienti, per risolvere i problemi della fame e del sesso, in un ambiente di corruzione e di miseria, dove si muovono ladri, pederasti e prostitute. Sono ragazzi senza lavoro, senza coscienza politica e, soprattutto, senza coscienza morale, che vivono in uno stato aberrante che sa di pre-socialità. Posizione che essi accettano passivamente, come accettano l’ambiente in cui vivono, specie di ghetto ai margini della metropoli: 509

Vanno anche ricordati i lavori di Carlo Sgorlon (cfr sotto) da L’armata dei fiumi perduti (sui Cosacchi stanziati nel Friuli), La foiba grande, sulla mai abbastanza evidenziata pulizia etnica operata dai partigiani titini in Italia, La malga di Sîr sulla strage di Porzûs perpetrata dai partigiani “rossi” (cioè comunisti) contro i partigiani “bianchi” (monarchici) e falsamente attribuita ai nazifascisti. 510 Noto soprattutto come regista (Mamma Roma, Uccellacci e uccellini, Salò o Le 120 giornate di Sodoma).

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Il Novecento Una Shangai di orticelli, strade, reti metalliche, villaggetti di tuguri, spiazzi, cantieri, gruppi di palazzoni, marane.

Scrittore complesso e – come egli stesso si definì – “segno di contraddizione”, Pasolini, invece di intuire e rappresentare in prospettiva possibilità di recupero e di catarsi, che, secondo lui, falserebbero la realtà, preferisce restare in quell’inferno per meglio capirlo. Oltre tutto, da questa umanità dei suburbi Pasolini è attratto per quanto di vitalistico, di naturistico, di sanguigno è in essa; perché il suo abbrutimento materiale e morale significa, per lui, un modo di difendere un’esistenza libera e selvaggia dalla minaccia della corruttrice civiltà borghese511. Anche IGNAZIO SILONE (Secondo Tranquilli, Pescina dei Marsi, L’Aquila 1900 - Ginevra 1978) partì da posizioni filocomuniste con romanzi ascrivibili al filone populista (Fontamara, Pane e vino) per poi avvicinarsi al cristianesimo e giungere ad opere più complesse (Il segreto di Luca, La volpe e le camelie ed Avventura di un povero cristiano su papa Celestino V).

Dalla crisi del neorealismo alla neoavanguardia A dieci anni dalla fine della guerra inizia la crisi del neorealismo. Affievolitasi la pretesa di una letteratura impegnata e “militante”, si ha una ripresa della letteratura elegiaca e memoriale, in cui non sono estranei i temi esistenziali della solitudine e dell’alienazione. a) Lo sperimentalismo linguistico ed il “romanzo industriale” Si fa intanto strada un grande interesse per le strutture linguistiche – effetto anche del diffondersi della linguistica generale, della critica stilistica e dello strutturalismo – e si sperimentano nuove forme di linguaggio letterario. Sintomatico di questo interesse per lo sperimentalismo linguistico è l’esplosione, in questi anni, del “caso Gadda”: cioè la tardiva scoperta dello scrittore CARLO EMILIO GADDA (Milano 1893 - Roma 1973) e del suo romanzo Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, già pubblicato a puntate su “Letteratura” nel 1946-47, ma lasciato poi nell’ombra. Il linguaggio di Gadda è un linguaggio insolito ed originale, nel quale, con un vivace e traumatizzante pastiche, si affiancano a voci dialettali di provenienza varia (lombarde, romanesche, campane, abruzzesi), termini tecnici e burocratici, nonché espressioni colte e aristocratiche. La ripresa produttiva – si ricordi il boom economico degli anni 1955-65 – determinando il successo del capitalismo, del “macchinismo industriale”, del consumismo, ha creato una nuova condizione dell’uomo: una condizione fatta di perdita di umanità, di riduzione a cosa, di alienazione. Anche la letteratura ne è stata condizionata, dando vita al “romanzo industriale”: La vita agra di LUCIANO BIANCIARDI (1922-1972); Donnarumma 511

Coerente con tale assunto lo stile lutulento della sua ultima opera, pubblicata postuma, Petrolio, è stata la stessa fine di Pasolini, massacrato in circostanze non del tutto chiarite durante uno dei suoi usuali incontri notturni con giovani prostituti.

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Il Novecento all’assalto di OTTIERO OTTIERI (1924-1992); Il fabbricone, Il ponte della Ghisolfa, La Gilda del Mac Mahon di GIOVANNI TESTORI (1923-1993); la raccolta di romanzi Gente di Vigevano – il cui titolo più noto è Il maestro di Vigevano – di LUCIO MASTRONARDI (1930-1979); Padrone di GOFFREDO PARISE (1929-1986); La macchina mondiale di PAOLO VOLPONI (1924-1994), etc. b) La neoavanguardia Attraverso lo sperimentalismo e i dibattiti degli anni Sessanta si giunge alla nascita della “neoavanguardia”. Giova, a comprenderne il programma, la definizione che di “avanguardia” ha dato Barberi Squarotti: «Termine che indica il fenomeno, tipico dell’età contemporanea, del formarsi di gruppi più o meno ristretti di artisti e di movimenti che pongono come fondamento della loro azione la polemica radicale contro la tradizione e, al tempo stesso, contro la situazione contemporanea delle varie arti, in nome di un rinnovamento radicale di strutture, di linguaggio, di tecnica, coinvolgendo nella loro azione eversiva la stessa società intesa come oppressione della libera espressione individuale, come conformismo, e anche come “figura” della ingiustizia sociale e politica». Il canone fondamentale della neoavanguardia è l’oggettività e la neutralità ideologica dell’arte: «L’unica avanguardia oggi possibile è a-ideologia, disimpegnata, astorica, in una parola atemporale; non contiene messaggi, né produce significati di carattere generale. Non conosce regole (o leggi) né come condizioni di partenza, né come risultato di arrivo. Suo scopo è quello di recuperare il reale nella sua intattezza: ciò che può fare sottraendolo alla storia, scoprendolo nella sua accezione più neutra, nella sua versione più imparziale, al grado zero» (Guglielmi). Il linguaggio, quindi, perde il suo valore comunicativo e non mira ad altro che «alla comunicazione della negazione della comunicazione esistente» (Guglielmi): da ciò la sua libertà assoluta da ogni schema – sintattico, semantico, logico – il suo libero sperimentare, il suo comporsi di parole di lingue diverse (mistilinguismo), di lettere e cifre, di elementi grafici e visivi. In Laborintus di EDOARDO SANGUINETI (Genova, 1930) si leggono versi come questi: s.d. ma 1951 (unruhig) και κρινουσιν e socchiudo gli occhi οι πολλοι e mi domanda (L): fai il gioco delle luci? και τα της μουσικης εργα ah quale continuità! andante K. 467 […] ah il mio sonno; e ah? e involuzione? e ah e oh? devoluzione? (e uh?) e volizione! e nel tuo aspetto e infinito e generantur!

Le tappe fondamentali della neoavanguardia sono costituite: dalla contemporanea pubblicazione di Laborintus di Edoardo Sanguineti e del primo numero della rivista “Il Verri” (1956); dall’uscita dell’antologia I Novissimi (1961), comprendente poesie di Edoardo Sanguineti, Elio Pagliarini, Alfredo Giuliani, Nanni Balestrini e Antonio Porta; dalla fondazione (1963) del “GRUPPO ’63”512 e dal convegno dello stesso gruppo a Palermo.

512 Ne fecero parte, oltre a Sanguineti, Umberto Eco, Alberto Arbasino (Fratelli d’Italia, SuperEliogabalo), Luciano Anceschi, Nanni Balstrini, Renato Barilli, Antonio Porta, Enrico Filippini, Alfredo Giuliani, Elio Pagliarani.

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Il Novecento In seguito la neoavanguardia si è attestata su posizioni meno clamorose. Era una delle due soluzioni possibili: o, negata ogni possibilità di comunicazione, chiudersi nel silenzio o accettare un minimo di tradizione e convenzione linguistica. Di questo recupero di intelligibilità è prova una successiva opera di Sanguineti: Purgatorio de l’Inferno. Negli ultimi anni, dopo lo sperimentalismo estremo e fine a se stesso, si sta cercando il ritorno ad un’apparente “normalità”513. Lo scrittore, quasi mai, in Italia, “di professione”, ma sempre più spesso giornalista o critico (quindi ben inserito nei circuiti politicoculturali ed editoriali) è diventato – ma forse lo è sempre stato – particolarmente attento ai gusti del pubblico e dei colleghi critici (che il pubblico formano). Non stupisce, quindi, il sostanziale “ritorno al passato”, confermato dal rinnovato successo dei romanzi storici514 o dalla marginalità di nuovi tentativi linguistici515.

