Fabio Piselli
Singole esperienze collettive
Piselli scritti 1\2008
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a mio padre...
Introduzione
Ho riflettuto a lungo prima di decidere di scrivere un libro, mi sono posto molte domande alle quali non sono stato capace di trovare le degne risposte, ho compreso che una risposta sarebbe potuta nascere proprio dalla stesura di questo libro. Una singola traccia lasciata nel cammino del confronto collettivo, stimolata dalle mie esperienze; questo è lo scopo del mio scrivere, lasciare tracce, delle parole ferme per pensieri fluttuanti, per stimolare delle nuove parole, dei nuovi pensieri, il cui contenuto darà vita a dei nuovi confronti. Non sono uno scrittore ma uno scrivente, non in terza persona come nei rapporti giudiziari ma in prima persona nel mio sfogo emotivo, nel confronto con la mia storia, guardando me stesso come un soggetto terzo per meglio vedere il tutt’uno che voglio essere e restare. Non sono uno scrittore ma un uomo che scrive ciò che ha vissuto, ciò che ha visto, ciò che ritiene di aver conosciuto e riconosciuto della vita, con il desiderio di comprendere quello che ancora non ha capito, scrivendo ad una platea di lettori capaci di confronto. Non cerco delle verità sulle stragi, sugli omicidi, sugli attentanti; voglio invece capire il perché delle non verità sulle stragi, sugli omicidi, sugli attentati; non cerco delle responsabilità se non in me stesso, come persona singola e come membro di una collettività composta da molti singoli che non sanno ancora costituire un insieme compatto e unito tanto da chiedere a gran voce la presenza di una responsabilità per l’assenza di molte, troppe verità. Questo libro mi consente di comprendere prima di tutto le mie responsa-
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bilità, di uomo, di cittadino, di membro di una comunità, di una società civile che ha permesso l’occultamento e l’inquinamento di quelle verità mai svelate. Mi consente di offrire e di ricevere il confronto sulle nostre collettive responsabilità rispetto alla singola morte di ogni singolo individuo, rispetto ai singoli attentati ed alle stragi che hanno mietuto centinaia di vittime. Non cerco perciò di scoprire dei colpevoli occulti laddove tutti noi siamo i palesi responsabili dello sfascio della nostra società, della Giustizia alla deriva all’interno di uno Stato sfasciato che manifesta sempre più spesso dei rigurgiti di fascismo. Questo è lo scopo del mio libro, del mio sfogo, del mio confronto; comprendere cosa posso e cosa possiamo fare per difendere la legalità, per rinforzare la Giustizia, per tutelare la collettività ed i milioni di singoli cittadini che ne fanno parte contro le stragi, contro gli omicidi, contro gli attentati posti in essere da mani ignote per conto di ombre grigie, proiettate da figure di mafiosi, di politici collusi con le mafie, di massoni deviati, da infedeli uomini dello Stato dei quali non si vede mai la faccia, nascosta dai cappucci, dal mefisto, dalla barba finta. La nostra storia democratica è costellata di attentati alla Democrazia fino a mutarne la storia stessa, invertendone il significato, trasformandone il processo evolutivo in uno Stato caratterizzato da rari momenti di Democrazia in una storia di attentati. Inevitabile perciò parlare di trauma, di uno Stato afflitto dal trauma nascente dalla violenza patita, Stato che ha proiettato la propria sindrome nei suoi cittadini, come le madri sofferenti fanno con i figli. Cittadini che non hanno mai avuto la possibilità di elaborare questo trauma ricevuto in prestito a causa della debolezza della verità, acquisito solo per essere dei cittadini figli dello Stato malato in cui sono nati. Siamo tutti legati al segreto che nasconde la verità di cui abbiamo bisogno per svincolarci dalle maglie di quelle catene che debbono essere
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Introduzione
spezzate per permetterci di crescere, di incamminarci verso un indirizzo democratico, invece che restare fermi, passivi all’interno di un presunto clima di Democrazia. Questo legame porta spesso il sigillo del segreto di Stato. Rompere le catene significa violare il segreto, recidere quel cordone ombelicale che ci lega alla Patria vilipesa dal suo stesso segreto; significa trasformarci in civili soldati di un esercito di cittadini composto da una collettività senza uniforme, forte e compatta con il proprio Stato, forte di Democrazia, armata di tolleranza, difesa da occhi attenti e non guardinghi, da orecchie capaci di ascoltare e non solo di sentire. Collettività che ha le mani sporche del sangue versato dagli uccisi dal segreto, dal segno della morte che non si ripulisce, la morte infatti si può solo elaborare con la scoperta della verità, oppure si può rimuovere con la menzogna psichica o con quella di Stato. Collettività che desidera comprendere la verità per elaborare il suo lutto, per crescere ed essere capace di scegliere di capire e non di punire, per cambiare la propria morfologia da Stato strutturato in una struttura civile che forma lo Stato, senza più il traumatico timore delle strutture deviate dello Stato, quelle che nascondono i segreti. Non sono uno scrittore ma uno scrivente che parla della propria esperienza come se parlasse ad un altro da se, riconoscendo se stesso negli altri. Mi confronto con le mie parole, mi riconosco frase dopo frase con la mia storia, divento il critico lettore di quel me stesso scrivente e non scrittore, di quel me stesso cittadino e non soldato, di quel me stesso membro di una collettività e non più un alibi dell’egoismo collettivo che indica il singolo soggetto come capro espiatorio delle responsabilità condivise. Sono compatto con la mia storia caratterizzata dai pezzi di vita slegati fra loro, che hanno necessità di riconoscere il proprio percorso per non spezzarsi mai più.
