CAPITOLO SECONDO
Giant steps: il percorso storico della musica jazz
2.1.
Dalle origini della musica afro-americana alla febbre per lo swing
Le radici È molto difficile fornire una data precisa di quando sia nata la musica jazz, di certo si sa che questo termine è apparso stampato, per la prima volta, con riferimento a una forma musicale nel 1913, in un giornale di San Francisco. Quando il termine fu adottato da una delle prime orchestrine di jazz che dalla città di New Orleans salirono al Nord, a Chicago e a New York, la Original Dixieland Jazz Band diretta da Nick La Rocca, la parola non aveva, in ogni modo alcun significato per l’americano medio, e la musica che essa voleva indicare rappresentava una novità e un motivo di curiosità per quasi tutti [Polillo 1980, 595].
Il processo che portò alla definizione del jazz come musica dalle caratteristiche proprie e innovative fu molto lungo e attraversò molte fasi della storia degli Stati Uniti e, in seguito, anche del resto del mondo, in particolare dell’Europa e del Sud America. Tutto ebbe inizio si-
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curamente da un avvenimento storico drammatico come quello della deportazione degli schiavi africani negli Stati Uniti, in particolare negli stati del Sud. Per rendere l’idea delle dimensioni di questo fenomeno è importante fornire qualche dato numerico. Su un totale di undici milioni di africani deportati due milioni sarebbero morti nel tragitto, mentre sei sarebbero stati utilizzati nelle piantagioni da zucchero, due in quelle di caffè, uno nelle miniere, uno nei lavori domestici, mezzo milione nelle piantagioni di cotone, 250.000 a coltivare cacao, e altrettanti impiegati nelle costruzioni. Di questi solo 500.000 negli Stati Uniti, mentre ben quattro milioni in Brasile, due milioni e mezzo nell’impero spagnolo, due nelle Indie occidentali inglesi, 1.600.000 in quelle francesi, 500.000 nelle Indie occidentali olandesi, 28.000 in quelle danesi e 200.000 in varie zone europee [Thomas 1997, 804].
In realtà, quindi, il numero degli schiavi africani negli Stati Uniti non era così alto rispetto a quello di altri paesi. Fu il fatto che questi neri si trovarono in un territorio culturalmente “vergine” e a contatto con altre culture completamente diverse dalla loro, e parlo non solo delle culture europee ma anche di quella dei nativi d’America, a dare l’input per lo sviluppo di nuove forme culturali e musicali. Nacquero perciò in tutti gli stati, e soprattutto nelle grandi città mantenendo quasi intatte le caratteristiche originarie, queste “isole etniche”, divenendo custodi gelose di quel patrimonio portato dai paesi d’origine che , a livello musicale, avrebbe costituito la base composita e ricchissima (perché in grado di utilizzare molteplici esperienze) che creò e rafforzò il particolarissimo humus che al jazz avrebbe fornito le sue inimitabili caratteristiche [Roncaglia 1998, 10].
Con il passare del tempo, poi, queste “isole etniche” pian piano cominciarono a fondersi culturalmente, soprattutto dopo l’abolizione della schiavitù. Attraverso un processo che l’antropologia ha definito con il termine sincretismo, cioè in conseguenza dell’interazione di sistemi linguistici, di stili di vita, di costumi profani e tradizioni religiose, di riti e di attività espressive, il contatto tra mondo bianco e nero, dopo quello fra africani e musulmani, ha offerto alla civiltà contemporanea una variante afro-americana di cui la musica rappresenta l’indiscussa priorità in termini quantitativi e qualitativi [Cerchiari 1999, 38].
Fra tutte le etnie la più prolifica dal punto di vista musicale, almeno all’inizio, fu di certo quella africana, che in particolare nel XIX secolo
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diede vita a molte forme musicali, che avrebbero dato il via allo sviluppo del jazz. Tra queste molte erano legate al mondo religioso. L’avventura americana, esaltante o traumatica che sia, e con le infinite sfumature intermedie, nasce nel segno del binomio musica-religione, e, all’inizio al suono povero ma puro, semplice nell’assolo, avvolgente e circolare nella dimensione del coro, della voce umana [Cerchiari 1999, 49]. Il canto spirituale nero ha origini remote, che potrebbero farsi risalire alle prime forme di mercato degli schiavi provenienti dall’Africa nera e sbarcati sulla Congo Square, la grande antica piazza di New Orleans tristemente nota perché lì si svolgeva la compravendita della mano d’opera africana, destinata a consumare i suoi giorni nelle grandi piantagioni di cotone adiacenti il delta del grande fiume [Mauro 1994, 9-10].
L’importanza del rito religioso, sia per i neri come motivo di aggregazione, sia per i bianchi, che lo utilizzavano per controllare gli schiavi, fu indiscutibile. Infatti le coscienze individuali sono di per sé chiuse le une alle altre; esse possono comunicare soltanto per mezzo di segni in cui si traducono i loro stati interiori. Perché il rapporto che si stabilisce tra loro possa sfociare in una comunione, cioè in una fusione di tutti i sentimenti particolari in un sentimento comune, occorre dunque che i segni che li manifestano si fondano anch’essi in una sola e unica risultante. L’apparizione di questa risultante avverte gli individui di essere all’unisono, e li conduce ad assumere coscienza della loro unità morale: lanciando uno stesso grido, pronunciando una stessa parola, eseguendo uno stesso gesto concernente uno stesso oggetto essi si mettono e si sentono d’accordo [Durkheim 1963, 253]. I riti e le funzioni religiose, come le festività civili, hanno il compito di tenere viva la coscienza collettiva rinnovando quei momenti particolarmente intensi di collaborazione e fusione degli individui in cui essa si è formata o rinnovata [Izzo 1991, 205-206].
La religione si rivelò quindi il mezzo più efficace per neutralizzare lo schiavo, che aveva la facoltà di spostarsi solo per recarsi sui luoghi di lavoro e in Chiesa. Proprio qui nacquero i canti religiosi come lo spiritual e il gospel, che avevano preso spunto dai camp meetings dove gli africani avevano portato il loro patrimonio musicale. In pratica lo spiritual era un modo di cantare (anzi di urlare, mutuando lo stile shuot di certi canti del Sud) che venne via via assumendo caratteristiche originali, musicali innanzitutto, perché accompagnato dal battere delle mani o dei piedi dei presenti (si immagini il risultato della cosa
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quando aveva luogo all’interno delle chiese, costruite in genere in legno e con l’impiantito fatto di tavole sostenute da pali per dividere il corpo del fabbricato dall’umido del terreno sottostante...), ma anche, e chiaramente, “politiche”. Le riunioni religiose, di fatto, si trasformarono quindi ben presto in corali ansiti della libertà [Roncaglia 1998, 41].
Significativi sono, a questo riguardo, i primi versi di uno degli spiritual più famosi, Go Down, Moses: When Israel was in Egypt’s Land, Let my people go. Oppressed so hard they couldn’t stand, Let my people go. Go down, Moses, way down in Egypt’s Land, Tell old Pharaon, let my people go.
Quando Israele era nella terra d’Egitto, Lascia andare la mia gente. Oppressi così duramente da non poter restare, Lascia andare la mia gente. Scendi giù, Mosè, vieni giù nella terra d’Egitto, Dì al vecchio faraone, lascia andare la mia gente.
Tabella 1.
I sorveglianti spesso lasciavano sfogare i neri, sapendo che così avrebbero lavorato di più il giorno successivo, ignorando che proprio i pastori neri sarebbero divenuti in breve tempo le vere e proprie guide del popolo africano negli Stati Uniti. Il predicatore, come ha notato Eric C. Lincoln, già all’epoca della fine della Guerra Civile svolgeva il ruolo di educatore, liberatore, capo politico, persino guaritore, oltre che difensore e leader spirituale. Ma il suo particolare genio gli derivava dal fatto di essere vicino alla gente. La maggior parte dei predicatori veniva non dall’esterno, ma dall’interno della comunità. Il predicatore era più che un leader e pastore, era la proiezione delle persone della comunità: impegnato contro le avversità, simbolo del loro successo, intento a denunciare i loro oppressori con intelligenti metafore, e a prepararle al giorno del Giubileo, che avrebbe portato la loro liberazione [Cerchiari 1999, 96].
Proprio per questo, forse, si ebbe quel processo di identificazione e attribuzione di valenze colloquiali, amichevoli, familiari, con i personaggi biblici; per avvicinare queste figure alla vita quotidiana degli schiavi. Va sottolineato come questi rituali non siano nati col popolo afroamericano, che ne ha però fatti propri più d’uno, ma abbiano origini ben più antiche, che affondano nei rituali liturgici cristiani. Un carattere tipico del canto comunitario settecentesco è il cosiddetto lining out,
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cioè la prassi di recitare (intonando o meno) un verso da parte del predicatore, e di far seguire l’enunciazione dello stesso verso, immediatamente, da parte dei fedeli, creando una ricorrente struttura responsoriale: essa corrisponde esattamente, fatto salvo il contesto funzionale, al principio africano indicato in lingua inglese con il termine di call and response, chiamata e risposta [Cerchiari 1999, 77].
Il call and response era molto utilizzato anche nei work songs, i canti che venivano intonati nei campi di cotone, spesso addirittura per controllare lo schiavo mentre lavorava e assicurarsi che non scappasse. Il carattere dei work songs è molto vario e ci sono canzoni di protesta, critica sociale, canzoni su episodi di vita vissuta o di cronaca. Uno dei più famosi è quello che narra la vicenda di Ol’ Riley, fuggito da un penitenziario dopo la morte della moglie, o ancora di John Henry, o di altri eroi della mitologia dei neri d’America. A ogni modo, fu da queste prime forme musicali che nacque il più vicino parente del jazz, cioè il blues. Non per nulla si può dire che il jazz sia nato quando si cominciarono a suonare, oltre che a cantare, i blues, ciò che divenne possibile soltanto alcuni anni dopo la Guerra Civile, quando gli schiavi liberati poterono acquistare degli strumenti musicali [Polillo 1975, 37].
Di sicuro il blues non è tutto il jazz, ma tutto il blues è jazz. Esso rappresenta il ponte di unione fra il folk-song del Sud e la complessità armonica, l’organizzazione ritmica dei primi gruppi di improvvisatori jazzistici. La progressione armonica tipica del blues, nella sua forma consolidata, è quella di tonica-sottodominante-dominante (che certo non è di origine africana): altrettanto tipica di questa forma musicale è la cosiddetta scala blues, in cui il terzo e il settimo grado della scala maggiore sono leggermente abbassati e sono detti blue notes [Polillo 1975, 38].
Figura 1.
Scala blues ascendente e discendente nella tonalità di Fa.
L’immagine seguente rappresenta proprio la classica struttura del blues
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in dodici battute. Va ricordato, però, che questa struttura è solo una struttura di base e che, col passare del tempo, è stata sottoposta a notevoli variazioni. Soprattutto nel periodo del bebop, quando, per inserire frasi melodiche ricche di cromatismi, si dovettero alterare gli accordi.
Figura 2.
Struttura armonica di un classico blues in dodici battute nella tonalità di Fa.
Ecco, quindi, che il jazz rivela la sua natura composita, che gli deriva dall’essere crocevia di musiche differenti e antiche quali come accennato, il blues. È facile dire che il jazz non sarebbe potuto esistere senza il blues e i suoi vari antecedenti. Ma è inesatto considerare il jazz come un successore del blues: il jazz è una musica originale che si è sviluppata dal blues e allo stesso tempo è concomitante con esso, e poi si è sviluppata su una strada autonoma. È invece interessante ricordare che blues, in seguito, indicò un modo di suonare il jazz, e che con l’era dello swing, la grande popolarità dei cantanti blues era stata soppiantata da quella dei jazzisti. Da allora, per molti, il blues non fu più un genere musicale separato [Baraka 1963, 77].
Le parole di Amiri Baraka rendono chiaro il filo sottile che lega blues e jazz e sottolineano, ancora una volta, l’importanza della particolare mistura culturale in cui è nata la musica afro-americana. Si pensa comunemente che il jazz sia nato a cavallo del secolo, ma le musiche da cui deriva sono molto più antiche. Il blues è il padre legittimo di tutto il jazz. Non è possibile dire con esattezza quanto sia vecchio il blues, ma di certo non è antecedente alla venuta dei neri negli Stati Uniti. È una musica indigena americana, il prodotto dell’uomo nero in questo paese o, per dire esattamente come vedo la questione, il blues non
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avrebbe potuto esistere se gli schiavi africani non fossero diventati degli schiavi americani [Baraka 1963, 35-36].
Al di là della forma classica del blues in dodici battute, che è stata comunque soggetta a variazioni e personalizzazioni nel tempo, quello che credo sia interessante dal punto di vista sociologico sta nel contenuto dei testi dei blues, che si concentrano su pochi temi principali e che rispecchiano la condizione esistenziale del nero americano di quel periodo. Nelle strofe del blues l’universo dolente e squallido del negro americano si tradusse in poesia. Ma era ed è una poesia di tipo nuovo. Avere i blues è qualcosa di diverso dall’essere triste dell’uomo bianco. È essere afflitti da un tedio esistenziale, da una malinconia greve che non lascia spazio alle fantasticherie, vuol dire autocommiserazione, rassegnazione, vuol dire disperazione sorda, grigiore, miseria. È una poesia fondata sulle cose di tutti i giorni, su personaggi familiari, visti in una luce realistica, con occhio disincantato. Non c’è, ne ci vuole essere, nel blues, trasfigurazione lirica, che è un lusso da bianchi; non c’è dramma, perché il dramma è fatto di ombre ma anche di luci. C’è invece la consapevolezza di una tragedia in atto che non finirà mai. Il bluesman non canta la vita, ma il non morire, parla sempre di ciò che non ha e che non avrà mai [Polillo 1975, 43].
Il blues è infatti espressione di una condizione esistenziale di estrema sofferenza; viene spesso denunciata la mancanza di una casa, di un luogo con persone amiche o ancora le condizioni di lavoro disumane. Il blues canta di molte cose che si sono perdute: dell’amore perduto e della felicità perduta, della libertà perduta e della dignità umana perduta. Spesso ne canta come attraverso un velo di ironia. La simultaneità di tristezza e di humour è caratteristica del blues [Berendt 1979, 71].
Un tema di blues che costituisce quasi un filone a sé tanto è numeroso, è quello che racconta le difficoltà di relazione tra uomo e donna all’interno della società afro-americana. Chiamati, non a caso, “blues del letto vuoto”, esprimono l’incapacità e la difficoltà da parte del nero americano nel costruire e mantenere una famiglia stabile. Ciò è dovuto sia a un complicato gioco di ruoli fra uomo e donna, sia alle frequenti infedeltà coniugali radicate nel comportamento degli schiavi da parte dei padroni, che vedevano così aumentare la loro forza lavoro. Le difficoltà da parte dello schiavo nero nel sostenere il ruolo maschile, dovute alla scarsità di lavoro per gli afro-americani maschi, rendeva di fatto la
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donna l’unico capo della famiglia. Il risultato era appunto la fuga del maschio e la conseguente conclusione della donna che l’uomo fosse un buono a nulla. Anche la cantante Bessie Smith ebbe successo cantando proprio uno di questi blues. Non mancano, poi, i blues di soggetto erotico, alcuni scritti forse per riscattare la condizione di inferiorità del maschio afro-americano. In gran parte di questi blues, il cantante, uomo o donna, descrive le abilità e le prodezze amatorie proprie o dell’amante, usando talvolta espressioni brutalmente esplicite, più spesso usando metafore pittoresche, come quelle che si riferiscono ai motori delle automobili, divenute popolarissime dopo il lancio del modello T della Ford [Polillo 1975, 49].
Non aveva importanza se tutto ciò fosse vero o meno: il nero americano sa che il bianco lo ritiene superiore a lui dal punto di vista sessuale. È stato questo l’unico conforto per il suo ego per anni e anni. Il blues, prima dei cantanti di blues classico, era una musica quasi esclusivamente funzionale, e prendeva vita da un’altra musica, il canto di lavoro, che esisteva solo come sistema di comunicazione strettamente empirico e parziale tra gli schiavi. Ma l’idea che il blues potesse essere in qualche modo reso professionistico e trasformato in uno spettacolo con spettatori paganti, fu una vera e propria rivelazione [Baraka 1963, 99-100].
Da un punto di vista sociologico il blues segnò quindi l’ingresso dei neri nel mondo dello spettacolo, con tutte le implicazioni psicologiche che un simile fenomeno comportò. Ecco perché il blues viene ancora oggi considerato il più vicino parente del jazz: perché fornì una struttura armonica poi ripresa da molte composizioni jazz, perché si basava su una forte componente improvvisativa, perché fu la prima vera nuova espressione musicale negli Stati Uniti e perché permise agli afro-americani di esprimere il loro pensiero più o meno liberamente, elemento questo che sarà ripreso in maggior misura dalle generazioni di jazzisti che, in alcuni casi, ebbero la possibilità di farsi portavoce dei problemi del popolo afro-americano. L’ingresso nel mondo dello spettacolo era poi un valido modo per liberarsi dalle fatiche del lavoro da schiavo. Chiaramente, i primi musicisti neri non erano certo considerati artisti dal pubblico bianco e, anzi, i primi dischi di blues erano destinati a un pubblico di soli neri.
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Fu negli anni Venti, infatti, che alcune case discografiche, cercando nuovi sbocchi commerciali, scoprirono la redditività del canale nero: nacquero così le collane discografiche chiamate race records (dischi di razza), riservate al solo mercato dei neri. Con questi dischi venne fissato sui solchi il ricchissimo patrimonio musicale di cui si è parlato, e soprattutto il blues vocale e orchestrale [Roncaglia 1998, 64].
L’importanza del fattore commerciale nel jazz è testimoniata anche dal fatto che il film che segnò l’avvento del sonoro nella storia del cinema fu The Jazz Singer. Girato nel 1927 da Alan Crosland, vide la presenza di Al Jolson, un famoso cantante dell’epoca, come protagonista, e fu la prova che oramai il jazz iniziava ad assumere quelle caratteristiche peculiari che lo rendevano riconoscibile dal grande pubblico come un genere ben definito.
Figura 3.
La locandina del film The Jazz Singer.
Chiaramente l’inizio non fu facile, anche perché i neri americani erano considerati dalla popolazione bianca come degli animali. Ecco perché i primi spettacoli degli afro-americani li vedevano in vesti quasi da circo, nei cosiddetti minstrelsy show.
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Si trattò, evidentemente, di un’espressione squisitamente ziotomistica: ma in ciò risiede il più evidente legame con il jazz degli anni a venire. Gli spettacoli di minstrels neri rappresentano infatti la più evidente esemplificazione delle origini di una condizione che, allora come negli anni futuri, avrebbe costretto il nero americano a subire una stabile dipendenza nei confronti dei bianchi, dovendone adottare, come conseguenza, anche le concezioni estetiche (e quindi di spettacolo) per fuggire a una situazione esistenziale estremamente miserevole, per ottenere nell’universo bianco una piccola, piccolissima parte di benessere [Roncaglia 1998, 59-60].
A volte, addirittura, erano gli stessi bianchi a truccarsi da neri accentuando tratti somatici e comportamenti, facendo così una caricatura di ciò che loro pensavano fossero gli afro-americani. Questi minstrels show erano in America un fenomeno di estrema importanza da un punto di vista sociologico. L’idea di uomini bianchi che, per divertire altri bianchi, fanno l’imitazione o la caricatura di certi atteggiamenti che essi considerano tipici del nero americano, è di enorme interesse, se non altro per la reazione dei neri di fronte a un simile fenomeno. Sono anche sicuro che molti americani bianchi non abbiano mai giudicato tragica la condizione dei neri [Baraka 1963, 87].