Scrittori di altro orientamento Che il neorealismo e neoavanguardia abbiano rappresentato, pur nella diversità dei loro filoni e dei loro esiti, il fatto preponderante della nostra più recente letteratura516 o almeno quello maggiormente studiato dalla quasi totalità dei critici, non significa che con essi si esaurisca il panorama letterario del secondo Novecento. Altri scrittori, ispirandosi a differenti motivazioni e a differenti concezioni dell’arte, pervennero – contemporaneamente e successivamente – a importantissimi (per non scrivere direttamente migliori) esiti artistici. E sorprende perciò il fatto che molte storie letterarie, attente a seguire in modo particolareggiato il fenomeno neorealista, sostanzialmente trascurino questi autori. a) Dino Buzzati È il caso, innanzitutto, di DINO BUZZATI (Belluno 1906 - Milano 1972) che, con la sua trascrizione fantarealistica e surrealistica della società contemporanea, ne mette in luce gli aspetti più intimamente inquietanti. Cosciente della sua condizione di isolato, Buzzati scriveva:

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Tra gli «ultimi rigurgiti dell’avanguardismo culturale», frutto anche dello smarrimento del «dopo ’89», oltre a qualche meteora che crea più invidia che stupore e che raramente raggiunge il terzo romanzo – dopo il grande successo mediatico del primo e l’immancabile fiasco del secondo – ci sono la “Scuola Holden” ed il gruppo di giovani scrittori cosiddetto dei “cannibali”, ma non è detto che non si possa ulteriormente peggiorare. 514 Da quelli raffinati di Alessando Barbero (Bella vita e guerre altrui di Mr. Pyle, gentiluomo) e di Ernesto Ferrero (N.), entrambi vincitori del premio “Strega”, alla lunga serie sfornata dall’archeologo Valerio Massimo Manfredi. 515 La contaminazione lingua-dialetto (è il caso del sopravvalutato Andrea Camilleri) ha riscontrato un notevole successo commerciale, anche se l’archetipo gaddiano rimane irraggiungibile. 516 Nle dopoguerra il neorealismo permeave di sé anche la “settima arte”, il cinema. In questo caso il filone è stato peraltro generalmente quasi sconfessato, proprio dalla maggior parte dei suoi stessi rappresentanti: da Germi a De Sica (passati al surrealismo) a Visconti (diventato decadentista). In altri campi artistici è stato sorpassato: si pensi allo sperimentalismo sfrenato nelle arti figurative.

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Il Novecento Per il carattere prevalentemente fantastico dei miei scritti, e l’assenza di espliciti “impegni sociali”, io sono stato sempre considerato un po’ fuori giuoco, ai margini della tipica corrente letteraria italiana. Fatto è che in Francia e in Germania sono stimato di più.

Invece che della guerra, della resistenza, delle fabbriche, dell’ufficio, delle condizioni sociali del sottoproletariato urbano o delle masse contadine del Sud, Buzzati fa argomento della sua narrativa le ansie, le paure, le angosce, gli incubi che vivono nel fondo della coscienza dell’uomo, se non addirittura nel suo subconscio. Il deserto dei Tartari (1940), il suo romanzo più noto, esprime l’attesa di un evento, continuamente disillusa, che accompagna l’uomo per tutta la vita (o anche – secondo l’interpretazione di Nino Mignone – la paura angosciosa dell’evento imprevedibile). All’angoscia dell’imprevedibile, dell’irrazionale, dell’assurdo si ispirano anche le novelle Il mantello, Era successo qualcosa, Eppure battono alla porta, Una goccia, Il crollo della Baliverna, I sette messaggeri, scritti lungo vari periodi e poi riuniti nella raccolta Sessanta racconti (1960). Il mondo di Buzzati è quindi il mondo del subconscio, dimora dell’assurdo e dell’angoscia che l’assurdo produce; un mondo colto surrealisticamente – evidenti i riferimenti a Kafka –, ma rappresentato con realistica lucidità: è considerato il miglior esponente del cosiddetto “realismo magico”517. b) Il romanzo psicologico e memorialistico La maggior parte degli autori ha però al centro dei propri lavori l’indagine psicologica dei personaggi; talvolta essa si trova affiancata da tematiche “memorialistiche”, intese non come cronologici resoconti autobiografici, ma come scavo nella propria memoria e rievocazione del passato dei protagonisti. Gli esempi maggiori di tale produzione letteraria sono dati dalla narrativa di GIORGIO BASSANI (1916-2000) con Il giardino dei Finzi-Contini, Cinque storie ferraresi, Gli occhiali d’oro; di GUIDO PIOVENE (1907-1974) con Lettere di una novizia e Le stelle fredde; di GIOVANNI ARPINO (1927-1987) con La suora giovane; di GIUSEPPE BERTO518 (19141978) con Il male oscuro e La gloria; di MARIO SOLDATI (1906-1999) con Le lettere da Capri e La confessione; di MARIO TOBINO (1910-1991) con Per le antiche scale; di FULVIO TOMIZZA (1935-1999) con La città di Miriam e La miglior vita; di GIORGIO SAVIANE (1916-2000) con Eutanasia di un amore e Il mare verticale; di PIERO CHIARA (1913-1986) con La stanza del vescovo; di ROBERTO COTRONEO (1961) con Presto con fuoco e Otranto; di ENNIO FLAIANO (1910-1972) con Tempo di uccidere (vincitore della prima edizione del premio “Strega”); di GIAMPAOLO RUGARLI (1932) con La troga e Andromeda e la notte (che apre una trilogia sul mondo dell’editoria e dei premi letterari); di ALESSANDRO ZACCURI (1963) Il signor figlio, affascinante ipotesi sulla doppia vita del fu Giacomo Leopardi; di GIOVANNI D’ALESSANDRO (1955) con Se un Dio pietoso, raffinata 517

Tra gli altri interpreti italiani del surrealismo letterario vanno ricordati ALBERTO SAVINIO (Andrea De Chirico, 1891-1952), autore di Dico a te, Clio e dei racconti Casa “La Vita” ed il barocco GIORGIO MANGANELLI (1922-1990) con Hilarotragoedia, Centuria e Lunario dell’orfano sannita. 518 Di Berto si ricorda anche il romanzo d’esordio Il cielo è rosso, sui bombardamenti angloamericani a Treviso.

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Il Novecento analisi sulla caducità dell’arte e della vita, I fuochi dei Kelt, una rivisitazione dalla parte dei vinti della conquista della Gallia, e La puttana del tedesco. Per la narrativa di memoria ricordiamo STEFANO D’ARRIGO (1919-1992) ed il suo discusso romanzo-fiume Horcynus Orca; e ANDREA GIOVENE dei duchi di Girasole (19041995) con la corposa (cinque volumi) Autobiografia di Giuliano Sansevero. c) Il romanzo “giallo” colto A fronte di una vastissima produzione di romanzi polizieschi popolari519 sulle orme di Simenon (l’ideatore del commissario Maigret) si sviluppò anche in Italia un filone “giallo” colto, che pur presentando al struttura di indagini poliziesche, ha al centro importanti polemiche sociali e civili: l’autore più importante è il siciliano LEONARDO SCIASCIA (1921-1989) con Il giorno della civetta, A ciascuno il suo, I pugnalatori, La scomparsa di Majorana. Più recentemente il semiologo UMBERTO ECO, con i romanzi Il nome della rosa e Il pendolo di Foucault, ha inaugurato un genere giallistico-culturale, che ha avuto molto successo commerciale520. d) La letteratura per l’infanzia La letteratura per l’infanzia ha avuto in GIANNI RODARI (1920-1980) un discreto continuatore dell’opera del grande SERGIO TOFANO (1886-1973), l’inventore del Signor Bonaventura, per il quale scrisse varie gustosissime commedie. ITALO CALVINO (19231985), scrittore dalla produzione molteplice521, ha prodotto un gioiello come Marcovaldo e l’ironica trilogia I nostri antenati (Il barone rampante, Il visconte dimezzato, Il cavaliere inesistente). La letteratura per l’adolescenza ha visto in ROSARIO MAGRÌ (1930-2003) un autore di avvincenti romanzi storici molto curati ambientati nel mondo tardo-romano finalizzati alla migliore comprensione di tale periodo. e) Tra neo-decadentismo e nostalgia del finis Austriae Pervasa da un intimo senso di nostalgia per la consapevolezza di un declino inarrestabile e per la mediocrità della situazione attuale di fronte alla grandezza passata è l’opera del romano GIORGIO VIGOLO (1894-1983), poeta dai fermenti culturali e filosofici, la cui opera si sostanzia di visioni oniriche (Conclave dei sogni, La luce ricorda); come narrato519

In Italia il romanzo poliziesco prese il nome di “giallo” a causa delle copertine di tal colore con cui i libri venivano pubblicati. Adesso si distingue, utilizzando una serie di anglicismi, tra detective story, thriller, legal thriller, spy story, etc. 520 All’estero ha trovato anche un ammiratore (ed imitatore di buona qualità, ancorché più popolare) nello spagnolo Arturo Perez-Reverte (Il club Dumas, Il maestro di scherma, La pelle del tamburo) e svariati epigoni di basso livello ed alta tiratura che hanno dato vita – generalmente svilendolo – ad un vero e proprio genere storico-esoterico-religioso. 521 Calvino, fondamentale figura del mondo editoriale italiano, va ricordato soprattutto, oltre che per il già citato Il sentiero dei nidi di ragno, per La giornata di uno scrutatore, Le Cosmicomiche, Se una notte d’inverno un viaggiatore, per la raccolta Fiabe italiane, per il “testamento letterario” contenuto nelle postume Lezioni americane.