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Sono cosciente che è impossibile sanare dei pezzi rotti, come sono cosciente che è impossibile rendere Giustizia a chi è morto ingiustamente, per questo non cerco colpe ma cause, per questo non cerco colpevoli ma responsabili, per questo non cerco segreti ma verità. Desidero comprendere collettivamente i motivi delle zone grigie del mio Stato per colorarne i contorni e far luce al suo interno, sperando di contribuire a dare nuova vita al colore bianco come quello di un foglio nel quale ognuno può scrivere la propria storia in piena libertà, in completa Democrazia, senza più il trauma degli omicidi, delle stragi, degli attentati di Stato, senza timore ma con la gioia di rappresentare se stessi membri e parte di una comunità che forma lo Stato. Desidero essere un singolo parte di una collettività responsabile e partecipativa, essere dei cittadini coscienti e non coscienziosi, compatti e non riuniti, liberi dal segreto e non prigionieri di verità rese segrete. Cittadini che sanno e che possono perciò comprendere le proprie scelte politiche, sociali e personali all’interno di uno Stato che gli permette e gli consente di scegliere tramite la conoscenza della verità. Cittadini di ogni razza, colore e religione che fanno politica per la sola ragione di esistere e respirare, senza dover dimostrare di esistere e di respirare soffocando il respiro altrui. In questo la nostra storia democratica ci ha trasformato, in ladri di aria, in rapinatori di spazio, in estorsori di verità da mantenere segrete per continuare il ricatto del segreto, dando vita a flotte di dimostranti di un qualcosa mai chiesto per dimostrare di non chiedere per paura delle dimostrazioni delle richieste fatte. Siamo ormai un insieme di questuanti di favori, di deboli membri di una collettività accattona regolata da magnaccia, da re nudi di un regno vestito di stracci, controllati da gendarmi violenti, tali per nascondere la propria paura di indossare gli stessi stracci dei controllati. Siamo ormai perduti nella morte che colpisce a caso, con una bomba, con
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Introduzione
un colpo vagante, in un traghetto in fiamme, timorosi di viaggiare per strada e pronti a rincorrere le viuzze del potere, convinti di essere così immuni e invulnerabili per poi scoprirci vittime quando la morte ci tocca da vicino, mentre in realtà siamo già vittime quando allontaniamo la morte altrui. Per questo scrivo, per liberarmi dal trauma, dalla paura che non nasce da un clima di tensione bensì dalla calma apparente del caos democratico, che diversamente da un blitz di regime addormenta le coscienze e non risveglia la nostra ribellione; in fondo mi ribello a me stesso, non al presunto regime o alla cattiva Democrazia, perché sono il presunto regime e sono la cattiva Democrazia. Rinuncio perciò alla questua dei favori per essere libero, rinuncio a conoscere un segreto per non essere estorsore, rinuncio alla viuzza del potere per restare apertamente in piazza, insieme agli altri e parte degli altri senza braccia tese o pugni chiusi ma con la sola pesante responsabilità della volontà di conoscere la verità. Per questo dobbiamo essere pronti a pagare un prezzo alto in termini di sacrificio, dobbiamo essere capaci di porci in discussione senza cercare dei colpevoli negli altri da noi, ma cercando noi stessi nella colpevolezza altrui. è colpevole il solo mafioso quando mi elargisce il favore che gli chiedo? è colpevole il solo politico quando mi assume grazie allo scambio del mio voto? è colpevole il solo poliziotto che mi spacca la testa con il suo manganello perché non ho il coraggio di denunciarlo? è colpevole il singolo morto ammazzato perché permetto al mafioso di ucciderlo con la mia omertà? La verità è un male incurabile con il quale possiamo solo convivere, liberi e leggeri mentre il segreto è un cancro per il quale stiamo lentamente morendo nella non conoscenza, nella irresponsabilità, convinti di star bene in un mondo di malati, felici di credere di star meglio perché siamo circondati da altri e più gravi malati. Questo siamo ormai, dei benestan-
