Ultimatum Alla Terra 2

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(complete version: http://viaggioallucinante2punto0.blogspot.com/2009/08/ultimatumalla-terra-2-final-warning.html) ECO-APOCALYPSE (NOW) Lo hanno battezzato blob: una striscia di materiale organico lunga circa 10-12 miglia avvistata nel mar Chukchi in Alaska. Testimoni oculari assicurano che si tratta si una entità vivente, un qualcosa mai visto prima. Per ora, la Guardia Costiera si limita a monitorare questa gigantesca macchia o blob nero pece. Si attendono i risultati delle analisi per stabilire se si tratti di microrganismi marini e di quale specie. Blob scuro e vivente solca il mare dell'Alaska 16 luglio 2009 Unidentified Biological "Goo", 15 Miles Long, Creeps Down Alaskan Coast 16 luglio 2009 Sempre più spesso nel mondo si incontrano pesci transessuali: maschi che hanno sviluppato caratteri femminili. A volte fanno perfino le uova. Sono usciti quasi contemporaneamente due studi, uno sul Po e l’altro sui fiumi inglesi. Molto simili i risultati. I pesci cambiano sesso perchè i fiumi sono inquinati. Ossia, le attività umane producono scarichi così avvelenati da essere in grado di interferire con il sistema endocrino dei vertebrati. Lo studio sui pesci del Po che cambiano sesso è stato effettuato dal CNR-IRSAE. Quello sui pesci inglesi dalla University of Exeter. Tutti e due constatano che la responsabilità non è solo degli estrogeni (gli ormoni femminili) finiti negli scarichi attraverso feci e urine. Ad alterare le funzioni del sistema endocrino dei pesci sono anche sostanze contenute in detergenti industriali, diserbanti, plastificanti, filtri UV, vernici delle imbarcazioni, contraccettivi. Queste sostanze originate dalle attività agricole e industriali sono meno potenti degli ormoni naturali, ma sono anche dispersi nell’ambiente in dosi più massicce e quindi in grado di causare effetti tossici. Lo studio italiano sottolinea inoltre la moltiplicazione degli effetti dovuta all’azione combinata di un gran numero di sostanze presenti in piccole quantità. Ciascuna di esse da sola sarebbe incapace di provocare danni, ma il cocktail è micidiale. Fiumi inquinati, i pesci diventano transessuali Blogeko 06 marzo 2009 Inquinamento: i pesci cambiano sesso 03 marzo 2009 Worldwide She-Male Fish Mystery Widens 04 marzo 2009

I risultati delle analisi condotte dall'Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA) nell'ambito del progetto europeo “MonItaMal”, nato in collaborazione con l'università di Malta e il parco scientifico e tecnologico della Sicilia, per monitorare l'ambiente marino del Mediterraneo, con particolare attenzione alle isole di Malta e Lampedusa, mostrano che "nell'intero mar Mediterraneo si contano ben 110 specie esotiche, pari a circa il 15% dell'intera fauna ittica, mentre circa 50 specie ittiche ad affinità termofila risultano in espansione verso nord". Nell'area del canale di Sicilia, tra Malta e Lampedusa sono state "registrate dieci nuove specie provenienti dal mar Rosso e 12 dall'oceano Atlantico". Una situazione dovuta al "recente abbattimento di alcune barriere biogeografiche come il canale di Suez, in combinazione con l'incremento delle temperature". Ma i cambiamenti della biodiversità marina non sono limitati alle sole nuove specie: ci sono infatti mutazioni di quelle autoctone, conseguenza di sostanze tossiche. Sono "sorprendenti gli effetti dei composti antivegetativi come il Tributilsragno (Tbt), sostanza presente nelle vernici delle imbarcazioni, studiati sui murici", spiega l'ISPRA, "in questi molluschi tale sostanza provoca una mascolinizzazione della popolazione con la comparsa di veri e propri organi sessuali maschili nelle femmine sottoposte alle concentrazioni più elevate". In generale, spiega l'Ispra, "la qualità delle acque circostanti le isole del canale di Sicilia è buona", mentre "la situazione cambia nelle aree maggiormente antropizzate e soprattutto in prossimità dei principali scarichi fognari di Malta, dove risulta alquanto significativa la quantità di inquinanti, in particolare di pesticidi". Tra questi "il Ddt, bandito ormai da anni dal mercato ma ancora presente" nelle acque maltesi. Per quanto riguarda l'impatto degli scarichi urbani, continua l'ISPRA, "più in dettaglio è stato studiato l'effetto sulla comunità ittica costiera". Risultato: "Nell'Isola di Malta è stata segnalata una decisa alterazione della biodiversità in prossimità di tali scarichi". In particolare "scompaiono totalmente le specie più sensibili come molti labridi (i comuni tordi) e proliferano gli organismi opportunisti come Gobius bucchichi e Parablennius rouxi che, adattandosi quasi perfettamente a questi ambienti ricchi di sostanza organica, raggiungono un numero mai registrato negli ambienti naturali". MonItaMal è diventato anche un film documentario, scritto e diretto da ricercatori ISPRA, che intende richiamare l’attenzione sulle tematiche dell’inquinamento chimico, le alterazioni della biodiversità e le sfide poste dai cambiamenti climatici. Le immagini commentate descrivono il Mediterraneo illustrandone la vita, lei bellezze naturali, ma anche la vulnerabilità sotto il profilo ambientale fortemente antropizzato. Il video mostra come le attività umane stanno drasticamente modificando i sistemi naturali, offrendo un quadro preciso e realistico di come sta cambiando la nostra vita sul pianeta, insinuando una riflessione sulla nostra capacità di convivenza all’interno del Pianeta stesso. Biodiversità marina alterata: nuove specie e mutazioni terranuova 27 febbraio 2009 Italians map sea changes. Transgender molluscs among finds 25 febbraio 2009 Trailer del video

A Miami sono stati scoperti alti livelli di ritardante di fiamma nel grasso di delfini che vivono vicino la costa. Il ritardante di fiamma può causare la sterilità. Ritardanti di fiamma brominati sono impiegati nei mobili, nei vestiti e in elettronica per proteggere i prodotti dal fuoco. Putroppo però sono stati usati in modo sconsiderato finendo nei posti sbagliati, con conseguenze potenzialmente terribili. I delfini tursiopi accumulano questo tipo di sostanze chimiche come anche i PCB e il mercurio. I ritardanti di fiamma hanno già causato la morte di cuccioli: accumulatesi nella madre sono passati ai figli durante la gestazione. Gli Stati Uniti producono una grande quantitò di queste sostanze che sono state trovate anche nell’uomo. Attualmente non si sa ancora bene che tipo di impatto possono avere sulla salute umana. Alcuni sostengono che potrebbero causare danni allo sviluppo del cervello dei bambini, altri che possono colpire il sistema immunitario. Un particolare tipo di ritardante di fiamma è stato bandito quest’anno dallo Stato di Washington. Toxic Dolphins Found in Miami planetsave 11 maggio 2009 Meet the Toxic Miami Dolphins 08 agosto 2009 Washington's toxic flame retardant ban to take effect 21 gennaio 2009 In Cile, sulla spiaggia di Queule, in Araucanía, al confine con la Región de Los Ríos, sono stati trovati 1300 pinguini morti, appartenenti alla specie magellano. Alcuni dei corpi sono stati inviati agli studiosi delle Università Austral de Valdivia e alla Católica de Temuco. Per Bernardo Prado direttore regionale del Servicio Nacional de Pesca, “un certo numero di fattori esterni potrebbero avere influenzato la morte dei pinguini. Potrebbe essere la mancanza di cibo, l’anossia o qualche elemento chimico”. Prado eslude che un numero così elevato di pinguini sia morto a causa dei pescatori e delle reti da pesca. Esclude questa probabilità anche Roberto Schlatter ,docente presso l’Istituto di Zoologia della Università Austral, che non crede ad una responsabilità diretta dell’uomo ma piuttosto ad una tossicità delle acque marine. Cile, morti 1300 pinguini. Sconosciute le cause ecoblog 31 marzo 2009 Hundreds of Dead Penguins Wash Up on Beach in Southern Chile Anno 2065, due terzi dell'ozono scomparsi dall'atmosfera, radiazioni ultraviolette (UV) che colpiscono alle medie latitudini città come Washington causando ustioni in cinque minuti e mutazioni del DNA aumentate del 650%. Questo il catastrofico scenario se il protocollo di Montreal, entrato in vigore 20 anni fa e sottoscritto da 193 nazioni, non avesse bandito i prodotti che contribuivano alla riduzione del buco dell'ozono.

A prevederlo sono stati scienziati americani e olandesi, guidati da Paul Newman del Nasa Goddard Space Flight Center di Greenbelt, Stati Uniti. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Atmospheric Chemistry and Physics. I principali imputati per la perdita dell'ozono atmosferico sono gli idrocarburi alogenati, sostanze chimiche inventate nel 1928 come refrigeranti. Negli anni '80, quando fu rilevato il buco dell'ozono, i ricercatori scoprirono che questi composti chimici, praticamente inattivi a livello della superficie terrestre, erano in grado di interagire con le molecole di ozono dell'atmosfera distruggendo quello strato che costituisce uno schermo protettivo contro i pericolosi raggi Uv. Per riparare a questa situazione, nel 1987 fu firmato il protocollo di Montreal che entrerà in vigore due anni dopo. "Siamo arrivati - ha dichiarato Newman - al punto in cui chiederci se avevamo ragione riguardo al buco dell'ozono e se abbiamo fatto un buon lavoro con il protocollo di Montreal". Queste le motivazioni che hanno spinto i ricercatori a trovare il modo per simulare lo scenario se non fosse stato approvato il protocollo. Un programma al computer, ideato per valutare gli effetti dei composti chimici sull'atmosfera, i cambiamenti dei venti e delle radiazioni, ha permesso di ricostruire i cambiamenti climatici fino al 2065. I ricercatori hanno simulato un aumento delle emissioni degli idrocarburi del 3% l'anno, un valore inferiore rispetto alla crescita delle emissioni negli anni '70. Secondo la simulazione, le emissioni di idrocarburi avrebbero determinato nel 2020 la distruzione del 17% dell'ozono. Nel 2040, lo strato di ozono, spesso nel 1974 un po' più di tre millimetri con una concentrazione di 315 unità Dobson, sarebbe sceso fino a 2,2 millimetri a livello globale. Nel 2050 sarebbe scomparso tutto l'ozono sopra i tropici e nel 2065 lo strato si sarebbe assottigliato fino a poco più di un millimetro, una perdita pari al 67% dell'ozono atmosferico. Sono ormai 15 anni che non si producono più le sostanze che minacciavano lo strato di ozono. Solo ora, però, cominciano a diminuire, visto che possono persistere nell'atmosfera fino a 50-100 anni. Il picco di concentrazione c'è stato nel 2000. Da allora si sono ridotte del 4%. Nonostante la perdita stimata del 5-6% di ozono, alcuni studi hanno di recente dimostrato un'inversione di tendenza, con lo strato che sta aumentando in alcuni punti. 2065, odissea scongiurata Gefis Ecologia 23 marzo 2009 Abbiamo evitato il disastro. I calcoli della Nasa sul “buco dell’ozono” Blogeko 20 marzo 2009 New Simulation Shows Consequences of a World Without Earth's Natural Sunscreen 18 marzo 2009 “2012”, il colossal di Roland Emmerich, regista specializzato nel mettere in scena le catastrofi, mette in scena la fine del mondo causata da un disastro ambientale provocato dall’incuria umana verso l’ambiente e dai cambiamenti climatici. Il film arriverà in Italia a “impatto zero”: la produzione ha aderito al progetto Impatto Zero di LifeGate per ridurre e compensare le emissioni di anidride carbonica generate dalla distribuzione e dal lancio del film, per compensare circa 45.000 kg di CO2 attraverso la creazione e tutela di 21.680 mq di foreste in Costa Rica.

Nell’analisi d’impatto ambientale sono stati considerati i consumi di energia elettrica per l’organizzazione dell’anteprima del film, il materiale di comunicazione e promozione e la distribuzione della pellicola nelle sale. Il film si basa sulla profezia legata al calendario Maya secondo la quale il mondo finirà il 12 dicembre 2012. Emmerich mette in scena una eco-apocalisse e un immaginario G8 spagnolo nel 2010 per cercare di prevenire l’emergenza e salvare le popolazioni, anche se poi si dice scettico su leggende e profezie. La trama del film si articola in diversi tempi: inizia nel 2009 quando il Professor West viene a conoscenza di alcune tempeste solari di forte intensità che hanno colpito il pianeta. Gli eventi si spostano, poi, al 2010, quando viene convocato un G8 in Spagna per delineare il programma d’azione per l’imminente catastrofe. Il G8 ha deciso di costruire delle astronavi su cui accogliere le personalità più ricche ed influenti del pianeta, che ritorneranno una volta che le catastrofi naturali siano finite, per ripopolare la Terra. I veri protagonisti del film sono una famiglia: Jack ed i suoi figli sono in vacanza nel parco di Yellowstone. Nel momento in cui si rendono conto del pericolo, si dirigeranno a Los Angeles per salvare anche la moglie. Nel frattempo, terremoti, tsunami, uragani, trombe d’aria, vulcani in eruzione fanno vibrare la Terra, facendo scomparire intere città. 2012, la catastrofe ambientale che fa bene all'ambiente 24 luglio 2009 2012 (film) - Wikipedia progetto Impatto Zero A Londra, in un tendone alimentato unicamente dall’energia solare, è stato proiettata la prima di “The Age of Stupid”. Il film è ambientato nel 2055, anno in cui si sono realizzati tutti i più foschi scenari tratteggiati dall’IPCC, il gruppo di scienziati che fa capo all’ONU e che studia i cambiamenti climatici. In questo mondo sconvolto, il protagonista guarda indietro e ripercorre i tempi in cui oggi viviamo, chiedendosi perchè il genere umano non ha cambiato rotta quando era ancora possibile e prima che diventasse troppo tardi. La regista e attivista inglese Franny Armstrong si è divertita a shakerare un cocktail di generi e stili: fantascienza, documentario e film d’animazione con un pizzico di effetti speciali firmati da Martyn Pick. Il film è stato interamente realizzato grazie a fondi provenienti da gruppi ed individui che credevano nel progetto. E i futuri profitti verranno divisi tra la troupe e gli investitori. All'uscita del film è legata la campagna “Not Stupid”: "facciamo qualcosa finché ne abbiamo ancora la possibilità". I cambiamenti climatici al cinema, arriva il film “The age of stupid”, blogeko, 16 marzo 2009

An Alarm From 2055: Act Now to Save the Earth 17 luglio 2009 The Age of Stupid Not Stupid Rapporto IPCC Un film per salvare il mondo, in uscita planetaria, su tutti i supporti e a scopo benefico. È “Home”, l’ambizioso progetto di Luc Besson, sostenuto dal gruppo Pinault e girato da Yann Arthus-Bertrand, noto fotografo che da anni immortala la terra dal cielo. Il film percorre 54 paesi e 120 località di un set durato 217 giorni su 18 mesi per 500 ore di girato. Immagini spettacolari per ricordare i rischi che corre la casa di tutti, “home”, appunto: effetto serra, estinzione di specie animali e vegetali, esaurimento delle materie prime. Immagini emozionanti dai cinque continenti: riprese aeree che sfiorano cascate amazzoni, fiumi africani, barriere coralline australiane,e che poi si inoltrano tra i grattacieli delle nuove metropoli cinesi, inseguono balene, orsi bianchi, carovane di dromedari. Oppure scoprono impressionanti bidonville nigeriane o angoli sperduti della Siberia, rubando gli istanti del paziente lavoro di marocchine impegnate nella raccolta nei campi, o giganti trebbiatrici in Colorado. Tutti i profitti saranno destinati all’associazione Goodplanet, fondata dallo stesso ArthusBertrand nel 2005 per informare e sensibilizzare l’opinione pubblica sulle prospettive offerte dallo sviluppo sostenibile. "Home", un film per salvare la Terra Altrogiornale 29 aprile 2009 Calling Earth from the Air: world release of green movie 'Home' terradaily 04 giugno 2009 Com’è cambiata la Terra in 10 anni. Le immagini satellitari della Nasa World of Change http://www.home-2009.com/ Il riscaldamento globale crea sfide in vari luoghi del mondo per la crescita del livello dei mari, ma in Alaska sta avendo effetti opposti. A Juneau, la capitale dello Stato americano, le acque si ritirano e la terra si gonfia, liberata dai giganteschi ghiacciai in scioglimento. Il fenomeno viene studiato dagli scienziati statunitensi, ma sono soprattutto i 30.000 abitanti della zona a seguire con attenzione e talvolta con apprensione il mutamento in corso. I confini delle proprietà cambiano, corsi d'acqua si chiudono, aree un tempo sommerse si trasformano in zone boscose. In 200 anni, secondo gli studi dello United States Geological Survey, la terra nell'area di Juneau è salita di oltre 3 metri rispetto al livello del mare, e il fenomeno sta ora accelerando per effetto del riscaldamento globale e

del conseguente sciogliemento dei ghiacci: entro il 2010 è atteso un altro metro di innalzamento. Il sindaco Bruce Botelho ha detto al New York Times che negli ultimi tempi il terreno sale "ai ritmi più intensi che abbiamo mai registrato". Un evento legato a complesse dinamiche geologiche, ma che viene paragonato per semplicità al cuscino di un sofà che si gonfia quando una persona si alza e lo libera del proprio peso. La comunità locale ha imparato a convivere con le modifiche ambientali, ma è ora un po' preoccupata dall'accelerazione che i fenomeni stanno avendo. Il canale Gastineau, su cui si affaccia la città, navigabile da parte di imbarcazioni di grande stazza fino ad alcuni decenni fa, ha ora invece un fondo fangoso che sale e lo rende impraticabile per la navigazione. C'è preoccupazione poi per i salmoni, da sempre una delle maggiori risorse dell'area, che al loro ritorno ogni stagione trovano sempre più difficile risalire le correnti, perché i corsi d'acqua si ritirano di fronte alla terra che sale. "Il salmone è legato alla nostra identità, a ciò che siamo come comunità", dice preoccupato il sindaco Botelho. Il mare si ritira e la terra si gonfia In Alaska il clima fa strani scherzi gefis ecologia 19 maggio 2009 As Alaska Glaciers Melt, It's Land That's Rising NYTimes 18 maggio 2009 Il cambiamento climatico in corso potrebbe costare alla California decine di miliardi di dollari all’anno per i prossimi anni, se il livello del mare dovesse continuare a salire e le calde giornate californiane dovessero costringere i cittadini a sovrautilizzare i condizionatori. Tutto questo malgrado gli sforzi enormi compiuti dall’amministrazione della regione in questi anni, sul fronte del rispetto dell’ambiente e del risparmio energetico. Lo afferma una bozza di rapporto del Climate Action Team. Secondo lo studio – un riassunto di 37 studi sul cambiamento climatico, ultima di una serie di pubblicazioni che gli stati americani più popolosi presentano ogni due o tre anni, aggiungendo sempre ulteriori dettagli - l’innalzamento della CO2 presente nell’aria, che dalle 250 parti per milione all’inizio degli anni 2000 è schizzato ad oltre 360 parti per milione, potrebbe essere letale per alcune zone costiere del Golden State in meno tempo di quanto si possa ritenere, se non verranno prese misure ancora più drastiche di quelle fino ad ora in atto. “Oggi sono meno ottimista”, dice Michael Hanemann, economista, co-direttore del California Climate Change Center all’Università della California di Berkeley, tra gli autori del rapporto, “la situazione sta peggiorando”. La California si è trovata suo malgrado ad essere un gigantesco laboratorio di osservazione sul campo degli effetti già in atto del riscaldamento globale, ma il futuro sembra essere ancora più problematico. Il livello dell’oceano Pacifico potrebbe salire da 1 a 1,4 metri entro la fine del secolo ed un rapporto del Pacific Institute raccomanda un graduale abbandono delle infrastrutture in alcune fasce costiere e zone interne. Secondo il Pacific Institute, nell’ultimo secolo il livello del mare lungo la costa della California è aumentato in media di 8 pollici e 2 milioni e 600 mila californiani vivono già in aree a rischio di alluvioni che attualmente sono protette da argini e dighe. Un aumento di 1,4 metri porterebbe la popolazione a rischio a 480 mila persone, 1900 chilometri di strade

e autostrade sono già rischio e secondo le proiezioni finirebbero sotto il livello del mare 3.500 miglia di strade. Per questo motivo, lo Stato californiano è da diversi anni uno degli stati USA in prima linea nella lotta al cambiamento climatico, con obiettivi importanti come il taglio delle emissioni di carbonio entro il 2020, fino a giungere ai livelli del 1990. Un obiettivo che la legislazione federale potrebbe estendere a tutta la nazione. Ma non è abbastanza. Secondo molti esperti, per evitare inondazioni ed erosioni della costa il Golden State si troverebbe a dover ricollocare quasi 500.000 persone con la distruzione di 100 miliardi di dollari di proprietà private e danni incalcolabili alle strutture pubbliche la scomparsa delle sue famose spiagge. Le proposte per contenere la catastrofe sono dolorosamente radicali: stop allo sviluppo costiero nelle aree a rischio di aumento di mare; graduale abbandono di alcune aree; bloccare le sovvenzioni federali per l´assicurazione di proprietà che potrebbero essere inondate; costruzione di nuove strutture costiere per adattarsi al cambiamento climatico. Il governatore della California Arnold Schwarzenegger sembra voler concentrare i propri sforzi sul problema della scarsità d’acqua. “Le più recenti ricerche sulla siccità dimostrano che le difficoltà attuali sono solo una piccola parte di quelle che saranno provocate in futuro dal cambiamento climatico”, ha detto Schwarzenegger. Il rapporto conclude sostenendo che l’impatto del cambiamento climatico sul settore dell’acqua potrebbe anche essere modesto, ma che questo non sarebbe un problema in una situazione di mercato perfetto in cui le città possano costantemente comprare acqua dalle aziende: situazione che, però, non è reale. Uno dei cambiamenti più importanti segnalati è quello che riguarda l’uso di energia elettrica da parte dei californiani, che avrebbe un incremento del 55% entro la fine del secolo. California, rischio cambiamenti climatici Gefis Ecologia 15 maggio 2009 California panel urges 'immediate action' to protect from rising sea levels 12 marzo 2009 Le spiagge californiane devono affrontare anche un’altra minaccia: l’invasione di giganteschi calamari di Humboldt (o volanti), mostri marini lunghi fino a 2 metri che hanno terrorizzato le coste di San Diego. Questi carnivori, che possono arrivare fino a 50 kg, sono «una specie molto aggressiva anche contro gli esseri umani», mettono in guardia gli esperti. Hanno un aspetto estremamente minaccioso, becchi durissimi affilati come lame di rasoio e tentacoli dentati lunghi e robusti. «Hanno attaccato alcuni sub e afferrato coi tentacoli maschere e macchine fotografiche», mette in guardia il Los Angeles Times. Gli incontri ravvicinati con questi cefalopodi hanno fatto fuggire i veterani delle immersioni ed eccitato altri, combattuti tra il pericolo e l’occasione unica di nuotare con i giganti degli abissi. Il cosiddetto calamaro Humboldt è nativo delle acque al largo del Messico, dove è stato soprannominato «diavolo rosso», per le sue striature color ruggine. «Non nuoterei con loro

come non camminerei in mezzo ad un branco di leoni nel Serengeti - ironizza Mike Bear, un sub locale - anche se so che sto perdendo l’occasione di una vita». Altri sub, come Shanda Magill, non hanno resistito. «Alcune notti fa ho ammirato gli occhi tristi ed espressivi di una dozzina di calamari giganti - racconta - mi hanno circondata, salutandomi con dei colpetti». Ma la notte successiva non è andata così bene: un gigantesco calamaro ha afferrato la donna da dietro con i suoi tentacoli: «Mi ha staccato il galleggiante dal petto e gettato via la luce, con una forza a dir poco immane - rievoca ancora terrorizzata - quando mi sono ripresa, il calamaro se ne era andato, ma io ero senza galleggiante. Ho scalciato come una pazza». Roger Uzun, un fotografo sottomarino, ha nuotato con queste creature per circa 20 minuti e ha detto che gli sembravano «più curiosi che aggressivi»: «Appena ho acceso la telecamera sott’acqua - racconta - si sono spinti verso di me e mi hanno colpito alla nuca. Sembravano volermi tastare per vedere se ero commestibile». Alla fine Uzun ha scaricato su YouTube un video di tre minuti che ha rischiato di non essere mai girato: «Mi ha quasi tolto la videocamera dalle mani». Gli scienziati sono allarmati. Negli ultimi anni sono stati avvistati fino all’Alaska: un trend attribuibile all’effetto serra e al surriscaldamento della crosta terrestre, oltreché alla mancanza di cibo e al declino dei predatori naturali dei calamari. Secondo gli esperti, gli esemplari potrebbero essere centinaia, se non migliaia. «In genere quando si avvista un calamaro, ce ne sono moltissimi altri», avverte John Hyde, un biologo al National Marine Fisheries Service di San Diego. «Si avvicinano alla costa quando le loro prede si spostano nelle acque basse e poi restano intrappolati o confusi», lo incalza Nigella Hillgarth, direttore del Birch Aquarium di San Diego, «vederli da vicino è straordinario. Hanno degli occhi meravigliosi, sembra che vedano e sappiano tutto». California invasa dai super-calamari 19 luglio 2009 California: Invasion of the Giant Squid! 16 luglio 2009 Lo scorso giugno, la temperatura della superficie degli oceani ha superato i livelli registrati a giugno del 2005, stabilendo un nuovo record. Ad annunciarlo l’agenzia governativa statunitense National Oceanic Atmospheric Administration (NOAA) che ha riportato i dati provenienti dal National Climatic Data Center di Asheville, in North Carolina. Dai dati è emerso infatti che la temperatura media della superfcie oceanica nel mese di giugno 2009 è la più calda mai registrata e supera di 0,59°C la media delle temperature rilevate per tutto il Ventesimo secolo. Oceani sempre più caldi: a giugno temperature record 22 luglio 2009 Global Ocean Surface Temperature Warmest On Record For June ScienceDaily 27 luglio 2009 Ninth Warmest February For Globe, NOAA ScienceDaily 16 marzo 2009