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Il Novecento re si segnalano i due libri di prose Le notti romane e Spettro solare. Vigolo, saggista, critico musicale e traduttore di Hoffmann ed Hölderlin, curò anche la prima edizione integrale dei Sonetti del Belli. Fine critico letterario e traduttore (soprattutto dal russo e dal tedesco) fu anche TOMASO LANDOLFI (1908-1979), il cui sofisticato discorso narrativo verte soprattutto sull’incontro-scontro tra istinti e ragione, tra inconscio e consapevolezza, registrato con ironia e controllato lirismo. Alimentato da importanti suggestioni letterarie (Kafka, Poe, Gogol) Landolfi ha elaborato una poetica della paura umana di fronte al misterioso e al paradossale nel mondo. Si ricordano, tra gli altri, i racconti Il mar delle blatte ed altre storie, Racconti impossibili, La pietra lunare, Dialogo dei massimi sistemi, Racconto d’autunno (in cui la tematica esistenzialista viene completamente trasfigurata) ed il dramma Landolfo VI di Benevento. Struggenti i ricordi di GIUSEPPE MAROTTA (1902-1963), diviso tra Napoli (L’oro di Napoli, Gli alunni del sole) e Milano (A Milano non fa freddo, Le Milanesi, Mal di Galleria); cinico invece il quadro delineato da GIUSEPPE TOMASI DI LAMPEDUSA (1896-1957) che con Il Gattopardo, scoperto e pubblicato postumo da Giorgio Bassani522, descrisse il tradimento della classe dirigente borbonica siciliana nel 1860523. Il romanzo, infatti, pur essendo vicino al verismo di Verga e De Roberto, è sotteso di un’aura “neo-decadente”524 nel descrivere lo stato d’animo di sfiducia sociale e politica delle genti del Sud. A questi autori, accomunati da una sensibilità neodecadente (da finis Austriae525), vanno affiancati i romanzi di fantapolitica Contropassato prossimo e Roma senza Papa di GUIDO MORSELLI (1912-1973), anche autore del saggio in difesa della religione Fede e critica; i lavori – tutti incentrati sulla propria terra – del friulano CARLO SGORLON (1930) da Il trono di legno a La conchiglia di Anataj, da L’armata dei fiumi perduti a Il costruttore, da La foiba grande a La malga di Sîr; infine i raffinatissimi romanzi La variante di Lüneburg e Canone inverso del goriziano PAOLO MAURENSIG (1943), il primo incentrato sugli scacchi, il secondo sul virtuosismo musicale, entrambi con il comune sfondo storico del nazionalsocialismo. f) I saggi-romanzo Quasi a metà strada tra critica e narrativa si pone l’opera di alcuni scrittori, come il saggista romano MARIO PRAZ (1896-1982), che con La carne, la morte e il diavolo nella 522

Il manoscritto venne inizialmente rifiutato da Italo Calvino che lo considerò – non del tutto a torto – impubblicabile. In effetti consiste più in una serie di racconti collegati tra loro che in un romanzo vero e proprio. 523 Non a caso, gattopardo è diventato sinonimo di voltagabbana. 524 Il termine “neo-decadentismo” è stato usato anche per autori classificati diversamente: non solo Tomasi di Lampedusa (da qualcuno ascritto al filone meridionalista), ma anche per il neorealista Moravia, il cattolico Alianello, il neotrageda Cappuccio ed altri autori vicini alla sensibilità cosiddetta del finis Austriae. 525 Con riferimento agli scrittori austriaci nostalgici degli Asburgo (Hugo von Hofmannstahl, Joseph Roth, Alexander Lernet-Holenia, Stefan Zweig). Ma non è necessario nascere nella MittelEuropa per appartenere a tale genere.

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Il Novecento letteratura romantica diede nuovo impulso alla “prosa d’arte” (cfr la rivista “La Ronda”) con un genere già noto all’estero, quello del saggio-romanzo (cioè saggio scritto in prosa letteraria). Interessanti esempi di tale stile sono Praga magica di ANGELO MARIA RIPELLINO (1923-1978); Danubio e Microcosmi di CLAUDIO MAGRIS (1939); l’itinerario musical-interiore di Parsifal a Venezia di GIUSEPPE SINOPOLI (1946-2001) ed il suo corrispettivo amoroso-librario de La sposa invisibile di MARCELLO VENEZIANI (1955); infine i romanzeschi saggi di esegesi biblica I sopravvissuti del diluvio, Il sacro amplesso e L’opera del tradimento di MARIO BRELICH (1910-1982). Impostazione contraria hanno quei romanzi o quei drammi con intenti didascalici. Citiamo L’Amazzone dei Gigli (sulla duchessa di Berry) e I Cavalieri della Santa Fede (sulle Insorgenze) di ALESSANDRO AUGUSTO MONTI DELLA CORTE (1902-1974) sul versante narrativo e Marzo ’44 di MARIO TEDESCHI (1926-93) su quello drammaturgico526. g) Gli scrittori cattolici Una particolare menzione va riservata agli scrittori – apertamente cattolici – Giovanni Guareschi, Mario Pomilio, Carlo Alianello ed Eugenio Corti. GIOVANNI GUARESCHI (1908-1968) è legato alla splendida figura di don Camillo, protagonista del ciclo Mondo Piccolo. Con penna ironica e leggera Guareschi descrive il conflitto tra la mentalità gretta dei comunisti “trinariciuti”527 e la serafica saggezza di un sacerdote di campagna dal cuore d’oro, ma pronto a menar le mani se necessario. Fu anche direttore del settimanale “Candido” (tra i pochi giornalisti a pagare con la prigione una notizia sbagliata), scrisse vari romanzi (Il destino si chiama Clotilde, Lo zibaldino) ed un resoconto della sua prigionia di guerra (Diario clandestino)528. MARIO POMILIO (1921-1990), abruzzese, esordì con il romanzo L’uccello nella cupola, riflessione sulla dissoluzione dell’individuo in seguito alla perdita della Fede, a cui seguirono – tra gli altri – La compromissione, l’affascinante ricerca di pseudo-documenti Il quinto Evangelio529 e Il Natale del 1833 (sull’Inno sacro manzoniano).

526 In Marzo ’44 Mario Tedeschi (che fu direttore delle riviste Il Borghese e La Destra) ricostruisce attentamente gli avvenimenti di via Rasella, cercando di dimostrare come la strage delle Fosse Ardeatine fosse stata scientemente cercata dai Gap (Gruppi Armati Partigiani, di ispirazione comunista staliniana) sia per creare un clima tensione tra Italiani e Tedeschi, sia per eliminare, in un colpo solo, da una parte i partigiani “bianchi”, dall’altra i membri del gruppo “Bandiera Rossa” (di ispirazione trozkista e quindi anti-stalinisti), i cui vertici erano entrambi detenuti a Regina Coeli e vennero prelevati per essere fucilati alle Fosse Ardeatine. 527 A cui dedicava settimanalmente sul “Candido” una vignetta dal titolo Obbedienza cieca, pronta, assoluta in cui al grido di: «Contrordine, compagni!» un inviato del Partito si presentava a correggere precedenti disposizioni comicamente errate (p. es., di fronte ad un gruppo di militanti che strappava l’erba, la vigile scolta dichiarava: «L’articolo de l’Unità contiene un refuso e pertanto al posto “Vogliamo un Italia senza prati” va letto “Vogliamo un Italia senza preti”»). 528 È stato detto che, mentre Se questo è un uomo è pervaso dalla disperazione, il diario di Guareschi è intriso di fede e di speranza. 529 L’ultimo capitolo del romanzo fu adattato dall’autore per il teatro nel dramma Il quinto Evangelista.

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Il Novecento CARLO ALIANELLO (Roma 1901-1981), di origine lucana, è conosciuto per la produzione di romanzi storici sul periodo risorgimentale visto dalla parte degli sconfitti (L’alfiere530, Soldati del Re, L’eredità della priora, L’inghippo), ma si è anche dedicato a temi religiosi (Il mago deluso, Nascita di Eva ed il delicato Maria e i fratelli, una vita di Gesù vista attraverso gli occhi della Madre). In entrambi i casi dimostra una estrema attenzione all’introspezione psicologica dei personaggi, che risultano sempre perfettamente delineati. EUGENIO CORTI (Besana Brianza, Milano, 1921) è autore de Il cavallo rosso, considerato tra i libri italiani più venduti al mondo, romanzo-fiume che parte della guerra in Russia per raggiungere, attraverso la guerra civile, la cultura lombarda degli anni Settanta. Corti ha scritto anche Gli ultimi soldati del Re, il dramma politico Processo e morte di Stalin e – inaugurando uno stile particolare – il romanzo-drammatico Catone l’Antico.