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ti immaginari, dei malati incoscienti appesantiti dalla fuga dalla verità, vuoti e non leggeri. Scrivo sperando di riuscire a dire agli altri quel che dico a me stesso, ascoltandomi attraverso gli occhi dei lettori per vedere quel che sento di me, senza più la paura di ascoltare, senza più il timore di capire ma con il coraggio della ricerca della verità senza volerla attribuire a nessuno, perché la verità stessa ci libera dalla colpevolezza, riconoscendoci colpevoli detentori dei segreti altrui dei quali siamo le prime vittime. Questo libro parla delle mie esperienze nelle quali riconoscere le tracce delle proprie e forse quel confronto mai riconosciuto con il quale specchiarsi, leggendolo come se fossero la descrizione dei percorsi di vite comuni vissute da una singola persona, le cui emozioni, le cui sensazioni sono parte di una intelligenza collettiva. Questo mio primo libro non ha un preciso ordine cronologico, escluso i primi capitoli che descrivono il mio percorso fino all’inizio della carriera militare, poi prende forma allo stesso modo in cui si materializzano i ricordi intrusivi, che riportano alla mente un evento, doloroso o meno; è un libro fatto di ricordi che rimbalzano nella memoria raschiandone via dei pezzi fatti di emozioni vissute che mi hanno permesso di crescere. Questo libro è la chiave che apre una cella, è la mano che carezza la testa di un bambino, è il braccio armato che difende dalla paura, parla di me, della mia vita, ampia e non necessariamente lunga.
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INIZIO
Sono nato a Livorno da genitori laziali, cresciuto sul mare, nel mare e con il mare, che come una immensa placenta mi ha accolto nel suo ventre. L’elemento acqua è stato alla base della mia vita, il fuoco ha invece cercato di estinguerla durante la mia ultima esperienza con la morte, avvenuta nel Novembre del 2007. Ho iniziato a lavorare sin da bambino, figlio di un marittimo e di una casalinga, figlio di una cultura nella quale imparare un mestiere significava la prospettiva di un futuro lavorativo assicurato. Sin dalla metà degli anni settanta ho fatto il garzone in un vetusto magazzino al servizio di un vecchio artigiano siciliano, un reduce della seconda guerra mondiale che si rifugiò a Livorno dopo la fine del conflitto con un carretto a pedali, con il quale nel corso degli anni ha fatto il venditore ambulante dei suoi prodotti, fra cui spiccavano le statuine segnatempo che avevo imparato a costruire, a decorare, a rifinire a mano con il trincetto e la fantasia. Questo fino a quando nei primissimi anni ottanta il vecchio artigiano fu arrestato per violenze sessuali contro i minori. Ancora non sapevo che avrei rivisto il venditore fiorentino dei suoi trincetti molti anni dopo, oggetto di attenzione da parte degli inquirenti nelle indagini per i delitti del cosiddetto mostro di Firenze. Non ancora diciassettenne mi sono arruolato volontario nell’Esercito Italiano, presso la scuola allievi sottufficiali (SAS), con il desiderio di diventare un pilota di elicotteri. Desiderio compensato in parte, in quanto effettivamente ho volato, ma come paracadutista e non pilotando un elicottero come avrei voluto.