LA TEMPERATURA SALE DI 0,15 GRADI PER DECENNIO DAL 1970 gefis ecologia 19 maggio 2009 National Oceanic And Atmospheric Administration Un nuovo modello basato sui cambiamenti nel livello degli oceani avvenuti negli ultimi 22.000 anni indica che entro la fine del secolo l'innalzamento potrebbe andare da un minimo di 7 centimetri a un picco di ben 82 centimetri in risposta al riscaldamento globale. Lo studio, pubblicato sulla rivista Nature Geoscience, è stato condotto da Mark Siddall dell'Università di Bristol in collaborazione con ricercatori svizzeri e statunitensi e i risultati sono in linea con le proiezioni fornite dal quarto rapporto dell'Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) pubblicato nel 2007. Attualmente, il comportamento dei ghiacci delle calotte polari non è ben chiaro e questo produce incertezze nei risultati delle proiezioni sul livello del mare in risposta al riscaldamento globale, rendendo i risultati dei modelli climatici piuttosto controversi. Di conseguenza, i ricercatori hanno voluto confrontare i risultati ottenuti dal complesso modello utilizzato dall'IPCC con quelli ottenuti con un modello diverso. I dati di partenza sono stati quelli relativi a resti fossili delle barriere coralline e alle temperature misurate nelle carote di ghiaccio relative ai passati 22.000 anni, cioé a partire dal periodo di massima espansione dei ghiacci durante dell'ultima glaciazione (Ultimo Massimo Glaciale) al periodo interglaciale (Olocene). In questo modo, i ricercatori hanno stimato che se le temperature globali aumenteranno del valore minimo previsto di 1,1 gradi, alla fine del XXI secolo il livello del mare salirà di 7 centimetri. Se le temperature globali saliranno del massimo ipotizzato, ossia 6,4 gradi, l'innalzamento del livello del mare toccherà gli 82 centimetri. Le stime dell'IPC non sono molto dissimili, concludono i ricercatori, dato che indicano un innalzamento possibile da un minimo di 18 a 76 cm. Clima, così si gonfiano gli oceani La Nuova Ecologia 27 luglio 2009 New predictions for sea level rise 27 luglio 2009 Rising Sea Levels Set To Have Major Impacts Around The World Terradaily 20 marzo 2009 Sea level rise could bust IPCC estimate New Scientist 10 marzo 2009 Anche New York è minacciata dai cambiamenti climatici. Secondo uno studio pubblicato su Nature Geoscience, condotto al Center for OceanAtmospheric Prediction Studies (COAPS) della Florida State University dal ricercatore Jianjun Yin, entro la fine di questo secolo si avrà un aumento del livello del mare previsto intorno ai 15-23 centimentri a causa dell’espansione termica e il rallentamento della circolazione delle acque dell’oceano nord-atlantico dovuti al riscaldamento globale . Yin, insieme ai colleghi Michael Schlesinger della University of Illinois di UrbanaChampaign e Ronald Stouffer del Geophysical Fluid Dynamics Laboratory della Princeton

University, è giunto alla triste conclusione dopo aver analizzato i dati di ben 10 diversi modelli climatici, gli stessi utilizzati dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) per il loro “Fourth Assessment Report”. Journal reference: Yin et al., “Model projections of rapid sea-level rise on the northeast coast of the United States”, Nature Geoscience, March 15, 2009; DOI: 10.1038/ngeo462 Sea Level Rise Due To Global Warming Poses Threat To New York City ScienceDaily 16 marzo 2009 Un team di ricerca anglo-spagnolo ha previsto che i cambiamenti climatici e l'aumento dei gas serra innalzeranno il livello del mar Mediterraneo e le temperature oceaniche in questa zona. Gli scienziati dell’IMEDEA (Mediterranean Institute for Advanced Studies) - un centro comune gestito dall'University of the Balearic Islands (UIB) e dal Centro per la Ricerca Nazionale Spagnolo (CSIC) - e del National Oceanography Centre di Southampton nel Regno Unito hanno analizzato simulazioni basate su tre scenari diversi con l’obiettivo di di prevedere il livello, la salinità e la temperatura del mar Mediterraneo nel ventunesimo secolo. I risultati dello studio sono stati pubblicati sul Journal of Geophysical ResearchOceans. Sulla base dei 12 modelli di circolazione generale dell'atmosfera e degli oceani (Atmosphere-Ocean General Circulation Model - AOGCM) usati per lo studio, gli scienziati hanno concluso che le maggiori concentrazioni di gas causeranno l'innalzamento della temperatura in tutto il mare. "Lo scenario più positivo presume che le concentrazioni di gas serra rimangano uguali ai livelli dell'anno 2000, ma anche in questo caso i cambiamenti climatici avranno comunque un loro impatto", ha detto la dott.ssa Marta Marcos dell'UIB a capo dello studio, citata dal SINC (Scientific Information and News Service), "lo scenario più negativo è basato sui diversi livelli di sviluppo economico nei vari paesi del mondo, con una crescita continua nella produzione di gas serra durante l'intero ventunesimo secolo". Supponendo che si realizzi lo scenario più favorevole, le temperature del mediterraneo non dovrebbero aumentare di oltre 1°C fino alla fine del 2099. Tuttavia, gli altri due scenari mostrano che i gas serra aumenteranno nei decenni a venire, provocando un aumento della temperatura del mare fino a 2,5°C. Secondo gli scienziati, le scoperte mostrano anche che le temperature aumenteranno in questo secolo. Il cambiamento delle temperature e l'aumento della massa potrebbero alla lunga anche causare cambiamenti nel livello del mare. "Il livello dell'intero Mediterraneo crescerà in media tra i 3 e i 61 centimetri in seguito agli effetti del riscaldamento", ha spiegato la dott.ssa Marcos. La ricercatrice ha anche fatto notare che, dato che le condizioni climatiche cambieranno profondamente, non è possibile fare una previsione esatta di questa zona per il futuro. "Le variazioni della salinità nel Mediterraneo sono controllate dallo scambio dell'acqua attraverso lo stretto di Gibilterra, fatto non considerato come indicatore, per cui i risultati relativi non sono molto attendibili", hanno detto la dott.ssa Marcos e il dott. Michael Tsimplis, ricercatore del National Oceanography Centre di Southampton.

Secondo loro, i modelli presi in esame dall’IPCC hanno una risoluzione spaziale molto scarsa; mentre sono capaci di mostrare i processi globali "abbastanza bene", per quelli regionali è molto più difficile per i ricercatori "essere sicuri del livello dei cambiamenti", ha detto la dott.ssa Marcos. Marcos e Tsimplis hanno anche aggiunto che i modelli globali non riescono a calcolare l'impatto dell'innalzamento del livello del mare nelle zone costiere "a causa dell'alto tasso di variabilità di questo fattore". Journal reference: Marcos et al., “Comparison of results of AOGCMs in the Mediterranean Sea during the 21st century”, Journal of Geophysical Research, 2008; 113 (c12): C12028 DOI: 10.1029/2008JC004820 Ricercatori prevedono l'innalzamento del livello del mar Mediterraneo 19 marzo 2009 Mediterranean Sea Level Could Rise By Over Two Feet, Global Models Predict ScienceDaily 04 marzo 2009 Global climate model - Wikipedia L’innalzamento del livelli dei mari hao cominciato a mostrare i suoi drammatici effetti in un piccolo arcipelago del Pacifico del Sud, una cinquantina di miglia dall'isola di Bougainville, quello delle Carteret. Le Carteret sono un insieme di piccoli atolli corallini su cui vivono circa 2600 persone, ma si pensa non vi potranno restare ancora a lungo. L'esodo è già cominciato, 10 famiglie alla volta. Gli esperti dicono che entro il 2015 le isole, che hanno il loro punto più alto a 170 centimetri sul livello del mare, saranno quasi totalmente sommerse, e comunque totalmente inabitabili. PACIFICO SUD IL MARE SI ALZA E INIZIA L'ESODO Gefis ecologia 13 maggio 2009 Rising sea levels force island populations to evacuate 12 giugno 2009 Paradise lost: Islanders prepare for the flood New Scientist 11 May 2009 L'aumento della temperatura globale porterà nei paesi a clima temperato e freddo malattie oggi tipicamente tropicali, la siccità farà dilagare gastroenterite e malnutrizione, le ondate di calore faranno milioni di vittime. L'allarme arriva da un rapporto pubblicato sulla rivista Lancet da un gruppo di esperti guidati da Antohny Costello della College University di Londra che hanno preso in esame tutte le possibili minacce, dirette e indirette, dei cambiamenti climatici alla salute umana. "Il messaggio più importante - dichiara Costello - è che i cambiamenti climatici non sono solo un problema ambientale, una minaccia alla vita degli orsi polari e alle foreste, ma anche alla vita dell’uomo. L'impatto sarà sentito in tutto il mondo e non in un futuro distante ma nel corso delle nostre vite e di quelle dei nostri figli". Il gruppo britannico ha puntato l'attenzione su sei aree chiave della salute: misure igieniche a salvaguardia della salute pubblica, nuova distribuzione delle malattie con spostamento di alcune oggi tipiche dei paesi tropicali anche nelle regioni temperate, eventi catastrofici come inondazioni o uragani, stanziamenti umani e migrazioni.

Gli autori hanno utilizzato simulazioni con i diversi scenari climatici possibili, dall'aumento della temperatura globale di 2 gradi alla catastrofica eventualità di un aumento di ben 6 gradi. Un solo grado in più significa una riduzione dei raccolti agricoli del 17%, quindi un aumento del prezzo dei cibi e l'impennata dei problemi di malnutrizione. La metà della popolazione mondiale dovrà fare i conti con gravi carenze di cibo entro la fine del secolo. Inoltre, entro il 2020 fino a 250 milioni di persone in Africa dovranno fronteggiare problemi legati alla siccità con gravi conseguenze sulla salute, perché acqua e misure igieniche sono cruciali per prevenire gastroenterite, diarrea e malnutrizione. Aumenteranno dunque le malattie, in particolar modo nei paesi in via di sviluppo. Malattie come malaria, encefaliti da zecche, febbri emorragiche diverranno sempre più diffuse, mettendo in crisi anche le strutture ospedaliere dei paesi occidentali ora a clima freddo che mancano di esperienza gestionale della malaria e di altre malattie infettive e parassitarie. Entro il 2100, le temperature estive di India sud-orientale ed Australia supereranno i 50 gradi, quelle dell'Europa del Sud, Sud-Ovest e Centro i 40. Alla fame e ai problemi igienici e di salute pubblica legati a carenze idriche, potrebbe dunque aggiungersi l'emergenza decessi da ondate di calore, che colpirebbe tanto i paesi occidentali quanto quelli emergenti. Journal reference: The Lancet vol 373, p 1693 Cambiamenti climatici e malattie A rischio 7 miliardi di persone La Nuova Ecologia 14 maggio 2009 Climate change diagnosed as biggest global health threat New Scientist 14 maggio 2009 Entro la fine del secolo le barriere coralline potrebbero sparire da quell'angolo del pianeta Terra dove sono presenti in maggiore densità, il cosiddetto «triangolo dei coralli» che si estende tra le coste e i mari di sei Paesi indonesiani: Filippine, Malesia, Papua Nuova Guinea, Isole Salomone e Timor Est. Queste terre, pur rappresentando solo l1% della superficie terrestre, comprendono il 30% delle barriere coralline mondiali. Non solo: si trovano qui il 76% delle specie di coralli censite in tutto il mondo e oltre il 35% delle spiecie di pesci presenti nelle barriere coralline, compreso il tonno. A lanciare l'allarme sulla sopravvivenza di questo ecosistema - e su una popolazione di circa 100 milioni di persone che con la scomparsa dei coralli di fatto si troverebbe priva di ogni forma di sostentamento - è il WWF, che in occasione della Conferenza Mondiale degli Oceani, svoltasi a Manado, in Indonesia, ha presentato uno studio realizzato da un team di esperti - biologi, economisti, studiosi di ecosistemi - che si sono avvalsi di oltre 300 analisi scientifiche. La conclusione a cui giunge è tutt'altro che tranquillizzante: i cambiamenti climatici, l'aumento della temperatura degli oceani e del livello dell'acqua e della sua acidità, i sempre più frequenti eventi estremi come siccità e burrasche, avranno effetti devastanti. Per questo la comunità internazionale deve subito correre ai ripari, intervenendo soprattutto sul riscaldamento del pianeta, sul fronte della lotta all'inquinamento e sul

contenimento degli eccessi di pesca. «Nello scenario attuale - spiega il prof. Ove HoeghGuldberg, dell'università di Queensland, a capo del team di esperti - la gente vedrà distruggere i tesori biologici del Triangolo dei Coralli. La povertà aumenterà, sparirà la sicurezza del cibo, l'economia soffrirà e i popoli della costa dovranno emigrare sempre più verso aree urbane». Con tutte le conseguenze che gli esodi massicci comporteranno. La ricetta individuata non è nuova: Le conseguenze catastrofiche annunciate si riferiscono al peggiore dei possibili scenari presi in considerazione dallo studio, ovvero quello di un continuo andamento negativo del quadro climatico e di uno scarso impegno nella protezione delle aree costiere. «Ma anche nello scenario migliore bisognerà affrontare la perdita di una parte delle barriere coralline, l'aumento del livello del mare e delle bufere, la siccità e la ridotta disponibilità di cibo ricavato dal pescato costiero - fa notare il WWF con una differenza sostanziale: che le comunità rimarranno ragionevolmente intatte e saranno in grado di affrontare le difficoltà mediante una gestione efficace delle risorse costiere, che includa reti regionali di aree marine protete, la protezione delle mangrovie e dei letti dei fiumi e una buona gestione del pescato». La sfida più grande è sempre la stessa: ridurre le emissioni di gas serra con investimenti internazionali che rafforzino l'ambiente naturale della regione. Sarà a Copenhagen, dove avrà luogo il prossimo dicembre la Conferenza delle parti della Convenzione quadro sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite, che bisognerà trovare un’intesa, altrimenti sarà molto difficile riuscire a proteggere le comunità più vulnerabili dalla perdita di cibo e di sostentamento. Journal reference: L. J. McCook, G. R. Almany, M. L. Berumen, J. C. Day, A. L. Green, G. P. Jones, J. M. Leis, S. Planes, G. R. Russ, P. F. Sale and S. R. Thorrold, “Management under uncertainty: guidelines for incorporating connectivity into the protection of coral reefs”. Coralli scomparsi entro la fine del secolo A rischio la vita di 100 milioni di persone Gefis ecologia 13 maggio 2009 Climate change endangers coral Triangle 13 maggio 2009 Life at the Edge: Great Barrier Reef Could Be World's 1st Gobal Ecosystem to Collapse 21 luglio 2009 L´Indonesia protegge i suoi coralli e fa un accordo con gli USA su oceano e clima 13 maggio 2009 Rules Proposed To Save The World's Coral Reefs ScienceDaily 12 maggio 2009 Fight to save the 'Amazon of the oceans' terradaily 10 maggio 2009 WWF - World Ocean Conference Coral Triangle Initiative ARC Centre of Excellence in Coral Reef Studies

Secondo il rapporto stilato dalla FAO e dal Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP), presentato al pubblico alla Conferenza Mondiale sugli Oceani, ogni anno vengono immesse negli oceani 6,4 milioni di tonnellate di rifiuti. Di questi rifiuti, 5,6 milioni (l’88%) provengono da imbarcazioni mercantili. La concentrazione di massa di spazzatura riguarda zone di accumulo in alto mare, e in particolare il Pacifico centrale, la zona di convergenza equatoriale. Ogni giorno vengono rilasciati in mare circa 8 milioni di rifiuti, di cui circa il 63% sono rifiuti solidi gettati o persi dalle navi. Si stima che in ogni chilometro quadrato di oceano galleggino circa 13.000 pezzi di rifiuti di plastica. Il dato peggiore è quello relativo all’anno 2002, rilevato nel Pacifico Centrale, in un punto in cui si accumulano rifuti: per ogni chilo di plancton ci sono 6 chili di plastica. Tra le misure preventive e i suggerimenti discussi durante la conferenza per salvare il mare dall’inquinamento, sono state proposte linee guida che mirano soprattutto a coinvolgere la cittadinanza, strategie di supporto ad enti privati e pubblici affinchè collaborino in una rete-sistema dalla produzione allo smaltimento, oltre alla promozione di campagne ambientali e l’impiego di materiali biodegradabili. Al termine della conferenza, il presidente indonesiano, Susilo Bambang Yudhoyono, durante un suo intervento ha dichiarato che “la tutela dei mari e degli oceani è una questione di vita o di morte. Milioni di persone vivono nelle zone costiere e dipendono dalle risorse marine. È necessario fermare la distruzione di tali risorse, fermare l’inquinamento, la sovrappesca e combattere i cambiamenti climatici. Dobbiamo proteggere gli oceani per le generazioni future, affinché possano vivere liberi dalle catene della povertà”. Gli oceani sono discariche a cielo aperto ecoblog 21 maggio 2009 Oceans Fast Becoming a Garbage Dump 09 giugno 2009 Dying oceans 'life and death issue': Indonesia terradaily 14 maggio 2009 Il riscaldamento globale sta uccidendo inesorabilmente gli alberi: un aumento anche modesto di temperatura (di 4 gradi) moltiplica per cinque il rischio morte in condizioni di siccità. È quanto dimostra uno studio diretto da Henry Adams dell'Università dell'Arizona a Tucson, pubblicato sui Proceedings of the National Academy of Sciences. I risultati dello studio sono importanti e da non sottovalutare perché ''ci dicono che se la temperatura sale di poco - spiega Adams - saranno sufficienti periodi brevi di siccità per sterminare intere foreste, e i brevi momenti di siccità sono molto più frequenti di quelli più lunghi in cui la siccità perdura per molto tempo''. In sostanza si deve aver paura, dunque, anche di cicli di siccità di breve durata. Gli esperti hanno trasportato 20 pini riproduttivamente maturi nel laboratorio Biosphere2, ovvero oltre tre acri di terreno sotto vetro a Oracle, e ne hanno piantati metà in condizioni di temperatura normale, l’altra metà in un habitat di 4 gradi più caldo. Dopo averli lasciati insediare nel terreno, i ricercatori hanno provocato condizioni di siccità. Gli alberi che crescevano a temperatura maggiore sono morti tutti inesorabilmente molto prima degli altri.

I ricercatori hanno dunque dimostrato che, indipendentemente da altri effetti quali presenza di parassiti o altre conseguenze del cambiamenti climatici, l'aumento anche minimo delle temperatura ha conseguenze drammatiche sulla vita degli alberi. RISCALDAMENTO GLOBALE SEMINA MORTE NELLE FORESTE gefisecologia 15 aprile 2009 Global Warming: Heat Could Kill Drought-stressed Trees Fast ScienceDaily 15 aprile 2009 150 esperti di otto nazioni hanno elaborato la diagnosi scientifica del bacino più grande del continente americano: quello amazzonico. Secondo lo studio, attualmente viene deforestata ogni minuto una superficie di Amazzonia equivalente a oltre 10 campi da calcio. Questo accade di ora in ora, di giorno in giorno, di anno in anno. Gli stati che comprendono al loro interno zone amazzoniche dovrebbero stabilire strumenti di tutela territoriale, al fine di evitare la sua totale distruzione. Chi immagina il grande polmone del pianeta sul punto di collassare non è lontano dalla realtà. Il bacino amazzonico, il più grande del continente americano, divisa tra otto nazioni sudamericane, è al limite della devastazione. È quanto sostiene la relazione GEO Amazzonia, compilata recentemente da 150 investigatori convocati dal Programma delle Nazioni Unite per l’Ecosistema e dall’Organizzazione del Trattato di Cooperazione Amazzonica. Sono il risultato di due anni di ricerche serie e scientifiche, più che preoccupanti. In conformità con il rapporto GEO Amazzonia, il cambiamento climatico minaccia in maniera seria la regione; l’allevamento, le nuove popolazioni, l’avanzamento della frontiera agricola accelerano la trasformazione dei suoli; i boschi si stanno riducendo del 17%, il disboscamento ha spianato più di 857 mila chilometri quadrati di alberi e la perdita di acqua mette in pericolo anche la vita umana. Secondo la relazione, sono diversi gli aspetti che minacciano la regione. Tra le altre cose, si includono come minacce gli insediamenti minerari non sostenibili ubicati nelle zone in cui nascono i corsi d'acqua del bacino, gli immensi campi coltivati per produrre biocombustibili, la contaminazione prodotta dalla produzione di pasta bianca di cocaina nelle zone di narcotraffico, i campi petroliferi e moltri altri disastri ambientali. Il rapporto riguarda le aree amazzoniche di Colombia, Bolivia, Brasile, Perù, Ecuador, Guyana, Venezuela e Suriname e dimostra che l’Amazzonia sta cambiando ad un ritmo accelerato. GEO Amazzonia propone svariate strategie per affrontare le sfide e si appella all’integrazione delle nazioni amazzoniche a condividere una visione integrata, a dare priorità alle misure ambientali, ai temi regionali – come la conservazione dei bacini - a disegnare strategie di gestione condivisa delle risorse e di uso sostenibile ed efficiente degli ecosistemi portatori di vita, e chiama, inoltre, ad irrobustire le istituzioni ambientali nonché l’educazione ambientale ed alla sostenibilità a tutti i livelli. L'unica via è quella dell'azione immediata. Amazzonia: deforestazione inarrestabile terranuova 12/04/2009

GEO Amazonia Il governo del Ghana ha firmato un accordo con una società britannica, la Helveta, per fermare l'esportazione di legname tagliato illegalmente, nella speranza di salvare le foreste del Paese dal disboscamento selvaggio. Presto, su tutti gli alberi del Ghana sarà applicato un codice a barre che consentirà di monitorare, attraverso un software specifico, eventuali esemplari mancanti. «Questo sistema permetterà non solo ai governi e alle aziende, ma anche alle Ong e alle Comunità locali, di controllare eventuali irregolarità», ha spiegato Fredua Agyeman, direttore tecnico per il settore delle foreste al ministero dell'Ambiente. Negli ultimi anni, il Ghana è stato uno tra i pochi Paesi africani a siglare un accordo con l'Unione Europea, tra i principali importatori di legname, che prevede l'istituzione di un sistema di licenze per garantire che siano rispettate le leggi in vigore nei Paesi produttori. In Ghana codici a barre sugli alberi per fermare la deforestazione 29 luglio 2009 British company barcodes trees to protect forests 10 luglio 2009 “Billion Tree Campaign”, un’iniziativa dell’UNEP, punta a piantare quanti più alberi possibile per combattere il riscaldamento globale. Al momento sono stati “messi a dimora” più di 3 miliardi di alberi in 166 Paesi, ma l’obiettivo è di raggiungere i 7 miliardi entro la fine del 2009. Molti degli iscritti al social network Twitters stanno utilizzando il loro account per seguire la campagna e la speranza è di raggiungere, solo con la collaborazione di questi utenti, i 100.000 alberi entro il 5 giugno. Il sottosegretario generale delle Nazioni Unite e direttore esecutivo dell’UNEP, Aichm Steiner, ha dichiarato: “Se vogliamo raggiungere il traguardo di 7 miliardi di alberi piantati prima del cruciale incontro delle Nazioni Unite a dicembre, l’UNEP ha bisogno dell’aiuto delle scuole, delle associazioni governative, del mondo del lavoro e di tutti i cittadini”. Ha inoltre aggiunto che se la metà della popolazione piantasse un albero, la campagna avrebbe sicuramente successo in un periodo inferiore rispetto ai 200 giorni che mancano alla Conferenza di Copenaghen. Anche l’Organizzazione Mondiale degli Scouts ha aderito al programma e svolgerà le attività in molti Paesi tra cui il Messico, l’India, il Sud Africa, la Georgia, la Malesia, il Libano, l’Ungheria, le Filippine, il Brasile e l’Austria, con la previsione di procedere alla piantumazione di circa 65.000 alberi. Luc Panissod, segretario generale dell’Organizzazione Mondiale Scouts ha dichiarato: “Il movimento scout richiama moltissimi giovani, scout e non, che collaboreranno con l’UNEP al WED (World Environment Day)”. Prenderà parte all’iniziativa anche il Dipartimento delle Nazioni Unite Peacekeeping, il cui sottosegretario generale, Alain Le Roy, ha dichiarato: “Invito tutti i membri dello staff a partecipare all’iniziativa”, con la precisazione che ci saranno benefici per la popolazione e per le generazioni future.