Teatro di fine millennio È stata lamentata la mancanza di una consistente produzione teatrale nella seconda metà del Novecento, dovuta in parte al fatto che la lingua italiana sarebbe “scarsamente teatrale” ed inferiore, scenicamente, al veneziano, al napoletano ed al siciliano531. Sta di fatto che il drammaturgo più noto di questo periodo è EDUARDO DE FILIPPO (1900-1984), che con le raccolte Cantata dei Giorni Pari e Cantata dei Giorni Dispari ha portato il teatro dialettale napoletano – dopo i tentativi dei già citati Antonio Petito, Edoardo Scarpetta532, Salvatore Di Giacomo, Raffaele Viviani – a livello internazionale. Il suo capolavoro è l’umanissimo Natale in casa Cupiello (1931), mentre nel dopoguerra scrisse, tra le altre commedie drammatiche Napoli milionaria, Questi fantasmi, Filomena Marturano e Gli esami non finiscono mai. Pur non esistendo né essendo esistita una vera e propria “scuola teatrale napoletana”533 si nota un concentramento a Napoli di autori che realizzano un’evoluzione in senso 530

L’alfiere (1941) inaugura un filone – all’estero molto più prolifico – che si potrebbe definire, a seconda delle diverse sfumature, “nostalgico”, “revisionista” o “tradizionalista”. Ne fanno parte opere come Cercando l’Imperatore di Roberto Pazzi, I fuochi del Basento di Raffaele Nigro, Gli ultimi fuochi di Gaeta di Gigi Di Fiore, Non mi arrendo (ideale continuazione de L’alfiere con contaminazioni da L’eredità della priora) di Gianandrea de Antonellis (autore anche di Gotterdämmerung. Viaggio verso il crepuscolo, romanzo musicale in stile “finis Austriae”). 531 Che hanno i loro massimi esponenti, rispettivamente, in Goldoni, Eduardo e Pirandello (che scrisse anche in dialetto). Paradossalmente, un autore molto attento al vernacolo, Pier Paolo Pasolini, nei suoi logorroici drammi utilizza esclusivamente la lingua italiana. Nel secondo Novecento si è sviluppata anche una produzione poetica in dialetto, quasi a salvaguardia delle tradizioni linguistiche locali, generalmente poco spontanea e che risente dell’intellettualismo di una ricerca linguistica lontana dalla lingua parlata (cfr I Trovieri. Antologia critica di poeti dialettali italiani e alloglotti, Todariana Editrice, Milano 1978). 532 Padre naturale dello stesso Eduardo. 533 Andrebbero ricordati – oltre al già citato Bracco – anche ARMANDO CURCIO (A che servono questi quattrini?, La fortuna con l’effe maiuscola entrambi scritto con Eduardo) e Casanova farebbe così, redatto con PEPPINO DE FILIPPO, a sua volta autore di valide farse.

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Il Novecento grottesco di una drammaturgia che fa grande uso del dialetto (magari non particolarmente stretto e quindi comprensibile ad un vasto pubblico): gli esponenti principali sono ANNIBALE RUCCELLO (1955-1986, Notturno di donna con ospiti, Ferdinando), ENZO MOSCATO (1947, Bordello di città con mare – che molto deve alle suggestioni del drammaturgo belga Michel de Ghelderode di Fasti d’inferno – e Piéce noire), MANLIO SANTANELLI (1962, Uscita di emergenza). Facendo un passo indietro, va ricordato GIULIO CESARE VIOLA (Taranto 1888 - Positano, Salerno 1958), autore di una trentina di drammi di stile ottocentesco o crepuscolare, noto soprattutto per Nora seconda (1954), ideale e riuscita continuazione, in chiave critica, di Casa di bambola di Ibsen. Particolare importanza riveste l’emiliano DIEGO FABBRI (1911-1980) uno dei pochissimi drammaturghi italiani che abbiano prestato attenzione alle tematiche religiose (Inquisizione, Processo a Gesù, Processo di famiglia, Delirio, Veglia d’armi). È noto anche per due commedie di costume (Il seduttore e La bugiarda) e per la sua collaborazione a numerose sceneggiatura cinematografiche. GIOVANNI TESTORI (1923-1993) discussa figura di romanziere (cfr il paragrafo sul “romanzo industriale”) e drammaturgo lombardo, con la Trilogia degli scarrozzanti (Ambleto, Macbetto, Edipus) inventa una lingua mista di arcaismi storpiati, latinismi inventati e lombardizzati che fungerà da base per il grammelot di Dario Fo534. Le opere del primo periodo riflettono una pessimistica visione dell’esistenza di matrice gnostica. Dopo il ritorno al cattolicesimo, avvenuto a metà degli anni Settanta, scrisse valide opere di ispirazione religiosa (Interrogatorio a Maria, Conversazione con la morte, I “Promessi sposi” alla prova). Drammaturgicamente parlando, il secolo si chiude con RUGGERO CAPPUCCIO (1963), che affronta temi neo-decadenti (o post-decadenti: Delirio marginale, Il sorriso di San Giovanni), con particolare attenzione alla musicalità del linguaggio grazie all’attento recupero del napoletano seicentesco (Shakespeare-Re di Napoli, Mai più amore per sempre). All’alba del nuovo millennio, Cappuccio si confronta con i moduli stilistici della tragedia greca (Edipo a Colono, ma soprattutto Paolo Borsellino. Essendo Stato) rileggendoli alla luce delle problematiche contemporanee.

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Dario Fo è stato insignito – non senza polemiche – del Premio Nobel nel 1997: infatti è unanimemente assai più apprezzato come attore che come drammaturgo.

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Bibliografia fondamentale Testi vecchi e nuovi per approfondire Trattati generali Letteratura Italiana, Marzorati, Milano 1986 (dieci volumi in quattro sezioni: Correnti, Maggiori, Minori, Contemporanei) Questioni e correnti di storia letteraria, a cura di Attilio MOMIGLIANO e Umberto BOSCO (Marzorati, Milano 1988) Storia della letteratura italiana, Salerno, Roma 2005 (in 28 volumi) Due classici di grande leggibilità sono le storie della letteratura italiana di Francesco DE SANCTIS (1871) e di Francesco FLORA (1959; ultima edizione Mondadori, Milano 1974). Metodologia critica e filologia Armando BALDUINO, Manuale di filologia italiana, Sansoni 2001 Maria CORTI, Nuovi metodi e fantasmi, Feltrinelli, Milano 2001 Maria CORTI e Cesare SEGRE (a cura di), I metodi attuali della critica in Italia, Eri, Roma 1970 Giorgio INGLESE, Come si legge un’edizione critica. Elementi di filologia italiana, Carocci Roma 2006 Cesare SEGRE, Le varianti e la storia, Bollati Boringhieri, Torino 1994 Cesare SEGRE, Avviamento all’analisi del testo letterario, Einaudi, Torino 1999 Alfredo STUSSI, Introduzione agli studi di filologia italiana, Il Mulino, Bologna 2005 Nascita del volgare e origini della letteratura italiana Bruno MIGLIORINI, Storia della lingua italiana, Bompiani, Milano 2004 Aurelio RONCAGLIA Problemi delle origini in Questioni e correnti, cit. Antonio VISCARDI, Le origini, Vallardi, Milano 1973 Sui tempi e la vita di Dante Giampaolo DOSSENA Dante, Longanesi, Milano 1995 (uno studio “divertito e divertente”) Francesco ERCOLE, Il pensiero politico di Dante, Alpes, Milano 1928 Julius EVOLA, Il mistero del Graal, Mediterranee, Roma 1994 Enrico MALATO, Dante, Salerno, Roma 1999 Nicola ZINGARELLI, La vita, i tempi e le opere di Dante, Vallardi, Milano 1947 Commenti alla Divina Commedia Sotto il profilo storico-filologico: Francesco TORRACA, Giovanni Andrea SCARTAZZINI, Tommaso CASINI. Per il simbolismo religioso: Isidoro DEL LUNGO e Luigi PIETROBONO. Commenti moderni: Mario PRAZ, Giuseppe GIACALONE, Natalino SAPEGNO e Daniele MATTALIA, condotti con l’ausilio delle più recenti metodologie critiche. Da segnalare la Lectura Dantis di Vittorio SERMONTI (Rizzoli, Milano 2004), di grande fascino affabulatorio. Lavori critici fondamentali sulla Divina Commedia restano i Saggi danteschi di DE SANCTIS, nonché la Nuova Lectura Dantis (Signorelli 1951) diretta da Siro A. CHIMENZ (autore anche di un’importante edizione commentata; Utet, Torino 1996) e gli Studi su Dante di Erich AUERBACH (riediti da Feltrinelli, Milano 2005)