A ogni modo il nero americano era entrato nel mondo dello spettacolo, e di lì a poco avrebbe iniziato la sua scalata verso il successo. Oltre al blues, va detto che anche un altro genere musicale contribuì alla nascita del jazz, il ragtime. Una musica che fornì un essenziale contributo alla nascita del jazz fu, a differenza del blues, allegra, estroversa, creata per il sorriso e il divertimento dell’ascoltatore [Roncaglia 1998, 85].
Anche in questo caso non si trattava certo di veri e propri concerti, più che altro i pianisti di ragtime suonavano nei bordelli, nei jukes e nei saloon, per intrattenere i clienti. Tutti questi elementi descritti fino a ora crearono il singolare miscuglio culturale e musicale che diede vita alle prime forme del jazz. New Orleans e Chicago La città che più di ogni altra aveva quelle caratteristiche composite, sia dal punto di vista razziale sia religioso, che servivano al jazz, era New Orleans. Lì vi era un insieme di popoli e razze, essendo stata dominata, nel tempo, da spagnoli, francesi, inglesi e anche italiani. Nelle sue stra-
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de, infatti, da sempre si potevano ascoltare canzoni popolari inglesi, danze spagnole, marcette alla francese, bande militari; oppure era molto frequente sentire nell’aria le più svariate linee melodiche uscire dalle diverse Chiese cattoliche o battiste, metodiste o puritane: tutti questi suoni mescolati divennero ben presto patrimonio delle comunità nere, che le eseguivano alla loro maniera, ricollegandole alle antiche tradizioni di derivazione africana. Se a New Orleans non fossero esistite certe particolarissime situazioni culturali e sociali e non si fosse sviluppato, in conseguenza di esse, un certo idioma musicale, il jazz sarebbe probabilmente esistito egualmente (i folk songs negro-americani, gli spettacoli dei minstrels, il blues, la musica bandistica di origine europea e infine il ragtime, che del jazz costituiscono i presupposti e l’humus, non hanno avuto origine a New Orleans, dopotutto) ma sarebbe stato diverso. Forse anche profondamente diverso [Polillo 1975, 73].
Una delle caratteristiche forse più interessanti di New Orleans è che nella città convivevano due comunità nere profondamente diverse tra loro, ognuna con il proprio patrimonio etnico e culturale: i creoli e quelli che possiamo definire, più genericamente, i neri americani. I creoli, di discendenza franco-coloniale, non avevano condiviso le medesime origini dalla schiavitù dei neri americani, dal momento che i loro antenati erano stati liberati molto tempo prima dai ricchi proprietari agrari francesi. Per questo sentivano molto più attenuata l’originaria discendenza africana e vivevano con minori remore la contaminazione con la cultura bianca; anzi, avevano radicata una profonda discendenza dalla cultura francese e la loro stessa lingua proveniva dal francese, e non era l’inglese. Così, mentre i neri americani costituivano la parte più povera del proletariato di New Orleans, molti creoli erano ben integrati nella realtà economico-sociale della città e avevano un’estrazione piccolo borghese; i loro pregiudizi razziali nei confronti della rimanente popolazione nera erano addirittura più forti di quelli dei banchi. Questa contaminazione si riflesse, ovviamente, anche nella tradizione musicale nera, nella quale i creoli introdussero molti elementi della cultura musicale franco-europea. Lo stile di New Orleans nacque dall’incontro tra questi diversi gruppi: nello Storyville, il quartiere riservato alle case di tolleranza, che con i suoi innumerevoli locali costituiva un formidabile punto di ritrovo e il trampolino di lancio per i diversi musicisti e cantanti; nelle strade della città, dove si esibivano le bands dei cortei funebri che ac-
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compagnavano i defunti al cimitero suonando musiche di circostanza e che tornavano in città suonando musiche colorite e allegre; durante i festeggiamenti del carnevale. La musica si suonava in misura maggiore nelle case di piacere, che offrivano un ambiente lussuoso e donne giovani ai ricchi borghesi bianchi alla ricerca di nuove sensazioni.
Figura 4. Una tipica formazione jazzistica di New Orleans: la King Oliver Creole Jazz Band. Il quarto in piedi da sinistra è il trombettista Louis Armstrong [RHJ].
Il musicista più noto in quel periodo, assieme a un giovane trombettista esordiente di nome Louis Armstrong, di cui avremo modo di parlare più avanti, fu il pianista Jelly Roll Morton. Personaggio pittoresco, si vantò più volte di avere “inventato il jazz nel 1912”, cosa chiaramente difficile da dimostrare e che gli creò molti problemi di convivenza con gli altri musicisti. Nonostante ciò fu certamente uno dei musicisti più famosi della prima storia del jazz, sia per la sua abilità al pianoforte sia perché, con i suoi modi strafottenti e i suoi loschi affari, faceva sempre parlare di sé. Aveva iniziato a suonare nei bordelli e lì aveva sviluppato la sua musica ragtime decisa ma discreta, fatta apposta per accompagnare pia-
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cevolmente le ore di permanenza dei clienti nei bordelli di New Orleans. In seguito, anche se continuò a gestire molti di questi locali, non vi suonò più, ma formò un suo gruppo, i Red Hot Peppers, col quale incise dei dischi considerati dei capolavori del jazz tradizionale. Questo però, fu uno dei pochi momenti in cui il jazz degli esordi si staccò dal giro della prostituzione. D’altronde era quello l’unico modo per i neri di suonare la loro musica, e il farlo è stato sempre per loro un’importante fonte di occupazione libera, nell’ambito delle ristrette possibilità a loro offerte dall’economia bianca degli Stati Uniti. Per lungo tempo, quindi, la musica jazz fu accomunata al vizio, al racket, alla delinquenza, sino a quando nel 1917 il quartiere a luci rosse di Storyville fu chiuso. Ne seguì un esodo verso il Nord dei jazzisti della città del delta. In realtà, l’avvento del proibizionismo non fu l’unica causa di questa fuga di massa, anche la scarsità di cotone provocò una forte ondata di disoccupazione. Fu per questa somma di ragioni quindi, e non soltanto per la chiusura di Storyville, che anche i jazzmen dovettero decidersi a tentare la via della migrazione verso il mitico Nord, ponendo così termine di fatto all’epoca preistorica del jazz, che avrebbe in tal modo cessato di essere una musica di derivazione folkloristica e limitata a una ristretta area geografica, per inserirsi sempre più nel contesto della società, allargando in misura sino ad allora impensabile i propri limitati orizzonti [Roncaglia 1998, 107].
Una delle mete più gettonate dopo New Orleans fu Chicago, qui il jazz assunse subito caratteristiche assai diverse da quelle originarie, probabilmente per l’uso del sassofono che mal si conciliava con il contrappunto delle origini. Lo stile di New Orleans, chiamato anche dixieland, era caratterizzato dall’esecuzione di linee melodiche improvvisate in collettivo su semplici e tradizionali progressioni armoniche, con la presenza centrale di tre strumenti tromba, trombone e clarinetto accompagnati da una sezione ritmica, che si inseguono in un alternarsi di elementi contrappuntistici innestati l’uno sull’altro. L’elemento ritmico era molto vicino a quello della musica bandistica di derivazione europea, con gli accenti sul primo e sul terzo tempo di una battuta di quattro. Oltre a questi elementi tecnici ci fu il fatto che anche qui, spesso, la musica jazz era suonata in locali frequentati dai gangsters e dalla malavita cittadina, il che contribuì a peggiorare la fama della nuova musica. Ne è testimone George Wettling, un batterista che divenne anch’egli assai noto e che ricorda: “Una volta, al Triangle Club, spararono
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allo stomaco del padrone... ma noi continuammo a suonare”. Durante gli anni Venti, l’originario stile di New Orleans trovò, quindi, la sua vera fioritura a Chicago, e qui si affermò definitivamente.
Figura 5. Una foto della Original Dixieland Jazz Band. Fu il primo gruppo di jazz a incidere un disco il 26 febbraio 1917. Per ironia della sorte era formato esclusivamente da musicisti bianchi [OD].
Insieme allo stile di New Orleans anche il blues trovò negli anni Venti il suo periodo d’oro. Nella southside di Chicago, il quartiere nero, si sviluppò una fervente attività musicale e jazzistica. Qui vennero incisi i primi capolavori del jazz da parte delle bands guidate da King Oliver, poi da Louis Armstrong, Johnny Dodds, Jelly Roll Morton, Jimmie Noone. Contemporaneamente a questa massiccia affermazione dello stile di New Orleans a Chicago, un gruppo di musicisti bianchi, dilettanti e professionisti, maturò una propria interiorizzazione del jazz suonato dai neri, dando vita ad uno stile proprio. Ancora una volta come per il dixieland, gli elementi della cultura occidentale e bianca contaminarono abbondantemente il jazz nero. Partendo dal modello di improvvisazione collettiva dello stile New Orleans, a poco a poco, la sensibilità bianca, derivata dai modelli musicali europei e folkloristici
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dello hillbilly e dello shiffle, introdusse soluzioni armoniche più raffinate e, sempre crescendo, la valorizzazione dell’elemento solistico che, all’apice dello stile di Chicago, si tradurrà nella preponderanza dell’improvvisazione del singolo e nella dominazione del sassofono, nonché nella nascita delle grosse formazioni, annunciando il jazz degli anni Trenta. Tra i solisti di spicco di quel periodo vanno citatati Bix Beiderbecke, Bud Freeman, Pee Wee Russell, Muggy Spainer. New York e l’emancipazione New York fece ufficialmente la conoscenza del jazz nel 1917, con la Original Dixieland Jazz Band. In realtà, però, il jazz nella metropoli venne subito manipolato, modificato, sia dai musicisti, sia dal pubblico, sia dalla città stessa con le sue contraddizioni culturali, e assunse, col passare del tempo, forme ben diverse da quelle che aveva avuto in passato. Proprio nella Grande Mela il jazz ebbe modo di emanciparsi un po’ dalle caratteristiche folkloriche che l’avevano distinto nei primi anni, per trasformarsi nella nuova musica che sarebbe dilagata in ogni parte del mondo. I conflitti razziali non erano ancora stati appianati, e le bands difficilmente presentavano al loro interno organici misti. Si svilupparono quindi, all’inizio, una via bianca e una nera al jazz. In particolare nel ghetto nero di Harlem, il jazz subì profonde trasformazioni; lì vi era un jazz più autentico, più vicino allo spirito dei neri americani, più “selvaggio”. La musica suonata nei locali di Harlem era spesso una musica più sperimentale, d’avanguardia, una musica che veniva poi ripulita e presentata al grande pubblico bianco con una veste più consona. Molta gente anche a New York non era quindi ancora pronta per il jazz, almeno per quello più vero, più carico di implicazioni anche sociologiche. Fu per questo, probabilmente, che nacque il cosiddetto jazz sinfonico, una musica che pur utilizzando alcuni apparenti stilemi jazzistici, si presentasse in modo “pulito” e “dignitoso”. Il modo di suonare dei bianchi era più razionale, più costruito, più individuale, anche se, in molti casi, meno spontaneo e istintuale rispetto al modo di suonare dei neri. Personaggi come il violinista bianco Paul Whiteman avevano capito che cosa voleva il pubblico americano di allora e avevano saputo sfruttare il loro fiuto per arricchirsi enormemente. L’opera gershwiniana, nata dall’accoppiata del compositore con il leader bianco, fu, come ormai è universalmente riconosciuto, la celeberrima Rhapsody in Blue, che
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per decenni sarebbe stata usata per indicare ai pubblici di tutto il mondo non disposti a subire la “rozzezza” del jazz ciò che il jazz “avrebbe potuto essere”. Il successo, sin dalla prima esecuzione, fu enorme: si valuti il fatto, per offrire il destro di equamente considerarlo, che persino grandi musicisti classici europei come Leopold Stokowsky e Sergei Rachmaninoff furono presenti alla prima, il 24 febbraio 1924 [Roncaglia 1998, 145].
Harlem seppe però difendere, e bene, il jazz. Non poche orchestre bianche, però, stavano contemporaneamente nascendo e consolidando la loro presenza, assumendo caratteristiche originali e di notevole interesse; la 52a strada (situata a due passi dalla 5a avenue) vantava, durante il proibizionismo, decine di speakeasies, che con l’abolizione del regime secco divennero uno dopo l’altro locali jazzistici, e in cui non pochi musicisti avrebbero trovato per anni stabile collocazione, tanto da far soprannominare la 52a “The Street”, cioè “La Strada” per antonomasia [Roncaglia 1998, 147].
Il periodo di benessere che colpì gli Stati Uniti, jazz compreso, si interruppe bruscamente nel 1929 con la crisi economica di Wall Street. Dal 1925 al 1929, fino a quando, cioè, la grande crisi economica piombò l’America nella disperazione, la musica jazz attraversò il suo primo periodo d’oro. Durante quegli anni brillarono soprattutto le stelle di Louis Armstrong, di Bix Beiderbecke e di Fletcher Henderson e ascese quella di Duke Ellington, che andò ad affiancare Henderson nella sua opera di definizione e di arricchimento del linguaggio del jazz per grande orchestra. Attorno a loro, il coro dei comprimari e delle comparse: uomini, in gran parte, pieni di entusiasmo e consapevoli della possibilità che era loro offerta di giocare un ruolo nella invenzione di una musica nuova [Polillo 1975, 127].
Il 29 ottobre 1929, il cosiddetto giovedì nero di Wall Street, segnò l’inizio di un periodo di grande difficoltà per l’intero paese. Aumentò enormemente il numero dei disoccupati, soprattutto fra i neri, molti locali furono costretti a chiudere e la gente non aveva più il denaro sufficiente per uscire la sera. Quelli che avevano un lavoro pagavano da bere a chi non stava lavorando. Questo era una specie di accordo di mutua assistenza; chi poteva pagar da bere oggi avrebbe potuto aver bisogno che qualcun altro gli offrisse da bere domani [Polillo 1975, 149].
Queste difficoltà costrinsero molti musicisti a trasferirsi nuovamente, questa volta addirittura in Europa. La crisi americana del 1929 costituì una grossa battuta di arresto per il jazz; in quell’occasione molti
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musicisti furono costretti a cambiare mestiere o a trovare qualche impiego nei locali gestiti dai gangsters, dediti al controllo della prostituzione e al traffico clandestino di alcolici durante il proibizionismo. Proprio grazie a queste possibilità, il jazz continuò a sopravvivere, specialmente nella città di Kansas City, dove la vita notturna non ebbe praticamente interruzioni e crisi, nei locali gestiti dai boss della malavita bianca. A Kansas City si affermarono alcune delle più importanti orchestre di quel periodo, come quella di Benny Noton o quella di Count Basie, e trovarono il loro momento di gloria i grandi solisti come Ben Webster, Coleman Hawkins e Lester Young, o le grandi cantanti come Billie Holiday. Kansas City vide nascere una vera e propria scuola solistica che formerà alcuni dei grossi nomi del jazz moderno, uno tra tutti: Charlie Parker. I locali di Kansas City erano famosi per le jam sessions che vi si svolgevano e alle quali prendevano parte i migliori musicisti presenti in città, fra cui i bianchi non erano minimamente rappresentati [Polillo 1975, 158].
Il jazz di Kansas City era diverso da quello suonato a New York nei locali di Harlem. A Kansas City si sviluppò anzi uno stile di jazz con caratteristiche abbastanza peculiari, grazie soprattutto alla soverchiante influenza del blues e alla presenza di alcuni musicisti di grande personalità, come il pianista e caporchestra William Count Basie e Lester Young, un tenorsassofonista che sarebbe stato pienamente compreso soltanto alcuni anni più tardi [Polillo 1980, 598].
Bisognerà comunque attendere il superamento della crisi economica per assistere al rilancio in grande stile del jazz quando, verso la metà degli anni Trenta, raggiunse, con le grandi orchestre swing, il suo culmine commerciale, segnando contemporaneamente la sua decadenza, logorato dal suo stesso successo, nel momento in cui le esigenze commerciali soppiantarono la spontaneità e la vitalità delle origini. L’era dello swing Fortunatamente, con l’arrivo del presidente Roosvelt, i problemi economici nazionali furono in parte risolti già dai primi anni ’30. Le reazioni positive, nel mondo del jazz, non tardarono; il jazz, sia chiaro, non era
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sparito dal mondo dello spettacolo, anche se molti musicisti erano stati costretti a trovarsi altri lavori per l’insufficienza degli ingaggi dovuta alla situazione generale, stiracchiando giorno dopo giorno i mesi in attesa che qualcosa di nuovo accadesse. E qualcosa di nuovo, di veramente nuovo, puntualmente accadde [Roncaglia 1998, 163].
Grazie a musicisti come Benjamin David Goodman, Duke Ellington, Count Basie, Glenn Miller, Tommy Dorsey, Fletcher Henderson e molti altri band leader si aprì, nel decennio che va dal 1935 al 1944, uno dei capitoli più positivi nella storia del jazz. L’era delle orchestre swing è stata la prima volta in cui il jazz, ed alcuni suoi stretti derivati, sono entrati a pieno titolo nel calderone della musica pop. La gente, recandosi al lavoro, fischiettava i brani più famosi, i musicisti divennero autentiche celebrità sotto il costante assedio dei fan, e artisti di successo come Artie Shaw, Glenn Miller e Harry James riuscirono a vendere milioni di dischi [Carr 1998, 38].
Fu Benny Goodman, clarinettista, a dare l’avvio alla febbre dello swing.
Figura 6.
Benny Goodman suona il clarinetto nel 1947 [WG].
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Nato nel 1909 a Chicago da una povera famiglia di ebrei immigrati, intraprese lo studio del clarinetto per caso, poiché alle lezioni tenute nella sinagoga Kerelah Jacob, le uniche che il padre sarto poteva permettersi di pagare, erano disponibili solamente tre strumenti: un basso tuba, una tromba e un clarinetto. Essendo il giovane Benny il più gracile dei tre fratelli che frequentarono con lui questa scuola, gli toccò lo strumento più leggero, il clarinetto, appunto. Dopo la scuola, Goodman fu assegnato ad altri insegnanti più capaci quali Franz Schoepp, dato il suo talento di musicista, e divenne, già dall’età di quattordici anni (quando finì l’obbligo di studio), un musicista professionista. Col tempo, dopo numerosi ingaggi come strumentista, riuscì a costituire un’orchestra tutta sua con cui suonare la propria musica e incidere dischi che ebbero grande successo all’epoca, grazie anche alla notevole diffusione della radio e agli introiti pubblicitari, che permettevano ottimi guadagni. Dopo il successo di Goodman, e per alcuni anni, la parola jazz fu archiviata e non si parlò che di swing, di cui il clarinettista di Chicago fu proclamato re [Polillo 1980, 598].
In realtà la corona di “re dello swing” dovette contenderla a un altro grande band leader, Duke Ellington, di cui si parlerà più approfonditamente nei paragrafi a seguire. A ogni modo, l’operazione per rendere più vendibile il jazz comportò necessariamente il sacrificio di alcuni dei suoi caratteri più tipicamente neri. La grande popolarità del jazz durante l’era dello swing ebbe tuttavia anche effetti negativi sulla qualità di gran parte della musica prodotta in quegli anni, che molti dei più celebrati capiorchestra bianchi cercarono in ogni modo di rendere accettabile al grosso pubblico ricorrendo a effetti “facili”, meccanizzando e standardizzando gli arrangiamenti e anche l’improvvisazione dei solisti. Sintomatico fu, a questo proposito, l’uso e l’abuso dei cosiddetti riff [Polillo 1980, 598].