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Ancora non sapevo che ciò che avrei vissuto nei tre anni in uniforme avrebbe condizionato la mia vita da civile nel corso del successivo ventennio. La mia storia professionale inizia nel 1985, la quale, nel corso di questi ventitre anni, mi ha visto vivere delle esperienze tali da rappresentare un valido confronto collettivo per comprendere alcune dinamiche adottate all’interno di certi settori dello Stato che sviluppano quei meccanismi di depistaggio, di collusione mafiosa, di connivenza massonica, che costituiscono quella zona grigia ove sbiadiscono i colori della Democrazia e della legalità fino al punto di rendere opaca la Giustizia e daltonici i cittadini, costretti a seguire le varie correnti cromatiche per individuare un sostegno alle proprie speranze, per rinforzare il concetto della propria libertà. Desidero capire la verità dei fatti affinché possa comprendere il vero, il falso ed il verosimile nei fatti stessi, senza subire il condizionamento da parte di chi la verità la occulta e la gestisce per difendere il proprio schieramento, la propria fratellanza, il proprio ufficio, i propri interessi. Ho cercato di capire per difendermi dagli attacchi ai quali non ho trovato la giusta difesa, pagando la mia lotta con la sconfitta. Proprio la sconfitta mi ha reso cosciente dell’assenza di una auspicata vittoria all’interno di una guerriglia di sconfitti, di affratellati soggetti dipinti di emblemi, uniformi, medaglie e pentalfiani segreti. Tutti caratterizzati dall’essere sconfitti dall’esistenza del segreto che come tale vince sulla verità. Un segreto che tutto tace, un silente protagonista circondato da degli urlanti attori e da delle ambiziose comparse all’interno di un film che dura sin dalla fine della seconda guerra mondiale, i cui registi usano nomi d’arte dai quali è impossibile risalire alla loro vera identità. Come in un film ne intravediamo le sagome, vediamo la proiezione della loro ombra senza mai vederne il viso. Come in un film ci sono eroi e vittime, persecutori e corrotti, moventi e manovratori, opportunità e opportunisti. Un film che dura da troppo per il quale è giunto il momento di scrivere la parola fine.
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Inizio
Fine che giungerà quando sarà calato il sipario sui tanti segreti che nascondono le troppe verità, quando sarà tolto il cappuccio ed il passamontagna dal viso delle ombre, quando le ombre si dissiperanno alla luce del sole che ci consentirà di vedere, di conoscere, di riconoscere, di sapere e di capire le verità della nostra storia di paese che ha avuto ed ha tuttora una Democrazia a scartamento ridotto. Democrazia lenta, traumatizzata, patologica, affetta da ingerenze esterne che come nei deliri dei pazzi vede le presenze, sente le voci, patisce una sorta di sindrome persecutoria tale da non permetterne la crescita, la maturità, restando prigioniera dei propri mostri, della propria sofferenza causata dall’autismo dei propri pensieri, dal riflesso del buio che ha inghiottito i suoi cittadini, oscurati anch’essi dalla pazzia della Democrazia stessa che ha fatto nascere milioni di insicuri italiani con un trauma in prestito, le cui complicanze sono state aggravate dai segreti che hanno impedito di conoscere la fonte della malattia e di trovare così una cura, restando schiavi dei presunti guaritori i quali hanno somministrato solo pillole di ipocrisia che hanno ucciso migliaia di innocenti per rinforzare la paura della malattia e per continuare ad affidarsi alle loro cure, alla loro gestione. Ogni volta che un malato cittadino ha espresso il desiderio di capire si è sviluppato un aggravamento, con l’improvvisa morte di altri innocenti sviluppando in realtà le uniche patologie di cui tutti noi siamo effettivamente affetti, il terrore e la paura.