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Petrarca Carlo CALCATERRA, Nella selva del Petrarca, Cappelli, Bologna 1942 Silvia CHESSA, Il profumo del sacro nel Canzoniere di Petrarca, Società Editrice Fiorentina, Firenze 2005 Boccaccio Lucia BATTAGLIA RICCI, Boccaccio, Salerno, Roma 2000 Andrea CHIARI, La fortuna del Boccaccio, in Questioni e correnti, cit. Giuseppe PETRONIO, Il Decameron, Editori Riuniti, Roma 1989 Vittorio ZACCARIA, Boccaccio narratore, storico, moralista e mitografo, Olschki, Firenze 2001 Umanesimo e Rinascimento Jacob BURCKHARDT, La civiltà del Rinascimento in Italia, Newton Compton, Roma 2001 Eugenio GARIN, Il Rinascimento italiano, Net, Roma 2006 e Umanesimo e Rinascimento in Questioni e correnti, cit. Giuseppe TOFFANIN, La fine dell’Umanesimo, Vecchiarelli, Manziana (Roma) 1992 (anastatica dell’ed. 1920) e Storia dell’Umanesimo, Zanichelli, Bologna 1950 Poesia epica del Cinquecento Lanfranco CARETTI, Ariosto e Tasso, Einaudi, Torino 2001 Antonio CORSARO, Percorsi dell'incredulità. Religione, amore, natura nel primo Tasso, Salerno, Roma 2003 Benedetto CROCE, Ariosto, Shakespeare e Corneille, Laterza, Bari 1961 (il solo saggio Ariosto è stato riedito da Adelphi, Milano 1991) Benedetto CROCE, Poeti e scrittori del pieno e del tardo rinascimento, Laterza, Bari 1970 Eugenio DONADONI, Torquato Tasso. Saggio critico, La nuova Italia, Firenze 1967 Nel mondo mutabile e leggiero. Torquato Tasso e la cultura del suo tempo (a cura di Dante DELLA TERZA, Pasquale SABBATINO, Giuseppina SCOGNAMIGLIO), Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2003 Angelandrea ZOTTOLI, Dal Boiardo all’Ariosto, Carabba Lanciano 1934 Scrittori politici e storiografi del Cinquecento Francesco BAUSI, Machiavelli, Salerno, Roma 2005 Francesco DE SANCTIS, Machiavelli, Mephite, Avellino 2003 e L’uomo del Guicciardini, dai Nuovi saggi critici (1872), ora in Secondo Ottocento, a cura di Luigi BALDACCI, Zanichelli Bologna 1969 Franco FIDO, Machiavelli, Guicciardini e storici minori, Piccin-Nuova Libraria, Padova 1994 Machiavelli nel V centenario della nascita, numero speciale di “Cultura e scuola”, anno IX (1970) n. 33-34. Fausto MONTANARI, Machiavelli e Guicciardini, in Letteratura italiana, I Maggiori (vol. I), Marzorati, cit. Maurizio VIROLI, Il Dio di Machiavelli e il problema morale dell’Italia, Laterza, Bari 2005 Il Seicento ed il barocco Carlo CALCATERRA, Il Parnaso in rivolta. Barocco e antibarocco nella poesia italiana, Il Mulino, Bologna 1961 Benedetto CROCE, Nuovi saggi sulla letteratura italiana del Seicento, Bibliopolis, Napoli 2003 Matteo D’AMICO, Giordano Bruno, Piemme, Casale Monferrato (AL) 2000 Umberto ECO (a cura di) Il Seicento: scienza e filosofia, L’Espresso, Roma 1999

393

Francisco ELIAS DE TEJADA, Napoli spagnola, Controcorrente, Napoli 1999-2007 Stefania LAURENTI, Il secolo d’oro. Le arti nell’Europa del Seicento, EdUP, Roma 2006 L’Arcadia Angela CARACCIOLO ARICÒ, L’Arcadia del Sannazaro nell'autunno dell’umanesimo, Bulzoni, Roma 1995 Mario FUBINI, Arcadia e Illuminismo in Questioni e correnti, cit., Giuseppe TOFFANIN, Arcadia, Zanichelli, Bologna 1964 Il Rinnovamento Francesco FATTORELLO, Il giornalismo veneto nel Settecento, Edizione Accademiche, Udine 1933 Mario FUBINI, Dal Muratori al Baretti. Studi sulla critica e sulla cultura del Settecento, Laterza, Bari 1975 Giulio NATALI, Il Settecento, Vallardi, Milano 1973 Natalino SAPEGNO, La letteratura dell’Illuminismo, Ed. Ateneo, Roma 1952 Il Neoclassicismo Walter BINNI, Preromanticismo italiano, Sansoni, Firenze 1985 Giulio NATALI, Cultura e poesia in Italia nell’età napoleonica, Sten, Torino 1930 Mario PRAZ, Gusto neoclassico, Rizzoli, Milano 2003 Il Romanticismo Egidio BELLORINI (a cura di), Discussioni e polemiche sul romanticismo. 1816-1826, Laterza, Bari 1943 Giuseppe Antonio BORGESE, Storia della critica romantica in Italia, (1905) Il Saggiatore, Milano 1965 Umberto BOSCO, Preromanticismo e Romanticismo, in Questioni e correnti, cit. Mario FUBINI, Romanticismo italiano, Laterza, Bari 1973 Guido MAZZONI, L’Ottocento, in Storia letteraria d’Italia, Vallardi, Milano 1973 Mario PRAZ, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, Sansoni, Firenze 1999 Manzoni e Leopardi Aurelia Accade BOBBIO, Il cristianesimo manzoniano tra storia e poesia (1962) e La formazione del linguaggio lirico manzoniano (1963), Edizioni di storia e letteratura, Roma Michele RUGGIANO, Leopardi. La pena di vivere, eDimedia, Benevento 1998 eDimedia Il Verismo Benedetto CROCE, La letteratura della nuova Italia. Saggi critici, Laterza, Roma-Bari 1974 Giulio MARZOT, Battaglie veristiche dell’800, Principato, Milano-Messina 1941 Giuseppe PETRONIO, Romanticismo e verismo. Due forme della odiernità letteraria, Mondadori, Milano 2003 Il Decadentismo Francesco FLORA. Il decadentismo, in Questioni e correnti, cit. Walter BINNI. La poetica del decadentismo italiano, Sansoni, Firenze 1996 Norberto BOBBIO, La filosofia del decadentismo, Chiantore, Torino 1944 Piero NARDI, La scapigliatura. Da Giuseppe Rovani a Carlo Dossi, Mondadori, Milano 1968 La letteratura del Novecento Piero BARGELLINI, Il Novecento, vol. 11 della collana Pian dei giullari, Vallecchi, Firenze 1958 Giovanni PAPINI e Pietro PANCRAZI (a cura di), Poeti d’oggi, Crocetti, Milano 1996 Pietro PANCRAZI, Scrittori d’oggi, Laterza, Bari 1953 Giuseppe DE ROBERTIS, Scrittori italiani del Novecento, Le Monnier, Firenze 1958 Giacinto SPAGNOLETTI, Poeti del Novecento, Mondadori, Milano 1964 e Il verso è tutto. Alle fonti della poesia italiana del primo Novecento, Carabba, Lanciano 1979 Salvatore GUGLIELMINO, Guida al Novecento, Principato, Milano 1998

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Giuseppe PETRONIO, Racconto del Novecento letterario in Italia 1890-1990, Mondadori, Milano 2000 Ugo PISCOPO, Riviste e movimenti culturali del novecento, Ferraro, Napoli 1978 Cesare SEGRE, La letteratura italiana del Novecento, Laterza, Bari 2004 La letteratura popolare Antonio GRAMSCI, I nipotini di padre Bresciani in Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 2001 Giuseppe PETRONIO, Sulle tracce del giallo, Gamberetti, Roma 2000 La letteratura religiosa e la religiosità nella letteratura Giovanni card. COLOMBO, Letteratura del primo Novecento. Appunti, Ned, Milano 1989 Giovanni GETTO, La letteratura religiosa, Sansoni, Firenze 1967 Arrigo LEVASTI, I grandi mistici, Nardini, Firenze 1993 Natalino SAPEGNO, Il Trecento, Vallardi, Milano 1981 Il teatro Silvio D’AMICO, Storia del teatro drammatico, Garzanti, Milano 1970 Mario APOLLONIO, Storia del teatro italiano, Rizzoli, Milano 2003 Andrea BISICCHIA, Il teatro e il sacro, San Paolo, Milano 1998

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Elenco alfabetico degli autori e delle riviste citati Abba Giulio Cesare Achillini Claudio Alamanni Luigi Alberti Leon Battista Alcamo Cielo (o Ciullo) d’ Aleardi Aleardo Aleramo Sibilla Alfani Gianni Alfieri Vittorio Algarotti Francesco Alianello Carlo Alighieri Dante Alighieri Iacopo Alvaro Corrado Amari Michele Angiolieri Cecco Anile Antonio Antologia, L’ (rivista) Aquilano, Serafino Ciminelli detto Aretino Pietro Ariosto Ludovico Arpino Giovanni Arrighi Cletto Artale Giuseppe Azeglio Massimo Taparelli d’ Bacchelli Riccardo Balbo Cesare Baldini Antonio Bandello Matteo Barberino Andrea da Bardi Camerata dei Baretti Giuseppe Baronio Cesare Bartoli Adolfo Bartoli Daniello Basile Giambattista Bassani Giorgio Beccaria Cesare Belcari Feo Belli Giuseppe Gioachino Bembo Pietro Bentivoglio Guido Berchet Giovanni Bernard de Ventadorn Bernardino da Siena