Fu questo il prezzo da pagare per ottenere la popolarità del jazz non solo negli Stati Uniti, ma anche in Europa. Queste grandi orchestre erano quasi sempre formate da tre distinte sezioni di fiati: trombe, tromboni e sassofoni in numero variante dai tre ai cinque strumenti per sezione, oltre a una sezione ritmica comune anche ai piccoli complessi, formata da pianoforte, chitarra, contrabbasso e batteria. Le orchestre suonavano la loro musica e si caratterizzavano per la personalità del loro leader, il
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CAPITOLO SECONDO
quale definiva l’impostazione del suono della band attraverso gli arrangiamenti scritti. Completavano il quadro gli interventi improvvisati dei solisti, sassofonisti o cantanti, che partecipavano come ospiti di spicco della serata. La formazione delle big bands era dovuta principalmente all’esigenza di creare un rilevante volume sonoro, sufficiente alla sonorizzazione dei grossi locali da ballo. Le grandi orchestre si erano quindi costituite per far ballare la gente, e in questo lo swing fu davvero infallibile. D’altronde, dopo la Prima Guerra Mondiale, negli Stati Uniti si verificarono grandi trasformazioni economiche e soprattutto sociali. La libertà dei costumi semplificò i rapporti tra uomini e donne, e ciò ebbe notevoli ripercussioni anche nel mondo della danza. Le vecchie sale da ballo cominciarono a chiudere, mentre nasceva la moda dei cabaret e dei night club. La musica preferita dai giovani era il jazz, e i ritmi del jazz spazzavano via i tradizionali balli di coppia: dal tango al valzer, dalla polca alla mazurca. Le nuove danze erano quelle appartenenti al genere jitterbug (da jitters: nevrastenia): charleston, lindy hop (jive), black bottom, shimmy, truckin, big apple, routines. Lo scopo di molte orchestre che lavoravano nei locali era quello di far ballare i clienti e far divertire gli spettatori, per questo motivo al jazz puro si sostituiva il genere “sinfonico”. A partire dal 1925 anche il pubblico bianco scoprì la piacevolezza del jazz, e cominciò a frequentare i locali che ospitavano i migliori gruppi musicali. Broadway diventò il più importante centro propulsore di novità e produttore di artisti, immancabilmente neri. L’alta società di New York e tutti i bianchi detentori del potere politico e finanziario andavano ad Harlem per assistere alle serate dei grandi musicisti neri che si esibivano al Savoy Ballroom e al Cotton Club. Oggi le danze che si ballavano sui ritmi jazz non esistono più, il jazz è divenuto una musica di ascolto, e ha perso molta della “spensieratezza” di quell’epoca. Le grandi orchestre della Swing Era erano un intrattenimento sia per gli ascoltatori che per chi danzava ed erano molto istruttive per i musicisti che ci suonavano. L’educazione formale nel jazz era scarsa prima del 1950; in particolare la discriminazione razziale spesso bloccava l’accesso ai conservatori per i musicisti neri. Lavorando e viaggiando con le grandi orchestre, ad ogni modo, i giovani musicisti imparavano a suonare insieme ad altri, a costruire assolo accattivanti, ad accompagnare insieme alla sezione ritmica con l’uso di riff; i musicisti più anziani offrivano trucchi sulla tecnica ed aiuti nell’interpretazione degli arrangiamenti scritti. I musicisti inoltre imparavano i valori extramusicali della presentazione e della presenza scenica, del gestire le questioni finanziarie e del mantenere la disciplina. Questi gruppi, quindi, erano sia unità sociali
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autosufficienti così come sistemi di apprendistato [Tucker 1980, 911].
Riaprirono molti locali che, negli anni di crisi economica, avevano dovuto chiudere i battenti e la musica ricominciava a circolare per le strade di New York. Il successone di The Music Goes ‘Round and Around e dei primi complessi dell’Onyx diede un contributo decisivo al lancio della 52a strada come “strada dello swing” e, per i profani, come “la via in cui è sempre la notte di capodanno” [Polillo 1975, 176].
Il mito della 52a strada sarebbe poi proseguito per lungo tempo e avrebbe fatto di New York la capitale mondiale del jazz.
Figura 7.
La 52a strada nel 1948 [WG].
Un fenomeno importante, che si verificò in quegli anni, fu quello dei cosiddetti V-disc (dischi della vittoria), i dischi prodotti esclusivamente per le forze armate, che contenevano molti dei successi dell’epoca. Per il grande pubblico Glenn Miller e le Andrews Sisters sono state l’esempio più lampante dell’alleanza tra musica e forze armate durante la Seconda Guerra Mondiale; con i V-disc, comunque, la musica è stata veramente mandata al fronte [Carr 1998, 55].
Il fenomeno dei V-disc rientra nel discorso della commercializzazione del jazz tipico di quegli anni, che fu certamente favorito dalla grande diffusione della radio nelle case degli americani. Insomma, in quel peri-
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odo il jazz iniziò a conoscere il fenomeno della diffusione su larga scala che, se da una parte lo rese noto a tutto il mondo, dall’altra ne minò, in parte, la qualità, rendendolo in alcuni casi un po’ troppo stereotipato. 2.2.
Il jazz moderno: dal bebop ai rivolgimenti sociali degli anni Sessanta
La rivoluzione del bebop E mentre in Europa arrivavano (e arricchivano i traffici borsaneristici al pari delle sigarette o del formaggio in scatola) i V-disc, che contenevano, oltre a tutto il jazz inciso fra il 1942 e il 1943, una grossa fetta della produzione dell’epoca swing aurea, a New York, nella 52a strada, stava nascendo il nuovo jazz, quello che con il passato avrebbe rotto ogni ponte [Roncaglia 1998, 195].
Il bebop, come fu chiamato il nuovo jazz, apparve nei locali della 52a strada nel 1944 e i primi ascoltatori ne rimasero sconcertati, alcuni nel bene, altri nel male. La nuova musica iniziò a essere suonata in un locale, non molto famoso all’epoca, che si chiamava Minton’s Playhouse.
Figura 8.
Il pianista Thelonious Monk (primo da sinistra) con altri musicisti all’uscita del Minton’s [WG].
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All’inizio degli anni quaranta era diventato un punto obbligato di incontro per non pochi musicisti che di notte, dopo aver finito di suonare nelle varie orchestre, si riunivano fra loro [Roncaglia 1998, 201].
Il locale, denominato in seguito “The Birthplace of Bop”, era quindi una fucina per la nuova musica, come testimonia nella sua autobiografia Miles Davis, che in quegli anni muoveva i primi passi nel mondo della musica a New York. A quei tempi, il Minton’s era il posto per gli aspiranti jazzisti; non è vero che fosse la “Strada”, come cercano di far credere oggi. Era da Minton’s che un musicista poteva davvero affilare i denti, e soltanto dopo poteva andare giù alla “Strada”. La Cinquantaduesima era tranquilla in confronto al Minton’s. Sulla “Strada” ci si andava per fare soldi e per farsi vedere dai critici musicali bianchi e dai bianchi in generale. Ma si veniva da Minton’s per farsi una reputazione fra i musicisti. Il proprietario del Minton’s Playhouse era un nero che si chiamava Teddy Hill. Il bebop nacque nel suo club. Era il vero laboratorio musicale del bebop. Solo dopo che era stato raffinato al Minton’s arrivò giù alla Cinquantaduesima Strada, al Three Deuces, all’Onyx e al Kelly’s Stable, dove c’erano i bianchi ad ascoltare. Ma quello che bisogna ben capire in tutta questa storia è che, per quanto fosse buona la musica che si sentiva sulla Cinquantaduesima Strada, non era assolutamente eccitante e innovativa come quella su da Minton’s [Davis – Troupe 2001, 66-67].
C’era quindi voglia di qualcosa di nuovo a livello musicale, qualcosa che rompesse decisamente con la tradizione e che permettesse di superare le limitazioni imposte dalle grandi orchestre swing. Così si sviluppò un movimento musicale che, partendo dalla esigenza di individuare nuove forme di espressione, si trovò alle prese con l’ambizioso progetto di conferire al jazz la qualifica di forma d’arte a tutti gli effetti, al di fuori dello showbusiness legato allo swing e ai gusti del pubblico, affermando, al contempo, la pretesa del popolo nero e delle classi emarginate della società americana di accreditare la propria cultura e di superare i pregiudizi razziali. Quello dei boppers divenne un vero e proprio movimento culturale e di tendenza, che accomunava le posizioni di elitarismo artistico dei musicisti neri all’esistenzialismo delle giovani generazioni americane che si ribellavano al mondo borghese, razzista e perbenista delle generazioni precedenti. La iperstilizzazione dello swing rese il bop, da un giorno all’altro, uno shock salutare per tutti coloro in cerca di qualcosa di completamente diverso; molte big band del-
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l’epoca dello swing, difatti, erano diventate grossi mastodonti sovrarrangiati, alla perenne ricerca di una sonorità caratteristica ma rifugiate nel riff fine a se stesso, a cui costringevano incessantemente le sezioni fiati. In queste situazioni di rigorosa disciplina gli assolo erano brevissimi, e comunque riservati prevalentemente al leader o a un paio di grossi solisti ben pagati. La formula, che aveva mietuto grossi successi, era sul punto di esaurirsi [Carr 1998, 60].
I nuovi musicisti bebop, stanchi di queste limitazioni, spinsero il jazz a dei livelli tecnici e armonici impensati, alterando le progressioni di accordi e suonando temi complicati a velocità elevatissime, con molti passaggi cromatici. È comprensibile quindi che, all’inizio, sia il pubblico che gli stessi musicisti rimasero affascinati e sconcertati dalla nuova musica. Gillespie, Parker e Monk creavano variazioni armoniche talmente ardue da non poter essere eseguite che da virtuosi abilissimi, e che riuscirono a creare le condizioni per eliminare, ogni sera, «… i tipi incapaci di improvvisarci sopra, i tipi senza talento…», come avrebbe riconosciuto lo stesso Dizzy Gillespie, per scoraggiare, sia con il virtuosismo portato alle più estreme conseguenze, sia con le più rivoluzionarie idee musicali e stilistiche, chiunque non fosse più che dotato o, meglio ancora, geniale e pronto a portare un suo personale contributo. Clarke, anch’egli, riconobbe che si trattava di un “trucco”: «… ci si riuniva al pomeriggio e si inventavano diverse progressioni armoniche… per scoraggiare gli indesiderabili che venivano la sera e volevano suonare con noi… eravamo Monk, Dizzy, Guy e io che facevamo questo…» [Roncaglia 1998, 208].
In realtà, quindi, la nuova musica era nata in un luogo ben preciso ed era stata sviluppata in maniera consapevole da pochi, ma geniali, musicisti di quell’epoca, per la maggior parte neri, che avevano definito in pochi anni (più o meno dal 1944 al 1950) le caratteristiche principali di questo stile. Dal punto di vista strumentale, esso privilegia il sassofono contralto e tenore, ma rilancia al tempo stesso la tromba che negli anni dello swing era passata un po’ in secondo piano, come strumento solista di primaria importanza. Gli organici strumentali del bebop comprendono l’interazione di una front line di fiati (sassofono e tromba, cui talvolta si aggiunge il trombone) e una sezione ritmica con pianoforte, contrabbasso e batteria. Possono anche figurare chitarra elettrica e vibrafono, soprattutto in tempi più recenti. La batteria, che negli anni Trenta si è ampliata e arricchita di componenti, sposta decisamente dalla grancassa al piatto e allo hi-hat la funzione di scansione ritmica, nella prevalente divisione di 4/4, con numerosi accenti sui tempi deboli della
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battuta, soprattutto nei brani veloci, mentre il contrabbasso segna i tempi forti. La velocità di esecuzione dei brani è spesso molto elevata, arrivando a volte ai trecento battiti per minuto e oltre.
Figura 9.
Charlie Parker (sassofono) e Miles Davis (tromba) in concerto al Three Deuces nell’agosto del 1947 [JP].
Sotto il profilo tematico, il bebop, (che nelle esposizioni privilegia frequentemente le linee in unisono fra i due fiati) opera una revisione della struttura classica del song bianco e del blues afro-americano creando nuove composizioni, ma soprattutto mantenendo la struttura armonica sottostante il chorus del song in forma AABA e inventando nuove linee melodiche a essa connesse, e aggiungendo alla struttura complessiva del chorus un’introduzione e una coda. Il chorus, ossia la struttura senza verse del song, viene proposto ripetutamente, dopo l’esposizione tematica, facendo coincidere gli spazi solistici improvvisativi con uno o più choruses. La struttura armonica può tuttavia infittirsi, mentre singoli accordi vengono estesi alle voci superiori di nona, undicesima e tredicesima, influenzando la complessità delle melodie correlate, sovente tendenti al cromatismo; compaiono accordi diminuiti e
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semidiminuiti. Le nuove composizioni sono dunque o basate sul blues (Billie’s Bounce, Au Privave, Blues for Alice di Parker, Misterioso, Straight no Chaser, Blue Monk di Thelonious Monk, The Hymn di Miles Davis e così via) o sul song AABA, e in questo caso gli standard di riferimento sono soprattutto I Got Rhythm (che genera fra l’altro Anthropology, Dexterity, Ah-leu-cha, Chasin’ the Bird, Fifty-Second Street Theme di Parker, Oop Bop Sh’Bam, Shaw’Nuff, Salt Peanuts di Gillespie), o How High the Moon di Morgan Lewis, da cui derivano Ornithology e Bird Lore di Parker, o Cherokee di Ray Noble, che ha prodotto Ko-Ko e Warming Up a Riff, sempre di Parker. L’intervallo più tipico del bebop diventa la flatted fifth, o quinta diminuita, che figura per la prima volta nel 1940 in una versione di Sweet Lorraine con Nat King Cole e Oscar Moore (Decca). La tensione tipica del tritono è, secondo le testimonianze ormai entrate nella dimensione mitica di questo stile, riprodotta come scansione intervallare discendente delle sillabe be-bop. Si pensa, quindi, che la denominazione del nuovo stile jazzistico bebop derivi proprio dal fatto che questa parola si riflette onomatopeicamente nell’intervallo allora più in auge: la quinta diminuita discendente. Le parole “bebop” o “rebop” nacquero spontaneamente quando si vollero cantare simili intervalli, come per esempio le parole “la-la-la” vengono spontaneamente quando si canta una canzone di cui non si conoscono le parole. Certamente, non bisogna dimenticare che in ultima analisi tutte le spiegazioni della parola “bebop” sono rimaste discutibili quanto quelle della maggior parte degli altri termini jazzistici. Nel gergo della gioventù bruciata americana “bebop” o “bop” significava rissa o coltellate [Berendt 1979, 26].
Anche questo, quindi, riflette la voglia di cambiamento espressa dai nuovi musicisti, che avevano cambiato non solo molte delle “regole” del jazz, ma anche molte fra le regole di costume in voga allora. Va detto, comunque, che essendo una musica d’avanguardia il bebop aveva sì creato nuove regole, ma spesso i musicisti solevano derogare da queste introducendo estemporaneamente soluzioni nuove, come sempre è stato nella musica jazz. Parker, come già faceva nelle orchestre swing, anticipa o ritarda di alcune battute il chorus destinato alla sua improvvisazione, Gillespie raddoppia in alcuni casi la velocità d’esecuzione dei brani, ancora Parker introduce alterazioni, armonie di passaggio, accordi sostitutivi di quelli prestabiliti [Cerchiari 2001b, 46].
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Sotto il profilo generale del senso, il bebop afferma in modo cosciente e talora provocatorio il nuovo status artistico e intellettuale dei musicisti di jazz, che si pongono in una coraggiosa posizione di autonomia rispetto alle regole di consenso del pubblico e del mercato, delle funzioni tradizionali coreutiche e di “sottofondo” proprie dello swing. L’uso ampio e consapevole della tecnica strumentale, della velocità, dell’armonia (resa più complessa, e infittita, al limite del cambio di accordo ogni battuta), sono funzionali alla creazione di atmosfere ora nevroticamente eccitanti, ora stridenti e (nel lessico futurista) “antigraziose”, ora vitalisticamente energetiche, ora intrise di umorismo, provocazioni e paradossi (a queste ultime categorie è riconducibile una parte della poetica di Dizzy Gillespie). Il bebop sviluppa una comunicazione autoreferenziale, individuando più nella comunità dei musicisti che non nel pubblico tradizionale i propri destinatari. Anche nel modo di vestire si nota la profonda frattura: allo smoking della swing craze fa riscontro un’immagine consistente in un berretto basco in testa, un paio di occhiali nerissimi con montatura molto pesante, sotto il labbro un piccolo ciuffo di peli, che Dizzy conserverà gelosamente fino al momento della morte recente (basti pensare che nei negozi era in vendita il cosiddetto “bop kit”, che conteneva tutti questi gadgets per essere un vero bopper). Sono il pubblico e la critica a doversi adeguare al bebop, come accade con la progressione temporale connaturata a ogni movimento innovativo. Con l’avvento del bebop si ha, per la prima volta nella storia del jazz, una spaccatura fra tradizione e innovazione, certamente desiderata dai boppers, ma che causa una presa di posizione drastica da parte di tutti gli appassionati di jazz di quel periodo. Mentre in America e in Europa (è il caso del critico francese Hugues Panassié, che lancia una crociata antimodernista contrastata fra gli altri da André Hodeir) si sviluppano reazioni negative o censorie nei confronti di Parker e Gillespie, la nuova critica americana (Leonard Feather, Barry Ulanov) agisce in senso militante a fianco dei boppers con articoli, produzioni discografiche e radiofoniche. Nel 1949 Feather pubblica presso J.J. Robbins di New York, attivo da oltre vent’anni nell’editoria musicale, il primo saggio dedicato alla nuova musica (Inside Bebop), che in apertura riporta ironicamente una collezione delle più sprezzanti sentenze sfavorevoli al bebop emesse da vari esponenti dell’ambiente musicale. Tra queste l’opinione dello storico della musica statunitense Sigmund Spaeth: «Il graduale sviluppo, o decadenza, della distorsione del jazz... fino alle artificiali assurdità del cosiddetto stile bebop dovrebbero risultare così ovvie anche all’ascoltatore casuale» e quella di Tommy Dorsey, trombonista e band leader fra i più in vista dello stile swing, il quale afferma che «Il bebop ha fatto retrocedere la
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musica di vent’anni» [Cerchiari 2001b, 47].
Per tutti questi motivi al grosso pubblico, cui il bop non era del resto destinato, il nuovo jazz non piacque affatto: i suoi temi, spesso esposti su tempi velocissimi, erano assai poco orecchiabili, e i suoi ritmi, addirittura sconcertanti per il profano, non erano certo adatti per il ballo. Inoltre, disturbò qualcuno l’atteggiamento ostentatamente scontroso dei musicisti bop, i cui volti impassibili lasciarono perplessi coloro che nel jazz avevano fino allora cercato, e il più delle volte trovato, una musica brillante e scacciapensieri, addirittura mondana. Proprio perché il bebop esercita le sue prime manifestazioni ai margini del jazz allora predominante e si sviluppa come mezzo di sperimentazione di nuove forme in reazione alle correnti in voga, proprio perché è opera di alcuni musicisti neri disgustati dal jazz che sono costretti a produrre commercialmente, esso segna la presa di coscienza, da parte di questi musicisti, di una certa alienazione e della sottomissione a quel tempo completa della loro musica agli interessi commerciali e ai valori culturali bianchi [Carles – Comolli 1973, 65].