Il “Global day planting” è il primo di una lunga serie di eventi di massa facenti parte del “Seal the Deal”, slogan della campagna che porterà alla Conferenza di Copenaghen. L’UNEP ha inoltre incoraggiato la Cina a pubblicizzare l’evento sul social network Xiao Nei. UNEP: piantare 7 mld di alberi per combattere il global warming Gefis ecologia 13 maggio 2009 Tree Planting Campaign Hits Four Billion Mark 10 giugno 2009 United Nations Environment Programme (UNEP) – BillionTree Campaign Secondo Greenpeace, le emissioni di gas a effetto serra delle tre più grandi aziende energetiche cinesi nel 2008 sarebbero maggiori addirittura di quelle dell’intero stato britannico. Il motivo va ricercato in gran parte nella combustione degli impianti industriali, dove il carbone la fa da padrone: si tratta dunque di emissioni particolarmente nocive che in anni di sostenuta richiesta energetica hanno segnato pesantemente l’ “impronta ecologica” del gigante asiatico. Secondo il rapporto di Greenpeace, le tre principali industrie del Paese per produzione e generazione, China Huaneng Group, China Datang Corp e China Guodian Corp, producono almeno la metà delle emissioni a effetto serra del Paese, cioè 769 milioni di tonnellate. “Bruciando il 20% del carbone cinese nel 2008, le (10) aziende (energetiche) – dicono a Greenpeace – hanno emesso l’equivalente di 1 miliardo e 440 milioni di tonnellate di anidride carbonica”, dice il rapporto. Per contro, la stima provvisoria sulle emissioni totali nel 2008 del Regno Unito, che ha capacità generativa di circa un decimo rispetto alla Cina, è di 623,8 milioni di tonnellate. Tre industrie cinesi inquinano più della Gran Bretagna 29 luglio 2009 China's three biggest power firms emit more carbon than Britain, says report 28 luglio 2009 Ambiente e inquinamento sono per i cinesi i problemi più gravi: acqua, aria, cibi inquinati sono avvertiti come una grave minaccia dall'80% della popolazione. Verso il governo c'è fiducia, ma anche timore: in pochi sono pronti a presentare denunce contro le fonti inquinanti. I contadini dello Shandong coltivano e bevono acqua da un fiume che è divenuto nero come l'inchiostro; centinaia di migliaia di agricoltori usano acqua fetida per irrigare e bere; le economie di interi villaggi di contadini e pescatori sono oramai distrutte. Le autorità non sembrano preoccuparsi dell'inquinamento né di aiutarli, ma vogliono anzi aumentare lo sviluppo industriale. I pesci del Fiume Giallo si stanno estinguendo. È già sparito oltre un terzo delle specie, mentre il pescato è diminuito del 40%. Sono inquinate il 10% delle terre agricole e occorre

distruggere i raccolti. Per gli esperti il danno per inquinamento è pari alla crescita economica avvenuta in 30 anni e può strangolare lo sviluppo del Paese. Scarichi industriali - miliardi di tonnellate di rifiuti liquidi e solidi - e costruzioni sulle coste stanno causando la morte del mare mare Bohai. Le autorità spendono decine di miliardi per pulire il mare, ma poi programmano di coprire le coste con altre fabbriche e porti. Il mare è invaso da alghe. Al confronto, le mucillagini dell'Adriatico sono "plancton". È stata la peggior fioritura d'alghe, a memoria d'uomo, nel mare di Qingdao. Le alghe si riproducono a dismisura perché le attività umane scaricano in mare sostanze chimiche nutrienti. Il governo cinese promette acqua potabile per 32 milioni di contadini, ma sono oltre 320 milioni a non averla e 190 milioni a bere acqua tossica. Gli interventi di Pechino ostacolati dall'inquinamento industriale e dalla scarsa collaborazione dei governi locali sono più attenti alla crescita economica che all'ambiente. La Cina si appresta a divenire la nuova superpotenza del terzo millennio. Il suo mercato interno conta ben 1,3 miliardi di persone, il più grande mercato interno al mondo. Ogni crescita economica genera forti e rapidi cambiamenti nei consumi tipici. Questo implicherà che milioni di cinesi utilizzeranno sempre più l'automobile come mezzo di spostamento urbano e consumeranno prodotti di massa sempre meno riciclabili. La motorizzazione cresce a ritmo di mille auto in più al giorno nella sola Pechino. La Cina avrà 140 milioni di automobili entro il 2020, cioè 7 volte il numero attuale. Già oggi nelle megalopoli di Pechino, Shanghai, Chongqing, Canton e Shenzhen, il traffico urbano è al collasso; la motorizzazione privata è la prima causa delle nubi tossiche che avvolgono i centri abitati. L'inquinamento da traffico veicolare annullerà a breve tutti i benefici creati col controllo delle fonti di inquinamento industriale ed il ricorso alle fonti rinnovabili. La grande quantità di riserve di carbone in Cina spinge all'uso intensivo di questa risorsa come principale fonte del riscaldamento urbano rendendo l'aria delle città una delle principali cause delle patologie respiratorie. Secondo l'Agenzia mondiale dell'energia:il colosso asiatico consuma più carbone dell'Occidente. Il primato negativo verrà raggiunto con 10 anni di anticipo. La Cina supererà presto gli Stati Uniti ma avrà l'inquinamento record. Insieme al sorpasso economico si celebrerà anche il primato nelle emissioni di gas del carbonio che avvelenano l'aria del pianeta, provocano l'effetto serra e il surriscaldamento climatico. Lo haa preannunciato l'Agenzia Internazionale dell'Eergia (AIE) nel rapporto World Energy Outlook 2006. Una formidabile crescita economica porta con sé l'esplosione dei consumi energetici. La tendenza si accentuerà ancora, con il contributo dell'India, nel prossimo ventennio. Entro il 2030, i consumi globali di energia saranno aumentati del 53%, l'anidride carbonica del 55% raggiungendo i 40 miliardi di tonnellate dispersi nell'atmosfera terrestre. Il 70% di questo aumento sarà dovuto a Cina e India. L'AIE ha già previsto le conseguenze: 1 - gravi scarsità nei rifornimenti energetici; 2 - choc sui prezzi; 3 - incremento del cambiamento climatico globale.

L'emergenza smog in Asia è acuta da anni: secondo la Banca Mondiale 16 delle 20 città più inquinate del mondo sono in Cina. Il sudest asiatico dall'Indonesia alla Malesia, da Singapore alla Thailandia, viene ricorrentemente paralizzato dal flagello distruttivo delle nubi di fumo. Per l'anidride solforosa - la sostanza tossica più legata alle centrali termoelettriche a carbone - il sorpasso sull'America c'è già stato. Ogni anno la Cina rilascia nell'atmosfera 26 milioni di tonnellate di anidride solforosa, più del doppio degli USA. La Cina brucia più carbone di Stati Uniti, Europa e Giappone messi insieme. In media apre una nuova centrale termoelettrica ogni settimana. Consapevole del terribile impatto ambientale, il governo di Pechino ha avviato enormi investimenti nelle fonti che non provocano l'effetto serra: 40 centrali nucleari sono in costruzione in Cina, oltre a vasti cantieri per nuove centrali idroelettriche e allo sviluppo dell'energia solare ed eolica. Nonostante questo, le previsioni più ottimistiche indicano che per molti anni le fonti alternative non arriveranno a fornire più del 10% del loro fabbisogno energetico. Gli Stati Uniti si sono appellati allo smog prodotto in Cina per respingere il Trattato di Kyoto sulla limitazione delle emissioni carboniche: il fatto che la Cina non sia coinvolta nel Trattato, secondo l'Amministrazione americana è una ragione in più per non aderirvi. In realtà, la decisione originaria di esentare i paesi emergenti dalle regole di Kyoto ha una logica: la Cina è già ora la seconda economia del mondo, ma il reddito pro capite dei suoi abitanti compare solo al centesimo posto nella classifica delle nazioni, è un ventesimo del reddito medio dei cittadini americani; anche quando avrà superato il Pil degli Stati Uniti, la Cina continuerà ad essere una superpotenza "povera". I Cinesi individualmente consumano poca energia e poche risorse naturali rispetto a noi occidentali: 0,8 tonnellate di gas carbonici all'anno, contro una media di 2,5 tonnellate per un europeo e 5,5 tonnellate per un americano. È giusto che non si sottopongano alle stesse regole nazioni il cui livello di vita medio è ancora così inferiore al nostro. È altresì normale che non si può pretendere di frenare uno sviluppo economico che ha sottratto centinaia di milioni di persone alla miseria. Tuttavia, pur con i consumi individuali molto più bassi dei nostri, la Cina sta distruggendo gli equilibri ambientali per effetto della grande massa demografica: 1,3 miliardi di cinesi con tassi di crescita del Pil del 10%. La forza dello sviluppo cinese è in un altro dato: l'esodo migratorio dalle campagne verso le città ha raggiunto ufficialmente i 13 milioni all'anno. Ogni contadino cinese che lascia un'agricoltura povera per andare a lavorare nelle fabbriche vede aumentare del 700% il suo personale contributo al Pil nazionale. Insieme con questo balzo di produttività arrivano salari più alti e consumi di tipo urbano molto più energivori e inquinanti. Per procurarsi le fonti energetiche, la Repubblica Popolare corteggia l'Africa come fornitrice di petrolio e gas, legname e metalli. Gli aiuti cinesi a tre paesi africani (Nigeria, Angola e Mozambico) hanno raggiunto 8 miliardi di dollari, il quadruplo dei fondi che la Banca Mondiale eroga a tutta l'Africa subsahariana. Come in Africa, in America latina, in Medio oriente e in Asia centrale, la diplomazia cinese accerchia gli interessi occidentali, sostituisce la sua influenza a quella declinante dell'America e dell'Europa, per conquistarsi garanzie di accesso alle risorse naturali del pianeta.

Secondo il governo cinese, dunque, sono i Paesi consumatori a doversi far carico delle sue emissioni, poiché, in fondo, la Cina produce e inquina soprattutto per esportare.In effetti, è stato calcolato che un terzo delle emissioni cinesi di gas serra siano legate alla produzione di beni ed oggetti destinati all’Occidente. L’Occidente non ha solo delocalizzato la produzione in luoghi dove la manodopera costa poco. Ha anche delocalizzato le sue emissioni, osserva la Cina. Questa presa di posizione del governo cinese è emersa durante i colloqui preparatori della conferenza di Copenhagen, prevista per il prossimo dicembre.L’Unione Europea risponde che ogni Paese dev’essere pienamente responsabile delle emissioni provenienti dal suo territorio. Dal convegno "Assistenza e cooperazione ai PVS (Paesi in via di sviluppo) nella lotta all'inquinamento atmosferico", promosso dall'Istituto sull'Inquinamento Atmosferico del Consiglio Nazionale delle Ricerche (IIA-CNR) e dal Ministero dell'Ambiente, sono emersi i seguenti dati sulla qualità dell'aria nelle città cinesi così spiegati da Ivo Allegrini, direttore dell'IIA-CNR di Monterotondo: 1 - le concentrazioni di particolato (Tsp e Pm10), ossidi di azoto e zolfo sono, per la maggior parte dell'anno ed in molte città, più alti degli standard relativi; 2 - principalmente, questo inquinamento è antecedente alla rapida motorizzazione degli ultimi 15 anni e riconducibile alla combustione del carbone, la principale fonte di energia del Paese (circa il 74% nel 2006); 3 - le emissioni di anidride solforosa (SO2) hanno subito un incremento a partire dal 2002, come conseguenza del boom dell'industria edilizia, giungendo nel 2005 a oltre 20 milioni di tonnellate (12% in più rispetto al 1997); 4 - le grandi metropoli come Pechino, Shanghai e Canton, nell'ultima decade, hanno adottato una serie di misure per ridurre del 10% entro il 2010 le emissioni di SO2 ed il conseguente fenomeno delle piogge acide, che affligge oltre il 38% delle città; 5 - a Shanghai comunque le emissioni di particolato nel 2001 risultano dimezzate rispetto a dieci anni prima, grazie al miglioramento della qualità e del pre-trattamento del carbone, nonché agli sforzi tecnologici sulle sorgenti industriali (tra 1995 e 2001, 6.000 fornaci e impianti a carbone sono stati dotati di retrofit). Si è così assistito ad una riduzione generalizzata dell'inquinamento soprattutto nella parte orientale del Paese: le città con concentrazioni inferiori all'indice di inquinamento cinese “Grade II” sono aumentate dal 33,1% del 1999 al 51,9% del 2005, quelle con concentrazioni superiori al “Grade III” sono diminuite dal 40,5% al 10,6%. La brutta notizia è che, nonostante queste riduzioni, le concentrazioni di particolato atmosferico in molte città cinesi sono ancora spesso molto superiori ai limiti indicati nelle linee guida dell'Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2005, pari a 20 µg/m3 (media annuale). Jonathan Watts su The Guardian scrive che nel Gansu i contadini cinesi sono diventati degli “eco-profughi”. Secondo il Governo, più di 150 milioni di persone dovranno essere spostate. In pratica, i contadini non hanno più acqua per irrigare i campi e sembra che la causa sia dovuta ai cambiamenti climatici. Il problema è più grave nel nord-ovest, dove le sabbie del deserto hanno inghiottito terreni agricoli, case e città. Mingqin, la città in cui è stato girato il video che vi propongo su, è stata definita “zona di disastro ecologico”.

Il tasso di evaporazione è in aumento,così come le temperature e secondo uno studio condotto dal Centro di ricerca di acqua per l’agricoltura in Cina, il 64% della riduzione del flusso di acqua nella zona è attribuibile alla variazione del clima. Il Governo paga gli agricoltori per cessare la produzione e li trasferisce fuori delle zone più colpite e sebbene abbiano una nuova terra, il deserto continua la sua avanzata tanto che i campi sono delimitati dalle dune di sabbia e i contadini iniziano ad indossare maschere per proteggersi dalla polvere. Cina, i contadini diventano eco-rifugiati ecoblog 21 maggio 2009 Farmers end up as eco-refugees in a government relocation plan aimed at giving them a better life The Guardian 18 maggio 2009 Cina superpotenza dell'inquinamento 22 luglio 2009 Shandong farmers use water for drinking and irrigation from a river as black as ink 17 gennaio 2007 A Third of Fish Species in China River Extinct, Officials Say 19 gennaio 2007 Pollution Turns China's Bohai into Dead Sea, Experts Warn 26 luglio 2006 LOTTA ALL’INQUINAMENTO IN CINA TRA LUCI E OMBRE UN CONVEGNO SULLA QUALITÀ DELL’ARIA NEI PAESI IN VIA DI SVILUPPO 08 novembre 2007 Storie dall'impero di Cindia Repubblica 11 maggio 2006 Negoziati sul clima, la Cina vuole addebitare le sue emissioni ai Paesi consumatori, blogeko 18 marzo 2009 Cambiamento climatico: a Copenhagen si infiamma il dibattito”, Agenzia Radicale, 17 marzo 2009 Consuming nations should pay for carbon dioxide emissions, not manufacturing countries, says China 17 marzo 2009 Confermato, la Cina è il maggiore inquinatore 17 aprile 2008 Inquinamento in Cina, un terzo deriva da prodotti destinati all’esportazione 06 agosto 2008 Cina, esodo dalle campagne World Energy Outlook 2006 La Pianura Padana è la maggiore fonte europea di emissione di ammoniaca nell’atmosfera. Una fonte finora sottostimata. L’ammoniaca contribuisce ad una serie di problemi ambientali quali acidificazione del suolo, riduzione della biodiversità e formazione del particolato atmosferico, che sono state

associate a problemi per la salute umana. E forse la sua azione nell’atmosfera influenza anche il clima. Da dove viene l’ammoniaca padana e come ha fatto l’ESA a rilevarla? Le emissioni di ammoniaca provengono da zone particolarmente sfruttate per l’agricoltura e la zootecnia, o da quelle colpite da vasti incendi boschivi. Oltre ad essere legata all’acidificazione del suolo e alla formazione del particolato, nell’atmosfera l’ammoniaca si combina con inquinanti acidi come l’acido nitrico e l’acido solforico, producendo un aerosol che si ritiene possa influenzare il clima. L’ESA per la prima volta ha misurato dallo spazio per tutto il 2008 le emissioni di ammoniaca in tutto il pianeta. La Pianura Padana è risultata essere uno dei pochi luoghi in cui le emissioni di ammoniaca erano in realtà sottostimate. Grazie ai dati raccolti dal satellite, le emissioni di ammoniaca si sono rivelate sottostimate anche nella valle di Fergana, in Uzbekistan, e nella valle dello Snake River, negli Stati Uniti: altri luoghi di agricoltura e zootecnia intensiva. La Pianura Padana è la maggior fonte europea di emissione di ammoniaca nell’atmosfera 15 luglio 2009 Satellite sensor maps global atmospheric ammonia emissions 07 luglio 2009 L’influenza che hanno terra e oceani sull’aumento delle emissioni di carbonio si sta gradualmente indebolendo. Lo ha annunciato un gruppo di illustri scienziati alla Copenhagen Climate Change Conference. "Foreste, praterie e oceani stanno assorbendo carbon diossido (CO2) dall’atmosfera più velocemente che mai ma non tengono il passo del rapido aumentare delle emissioni”, ha detto Mike Raupach, scienziato del CSIRO e del Global Carbon Project. Il Dr Raupach e lo scienziato svizzero Dr Nicolas Gruber, hanno condotto una delle 43 sessioni della conferenza intitolata “Climate Change, Vulnerability of Carbon Sinks”. Il Dr Raupach ha manifestato le sue preoccupazioni inerenti la vulnerabilità dei processi naturali di assorbimento della CO2 invitando ad identificare quei meccanismi che stanno indebolendo questi processi e che potrebbero addirittura invertirli, il ché potrebbe significare “conseguenze drastiche per la velocità con cui si verificano i cambiamenti climatici”. Tra le possibili cause indicate dalla conferenza vi sono: - cambiamenti della composizione atmosferica, della temperatura e delle precipitazioni, la deforestazione, la frequenza degli incendi, l’attacco di insetti; - il rilascio di carbonio da terreni congelati che si sciolgono, sia di CO2 che di metano; - cambiamenti della produzione agricola su larga scala di cibo e fibre che possono provocare un’accelerazione del dissodamento dei terreni e della deforestazione tropicale (un processo che attualmente contribuisce al 15-20% delle emissioni di carbonio legate all’attività umana).

Carbon Sinks Losing The Battle With Rising Emissions Terradaily 14 marzo 2009 CSIRO Marine and Atmospheric Research Copenhagen Climate Change Conference Climate Science News - Modeling, Mitigation Adaptation GCP : Global Carbon Project Carbon sink - Wikipedia Gli scienziati del Global Atmosphere Watch mettono in guardia: sono in rapida crescita nelle grandi città dell’Asia e del Sud America gli inquinanti atmosferici potenzialmente letali. È allarme mortalità per i grandi centri urbani dei paesi in via di sviluppo; mentre l’Europa, negli ultimi 20 anni, è riuscita a ridurre drasticamente alcuni – ma non tutti – dei più nocivi inquinanti, le nazioni emergenti con la loro rapida crescita economica, stanno sperimentando la tendenza opposta. L’annuncio arriva dalla Giornata Mondiale della Meteorologia, che ogni anno il 23 marzo celebra la Convenzione che istituì nel 1950 l’Organizzazione Meteorologica Mondiale (WMO), agenzia specializzata delle Nazioni Unite. E “Il tempo, il clima e l’aria che respiriamo” è proprio il motto dell’edizione 2009, messo in evidenza attraverso una serie di iniziative al fine di ricordare l’importanza delle scienze atmosferiche nella vita sociale ed economica del pianeta. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, circa due milioni di persone muoiono prematuramente ogni anno a causa dell’inquinamento atmosferico, mentre molte altre risultano affette da disturbi respiratori, malattie cardiache, infezioni polmonari. Le particelle sottili o le microscopiche polveri provenienti dalla combustione del carbone e da motori diesel senza filtro sono classificati come una delle più nocive forme d’inquinamento causato da industria, trasporti o riscaldamento domestico. A preoccupare è soprattutto il particolato: “In Asia, molte città come Karachi, New Delhi, Kathmandu, Dacca, Shanghai, Pechino e Mumbai hanno superato tutti i limiti”, spiega Liisa Jalkanen, ricercatrice al WMO. La stessa cosa vale per i grandi centri urbani nel Sud America, quali Lima, Santiago del Cile, Bogotà o il Cairo in Africa. Len Barrie, direttore della sezione ricerca del WMO, ha affermato che le restrizioni predisposte in Europa, in seguito alla preoccupazione suscitata delle piogge acide del 1980, sono riuscite a tagliare le concentrazioni di un altro importante inquinante, il diossido di zolfo (SOx). “In altre aree dove la crescita economica ha fatto un balzo in avanti, come Asia, Cina e India è vero esattamente l’opposto”. Anche nel Nord America i livelli sono da tenere ampiamente sotto controllo. Rapporto 2009 sullo stato della Terra Pianeta Verde 24 marzo 2009 Inquinamento mortale: è boom nei paesi in via di sviluppo Gefis 24 marzo 2009

Lethal air pollution booms in emerging nations terradaily 22 marzo 2009 Top Polluted U.S. Cities With the Worst Air ABC News 29 aprile 2009 Global Atmosphere Watch - Wikipedia Secondo uno studio di un gruppo di ricercatori dell'Università di Milano, guidati da Andrea Baccarelli, respirare alcune sostanze inquinanti può danneggiare il DNA in soli tre giorni: alcuni geni vengono letteralmente riprogrammati dallo smog, influendo sullo sviluppo di malattie come il tumore del polmone. Il gruppo di ricerca h presentato i risultati delle analisi su 63 lavoratori di una fonderia in occasione della 105esima conferenza internazionale dell'America Thoracic Society di San Diego (USA). "Recentemente - ha affermato Baccarelli - sono stati rilevati nel sangue e nei tessuti di pazienti con cancro del polmone modifiche anomale nella metilazione del DNA. Abbiamo voluto studiare questi cambiamenti prendendo come esempio individui sani, esposti ad alti livelli di inquinamento in un'industria". Esaminando campioni ematici prelevati all'inizio di una settimana lavorativa, quindi il lunedì, e confrontandoli con quelli del giovedì, gli studiosi hanno rilevato cambiamenti consistenti a livello di quattro geni associati alla soppressione tumorale. "Le modifiche sottolinea l'esperto - sono dunque visibili dopo soli tre giorni di esposizione a grandi quantità di sostanze inquinanti, simili a quelli che si trovano nell'aria delle grandi città". Allarme inquinamento, uno studio rivela: lo smog può danneggiare il Dna in soli tre giorni 19 maggio 2009 Pollution Can Change Your DNA in 3 Days, Study Suggests National Geographic News 17 maggio 2009 In generale, le emissioni globali crescono di un milione di tonnellate al giorno. Rispetto al 1990 sono aumentate del 27%. Sono i dati del rapporto presentato all'assemblea dell’Unione Interparlamentare (IPU) svoltasi ad Addis Abeba. Il documento, che cita dati e proiezioni dell’International Energy Agency (IEA), evidenzia come le emissioni di CO2 legate al consumo di energia nei Paesi industrializzati dell’OCSE stiano crescendo del 25,3% nel periodo 1990 - 2010/2012, con un aumento del 9,1% per l’Unione Europea. Durante lo stesso periodo, le emissioni dei Paesi in via di sviluppo e dei Paesi emergenti sono più che raddoppiate (+103,4%), anche se in questi Paesi le emissioni procapite restano molto più basse di quelle dei Paesi industrializzati. Se la tendenza non si arresta, entro il 2030 le emissioni globali di C02 aumenteranno del 90%, passando da 20 a 38 miliardi di tonnellate. Per il 2050 è prevista una crescita fino a 58 miliardi di tonnellate di CO2. Con il sistema attuale di protezione del clima previsto dal Protocollo di Kyoto, dice il rapporto, una modifica di questa tendenza è quasi impossibile. Secondo gli autori occorre quindi rafforzare gli sforzi in favore di un accordo “Kyoto Plus”, che si applicherà quando il Protocollo di Kyoto arriverà a scadenza nel 2012.