Berni Francesco Bersezio Vittorio Berto Giuseppe Betteloni Cesare Betteloni Vittorio Betti Ugo Bettinelli Saverio Bianciardi Luciano Bibbiena Bernardo Dovizi detto il Biblioteca italiana, La (rivista) Bilenchi Romano Boccaccio Giovanni Boccalini Traiano Boiardo Matteo Maria Boito Arrigo Boito Camillo Bonagiunta Orbicciani Bonsanti Alessandro Bontempelli Massimo Bonvesin de la Riva Borgese Giuseppe Antonio Bosco Umberto Botero Giovanni Botta Carlo Bracciolini Francesco Bracciolini Poggio Brancati Vitaliano Brelich Mario Bresciani Antonio Bruni Leonardo Bruno Giordano Brusoni Girolamo Buonarroti Michelangelo il Giovane Buonarroti Michelangelo Burchiello Domenico di Giovanni, detto il Buttà Giuseppe Buttafuoco Pietrangelo Buzzati Dino Caffè, Il (rivista) Calmo Andrea Calvino Italo Calvo Bonifacio Campana Dino Campanile Achille Canosa, Principe di (Antonio Capece Minutolo)

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Cantù Cesare Capponi Gino Cappuccio Ruggero Capuana Luigi Cardarelli Vincenzo Carducci Giosuè Cariteo, Benedetto Gareth detto il Caro Annibal Carocci Alberto Cassola Carlo Castellaneta Carlo Castelvetro Ludovico Casti Giambattista Castiglione Baldassar o Baldesar Caterina da Siena Cattaneo Carlo Cavalca Domenico Cavalcanti Guido Cecchi Emilio Cellini Benvenuto Cenne della Chitarra Cesare Croce Giulio Cesari Antonio Cesarotti Melchiorre Chiabrera Gabriello Chiara Piero Chiarelli Luigi Chiari Pietro Cicognini Giacinto Andrea Cigala Lanfranco Cino da Pistoia Civiltà Cattolica, La (rivista) Colletta Pietro Collodi Carlo Colonna Francesco Colonna Vittoria Colonne, Guido e Odo delle Comisso Giovanni Compagni Dino Comparetti Domenico Conciliatore, Il (rivista) Congrega dei Rozzi Corti Eugenio Cossa Pietro Costo Tommaso Cotroneo Roberto Crescimbeni Giovanni Maria Croce Benedetto Curcio Armando D’Alessandro Giovanni D’Ancona Alessandro

d’Annunzio Gabriele D’Arrigo Stefano Davanzati Chiaro da Verona Guido Davila Arrigo De Amicis Edmondo de Boccard Enrico De Benedetti Aldo De Cesare Raffaele De Filippo Eduardo De Filippo Peppino De Marchi Emilio De Robertis Giuseppe De Roberto Federico De Sanctis Francesco De’ Sivo Giacinto Deledda Grazia della Casa Giovanni Della Valle Federico Di Giacomo Salvatore Doni Antonfrancesco Dottori Carlo de’ Eco Umberto Enzo Re Faba Guido Fabbri Diego Federico d’Antiochia Federico II Fenoglio Beppe Ferrari Paolo Ficino Marsilio Filangieri Gaetano Filicaia Vincenzo da Filippi Rustico Fiorentino Giovanni Firenzuola Agnolo Flaiano Ennio Flavio Biondo (Biondo Biondi) Flora Francesco Fo Dario Fogazzaro Antonio Folengo Teofilo Fòlgore di San Gimignano Forzano Giovacchino Foscolo Ugo Francesco di Assisi Franco Niccolò Frescobaldi Dino Frezzi Federico Frugoni Carlo Innocenzo Fubini Mario

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Fucini Renato Fusinato Arnaldo Gadda Carlo Emilio Galiani Ferdinando Galilei Galileo Gandini Mario Gatto Alfonso Gelli Giambattista Genovesi Antonio Gentile Giovanni Gherardi Giovanni Giacometti Paolo Giacomino da Verona Giacomino Pugliese Giacosa Giuseppe Giambullari Pier Francesco Gianni Lapo Giannone Pietro (1676) Giannone Pietro (1792) Giannotto Donato Gioberti Vincenzo Giordani Pietro Giovene Andrea Giraldi Cinzio Giambattista Giusti Giuseppe Giustinian Leonardo Goito Sordello da Goldoni Carlo Govoni Corrado Gozzano Guido Gozzi Carlo Gozzi Gasparo Graf Arturo Gramigna Vincenzo Gramsci Antonio Gravina Gian Vincenzo Grossi Tommaso Gruppo ’63 Guareschi Giovanni Guarini Battista Guerrazzi Domenico Guerrini Olindo Guicciardini Francesco Guidi Alessandro Guinizzelli Guido Guittone d’Arezzo Iacopone da Todi Imbriani Vittorio Innocenzo III Invernizio Carolina Jacopo da Lentini

Jovine Francesco La Capria Raffaele Landolfi Tomaso Lasca, Antonfrancesco Grazzini detto il Latini Brunetto Leopardi Giacomo Leopardi Monaldo Levi Carlo Levi Primo Liala (Amalia Liana Cambiasi Negretti) Lippi Lorenzo Lomonaco Francesco Longanesi Leo Lorenzo il Magnifico Luzi Mario Maccari Mino Machiavelli Niccolò Maffei Scipione Magalotti Lorenzo Maggi Carlo Maria Magrì Rosario Magris Claudio Maistre Joseph de Malaparte Curzio Malispini Ricordano Mameli Goffredo Manfredi di Svevia Manganelli Giorgio Manuzio Aldo Manzini Gianna Manzoni Alessandro Manzoni Carlo Marinetti Filippo Tommaso Marini Giovanni Ambrogio Marino Giambattista Marotta Giuseppe Martoglio Nino Mastriani Francesco Mastronardi Lucio Masuccio Salernitano (Tommaso Guardati) Maurensig Paolo Mazzantini Carlo Mazzini Giuseppe Meli Giovanni Menzini Benedetto Mercantini Luigi Metastasio Pietro Momigliano Attilio Montale Eugenio Monti della Corte Alessandro Monti Vincenzo

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Morante Elsa Moravia Alberto Moretti Marino Morra Isabella di Morselli Ercole Luigi Morselli Guido Moscato Enzo Muratori Ludovico Antonio Nardi Jacopo Nazari Francesco Negri Ada Niccolini Giambattista Nievo Ippolito Ojetti Ugo Orchi Emanuele Oriani Alfredo Orsi Gian Giuseppe Felice Ottieri Ottiero Pagano Francesco Mario Palazzeschi Aldo Palazzo Giovan Antonio Pallavicino Pietro Sforza Pancrazi Pietro Panzini Alfredo Papi Lazzaro Papini Giovanni Parini Giuseppe Parise Goffredo Paruta Paolo Pascarella Cesare Pascoli Giovanni Pasolini Pier Paolo Passavanti Iacopo Passeroni Gian Carlo Pastonchi Francesco Patecchio Gerardo Pavese Cesare Pellico Silvio Pelosini Narciso Feliciano Perticari Giulio Petito Antonio Petrarca Francesco Pico della Mirandola Giovanni Pier della Vigna Pindemonte Ippolito Pindemonte Ippolito Piovene Guido Pirandello Luigi Pistoia, Antonio Cammelli detto il Pitigirilli (Dino Segre) Poerio Alessandro

Politecnico, Il (rivista) Poliziano Angelo Polo Marco Pomilio Mario Pontano Giovanni Porta Carlo Praga Emilio Praga Marco Pratesi Mario Prati Giovanni Pratolini Vasco Praz Mario Prezzolini Giuseppe Primato (rivista) Pucci Antonio Pulci Luigi Puoti Basilio Quasimodo Salvatore Rajna Pio Rapisardi Mario Rebora Clemente Redi Francesco Rimanelli Giose Rinaldo d’Aquino Rinuccini Cino Rinuccini Ottavio Ripamonti Giuseppe Ripellino Angelo Maria Robortello Francesco Rodari Gianni Rolli Paolo Ronda, La (rivista) Rosa Salvator Rosmini Serbati Antonio Rossetti Gabriele Rosso di San Secondo Pier Maria Rovani Giuseppe Ruccello Annibale Rucellai Giovanni Ruffini Giovanni Rugarli Giampaolo Russo Ferdinando Russo Luigi Ruzante, Angelo Beolco detto il Saba Umberto Sabadino degli Arienti Giovanni Sacchetti Franco Sagredo Giovanni Salgari Emilio Salimbene de Adam o da Parma Salomoni Giuseppe