Fu con il bebop che il jazz iniziò a fare critica sociale attraverso le esibizioni musicali, questi aspetti saranno poi accentuati dal movimento free jazz e dalla musica di John Coltrane. Questo voler essere così “autentici” costò molte critiche ai boppers, che furono spesso accusati di voler boicottare il mondo del jazz. In particolare la stampa e i discografici, che avevano paura di perdere i loro affari, si scagliarono contro il bebop. Non mancarono anche le critiche da parte di musicisti più anziani e affermati, quali Louis Armstrong, che dichiarò a Down Beat (una rivista specializzata nella musica jazz): «Tutto quello che vogliono fare è dell’esibizionismo, e ogni vecchio trucco è buono purché sia differente da quello che voi avete suonato fino adesso. Così tirano fuori tutti quegli accordi strampalati che non significano niente, e in principio la gente prova della curiosità soltanto perché si tratta di una novità, ma poi si stanca perché non è veramente buona; non c’è nessuna melodia che si possa ricordare e nessun ritmo regolare su cui si possa ballare. E così tornano a essere di nuovo poveri e non c’è lavoro per nessuno, e questo è quanto vi ha combinato la malizia moderna». La verità era molto diversa. Il bebop non soltanto rappresentava un notevole progresso sul jazz precedente dal punto di vista ritmico, armonico e melodico, ma significata la completa rottura con una musica industrializzata e stereotipata quale era ormai il cosiddetto swing così come lo suonavano le orchestre più popolari d’America, e cioè anzitutto quelle bianche. Il bebop, anzi il bop, come si cominciò a dire, non voleva essere una musica da ballo; voleva
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essere una musica “pura”, da ascoltare, e fu squisitamente intrinsecamente negra [Polillo 1975, 197].
Elementi, questi, sottolineati anche da Gian Carlo Roncaglia. Di fatto, l’atteggiamento dei boppers fornì un contributo non indifferente al processo di emarginazione della musica nel dopoguerra: il rifiuto sempre più marcato di ogni concessione spettacolare, l’abbigliamento sempre più eccentrico (occhialini neri anche sul palco, abiti stravaganti, spalle voltate al pubblico, rifiuto dell’applauso anche più convinto), le esecuzioni ferocemente irridenti, un gergo assolutamente incomprensibile per gli squares (i profani), e infine l’abbandono della religione della maggioranza degli americani per l’adozione di quella musulmana, con il mutamento conseguente anche del nome anagrafico, fanno comprendere facilmente l’azione demolitrice svolta dalla società (e dalla critica interessata, va rilevato) nei confronti del bop [Roncaglia 1998, 212213].
La reazione del cool e la contaminazione con la bossa nova Sul finire degli anni Cinquanta la musica dei boppers aveva ormai concluso la sua stagione d’oro, anche perché molti dei suoi esponenti erano caduti in disgrazia o addirittura morti a causa dell’abuso di droghe e alcool. Inoltre, buona parte del pubblico cominciava a essere stufo di quella musica, così come molti musicisti che non si rispecchiavano più in quello stile così veloce e carico di energia. Fu forse per reazione, quindi, che si sviluppò il cosiddetto cool jazz. Uno stile molto più calmo, rilassato, dalle sonorità più morbide e caratterizzato da tempi lenti o comunque più lenti rispetto al bebop. Lennie Tristano, uno dei più grandi esponenti di questo stile, dirà in un’intervista: «Cool jazz, per me, non ha alcun significato. È un’etichetta priva di gusto, un’etichetta commerciale che venne attaccata, senza alcuna logica, alla musica che incisi anni fa coi miei gruppi. Cool jazz è un termine stupido. Il jazz che noi si suonava non era affatto freddo (cool). Era rilassato, era privo di spettacolarità (showmanship), era serio e impegnato, questo sì, ma non certo freddo» [Polillo 1975, 643]. Il cool jazz ebbe una vita brevissima e non fortunata: in prospettiva appare, oggi, come una deviazione piuttosto che una tappa nella storia del jazz, il quale riprese il suo cammino senza tenerne conto, quando l’avventura dei coolsters (qualcuno chiamava così i campioni del nuovo stile) fu conclusa. Ciò nondimeno fu un’avventura tutt’altro che ingloriosa: fra le poche incisioni che si possono sicuramente attribuire a questo stile alcune sono fra le più belle della discografia jazzistica. E fu un’avventura necessaria, che consentì di saggiare alcune ancora inesplorate risorse del linguaggio del jazz e di conoscerne i limiti [Polillo 1975, 216].
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È importante far notare come anche la scena musicale fosse cambiata dopo la Seconda Guerra Mondiale. Bastava fare una passeggiata, la sera, lungo la 52a strada di New York, per rendersi conto di quanto le cose fossero cambiate, nel giro di qualche anno. Nei localini che si aprivano sui due lati di quella che era stata la “Swing Street” era adesso molto più facile imbattersi nelle specialiste dello spogliarello che nei jazzmen, i quali gravitavano ormai attorno ai nuovi templi jazzistici di Broadway, senza troppe speranze, però, di trovarvi lavoro, a meno che non fossero personaggi di primo piano [Polillo 1975, 215].
Era quindi necessario un periodo di raccoglimento, per chiarirsi le idee e fare il punto della situazione. Nel corso degli anni Quaranta aveva avuto luogo la “sovversione” dei musicisti che avevano sviluppato il bop; quindi, dopo che i boppers ebbero “stabilito le regole” della loro rivoluzione musicale, il terreno fu nuovamente fertile per la “reazione” in àmbito jazzistico; a quel punto l’attenzione del pubblico oltrepassò sia la frenesia del bop, sia l’estroversa emotività delle orchestre swing degli anni Trenta, per appuntarsi su uno stile introverso e reticente, in seguito chiamato cool jazz. Elemento distintivo della nuova tendenza cool fu quello di un marcato richiamo alle tradizioni del jazz, differenziandosi marcatamente dal precedente bop; indubbiamente il bop aveva attinto alle radici bluesistiche e del primo jazz per il suo sviluppo, ma su quella base aveva creato una struttura affatto nuova, tale da “rinnegarne” le stesse originarie radici, i seguaci del bop si consideravano infatti alla stregua di “iniziatori del jazz”, ignorando le strutture musicali affermate dalla tradizione jazzistica. Viceversa, nei pionieri del cool era forte la consapevolezza di far parte di un più generale percorso musicale nell’àmbito del quale il loro ruolo era quello di semplici “consolidatori” di una musica che veniva da lontano [De Stefano 1990, 37-38].
Il disco manifesto di quest’epoca è sicuramente Birth of the cool e il suo autore, il trombettista Miles Davis, fu uno dei pochi musicisti di colore a suonare questo tipo di jazz, che fu perlopiù gradito dai musicisti bianchi, forse perché più vicino alla tradizione musicale europea. Davis, che giovanissimo si era formato alla scuola di Parker, nella cui band aveva sostituito Gillespie alla tromba, imponendosi come brillante promessa fu, probabilmente, il primo musicista nero ad avvertire la necessità di un ripensamento dei radicalismi del bebop in una chiave più proponibile al grande pubblico. Credo che sia stata una sorta di reazione alla musica di Bird e Diz. Bird e Dizzy suonavano quelle cose velocissime, se voi non eravate tanto rapidi ad ascoltare non
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potevate sentire gli umori e il feeling della loro musica. Il loro sound non era dolce e non avevano le linee armoniche da poter canticchiare facilmente per la strada a passeggio con la vostra ragazza mentre cercavate di baciarla. Il bebop non aveva la stessa umanità di Duke Ellington. E non era nemmeno così riconoscibile. Bird e Diz erano grandi, fantastici, però non erano dolci. Le radici di Birth of the cool sono quelle della musica nera, da Duke Ellington. Anche la gente bianca poteva apprezzare la musica che riusciva a capire, quella musica che potevano ascoltare senza diventare scemi. Il bebop non arrivava da qualcosa che fosse loro familiare e perciò era molto difficile per la maggior parte dei bianchi ascoltare quel che si stava suonando. Era una musica completamente nera. Ma Birth of the cool non era soltanto orecchiabile, c’erano anche dei bianchi che suonavano e avevano anzi dei ruoli importanti. E questo ai critici bianchi piaceva molto. Piaceva l’idea che sembrassero avere un ruolo preminente in quel che si stava facendo. È un po’ come se qualcuno ti stringesse la mano con più convinzione. Colpivamo l’orecchio di chi ascoltava in un modo un po’ più leggero di Bird e Diz, tenevamo la musica un po’ più sui binari principali, e questo era tutto [Davis – Troupe 2001, 142].
D’altronde basta notare la seguente trascrizione di Move, un brano contenuto in Birth of the cool, e confrontarlo con il precedente Anthropology, tipico dell’era bebop. Le note sono molte di meno, molte sono le legature e soprattutto le pause, che conferiscono un tono più tranquillo e rilassato alla composizione. In Anthropology, invece, le frasi sono molto più lunghe e quasi tutte basate sugli ottavi se non addirittura sui sedicesimi, nonché ricche di cromatismi.
Figura 10.
Trascrizione di una parte di Move, un brano contenuto nel disco “manifesto” del cool jazz, Birth of the cool.
Le incisioni di Davis rimangono un’importante e decisiva testimo-
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nianza dello sforzo compiuto per individuare una soluzione espressiva di ampio respiro estetico che abbracciasse, oltre che la tradizione jazzistica, anche la tradizione musicale colta ed europea. Tornarono in voga anche gli arrangiamenti scritti, che erano invece quasi scomparsi nella musica bebop. Lee Konitz, Miles Davis, Leonard Tristano, l’arrangiatore Gil Evans, Gerry Mulligan, John Lewis, Kenny Clarke furono solo alcuni dei nomi che diedero vita al cool jazz, e la maggior parte di essi erano bianchi. Un grande contributo allo stile cool jazz venne dalla “West Coast” degli Stati Uniti, ovvero dalla costa del Pacifico, dalla California. È sempre esistita una scena musicale molto attiva lungo tutta la costa californiana, ma la sua larga diffusione ha avuto luogo soltanto con il grande sviluppo dell’industria cinematografica e televisiva nella vasta area metropolitana di Los Angeles [Carr 1998, 92].
La vera esplosione si ebbe sul finire degli anni Quaranta, quando musicisti quali Dexter Gordon, Chet Baker, Charles Mingus, Gerry Mulligan, Shorty Rogers e molti altri iniziarono a farsi conoscere, venendo in contatto con i musicisti di New York come Charlie Parker e Miles Davis. Mentre il bebop newyorkese è l’espressione collettiva di una comunità che lotta per la sopravvivenza e il proprio riconoscimento, i jazzmen della costa occidentale sembrano dedicarsi all’introspezione e ai problemi esistenziali con ostentata indifferenza per la realtà che li circonda. Di conseguenza, sia gli appassionati sia i critici avranno qualche difficoltà a collocare quei giovani borghesi bianchi sullo stesso piano degli idoli neri del ghetto [Bergerot – Merlin 1994, 21].
La vita culturale è, nei primi anni ’50, al massimo e, oltre al nuovo jazz, dalla costa californiana arrivano anche scrittori quali Jack Kerouak, autore del libro manifesto della beat generation: On the Road. Nascono allora i primi esperimenti che associano musica jazz e letteratura, unite dal rifiuto per la società dei consumi. Come accennato, però, il cool jazz ebbe vita breve e la risposta dei musicisti del Nord Est non tardò a farsi sentire con quello che verrà definito hard bop. Accanto al fenomeno del cool jazz, va citato anche quello della bossa nova e della musica latina che, negli anni Sessanta, hanno dato vita a un genere musicale di grande successo nato dall’incontro fra il jazz degli Stati Uniti e i cantautori di Rio de Janeiro.
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Alla fine degli anni Cinquanta una nuova generazione di musicisti brasiliani si confronta con il jazz, trasponendovi le sincopi ritmiche e l’euforia del samba. Nasce così la bossa nova, uno stile che presto contagerà i jazzisti americani [Sperandeo 2001, 7].
Già durante gli anni del bebop e dello swing alcuni musicisti suonavano i loro temi su ritmi latini, ma fu solo dopo che il cantante e pianista Dick Farney “importò” il jazz in Brasile che nacque la bossa nova. Molti furono i grandi interpreti di questo genere, ma il cantore per eccellenza del nuovo Brasile fu sicuramente Antonio Carlos Jobim che, con le sue canzoni e le sue musiche delicate, rappresentava nel modo più autentico la joie de vivre dei brasiliani, il calore e le spiagge di Ipanema.
Figura 11. I principali artefici del successo della bossa nova ritratti insieme. Da sinistra: Antonio Carlos Jobim, Vinìcius de Moraes, Ronaldo Boscoli, Roberto Menescal e Carlos Lyra [JOB].
La sua formazione era classica, aveva studiato con il compositore
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tedesco Hans-Joachim Koellreutter, il musicista che aveva introdotto in Brasile i principi dell’atonalità. La bossa nova, letteralmente l’espressione significa “nuova tendenza”, nacque proprio dall’incontro dei toni morbidi del cool e del californian jazz con la musica più tipicamente brasiliana, il samba, che si stemperava in una dimensione più lirica e contemplativa [Sperandeo 2001, 10].
La nascita ufficiale della bossa nova risale al dicembre del 1958, quando fu pubblicato, su un disco a 78 giri, Chega de saudade (basta con la nostalgia), brano composto e arrangiato da Jobim e interpretato da João Gilberto, che sarebbe diventato il cantante simbolo della bossa nova; le parole erano invece di Vinìcius de Moraes. L’incontro fra il poeta e il compositore diede vita anche a una pièce teatrale di grande successo, intitolata Orfeu da Conceição, da cui nacque poi il film Orfeo Negro, che si impose all’attenzione mondiale vincendo un Festival di Cannes e un Oscar a Hollywood. Il successo di Orfeo Negro assicurò alla nuova musica brasiliana il successo internazionale e la mise in contatto con i jazzisti statunitensi, fra cui Stan Getz, sassofonista che nel 1962 incise il disco Jazz Samba. Dopo di allora molti musicisti brasiliani si esibirono negli Stati Uniti e, nel marzo del 1963, fu registrato l’album Getz/Gilberto, cui Jobim aveva contribuito con una sua composizione, Garota de Ipanema (ragazza di Ipanema), interpretata da Astrud Gilberto, moglie di João, che avrebbe reso il disco una delle pietre miliari della bossa nova. Nel 1964 Jobim incise, finalmente, il disco a suo nome dal titolo The Composer of Desafinado Plays (il compositore di Desafinado suona), recensito positivamente dalla rivista Down Beat e nel 1967 arrivò la preziosa collaborazione con Frank Sinatra. Da allora Jobim lavorò stabilmente negli Stati Uniti, suonando con molti dei più grandi jazzisti del momento, anche perché, dal 1965, la situazione in Brasile era diventata molto pesante a causa dell’instaurarsi di una rigida dittatura militare, che aveva reso impossibile esprimersi a molti degli artisti di allora. Prima di allora, però, la vita musicale era molto vivace e molti dei successi della bossa nova nacquero sulla spiaggia di Ipanema o al Au Bom Gourmet, un locale di Copacabana dove erano soliti esibirsi, nelle serate estive, João Gilberto, Vinicius de Moraes e Tom Jobim, che avrebbe detto di quel periodo: «Andavamo in spiaggia e poi ci fermavamo al bar per una birra. Qui componevamo queste canzoni locali, che avevano senso soltanto se cantate in quella parte della città. Non
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avremmo mai immaginato che sarebbero diventate famose in tutto il mondo». Hard bop Al di là della parentesi sulla musica brasiliana, la nuova musica proposta dai musicisti dell’Est degli Stati Uniti fu nuovamente energica e vicina più che mai a quello che era stato il bebop degli anni Quaranta. Denominato in seguito hard bop proprio per la sua durezza, mise in luce il ruolo della batteria che divenne quasi uno strumento solista. Per alcuni anni non si parlò d’altro che di questo jazz aggressivo, muscoloso e sanguigno, che fece tramontare le formule, del resto divenute presto stereotipate, inventate e imposte dai jazzmen di Los Angeles [Polillo 1980, 600].
L’hard bop consolidò le conquiste armoniche del bebop, introducendo un’enfasi ritmica più consistente e diretta. Fu per questo che furono gli stessi batteristi, il più delle volte, a dare il via a formazioni hard bop, quali quella dei Jazz Messengers, guidati dal batterista Art Blakey.
Figura 12.
Art Blakey, leader dei Jazz Messengers, alla batteria [WG].
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Il punto di partenza è comunemente indicato dal Café Bohemia di New York, un locale dove i Jazz Messengers, un quintetto cooperativo in cui figuravano il pianista Horace Silver e il batterista Art Blakey, ebbero un prolungato ingaggio tra il 1955 e il 1956. Durante questo periodo, il gruppo poté sperimentare nuove tecniche di accompagnamento dei solisti, affidando al contrabbassista Doug Watkins il compito di mantenere una regolare pulsazione in 4/4 e consentendo a pianista e batterista di creare un contorno polifonico alle improvvisazioni dei fiati [Carr 1998, 106].
Con l’hard bop il jazz era sempre più orientato verso le piccole formazioni e le grandi orchestre iniziarono pian piano a scomparire, anche perché, nonostante gli sforzi compiuti da qualche band leader per dimostrare il contrario, il pubblico dei giovani aveva ormai perduto il gusto di ballare a suon di jazz. A questo scopo aveva provveduto, e con successo, il rock & roll che, nelle sue successive trasformazioni, sarebbe rimasta l’unica musica ballabile di derivazione jazzistica. Con l’avvento dell’hard bop diminuì decisamente l’importanza degli standards mutuati dalla musica leggera, che per oltre vent’anni avevano fornito ai jazzmen i temi base (o soltanto gli accordi di sostegno) per le loro improvvisazioni. Con gli anni Cinquanta cominciarono infatti a moltiplicarsi le composizioni jazzistiche originali, che spesso altro non sono che head arrangements costruiti sulle armonie del blues, e magari su riffs. Questo fatto ebbe notevoli conseguenze sulla sorte di chi canta, o vorrebbe cantare, jazz [Polillo 1975, 245-246].
Il free jazz degli anni Sessanta La tendenza a emanciparsi dai vecchi standards, manifestata dagli hard boppers, fu accentuata durante gli anni Sessanta da tutti quei musicisti che diedero vita al nuovo corso della musica afro-americana. Con l’avvento del free jazz si ebbe un’ulteriore evoluzione tecnica nell’improvvisazione e, più importante ancora dal punto di vista sociologico, i musicisti di jazz caratterizzarono in senso politico e sociale molte delle opere realizzate durante quegli anni. Ciò che accadde nei tumultuosi anni Sessanta, la Rivoluzione Nera, l’affermazione della Nuova Sinistra americana, la crescita del dissenso interno negli Stati Uniti, la fioritura della controcultura underground, il dilagare della violenza, la palingenesi dei costumi, la rivolta studentesca, la contestazione del principio di autorità e dell’autorità e il crollo di tanti valori, miti e tabù fino a quel momento considerati intangibili, si rifletté chiaramente nelle musiche che rappresentavano le espressioni tipiche dei gruppi
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sociali allora in rivolta o in fermento [Polillo 1975, 255].
Mai come in quegli anni fu evidente la corrispondenza tra rivolgimenti socio-politici e musica jazz negli Stati Uniti. Il desiderio di emancipazione dai vecchi stilemi jazzistici rifletteva l’insofferenza del popolo afro-americano nei confronti di una condizione esistenziale ancora estremamente misera, nonostante l’abolizione dello schiavismo. Ecco, quindi, che l’etichetta free si riferisce non solo alla musica jazz degli anni Sessanta, ma anche all’intimo desiderio di libertà del nero americano. Dal punto di vista tecnico le novità del jazz degli anni Sessanta, del free jazz in particolare, sono: 1. La penetrazione nello spazio libero della atonalità. 2. Una nuova concezione ritmica che è caratterizzata dalla dissoluzione del metro, del beat e della simmetria. 3. L’irruzione della musica mondiale nel jazz, che ora si trova improvvisamente messo a confronto con tutte le grandi culture musicali dall’India fino all’Africa e dal Giappone all’Arabia. 4. Un’accentazione del momento d’intensità del tutto sconosciuta negli stili precedenti del jazz. Il jazz è sempre stato una musica che per la sua intensità era sempre stata superiore alle altre forme musicali del mondo occidentale, ma mai nella storia del jazz si era data tanta importanza all’intensità in senso così elastico, orgiastico, e in alcuni musicisti anche religioso, come nel free jazz. Molti musicisti di free jazz praticano un vero e proprio “culto dell’intensità”. 5. Una estensione del suono musicale nel campo del rumore [Berendt 1979, 33-34].