Il rapporto sostiene anche che le energie rinnovabili (eolico, biomasse e biogas, fotovoltaico, idroelettrico, geotermia), che contribuiscono a ridurre le emissioni di gas serra, devono diventare in tutto il mondo un pilastro dell’approvvigionamento energetico. Secondo il rapporto, la principale soluzione a breve termine verrebbe dai biocarburanti, in grado di garantire sicurezza energetica e di offrire insieme altri vantaggi, come la diversificazione energetica, lo sviluppo dell’agro-industria, la creazione di posti di lavoro e di entrate economiche, il recupero di aree degradate, la riduzione delle emissioni di CO2 e la diminuzione del loro impatto sul cambiamento climatico. Alle perplessità di chi sostiene l’insostenibilità di utilizzare il cibo per farne carburanti, il rapporto risponde distinguendo fra i vari tipi di produzione agricola: «L´etanolo prodotto grazie alla canna da zucchero è sostenibile, perché la sua produzione necessità di quantità di combustibili fossili inferiori a quelle dell’etanolo prodotto a partire dal mais. Inoltre, la produzione di etanolo a partire dal maïs crea una concorrenza diretta tra l ´utilizzo del mais per l’alimentazione e il suo utilizzo per la produzione di carburanti, il che ha come conseguenza di far salire i prezzi del mais nei Paesi dove questo cereale costituisce un alimento base». Un milione di tonnellate al giorno terranuova 14/04/2009 INTER-PARLIAMENTARY UNION ENVIRONMENTAL POLICY 10 aprile 2009 Secondo uno studio internazionale pubblicato su Nature, il mondo ha già prodotto un terzo della CO2 che si è impegnato a emettere dal 2000 al 2050. Al ritmo annuale di crescita delle emissioni, il 3% l’anno, i paesi avranno superato il limite totale di 1.000 miliardi di tonnellate entro vent’anni, con vent’anni di anticipo sugli obiettivi fissati dagli impegni internazionali. «Se continuiamo a bruciare carburanti fossili come ora avremo esaurito il budget di carbonio nel giro di 20 anni e il riscaldamento globale salirà decisamente oltre un grado», dice Malte Meinhausen del Potsdam Institute for Climate Impact Research in Germania, che ha guidato il gruppo di scienziati che ha elaborato lo studio, «occorre cominciare presto a ridurre in misura sostanziale le emissioni di CO2, prima del 2020. Se aspettiamo più a lungo il ridimensionamento della CO2 richiederà tremendi costi economici e sfide tecnologiche». Clima, preoccupante il continuo aumento delle emissioni di CO2 La Stampa 30 aprile 2009 Greenhouse-gas emission targets for limiting global warming to 2 °C Nature 30 aprile 2009 ‘Save the trillionth tonne’: Scientists present new challenges for climate change policy 30 aprile 2009 Global warming, alla ricerca delle soglie critiche Gefis Ecologia 18 maggio 2009 2008 U.S. Fossil Fuel CO2 Emissions See Biggest Drop in Nearly 30 Years Climatebiz 20 maggio 2009

California, prima legge contro le emissioni Gefisecologia 29 aprile 2009 Il bilancio energetico globale non lascia speranze: per alimentare l’economia mondiale fino al 2050, mantenendo i parametri attuali, con i combustibili fossili che coprono l’80,9% dell’energia primaria, servono 856 mila miliardi di tonnellate equivalenti di petrolio. Ma, tra carbone, petrolio, gas naturale e uranio, il mondo ne ha a disposizione 800 mila. Amara conclusione: se si continua con la crescita dei consumi degli ultimi 30 anni, prima del 2050 tutte le risorse energetiche non rinnovabili attualmente accertate saranno esaurite. Queste le disarmanti premesse del dossier «Cambiamenti climatici, ambiente ed energia: linee guida per una strategia nazionale di mitigazione e adattamento», presentato dal comitato scientifico del WWF Italia. Un’analisi globale che rappresenta un punto partenza per fare riflettere sull’estrema vulnerabilità del caso Italia e sulla necessità di costruire una efficace strategia energetica nazionale. «Nell’anno in cui il mondo si appresta ad approvare un nuovo patto globale per il clima, è più che mai urgente che il governo doti il Paese di un Piano nazionale per l’energia e di un altro per l’adattamento ai cambiamenti climatici che sono già in atto», ha dichiarato Gianfranco Bologna, direttore scientifico del WWF Italia. L’Italia basa le proprie forniture di energia quasi esclusivamente su fonti fossili, hanno ricordato gli esperti del WWF. Proseguendo su questa strada, i consumi energetici cresceranno e, tranne che per una modesta quota di rinnovabili, continueranno a basarsi su fonti importate che, per il progressivo esaurimento e il costante aumento della domanda, saranno sempre più costose. «Al contrario, siamo particolarmente avvantaggiati quanto a fonti rinnovabili, che sono invece sempre più economiche: abbiamo un buon potenziale idroelettrico, foreste e produttività agricola che garantirebbero biomasse di scarto, e siamo tra i Paesi europei più soleggiati». Di qui la ricetta del WWF da attuare entro il 2030: - 50% dei consumi e -50% delle fonti fossili. In compenso, triplicare le fonti rinnovabili, con investimenti iniziali ampiamente ricompensati dalla convenienza a medio termine, per uno scenario complessivo in cui il fabbisogno energetico nazionale sia assicurato per metà da fonti rinnovabili e per l’altra metà dai combustibili fossili. Scenario definito dagli esperti del WWF, «un vero e proprio tricolore energetico: rosso per le fonti convenzionali, verde per le rinnovabili e bianco per l’efficienza da sviluppare». Particolarmente rischiosa, anche sul piano economico, viene giudicata dal WWF la scelta di un ritorno all’energia nucleare, «fonte che, se si comprendessero anche i futuri costi di smantellamento delle centrali e di gestione finale delle scorie, nonché gli elevati investimenti pubblici già ricevuti (per la ricerca, la gestione della sicurezza esterna e lo sviluppo di infrastrutture), sarebbe già oggi non competitiva. Gli analisti internazionali, per esempio Moody’s, prevedono, infatti, che il costo del kWh prodotto sia destinato a raddoppiare entro il 2022, data in cui dovrebbero entrare in funzione le prime centrali italiane ipotizzate dal governo». Sul fronte del cambiamento climatico, gli esperti del WWF hanno ricordato che il 90% dei disastri naturali in Europa dal 1980 sono attribuibili a eventi metereologici o climatici, i cui costi di riparazione hanno raggiunto circa 15 miliardi di euro l’anno. Mentre la Commissione Europea ha ormai definito un libro bianco per le strategie di adattamento, in

Italia il tema è ancora agli albori, lamentano gli esperti del WWF, i quali chiedono al governo di attuare con urgenza il monitoraggio degli ambienti più delicati: foreste, sistemi agricoli, ecosistemi marini e di acqua dolce; e di avviare le opere di ripristino del territorio per renderlo meno vulnerabile ai cambiamenti climatici. «Purtroppo oggi si continuano a proporre infrastrutture considerando poco i conseguenti effetti negativi sui sistemi naturali». 2050: bancarotta energetica Gefisecologia 16 marzo 2009 A gettare dubbi (ulteriori) sulla sostenibilità dei biocarburanti ci ha pensato uno studio dell’Università del Minnesota che ha calcolato, usando modelli elaborati dall’EPA americana, i costi sanitari associati all’uso di diversi carburanti. I ricercatori hanno considerato le emissioni di particolato fine e l’uso di fertilizzanti e pesticidi nell’intero ciclo di vita dei diversi carburanti e calcolato poi i costi per la collettività dei problemi di salute correlati: dai disturbi cardiaci a quelli respiratori. I risultati mostrano che se la benzina implica costi sanitari per 71 centesimi di dollaro per gallone (0,14 euro al litro), i danni alla salute per produrre la stessa quantità di etanolo da mais variano, a seconda dei metodi usati, da 0,72 a 1,45 dollari al gallone. Meglio allora i biocarburanti basati sulla cellulosa, ottenuti da piante non combustibili o da scarti di legno e ancora in fase di sviluppo: da 19 a 32 centesimi a gallone a seconda della tecnologia e del tipo di materia prima da cui si parte. La questione della sostenibilità dei biocarburanti negli ultimi due anni è stata ampiamente dibattuta. L’impatto negativo sui prezzi dei generi alimentari e sulla fame nel mondo era stato denunciato da rapporti autorevoli come quelli della Banca Mondiale e della FAO. Anche la validità di questa fonte energetica nel ridurre effettivamente le emissioni era stata contestata da diversi studi. L’impatto sulla salute umana però non era ancora stato calcolato e pare che anche qui il bilancio degli agro-carburanti tradizionali sia negativo. Una notizia che giunge proprio quando l’amministrazione Obama annuncia di voler aumentare la percentuale di etanolo nella benzina americana, portandola dal 10 al 1213%. Proprio l’appoggio di Obama all’industria dei biocarburanti – molto forte nell’Illinois, Stato di elezione dell’ex-senatore democratico - è oggetto di critica da parte degli ambientalisti americani. I biocarburanti dannosi per la salute terranuova 12 marzo 2009 Biofuels more harmful to humans than petrol and diesel, warn scientists 02 febbraio 2009 Un video a cartoni animati ”anticapitalista” è diventato un successo tra gli insegnanti statunitensi, che lo proiettano per spiegare ai loro studenti i danni causati dal consumismo, scatenando però forti lamentele tra i genitori. ”La Storia delle Cose” (“The Story of Stuff”), questo il titolo del breve filmato realizzato dall’ex attivista di Greenpeace Annie Leonard, era stato postato un anno fa su Youtube, dove un gruppo di professori l’ha notato e ha cominciato a farlo circolare. Gli insegnanti erano alla ricerca di un mezzo efficace per spiegare agli studenti le conseguenze

dell’inquinamento e del riscaldamento globale, argomenti trattati marginalmente sui libri di testo. I ragazzi hanno dimostrato di apprezzare il video, ma alcuni genitori, dopo averlo visto online, si sono lamentati con le autorità scolastiche. ”Non c’è un solo elemento positivo sul capitalismo; è ben fatto ma non è imparziale”, ha spiegato Mark Zuber, padre di una bambina che frequenta la Big Sky High School di Missoula, nel Montana. Gli insegnanti difendono la loro scelta, perché ”La Storia delle Cose” riuscirebbe a spiegare ai ragazzi come i loro comportamenti sono collegati allo sfruttamento dell’ambiente. Anche se per farlo raffigura gli imprenditori in forma di grossi sacchi di dollari con un cappello a tuba. Il filmato illustra come il consumismo e il postulato della crescita infinita ci conducono contro un muro. È stato visto on line milioni di volte. Da quel che scrive il New York Times, nessuno dei genitori insorti contro “La Storia delle Cose” è riuscito a contestare i fatti illustrati dal filmato. “La Storia delle Cose” spiega che l’abitudine a consumare distrugge montagne e foreste, inquina le acque avvelenando persone e animali, riempie il mondo di rifiuti. E che le risorse offerteci dalla Terra non sono tali da consentirci di continuare così all’infinito. La storia delle cose pianetaverde 12 maggio 2009 Polemiche per il successo nelle scuole Usa del video “La storia delle cose” contro il consumismo blogeko 12 maggio 2009 A Cautionary Video About America’s ‘Stuff’ 10 maggio 2009 The Story of Stuff LA VERITA’ DEL GHIACCIO Il Petermann, il più grande ghiacciaio della Groenlandia, sta scomparendo a causa dell’aumento del riscaldamento globale. È Greenpeace ad aver dato l’allarme inviando da diversi mesi una nave ad analizzare le conseguenze del cambiamento climatico sull’Artico. Grande quanto Manhattan, il Petermann è la dimostrazione che l’odierno ritmo di scioglimento dei ghiacciai artici è davvero senza precedenti. Ma il fenomeno è diffuso in tutto il pianeta e riguarda anche i ghiacci dei picchi montuosi. Di esempi ne abbiamo avuti diversi. Uno dei più clamorosi è quello della Cordigliera Bianca dove il più importante ghiacciaio delle Ande peruviane (400 km a nord di Lima), in quasi quarant’anni è arretrato del 27%. Secondo quanto testimonia uno studio dell’ “Autorità Nazionale dell’Acqua” (ANA), va registrata anche la progressiva accelerazione del processo di scioglimento nella Cordigliera. In Italia, qualche tempo fa, un team di ricercatori dell’Università di Milano, guidati dal professor Claudio Smiraglia, per proteggere il ghiacciaio delle vette del Dosdè Orientale in Valtellina, ha dovuto adottare la “protezione attiva” del ghiacciaio, stendendo una sorta di telo di 100 m2 protettivo, geotessile, chiamato “Ice Protector 500”.

E come quelli della Valtellina, anche gli altri ghiacciai delle Alpi corrono il rischio di dimezzarsi entro i prossimi dieci anni, proprio a causa del riscaldamento globale, con una conseguente alterazione della fauna e della flora e un disequilibrio ambientale irreversibile. Secondo uno studio condotto da scienziati francesi, pubblicato sul Journal of Geophysical Research, il ghiacciaio Cook di Kerguelen - un'isola a sud dei territori francesi nell'Oceano Indiano allarme - uno dei più grandi ghiacciai del Sud del mondo, si sarebbe ridotto di un quinto in soli 40 anni. Si tratta del. Il ghiacciaio nel 1963 misurava 501 kmq. Combinando le immagini satellitari con altri dati, gli scienziati del Laboratorio per lo studio di Geofisica, Oceanografia e Spazio di Parigi, hanno stimato che il ghiacciaio ha perso una media di quasi 1,5 metri di altezza ogni anno e dal 2003 il 22% circa del suo volume originale. Lo scioglimento potrebbe essere attribuito in parte ai residui dell'effetto di surriscaldamento globale che si sono verificati dopo la ''piccola'' era glaciale, conclusasi nel tardo Diciannovesimo secolo. Ma dopo il 1991 il riscaldamento globale è legato anche all'innalzamento della temperatura che ha iniziato a verificarsi nei primi anni Ottanta. Da altri studi effettuati in Patagonia, Georgia del Sud e Isole Heard, si evince che l'innalzamento delle temperature sta accelerando fortemente lo scioglimento dei ghiacciai in Antartide. Surriscaldamento Globale Scioglie Ghiacciaio In Antartide 22 luglio 2009 Massive glacier in sub-Antarctic island shrinks by a fifth terradaily 22 luglio 2009 Video. Il più grande ghiacciaio della Groenlandia sta andando in pezzi 16 luglio 2009 Artic Sunrise, la nave rompighiaccio di Greenpeace Arctic glacier to lose Manhattan-sized 'tongue' New Scientist 14 luglio 2009 Artico, la banchisa sparisce alla velocità del 2007, l’anno dello scioglimento record Blogeko Urgent action needed as Arctic ice melts Greenpeace 15 luglio 2009 Grave allarme per i ghiacciai e non solo al Polo 22 luglio 2009 LA SESTA ESTINZIONE L'orso polare, i pinguini, l'elefante africano, le tartarughe marine, le tigri delle paludi del Sunderbans, balene e i delfini, oranghi, albatros, canguri e barriere coralline: sono a rischio 10 grandi specie simbolo della biodiversità: Lo ha reso noto il WWF che ha commissionato uno studio degli impatti possibili che i cambiamenti climatici avranno sulle specie più conosciute al mondo, attingendo dalle ultime pubblicazioni scientifiche. I risultati, rileva il WWF, "sono sconvolgenti": il 90% dei coralli della Grande Barriera Corallina potrebbe scomparire entro il 2050; lo stesso vale

per il 75% dei pinguini di Adelia dell'Antartico; gli orsi polari potrebbero essere spazzati via del tutto entro la fine di questo secolo. "Se non interveniamo subito - afferma il WWF - le temperature globali supereranno la soglia pericolosa dei 2 gradi in più rispetto alle temperature dell'epoca preindustriale, e molte specie, compreso l'uomo, saranno minacciate". In particolare, con un aumento di 2 gradi, il 50% dei pinguini imperatore e il 75% di quelli di Adelia S è destinato a diminuire o scomparire. Intanto, si riducono gli spazi vitali delle mangrovie dove vivono le tigri delle paludi delle Sunderbans, già ridotte negli ultimi 100 anni a solo 4.000 esemplari. "Sarebbe un mondo triste e più povero senza gli equilibri dinamici essenziali che garantiscono anche la vita umana", ha dichiarato Fulco Pratesi, Presidente onorario del WWF Italia. Le specie a rischio: forse non c'è più tempo terranuova 24/03/2009 Il 32% della popolazione anfibia è estinta o a rischio di estinzione, mentre il 42% è in declino. Si è celebrato il “Save the Frogs Day” proprio per sensibilizzare sui rischi che corrono questi animali e i loro ecosistemi. Gli anfibi sono la classe di vertebrati a maggior rischio di estinzione (secondo un'indagine dell'Unione Internazionale per la Conservazione della Natura). In particolare, il 30% delle specie conosciute ricade nelle tre categorie che designano il maggior grado di minaccia: "minacciato criticamente", "minacciato" o "vulnerabile". Negli ultimi mesi in Italia è stato attivato un progetto del WWF in collaborazione con l'università Roma Tre per lo studio e il monitoraggio delle popolazioni di anfibi nelle Oasi dell'associazione, rivelando la presenza di 22 specie nelle 40 Oasi analizzate. In Italia, restringendo l'analisi alle specie autoctone per cui si dispone di sufficienti dati (28 specie sulle 39 totali), il 43% delle specie ricade in una delle tre categorie di minaccia. Tra le molte cause di estinzione, la scarsità e l' inquinamento delle acque, il degrado e la scomparsa degli habitat (come il prosciugamento delle pozze d'acqua per la riproduzione) a seguito dell' urbanizzazione e dell'agricoltura intensiva, l'introduzione di specie aliene, il collezionismo e il riscaldamento globale. Salva la rana La Nuova Ecologia 28 aprile 2009 Save the frogs day Gli inglesi ne fanno una questione di identità: le farfalle nei loro campi fioriti ci sono sempre state e non vedere più alcune delle loro specie più amate svolazzare copiose tra un fiore e l'altro fa male come una ferita che sanguina. L'estate del 2009 sarà un banco di prova per capire se sarà confermato il trend di rapido declino, registrato dagli studiosi soprattutto negli ultimi due anni, o se vi sarà una sperata quanto improbabile inversione di tendenza. Il 2008, secondo quanto si legge in nell'ultimo Uk Butterfly Monitoring Scheme, è stato in assoluto l'anno l'anno più negativo della storia degli ultimi trent'anni. E almeno 12 specie hanno registrato drastici cali di popolazione al punto da arrivare vicine al rischio di estinzione.

«Le farfalle sono un importante indicatore, capace di metterci in allerta sui disequilibri dell'ambiente - avverte dal proprio sito Internet la Butterfly Conservation, un'associazione fondata nel 1968 da un gruppo di naturalisti proprio come risposta ai primi allarmi sulla riduzione del numero di insetti - se il numero di farfalle è in calo, inevitabilmente anche la fauna e l'ecosistema risultano in declino». Dal 1998, il presidente della Butterfly Conservation è sir David Attenborough, per anni volto televisivo della BBC, noto anche in Italia per una serie di documentari sulla natura rilanciati da diverse trasmissioni a carattere scientifico e naturalistico, come Quark di Piero Angela. Il Guardian ha dedicato ben quattro pagine all'argomento, oltre alla copertina nel proprio inserto G2 che, parafrasanto la canzone di Pete Seeger poi diventata uno dei simboli della protesta pacifista degli anni Sessanta si chiede: «Where have all our butterflies gone?», dove sono finite le nostre farfalle? L'Indipendent, altro autorevole quotidiano, ha invece deciso di lanciare la “Great British Butterfly Hunt”, la grande caccia alle farfalle britanniche. Si tratta ovviamente di una caccia solo documentaria, con i lettori sguinzagliati in ogni contea del regno unito con l'obiettivo di individuare e classificare tutte le 58 specie di farfalle - 56 indigene e due importate nel corso dei secoli - che vivono nell'isola e che sempre più sono a rischio di scomparsa. L'obiettivo è puntare i riflettori su un patrimonio naturale, ma anche sensibilizzare sempre più l'opinione pubblica verso le tematiche della conservazione dell'ambiente. Sempre meno farfalle, è allarme in Uk Gefisecologia 28 aprile 2009 Once there were swarms of butterflies in our skies The Guardian 27 aprile 2009 Join the Great British Butterfly Hunt 08 aprile 2009 The Great British Butterfly Hunt - Butterfly Conservation Da sempre i passeri convivono con l'uomo, negli insediamenti urbani come nelle zone a coltivazioni agricole, dove si sono adattati fino a divenire una specie nociva per l'agricoltura. Oggi però lo scenario è cambiato. Negli ultimi anni si è registrara una riduzione dei passeri sia nelle aree rurali che nelle città, tanto che specie come la Passera Europea e la Passera Mattugia sono attualmente classificate da BirdLife International come “Spec 3”, ossia specie in declino a livello europeo. Quali sono i motivi della crisi,e quali le soluzioni possibili per fronteggiare questo preoccupante fenomeno? Per rispondere a questi interrogativi la LIPU-BirdLife Italia, la Provincia di Pisa (Assessorato Difesa Fauna) e l'Università di Pisa (Centro Enrico Avanzi), hanno organizzano lo scorso marzo un convegno internazionale. Per tracciare il quadro della situazione passeri in Italia, la LIPU ha lanciato nel 2006 il ''Progetto SOS Passeri'', al quale ha aderito, per la parte relativa al monitoraggio, il CISO (Centro Italiano Studi Ornitologici). LA LIPU DENUNCIA, I PASSERI RISCHIANO ESTINZIONE 10 marzo 2009

Ad oggi i mammiferi più rari al mondo, i rinoceronti di Giava, una sessantina di esemplari in tutto, saranno videosorvegliati. Il WWF ha provveduto ad installare trentaquattro telecamere nel cuore dell'unica foresta indonesiana dove vivono. Le prime immagini mostrano questi grandi animali, che possono raggiungere i 2.300 kg di peso e i 3 metri di lunghezza, cacciare maiali selvatici e riposare nei laghetti. Lo scopo di questa iniziativa è quello di ''dimostrare l'urgenza di salvarli. Crediamo - dice il capo del progetto del WWF, Adhi Rachmat Hariyadi - che la sopravvivenza di questa specie dipenda da due o tre femmine''. WWF, TELECAMERE PER SALVARE RINOCERONTI DI GIAVA 06 marzo 2009 Cameras catch glimpse of world's rarest rhino: WWF 29 maggio 2008 L’elefante di Sumatra è una specie rara di elefante, che vive solo a Sumatra ed appartiene alla specie degli elefanti asiatici. La sopravvivenza degli elefanti di Sumatra è minacciata dall’uso di pesticidi: da maggio sono morti avvelenati 8 elefanti. L’ultimo elefante vittima dei pesticidi è un piccolo di due anni, secondo quanto riferisce Salvaleforeste, morto a causa dell’alta concentrazione di sostanze velenose finite nel latte materno, da cui il piccolo era ancora dipendente. Sull’isola di Sumatra, le piantagioni di palma da olio hanno preso il posto delle foreste, habitat degli elefanti di Sumatra, la cui popolazione è oggi ridotta a 2400 esemplari. Scacciati dalle loro foreste, gli elefanti cercano cibo nelle piantagioni, ingerendo enormi quantità di pesticidi usati per coltivare le palme. Se gli esemplari più grandi riescono a sopravvivere ai composti clorurati, non è lo stesso per i piccoli, che vengono uccisi dalle quantità di veleno che si concetrano nel latte. Rischio estinzione per gli elefanti di Sumatra ecoblog 27 luglio 2009 Destruction Of Sumatra Forests Driving Global Climate Change And Species Extinction ScienceDaily 29 febbraio 2008 L’inquinamento umano sta rendendo acide le acque degli Oceani così in fretta che nei prossimi decenni potremmo assistere nuovamente alle condizioni viste sulla Terra ai tempi dei dinosauri. La rapida acidificazione è provocata dalle eccessive emissioni di anidride carbonica sputate da ciminiere e tubi di scappamento che si dissolvono nell’Oceano. È l’allarme lanciato in uno studio da alcuni scienziati dell’Università di Bristol. Questo cambiamento «chimico» sta ponendo una pressione «senza precedenti» sulla vita marina, soprattutto su crostacei e aragoste e potrebbe causarne l’estinzione. Secondo lo studio, si prevedono «pericolosi» livelli di acidificazione degli oceani e gravi conseguenze per gli organismi chiamati «calcificatori marini», che formano le conchiglie calcaree. Gli studiosi paragonano l’attuale tasso di acidificazione ad un’enorme diffusione di gas serra avvenuta in era preistorica, che secondo i geologi causò una vasta estinzione di specie marine che vivevano a grandi profondità.