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L’ETà UNIFORMATA
Nel 1985 non avevo l’età per guidare una automobile ma potevo sparare con un’arma, maneggiare esplosivi, apprendere e conoscere delle tecniche di combattimento, partecipare ai servizi di ordine pubblico, svolgere la sorveglianza armata in anni in cui la eco del terrorismo si stava appena spegnendo, con gli attacchi alle caserme, il furto delle armi dei soldati da parte dei componenti dei vari gruppi eversivi dalle tante sigle che hanno caratterizzato la fine degli anni settanta e la prima metà di quelli ottanta. Non avevo l’età per votare ma potevo prendere delle decisioni importanti con il dito sul grilletto delle mie armi, che avrei potuto rivolgere contro me stesso oppure contro gli altri; anni nei quali le munizioni erano vere, i colpi erano in canna e la pressione psicologica che un adolescente subiva all’interno dell’ambiente militare rappresentava la peggiore arma, l’ effettiva minaccia, il reale rischio di rottura, causata dallo stress, dall’ esaurimento nervoso con tutte le sue potenziali conseguenze, come avvenne in alcune caserme con dei casi di suicidio e di omicidio commessi da giovani militari, da carabinieri, da poliziotti. Ero un adolescente che non aveva ancora compiuto diciassette anni di età, ero un soldato, un sottufficiale volontario dell’Esercito Italiano, proveniente da una vita civile fatta di sport come quello della lotta libera, fatta di lavoro, fatta di scuola, fatta di ragazzine con cui scoprire gli umori ed il gioco dell’amore. Fatta di cocomeri rubati ai cocomerai ladri, fatta di fughe dalla Polizia con i motorini truccati, fatta di mare, di scoperte che permettevano di capire, conoscere, sapere e saper scegliere il proprio futuro, con le scelte a breve termine come quelle compiute da un adolescente. Futuro fatto a tappe,
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fatto di idee repentinamente cambiate, fatto di condizionamenti esterni provenienti da mille fonti e da quelli interni nascenti dalla naturale fase evolutiva nella ricerca della identificazione all’esterno della famiglia, almeno così avrebbe dovuto essere. Indossando l’uniforme ho uniformato la mia età a quella degli altri soldati della scuola allievi sottufficiali che frequentavo, che era di ventiquattro anni, tutti ragazzi che in molti casi avevano già avuto delle esperienze militari, inoltre si era appena conclusa la prima missione italiana svolta in Libano, quella del Presidente della Repubblica Sandro Pertini, del colonnello Franco Angioni e del piccolo Mustafà, la mascotte libanese; grazie alla quale numerosi reduci, fra cui molti paracadutisti, avevano deciso di scegliere la carriera militare arruolandosi con il primo corso utile, il 58°, il nostro corso, quello dei sottufficiali comandato da un colonnello che proprio in Libano era stato capo di Stato Maggiore del contingente; il quale aveva proiettato sul corso tutta la sua psicologia militare, la sua mentalità e soprattutto il suo personalissimo modo di comandare, di educare, di istruire, di condizionare tutti noi giovani allievi che vedevamo in lui una guida supportata da un altro ufficiale, un paracadutista che per noi rappresentava un esempio da seguire ed una sorta di specchio futuro nel quale vedere ciò che saremmo stati negli anni a venire proseguendo la carriera militare. Sono stato inserito in mezzo al ristretto gruppo di allievi che aspiravano di entrare al “nono”. Cioè al 9° battaglione “Col Moschin” della Folgore, gli incursori, le forze d’élite dei paracadutisti. Gruppetto di allievi formato dai reduci del Libano, dagli ex parà della Folgore, dagli ex marò del battaglione San Marco, con i quali mi sono amalgamato e dai quali sono stato accettato nonostante non fossi già stato un paracadutista come loro. La mia grinta, la mia prestanza fisica forgiata dalla lotta libera, la mia “istintiva” attitudine militare ed anche la mia parentela con due impiegati civili dell’ambasciata americana di Roma, in servizio presso gli uffici della Defense Intelligence
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L’età uniformata