Molto importante è il primo punto sottolineato da Berendt, che chiarisce una differenza importante fra la musica europea e quella afro-americana. La concezione del jazz come “atonalità” si differenzia sostanzialmente da quella della musica concertistica europea. Nella corrente principale della musica concertistica del XX secolo un nuovo principio d’ordine, dodecafonico, seriale, ha sostituito il vecchio principio dell’armonia funzionale. Persino laddove la moderna musica concertistica diventa “aleatoria”, cioè dove lascia spazio a certi elementi causali e simili all’improvvisazione, rimane sempre legata a un ordine di serie e viene comunque sempre ricondotta a esso. Nel free jazz dell’avanguardia di New York del 1965 un simile momento vincolante e relativo sussiste ancora, nella migliore delle ipotesi, nei cosiddetti “centri tonali” in cui la musica si inserisce in senso lato nella generale gravitazione dalla dominante alla tonica, ma in cui tutti gli intervalli sono “liberi”. Essi godono nel corso degli anni Sessanta di una libertà la cui intensità ha reso sempre più irrilevante anche il rapporto tonica-dominante. Nonostante la brevità della sua storia il jazz ha una
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“tradizione atonale” più lunga di quella della musica europea [Berendt 1979, 34-35].
Il fenomeno di liberazione del jazz dall’armonia funzionale presenta numerosi parallelismi casuali anche in altri settori dell’arte moderna quali la letteratura. La sgrammatizzazione, le tendenze antigrammaticali e antisintattiche di così numerosi scrittori moderni, come quella di Raymond Queneau, di Arno Schmidt, Helmut Heissenbuttel, Ernst Jandl a anche James Joyce e di molti altri di tutte le lingue del mondo, corrispondono fin nei minimi dettagli alle tendenze antiarmoniche dei musicisti del free jazz [Berendt 1979, 37].
Il fatto che questi fenomeni di insofferenza verso i classicismi siano presenti anche in altri campi dell’arte testimonia di come i rivolgimenti sociali e politici in atto siano, molto spesso, la vera causa dei cambiamenti stilistici nell’arte. Le innovazioni propriamente musicali prodotte nel free jazz valgono anzitutto come effetto e sintomo di un mutamento più generale: quello del rapporto dei neri americani con la loro cultura, e quella del ruolo che questa cultura assume direttamente nelle lotte politiche. In sostanza un’analisi i una valorizzazione limitate ai soli rinnovamenti musicali apportati dal free jazz non farebbe che occultare ciò che, a livello politico, li determina, e cioè in ultima analisi l’istanza politica stessa [Carles – Comolli 1973, 15-16].
La parola free era già comparsa nella seconda metà degli anni Cinquanta sulle copertine di alcuni dischi di jazz, ma fu il 12 dicembre 1960, quando uscì l’album del quartetto di Ornette Coleman, intitolato Free Jazz, che ci si rese conto di essere nuovamente a una svolta nella storia della musica afro-americana. Il disco divenne subito il “manifesto” della nuova musica e suscitò molto scalpore, sia per la sua lunghezza (trentasei minuti in due parti), sia per le dichiarate intenzioni di smantellare ogni regola consolidata a livello melodico, ritmico e armonico. Anche il disco My Favorite Things, di John Coltrane, ebbe grande importanza, perché attribuì al sassofonista il ruolo di guida, che in passato era stata di Charlie Parker, e ne sancì il successo a livello mondiale. Un altro grande esponente del free jazz, da cui si sarebbe in seguito staccato, fu il contrabbassista Charles Mingus, la cui musica è stata il perfetto ponte di collegamento tra le due rivoluzioni del jazz moderno: il bebop, negli anni Quaranta, e il free jazz, negli anni Sessanta. Infine l’album
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Freedom Now Suite del batterista Max Roach in cui la musica volle offrire un contributo alla lotta di liberazione del popolo afro-americano, facendosi per la prima volta veicolo di una veemente protesta, di una richiesta perentoria di giustizia [Polillo 1975, 257].
Figura 13.
Ornette Coleman al sassofono e Charlie Mingus al contrabbasso, due dei maggiori esponenti del movimento free [EY].
Il Civil Rights Act, la legge predisposta da Kennedy e approvata dopo il suo assassinio, sanzionava definitivamente il riconoscimento dei diritti civili alla minoranza di colore e fu firmata il 2 luglio 1964. Non bastò, però, una semplice legge a calmare il popolo afro-americano, che oramai era sfuggito al controllo del suo leader Martin Luther King ed era in preda a una vera e propria rivoluzione. Rivoluzione che toccò, come abbiamo visto, il mondo della musica; da allora i musicisti preferiranno chiamare la loro musica non più jazz, ma free music (musica libera), o ancora black music (musica nera), proprio per ribadire il forte contenuto di protesta sociale e razziale che aveva la loro arte. I jazzisti erano consapevoli di aver creato la forma d’arte più autenticamente americana, e di essere stati derubati dei frutti della loro inventiva. “Fare da sé”, “Coscienza negra”, sono parole d’ordine che si odono con frequenza nelle comunità negre d’America, e i musicisti di jazz sono fra i primi a tradurle, o a tentare di tradurle, in pratica [Polillo 1975, 263].
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Con gli anni Sessanta cambia completamente la concezione stessa del jazz, almeno per quanto riguarda il free jazz: si accentuano i caratteri di africanità, l’autonomia dalla musica europea e la funzionalità sociale e politica. Emblematiche le parole del sassofonista Archie Shepp, che fu forse il musicista più ideologizzato degli uomini del jazz a metà degli anni Sessanta. «Dal punto di vista culturale l’America è un paese retrogrado, gli americani sono retrogradi. Ma il jazz è una realtà americana. Una realtà indiscutibile. Il musicista di jazz è come un reporter, un giornalista estetico dell’America. Quei bianchi che frequentavano i localini di New Orleans pensavano di ascoltare la musica dei niggers ma sbagliavano: ascoltavano musica americana. Ma non lo sapevano. Anche oggi quei bianchi che vanno nel Lower East Side forse non lo sanno ma ascoltano musica americana... il contributo del Negro, il suo dono all’America. Alcuni bianchi pensano di avere diritto al jazz... è un regalo che il Negro ha fatto loro, ma loro non possono accettare questo fatto, ci sono coinvolti troppi problemi connessi con le relazioni sociali, storiche fra i due popoli. Questo fa sì che sia difficile per loro accettare il jazz e il Negro come il suo vero innovatore» [Polillo 1975, 263-264].
In ogni caso, non bisogna pensare che il free jazz sia stato un fenomeno musicale di grandi dimensioni, soprattutto all’inizio ebbe grandi difficoltà a conquistare i favori del pubblico, in particolare bianco. Fu forse per questo che molti esponenti della nuova musica decisero di trasferirsi in Europa, dove era più facile trovare lavoro. In particolare a Copenaghen gli ambasciatori del nuovo jazz trovarono ciò che avevano invano cercato in patria: un locale importante dove poter presentare, per una discreta paga e per periodi non troppo brevi, la loro musica. Era il Jazzhus Montmartre, allora il più vivace centro jazzistico europeo: il “Minton’s del free jazz”, come qualcuno lo definì [Polillo 1975, 268-269].
Gli anni più prolifici per la New Thing furono probabilmente il 1965 e il 1966, anni in cui uscì, tra l’altro, il disco Ascension di John Coltrane che lasciò, fra la sorpresa di molti, uno degli esempi più impressionanti di free jazz. In seguito, dagli anni Settanta in poi, alcuni jazzisti si allontanarono parzialmente da questa strada per dedicarsi ai nuovi generi musicali come il soul, il rock & roll, la fusion, che avevano guadagnato i favori del pubblico e consentivano certamente un maggiore successo commerciale, oltre che la possibilità di sperimentare nuovi orizzonti sonori.
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Il jazz elettrico e la nascita del jazz europeo
Il jazz attacca la spina Già dagli anni Cinquanta il jazz aveva dovuto iniziare a fare i conti con il rock & roll, che stava proprio allora muovendo i suoi primi passi e vedeva in Elvis Presley il suo idolo. Presley aveva conquistato gran parte del giovane pubblico, sia perché offriva una musica nuova e accattivante, che aveva sostituito definitivamente lo swing nel ruolo di musica da ballo, sia perché, nonostante utilizzasse molti stilemi della musica afro-americana nelle sue canzoni e nelle sue interpretazioni, era bianco, e per il mercato discografico avere, all’epoca, un ragazzo bianco con una voce da nero permetteva una diffusione sicuramente maggiore che non con un cantante di colore. Presley, miscelando oculatamente il patrimonio bianco del Sud (all’inizio il rock ebbe cittadinanza soprattutto nel Tennessee), basato sul canto hillybilly e sulle tradizioni cantate del country e del western, con la tradizione nera del blues (e soprattutto del gospel), dette vita a una musica facilmente assimilabile alle caratteristiche sessuali più deleterie del canto nero delle origini, e con una fortissima componente ritmica ed eccitante, capace insomma di solleticare le velleità più primordiali, nonché, e in ciò risiedette il valore commerciale dell’operazione, di essere facilmente recepita anche oltreoceano, costituendo così la base per una diffusione capillare in Europa [Roncaglia 1998, 295].
Basti pensare che la Columbia (una famosa casa discografica) raddoppiò, nel giro di tre anni, la propria quota di mercato grazie alla diffusione dei dischi rock, passati, nello stesso periodo, dal 15% al 50% del suo fatturato. Ecco quindi che molti jazzisti dovettero, per continuare a far sentire la loro voce, adeguarsi al nuovo modo di fare musica, e anche qui il jazz riuscì a creare una musica originale senza rinnegare le proprie caratteristiche principali. Fino agli anni Sessanta i musicisti di jazz avevano sempre utilizzato strumenti acustici: il pianoforte, il sassofono, il contrabbasso, la chitarra acustica, la tromba sono tutti strumenti che non necessitavano di corrente elettrica per funzionare, ed erano amplificati senza l’uso di magneti o amplificatori, ma semplicemente applicando dei microfoni sullo strumento. Con l’avvento degli strumenti elettrici ed elettronici (molto usati nel rock), la scena musicale mondiale cambiò radicalmente e bruscamente proprio per l’adozione di questi strumenti, che consentivano al musicista di sperimentare sonorità anco-
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ra sconosciute. La chitarra elettrica fu certamente lo strumento che ebbe il maggior successo e fu utilizzato a partire dagli anni Cinquanta, quando Leo Fender costruì le prime chitarre Fender Stratocaster, in tutti i gruppi che suonavano la nuova musica, dal rhythm & blues, al rock, al funky. Anche il piano fu elettrificato (nel 1965 fu commercializzato il piano elettrico Fender Rhodes e nel 1970 i primi sintetizzatori di Robert Moog) e, in molti casi, divenne addirittura uno strumento elettronico, soprattutto in tempi più recenti. In questa nuova veste la tastiera consentiva di ottenere le sonorità più disparate, nonché di svolgere il ruolo prima destinato ad altri strumenti, come archi o intere sezioni di fiati. Il contrabbasso fu sostituito dal basso elettrico, più piccolo e pratico, molto simile alla chitarra esteticamente, che permetteva di suonare a un volume maggiore, più adatto al rock. Anche la batteria iniziò a fare uso, dagli anni Settanta in poi, di loop (delle figurazioni ritmiche ripetute ciclicamente) creati con il computer, che si affiancavano alle parti suonate dal batterista con lo strumento. L’indubbia, palpabile diversità fra la corposità sonora degli strumenti acustici ed elettrificati non poté non modificare la musica di quegli anni. Fu, quindi, l’adozione di molti di questi strumenti da parte dei jazzisti a modificare la voce della loro musica. In realtà, nel momento in cui musicisti di jazz si decisero a utilizzare i nuovi strumenti elettrici, il rock aveva già cambiato forma rispetto alla musica proposta da Elvis Presley; ora erano i Beatles e i Rolling Stones a dettare i nuovi standards, nonché cantautori e cantautrici come Bob Dylan e Joan Baez. Si può dire che sia cominciata in quegli anni l’era del rock, che raggiunse l’apogeo dopo che fu salita sull’orizzonte la stella di Jimi Hendrix, un giovane chitarrista negro americano che aveva vissuto oscuramente in patria, nel mondo del rhythm & blues, e che era poi “esploso” a Londra nel 1966, e dopo che il primo grande festival del pop, organizzato a Monterey, in California, nel giugno del 1967, dimostrò come sterminato fosse il pubblico per quella musica, e che cosa significasse per chi avesse vent’anni [Polillo 1975, 287].
Questi erano, quindi, i nomi dei nuovi idoli musicali dei giovani di tutto il mondo, con cui i jazzisti dovevano confrontarsi. Il musicista che per primo abbandonò le vie del jazz acustico per entrare nel mondo del jazz-rock, utilizzando strumenti elettrici, fu Miles Davis, lo stesso che anni addietro aveva prodotto tanti dischi apprezzati proprio per la leggerezza e l’intensità dell’esecuzione.
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Benché, com’è ormai chiaro, non sia stato Miles Davis a inventare il jazz-rock, è indubbio che il trombettista seppe esserne il catalizzatore più potente, indicando strade e prospettive al jazz elettrico, e covando una nidiata di formidabili artisti che ne avrebbero codificato i metodi e le opzioni [Martorella 1998, 38].
Si era reso conto che quella musica faceva parte del suo passato e che i tempi erano cambiati, anche per il jazz, come egli stesso confessa. La gente della mia età che mi ascoltava “ai vecchi tempi”, i dischi non li compra nemmeno più. Se dovessi dipendere da loro, anche se suonassi quello che vogliono, morirei di fame e non riuscirei a comunicare con la gente che invece i dischi li compra: i giovani. Anche se volessi suonare questi vecchi pezzi non riuscirei più a trovare la gente capace di suonarli nel vecchio stile [Davis – Troupe 2001, 453].
Le parole di Davis testimoniano la necessità, da parte del musicista, ma anche di buona parte del pubblico, di una svolta estetica nella musica jazz. Nel 1968 c’è l’incontro con Jimi Hendrix, l’idolo del rock, e nel 1969 il trombettista incide il disco Bitches Brew, che ebbe un notevole successo e sancì il definitivo passaggio di Davis, e con lui di buona parte del jazz, all’elettronica. Di lì in poi, molti furono i musicisti e i gruppi che cercarono di “fondere” elementi della musica jazz con quelli della musica rock. Non a caso ho utilizzato la parola fondere, dato che il risultato di questo incontro fu etichettato come musica fusion, proprio dalla “fusione” di generi musicali differenti. Questa musica ha aperto linee di comunicazione fra il jazz tradizionale, con il suo background improvvisativo, e il rhythm & blues, il funk, l’acid rock bianco; questi canali di comunicazione sono ancora più ricchi dal momento che le musiche non jazzistiche implicate fanno comunque riferimento al blues [Cerchiari 2001b, 197].
Quindi la fusion è un genere musicale creato, per buona parte, dall’incontro di generi musicali differenti, in questo caso l’incontro del jazz con il rock. Col passare degli anni, soprattutto alla fine degli anni Settanta, il significato del termine fusion si allargherà fino a comprendere più che un genere musicale, il metodo di lavoro a esso sotteso, il processo attraverso il quale si ottiene, tacendo dei materiali che vengono elaborati e processati [Martorella 1998, 17].
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Se rivolgiamo uno sguardo verso il passato è impossibile non notare come, in tutta la sua storia, la musica jazz sia stata sottoposta a un continuo processo di “fusione” fra stili e generi differenti. La differenza è che, con il jazz-rock, questa fusione è consapevole, è ricercata da parte del musicista, mentre prima era il corso naturale della storia a far sí che certi cambiamenti avvenissero. Quando il rock apparve sulle scene i jazzisti dovettero compiere una scelta drastica e cosciente, una scelta di campo, fra il continuare la strada già battuta del vecchio jazz acustico (e molti lo fecero e lo fanno ancora oggi) o imboccare la via dell’innovazione, anche a costo di “sacrificare” molti elementi che avevano caratterizzato la musica afro-americana fino a quel momento come, per esempio, lo swing o l’uso di strumenti acustici. Fra i musicisti più famosi della fusion, solo per citarne alcuni, quasi tutti lanciati dai gruppi di Davis, ci sono i pianisti Herbie Hancock, Keith Jarrett, Joe Zawinul, Chick Corea, i bassisti Jaco Pastorius, John Patitucci, Marcus Miller, i chitarristi Pat Metheny, John Scofield, Mike Stern, John McLaughlin, i batteristi Steve Gadd, Dave Weckl, Dennis Chambers, i sassofonisti Bob Berg, David Sanborn, Bill Evans. La tromba, invece, al di là di Miles Davis, è sempre stata molto più utilizzata nel jazz tradizionale. Questi sono solo alcuni dei musicisti che contribuirono al successo della fusion, molti di loro sono attivi ancora oggi e continuano a sperimentare nuovi linguaggi sonori. Non manca comunque, come accennato, chi ha preferito proseguire la strada neoclassica, come Wynton Marsalis, e continua a suonare un jazz più tradizionale, fatto ancora con strumenti acustici e con sonorità più legate al passato. In un caso o nell’altro, va comunque sottolineato il ruolo fondamentale svolto dal jazz-rock nel far conoscere la musica afro-americana e i suoi musicisti al grande pubblico, nell’imporla al mondo come nuova e autentica forma d’arte. Questo avvenne anche grazie a innovative formazioni musicali come quella dei Weather Report, capitanata dal pianista di origine viennese Joe Zawinul e dal sassofonista di colore Wayne Shorter che, nel 1970 diede vita a una musica che ebbe grande effetto sul pubblico di tutto il mondo. Quando poi nel 1975 si aggiunse anche il geniale bassista Jaco Pastorius, il gruppo iniziò veramente a scrivere le pagine più belle della storia della fusion. Il disco di maggior successo fu indubbiamente Heavy Weather, uscito nel 1977, che apportava non poche novità musicali per l’epoca. Non c’erano più le lunghe improvvisazioni su pedale dei dischi precedenti,
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ma le composizioni venivano strutturate sviluppando i temi, orecchiabili ma non semplici, che venivano suonati spesso all’unisono fra il sassofono di Shorter e il basso fretless (senza tasti) di Pastorius. Il suono dello strumento di Jaco era così particolare che Joe Zawinul, rimasto molto colpito da una delle composizioni del disco solista di Pastorius, Continuum, racconta, a proposito dell’ingaggio del bassista nel gruppo: «Lo chiamai e la prima cosa che gli chiesi fu: «Hey, ragazzino, suoni anche il basso elettrico?». Aveva un suono così caldo e ricco su quel Fender Jazz senza tasti, che pensavo fosse un contrabbasso» [Milkoswky 2001, 50].
Figura 14.
Jaco Pastorius “parla” con il suo basso elettrico Fender senza tasti [PA].
Nonostante la complessità delle composizioni, quindi, il suono della band sapeva essere, frutto anche di un accurato lavoro di studio, di allucinata complessità e al contempo di immediata ricezione. Questa fu, forse, la chiave per comprendere il perché dell’enorme successo ottenuto dal gruppo negli anni Settanta. Facendo ampio spazio alle impressioni di viaggio, il loro repertorio è spesso costru-
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ito come musica a programma, un po’ alla maniera dei poemi sinfonici europei di fine Ottocento e primo Novecento. In seguito, la musica dei Weather Report si orienta verso una fusione di influssi diversi, in cui la scansione binaria del rock e delle musiche tropicali acquista via via maggiore importanza [Bergerot – Merlin 1994, 91].