Inquinamento, oceani tropo "acidi" aragosta a rischio La Stampa 10 marzo 2009 Carbon emissions creating acidic oceans not seen since dinosaurs Guardian 10 marzo 2009 Il cambiamento climatico sta già avendo un impatto rilevabile in tutta Europa sugli uccelli. È il messaggio lanciato da un gruppo di scienziati che ha creato il primo indicatore degli impatti del cambiamento climatico sulle specie selvatiche su scala continentale. "Sentiamo parlare molto di cambiamenti climatici, ma la nostra carta mostra che gli effetti si sentono già adesso" ha detto Richard Gregory dalla Royal Society for the Protection of Birds (RSPB), coordinatore del gruppo di ricercatori Delle 122 specie comuni incluse nell'analisi, il 75% sono previste in calo in tutto il loro areale di distribuzione se continuano a comportarsi come previsto dai modelli. Il restante 25% è previsto in aumento. "I risultati mostrano che il numero di specie colpite supera quello delle specie che potrebbero trarre beneficio con un rapporto di tre a uno", ha commentato Gregory, "anche se abbiamo avuto solo un piccolo aumento effettivo della temperatura media globale, è sconcertante rendersi conto di quanto questo si rifletta sulle popolazioni di fauna selvatica. Se non togliamo il piede dal gas adesso, il nostro indicatore mostra che ci saranno effetti ancora piu’ negativi in futuro. Dobbiamo mantenere l’aumento globale della temperatura al di sotto del massimo di due gradi; qualsiasi livello al di sopra di questo creerà scompiglio a livello mondiale". Nella ricerca, pubblicata sulla rivista PLoS ONE, gli scienziati hanno dimostrato un forte legame tra il cambiamento della distribuzione delle popolazioni delle specie di uccelli più comuni e diffuse in Europa e il previsto cambiamento climatico. Mettendo insieme tutti i dati, il team ha compilato un indicatore che mostra come i cambiamenti climatici interessano la fauna selvatica in tutta Europa. Il nuovo indicatore è già stato incluso in una serie di indicatori di alto profilo utilizzati dalla Commissione Europea per valutare i progressi verso l'obiettivo di arrestare la perdita di biodiversità entro il 2010. L’indicatore unisce due diversi indirizzi di studio: da una parte, il “bioclimate envelope modelling”, dall’altra ,le tendenze osservate nelle popolazioni di uccelli europei derivanti dal “Pan-European Common Bird Monitoring Scheme”. Quando le variazioni di una popolazione di uccelli sono in linea con le previsioni, l’indicatore sale, altrimenti scende. Il Dr. Stephen Willis, dell’Università di Durham, ha dichiarato: "Il nostro indicatore della biodiversità è l'equivalente dellìindice FTSE (l’indice della borsa di Lodra), solo che anziché riassumere le alterne vicende delle imprese, riassume come la biodiversità sta cambiando a causa del mutaneto climatico. A differenza del FTSE, che è attualmente in una fase di forte ribasso, l'indice del cambiamento climatico è in aumento ogni anno a partire dalla metà degli anni Ottanta ". Sinora, l’evoluzione registrata nelle popolazioni è in linea con quanto previsto dall’indice, il ché significa declino per il 75% delle specie. I primi dieci risultati peggiori sono (in ordine): - Beccaccino (Gallinago gallinago); Pispola (Anthus pratensis); Peppola (Fringilla montifringilla); Cincia bigia alpestre (Parus montanus); Pavoncella (Vanellus vanellus); Usignolo Maggiore (Luscinia luscinia); Lui verde (Phylloscopus sibilatrix); Nocciolaia

(Nucifraga caryocatactes); Culbianco (Oenanthe oenanthe); Picchio rosso minore (Dendrocopos minor). "Questo è il primo indicatore forte sugli impatti del cambiamento climatico sulla biodiversità", ha affermato il dottor Stuart Butchart, Coordinatore della Ricerca di BirdLife. Journal Reference: "An indicator of the impact of climatic change on European bird populations" di Gregory R.D., Willis, S.G., Jiguet, F., Voríšek, P., Klvanová, A., van Strien, A., Huntley, B Collingham, Y.C., Couvet, D. & Green, R.E. (2009). PLoS ONE. Nel complesso, sono 1.227 le specie di uccelli inseriti nella nuova Lista Rossa 2009' pari al 12% del totale mondiale; 192 quelle a forte rischio di estinzione, due in più rispetto al 2008. Sono nove, invece, le specie che entrano a far parte della categoria ''minacciate criticamente”. È il caso di un colibri' recentemente scoperto in Colombia (Eriocnemis Isabellae) che per la prima volta si trova ad essere inserito nella Lista Rossa dell'IUCN a causa delle condizioni disastrose del proprio habitat. Tale specie è ormai confinata in soli 1.200 ettari di foresta amazzonica nelle montagne del Pinche, nel Sud-ovest della Colombia, dove la foresta è stata già danneggiata, per una porzione che ha raggiunto l'8%, dalle coltivazioni di coca. Altri esempi di uccelli che diventano da quest'anno specie in pericolo in modo critico: sono l'Allodola del Sidamo in Etiopia, che rischia di diventare il primo uccello estinto in Africa, il Fringuello arboricolo di Charles nelle Galapagos, il Rondone dei camini nel Nord America Orientale, e addirittura i diffusissimi rapaci africani tra cui il Falco giocoliere e l'Aquila marziale, che si trovano in buona compagnia di altre numerose specie del continente africano, tutte in gravi difficoltà. NUOVA LISTA ROSSA DELLA LIPU, 192 SPECIE UCCELLI A RISCHIO Gefis Ecologia 15 maggio 2009 Birds at risk reach record high BBC News 13 maggio 2009 Climate change bad news for most birds: study terradaily 04 marzo 2009 Il 75% degli uccelli europei più comuni a rischio di estinzione a causa dei cambiamenti climatici 11 marzo 2009 Bird Species Decline: Wader Populations Decline Faster Than Ever ScienceDaily 06 giugno 2009 The RSPB European Bird Census Council CSO-Czech Society for Ornithology www.birdlife.org/climate_change

Secondo la Lista Rossa dell’International Union for Conservation of Nature (IUCN), un quarto di tutte le specie di antilopi sono a rischio di estinzione. I risultati, elaborati dall’Antelope Specialist Group della Species Survival Commission dell’IUCN, dimostrano che su 91 specie di antilopi, 25 sono minacciate di estinzione. Lo stato di numerose specie è peggiorato rispetto all’ultima valutazione del 1996 su tutte le specie di antilopi del pianeta. Cinque specie di antilopi sono nella categoria più elevata di pericolo, a rischio di estinzione, tra cui la dama (Nanger dama), il cefalofo di Ader o nunga (Cephalophus adersi), la Saiga (Saiga tatarica), il damalisco di Hunter (Beatragus hunteri) e l’Addax (Addax nasomaculatus ). Le popolazioni di dama e addax sono ormai ridotte a piccoli gruppi superstiti che evidenziano la cattiva situazione dell’intera fauna selvatica della regione sahelo-sahariana regione. L´orice dalle corna a sciabola (Oryx dammah) è già estinto allo stato selvatico, anche se sono in corso progetti per la sua reintroduzione utilizzando animali provenienti da zoo o allevamenti privati. Altre 9 specie di gazzelle si trovano nella categoria in pericolo di estinzione della Red List e altre 9 sono classificate come vulnerabili. Philippe Chardonnet, co-presidente dell’Antelope Specialist Group, spiega che «l’insostenibile caccia, per la carne o la medicina tradizionale, e l´invasione umana del loro habitat sono le principali minacce per le antilopi. La maggior parte si trovano in Paesi in via di sviluppo ed è per questo che è estremamente importante che collaboriamo con le comunità locali in quanto è nel loro interesse contribuire a preservare questi animali». Nel complesso, sono stabili le popolazioni del 31% delle specie di antilopi e in diminuzione il 62%. Quasi il 70% delle specie di antilopi non sono minacciate di estinzione e alcuni Paesi del mondo stanno salvaguardando le popolazioni di antilopi, ad esempio l’India dove su quattro specie presenti solo una è considerata a rischio.. David Mallon, co-presidente dell’Antelope Specialist Group, sottolinea che «nonostante la pressione di vivere accanto a 1,2 miliardi di persone, in India le antilopi stanno andando bene. Non è un caso che vi sia una debole tradizione di caccia e che il possesso di armi sia raro». Lo Springbok o antilope saltante (Antidorcas marsupialis), simbolo del Sudafrica, è l´unica specie di antilope ad avere davvero una prospettiva di sopravvivenza a lungo termine, soprattutto grazie al “game ranching”, diventato ormai una vera e propria industria turistico-faunistica. Un quarto delle antilopi del mondo è a rischio di estinzione 04 marzo 2009 Quarter of antelope species face extinction: IUCN Terradaily 04 marzo 2009 IUCN Red List Game farming and game ranching Lo Squalo Elefante (Cetorhinus maximus), il secondo squalo più grande del mondo dopo quello balena, è stato smascherato dai satelliti: La specie, presente anche nel Mediterraneo - può essere lunga più di 10 metri e pesare oltre 7 tonnellate - per tutto l’inverno sparisce, rendendosi intracciabile, per andare a svernare in luoghi più appartati.

È stato un esemplare monitorato mediante chip GPS a svelare che gll squali elefanti passano l’inverno ai carabi: Gregory Skomal, della Massachusetts Marine Fisheries, spiega che lo squalo si reca nelle acque tropicali dell’Oceano Atlantico, rimanendo a profondità tra i 200 e i 1000 metri anche per lunghi periodi (settimane, anche mesi). Il GPS ha però messo in evidenza anche quanti pochi esemplari siano rimasti: lo Squalo Elefante è purtroppo a rischio estinzione. Squalo Elefante “smascherato” dal satellite 09 Maggio 2009 Disappearing Act Of World's Second Largest Fish Explained terradaily 12 maggio 2009 Massachusetts Marine Fisheries Le api pagano, con la vita, le primavere e le estati più lunghe e calde. Ovvero: c’è un collegamento tra riscaldamento globale e moria delle api. Sono le principali conclusioni di una ricerca presentata a Milano, a cura di Umberto Solimene, direttore del Centro Ricerche in Bioclimatologia Medica, Biotecnologie e Medicine Naturali dell’Università di Milano, con la collaborazione di Vincenzo Condemi, climatologo dell’Università di Milano. «C’è un chiaro restringimento della stagione invernale - spiega il professor Solimene - che ha innescato, per riflesso, un probabile allungarsi della finestra di attività delle api, ipotizzabile in 20-30 giorni di lavoro in più l’anno». Un elemento che «prefigura uno stress aggiuntivo a carico delle api in grado di compromettere la loro salute. Lo stesso sincronismo tra la fase della fioritura e la ripresa delle attività di volo delle api dopo l’inverno potrebbe aver subito importanti sfasature». Lo studio, realizzato con il supporto di Agrofarma-Associazione Nazionale Imprese Agrofarmaci, che fa parte di Federchimica, ha coinvolto un team di ricercatori dell’Università di Milano dal settembre 2008 a oggi. L’indagine è stata condotta analizzando numerosi studi eseguiti a livello internazionale sulle evidenze storiche e attuali della moria delle api. L’indagine si è soffermata sulle osservazioni meteorologiche a partire dal 1880 e nel dettaglio sulle osservazioni satellitari a partire dal 1978, fino ai dati odierni. «L’attuale fase di cambiamento climatico denota un progressivo riscaldamento su scala globale, particolarmente accelerato negli ultimi 20 anni», afferma Solimene. Dalla fine degli anni ’70, secondo lo studio, in molte regioni c’è stato un trend verso un «rinverdimento» primaverile precoce della vegetazione, oltre a cambiamenti osservati nei sistemi biologici marini e acquatici per l’aumento delle temperature dell’acqua, e una riduzione della copertura del ghiaccio, della salinità, dei livelli di ossigeno e delle correnti. Gli ultimi 12 anni, a partire dal 1995 e fino al 2006, sono stati indicati fra gli anni mediamente più caldi mai registrati da quando si hanno misure globali sufficientemente attendibili ed estese nella osservazione della temperatura alla superficie e cioè a partire dal 1850. Il profilo termico evidenzia una «netta preponderanza di valori di temperatura più elevati rispetto alla media nei mesi di febbraio e marzo», in pratica tra la fine degli inverni e l’inizio delle primavere, con un picco relativo, ma meno importante, in corrispondenza di novembre e soprattutto dicembre, in pratica nel tratto a cavallo tra la parte finale dell’autunno e l’inverno.

Il riscaldamento globale, secondo quanto rilevato dalla ricerca, «sta agendo sugli inverni accorciandone la durata a favore delle stagioni intermedie», principalmente primavera e secondariamente autunno. Gli apicoltori, infatti, dichiarano che i mesi dell’anno in cui hanno registrato una mortalità delle api più accentuata sono marzo e aprile, proprio in corrispondenza con l’inizio della primavera. Gli inverni più miti, inoltre, potrebbero aver stimolato nelle api delle covate precoci, di solito bloccate per il freddo. Il ciclo biologico della varroa, un acaro parassita, è legato alle covate e può aver sfruttato una maggiore disponibilità di covate fuori stagione riuscendo a compiere più cicli biologici e risultando quindi molto aggressiva, rendendo inefficaci le misure di profilassi in uso. «A conferma - si legge in una nota di Agrofarma sulla base di dati Swg - il 40% degli stessi apicoltori dichiara tra le cause che hanno determinato la diminuzione del numero di api che popolano i loro alveari gli attacchi di varroa e i cambiamenti climatici». Il riscaldamento globale è tra le cause della scomparsa delle api La Stampa 07 maggio 2009 Honey Bee Colony Losses In U.S. Almost 30 Percent From All Causes From September 2008 To April 2009 ScienceDaily 29 maggio 2009 Il ritorno delle api nel Nord Italia, zona principalmente dedita alla coltivazione del mais, è la conferma, secondo Legambiente, che la sospensione cautelativa dei neonicotinoidi utilizzati per la concia del mais, decisa dal Ministero della Salute lo scorso settembre, ha funzionato, confermando così lo stretto legame esistente tra neonicotinoidi e moria degli insetti. "Gli apicoltori del nord Italia hanno testimoniato che la sospensione dell'uso di conce del mais con neonicotinoidi si è subito tradotta in alveari straboccanti d'api come non si vedevano da anni", ha detto Francesco Panella, presidente dell'Associazione Nazionale Allevatori di Api. "Appurato in questo modo che una delle cause della scomparsa delle api sono proprio i pesticidi sistemici di questo tipo, la loro sospensione temporanea si dovrebbe rendere definitiva - chiede Panella - vietando in futuro l'uso di queste molecole che come si è visto, causano danni alla salute degli insetti, delle api in particolare, ma evidentemente a tutta la biodiversità". Legambiente: stop definitivo per i pesticidi che uccidono le api Terranuova 08/06/2009 Strage di api in Calabria e Basilicata La Nuova Ecologia 04 giugno 2009 Il Principato di Monaco, con l’appoggio di alcuni Paesi europei, ha proposto di inserire il tonno rosso del Mediterraneo e dell’Atlantico nell’elenco delle specie protette dal CITES (Convention on the International Trade of Endangered Species), di cui è vietato il commercio internazionale. Fra quote pesca eccessive e pesca illegale, fra qualche anno il tonno rosso rischia l’estinzione. Quello venduto nelle scatolette è tonno del Pacifico, che si trova in condizioni

relativamente migliori. Il problema del tonno rosso sono soprattutto i giapponesi, si dice, e la loro passione per il sushi. Il CITES, che fa capo alle Nazioni Unite, è l’unico organismo sovranazionale in grado di impedire il commercio internazionale di animali e vegetali che corrono il rischio di estinzione. Se la proposta del Principato di Monaco verrà approvata, sarà ancora possibile pescare il tonno rosso: ma solo per venderlo e consumarlo a livello locale. Diventerà quindi impossibile esportare il tonno rosso in Giappone e negli altri Paesi (tipo Stati Uniti) in cui i buongustai sono disposti a non badare a spese pur di gustarne le carni. Il Principato di Monaco, avanzando la proposta di tutela da parte del CITES, sottolinea che il tonno rosso è diminuito nel Mediterraneo del 74% fra il 1957 e il 2007; nell’Atlantico è diminuito dell’83% fra il 1970 e il 2007. Nella richiesta di tutela, il Principato di Monaco fa presente che le quote pesca del tonno rosso permesse dall’ICCAT (un organismo sovranazionale di Paesi dediti alla pesca) sono costantemente più alte di quelle raccomandate dagli scienziati. Dalle quote pesca ICCAT discendono anche le quote pesca adottate dall’Unione Europea. In più, c’è il problema della pesca illegale, in cui si distingue anche l’Italia, alimentata dagli alti prezzi e resa possibile dagli scarsi controlli. La situazione del tonno rosso è così disastrosa, prosegue la proposta del Principato, che anche con un divieto quasi totale di pesca fino al 2022 la popolazione rimarrebbe ad un livello incredibilmente basso. Donde appunto la richiesta di vietare il commercio internazionale del tonno rosso, permettendo solo il consumo locale. Si sono già detti favorevoli la Francia (che pure è interessatissima alla pesca del tonno rosso), la Germania, la Gran Bretagna e l’Olanda. Il tonno del Mediterraneo rischia l’estinzione. Proposto il divieto di commercio internazionale 31 luglio 2009 Monaco seeks global bluefin tuna trade ban 28 luglio 2009 La Commissione Europea ha lanciato l’allarme sullo stato di conservazione di oltre 1.150 specie e 200 tipi di habitat, alcuni dei quali protetti dalla legislazione comunitaria, ma in pericolo. La relazione ha analizzato la biodiversità per quanto riguarda habitat, specie e cambiamenti climatici nel periodo 2001-2006, fornendo dati importanti anche per la conservazione e l’evoluzione future. Gli habitat erbosi, le zone costiere e quelle umide sono gli ambienti sottoposti alle pressioni maggiori, a causa dei cambiamenti climatici, del declino dei modelli agricoli tradizionali e dello sviluppo turistico degli ultimi anni. Gli habitat erbosi sono quelli più a rischio, destinati a scomparire in tutta l’Unione Europea, mentre quelli associati alle attività agricole sono in stato di abbandono a causa del passaggio dall’agricoltura tradizionale a quella intensiva.

Per quanto riguarda le diverse specie, gli anfibi risentono dei cambiamenti negli habitat umidi e vivono in condizione di crisi, mentre alcuni esemplari che vivono in aree protette dalla direttiva UE come il lupo, il castoro e la lontra, cominciano a mostrare i primi segni di recupero. La Commissione Europea lancia l'allarme sulla biodiversità ecoblog 21 luglio 2009 Ogni minuto si perdono 200 metri quadrati di territorio: 138 specie a rischio ecoblog 22 maggio 2009 Giornata mondiale della biodiversità: quante specie a rischio? Ecoblog 22 maggio 2009 Due terzi delle specie del mondo potrebbero sparire entro il XXI secolo. L'allarme è stato lanciato al Meeting Internazionale di Pechino sulla Biologia Conservativa. (International Congress for Conservation Biology - ICCB), organizzato come ogni anno dalla Society for Conservation Biology (SCB), dove si è discusso di temi come biodiverstà, biologia delle specie invasive, declino globale degli anfibi, comunità indigene e conservazione della natura. A dare una forte scossa al meeting ci ha pensato il presidente del Missouri Botanical Garden, Peter Raven, che nel suo intervento ha affermato: «Due terzi delle specie mondiali potrebbero scomparire nel XXI secolo ed una grande maggioranza potrebbero estinguersi anche prima di essere state identificate». La rapida estinzione di massa sarebbe dovuta alla distruzione degli habitat, al cambiamento climatico e all’invasione di specie “aliene. «Attualmente, più di un migliaio di specie scompare ogni anno – ha detto Raven – questa cifra potrebbe presto raggiungere le 10.000. La Cina, grazie al suo territorio esteso, alle sue montagne ed alla ricchezza dei suoi ecosistemi tropicali lungo la sua costa meridionale, possiede un ottavo del totale delle specie di organismi eucarioti. Ma la biodiversità della Cina si deteriora velocemente, come nelle altre parti del mondo». Per prevenire e contrastare la rapida estinzione di flora e fauna, per Raven occorre raccogliere e diffondere al più presto le informazioni sulle specie per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla necessità di proteggere urgentemente animali e piante. Raven ha anche chiesto «La creazione di maggiori riserve naturali e cooperazione all’interno della comunità internazionale per sviluppare nuove tecnologie per mantenere la sostenibilità biologica». Estinzione di massa terranuova 22 luglio 2009 Two-thirds of the planet’s species may soon be gone 22 luglio 2009 Last chance to save the gorilla New Scientist 27 luglio 2009 Rapid Climate Change Forces Scientists To Evaluate 'Extreme' Conservation Strategies ScienceDaily 26 maggio 2009