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Salutati Coluccio Salviati Leonardo Sanguineti Edoardo Sannazaro Iacopo Santanelli Manlio Sapegno Natalino Sarpi Paolo Saviane Giorgio Savinio Alberto (Andrea De Chirico) Savioli Fontana Castelli Ludovico Savonarola Gerolamo Sbarbaro Camillo Scalvini Giovita Scarpetta Edoardo Sciascia Leonardo Scroffa Camillo (Fidenzio) Segneri Paolo Serao Matilde Sercambi Giovanni Sereni Vittorio Serra Antonio Serra Renato Settembrini Luigi Sgorlon Carlo Silone Ignazio Sinisgalli Leonardo Sinopoli Giuseppe Soave Francesco Soffici Ardengo Solaria (rivista) Solaro della Margherita Clemente Soldati Mario Staël, Mme Anne-Louise-Germaine Necker de Stampa Gaspara Stigliani Tommaso Straparola Gianfrancesco Stuparich Giani Svevo Italo Tarchetti Igino Ugo Tarsia Galeazzo di Tasso Torquato Tassoni Alessandro Tebaldeo, Antonio Tebaldi detto il Tecchi Bonaventura Tedeschi Mario Testi Fulvio Testori Giovanni Tilgher Adriano

Tobino Mario Tomasi di Lampedusa Giuseppe Tomizza Fulvio Tommaseo Niccolò Tommaso d’Aquino Torelli Achille Torricelli Evangelista Tozzi Federigo Trilussa (Carlo Alberto Sallustri) Trissino Gian Giorgio Troya Carlo Uberti Fazio degli Uguccione da Lodi Ungaretti Giuseppe Valeri Diego Valla Lorenzo Vamba (Luigi Bertelli) Vannozzo Francesco Varchi Benedetto Vasari Giorgio Veneziani Marcello Verga Giovanni Verri Alessandro Verri Pietro Verri, Il (rivista) Vico Giambattista Vigolo Giorgio Villani Giovanni Vinci Leonardo da Viola Giulio Cesare Visconti Ermes Vittorelli Jacopo Vittorini Elio Viviani Raffaele Viviani Vincenzo Voce della Ragione, La (rivista) Voce della Verità, La (rivista) Voce, La (rivista) Volponi Paolo Yambo (Enrico Novelli) Zaccuri Alessandro Zanella Giacomo Zappi Giambattista Felice Zappi Maratti Faustina Zeno Apostolo Zorzi Bartolomeo Zuccoli Luciano

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Sommario Introduzione Concetto di letteratura Cultura e letteratura La critica letteraria Gli attuali metodi di indagine critica Critica storica o filologica Critica estetica o della forma Critica sociologica Critica marxista Critica simbolica Critica semiologica Indagine quantitativa o statistica Critica psicanalitica Critica stilistica Critica delle varianti Critica strutturalistica Il Duecento Il nuovo quadro culturale L’autunno del Medioevo Sorge la borghesia: i mercanti L’ideale “cortese” La diffusione della cultura e l’adozione del volgare Scrittori e pubblico Le origini Com’era nato il volgare Il ritardo dell’attività letteraria in Italia La letteratura in latino La letteratura francese e la sua diffusione in Italia La letteratura provenzale e la sua diffusione in Italia La poesia popolare La poesia giullaresca La poesia religiosa a) S. Francesco d’Assisi b) Le laude c) Iacopone da Todi La poesia didattica La poesia didattico-morale La poesia didattico-culturale La lirica d’arte La scuola siciliana La lirica toscana La lirica idealistico-borghese o stilnovista a) La concezione della poesia e dell’amore b) I poeti La lirica realistico-borghese La prosa in volgare

3 5 6 6 7 7 7 7 7 7 7 7 8 8 8 8 9 11 11 11 12 12 13 14 14 15 16 17 18 20 20 21 21 22 22 24 24 25 26 26 27 28 28 29 30 32

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Il Trecento Il quadro storico-culturale Dante Alighieri La Firenze di Dante La vita La Vita Nuova Il Convivio Le rime La Divina Commedia a) La composizione ed il genere b) La struttura dell’aldilà c) L’argomento d) Il significato allegorico e) La missione di Dante f) La poesia dei sentimenti e delle passioni g) La poesia della natura h) Stile e lingua i) Medioevalità e attualità Le opere in latino a) Il De vulgari eloquentia b) Il De Monarchia c) Le Epistole Francesco Petrarca La vita Il mondo morale La crisi del suo tempo La figura del letterato Il mondo intellettuale e la cultura L’amore Il Canzoniere a) Composizione e struttura b) Le rime d’amore c) Le rime d’ispirazione civile e politica d) Il valore estetico I Trionfi Le opere in latino a) Il Secretum e le opere ascetiche b) Le lettere c) L’Africa d) Le opere di erudizione Modernità del Petrarca Giovanni Boccaccio La vita Le opere minori precedenti il Decameron a) Le opere del periodo napoletano b) Le opere del periodo fiorentino Il realismo del Boccaccio Il Decameron a) La struttura b) I temi delle novelle c) La presunta immoralità

33 35 36 36 37 39 40 41 41 41 42 44 45 46 47 48 49 50 50 51 51 52 53 53 53 54 55 55 56 57 57 58 59 59 60 60 60 61 61 62 62 63 63 64 64 65 66 66 66 67 69

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d) Lo stile e la lingua e) La fortuna del Decameron L’ultimo Boccaccio a) Il Corbaccio b) Gli scritti danteschi c) Le opere in latino I Trecentisti minori Gli imitatori dei grandi La letteratura religiosa La storiografia Il Quattrocento L’Umanesimo Il momento storico Il quadro culturale Il recupero del latino e la frattura della vita culturale italiana Il modo nuovo di leggere i classici Il nuovo letterato Il senso del terreno L’autonomia delle lettere ed i nuovi generi letterari Gli scrittori in latino Scrittori in prosa a) Letterati e pensatori b) La storiografia Scrittori in versi La letteratura in volgare Sopravvivenza di temi e generi medioevali a) La letteratura religiosa b) La novellistica c) La lirica Ritorna il volgare, ma latinizzato I caratteri della letteratura umanistica in volgare I poeti del mito e dell’idillio Lorenzo il Magnifico Angelo Poliziano Iacopo Sannazaro I poeti del mondo cavalleresco Luigi Pulci Matteo Maria Boiardo Gli scrittori in prosa Leon Battista Alberti Leonardo da Vinci Il Cinquecento Il Rinascimento Il quadro storico Le contraddizioni profonde La corte e i letterati Il trionfo del volgare La letteratura classico-aristocratica Il nuovo classicismo Pietro Bembo: un caposcuola La lirica platonico-petrarcheggiante

70 70 71 71 71 71 73 73 74 74 77 79 79 79 80 80 81 82 83 84 84 84 85 86 87 87 87 88 88 89 89 91 91 92 95 97 97 99 101 101 101 103 105 105 105 106 107 108 108 108 109

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La trattatistica di costume Il Cortegiano Il Galateo La trattatistica culturale Ludovico Ariosto La vita La cultura ed il tirocinio poetico Le satire ed il carattere di Ariosto Le commedie L’Orlando Furioso a) Il genere e la composizione b) La struttura c) L’“armonia” d) I personaggi e) La lingua e l’ottava f) La fortuna Niccolò Machiavelli La vita Le premesse del pensiero politico I Discorsi Il Principe a) La tesi politica b) Limiti e pregi del Principe c) La fortuna del libro Le altre opere politiche a) L’arte della guerra b) Opere minori Le opere letterarie a) La Mandragola b) Opere minori Francesco Guicciardini La vita Il pensiero politico Le opere minori La Storia d’Italia Conclusione Tra classicismo e gusto popolare Il teatro a) La tragedia b) La commedia La novella La letteratura di opposizione Pietro l’Aretino Niccolò Franco Antonfrancesco Doni Francesco Berni Benvenuto Cellini Teofilo Folengo e il latino maccheronico La crisi del rinascimento Precettistica e dispute letterarie L’Accademia della Crusca ed il suo vocabolario

110 111 111 112 113 113 113 114 115 115 115 116 117 118 118 119 120 120 121 121 122 122 124 125 126 126 127 127 127 128 129 129 129 131 132 132 134 134 134 135 136 138 138 139 139 140 140 141 142 142 143