Molte altre formazioni contribuirono alla crescita e al successo della fusion: gli Yellowjackets (del bassista Jimmy Haslip) e gli Steps Ahead (nati da una jam session nel locale dei fratelli Michael e Randy Brecker). Col passare degli anni, quello che era nato come jazz-rock ai tempi di Miles Davis venne distinto dalla musica oggi definita come fusion, che etichetta un genere musicale dedito all’unione di elementi non solo provenienti dal jazz e dal rock, ma anche dalle musiche etniche, tropicali, latine, dal funky, dal rap, dall’hip hop, dalla musica elettronica. Insomma, si può affermare con sicurezza che, mentre negli anni ‘70 il jazz-rock era spesso identificato con la fusion, adesso i due termini si riferiscono a realtà musicali differenti e che quello che prima era etichettato come jazz-rock ora è solo una costola della musica oggi conosciuta come fusion, una musica davvero “mondiale”. Diviene sempre più complicato, quindi, trovare una definizione chiara per la musica jazz, una musica sempre in trasformazione, in evoluzione, che vive delle contaminazioni con altri generi musicali e che, mai come in questo periodo di globalizzazione culturale, si sta arricchendo di nuovi linguaggi artistici. La fine del millennio Il jazz che va dagli anni Ottanta fino ai primi anni del nuovo millennio ha visto imporsi una generazione di giovani musicisti cresciuta ascoltando i grandi maestri e che, tentando di non cadere nella tentazione del revival, si è imposta come la nuova voce del mainstream. Molti di questi musicisti sono, come accennato, “figli” di Miles Davis, che si sono dedicati, in seguito, ai loro progetti solisti e continuano, ancora oggi, a suonare la loro musica con grande successo, ma ci sono anche musicisti molto giovani che cercano, e a volte riescono, a entrare con successo nel mondo del jazz. È molto difficile però, al giorno d’oggi, trovare una propria voce originale nel jazz, soprattutto in quello più tradizionale, poiché le lezioni di John Coltrane, di Miles Davis, di Charlie Parker, di Bill Evans sono ancora ben presenti nella musica di molti dei “giovani leoni”.
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La scomparsa delle canoniche “palestre” per i gruppi di nome, come i piccoli club che consentivano di provare le abilità dei singoli musicisti impegnandoli in interminabili jam sessions notturne, ha di fatto impedito lo sviluppo di personalità autenticamente originali. Molti jazzisti oggigiorno escono dalle università o dalle scuole di musica perfettamente formati e dotati di tecnica sovrumana, ma privi di qualunque caratteristica individuale atta a distinguerli dalla massa dei loro colleghi [Carr 1998, 212].
Per questo alcuni critici hanno cominciato ad allarmarsi, a denunciare “la stasi del jazz” dando il via all’attesa del nuovo genio. Ma costoro sono legati a schemi vecchi, per i quali si pretendeva una virata del jazz pressappoco ogni dieci anni come era accaduto, in contesti storici assai diversi, all’epoca degli stili tradizionali e classici. Nonostante queste difficoltà vanno sicuramente citati, fra i musicisti della nuova generazione, i fratelli Brandford (sassofono) e Wynton (tromba) Marsalis, i ragazzi prodigio che hanno esordito con i Jazz Messengers di Art Blakey, per poi suonare anche con artisti più votati al rock come Sting. Il trombettista Roy Hargrove, leader del movimento revival, la cantante Cassandra Wilson, autentica dominatrice della scena del canto jazz, il sassofonista classe 1937 Joe Henderson, riscoperto di recente come uno dei maggiori esponenti del sassofono tenore, sono certamente fra i musicisti che portano ancora alto il vessillo della musica jazz nel mondo, così come i giovani sassofonisti Bobby Watson, Tim Berne, Joshua Redman, che a volte suonano un jazz più “facile”, quasi non volessero lanciare grandi messaggi con la loro musica, ma fossero semplici intrattenitori. Molti altri sono oggi i musicisti che utilizzano un linguaggio jazzistico, pur non suonando esclusivamente jazz tradizionale. Va detto anche che il jazz, ormai, non è più proprietà dei neri americani, ma si è stabilita una sorta di comproprietà con i bianchi, sia a livello artistico che a livello di produzione discografica. Tutte radunate, per comodità, sotto l’etichetta di “jazz”, le musiche improvvisate si sottraggono al dominio esclusivo dell’America nera. Numerosi musicisti bianchi si sono appropriati del patrimonio del jazz: David Liebman e Richard Beirach più di ogni altro continuano ad approfondire l’eredità di John Coltrane e di Bill Evans; Keith Jarrett rianima la tradizione del trio per pianoforte e sezione ritmica alla luce di Bill Evans e della cultura classica europea; Pat Metheny alimenta le sue superproduzioni colorate di musica pop, brasiliana e country alle fonti di Ornette Coleman e di Wes Montgomery. Da Quincy Jones a Marcus Miller, oggi i neri sono numerosi anche tra coloro che
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gestiscono le strutture di produzione, ma si contano altresì molti musicisti bianchi tra le figure di riferimento che, a partire dagli anni Settanta, hanno influito fortemente sulle varie forme del jazz: si pensi a personaggi come Michael Brecker, David Sanborn e il chitarrista Larry Carlton [Bergerot – Merlin 1994, 104].
Ecco quindi che, oggi più che in passato, la tendenza multiculturalista del jazz si concretizza in un numero elevatissimo di artisti che hanno saputo reinterpretare il patrimonio culturale del loro paese, filtrandolo attraverso l’esperienza jazzistica. Si pensi, oltre al già citato filone brasiliano della bossa nova, alla musica cubana dei Buena Vista Social Club o del suonatore di maracas Machito; al chitarrista messicano Carlos Santana, autore di una fortunata sintesi personale tra rock, jazz e ritmi latini; al virtuoso del sitar (il tradizionale strumento indiano a corde simile a un liuto) Ravi Shankar o al percussionista Trilok Gurtu, entrambi indiani; alla musica kletzmer suonata da John Zorn, Don Byron, Uri Caine; al polistrumentista brasiliano Hermeto Pascoal; ai chitarristi Robben Ford, Eric Clapton e Stevie Ray Vaughan che, fra gli anni Ottanta e Novanta, hanno ottenuto grande successo suonando un bluesrock di grande impatto sonoro; al sassofonista argentino Gato Barbieri, che ha saputo coniugare l’universo dei tanghi e delle milonghe con l’urgenza espressiva del free jazz, allargando il suo raggio d’azione dalla natia Argentina agli altri paesi latinoamericani; alla musica del contrabbassista Charlie Haden, leader della Liberation Music Orchestra, nonché autore di bellissimi brani ispirati ai canti della guerra civile spagnola e della rivoluzione cubana; a Sun Ra che, con la sua Arkestra, si è fatto portavoce delle esigenze africane; così come a Steve Coleman, il sassofonista che, partito da un amalgama tra il jazz e ritmi da strada dell’hip hop, è approdato a una musicalità aperta alle tradizioni cubane e africane, frutto dei suoi viaggi a Cuba e in Senegal. Oltre a tutti questi artisti, che sono comunque una piccola parte rispetto a quelli in attività, vanno considerati i musicisti europei e italiani, che hanno contribuito non poco a una personale rilettura del patrimonio jazzistico e di cui si parlerà nei paragrafi seguenti. Affascinati dalla vitalità della musica di strada, alcuni jazzisti hanno sperimentato un inedito linguaggio artistico ai confini con il rap, il ritmo creato dai giovani dei ghetti newyorkesi [Sperandeo 2001, 199].
Fra questi abbiamo citato prima Steve Coleman, ma non va dimenti-
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cato, anche il precursore Miles Davis che, proprio col disco postumo Doo Bop, uscito nel 1992, un anno dopo la morte, ha conquistato il pubblico di tutto il mondo con la fusione fra il suono “magico” della sua tromba e gli scenari del rap. Su questo filone si collocano sicuramente il bassista Marcus Miller, il cantante Bobby McFerrin, Herbie Hancock, Quincy Jones, Archie Shepp, Wayne Shorter, Courtney Pine e tutti quegli artisti che hanno aderito a una revisione critica del passato e del presente della musica afro-americana, con l’intento di valorizzarne maggiormente la componente nera. La fusione tra rap e jazz si è realizzata nel corso degli anni e l’hip hop ha preso sicuramente forma dalla musica funk degli anni Settanta, quando artisti e gruppi come James Brown, Sly & The Family Stone, Head Hunters, Earth Wind & Fire, hanno accentuato la componente ritmica e sensuale della musica afro-americana (funk è il termine con cui si definisce l’odore del corpo durante l’atto sessuale), mantenendo un occhio di riguardo per la consapevolezza nera. Nell’hip hop tutto questo è stato sviluppato ulteriormente piegando la musica alla rivoluzione tecnologica in atto, utilizzando batterie elettroniche, loop, campionamenti, software e giradischi. La sintesi fra tutti questi elementi e le caratteristiche improvvisative e timbriche del jazz hanno creato questo nuovo genere musicale, rendendolo uno dei più innovativi degli ultimi anni. Accanto al movimento hip hop, che ha poi ulteriori e numerosi stili differenti, un altro genere che si è sviluppato dalla musica afro-americana è sicuramente l’acid jazz. Nato a Londra a metà degli anni Ottanta come musica da ballo l’acid jazz è stato molto più di questo. Una miscela di innocenza beat, di ribellione punk e di soul post anni Sessanta; un impulso al ballo; James Brown sotto acido, gli aspri allappanti sassofoni contralti di Lou Donaldson e di Maceo Parker che suonavano ad una festa rap; la perfetta fusione di ritmi hip hop urbani e di melodie puramente jazzistiche. La definitiva soluzione musicale ai problemi culturali degli anni Novanta [Carr 1998, 215].
Quindi l’acid jazz era stato concepito come una musica per locali da ballo, ma una musica comunque soffice, che avesse un tono distaccato. Tutto era iniziato con l’iniziativa di alcuni D.J. come Baz Fe Jazz e Gilles Peterson rivolta a dedicare le loro serate al Wag Club di Soho al jazz autentico, un evento che durò per ben cinque anni, un’eternità per un locale notturno. Nel 1988, dopo un periodo di lavoro nel locale
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Dingwall, Peterson e Eddie Piller fondarono la Acid Jazz Records, una casa discografica che produsse i nuovi gruppi della scena londinese come gli US3, i Brand New Heavies, gli Young Disciples, il James Taylor Quartet, i Jamiroquai, gli Incognito. A proposito dell’acid jazz lo stesso Peterson dice: «All’inizio tutto si riduceva a una selezione di brani jazz ballabili e poco conosciuti, vecchi dischi di jive e latin jazz; poi si sono aggiunti il groove, il funk degli anni Settanta e l’house music. In effetti l’acid jazz non ha niente a che vedere con la storia del jazz se non in senso retrospettivo; è una musica che fonde passato e presente; ha a che fare con la danza e con la scena dei club». Ovviamente l’acid jazz non è stato e non è solamente britannico, molte formazioni arrivano dal Giappone e dagli Stati Uniti, ma è importante sottolineare come, per la prima volta, sia stata la vecchia Europa a rivendere il jazz alla nazione che gli aveva dato i natali, e non già come pezzo da museo, ma come musica viva. Ecco, quindi, che la scena dell’acid jazz ha contribuito a creare una musica in grado di comunicare al di là dei generi e delle generazioni, e già una nuova comunità, con un nuovo suono (forse il drum’n’bass?) sta per farci attraversare la barriera del millennio. La rivoluzione elettronica che ha avuto inizio con l’invenzione del transistor a semiconduttore (vigilia di Natale 1948) e ha assunto grandiose proporzioni nei successivi quarant’anni con lo sviluppo dei chip, i microprocessori e le memorie a circuito integrato, ha reso possibile la realizzazione di computer personali di modeste dimensioni eppure dotati di grandi velocità di elaborazione e capacità di immagazzinamento dei dati. Ciò ha avuto un immediato riflesso sulla produzione della musica al calcolatore e su tutti i sistemi che ricorrono alla digitalizzazione dell’informazione [Frova 1999, 507].
Non va dimenticato, infatti, che il progresso scientifico ha profondamente modificato il modo di comporre e suonare musica e, senza ombra di dubbio, i primi effetti cominciano a vedersi anche nella musica jazz di oggi. Il jazz sbarca in Europa Il fatto che negli ultimi anni i nuovi stili del jazz non siano nati esclusivamente negli Stati Uniti, come nel caso del citato acid jazz britannico o di tutti quei “tropicalismi” sviluppatisi dall’incontro con culture latine, è una volta di più la dimostrazione della forte tendenza multiculturalista della musica afro-americana e del notevole apporto di culture “altre”, che hanno contribuito alla sua crescita e diffusione nel
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mondo. In particolar modo l’Europa, con la sua antica tradizione musicale e artistica, ha sviluppato, a partire dagli anni Sessanta, l’interesse per la musica jazz che è sfociato, spesso e volentieri, in registrazioni e performance che non si limitano a copiare quello che è il mainstream proveniente dai jazzisti americani, ma che hanno fissato i canoni di una musica che è riuscita a coniugare degli elementi della tradizione classica europea con quelli più propriamente jazzistici provenienti dagli Stati Uniti. L’Europa aveva già fatto la conoscenza del jazz ai tempi degli spettacoli dei minstrels e dei primi complessi come la Original Dixieland Jazz Band o la Marion Cook Syncopated Orchestra, della quale faceva parte il cornettista Sydney Bechet, che avrebbe poi vissuto a lungo in Francia. Anche il pianista Bud Powell, il batterista Kenny Clarke, lo specialista del soprano Steve Lacy e David Murray, membro del World Saxophone Quartet, hanno scelto, negli anni, di vivere nella capitale francese contribuendo alla crescita dell’attività musicale. Queste prime esperienze erano però principalmente passive, i musicisti europei erano ancora degli spettatori, ancora non avevano compreso l’essenza del linguaggio musicale jazzistico. Un belga, Robert Goffin, può essere considerato il promotore delle prime attività jazzistiche europee atte a studiare stilemi e caratteristiche della musica afro-americana, anziché soltanto ascoltarlo come esotica curiosità. Pubblicò, con l’aiuto di altri studiosi parigini come Charles Delauney e Hugues Panassié, numerosi saggi fra cui, nel 1934, il leggendario Le Jazz Hot, primo saggio sulla musica jazz in Europa. La diffusione che ebbe l’interesse per il jazz in quegli anni permise l’esibizione di molti artisti americani fra i quali Louis Armstrong, Coleman Hawkins, Duke Ellington, Miles Davis (che incise, alla fine del 1957, la colonna sonora del film di Louis Malle Ascenseur Pour L’Echafaud), che poterono esprimersi liberamente nel vecchio continente e, in alcuni casi, continuarono la loro attività in paesi in cui ricevevano un trattamento anche migliore che in patria. In realtà, già dagli anni Trenta, un chitarrista zingaro di nome Jean “Django” Reinhardt era attivo con il suo Quintette du Hot Club de France e può oggi essere considerato il primo vero musicista jazz europeo. Django si innamorò del jazz, lo vagheggiò da lontano, senza conoscerlo a fondo, e, nell’ambito di certe sue regole di linguaggio, improvvisando secondo la logica jazzistica, fece una musica tutta sua, che suscitò l’ammirazione anche dei più grandi jazzmen americani, ma non fece scuola [Polillo 1975, 517].
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Egli rimase un fenomeno raro e isolato. Autodidatta, quasi analfabeta, e con una menomazione alle dita della mano sinistra, riuscì comunque a diventare l’icona del jazz francese degli anni ’30, incidendo dischi che restano tra le prime brillanti gemme del jazz europeo: che è tanto più europeo, e cioè originale, svincolato dai modelli d’oltre Atlantico, quanto è meno tipicamente jazzistico. Però, come accennato, al di là di casi eccezionali come quello di Reinhardt, forme di jazz europeo autonome cominciarono a svilupparsi solo nei tardi anni Sessanta. La strada per l’evoluzione autonoma del jazz europeo si è aperta soltanto dopo che la musica jazz si era liberata dalla dittatura del metro regolare e uniforme, dell’armonia funzionale convenzionale dei periodi e dei decorsi armonici simmetrici. La prima spinta in questa direzione è avvenuta, anche in questo caso, dall’America, da musicisti come Cecil Taylor, Ornette Coleman, Don Cerry, Sun Ra che crearono il “suonare libero” a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta. Ma questa spinta ha avuto in Europa un’efficacia maggiore che non negli Stati Uniti; sembrava di aver trovato terra particolarmente fertile al di qua dell’Atlantico. Probabilmente perché il concetto dell’atonalità, nel suo significato più ampio, non ha provocato in Europa la scossa che invece ha provocato in America. La moderna musica da concerto ha abituato l’ascoltatore a passaggi musicali atonali e l’atonalità si era, contrariamente a quanto accadeva in America, inserita nei concerti e nelle trasmissioni radiotelevisive [Berendt 1979, 396-397].
Fu quindi il free jazz a dare la spinta finale per l’avvio della musica jazz in Europa, dove, con il dissolvimento dell’armonia funzionale, si aprì la via all’improvvisazione collettiva, libera e indipendente. D’altronde, il concetto di avanguardia era più facilmente assimilabile in Europa, dove il radicalismo e l’anarchismo nell’arte erano da tempo entrati nel giudizio estetico comune. Ecco, quindi, che il jazz europeo si configura come un jazz collettivo, complice anche la grande tradizione orchestrale, dove non c’è la predominanza di una star solista, come invece avviene nel jazz più propriamente americano. Restano, comunque, dei nomi di musicisti europei che hanno raggiunto la fama internazionale come solisti, quali il pianista tedesco Alexander von Schlippenbach, il sassofonista Peter Brotzmann, il chitarrista inglese Derek Bailey e, in tempi più recenti, il sassofonista norvegese Jan Garbarek (già collaboratore di Keith Jarrett) e il pianista francese Michel Petrucciani. Dalla fine degli anni Sessanta il nuovo jazzman europeo è una realtà indiscutibile: è un musicista che non si limita a suonare alla maniera degli americani, dopo averne
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raccolto di rimbalzo le idee e le proposte stilistiche, ma fa spesso musica con loro e non ha più paura di inventare [Polillo 1975, 298].
Figura 15.
Il pianista francese Michel Petrucciani [JV].