ULTIMATUM ALLA TERRA Il rapporto “State of the World 2009” del Worldwatch Institute, pubblicato in traduzione italiana con una prefazione del segretario nazionale del Wwf Italia Gianfranco Bologna (Edizioni Ambiente, 350 pagine, 22 euro), è il risultato del lavoro di 40 ricercatori che hanno passato in rassegna i dati più recenti raccolti da 400 mila scienziati (climatologi, meteorologi, demografi, economisti, agronomi, geofisici, ecologi, oceanografi, glaciologi). Al centro del rapporto c’è il cambiamento climatico: alcuni dati che fino a poco tempo fa erano controversi oggi sono completamente accertati. Nel secolo scorso, la temperatura media del pianeta è aumentata globalmente di 0,7 gradi centigradi e gli ultimi dieci anni sono stati i più caldi da quando esistono registrazioni di temperatura regolari e affidabili; il mare si è sollevato al ritmo di 1,5 millimetri all’anno e anche qui si registra una forte accelerazione: dal 1993 ad oggi i mari sono saliti di 3 millimetri all’anno e si prevede che a fine secolo le acque si saranno alzate di almeno 60 centimetri. I pessimisti, come Eric Rignot dell’Università della California, sostengono che già nel 2011 l’innalzamento delle acque oceaniche potrebbe raggiungere il metro, mettendo in crisi seicento milioni di persone che vivono nelle regioni costiere poco elevate (Bangladesh, molti arcipelaghi dell’oceano Pacifico, ma anche Venezia); l’anidride carbonica contenuta nell’atmosfera, responsabile da sola di metà dell’effetto serra, è passata in un secolo da 290 a 380 parti per milione e aumenta di 2 parti per milione all’anno; altrettanto veloce è l’immissione di metano, un gas venti volte più efficiente dell’anidride carbonica nel produrre l’effetto serra. Il WorldWatch si sofferma anche sui cosiddetti "tipping points", ovvero i punti di non ritorno. Uno di questi riguarda la Corrente del Golfo che si spinge fin nell’Europa Nord Occidentale impedendole di diventare un ghiacciolo. Proprio l’afflusso di grandi quantità di acqua dolce derivante dallo scioglimento dei poli potrebbe modificare la concentrazione salina alla base della corrente rallentandola o bloccandola. Il risultato sarebbe un’ondata di freddo apocalittica dalla Scandinavia alla Gran Bretagna. Uno studio del nostro Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), pubblicato il 19 marzo su Nature, prevede il collasso della calotta dell’Antartide occidentale sulla base di carotaggi che per la prima volta hanno spinto le indagini sul passato del clima fino a 5 milioni di anni fa. Le ere geologiche più remote si misurano a centinaia di milioni di anni. I loro cambiamenti ambientali e biologici erano lentissimi. Poi è arrivato l’uomo, con la sua capacità di modificare il mondo attraverso gli strumenti della tecnica. Così, lasciatici alle spalle Pleistocene e Olocene, siamo entrati nell’Antropocene (da àntropos, uomo), l’era nella quale l’intervento della nostra specie è diventato così potente e da prevalere sui cambiamenti naturali connessi all’evoluzione biologica e a cicli astronomici come l’oscillazione dell’asse terrestre e il variare dell’eccentricità dell’orbita che il nostro pianeta percorre intorno al Sole. “La forza nuova – scrive Paul Crutzen, premio Nobel per la Chimica ottenuto con studi sul cambiamento climatico e sul buco nell’ozono – siamo noi, capaci di spostare materia più

di quanto facciano i vulcani e il vento messi insieme, di far degradare interi continenti, di alterare il ciclo dell’acqua, dell’azoto, del carbonio e di produrre l’impennata più brusca e marcata della quantità di gas serra in atmosfera degli ultimi 15 milioni di anni”. Nel presentare il rapporto, Gianfranco Bologna ha riportato alcune cifre che si riferiscono all’”impronta ecologica”. Il concetto di questa unità di misura molto di moda in ecologia fa riferimento alla quantità di suolo terrestre e di acqua di cui ogni uomo ha bisogno per vivere sfruttando solo gli “interessi” e non intaccando il “capitale” della natura, consentendo di dare ad un ideale abitante della Terra cibo, acqua e servizi sufficienti, e anche di riassorbire i rifiuti prodotti, mantenendo un sostanziale equilibrio. Ebbene, tutti i paesi sviluppati vivono di gran lunga al di sopra delle possibilità concesse dalla natura alla comunità umana. L’impronta ecologica di un cittadino degli Stati Uniti presuppone lo sfruttamento di 9,4 ettari, quasi 5 volte la superficie realmente disponibile. L’impronta di un australiano vale 7,8. Quella di un inglese 5,3; di un italiano 4,8, di un tedesco 4,2. La Cina, essendo ancora in gran parte poco sviluppata, è in equilibrio, con una impronta di 2,1. L’India, mediamente ancora più povera della Cina, si ferma a 0,9. Dati simili troviamo per l’Africa: un etiope ha una impronta di 1,4. Ecco dove attingono, come in un sistema di vasi comunicanti, i paesi più ricchi per sostenere le loro impronte antiecologiche. State of the World 2009: verso un mondo sempre più caldo 13 gennaio 2009 State of the World 2009: Into a Warming World | Worldwatch Institute "Possibile collasso della calotta antartica Ovest" 18 marzo 2009 Il surriscaldamento globale durante questo secolo potrebbe avere effetti due volte più gravi di quanto previsto appena sei anni fa. Lo studio ha utilizzato l’IGSM (Integrated Global Systems Model) sviluppato dal MIT Integrated Global Systems Model, una simulazione al computer molto dettagliata della attività globale economica e dei mutamenti climatici che è stata via viai sempre più rifinita dal Joint Program on the Science and Policy of Global Change a cominciare dai primi anni Novanta. Per la nuova ricerca sono state fatte girare 400 diversi programmi ognuno relativo a sottili variazioni dei parametri di ingresso. I risultati hanno mostrato che la temperatura media della superficie terrestre potrebbe aumentare di 5,2 gradi entro l'anno 2100. Nel 2003 gli scienziati avevano previsto un aumento della temperatura media di 2,4 gradi. In parte, è stato l'effetto dei vulcani nel Ventesimo secolo, secondo gli scienziati, a condizionare la precedente stima sul surriscaldamento globale, mascherando in parte i mutamenti. "Senza un intervento rapido ed efficace il surriscaldamento avrà effetti drammatici in questo secolo", secondo gli scienziati del MIT. Journal reference: A.P. Sokolov, P.H. Stone, C.E. Forest, R. Prinn, M.C. Sarofim, M. Webster, S. Paltsev, C.A. Schlosser, D. Kicklighter, S. Dutkiewicz, J. Reilly, C. Wang, B Felzer, H.D. Jacoby., “Probabilistic forecast for 21st century climate based on uncertainties

in emissions (without policy) and climate parameters”, Journal of Climate, 2007; preprint (2009): 1 DOI: 10.1175/2009JCLI2863.1 Il Mit: «Effetto serra più grave del previsto» Gefis ecologia 20 maggio 2009 New Study: Global Temperatures to Rise 9 Degrees by 2100 22 maggio 2009 Global warming may be twice as bad as previously expected 21 maggio 2009 Climate Change Odds Much Worse Than Thought ScienceDaily 20 maggio 2009 The MIT Joint Program on the Science and Policy of Global Change MIT Global Change Program | Integrated Global System Model - IGSM Il cambiamento climatico è una «crisi silenziosa» che sta distruggendo il mondo provocando circa 300mila morti l’anno e coinvolgendo circa 300 milioni di persone. L’allarme arriva da un rapporto del Global Humanitarian Forum dell’ONU, secondo cui, entro il 2030, le vittime dell’effetto serra potrebbero addirittura quasi raddoppiare arrivando a oltre 500mila. «Si tratta - ha detto il segretario generale dell’Onu Kofi Annan presentando il rapporto - della più grande sfida di emergenza umanitaria dei nostri tempi che causa sofferenza a centinaia di milioni di persone». Delle 300mila vite perse ogni anno, spiega il rapporto, nove su dieci sono legate al degrado ambientale. Anche le morti per inedia, oppure per malattie come la diarrea o la malaria, sono spesso una conseguenza di disastri correlati al cambiamento climatico. La maggior parte delle vittime, pari al 99%, sono nei paesi in via di sviluppo che hanno contribuito solo per l’1% alle emissioni di ossido di carbonio. Circa 45 milioni dei 900 milioni di persone che soffrono la fame sono una conseguenza dell’effetto serra, una cifra destinata a raddoppiare in 20 anni. Una catastrofe globale che ha le sue conseguenze sull’economia: secondo lo studio infatti il costo dell’effetto serra è di circa 125 miliardi di dollari l’anno, cifra che comunque non comprende i costi della salute, dell’emergenza acqua e di altri shock. «Il mondo è a un bivio - ha detto Kofi Annan - non possiamo continuare ad ignorare il drammatico impatto dell’effetto serra sull’umanità». Il cambiamento climatico uccide ben trecentomila persone l'anno La Stampa 29 maggio 2009 Climate change could kill 500,000 a year by 2030 29 maggio 2009 Una marea umana in fuga da siccità, inondazioni, mari che si innalzano fino a mangiare la terra, e da altri fenomeni figli dei mutamenti del clima. Migrazioni di massa, alla ricerca di una vita migliore o, più semplicemente, di un modo per rimanere vivi, che si verificheranno su larghissima scala nei prossimi decenni,

coinvolgendo decine di milioni di persone: qualcosa di mai visto prima, per ampiezza ed estensione. È lo scenario tratteggiato da un rapporto presentato a Bonn a margine dei negoziati per un nuovo accordo contro il riscaldamento globale, curato dal Center for International Earth Science Information Network della Columbia University, di New York, dalla United Nations University e da Care International. Che non azzarda cifre precise - anche se altri studi hanno indicato fra i 25 ed i 50 milioni di potenziali sfollati e profughi entro il 2010 e 700 milioni entro il 2050, mentre l'Organizzazione internazionale dei migranti si tiene su una cifra mediana, di 250 milioni nel 2050 - ma sottolinea quanto il clima giochi e giocherà sempre di più un ruolo chiave in questo fenomeno, a fianco di altri elementi come l'instabilità politica ed economica, e la distruzione da parte dell'uomo di specifici ecosistemi oltre allo sfruttamento eccessivo dei terreni per l'agricoltura. Pensare che riguardi solo i paesi più poveri è un'illusione: le ripercussioni, scrivono i ricercatori nel rapporto "In search of shelter, mapping the effects of climate change on human migration and displacement", si faranno sentire per tutti, su scala globale. Perché "il clima è il contenitore nel quale ognuno di noi vive quotidianamente la propria vita", ricorda Alexander de Sherbinin, coautore dello studio. Cause - ed effetti - dei "profughi del clima" sono a tutto campo. E vanno dalla distruzione delle economie basate su ecosistemi di sussistenza specifici come la pastorizia, agricoltura e pesca, fattore dominante nelle migrazioni forzate, all'aumento per frequenza ed intensità di calamità naturali come cicloni, inondazioni e siccità, dovuti al cambiamento del clima. Le piogge in Messico ed America Centrale, ad esempio, nel 2080 caleranno dell'80 per cento. A causa di queste modifiche ambientali, gli allevatori, in alcune parti del Messico così come nel Sahel africano, stanno già oggi lasciando le loro case per spostarsi in zone più accoglienti. Il livello dei mari, poi, è una minaccia per moltissimi Paesi e città, da Mumbai a Los Angeles, da Rio de Janeiro a New York. L'arrivo di acque salate, insieme ad inondazioni ed erosioni, rischia di distruggere l'agricoltura nei popolati delta del Mekong, del Nilo o del Gange. Con danni inimmaginabili: un innalzamento del livello del mare di due metri ampiamente previsto in diverse proiezioni per questo secolo - inonderebbe quasi la metà dei 3 milioni di ettari di terreni coltivati del Mekong. E isole del Pacifico stanno già considerando un esodo di massa della popolazione: è il caso ormai famoso delle Maldive. Non solo: lo scioglimento dei ghiacciai alpini nell'Himalaya porterà la devastazione in diverse terre coltivate in Asia, aumentando le inondazioni e riducendo drasticamente le riserve di acqua a lungo termine. Un dato drammatico se si pensa che i bacini del Gange, del Brahmaputra, dell'Irawaddy, dello Yangtzee e del Fiume Giallo danno sostentamento a 1,4 miliardi di persone. La maggior parte dei migranti, probabilmente rimarrà all'interno dei confini del proprio stato, rileva il rapporto, o si trasferirà nei Paesi confinanti, ma questo non sarà possibile in tutti i casi. Se i conflitti interni si esaspereranno, le conseguenze arriveranno lontano, fino ad interessare anche i Paesi più ricchi. Uno scenario sorprendente e molto serio, avverte Charles Ehrhart, coordinatore dei mutamenti climatici per l'organizzazione internazionale CARE, in cui le società colpite maggiormente dai cambiamenti ambientali potrebbero trovarsi invischiate "in una spirale negativa di degrado ecologico, che le trascina in basso, dove non esistono più reti di sicurezza sociali, mentre violenza e tensioni aumentano".

Per questo, raccomandano i ricercatori, è vitale che i Paesi raggiungano un accordo per il taglio delle emissioni di gas serra all'incontro sul clima delle Nazioni Unite che si terrà a dicembre. Anche se il processo negativo è già innescato e le conseguenze rischiano di essere inevitabili. "I cambiamenti del clima stanno avvenendo con velocità ed intensità maggiori rispetto alle previsioni precedenti", si legge nelle conclusioni del rapporto. "I livelli di sicurezza per i gas serra atmosferici potrebbero essere molto inferiori rispetto a quanto non si pensasse prima e allo stesso tempo le emissioni di CO2 aumentano ad un tasso sempre più elevato". Con ripercussioni senza precedenti per la popolazione: "Le migrazioni vanno riconosciute come un elemento importante dell'adattamento" ai mutamenti climatici, sottolinea ancora Ehrhart. Prioritari, quindi, raccomandano gli esperti, sono gli investimenti per i Paesi più a rischio, ed un approccio della comunità internazionale pratico, con accorgimenti come lo sviluppo di tecniche di irrigazione che sfruttino una minore quantità di acqua, e la preparazione di sistemi specifici per affrontare meglio i disastri naturali. I Paesi devono inoltre trovare un accordo su come trovare una sistemazione per le popolazioni che abitano pianure a rischio. E occorre migliorare il sistema delle rimesse degli emigrati per i familiari che rimangono nelle regioni più vulnerabili. Allarme migrazioni di massa In fuga dal clima impazzito La Repubblica 10 giugno 2009 Expert Report on Climate Change and Migration Disastri ambientali, sei milioni in fuga Ecoblog 31 maggio 2009 Se i grandi non agiranno per contrastare il cambiamento climatico e preservare la natura, la Terra diventerà «un inferno vivente» e per le prossime generazioni il futuro sarà grigio e carico di insidie. È un monito e un invito accorato quello del principe Carlo di Inghilterra che ha tenuto durante la prestigiosa conferenza Richard Dimbelby. L’erede al trono britannico ha fatto un paragone tra l'attuale crisi economica globale e l'ecosistema naturale: «Così come il nostro sistema bancario deve affrontare ora una pesante situazione debitoria - ha detto il principe - così gli ecosistemi naturali faticano a far fronte ai loro debiti, che poi sono le condizioni create dagli uomini. La natura è la nostra banca comune e dobbiamo evitare il suo fallimento». Carlo, riprendendo l'ideale calendario fissato in un suo precedente discorso, ha sollecitato le autorità mondiali ad agire: «Abbiamo soltanto 96 mesi davanti per evitare che il processo di riscaldamento globale del pianeta diventi irreversibile». Poco meno di dieci anni, quindi, per scongiurare l'ipotesi allarmante della trasformazione del nostro pianeta in un «inferno». Denunciando l'attuale cultura come un' «era di pura convenienza», Carlo ha sollecitato un cambiamento epocale. Dobbiamo aprire, ha concluso, una nuova «era della sostenibilità». Principe Carlo: o si agisce subito o sarà un «inferno» 09 luglio 2009 Carlo, discorso al Parlamento "99 mesi per salvare la Terra" 27 aprile 2009

Prince Charles: next generation faces 'living hell' unless climate change tackled 09 luglio 2009 Come noto, Nicholas Stern, l'ex chief economist della Banca Mondiale, fu incaricato nel 2006, dall'allora ministro laburista del Tesoro Gordon Brown (oggi premier del Regno unito), di fornire una quantificazione economica dei cosiddetti "costi dell'inazione", cioè l’impatto economico su scala globale relativo alla mancanza di azioni concrete per cercare di mitigare gli effetti del global warning. L'economista produsse stime che evidenziavano come, per puntare a contenere la concentrazione di gas serra in atmosfera al di sotto dei 550 ppm CO2eq (attualmente sono circa 430 ppm in termini di CO2eq e circa 387 in termini di sola CO2), sarebbe stata necessaria la spesa di circa l'1% del Pil mondiale all'anno per i prossimi decenni. Un valore largamente superato dalle stime sui costi dell'inazione secondo cui si sarebbe dovuto investire (ogni anno) dal 5 al 20% del Pil per poter sperare di contrastare gli effetti dei cambiamenti climatici. Nel suo nuovo rapporto, “A Blueprint for a Safer Planet” (in italiano "Un Piano per Salvare il Pianeta"), Stern ha aggiornato al ribasso gli obiettivi di concentrazione ottimale di ppm CO2eq, e, di conseguenza, al rialzo le stime per gli impegni economici: l'obiettivo ora posto è di non superare i 500 ppm CO2eq e comporterà una spesa stimata intorno al 2% del Pil su base annua, per un periodo di alcuni decenni. Considerando le variazioni che i sistemi fisici e biologici del pianeta stanno generalmente già subendo per un aumento di soli (circa) 0,8° dal 1850, si può capire come un aumento di temperatura di 2-3° potrebbe essere accettabile, ma oltre quel valore si entrerebbe in una zona molto pericolosa non solo per il benessere umano, ma per la stessa stabilità dei suoi sistemi sociali e produttivi. E si consideri anche l'incombere di alcuni elementi di feedback che potrebbero attivarsi - peggiorando di colpo le cose - già con aumenti limitati di temperatura, come la degenerazione in savana della foresta amazzonica (già oggi sotto forte pressione a causa dell'intensità dei prelievi e di tecniche selvicolturali non adeguate) o la liberazione di metano dal permafrost in via di scioglimento. In verità - è lo stesso autore a sottolinearlo - il calcolo dei costi dell'inazione (cioè la stima di quel 5-20% di Pil annuale che andrà investito se non attuiamo serie misure di mitigazione), è da considerarsi solo un abbozzo, perchè «le stime dei costi complessivi di adattamento al clima sono ancora agli inizi» e «gli specifici risultati numerici frutto delle simulazioni condotte non devono essere presi con eccessiva rigidità: sono risultati che dipendono molto dalle assunzioni che vengono fatte e, per loro natura, trascurano aspetti cruciali come la possibilità di conflitti di varia natura e di differenti impostazioni etiche, oltre a risultare deboli nella valutazione del rischio e del valore della biodiversità». Sia il primo rapporto Stern che "Un Piano per Salvare il Pianeta", sono più che altro da considerarsi delle analisi relative alla direzione da prendere, e all'evidenziazione di quali scelte siano percorribili non solo relativamente al tema del cambiamento climatico, ma in generale al tema della cooperazione per lo sviluppo e, alzando ancora più il tiro, all'affermazione di un nuovo paradigma economico e produttivo, oltre che sociale. «Siamo di fronte» - sostiene l'autore - «ad una scelta tra due strategie, una delle quali, affrontando nei prossimi decenni costi significativi, può aprirci la strada verso un futuro di crescita continuativa e riduzione della povertà nel quadro di un mondo più pulito, più sicuro e più ricco di biodiversità. L'altra prevede invece di continuare a gestire l'economia come nel

passato e quindi ci porterà probabilmente verso un rallentamento e un arresto della crescita economica in un quadro di sconvolgimenti e perdite». Secondo lo studioso inglese, il riscaldamento globale è solo la manifestazione più ampia di un generale «fallimento del mercato», a cui va posto rimedio per la creazione di un «sistema di mercato più efficiente». Il fallimento del mercato è consistito, secondo Stern, principalmente nell'eccessiva distorsione dei prezzi rispetto ai costi reali (dovuta, in sostanza, all'assenza di un "prezzo al carbonio"), ma anche nell'impossibilità di raggiungere un'informazione completa, nel radicamento di abusi di potere contrattuale (monopoli e cartelli) e, soprattutto, nell'assenza di una reale penalizzazione delle emissioni climalteranti, tendenzialmente più pericolose di tutte le altre perchè agiscono su scala globale, sul lungo periodo, su vasta scala, e perchè presentano un forte grado di incertezza sulle possibili evoluzioni della situazione. Nella concezione di Stern, sono proprio le "incertezze" che ancora rivestiamo sul clima ad essere state trattate da molti economisti influenti e da molti decisori politici in maniera sbagliata: invece di trincerarsi dietro l'incertezza, è necessario agire secondo le stime del rischio, ponendo un "rischio accettabile", che possiamo correre, e uno che è invece da evitare ad ogni costo. È chiaro che, se l'applicazione di misure contro un rischio accettabile può essere sottoposta ad un'analisi costi-benefici di natura puramente contabile, la prospettiva di un "rischio inaccettabile" deve essere evitata ad ogni costo. I calcoli sul costo dell'intervento (nettamente più complessi ed attendibili rispetto a quelli sui costi dell'inazione) evidenziano che agire in direzione della mitigazione del global warming potrebbe anche tramutarsi, al 2030, in una "perdita negativa", cioè in un guadagno. Questo almeno teoricamente, cioè ipotizzando un "mercato ideale" in cui ad esempio i costi delle nuove tecnologie scendono velocemente, le emissioni sono monetizzate su scala globale e le scelte più convenienti vengono perseguite per prime. All'atto pratico (cioè proiettando le stime in un mercato reale), ciò si traduce in una spesa dello 0,8%/anno del Pil per puntare a 550 ppm, e dell'1,6%/anno per puntare a 500 ppm. Valori che Stern arrotonda all'1 e al 2% «per tener conto delle difficoltà della politica e di qualche cattiva sorpresa», con una stima che definisce «prudenziale». In sintesi, l'autore propone un accordo "efficace, efficiente ed equo" sul percorso verso una economia “carbon-free” o comunque a bassa intensità di carbonio: - una riduzione del 50% al 2050 su scala globale delle emissioni, che vedrebbe naturalmente un contributo maggiore da parte dei paesi ricchi (80% in meno alla stessa data); - azioni contro la deforestazione (responsabile, a causa di cambiamenti dell'uso del suolo tramite tagli o tramite lo slash and burn, di circa il 20% del totale delle emissioni) al costo di 15 miliardi di $ l'anno;. - instaurazione di un meccanismo globale di mercato delle emissioni, che costituisca una applicazione su larga scala del già esistente European Union Emission Trading Scheme, a cui dovrebbe sommarsi una evoluzione della cooperazione per lo sviluppo e in particolare del meccanismo di "clean development" (“sviluppo pulito”).

- sviluppo delle nuove tecnologie (fusione nucleare, ccs, ma anche investimenti in Ricerca reti telematiche - per migliorare il sistema di rilevamento, quello di allarme, per dematerializzare il più possibile il sistema produttivo e in generale per sostenere la knowledge economy - biomasse, biocarburanti di seconda generazione - che possono crescere su terreni degradati e con poca acqua, evitando così la competizione con l'alimentare -e nuovi strumenti di immagazzinamento dell'energia - compreso l'idrogeno e le cosiddette "nanobatterie", potenziamento artificiale della fotosintesi clorofilliana; Il “Piano per Salvare il Pianeta” di Stern descrive l'evoluzione verso una nuova economia che guarda all’etica e all’ecologia. È particolarmente indicativo il fatto che la concentrazione da lui indicata come obiettivo, 500 ppm CO2eq, rappresenti non solo un obiettivo di sostenibilità ambientale e sociale, ma anche (almeno in un già citato mercato "ideale", che come detto rimane comunque un orizzonte raggiungibile nel lungo termine) quello di una sostenibilità economica dell'azione contro il global warming (è lampante la differenza tra il costo reale stimato - il 2% del Pil annuo - per un'azione di mitigazione davanti al 5-20% annuo rappresentato dal costo del lasciare le cose come stanno). Un piano per salvare il pianeta di Nicholas Stern Green Report 20 luglio 2009 Nicholas Stern: We must not give in to pessimism Guardian 22 aprile 2009 Stern Review - Wikipedia Sarà necessario un impegno pari a quello per la Missione Apollo che mandò l’uomo sulla luna, per dare all’umanità la possibilità di sopravvivere alle devastazioni prodotte dai cambiamenti climatici. La posta in gioco è alta, senza una crescita sostenibile “miliardi di persone saranno condannate alla povertà e gran parte della civiltà subirà un collasso”. È la conclusione del più grande rapporto scientifico sul futuro del pianeta (“State of the Future”), appoggiato da un ventaglio di varie organizzazioni mondiali quali l’Unesco, la Banca mondiale, l’Esercito degli Stati Uniti e la fondazione Rockfeller, composto da 6700 pagine e realizzato con il contributo di 2700 esperti di tutto il mondo. Il segretario generale dell’ONU Ban Ki-moon ha definito il contenuto del rapporto “di incalcolabile valore per il futuro delle Nazioni, per i loro abitanti e per la società civile”. L’argomento centrale è l’impatto della recessione mondiale: i ricercatori affermano che l’energia globale pulita, la disponibilità di cibo, la povertà e la crescita della democrazia nel mondo intero “rischiano di peggiorare a causa della recessione”. Inoltre sentenziano: “Troppe decisioni dettate dall’avidità e dalla disonestà portano ad una recessione mondiale e dimostrano l’interdipendenza che esiste a livello internazionale fra le economie e le regole etiche”. La recessione globale in atto ha abbassato l’ “indice sullo stato del futuro” per i prossimi dieci anni. Metà del mondo dovrà affrontare violenze e agitazioni dovute a seri problemi di disoccupazione che si sommeranno a una progressiva mancanza di acqua, cibo ed energia e agli effetti generali dei cambiamenti climatici.