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Il pensiero politico Torquato Tasso La vita La malattia Le prime opere a) Il Rinaldo b) L’Aminta c) Le Rime La Gerusalemme Liberata a) La composizione b) Il genere e l’argomento c) I motivi poetici d) Lo stile e la lingua e) Il rifacimento: la Gerusalemme conquistata Le ultime opere La fortuna del Tasso Il Seicento Il Barocco Il quadro storico La vera anima del Seicento Il Barocco letterario o secentismo Il Marinismo e l’Antimarinismo Giambattista Marino I marinisti La reazione classicheggiante Gli scrittori Gli spiriti inquieti del secolo Alessandro Tassoni La Secchia rapita: nasce il genere eroicomico Salvator Rosa e la satira Traiano Boccalini Prosa narrativa e prosa d’arte I nuovi lettori Nasce il romanzo La novella: Giambattista Basile La prosa d’arte Il teatro La tradizione classicheggiante La commedia dell’arte Il melodramma La storiografia Paolo Sarpi Gli storici minori Pensatori e scienziati Giordano Bruno Tommaso Campanella Galileo Galilei a) La vita b) Tra scienza e letteratura Il Settecento L’età dell’Arcadia

144 145 145 146 147 147 147 148 148 148 149 150 151 151 151 152 153 155 155 156 157 159 159 160 161 161 163 163 164 165 165 167 167 167 168 169 170 170 171 172 174 174 175 176 176 177 178 178 179 181 183

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Il momento storico e culturale L’Arcadia come accademia L’Arcadia come atteggiamento del gusto e come mentalità Poeti arcadi L’eredità dell’Arcadia Pietro Metastasio La vita La riforma del melodramma L’essenza del melodramma L’arte Le canzonette Storiografia e filosofia della storia Ludovico Antonio Muratori Pietro Giannone Giambattista Vico a) La vita b) Lo storicismo c) L’estetica d) Lo stile e la lingua e) Conclusione L’età dell’Illuminismo Il quadro storico-politico Le tesi illuministiche L’Illuminismo in Italia La diffusione della cultura: saggi e giornali I centri dell’illuminismo italiano a) L’Illuminismo napoletano b) L’Illuminismo lombardo La letteratura dell’Illuminismo Francesco Algarotti Saverio Bettinelli Gasparo Gozzi Giuseppe Baretti Melchiorre Cesarotti e la questione della lingua Carlo Goldoni La vita La riforma della commedia a) Il programma b) Le fasi c) Il senso del reale Essenza della commedia goldoniana a) La società e la ideologia b) I caratteri e gli ambienti c) Un mondo di grazia e di serenità La lingua L’opposizione al Goldoni Giuseppe Parini La vita L’uomo Il poeta L’itinerario poetico

183 183 185 185 187 188 188 188 189 191 192 193 193 194 194 194 195 196 196 196 197 197 198 198 199 200 200 201 204 204 204 205 206 207 208 208 209 209 210 210 211 211 212 212 213 214 215 215 215 216 217

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a) I primi versi b) Le Odi Il Giorno Conclusione Vittorio Alfieri Vita e storia interiore Egocentrismo e sentimento della libertà Gli scritti politici Le tragedie a) La vocazione alla tragedia b) Struttura, stile, verso c) La rappresentazione titanica delle passioni d) I capolavori Le rime L’Ottocento La letteratura del periodo napoleonico Il momento storico La concezione neoclassica dell’arte Il gusto lugubre e sepolcrale Il purismo Vincenzo Monti a) La vita e le opere b) L’uomo c) Il poeta d) L’arte La letteratura minore a) Ippolito Pindemonte b) La storiografia Ugo Foscolo La vita L’uomo a) Il carattere b) La formazione culturale c) L’intuizione dell’esistenza Il tirocinio poetico Le Ultime lettere di Jacopo Ortis I sonetti e le odi I sepolcri a) Composizione e struttura b) La dialettica realtà-illusioni c) Le ossessioni foscoliane d) L’ideologia e) L’arte Le Grazie Le opere minori Foscolo critico Il Romanticismo Il momento storico L’origine del romanticismo La spiritualità romantica La poetica romantica

217 217 218 220 221 221 222 223 224 224 225 226 226 227 229 231 231 232 233 233 234 234 236 237 238 239 239 239 241 241 242 242 243 244 245 245 247 248 248 249 251 252 252 252 253 254 255 255 256 256 257

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Il romanticismo italiano a) Il Conciliatore b) La Lettera semiseria del Berchet c) La Lettera sul Romanticismo del Manzoni Romanticismo e Risorgimento Alessandro Manzoni La vita Le opere precedenti la conversione Conversione religiosa e conversione letteraria La religione del Manzoni e le Osservazioni sulla morale cattolica La poetica Gli Inni sacri Le tragedie a) Composizione e struttura b) Il pessimismo manzoniano c) I cori Le odi I promessi sposi a) La composizione b) Il carattere storico del romanzo c) L’apoteosi della Provvidenza d) L’ideologia Le ultime opere Giacomo Leopardi La vita esterna ed intima Il pessimismo La formazione letteraria La poetica I Canti a) Le canzoni civili e i piccoli idilli b) I grandi idilli e gli ultimi canti c) I motivi poetici Le Operette morali Le opere minori a) In prosa b) Le opere satiriche in versi La prima generazione romantica La scuola liberale e quella democratica Scrittori politici e storiografi a) Gli scritti politici b) La storiografia Le autobiografie Il romanzo storico Il dramma storico La lirica patriottica La satira del Giusti La satira in dialetto Niccolò Tommaseo La seconda generazione romantica Il secondo Romanticismo a) Giovanni Prati

258 258 258 259 260 261 261 262 263 264 265 266 267 267 268 270 271 272 272 273 274 275 276 277 277 279 282 282 284 284 286 287 289 290 290 291 292 292 293 293 295 296 297 298 299 300 301 302 303 303 303

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b) Aleardo Aleardi La “Scapigliatura” Il romanzo di storia contemporanea a) Ippolito Nievo b) Giuseppe Rovani c) Antonio Bresciani Francesco De Sanctis e la critica La vita La critica della forma La Storia della letteratura italiana Il Verismo Il quadro politico-culturale La poetica del verismo Giovanni Verga a) Il primo Verga b) La conversione al verismo c) I Malavoglia d) Mastro don Gesualdo Altri narratori veristi Il teatro verista La poesia verista Poeti dialettali Scrittori non veristi a) Antonio Fogazzaro b) Alfredo Oriani Narrativa per ragazzi Giosuè Carducci La vita Orientamenti culturali e poetica L’itinerario poetico a) Da Juvenilia a Giambi ed Epodi b) Da Rime nuove a Rime e ritmi Il prosatore ed il critico Giudizi critici Il Novecento Premessa Il Decadentismo Il quadro storico-sociale L’atteggiamento culturale e spirituale Gli atteggiamenti letterari Il pubblico I poeti dei miti decadenti Giovanni Pascoli a) La vita b) La poetica e la poesia c) Le opere Gabriele d’Annunzio a) La vita b) La poetica c) Le opere Il teatro tra due giganti

304 304 306 306 307 308 309 309 309 310 312 312 313 314 315 315 316 317 318 319 321 322 323 323 324 324 326 326 326 328 328 329 331 331 333 334 334 334 335 335 336 338 338 338 339 341 342 342 343 344 346

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La coscienza della crisi decadente Luigi Pirandello a) La vita e la formazione culturale b) L’ideologia e i temi c) I drammi metateatrali d) Le caratteristiche della sua arte Italo Svevo a) La vita e la formazione culturale b) La coscienza di Zeno Crepuscolari e futuristi I crepuscolari I futuristi La cultura letteraria del primo Novecento Le riviste La critica letteraria a) Benedetto Croce b) Giovanni Gentile c) Altri critici La letteratura tra le due guerre Il Fascismo e la letteratura Le riviste a) “La Ronda” e la “prosa d’arte” b) Strapaese e stracittà c) “Solaria” e la narrativa La letteratura umoristica La lirica a) La poesia essenziale ed “ermetica” b) I primi poeti nuovi c) Giuseppe Ungaretti d) Eugenio Montale e) Umberto Saba f) Salvatore Quasimodo e gli altri ermetici Il teatro La critica e Antonio Gramsci Dal dopoguerra ad oggi La nuova cultura Il neorealismo a) I pre-neorealisti b) Il filone meridionalista c) Il filone della guerra e della Resistenza d) Il filone populista Dalla crisi del neorealismo alla neoavanguardia a) Lo sperimentalismo linguistico ed il “romanzo industriale” b) La neoavanguardia Scrittori di altro orientamento a) Dino Buzzati b) Il romanzo psicologico e memorialistico c) Il romanzo “giallo” colto d) La letteratura per l’infanzia e) Tra neo-decadentismo e nostalgia del finis Austriae f) I saggi-romanzo

347 347 347 348 348 350 351 351 352 354 354 356 358 358 359 359 360 360 362 362 363 363 364 364 366 366 366 367 368 369 370 371 372 373 374 374 375 376 378 379 380 381 381 382 383 383 384 385 385 385 386

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g) Gli scrittori cattolici Teatro di fine millennio Autori citati Bibliografia fondamentale Elenco alfabetico degli autori e delle riviste citati Sommario

387 388 391 392 396 401

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Finito di stampare nel mese di ottobre 2008 presso il laboratorio grafico delle Edizioni Il Chiostro Benevento, Viale dei Rettori 34 - Tel. / Fax 0824 25647 www.edizioni-ilchiostro.it --- [email protected]

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