Fu in particolare la Francia il paese più attento alla musica afro-americana e, proprio a Parigi, nacquero i primi club, le cosiddette “caves”, situate tutte sulla Rive Gauche della Ville Lumière, dove era facile incontrare, oltre ai musicisti, anche personalità di cultura, come lo scrittore esistenzialista Jean-Paul Sartre, o Cocteau, o Simone de Beauvoir, o ancora l’attrice Juliette Greco. Ancora oggi Parigi è la capitale del jazz europeo, così come ne è stata la sua culla nei primi anni di vita. Vi si svolgono infatti due importanti rassegne, una alla Cité de la Musique nel parco della Villette e l’altra, la Banlieu Bleues, nella periferia della città, chiamata appunto Banlieu. La Cité de la Musique è un insieme di complessi sorti di fronte al conservatorio che comprende sale da concerto, biblioteche, una mostra permanente sulla musica, una mediateca e un autentico jazz club. È quindi una struttura che ben evidenzia l’interesse che i francesi rivolgono alla musica jazz, così come i numerosi negozi di dischi in cui gli artisti sono soliti presentare le loro opere anche con concerti dal vivo, come accade al Paris Jazz Corner, situato al numero 5 di rue de Navarre, o al Virgin Megastore sull’avenue de Champs Elysée, dove esiste un servizio di importazione diretta che assicura agli appassionati le ristampe più difficili da trovare. Molti sono anche i loca-
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li dove si svolgono i concerti dei più grandi musicisti francesi e internazionali, come il New Morning, che possiede una sala da cinquecento persone, l’Istants Chavirés, La Villa, il Lionel Hampton (dedicato al leggendario vibrafonista) o il Duc des Lombards che ha contribuito, tra l’altro, all’affermazione di due musicisti italiani, Paolo Fresu e Stefano Di Battista, divenuti entrambi beniamini del pubblico parigino. Ma l’amore dei francesi per il jazz è riuscito anche a far crescere delle personalità di spicco come quella del pianista Michel Petrucciani (morto nel 1999), del pianista Martial Solal e del fisarmonicista Richard Galliano, che ha riportato di moda la musette, la fisarmonica appunto, che costituisce uno degli strumenti più tipici della cultura musicale francese. Un’altra città dalla grande tradizione musicale che ha dato una spinta verso la nascita di un jazz più propriamente europeo è stata Vienna. La Vienna Art Orchestra di Mathias Rüegg e il sassofonista Wolfgang Puschnig sono gli eroi principali di una scuola jazzistica che si distingue per la sua capacità di mescolare con eleganza materiali sonori di origine diversa. D’altronde, da almeno tre secoli, Vienna è una delle capitali indiscusse della musica mondiale. Da Haydn a Mozart, da Beethoven al valzer e all’operetta, fino alla dodecafonia di Arnold Shönberg, la capitale austriaca ha contribuito enormemente alla crescita musicale dell’Europa e del mondo. In realtà, però, l’evento jazzistico più rilevante avviene a Saalfelden, un centinaio di chilometri a Ovest di Vienna nella ragione di Salisburgo, dove si svolge una manifestazione che ricorda molto i vecchi raduni rock di Woodstock e dell’isola di Wight. Il palco viene montato su un prato verde molto grande dove si esibiscono tutti i più grandi artisti austriaci e stranieri che, durante il resto dell’anno, suonano in giro per il mondo. Saalfelden, insomma, rinverdisce quello spirito libertario e ribelle che verso la fine degli anni Sessanta propiziò la nascita del free jazz, un po’ come avvenne nelle prime edizioni di Umbria Jazz. Anche in Olanda, in Inghilterra e in Italia, però, l’attività jazzistica è divenuta molto più intensa col passare degli anni e si è un po’ emancipata dall’influenza americana, anche grazie al rifiuto di riproporre sempre i soliti temi degli standards. Il musicista jazz europeo di oggi dispone di una tavolozza musicale i cui colori provengono dalla grande cultura musicale e dal folklore di tutto il mondo e conosce il suo Stockhausen e il suo Ligeti meglio di qualunque suo collega americano. Di questi elementi egli dispone con maggior disinvoltura e maestria dei jazzisti americani e dei concertisti europei, in quanto nei primi predomina la tradizione jazz e nei secondi la
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tradizione della musica europea da concerto [Berendt 1979, 400].
Ha ben sintetizzato questa situazione il pianista inglese Howard Riley dicendo: «Ci rimproverano di aver abbandonato il jazz, di non suonare più il jazz. Okay. Però non suoniamo nemmeno musica da concerto perché il nostro feeling è il jazz. L’accento rimane sull’improvvisazione. Credo che sia nata una nuova musica con un’identità sua propria. Finora nessuno è abbastanza preparato da presentare questa musica. Con essa l’estabilishment rock o pop non riesce a far soldi abbastanza velocemente. L’estabilishment jazz ha da risolvere i propri problemi per mantenersi a galla. E l’estabilishment da concerto ancora non vuole ammettere che venga riconosciuta come musica seria qualche cosa che non sia uscita dalla tradizione accademica».
Figura 16.
Mappa cronologica della storia del jazz [Berendt 1979, 13].
84 2.4.
CAPITOLO SECONDO L’Italia del jazz
Un discorso particolare merita il mondo del jazz italiano passato e presente, anche per il contributo originale che ha saputo offrire alla musica afro-americana. In realtà poco si conosce sui primi anni di vita del jazz in Italia, si sa comunque che la sua storia è stata piuttosto travagliata anche perché, durante i suoi primi vagiti, questa musica dovette fare i conti con il regime fascista, che ne ostacolò la diffusione in quanto espressione della cultura americana allora nemica. Basti pensare che era stata imposta l’italianizzazione forzata dei titoli degli standards che assumevano, tradotti in italiano, dei significati pittoreschi, come nel caso di In The Mood, che diventava “Con stile”, o di On the Sunny Side of the Street, che veniva chiamato “Dal lato aprico della strada”, o ancora di Honeysuckle Rose che apparve con il titolo di “Pepe sulle rose”. Per non parlare poi dei nomi dei musicisti che venivano “storpiati”, come nei casi di Louis Armstrong e Benny Goodman, rispettivamente cambiati in “Luigi Braccioforte” e “Beniamino Buonuomo”. Nonostante la grottesca situazione, c’è da dire che la musica swing piaceva e su di essa si basavano i background orchestrali, ma non era bene parlarne perché si scontrava con il clima imperante sotto il regime, secondo il quale ogni buon italiano doveva dormire la notte. Nacquero perciò, anche sotto il regime, delle iniziative importanti come la pubblicazione del testo Introduzione alla vera musica jazz, pubblicato da Giancarlo Testoni ed Ezio Levi grazie al placet del figlio del dittatore, Vittorio Mussolini, grande appassionato di cinema e musica jazz, il cui amore avrebbe poi trasmesso al fratello Romano, attivo ancora oggi con una sua personale orchestra. Il tutto avveniva però in modo molto “furtivo”, “mascherato”, e fu forse per questo motivo che i primi concerti di jazz in Italia furono organizzati esclusivamente grazie a pochi appassionati, che si fecero carico di contattare i musicisti e le orchestre. Emblematico il caso del torinese Alfredo Antonino, che fu l’artefice dell’arrivo in Italia, nel gennaio del 1935, di Louis Armstrong, come egli stesso racconterà sulle pagine della rivista Jazz, il primo periodico italiano dedicato a questa musica, che veniva pubblicato nella sua città. «Era in Francia, per una serie di spettacoli, e fui io ad interessarmi personalmente per farlo venire. Giocavo già su una buona amicizia epistolare con Louis. E Louis Venne. «Non andare in Italia, i fascisti ti fischieranno!», gli avevano detto in Francia: ma lui non ci badò. Quella sera i musicisti di
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Torino avevano disertato le sale da ballo e la coda di automobili davanti al Chiarella (il teatro il cui omonimo titolare aveva contribuito in modo determinante all’arrivo di Armstrong) era lunghissima e il pubblico formava una fila che arrivava sino al Corso Vittorio, tre isolati prima». Anche se la serata andò benissimo e lo stesso Armstrong rimase contentissimo dell’accoglienza ricevuta, quella fu la prima e l’unica città italiana in cui un grande del jazz si esibì negli anni in cui l’Italia si stava preparando alla cosiddetta “avventura d’Abissinia”. Il regime imperante sosteneva che “avrebbe portato la civiltà ai barbari” e il riconoscere che un musicista dalla pelle nera potesse avere un qualche significato artistico era inconcepibile. Il concetto stesso di “concerto jazz”, d’altronde, non faceva parte in quei tempi del lessico utilizzato dal mondo dello spettacolo, che rivolgeva i suoi interessi musicali pressoché esclusivamente a musicisti e orchestre funzionali ai dancings nei quali il pubblico chiedeva musica acconcia per ballare [Roncaglia 1995, 40].
Un po’ come avveniva in America per lo swing, in Italia buona parte della musica era suonata per ballare o per intrattenere il pubblico ed era quindi proposta in luoghi adatti a questo scopo, come gli alberghi o i dancings. Il 6 febbraio 1927 venne inaugurato l’Hotel Ambasciatori di via Veneto a Roma, oggi Grand Hotel Palace, e le cronache si occuparono dell’evento. Non mancò la musica jazz, con Sesto Carlini, importante sassofonista e promotore del jazz nostrano, che era stato chiamato a intrattenere il pubblico con la sua orchestra appropriatamente denominata Ambassadors Jazz Band. Da quel momento il gruppo si sarebbe esibito ogni sera, dalle 22.30 alle 2.00 nel Grill Room dell’albergo. Negli american bar d’albergo, ma anche nei locali notturni più o meno esclusivi, i clienti venivano intrattenuti da orchestre, termine che a tutti gli anni Sessanta servirà a indicare indifferentemente i complessi da ballo, che a partire dagli anni Venti si sarebbero servite anche del jazz per accompagnare la vivace ed effervescente cocktail culture italiana. Spesso si trattava di veri e propri pionieri del ritmo sincopato, costretti a contrabbandare il jazz a inizio e fine serata davanti a un pubblico affamato di tanghi, valzer e al massimo di esotismi latino-americani come la rumba, danza afro-cubana dal carattere fortemente sensuale che negli anni Venti e Trenta incontrerà i favori del pubblico nostrano [Adinolfi 2000, 383].
Tra il 1924 e il 1929, così come in America, quindi, anche in Italia si visse una stagione particolarmente felice per la musica jazz, che riscuo-
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teva i favori del pubblico. D’altronde, al tempo, il regime fascista non si era ancora espresso contro la musica americana e per gli stessi gerarchi il jazz rappresentava una nuova, esotica forma da ballo. Anche sulle navi che operavano la tratta Genova-New York, in particolare sul Roma, l’Augustus, il Saturnia, il Vulcania e soprattutto il Rex, il più grande transatlantico italiano, il jazz andava molto di moda e i musicisti tornavano spesso in Italia con valigie piene di dischi e informazioni musicali provenienti direttamente dagli Stati Uniti. Nel 1928, poi, la rivista Critica Fascista si espresse in maniera negativa nei confronti della musica afro-americana. Va considerato, comunque, che “in barba” alle direttive autarchiche del regime, i musicisti dell’anteguerra erano straordinariamente attenti alle mode d’oltreoceano e conoscevano in modo analitico, approfondito, i congegni, non solo convenzionali e quindi appariscenti, del jazz, ma proprio la sua intima struttura. Il regime invece demonizzava il jazz, considerandolo veicolo d’infezione e di degenerazione, una specie di tabù sociale. L’America postbellica con le sue jazz bands, sopra i frenetici ritmi dei quali si balla in ogni sala e salotto dell’universo intero, sta metodicamente soffocando le ricche e delicate tradizione autoctone presso i popoli che sono i depositari legittimi della saggezza e della misura antica [Mazzoletti 1983, 191].
Nonostante le avversità, la passione per lo swing durò fino a tutti gli anni Cinquanta, anche perché spesso la censura non riguardava tanto il jazz in sé, ma gli autori dei vari temi. Dal 1935 allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale si imposero i nomi di impeccabili swinger, come il fisarmonicista Gorni Kramer, Tullio Mobilia, Enzo Ceragioli, abituati a suonare nella penombra dei night club più esclusivi. È fuor di dubbio che il primo posto del jazz italiano fu, verso la metà degli anni Trenta, il Caffè Crimea torinese, che gli appassionati cospiratori raggiungevano attraversando il ponte Umberto sul Po per periodici appuntamenti, convocati con il consueto tam-tam sussurrato, per riunirsi e ascoltare le ultime novità ricevute da Alfredo Antonino su fruscianti dischi a 78 giri. C’erano poi, sempre a Torino, il Circolo Canottieri Esperia, dove si esibiva spesso un’orchestra con il pianista Ettore Pedamonte. A Milano, negli anni ’40, esisteva il Circolo Jazz Studenti, fondato da Gianfranco Maldini. Il jazz, di fatto, si ascoltava a quei tempi nel chiuso delle case, fra amici fidati,
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appartenenti a una sorta di confraternita clandestina, suonandolo anche, a volte, come accadde alla fine degli anni Trenta a Torino, dove ebbe vita un’esperienza senza paragoni in Italia: quella della ormai leggendaria Taverna Sobrero [Roncaglia 1995, 73].
La Taverna si trovava all’interno della villa del noto produttore di calze, che l’aveva creata per offrire al figlio contrabbassista un luogo per suonare la musica che lo appassionava. Divenne, ben presto, un luogo dove si incontravano i musicisti e gli appassionati pedemontani per suonare e discutere di musica. Ovviamente con uno di essi che, a turno, faceva da “palo” all’esterno per segnalare l’arrivo di eventuali ronde fasciste o militari: cosicché accadeva sovente che The Sheik of Araby, tema sul quale ci si sbizzarriva più di frequente, sfumasse nelle note di Giovinezza o di qualche canzonetta in voga all’epoca [Roncaglia 1995, 74].
Venne poi la guerra, che causò un black out sia per le informazioni che provenivano dagli Stati Uniti, sia per l’attività stessa dei jazzisti italiani che furono costretti a partire per la guerra o a fare i conti con la sempre più dura repressione del regime fascista. Ciò che avvenne nel periodo prebellico costituì, in ogni caso, la solida, necessaria base affinché il jazz conquistasse un equo riconoscimento in Italia. Fu però nel dopoguerra che il jazz ebbe finalmente la possibilità di poter essere suonato, ascoltato, vissuto senza repressioni e le orchestre iniziarono a incidere dischi non più mascherati sotto falso nome, come nel caso di At The Woodchoppers Ball di Pippo Barzizza o Tuxedo Junction di Giampiero Boneschi, realizzato a neppure un mese dalla fine della guerra. Sempre nel primo dopoguerra ebbero finalmente libertà di esprimersi studiosi come Arrigo Polillo, Giuseppe Barazzetta e Roberto Leydi, coautori della Enciclopedia del Jazz, prima opera al mondo di tale mole e di così ricchi contenuti. In ogni caso fino agli anni Cinquanta e Sessanta il jazz italiano era rimasto fortemente ancorato al modello americano, non avendo potuto sviluppare una propria autonomia stilistica. Il jazz italiano è stata una realtà irrilevante finché ha aderito al modello americano in modo qualunquistico, riproducendo in chiave acritica e imitativa, e quindi ottusa e reazionaria, l’esaltazione derivata da certe immagini musicali; ma l’imitazione si basa essa stessa su un presupposto di qualunquismo [Castaldo 1978, 116].
Anche in Italia, come nel resto d’Europa d’altronde, fu il free jazz a
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dare una forte spinta verso una musica che fosse sì d’ispirazione jazzistica, ma che includesse anche molti elementi della cultura musicale italiana, così ricca e fertile di talenti. Il musicista napoletano Mario Schiano può essere considerato uno dei pionieri del free jazz in Italia e fondò, insieme al sardo Marcello Melis e al romano Franco Pecori, il Gruppo Romano Free Jazz. Questi musicisti prendevano spunto da quello che stava accadendo, non solo musicalmente, ma anche socialmente, in America, per adattare la nuova musica alla loro realtà sociale, come dirà lo stesso Schiano a Il Manifesto: «Cercavamo di spiegare il nostro free come adesione ideologica e stilistica alla protesta espressa in musica dai neri e come risposta provocatoria alla nostra realtà». Non era però facile il colloquio con un pubblico che, all’epoca, si manifestava piuttosto indifferente a queste forme musicali, preferendo di gran lunga le esibizioni dei cantanti nei night club, i quali seguivano una via più “classica” e riscuotevano maggior successo. Anche lo stesso Schiano ricorderà, dei suoi esordi nei locali: «Nel 1955 ho suonato nei locali di Napoli. Lì c’erano locali notturni importanti come il Lloyd Club, il Rosso e il Nero, il Milleluci e lo Shaker. Ovviamente esisteva una notevole differenza tra il night club statunitense e quello italiano. Da noi veniva privilegiato il repertorio leggero, cose come Maruzzella o Luna Caprese. La musica internazionale contava poco, anzi quasi nulla. Certamente non è stato facile abbandonare il night, che in fondo procurava anche discreti guadagni. Ma è stata una questione di scelte e aspirazioni. Perché i locali notturni non consentono di esprimersi, all’interno manca la possibilità di improvvisare. Nel night hai di fronte un pubblico che non è entrato per sentire la tua musica, ma per ballare, o chiacchierare». Ancora oggi, nella maggior parte dei locali notturni, la gente considera la musica come un sottofondo piacevole, ma pochi sono i locali dove effettivamente si va per ascoltare appositamente i musicisti suonare. In Italia, terminata la Seconda Guerra Mondiale, gli uomini, gli ambienti, sono diametralmente opposti rispetto alla situazione degli Stati Uniti. Noi la guerra l’avevamo avuta direttamente nelle nostre case! Le situazioni mentali, psicologiche degli italiani, le città ridotte a cumuli di macerie, il ricordo di quegli anni orrendi appena trascorsi, fanno scattare nella gente una grande molla: la voglia di dimenticare, di ricominciare, di ballare, di esorcizzare la grande paura appena trascorsa, il desiderio di riassaporare la gioia dopo tanti anni di sofferenza. Qui da noi non si anticipa il futuro, come facevano negli Stati Uniti, i jazzisti del bebop, si ricomincia a vivere il presente. Lo swing, il dixieland, erano generi musicali già precedentemente conosciuti nel nostro paese, solo ora, nella seconda metà degli anni ’40, nasce un nuovo genere jazzistico interamente
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italiano, il jazz da night [JI].
Il primo di questi night club fu, probabilmente, il Mario’s Bar, un locale di Roma aperto nel 1949 e situato in via di Porta Pinciana, in cui si suonava esclusivamente jazz. Il proprietario era Pepito Pignatelli, un fanatico del bebop, e lì si esibiva la Roman New Orleans Jazz Band, la più affermata orchestra di jazz tradizionale della capitale. Sempre a Roma c’era l’Hot Club, fondato il 28 ottobre 1945, che era in realtà uno dei tanti locali jazz nati in Italia dopo la liberazione. Questi erano frequentati da “jazzofili” che si riunivano settimanalmente per effettuare disco-audizioni organizzate dai membri più esperti, dando vita anche a jam session e a veri e propri quiz musicali. I primi Hot Club erano sorti già negli anni Trenta a Torino e Milano [Roncaglia 1982, 97].
Le attività di questo tipo di club erano a volte pubblicizzate anche dai giornali, come nel caso del giornale romano La Repubblica (da non confondersi con il grande quotidiano di oggi) che, nel 1948, con cadenza quindicinale, dava notizia delle attività dei club grazie ad Arrigo Polillo. Lo stesso Polillo, assieme a un nutrito gruppo di amici e di appassionati, riuscì a fondare la F.I.D.J., ovvero la Federazione Italiana del Jazz, che costituiva, assieme alla rivista Musica Jazz, la cassa di risonanza per promuovere le attività jazzistiche in Italia. E proprio dalla F.I.D.J. fu organizzato il primo festival del jazz in Italia, a Sanremo nel 1955, città poi divenuta popolare per il festival dedicato alla canzone italiana. Purtroppo lo stesso Polillo dovette rendersi conto che ancora un jazz propriamente italiano, all’epoca, non esisteva. Nella maggior parte dei casi i professionisti del jazz italiano lo identificavano con la jam session condotta sulle armonie degli standards statunitensi. Nonostante queste limitazioni, molti furono gli artisti italiani e stranieri a esibirsi a Sanremo, il cui festival rappresentò il giro di boa per il microcosmo del jazz italiano. Era, però, sempre nei locali che si scrivevano le pagine della storia della musica italiana, e lì si esibivano musicisti come il chitarrista Franco Cerri, Piero Piccioni, Eraldo Volonté, il trombonista Mario Pezzotta, il sassofonista Fausto Papetti. Uno degli artisti che meglio ha rappresentato l’atmosfera del night club italiano, però, resta Fred Buscaglione. Contrabbassista, violinista, attore, interprete di caroselli pubblicitari, il musicista si
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era imposto nei locali notturni di Torino, città in cui era nato e in cui aveva conosciuto Leo Chiosso, il paroliere delle sue canzoni più famose. Negli anni Cinquanta è stato il musicista più richiesto dai locali notturni italiani e anche il primo a usare ritmiche jazz fino a quel momento insolite per le canzoni di musica leggera [Adinolfi 2000, 404-405].