Gli autori del rapporto, prodotto dal Millennium Project, un comitato di esperti che in passato facevano parte della federazione mondiale delle Associazioni delle Nazioni Unite, evidenziano una serie di problemi emergenti relativi alla sicurezza ambientale. “La portata e l’andamento degli effetti futuri dei cambiamenti climatici - che vanno dal cambiamento del sistema meteorologico sino alla perdita della possibilità di sussistenza ed alla sparizione degli Stati – ha un impatto senza precedenti sulla stabilità politica e sociale”. I problemi più urgenti sono l’aumento dei prezzi del cibo e dell’energia, la scarsità dell’acqua e l’emigrazione in crescita “dovuti alle condizioni politiche, ambientali ed economiche” che potrebbero sprofondare mezzo mondo nella violenza e nell’instabilità. Mentre la criminalità organizzata fiorisce con guadagni stimati in 3 miliardi di milioni di dollari – il doppio del budget militare di tutti i paesi del mondo. Gli effetti del cambiamento climatico stanno peggiorando: dal 2025 tre miliardi di persone potrebbero non avere un’adeguata quantità di acqua potabile anche perché la popolazione mondiale è in costante crescita. La massiccia urbanizzazione aumenta la progressiva mancanza di territori per gli animali e concentra gli allevamenti, cosa che potrebbe innescare nuove pandemie. I Governanti sono chiamati a lavorare ad un programma decennale per fermare la crescente minaccia alla sopravvivenza, con particolare riguardo agli Usa e alla Cina che dovranno impiegare risorse e impegno pari a quelli che furono necessari per mandare l’uomo sulla luna. “Questo è non solo importante per l’ambiente; è anche una strategia per aumentare la concreta possibilità di una pace mondiale. Senza alcuni accordi sarà difficile raggiungere quel genere di coerenza globale che è indispensabile per fermare davvero i cambiamenti climatici”. Il rapporto conclude dicendo: “Il coordinamento per una effettiva ed adeguata azione è ancora agli inizi mentre i problemi ambientali peggiorano più in fretta, prima che le risposte o le politiche di prevenzione siano adottate”. IL FUTURO DEL PIANETA 24 luglio 2009 The planet's future: Climate change 'will cause civilisation to collapse'" The Independent 13 luglio 2009 2009 State of the Future La colonnina del termometro in dieci delle ultime dodici estati è salita ben al di sopra della media registrata nell’arco di cento anni. Quali sono le conseguenze del surriscaldamento del globo? E in particolare quali quelle sulla salute? Un gruppo di scienziati dell’University College di Londra, in collaborazione con la prestigiosa rivista The Lancet, ha effettuato uno studio arrivando alla conclusione che le capacità di adattamento dell’uomo e della natura ai cambiamenti climatici si stanno esaurendo. Ciò significa che, nonostante i progressi della medicina, le barriere contro infezioni, epidemie e malattie appaiono insufficienti. L’innalzamento della temperatura determinato dalle emissioni di CO2 ha ricadute allarmanti sull’ecosistema e sulla vita dell’uomo. Nel 2003, ad esempio, nel Nord Europa 30 mila persone sono morte a causa dell’ondata di caldo. Una dato che sembra

eccessivamente allarmistico e al limite del catastrofismo ma che i ricercatori di Londra spiegano in modo semplice: la calura mette a rischio il sistema cardiovascolare e respiratorio e i dati confermano che, in modo particolare nelle aree meno abituate all’eccessiva irradiazione, le difese dell’organismo non reggono. Così i decessi, proprio nei periodi di maggiore e più pesante insolazione, aumentano. Il surricaldamento determina una catena di effetti a vari livello: stress, collassi, incidenti. L’instabilità è la causa di inondazioni e uragani o all’opposto di siccità. Ne soffrono l’agricoltura e i raccolti. Il 17% delle colture di soia, di riso e di cereali va in fumo per ogni grado in più delle temperature. Già oggi, stimano gli studiosi, dieci milioni di bambini muoiono ogni anno a causa della pessima o insufficiente nutrizione. Le riserve d’acqua potabile si esauriscono (250 milioni di africani sono a rischio entro il 2020, ma il prosciugamento riguarda anche le grandi città del Centro America e persino dell’Europa, a cominciare dalla Catalogna). I numeri sono destinati a modificarsi in maniera drammatica: la metà della popolazione mondiale, entro la fine del secolo, potrebbe essere costretta a fronteggiare «severe carenze di cibo» e gravi problemi di salute. Non solo per il collasso idrico-alimentare nelle zone già povere, ma anche per la progressiva diffusione di virus e di malattie (malaria, salmonella, infezioni intestinali). È un processo naturale, quello delle migrazioni, che, anche a causa dei cambiamenti climatici, si intensificherà. E se non saranno adottate misure sanitarie efficaci provocherà nuove epidemie. Il caldo sta alterando l’ecosistema. Negli ultimi 30 anni, il 25% dei vertebrati che vivono sulla terra è stato cancellato. E così pure il 28% delle specie marine. L’estinzione è un pericolo per numerosi animali e un’altra minaccia alla catena alimentare. Gli scienziati dell’University College di Londra ritengono nonostante tutto che vi siano ancora i margini «per riparare» il disastro ambientale. La prima sfida da vincere è quella della consapevolezza: dai governi ai semplici cittadini, nei Paesi sviluppati e nei Paesi poveri, tutti devono essere responsabilmente coinvolti in una campagna per la limitazione delle emissioni di CO2 e dunque per la difesa della salute. «È la sfida del Ventunesimo secolo». Riscaldamento globale, l'adattabilità di uomo e natura si è quasi esaurita Gefis Ecologia 15 maggio 2009 Tra i tanti appelli lanciati dagli ambientalisti al nuovo Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, quello di James Hansen, il maggior esperto mondiale di cambiamenti climatici, pesa più di tutti. In un’intervista rilasciata all'Observer, Hansen ha detto chiaramente: “Abbiamo soltanto quattro anni per agire a livello mondiale sui cambiamenti climatici, dopo di che non potremo più evitare inondazioni, catastrofi climatiche e l'estinzione di nuove specie”. Direttore del Nasa's Goddard Institute for Space Studies di New York, Jansen dal 1988 sta cercando di mettere in guardia la Casa Bianca sui pericoli che incombono sul pianeta e finora è sempre stato zittito. “Soltanto una carbon tax imposta dall'Occidente al resto del mondo, attraverso pressioni politiche ed economiche, può raggiungere il disperato obiettivo di bloccare la crescita delle

emissioni di Co2. Questa tassa andrebbe prima di tutto imposta alle compagnie che commerciano petrolio e gas con il risultato di aumentare i prezzi dei carburanti in tutto il mondo, rendendoli utilizzabili con meno leggerezza e più buon senso. A questo dovrà aggiungersi l'eliminazione del carbone, responsabile dell'inquinamento atmosferico tanto quanto gli altri combustibili fossili se non di più”. Il problema rilevato da Hansen e dal suo staff, attraverso lo studio comparato delle temperature di tutto il mondo per decenni, è ormai prossimo ad essere irrimediabile. Per questo il direttore Hansen ha scritto una lettera personale al neo eletto presidente Obama e a sua moglie e per questo è in prima linea ogni volta che c'è da difendere il pianeta, come nel Kent, in Gran Bretagna, dove si è costituito parte civile per bloccare un nuovo insediamento di carbone. In sintesi, questo il quadro catastrofico tracciato da Jansen: - l'attuale livello di anidride carbonica nell'atmosfera è di 385 parti per milione. Nel 1960 era di circa 315 ppm; - l'anidride carbonica è un gas serra che può persistere per centinaia di anni nell'atmosfera, assorbendo radiazioni infrarosse e surriscaldandosi; - l'ultimo rapporto dell'IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) rileva che 11 dei 12 anni tra il 1995 e il 2006 sono stati i più caldi della nostra storia; - la nazione maggiormente responsabile dell'emissione di anidride carbonica nell'atmosfera è stata, storicamente, su basi pro capite, la Gran Bretagna, che ha dato il via alla Rivoluzione Industriale. Oggi è la Cina; - tutte le previsioni lasciano intendere che la temperatura globale salirà di 4° C entro questo secolo; - l'IPCC stima che l'aumento della temperatura scioglierà i ghiacci e causerà un aumento di volume e un surriscaldamento degli oceani. Questo produrrà un aumento del livello del mare dai 18 ai 59 centimentri, ma c'è chi prevede un'accelerazione che porterà a un aumento di 1 o 2 metri; - le possibili inondazioni che innalzeranno il livello del mare di oltre un metro renderanno inabitabile il Bangladesh, il delta del Nilo, la costa sud est dell'Inghilterra, l'Olanda e l'East coast degli Stati Uniti. Clima: James Hansen chiama Barack Obama 'We have only four years left to act on climate change - America has to lead' Guardian 18 gennaio 2009 Nasa's Goddard Institute for Space Studies Callum Roberts, professore di Conservazione Marina all’Università di York, ha incrociato i dati di 100 pubblicazioni scientifiche per calcolare quante aree marine devono essere chiuse alla pesca. La sua proposta è di chiudere alla pesca un terzo degli oceani per vent’anni, in modo da dare la possibilità di riprodursi alle diverse specie.

La proposta è arrivata sul tavolo delle discussioni dell’Unione Europea che ha fallito in una politica di pesca comune, mentre nelle sue acque si continua a pescare fuori controllo e si superano i limiti biologici di circa il 30%. La proposta della UE si limita a chiedere un generico taglio nelle attività di pesca, a cui il Professor Roberts risponde con la proposta di creare un’Area Marina Protetta (MPA) sull’esempio di quella dell’Islanda che ha dato la possibilità alle diverse specie di riprodursi significativamente. Altri esempi positivi di aree marine protette sono quella del New England, che in soli 10 anni di chiusura alla pesca ha avuto una eccezionale ripresa e quella di Off Lundy Island, una zona delle acque britanniche totalmente chiusa alla pesca in cui la popolazione di aragoste è 8 volte superiore al resto. Oggi esistono 4000 MPA che coprono circa lo 0,8% delle acque degli oceani. Stop per vent'anni alla pesca negli oceani ecoblog 30 aprile 2009 Call for fishing ban in a third of oceans The Observer 26 aprile 2009 La penuria di cibo potrebbe far crollare la nostra civiltà? Secondo Lester Brown, i problemi ecologici rendono il XXI secolo particolarmente vulnerabile dal punto di vista alimentare: acqua sempre più scarsa, disponibilità di suoli fertili in calo, aumento delle temperature e cambiamenti climatici sono un freno alla produzione di alimenti. Lester Russell Brown è uno scrittore, ambientalista ed economista statunitense. Ha scritto oltre venti libri sui problemi ambientali globali. È stato il fondatore del Worldwatch Institute nonché fondatore e presidente dell’ Earth Policy Institute. Il suo articolo è uscito sul numero di maggio di Scientific American. Si intitola “Could Food Shortages Bring Down Civilization?”. Vi si legge che la più grande minaccia per la stabilità è una crisi alimentare in grado di far cadere i Governi nei Paesi poveri. E che questa crisi potrebbe essere scatenata dal’aumento della domanda di cibo unito al degrado dell’ambiente. Brown sostiene che nel secolo scorso gli aumenti dei prezzi delle derrate alimentari erano passeggeri e legati ad eventi contingenti. Il recente aumento dei prezzi – che ha portato addirittura a razionare il riso negli USA - è invece una tendenza duratura. Lester Brown lo deduce dal fatto che ogni anno alla Terra viene chiesto di nutrire 70 milioni di persone in più, mentre contemporaneamente i biocarburanti derivati dal mais sfamano i serbatoi delle auto anzichè gli uomini e 4 milioni di persone ogni anno si spostano verso abitudini di consumo più simili a quelle occidentali: carne, latte, uova. Ma per produrre alimenti di origine animale servono grandi quantità di granaglie. Con le quali si potrebbero sfamare gli uomini, invece delle mucche e dei maiali. Con un ettaro di terra si sfamano 22 persone per un anno se esse mangiano patate, e 19 se mangiano riso. Con lo stesso ettaro di terreno possono essere nutrite due sole persone che mangiano agnello, e una sola persona che mangia carne di manzo.

Contemporaneamente agiscono anche la scarsità di acqua, la diminuzione dei suoli fertili, l’aumento delle temperature. Clima più caldo uguale raccolti inferiori. E degli OGM non c’è da fidarsi, dice: non hanno dato alcun segno di poter aumentare i raccolti come la “rivoluzione verde” degli anni ‘60 a base di concimi chimici e pesticidi. I raccolti sono ulteriormente minacciati dallo scioglimento dei ghiacciai himalayani da cui dipendono i sistemi di irrigazione di vaste aree della Cina e dell’India. Se non si agisce su questa situazione, scrive Brown, a causa della crisi alimentare un numero crescente di Stati potrà essere incapace di reggersi: l’ordine mondiale ne sarà minacciato, sarà minacciata in ultima analisi la civiltà. Lestern Brown su Scientific American: la penuria di cibo potrebbe far crollare la nostra civiltà? Blogeko 28 aprile 2009 Could Food Shortages Bring Down Civilization? Scientific American maggio 2009 La produzione di cibo si ridurrà di un quarto nel 2050. Solo l’agricoltura biologica ci potrà salvare 18 febbraio 2009 Ne abbiamo già consumata metà, il mondo rischia di rimanere senz’acqua 02 febbraio 2009 Immagini satellitari mostrano che il degrado del suolo colpisce un quarto della superficie terrestre 02 aprile 2009 Il 2030 sarà l’anno della “tempesta perfetta” in cui verranno al pettine tutti i nodi relativi a cibo, acqua, energia. Sempre che non si agisca prima per districarli. Lo sostiene il capo dei consulenti scientifici del governo inglese, John Beddington, intervenuto ad una conferenza sullo sviluppo sostenibile tenutasi a Londra. Scarsità d’acqua, scarsità di cibo, scarsità di energia, aumento della popolazione mondiale e cambiamenti climatici stanno operando insieme, non si possono affrontare separatamente e giungeranno tutti insieme ad un punto critico appunto nel 2030. Per quell’anno, il genere umano comincerà a contendersi in modo apertamente conflittuale le risorse nel frattempo diventate sempre più scarse. Dunque instabilità a livello globale, migrazioni, malcontento, rivolte, perchè la gente cercherà di abbandonare i luoghi dove la vita sarà diventata impossibile. In particolare, Beddington mette l’accento sulla scarsità di cibo presente e soprattutto futura. Attualmente, le riserve di cibo rappresentano appena il 14% della necessità planetaria annuale e sono al livello più basso degli ultimi cinquant’anni. Secondo i calcoli di Beddington, per il 2030 avremo bisogno del 50% di cibo in più rispetto ad ora, del 50% di energia in più e del 30% di acqua dolce in più. I suoi suggerimenti per evitare il disastro? Un maggior impulso allo sviluppo delle energie rinnovabili e della produzione agricola, e un miglior uso dell’acqua.

Cibo, acqua, energia. Uno scienziato inglese: una “tempesta perfetta” si prepara per il 2030 Blogeko 20 marzo 2009 Food and energy shortages will create 'perfect storm', says Prof John Beddington Telegraph 19 marzo 2009 «Tre miliardi di persone senz'acqua» la nuova ecologia, 12 marzo 2009 Nella foresta dell'Amazzonia l'innalzamento del clima, anche se sembra impossibile, può fare più danni di quanti non ne abbia già finora prodotti l'intervento diretto dell'uomo. La deforestazione in quest'area, che negli ultimi 20 anni ha visto la distruzione di piante su una superficie grande tre volte quella dell'Italia, potrebbe diventare un "bel ricordo" dei tempi andati, quando l'uomo aveva ancora cura dell'ambiente. Se la temperatura si alzerà di 2° gradi nel giro di 100 anni sparirà tra il 20 e il 40% degli alberi della più grande area verde del Mondo, fondamentale per gli equilibri ecologici del Pianeta. Se invece il clima aumenterà di 3° sarà il 75% degli alberi dell'Amazzonia a sparire nell'arco di un secolo, mentre con 4° sarà l'85%. «Sarebbe un mondo diverso da quello che abbiamo conosciuto fino adesso», ha commentato Vicky Pope, uno dei responsabili del Centro Studi sul Clima inglese (Met Office centre for climate change research), che ha svolto questo studio dalle conclusioni apocalittiche, presentato durante il secondo giorno della Conferenza Internazionale sul Riscaldamento Globale di Copenhagen. È uno degli studi più drammatici e allarmanti presentato fino ad ora, che rivede in negativo anche le più pessimistiche previsioni sul destino della foresta che occupa una superficie più grande di quella dell' intera Europa. La ricerca è stata in parte svolta con una serie di simulazioni al computer che mostrano le modificazioni nei diversi tipi di alberi dell'Amazzonia, che subentrano a secondo dell'innalzamento del clima. «È come una granata sul nostro futuro» - ha commentato Tim Lenton, uno dei relatori presenti a Copenaghen. Il fatto che la foresta fosse minacciato dall'innalzamento delle temperature non è nuovo, visto che molti studi avevano già evidenziato il problema delle continuità delle risorse idriche nella zona, a seconda dell'innalzamento delle quote dei ghiacciai sulle Ande, ma adesso le cifre assumono proporzioni mai ipotizzate. «La sparizione in un secolo di oltre metà della foresta amazzonica - ha detto Peter Cox, esperto di clima e professore all'Università di Exeter - avrebbe conseguenze su tutto il resto del mondo. La fascia tropicale è quella che condiziona maggiormente il clima globale e con una riduzione di questa portata dell'Amazzonia non sarà più la stessa». «Si tratta di uno scenario da incubo - ha aggiunto Beatrix Richards, responsabile foreste del WWF inglese - le cui conseguenze non sono prevedibili». La stretta relazione tra clima e foreste è nota da tempo «così come quella tra le attività umane e il riscaldamento del pianeta» - ha detto uno degli scienziati del Centro studi sul clima che ha effettuata la ricerca sull'Amazzonia. «La politica mondiale - ha commentato l'ambientalista inglese Tony Juniper - non può porre nuovi rinvii di fronte a rischi di questa portata. I governi dei paesi devono immediatamente cooperare per tagliare le emissioni di gas serra, altrimenti è inutile fingere di non capire che si sta procedendo a passi spediti verso un catastrofico innalzamento del clima e una possibile estinzione di massa».

Il clima può bruciare l'Amazzonia 12 marzo 2009 Amazon rainforest at risk of ecological 'catastrophe' 12 marzo 2009 Scientists must rein in misleading climate change claims 11 febbraio 2009 Met Office: Climate change Le osservazioni sui livelli di emissione globale di gas serra ''rendono sempre più probabili i peggiori scenari tra quelli realizzati dall'IPCC''. Questa in sintesi la conclusione del Congresso Internazionale sul Cambiamento Climatico che si è svolto a Copenaghen dal 10 al 12 marzo e che ha visto il contributo nei vari campi della scienza climatica di 1600 scienziati da più di 70 paesi. A due anni dall'ultimo rapporto del Comitato intergovernativo sui cambiamenti climatici (IPCC) gli scienziati hanno fatto il punto sulla situazione arrivando a un documento in sei messaggi chiave, riferiscono il Centro Euro-Mediterraneo per i Cambiamenti Climatici e IPCC Focal Point Italia. Al primo punto gli scienziati avvertono che ''si evidenzia un andamento tale da far ipotizzare un accresciuto rischio, per il futuro, di cambiamenti climatici bruschi e irreversibili''. Inoltre, si sottolinea nel secondo messaggio, le società, soprattutto quelle più povere, si dimostrano molto vulnerabili ai cambiamenti climatici, anche dove questi abbiano livelli molto bassi. Quindi il terzo messaggio evidenzia ''la necessità di azioni di mitigazione rapide, intense, efficaci e coordinate a livello globale e regionale''. Più deboli saranno gli obiettivi per il 2020, più alti saranno i rischi e più difficile sarà realizzare gli obiettivi fissati per il 2050. ''I cambiamenti climatici - è il quarto messaggio avranno (e hanno già oggi) effetti diversi in diverse aree del pianeta'' e le strategie di adattamento e mitigazione dovranno tenere in considerazione queste differenze. CLIMA: SCIENZIATI, PEGGIORI SCENARI SEMPRE PIU' PROBABILI Gefisecologia 16 marzo 2009 Gli scienziati: sei avvertimenti per evitare la catastrofe climatica Gefisecologia 17 marzo 2009 Risks of Global Warming Rising: Is It Too Late to Reverse Course? Sciam 17 febbraio 2009 Risks of global warming have been underestimated 20 febbraio 2009 Earth may be entering climate change danger zone New Scientist 10 marzo 2009 Global warming: catastrofe in anticipo 17 marzo 2009 In occasione del vertice dell'Aquila, ong e grandi istituzioni internazionali come la Banca Mondiale, hanno rilanciato allarmate la necessità di agire subito per la salvaguardia del pianeta, ma i potenti non sembrano cogliere la gravità della situazione. Sono i Paesi poveri che subiscono le conseguenze maggiori derivanti da fenomeni climatici estremi, provocati in larghissima parte dai Paesi più industrializzati e appartenenti

ai cosiddetti grandi della terra. L'impatto devastante di un clima sempre più modificato dalle attività umane si riversa in larga parte, per ora, sui Paesi del sud del mondo già alle prese con gravi problemi interni. Oxfam, la confederazione di 13 ong con oltre 3000 partner, che ha lo scopo di combattere ingiustizie e povertà nel mondo, ha pubblicato un rapporto intitolato ''Suffering the science - Climate change, people and poverty'' in cui viene messo in evidenza come le mutazioni climatiche stiano già colpendo duramente i poveri negli oltre 100 paesi in cui opera e nei quali sono state compiute le ricerche. ''I cittadini dei Paesi ricchi cominciano appena ad interessarsi degli effetti a lungo termine dei cambiamenti climatici. Ma milioni di persone tra i più poveri nel mondo, ne subiscono già le conseguenze nella vita quotidiana'', dichiara Luc Lamprière, direttore generale di Oxfam Francia. Il rapporto di Oxfam parte dai risultati degli studi sul clima compiuti da oltre 2,500 scienziati riunitisi a Copenaghen lo scorso marzo e interseca le storie delle comunità del sud alle prese con il global warming. Gli scienziati del Gruppo di esperti Intergovernativo sull'Evoluzione del Clima (GIEC) sostengono già da tempo l'urgenza di agire immediatamente contro il riscaldamento globale, che potrebbe arrivare a un punto di non ritorno già nel 2015 quando, stando ai ritmi attuali, la temperature renderanno inabitabile buona parte del pianeta. La finalità della relazione è quella di mettere in luce le storie delle vittime che stanno dietro alle statistiche, per tentare di avvicinare il mondo politico alla comunità scientifica, che appaiono oggi ancora molto distanti. L'aumento massimo di 2 gradi centigradi delle temperature, sul quale più di 100 governi basano le proprie strategie poiché considerate “economicamente accettabili”, promette un avvenire desolante per più di 660 milioni di persone entro il 2030. Secondo Hans Joachim Schellnhuber, consigliere di Angela Merkel per il clima, le temperature globali potrebbero aumentare fino a 5 gradi entro il 2100: la popolazione mondiale si ridurrebbe in questo caso a un miliardo di persone. Paradossalmente, le nazioni che si sono arricchite bruciando combustibili fossili sono quelle attualmente meno colpite dal cambiamento del clima, con l'eccezione di Spagna e Australia: è ai tropici, dove vive la maggior parte della popolazione mondiale e gran parte delle comunità più povere, dove si verificano i disastri più gravi. Balgis Elasha, scienziato dell'Alto Concilio per l'Ambiente e le Risorse Naturali, ha evidenziato che il ''53% delle catastrofi che si verificano in Africa sono legate al clima e un terzo degli abitanti del continente vive in zone soggette a siccità. Entro il 2020 i rendimenti agricoli africani potranno diminuire del 50%''. A breve termine, l'impatto più devastante causato dal nuovo clima sarà l'aumento della fame nel mondo, poiché coltivazioni come il mais e il riso sono estremamente sensibili all'aumento delle temperature e alla mutazione delle stagioni. Si stima infatti che 200 milioni di persone all'anno fino al 2050 potranno essere costrette all'esilio a causa della fame, della degradazione dell'ambiente e dalla perdita delle loro terre. Anche la salute delle persone andrà notevolmente peggiorando: le elevate temperature provocheranno uno 'stress climatico' che renderà impossibile il lavoro e la diffusione di malattie, ad esempio nelle zone tropicali, sarà estremamente più veloce poiché esse cominceranno a 'migrare'. Per quanto riguarda le catastrofi naturali è probabile che gli avvenimenti passati tra il 1975 e il 2008, saranno destinati a triplicare entro il 2030: 375 milioni di persone

potranno essere colpite entro il 2015 da uragani, terremoti, incendi o alluvioni. Le migrazioni dovute al clima sono già una realtà e nuovi conflitti di carattere internazionale si innescheranno per il controllo delle risorse vitali, a causa della loro rarefazione. Il consigliere politico di Oxfam, Max Lawson, raccomanda: ''i leader del G8 devono fare sul serio per garantire, con questo vertice, un piano concreto per ottenere aiuti e protezione per le popolazioni povere contro la tripla crisi rappresentata dall'economia, dal cibo e dal clima''. Romain Benicchio di Oxfam France, sottolinea che i paesi del G8 ''devono impegnarsi in un accordo globale sul clima incentrato sui bisogni delle popolazioni più povere'', che avrebbero bisogno di almeno 150 miliardi di dollari all'anno' per favorire uno sviluppo indipendente dal carbone e prevenire le conseguenze nefaste del global warming. John Holmes, sottosegretario delle Nazioni Unite per gli affari umanitari, ha scritto in aprile, con il titolo “Disasters - the new normal” che ''investendo 3,15 miliardi di dollari nella riduzione dell'impatto delle inondazioni tra il 1960 e il 2000, la Cina ha evitato una perdita stimata in 12 miliardi di dollari'', mentre si calcola che negli Stati Uniti ''ogni dollaro speso a favore del clima, permetterebbe di economizzarne 4'' per il futuro. I dirigenti politici dovrebbero quindi mobilitarsi immediatamente, anche se una recente inchiesta sulle preoccupazioni della popolazione statunitense, pone al ventesimo posto (su 20) il problema ambientale. La Banca Mondiale, organismo delle Nazioni Unite finanziato in larga maggioranza dai paesi più ricchi, ha stilato un elenco delle cinque principali minacce derivanti dai cambiamenti climatici (siccità, inondazioni, tempeste, innalzamento del livello del mare e deficit alimentare) in un rapporto intitolato ''Convenient Solution for an Inconvenient Truth: Ecosystem‐based Approaches to Climate Change''. La più grande istituzione finanziaria del mondo ha anche provveduto ad identificare i paesi che rischiano di essere più coinvolti nel processo: quattro tra le nazioni più povere al mondo sono in cima a questa lista. Nel Malawi, paese dell'Africa meridionale con un reddito annuo pro-capite inferiore ai 100 dollari e in cui la maggior parte delle persone vive in aree rurali, i periodi di intensa siccità sono destinati ad aumentare e la popolazione rischia di restare priva dei minimi mezzi di sopravvivenza forniti dall'agricoltura. Il Bangladesh è invece a capo della lista dei paesi con più alto rischio di inondazioni. L'aumento dello scioglimento dei ghiacciai a causa delle alte temperature, è destinato a gonfiare notevolmente i fiumi Gange e Brahmaputra, che potrebbero sommergere dal 30 al 70% del paese in caso di forti inondazioni. Il Vietnam, sempre secondo studi commissionati dalla Banca Mondiale che delineano un innalzamento di 5 metri del livello del mare circostante, potrebbe veder inondato il 16%. A causa di ciò, il 35% della sua popolazione perderebbe la propria casa e il 35% della propria economia locale verrebbe irrimediabilmente distrutta. Secondo l'IPCC, il Sudan, il più grande stato africano, sarebbe il paese dove l'agricoltura verrebbe maggiormente devastata e dove si verificherebbe il più grosso deficit alimentare nel mondo. Infine le Filippine, paese asiatico composto da oltre 7 mila isole, sarebbe invece il luogo che potrebbe essere maggiormente sconvolto a causa dei più frequenti e intensi temporali: nel 2008 è stato uno dei tre paesi più colpiti da catastrofi, stando alle ricerche del Centro di Ricerca sulla Epidemiologia dei Disastri di Bruxelles. Il costo umano dei cambiamenti climatici 10 luglio 2009