Agency, il controspionaggio militare americano, hanno certamente contribuito a costruire il personaggio di quel giovanissimo allievo che emergeva per autorevolezza, qualità fisiche e morali e rendimento negli studi, questo fu scritto in alcuni encomi ricevuti durante lo svolgimento del corso. Il condizionamento psicologico quotidiano aveva ritmi incalzanti, con i periodi di addestramento, con i servizi armati e lo studio, aggiunti al fatto che, come aspiranti paracadutisti, ci eravamo eretti a gruppo elitario che aveva il dovere di dare il massimo in ogni materia, in ogni attività; gruppo sostanzialmente autoreferenziale, isolato dal resto degli allievi, estremamente politicizzato nel quale il riferimento al Duce era costante in ogni espressione fisica e verbale. Non ancora diciassettenne, mi comportavo come un giovane uomo, vivevo e mi relazionavo con dei ragazzi molto più adulti e maturi di me, alcuni dei quali con esperienze specifiche nella lotta politica, specialmente i romani che provenivano in gran parte dalle sezioni del Movimento Sociale Italiano e dal fronte della gioventù che durante la fine degli anni settanta e l’inizio di quelli ottanta erano stati protagonisti dei gravi e feroci scontri fra i ragazzini romani delle opposte fazioni. Gli altri ufficiali ed i sottufficiali che ci addestravano e comandavano, uomini adulti con famiglia, coloro non paracadutisti, ci sembravano soggetti lontani dalla realtà in cui eravamo immersi, i nostri referenti erano solo ed esclusivamente quelli che provenivano dalla Folgore e che erano transitati alla SAS come istruttori o come aggregati. La mortificazione è stata un’arma per selezionare e per dividere, non i bravi dai meno bravi oppure i deboli dai forti, ma noi da noi stessi, dalla nostra dignità, dalla nostra personalità di giovani in crescita, specialmente i pochissimi adolescenti presenti in quel corso, i nati nel 1968 o poco prima. La mortificazione era costantemente patita e costantemente perpetrata, in ogni frase, azione, momento della giornata, sia nei termini dispregiativi
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che nelle punizioni fisiche e psicologiche inflitte per le più paradossali ragioni, specialmente all’interno del gruppetto di ex parà, ragazzi che avevano introdotto la stessa mentalità che questi avevano vissuto ed appreso durante il tempo trascorso alla Folgore. Sembrava che solo coloro capaci di resistere fossero i più forti, i più capaci per affrontare chissà quali missioni in una ipotetica guerra, altra parola che caratterizzava il contenuto dei nostri colloqui, mediati dai racconti dei reduci del Libano che in qualche modo la guerra l’avevano vista, soprattutto coloro coinvolti negli scontri a fuoco con le varie fazioni libanesi in lotta avvenuti nel periodo in cui il contingente italiano è stato presente a Beirut e nelle altre località. Fortunatamente i miei parenti presso l’ambasciata americana mi hanno fornito il confronto necessario per non farmi lavare il cervello più di tanto, consigliandomi sempre di pensare con la mia propria testa e soprattutto permettendomi di conoscere i loro datori di lavoro, gli ufficiali del servizio americano i quali avevano effettivamente conosciuto la guerra, molti di loro provenivano dai reparti militari che avevano combattuto in VietNam, erano persone che, diversamente dagli italiani, avevano vissuto esperienze dirette nei vari fronti nei quali gli Stati Uniti erano stati militarmente presenti a vario titolo. Ho imparato perciò a riconoscere gli occhi di chi aveva visto una guerra rispetto a quelli di chi raccontava di averla vista, riconoscendo perciò i tanti italiani che millantavano storie di guerra libanese di cui esageravano i contenuti in favore di noi allievi, felici anche di ascoltare le loro gesta seppur poco credibili, pur di avere un riferimento con la guerra. Le mie visite all’ambasciata americana di Roma non passarono inosservate, d’altronde i miei colleghi erano interessati a conoscere qualche reduce americano, un Rambo vero come quello del cinema, la voce si sparse e fui contattato anche da un capitano paracadutista e da un maggiore in servizio
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L’età uniformata
presso “l’ufficio I” della SAS che vollero sapere notizie sul tipo di lavoro dei miei parenti e sulle mie visite presso le basi militari americane alle quali accedevo durante i periodi di licenza, in particolare quella di Camp Darby vicino Livorno. Dopo oltre otto mesi di corso, ormai diciassettenne, ormai esperto, con il grado appena inferiore a quello di Sergente, cioè quello di caporale maggiore allievo sottufficiale, iniziai a comprendere il tipo di ambiente, il tipo di lavoro che avevo scelto, a confrontarmi con quelli che allora erano i miei desideri e con i risultati della scelta che avevo davanti agli occhi; con l’esperienza acquisita in quei mesi duri e faticosi, nei quali ero cresciuto, immerso nella mentalità militare, caratterizzata dalle parole onore e fedeltà, coraggio e ardimento, paura e viltà. Ero felice di quanto avevo raggiunto, mi piaceva il lavoro, ero gratificato e stimolato a finire il corso e raggiungere le scuole di specializzazione presso la Folgore insieme ai miei colleghi, con i quali sapevamo di essere ad un passo dal traguardo con risultati eccellenti. Un giorno accadde qualcosa mentre stavo svolgendo il periodo di servizio di sorveglianza armata presso una grande polveriera dislocata in Umbria, notai insieme ad altri due miei colleghi la presenza di