Ma il vero grande re dei jazz vocalist italiani è stato Nicola Arigliano, cantante, sassofonista e contrabbassista jazz, che a lungo si sarebbe esibito al Victor’s Bar, il primo vero night club della capitale, il luogo più esotico e immaginifico del nostro dopoguerra. Lo swing evocato da Nicola Arigliano era quello di Benny Goodman, ma anche di Louis Armstrong o Billie Holiday, era soprattutto quella maniera di interpretare un brano che non rimanda necessariamente a uno stile specifico, lo swing appunto, ma più genericamente a un suono che fa leva sulla immediatezza comunicativa. Purtroppo non avrà grande fortuna nei nostri night club e come già ricordato i musicisti, spesso valenti jazzmen, saranno costretti a reprimersi illanguidendo i clienti con mille versioni di Luna rossa, un brano portato al successo da Claudio Villa nel 1950, divenuto tra gli ingredienti essenziali del repertorio da night. «Quando si parla di night club, racconta Arigliano, si deve tener conto che nel nostro paese non è successa nemmeno la millesima parte di quello che avveniva negli Usa. Negli anni del dopoguerra vedevi girare gli americani con cioccolata e sigarette. Loro bevevano, mangiavano e fumavano e noi tiravamo la cinghia. Nei night club abbiamo voluto fare gli americani, abbiamo imitato ma con ben poche possibilità» [Adinolfi 2000, 406].
Proprio in locali come il Victor’s Bar, di proprietà di Victor Tombolini, si respirava quel clima euforico del dopoguerra, un clima che tendeva a esorcizzare, anche e soprattutto attraverso il ballo, gli eventi bellici appena vissuti. Divenuto uno dei locali storici della “Dolce Vita”, un’isola di prosperità del tutto staccata dal resto dell’Italia, un paese affogato nella disoccupazione, negli scioperi, nel degrado, come avveniva in molte zone del Sud. Gli appuntamenti più elettrizzanti del Victor’s Bar erano quelli del venerdì, veri e propri gran gala curati nei minimi dettagli da Tombolini. Sarebbero divenuti i primi tentativi di riportare anche in Italia l’usanza della “sala a tema”, ricreando all’interno di un locale terre e culture distanti e soprattutto mille esotismi d’America [Adinolfi 2000, 408].
Oltre al Victor’s c’erano, però, altri locali dove si cominciavano a sperimentare nuove “formule” di intrattenimento per i clienti, che spes-
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so prevedevano l’impiego della musica jazz. C’era per esempio la Rupe Tarpea che, sempre a Roma, fu il primo night club a sperimentare la contaminazione tra jazz, strip tease, ristorante e ballo. Lì si sarebbe consolidato anche il fenomeno dei fotografi d’assalto, che andavano alla ricerca di scoop sulle celebrità, i cosiddetti “paparazzi”. In ogni caso, in questi locali si suonava il jazz e spesso vi si trovavano grossi nomi del mondo della politica e dello spettacolo che, dopo la chiusura del locale, portavano i musicisti a casa loro per proseguire la serata, come ricorda Piero Vivarelli. «Una sera di marzo del 1956 mi telefonò Roberto Papasso, noto promotore del jazz in Italia e critico musicale, dicendomi che Dizzy Gillespie si trovava a Roma e che aveva voglia di suonare. L’unico posto in cui era possibile trovare una batteria e un pianoforte era a casa di Carlo Croccolo, un attore che amava molto il jazz e che frequentava i night club. A casa di Croccolo c’erano il bassista Tonino Ferrelli, Piero Piccioni e anche Lelio Luttazzi, accompagnato da un gruppo di signore. Dizzy era alla tromba, io alla batteria; cominciò a suonare anche Lelio Luttazzi, che presto fu sostituito al pianoforte da Piero Piccioni. L’episodio più curioso fu quando telefonò l’inquilino del piano di sotto, furibondo per via del rumore che stavamo facendo. Fui io stesso a rispondere e gli dissi: «Ma lo sai che c’è qui Dizzy Gillespie?». Pensando che lo stessi prendendo in giro si imbestialì e venne subito a suonare il campanello. Aveva indosso una vestaglia, mise la testa dentro e quando vide Dizzy impallidì. Noi avevamo finito gli alcolici e lo rispedimmo subito al piano di sotto a prendere il cognac». I locali erano molti nella capitale, c’era il Club 84, aperto nel 1957 da Oliviero Comparini, il Kit Kat, ma in particolare le Grotte del Piccione, locale di proprietà di Giovanni Gabrielli situato in via della Vite, che rimase in attività fino al 1975. Alle Grotte, note a partire dagli anni Trenta per aver ospitato Frank Whiters, Vittorio Spina e altri jazzmen italiani e stranieri, le orchestre principali cominciavano a suonare intorno alle 23.00 e terminavano alle 4.00. Il ristorante apriva alle 21.00 e già alle 21.30 le saracinesche venivano abbassate per frenare l’afflusso di pubblico. I clienti, sempre abbienti e dal portafoglio facile, come del resto la clientela degli altri locali, cenavano cullati da orchestre minori, ma non per questo meno preparate [Adinolfi 2000, 419].
Il locale fece la storia del jazz romano e ci si esibirono grandi uomini dello spettacolo quali Peter Van Wood e, soprattutto, Renato Carosone che, con la canzone Tu vuo’ fa’ l’americano, riuscì a divenire uno dei
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più strenui difensori della cultura di massa di un’Italia provinciale che cercava di assorbire, col minor danno possibile, la sfida dei prodotti americani. Insomma, molte furono le stelle del panorama nazionale che si esibivano nei night club dove, anche a costo di sacrificare un po’ la loro arte, riuscivano a guadagnarsi da vivere contribuendo, nel contempo, a creare un ritratto fedele dei costumi dell’Italia di allora. La situazione dei night club era però, a detta di molti musicisti, frustrante dal punto di vista artistico, occorrevano quindi nuovi spazi per potersi esprimere, cercando di essere il più liberi possibile dalle logiche di mercato. Con l’arrivo degli anni Settanta il jazz avrebbe conquistato spazi sempre maggiori. Addirittura, alla fine degli anni Sessanta, si era assistito a una iniziativa editoriale che era impensabile pochi anni prima: la Fabbri Editori, fra la sorpresa generale, era uscita in edicola con fascicoli monografici dedicati ai grandi del jazz. Il successo dell’iniziativa dimostrò che in Italia esisteva una nutrita schiera di appassionati di questo genere musicale. Fu proprio in quegli anni, infatti, che si moltiplicarono le manifestazioni jazzistiche e i festival, organizzati da una vera e propria legione di promotori in tutta Italia. La manifestazione più importante, che ha ancora oggi una risonanza internazionale rimane Umbria Jazz. Organizzata da Carlo Pagnotta, un appassionato di Perugia, vide la sua prima edizione nel 1973, in un periodo in cui l’Italia era scossa da violente proteste studentesche e sindacali. Erano anche anni in cui emergeva in misura sempre più appariscente il concetto della politicizzazione della musica e la conseguente contestazione, in base alla quale i gruppi di giovani, utilizzando il principio contenuto nello slogan “la musica è nostra”, rivendicavano il diritto di assistere gratuitamente a ogni tipo di concerto, rock, pop o jazz, mettendo in atto lo “sfondamento”, la pressione in massa sugli ingressi ai concerti [Roncaglia 1995, 60-61].
Questo causò numerosi tumulti ed episodi di teppismo, che divennero così consueti e gravi da indurre addirittura il vescovo di Orvieto e Todi a minacciare la chiusura delle chiese della diocesi, se i concerti si fossero ancora svolti nelle località della sua giurisdizione. Nel 1977 la manifestazione si prese quindi un “anno sabbatico”, anche perché la situazione era divenuta insostenibile. Emblematiche le parole di Arrigo Polillo su Musica Jazz a tal proposito: «Se avete venti anni, se vi diverte dormire in tenda o infilati in un sacco a pelo non importa dove, se vi piace far toeletta su una panchina in un giardino pubblico, e soprattutto
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se non vi importa del jazz, andate pure a Umbria Jazz i prossimi anni, ammesso che la manifestazione venga ripetuta... ma se invece amate il jazz e la vita dello zingaro non fa per voi... statevene a casa. Al posto del jazz, che si ascolta malissimo, stando in piedi o arrampicati chissà dove, anche sugli alberi, potrebbe esserci qualunque altra cosa: rock, che riuscirebbe certo più gradito, o una competizione sportiva, tanto che alla quasi totalità del pubblico del jazz non importa, e non è noto, pressoché nulla...». Le parole di Polillo colgono una parte della verità, poiché se è vero che molti giovani si recavano a Umbria Jazz trascinati dal clamore e non tanto dalla passione per la musica jazz, ce ne furono di certo molti che, ascoltando quei concerti, ebbero la possibilità di appassionarsi a un genere musicale fino ad allora a disposizione esclusivamente di ristrette cerchie di appassionati, questo anche per i prezzi proibitivi dei concerti. Ovviamente chi divenne, in quegli anni di tumulti, ascoltatore e partecipe dovette poi rivalutare il suo approccio alla musica, così come il modo di fruirla. Quindi, nonostante i disagi, il togetherness, lo stare insieme, riuscì comunque a suscitare riflessioni sulla musica nella testa di molti giovani ascoltatori. Era nato infatti in quei giovani un interesse e un desiderio, magari inconscio, di paragonare ciò che veniva loro proposto con ciò che il musical business sino ad allora aveva loro sostanzialmente imposto e cui erano stati oggettivamente succubi [Roncaglia 1998, 400].
Quindi, se è vero che i giovani spesso avevano preferito il rock al jazz, è anche vero che mai il musical business s’era di esso interessato promuovendolo a livello di spettacolo, data la scarsa possibilità di trarne i lauti profitti che il rock, invece, sapeva garantire. Nel momento in cui una manifestazione come Umbria Jazz divenne accessibile alle nuove generazioni, queste dimostrarono il loro apprezzamento per un genere che sapeva offrire un feeling con il pubblico ben diverso rispetto all’imposizione di uno show accattivante di una rockstar. Ciò nonostante, i problemi politici rimasero e le prime edizioni di Umbria Jazz vengono ricordate con timore anche da parte di molti negozianti, che subirono il cosiddetto “esproprio proletario”: l’impossessarsi, cioè, nei negozi e negli esercizi pubblici di tutti i beni, dal cibo agli oggetti più disparati. Con gli anni Ottanta la situazione sociale in Italia mutò e questo si rifletté anche sulla manifestazione, che riuscì a organizzare dei concerti più
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“vivibili” da parte del pubblico e anche gli stessi musicisti furono ben contenti di tornare a esibirsi.
Figura 17.
Il concerto del trio di Hiram Bullock in piazza IV novembre a Perugia per Umbria Jazz 2001 [UJ].
Memorabili rimangono il concerto di Miles Davis, tenuto a Terni il 6 luglio 1984, e quello della celebre rockstar Sting dell’11 luglio 1987 allo stadio di Perugia, che suonò con l’orchestra di Gil Evans, uno degli arrangiatori più illuminati e creativi della storia del jazz. Negli ultimi anni, poi, vengono organizzati anche numerosi seminari tenuti, tra l’altro, dai docenti del celebre Berklee College of Music di Boston che, oggi come oggi, è la massima istituzione nell’educazione della musica jazz. Quindi Umbria Jazz è stata, ed è ancora oggi, una delle manifestazioni jazzistiche più importanti del mondo ed è indubbio il suo valore per una crescita della musica jazz in Italia. Vanno citate, però, anche altre manifestazioni come Siena Jazz, dove si svolgono importanti seminari internazionali e dove ha sede il Centro Nazionale Studi sul Jazz Arrigo Polillo, e i Festival del Jazz di Milano e Roma, che hanno contribuito e contribuiscono ancora oggi alla diffusione della musica jazz in Italia e sono seguite ogni anno da migliaia di appassionati. Risulta chiaro, quindi, che tutte queste manifestazioni hanno aiutato non poco i talenti italiani a crescere artisticamente, e non sono pochi i nomi di musicisti ormai famosi non solo in Italia, ma anche al di là dell’Atlantico, e
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che vantano collaborazioni anche con jazzisti importanti. Fra i tanti nomi vanno citati sicuramente i trombettisti Enrico Rava e Paolo Fresu, che sono due realtà importanti del panoramo jazzistico italiano, così come i pianisti Enrico Pieranunzi, Giorgio Gaslini, Franco D’Andrea, Stefano Bollani, Danilo Rea, i sassofonisti Massimo Urbani, Maurizio Giammarco, Stefano Di Battista, Rosario Giuliani, i bassisti Giovanni Tommaso, Bruno Tommaso, Enzo Pietropaoli, Furio Di Castri, Dario Deidda, i batteristi Massimo Manzi e Roberto Gatto, le cantanti Maria Pia De Vito e Tiziana Ghiglioni. Questi sono, ovviamente, solo alcuni dei nomi più importanti del panorama jazzistico italiano degli ultimi anni. Sicuramente uno dei musicisti più carismatici, attivo ancora oggi, è Enrico Rava che racconta, ancora oggi, come il suo amore per la musica e per la tromba in particolare, sia nato quando rimase “folgorato” dal concerto tenuto da Miles Davis al Teatro Nuovo di Torino nel 1956. Nato a Trieste il 20 agosto del 1939 si trasferisce ben presto all’ombra delle Alpi, dato che Torino è la metropoli italiana d’avanguardia per eccellenza, e nei locali storici come l’Hiroshima, il Aeiou, il Capolinea n. 8, il Doctor Sax, si sono esibiti i più grandi jazzisti nazionali e internazionali. Già dagli anni Sessanta, Rava incide su vinile, ma sarà l’incontro con il sassofonista argentino Gato Barbieri, avvenuto a Roma nel 1964, a far conoscere il trombettista al pubblico italiano. L’incontro, invece, con il sassofonista soprano Steve Lacy lo proietta nel mondo del free jazz, molto in voga in quel periodo di forti rivoluzioni sociali. Da lì a trasferirsi negli Stati Uniti, dove suonano i migliori jazzisti del mondo, il passo è breve, e Rava lo compie dal 1969 al 1977. In quegli anni suona con Carla Bley, Charlie Haden e con molti altri musicisti che lo aiutano ad acquisire quella marcia in più che, una volta rientrato in Italia, lo distinguerà, rendendolo autore e leader di progetti artistici a suo nome, come nel caso del suo primo disco: Il giro del mondo in ottanta giorni. Da lì in poi molti saranno i dischi incisi da Rava e molti anche i successi ottenuti con la sua musica che, col tempo, ha imparato a emanciparsi dai modelli dei primi anni quali Miles Davis e Chet Baker, acquisendo una poetica originale che lo renderà uno dei pochissimi artisti italiani a vantare un credito sia in Europa che in America.
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Figura 18.
Un’immagine di Enrico Rava nel 1996 [ER].
Aperto a tutte le esperienze musicali, negli ultimi anni collabora con molti giovani musicisti come Stefano Bollani e Paolo Fresu, ricercando sempre stimoli nuovi e nuove vie da esplorare. Parallelamente al percorso intrapreso da Enrico Rava, va citato almeno un pianista che, a Milano, ha intrapreso un proprio percorso personale tendente alla musica jazz: Giorgio Gaslini. Gaslini, nato nel 1929 a Milano, dopo un periodo di soggiorno in Africa, ritorna nella città natale, dove studierà pianoforte al conservatorio e, nel 1957, parteciperà al già citato festival di Sanremo riscuotendo enormi successi che lo proietteranno, nel 1963, con il disco Oltre, a vincere il premio della critica per la rivista Down Beat, caso piuttosto insolito per un italiano. Da lì in poi il suo tratto distintivo sarà quello di sperimentare sempre nuove soluzioni, operando ai confini tra il jazz e altre forme espressive, traendo ispirazione da ognuna e fondendole tutte in un unico ideale artistico. Un’altra figura chiave nella storia del jazz italiano è stata, sicuramente, quella del sassofonista romano Massimo Urbani. Morto nel 1993, ha vissuto una vita breve e che lo accomuna al suo grande “idolo” Charlie Parker. Le analogie tra le vicende umane di Parker e Urbani sono d’altra parte impressionanti. Bird scompare a trentacinque anni, il sassofonista italiano a trentasei. Entrambi pagano il prezzo di un’esistenza fatta di eccessi e sregolatezze. Entrambi giungono fino al punto di autoemarginarsi, trovando nella musica e nel sassofono gli unici stimoli per andare avanti [AU].
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Massimo Urbani è nato a Roma l’11 maggio del 1957 e ha iniziato i suoi studi musicali a undici anni con il clarinetto, passando dopo qualche anno al sassofono contralto. Ha iniziato a suonare nei club ancora ragazzino e, scoperto da Mario Schiano e Marcello Melis, si è subito inserito nella ristretta cerchia dei grandi jazzisti della capitale. Nel 1973 c’è l’incontro con il pianista Giorgio Gaslini che, dopo averlo avuto come allievo in alcune lezioni sul jazz tenute al conservatorio, lo vuole nel suo quartetto con il quale otterrà enormi successi e arriverà a conoscere, fra gli altri, Enrico Rava. Con il trombettista torinese stringerà una profonda e duratura amicizia che lo porterà anche a New York dove Urbani, col suo talento, ha folgorato i migliori sassofonisti dell’epoca, da David Schnitter a Bob Mover. Pur essendo un innovatore come tutti i grandi musicisti, Massimo Urbani amava molto il jazz tradizionale e lo dimostrò soprattutto verso la fine degli anni Settanta, quando il resto del mondo jazzistico italiano era orientato verso la sperimentazione free. Purtoppo anche lui, come Parker, soffriva di un disagio esistenziale che, di lì a poco, lo avrebbe fatto cadere nella tossicodipendenza, rendendolo inaffidabile e irascibile e portandolo all’autodistruzione. Massimo Urbani amava molto suonare nei jazz club di Roma, in particolare nel Music Inn di Pepito Pignatelli, al Saint Louis, al Murales, al Mississipi Jazz Club, gli stessi locali dove aveva più volte ascoltato i suoi “miti”, musicisti come Dexter Gordon, Lee Konitz, Sonny Stitt, con i quali aveva anche improvvisato più di una volta e ai quali dedicherà i suoi dischi più belli, 360° Aeutopia e Dedication to A.A. & J.C. - Max’s Mood, con i quali renderà omaggio a tutti i suoi modelli musicali e dimostrerà, una volta di più, il suo grande amore per il jazz tradizionale. Un fedele ritratto per immagini del musicista è quello tracciato dal regista Paolo Colangeli nel documentario Massimo Urbani nella fabbrica abbandonata. Le prime immagini ci mostrano il sassofonista mentre suona da solo in un vecchio capannone industriale, come a sottolineare la forte individualità che caratterizza la sua concezione della musica. Poi è lui stesso a raccontarsi, a parlare della sua vita, delle sue scelte e del suo rapporto tormentato con le droghe. Le scene successive si svolgono di notte, su un’automobile che percorre le strade di Roma. Massimo suona il suo strumento e risponde alle domande dell’intervistatore. La città che scorre attraverso i vetri dei finestrini appare cupa, difficile, poco ospitale e soltanto a tratti Urbani ritrova il sorriso, quel lampo nello sguardo, quella gioia e quell’energia che si riverberano nella sua musica [Sperandeo 2001, 353].