Climate Change Effects: How Westerners Kill Africans (MAP) huffingtonpost 19 maggio 2009 Scientist: Warming Could Cut Population to 1 Billion Dot Earth 13 marzo 2009 EPA Warns of Impending Human Threat Due to Global Warming counterthink 08 febbraio 2009 Suffering the Science - Climate Change, People and Poverty Disasters - the New Normal - COP15 United Nations Climate Change Convenient solutions to an inconvenient truth : ecosystem-based approaches to climate change Tetti bianchi e non solo per abbattere la Co2. L’idea è semplice, semplicissima, ma potrebbe risultare rivoluzionaria, tanto da essere accolta e rilanciata dal premio Nobel per la fisica e segretario all’Energia Usa, Steven Chu. Parlando davanti all’autorevole Simposio dei premi Nobel al St. James Palace di Londra, Chu - uno dei massimi esperti mondiali di clima, come ricorda il britannico The Times - ha sostenuto che un’iniziativa globale per cambiare il colore dei tetti, delle strade e dei selciati potrebbe dare un enorme contributo alla lotta contro il riscaldamento globale. «Ora, voi sorriderete, ma è stato fatto un calcolo: se dipingessimo di bianco i tetti di tutti gli edifici del mondo e se la pavimentazione delle strade fosse uniformemente di un cemento di colore chiaro, piuttosto che nero questo darebbe lo stesso risultato di un blocco della circolazione delle auto di tutto il mondo per 11 anni», ha spiegato Chu. Le superfici più pallide, viene spiegato in un articolo del quotidiano inglese Telegraph, potrebbero rallentare il riscaldamento globale riflettendo il calore nello spazio, invece di permettere di essere assorbito dal buio di superfici in cui è intrappolato dai gas serra e l ´aumento delle temperature. La proposta che Chu fa propria è quella avanzata da Art Rosenfeld insieme agli scienziati del Lawrence Berkeley National Laboratory (LBNL) della California. In questo Stato, già dal 2005, è obbligatorio per tutti gli edifici commerciali di avere i tetti dipinti di bianco, una misura che adesso sarà estesa anche alle case residenziali. Secondo i calcoli di Rosenfeld e dei suoi collaboratori, Hashem Akbari e Surabi Menon, cambiare il colore della superficie delle 100 città più grandi del mondo potrebbe abbattere l’equivalente di 44 miliardi di tonnellate di emissioni di anidride carbonica. Contro l'effetto serra dipingiamo il mondo di bianco La Stampa 28 maggio 2009 Obama's climate guru: Paint your roof white! The Independent 27 maggio 2009 “Bombe” di semi lanciate da un aereo per combattere la desertificazione, la deforestazione e più in generale l’impoverimento della vegetazione spontanea dovuti all’opera dell’uomo.

Sta facendo il giro del web l’idea di tre eco designer, Hwang Jin wook, Jeon You ho, Han Kuk il e Kim Ji myung. Ricorda le “bombe” di semi confezionate per il “guerrilla gardening”, con lo scopo di riempire di fiori gli angoli desolati e grigi delle periferie urbane. Si tratterebbe di preparare confezioni di plastica biodegradabile, ciascuna con all’interno semi, terreno e concime, e poi farle piovere su aree in cui la vegetazione naturale si è degradata. All’interno della “bomba”, i semi trovano tutto ciò che serve per superare i primi, più difficili, momenti dell’esistenza. Man mano che la pianticella cresce, il guscio protettivo si scioglie fino a sparire completamente. L’idea è comparsa sul sito Yanko Design, che la accosta ad una leggenda fiorita sulle rovine della Seconda guerra mondiale: si dice che a conflitto concluso un pilota americano caricò di caramelle il suo aereo e le fece cadere sulle macerie di Berlino. Un gesto come di risarcimento per i bambini e soprattutto per la sua coscienza tormentata. Per andare oltre l’atto puramente simbolico - come fu quello di Berlino - Yanko Design invoca la collaborazione dei botanici: bisogna scegliere accuratamente i semi da mettere nelle “bombe”, affinchè riescano a sopravvivere nelle aree degradate e a renderle nuovamente verdeggianti. “Bombe” tecnologiche di semi per deforestazione blogeko 26 maggio 2009

combattere

la

desertificazione

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la

Seedbomb Plant Capsules 08 maggio 2009 La motivazione più eloquente a favore delle soluzioni proposte dalla geoingegneria è il fallimento del “Piano A”, ovvero la riduzione delle emissioni di anidride carbonica. Gli accordi di Kyoto prevedevano una riduzione del 5,2% delle emissioni per portarle entro il 2012 sotto i livelli degli anni Novanta. Dei 40 paesi che hanno firmato l'accordo nel 2001, ben 21 hanno di fatto aumentato da allora le loro emissioni. E né Cina né Stati Uniti - il primo e il secondo produttore al mondo di anidride carbonica - hanno aderito al trattato. La campagna per espandere e rendere Kyoto più vincolante è verosimilmente destinata a rivelarsi inadeguata anch'essa. A dicembre i delegati si incontreranno a Copenhagen per cercare di espandere l'accordo, che scade nel 2012: di negoziare tagli più drastici alle emissioni, e di coinvolgere anche Cina e Stati Uniti. La speranza è che a Copenhagen si arrivi a fissare una quota massima per l'anidride carbonica nell'atmosfera, stabilita a un livello sufficientemente basso da evitare che le temperature possano aumentare di oltre due gradi centigradi. Nessuno sa con certezza quanto incisivi dovrebbero essere i tagli alle emissioni di gas serra, ma l'ipotesi più accreditata è che si debba arrivare ad abbassare dell'80% i livelli attuali entro il 2050. Si tratta di un obiettivo ambizioso per l'Europa, il Giappone e gli Stati Uniti. Ma per la Cina e per l'India, che stanno cercando faticosamente di uscire dalla povertà, è pressoché inconcepibile. L’improvvisa eruzione del vulcano Pinatubo il 15 giugno del 1991 scaraventò in cielo un’enorme colonna di cenere, oscurò completamente la luce del Sole, sterminò centinaia di persone. E mostrò un possibile modo per salvarci da un potenziale disastro climatico.

Venti milioni di tonnellate di anidride solforosa scagliate dal vulcano si alzarono dalle Filippine nella stratosfera, ricoprendo l’intero pianeta di una coltre che respinse verso lo spazio parte del calore del Sole. Negli anni successivi, i meteorologi constatarono stupiti che la coltre abbassava la temperatura terrestre di circa mezzo grado, in un certo senso riportando un po’ indietro le lancette del riscaldamento globale. Quell’effetto fu temporaneo: dopo circa un anno le temperature ripresero nuovamente a salire. Gli scienziati tuttavia incominciarono a chiedersi se l’eruzione non avesse rivelato una possibile arma contro il cambiamento del clima. Perché sarebbe possibile ottenere artificialmente ciò che il vulcano produsse naturalmente: un’emissione sapientemente dosata di anidride solforosa nell’alta atmosfera - ottenuta lanciando i gas con razzi oppure spruzzandola da aerei ad alta quota, o ancora rilasciandola da una sorta di alto fumaiolo avrebbe un impatto pressoché immediato sulla temperatura. In aggiunta, costerebbe immensamente meno di qualsiasi altra misura finalizzata a una riduzione delle emissioni dei gas responsabili dell’effetto serra. Un gruppo di scienziati si è messo allora a studiare se esista un modo di influire sul clima mimando l’effetto Pinatubo. Utilizzando l’anidride solforosa o altre sostanze, i geoingegneri cercano di deviare parte della luce solare verso lo spazio esterno. Uno di questi sistemi prevede il lancio in orbita di una serie di specchi che potrebbero schermare la Terra dalla luce del Sole, ma con una spesa che verosimilmente manderebbe in bancarotta il pianeta intero. Negli anni Novanta, il discusso inventore della bomba a idrogeno, Edward Teller, propose addirittura di lanciare nell’atmosfera particelle di metallo riflettenti e flottanti, conferendo un tocco da Dottor Stranamore al settore della geoingegneria. Un altro sistema più plausibile si concentrerebbe sulla cattura di anidride carbonica dall’atmosfera e sul suo immagazzinamento sottoterra. Questa idea, nota oggi come cattura e sequestro dell’anidride carbonica (Carbon Capture and Storage - CCS), è all’origine di moderni impianti sperimentali a energia pulita, che stanno attirando ricerche e finanziamenti. Ma gli impianti a carbone pulito ridurranno soltanto le emissioni future, senza influire sulla causa reale del problema. Perché una cosa ormai è chiara: l’allarmante lunga vita dell’anidride carbonica che continuerà a restare nell’aria per migliaia di anni, continuando a riscaldare il pianeta indipendentemente da quanto si ridurranno le emissioni. Per questo, il sogno dei geoingegneri si nutre dell’urgenza di cambiare il clima artificialmente, aspirando tutta l’anidride carbonica o raffreddando l’aria con deflettori solari. Ma tra le ipotesi degli esperti e quelle della politica non è sempre corso buon sangue: gli scienziati avevano liquidato come follie le soluzioni ingegneristiche, anche nel timore che sogni hi-tech potessero mettere in crisi i tentativi di convincere la gente a fare sacrifici per ridurre le emissioni. Inoltre, l’idea stessa di un cambiamento del clima deciso e attuato artificialmente spaventa l’opinione pubblica: se la scienza non riesce a fare nemmeno previsioni meteorologiche attendibili, come può riuscire a modificare il clima globale? Adesso, tuttavia, molti scienziati stanno iniziando a prendere sul serio la geoingegneria, se non altro per disperazione. Nel momento in cui un numero crescente di climatologi sono arrivati alla conclusione che i livelli già raggiunti di inquinamento da anidride carbonica stanno riscaldando il pianeta più rapidamente di quanto si pensasse, diventa sempre più difficile opporre resistenza a un piano di emergenza per salvare la Terra. I premi Nobel Paul Crutzen e Thomas Schelling concordano appieno sulla necessità di mettere a punto un piano del genere. La British Royal Society sta cominciando a valutare le varie opzioni.

L’Accademia nazionale delle scienze degli Stati Uniti ha convocato una conferenza nella quale si è parlato di ingegneria climatica. Michael Oppenheimer, climatologo di Princeton, ha commentato: “Non è ancora nelle agende politiche, ma ormai gli scienziati parlano di ingegneria climatica come di una opzione possibile”. Oppenheimer lavora in un team di esperti che deve redigere un rapporto per l'Accademia Nazionale delle Scienze nel quale si raccomanderà di adottare l'opzione geotermica per la politica climatica. E altri scienziati stanno iniziando a interessarsi sinceramente alla questione. Paradossalmente, l'alternativa geoingegneristica più rispettabile, la cattura dell'anidride carbonica, è anche la più costosa e quella che ha meno probabilità di contrastare un drastico aumento delle temperature. L'idea di ripulire l'aria è di gran lunga meno controversa rispetto all'idea di raffreddarla, in quanto ripulirla non comporta una massiccia emissione di nuovi gas serra o attrezzature particolari, e implica molti meno rischi che l'esperimento vada fuori controllo. Wallace Broecker e Klaus Lackner, climatologi della Columbia University, hanno proposto che la tecnologia utilizzata per catturare l'anidride carbonica negli impianti di carbone possa essere sperimentata nell'atmosfera. Indubbiamente sarebbe un'impresa immane. Ogni anno le industrie e le auto rilasciano 30 miliardi di tonnellate di anidride carbonica, che, se fossero convertite in forma liquida, in quattro anni riempirebbero una cavità sotterranea delle dimensioni del lago di Ginevra. E tutto ciò senza contare l'aumento annuale di emissioni dell'1,8% o i miliardi di tonnellate già accumulati nell'ultimo secolo e sulle quali non vi è una stima. Gli scienziati credono che nella profondità della Terra vi siano ancora rocce porose in abbondanza, in grado di contenere tutta l'anidride carbonica liquida che potremmo pompare, ma arrivare a quelle profondità richiederebbe anni e costerebbe miliardi. Anche immaginando che la spesa per la cattura dela CO2 possa scendere a 50 dollari alla tonnellata (oggi è di 200 dollari), il costo della sola rimozione delle emissioni dell'anno in corso sfiorerebbe i 150 miliardi di dollari. Diversa è invece l'idea che lanciò nel 2006 un chimico di nome Paul Crutzen con un articolo pubblicato sulla rivista Climate Change, nel quale riprese un'idea del fisico russo Mikhail Budyko, che nel 1974 aveva suggerito di far spargere da appositi aerei dell'anidride solforosa (SO2) nell'atmosfera, dove avrebbe reagito con acqua e altre molecole formando particelle di solfato, le medesime che sono presenti nelle ceneri vulcaniche. Nel suo articolo Crutzen faceva notare che la quantità di SO2 necessaria ad abbassare in modo significativo le temperature è sorprendentemente modesta: occorrerebbero circa 1,5 milioni di tonnellate per contrastare gli effetti di un raddoppiamento delle concentrazioni di anidride carbonica dai livelli pre-industriali al livello di 550 parti per milione (oggi siamo intorno a 385 parti per milione, ma prima che un qualsiasi procedimento possa influire in maniera incisiva, tale livello aumenterebbe di sicuro). Altri hanno calcolato una cifra pari a 5 milioni di tonnellate, una quantità che potrebbe essere gestita con facilità da una flotta di aerei al costo di pochi miliardi di dollari. Che sono assai pochi se si pensa che l'autorevole 'Rapporto Stern' del 2006 stima che i costi necessari a ridurre le emissioni del necessario per poter stabilizzare le temperature sono l'1% del Pil mondiale, mentre altre stime raggiungono addirittura il 4%. L'opzione di raffreddare il pianeta deflettendo i raggi solari è di gran lunga la più economica: con un millesimo dell'1%o del Pil "si potrebbe innescare un'era glaciale", assicura David Keith, fisico dell'Università di Calgary.

Con quali effetti collaterali? Uno degli svantaggi più preoccupanti dell'anidride solforosa è che essa distrugge lo strato dell'ozono che protegge la Terra, e ciò esporrebbe gli abitanti dell'emisfero australe a letali radiazioni ultraviolette. L'eruzione del Pinatubo, in effetti, allargò il buco nell'ozono sopra il Polo Sud soltanto di poco, mentre da alcuni studi risulta che un ingente rilascio di SO2 lo ingrandirebbe considerevolmente e forse potrebbe aprirne un altro sopra il Polo Nord. Per questo Keith sta progettando particelle più efficienti ai fini del raffreddamento dei solfati, ma prive di effetti collaterali. "Ci stiamo lavorando. Potrebbero anche rivelarsi inefficaci, ma una cosa è certa: se gli ingegneri ci si applicassero, di sicuro otterrebbero qualcosa di meglio dei solfati", commenta. L'effetto collaterale più devastante potrebbe però essere quello politico. Riuscire a ridurre con successo le temperature potrebbe frenare la volontà di procedere a costose riduzioni delle emissioni. Ma persino i più zelanti sostenitori sanno che ricorrere alla geoingegneria per mantenere artificialmente basse le temperature mentre i livelli di anidride carbonica continuano a salire vorrebbe dire raddoppiare il rischio di un rapido riscaldamento qualora il progetto di raffreddamento dell'aria dovesse essere repentinamente interrotto per una ragione qualsiasi. L'idea di condizionare il clima a piacimento può incutere timore e destare allarme, ma se il riscaldamento globale negli anni a venire accelerasse, qualsiasi metodo atto a fermarlo potrebbe iniziare a sembrare più sicuro dell'alternativa. Raffreddiamo la terra pianetaverde 19 maggio 2009 Mille idee contro l'apocalisse L'espresso 08 maggio 2009 Re-Engineering the Earth luglio-agosto 2009 Scientists Develop Air “Scrubber” Capable of Capturing 1 ton of CO2 a Day 07 giugno 2008 Is climate engineering a good strategy to combat global warming? The Pinatubo effect Carbon capture and storage - Wikipedia Geoengineering - Wikipedia THE FINAL WARNING Per James Lovelock, il biofisico inglese padre della teoria di Gaia, la questione non è più come bloccare l'effetto serra, ma come attrezzarci per affrontare al meglio l'inevitabile processo di riscaldamento del pianeta, che è già in atto. "Ormai è troppo tardi per fermare questo processo", spiega flemmatico il novantenne scienziato, che da mezzo secolo dispensa previsioni dal suo laboratorio, in un antico mulino in Cornovaglia, e ha appena pubblicato il suo ultimo libro, "The Vanishing Face of Gaia A Final Warning" (Penguin). Lovelock, Fellow della Royal Society e del Green College di Oxford, è noto soprattutto per aver messo a punto un metodo per lo studio dei clorofluorocarburi, che ha consentito di identificarli come principali responsabili del buco nell'ozono e ha portato al bando di questi

gas dall'industria del freddo. Già negli anni Sessanta, indagando per la Nasa sulle possibili forme di vita su Marte, Lovelock cominciò a rendersi conto del riscaldamento della Terra e a denunciarne le conseguenze. "Se ci fossimo mossi allora - smettendo di bruciare combustibili fossili, per bloccare subito le emissioni umane di anidride carbonica - forse avremmo potuto ottenere qualche risultato. Invece non è stato fatto nulla: malgrado Kyoto, la concentrazione di CO2 nell'atmosfera ha continuato ad aumentare. Arrivati a questo punto, non ha più senso parlare di sviluppo sostenibile. C'è un sacco di gente che viene da me per chiedermi di non dire queste cose, perché ci toglierebbero la volontà di agire. È vero il contrario. Dire la verità sul riscaldamento del pianeta ci impone un'enorme mole di lavoro. Ma non è lo stesso lavoro che vorrebbero fare loro". Lovelock conserva fino in fondo la verve polemica di sempre. Per decenni, la sua decisione di avallare l'energia nucleare pur di combattere l'effetto serra, gli ha alienato le simpatie dei compagni ambientalisti. Ma questo non lo ha fatto recedere. Oggi, man mano che le sue previsioni sul riscaldamento del pianeta si rivelano vicine alla realtà, questa posizione attrae sempre maggiori consensi. Tranne che ormai lui stesso l'ha superata. Sembra quasi che le sue teorie nascano dalla passione per l'eresia a tutti i costi. “Neanche per idea”, ribatte deciso, “la mia principale aspirazione è vivere in pace con tutti, ma non posso impedirmi di vedere le cose che accadono”. Nella sua ultima provocazione, Lovelock sostiene che nulla potrà più impedire alla Terra di diventare largamente inabitabile e quindi non si vede l'utilità di puntare tanto sulle fonti alternative: “È come passare il tempo a sistemare le sedie sdraio sul ponte, mentre il Titanic affonda”. Le vere emergenze, invece, sono altre: il cibo e l'acqua. "Entro la fine di questo secolo, vaste zone del pianeta diventeranno desertiche. Questo porterà a enormi migrazioni di massa verso le aree più abitabili, nelle zone artiche, dalla Groenlandia alla Siberia. L'umanità, decimata dalla fame e dalle epidemie, finirà per ridursi a un quarto di quello che è oggi, forse meno". Una catastrofe. “Eventi di questo tipo sono accaduti altre volte: fra le diverse glaciazioni ci sono state delle strozzature in cui l'umanità si è ridotta a non più di duemila esemplari. Oggi è più evoluta e quindi dovrebbe esserle più facile resistere. È la prima volta nella vita della Terra che una specie si dimostra capace di capire come funziona e perfino di modificare il corso delle cose”. I dati forniti dall'ultimo rapporto dell'IPCC – fa notare lo scienziato - coincidono sostanzialmente con le sue previsioni, dando come probabile un innalzamento della temperatura media fra 1,1 e 6,4 gradi entro la fine di questo secolo. "Siamo tutti consapevoli di cosa comporti questo per l'umanità, solo che non tutti lo dicono chiaramente". Già un aumento di due gradi - concordano i climatologi - porterebbe alla desertificazione di buona parte delle superfici coltivabili, compresa la Corn Belt americana e il Sud dell'Europa. Lo scioglimento dei ghiacciai europei e andini causerebbe gravissime siccità. “Questa è la vera emergenza: per affrontarla bisognerebbe puntare molto sul cibo sintetico, sulla desalinizzazione e sullo sviluppo di nuove tecnologie nuove in campo alimentare”. James Lovelock, ultimo appello del profeta di Gaia 23 marzo 2009 “One last chance to save mankind”, newscientist, 23 gennaio 2009 LINKS

IPCC - Intergovernmental Panel on Climate Change Ten ways to save the world Independent 15 marzo 2009 Shocking Climate Change Video - Tropicana Rainforest - Help Save The Amazon Rainforest - YouTube Una nuova Arca di Noè nell'Eterno Ritorno 22/03/09 EXTREME ICE ULTIMATUM ALLA TERRA ECO APOCALYPSE LA VERITA’ DEL GHIACCIO EFFETTO SERRA ALLA SBARRA ESTINZIONE GLOBALE 2022 i SOPRAVVISSUTI Oligopoly Inc. 2008 2 PIANO PER SALVARE IL MONDO 3.0 E VENNE IL GIORNO APOCALISSE MAYA COSMOGENESIS LA GUERRA DEGLI OGM 6 NATURA VS. CULTURA Il REGNO DI SATANA

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