alcuni uomini in abiti civili intenti a movimentare delle casse dentro il perimetro della zona militare; allarmammo perciò il nostro livello superiore ma ci risposero evasivamente, dicendoci che erano solo dei bracconieri, perché la polveriera era ubicata all’interno di un enorme bosco, una riserva di caccia, che questi probabilmente stavano solo portando via dei cinghiali catturati con delle trappole. Nelle casse? mi chiesi ricordandomi i trascorsi parentali con gli zii cacciatori di cinghiali. Tornato alla SAS segnalai il fatto ad uno degli ufficiali de “l’ufficio I” e poco dopo iniziarono gli strani congedi di coloro che come me avevano relazionato gli stessi episodi. Le ragioni furono le più disparate, dal ritro-
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vamento di sostanze stupefacenti in un caso, alle relazioni sessuali con minorenni nell’altro, oppure dalle manifestazioni contrarie al regolamento nel rapporto con le insegnanti civili in servizio presso la scuola, sostanzialmente con l’accusa di aver avuto con queste dei rapporti sessuali. Alcuni allievi furono espulsi fra i quali due del mio gruppo elitario, quello dei paracadutisti, entrambi reduci dal Libano ed entrambi sorpresi e sofferenti per il loro allontanamento dal corso. Nell’Ottobre del 1985 mentre ero di pattuglia armata in caserma sono stato colpito in faccia, presumibilmente da un altro allievo di guardia che si svegliò improvvisamente e reagì in modo istintivo usando il suo fucile come un bastone, per questo il mio naso iniziò a sanguinare, sono stato portato all’ospedale civile ove certificarono dei semplici episodi di epistassi, sangue dal naso appunto, causati dal colpo ricevuto. Successivamente mi inviarono all’ospedale militare di Roma per essere ricoverato, nel quale gli episodi di epistassi si trasformarono in una patologia cardiaca che causò il mio proscioglimento dal corso, congedo che avvenne nel giro di un pomeriggio nonostante i miei sforzi di avere dei maggiori chiarimenti e di parlare con i superiori; certo di un errore chiesi a gran voce di incontrare il comandante, di poter parlare con qualche ufficiale, con quelli che erano i miei riferimenti militari ma anche psicologici da mesi ormai. Mi misero alla porta ma paradossalmente dovettero avvisare mio padre che sarei stato dimesso perché ero ancora minorenne. A diciassette anni, seppur intelligente, non avevo la capacità di elaborare una situazione simile, non avevo la conoscenza storica dell’epoca che stavo vivendo, non avevo gli strumenti per poter ricostruire il quadro d’insieme dei fatti in cui ero coinvolto. Vivevo il dolore di vedere tutti i miei sacrifici andare in fumo, la sofferenza di patire una ingiustizia, il distacco da quel mondo che era il mio mondo, nel quale avevo vissuto in una psicologia condizionante per mesi
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e mesi ventiquattro ore al giorno, armato e con ruoli di responsabilità per ritrovarmi di fronte ad un cancello, costretto a riprendere i panni di un minorenne, di un civile. Ricordo infatti il mio dolore, il senso di vuoto che mi attanagliava, l’assenza di un perché certo con cui potermi confrontare, la velocità e l’imposizione verso l’uscita che mi sembrò un lutto. In poche ore tutti i miei riferimenti furono perduti, ero solo, costretto a tornare civile in un mondo di civili che vedevano in me solo un muscoloso ragazzino, un minorenne. Ricordo la paura che provai quando, salito sul treno che mi portava a Roma, in abiti civili, indossavo infatti una orribile camicia hawaiana che un collega mi dette insieme ad un paio di jeans, parlando con una bella ragazza presente nello scompartimento questa mi chiese che lavoro facessi. Domanda alla quale non seppi rispondere prendendo coscienza di quel che avevo subito, il furto della mia professione, del ruolo in cui mi ero identificato, nel quale stavo crescendo e con cui mi confrontavo quotidianamente da mesi. Non risposi, non seppi cosa rispondere. Ricordò che questa giovane bella ragazza, aveva venticinque anni, si chiamava Tatiana, mi guardò, mi sorrise e mi chiese l’età, quando le dissi che avevo diciassette anni rimase a bocca aperta, disse che me ne dava almeno ventisette e che sembravo uno “sbirro”, una “guardia” disse con esattezza in romanesco, con quel fisico, con quello sguardo diretto e l’atteggiamento attento, costruito nei mesi e condizionato proprio dal tipo di lavoro, dall’ambiente nel quale lo sguardo fiero e l’occhio da duro era un marcatore di valenza fra un soldato per scelta ed un soldato per disoccupazione. Capii in quel preciso momento che sarebbe stato difficile tornare ad essere un adolescente e soprattutto tornare ad essere un civile. Pochi giorni dopo il mio rientro a casa mi ero già attivato per dimostrare l’errore che aveva causato il mio congedo.
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Nel Novembre del 1985 un ufficiale medico della Folgore accertò la completa assenza di una patologia del mio cuore, quando sono stato invitato a raggiungere Camp Darby perché uno dei miei parenti stava transitando da quelle parti con qualche americano dell’ambasciata che desiderava salutarmi. Il colloquio fu di grande rinforzo, specialmente quando mi dissero di non preoccuparmi perché presto avrei indossato di nuovo l’uniforme, nel frattempo mi invitarono a prendere contatto con un sottufficiale americano della base con il quale iniziai un rapporto di amicizia che si protrasse per lungo tempo, che mi insegnò molto, cose militari e non, mi offrì un confronto umano fino a quando il telefono squillò con l’invito di raggiungere di nuovo la scuola allievi sottufficiali dell’Esercito Italiano per essere finalmente arruolato per la seconda volta. Questo avvenne nella primavera del 1986, nel periodo in cui Reagan bombardò Gheddafi come ritorsione militare per gli attentati imputati alla Libia contro gli interessi americani, quando la Folgore raggiunse Lampedusa perché furono lanciati dei missili dalla Libia; ero ormai cosciente dello scenario internazionale, dei blocchi, dei ruoli. Il periodo trascorso a Camp Darby mi aveva consentito di capire e di crescere, di addestrarmi e di confrontarmi con chi, in prima persona, viveva le scelte del proprio governo laddove inviava le truppe in operazioni militari, con i ragazzi e gli uomini della 82° divisione delle forze speciali americane, con quelli dello spionaggio elettronico della sezione di Coltano, località fra Pisa e Livorno da dove Guglielmo Marconi stabilì le prime comunicazioni in cui sorgeva un centro dell’intelligence americana della presunta rete denominata “echelon”, le cui aliquote di operatori erano impiegate nei vari teatri e nelle basi presenti in tutti il mondo, specialmente in Germania. Dovetti rinunciare ai gradi ed alle qualifiche che avevo precedentemente raggiunto, iniziando tutto di nuovo da zero, come se non fossi mai stato
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un militare prima di allora, fui così inserito con il nuovo corso allievi sottufficiali, il 60°. I miei colleghi del 58° corso erano ormai giunti alle scuole di specializzazione, una volta concluso quel corso che mi fu impedito di terminare a causa di un certificato medico risultato immediatamente strano, errato alla prima visita medica di riscontro che effettuai presso vari ospedali militari. Mi informarono che anche i due miei amici e colleghi, che subirono il mio stesso trattamento con l’espulsione dal 58° corso, erano stati entrambi di nuovo arruolati, uno presso la scuola sottufficiali della Marina e l’altro in quella dell’Aeronautica Militare, entrambi furono, come me successivamente inseriti nelle truppe d’elite, il primo trovò la morte contro le pale di un rotore di un elicottero, il secondo è ancora un incursore della Marina. Questo fatto mi rese felice ma confermò la mia ipotesi che quegli eventi non furono una serie di singolari errori ma parte di un qualcosa che avrei tentato di comprendere e che desideravo capire per conoscere la causa del mio proscioglimento. Questo non per ragioni particolarmente eroiche ma ben più pratiche, avrei dovuto essere un sergente paracadutista con uno stipendio ben più elevato ed un corretto percorso di carriera, esattamente come lo erano i miei colleghi, mentre invece a causa di quel presunto errore medico ero stato costretto ad iniziare tutto daccapo. Infatti dedicai ogni istante a cercare di conoscere i motivi per i quali avvennero quei congedi, individuandone le ragioni nella presenza dei civili all’interno del perimetro del deposito munizioni in cui facevamo sorveglianza, alla polveriera, quelli che cacciavano i cinghiali nelle casse durante le loro presunte battute di caccia, come mi disse qualche superiore quando relazionai l’evento. Non avevo più quella sudditanza nei confronti dei superiori o della istituzione stessa, i mesi trascorsi a Camp Darby mi avevano consentito di comprendere molte cose, molte ipocrisie, molte differenze fra quel che
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avrebbe dovuto sembrare e quel che effettivamente era la forza armata e le sue componenti. Dentro la base avevo conosciuto gli operatori delle forze speciali italiane ed americane, avevo compreso che esistevano strutture non ortodosse, respiravo il clima di quel periodo che caratterizzava l’atmosfera di Camp Darby; base che era molto importante, inserita negli equilibri mondiali mantenuti dai due blocchi contrapposti fra est ed ovest. Il muro di Berlino era ben saldo e nessuno ancora poteva immaginare che pochi anni dopo sarebbe crollato e con lui i due blocchi che hanno caratterizzato la guerra fredda per decenni. Il mio diciottesimo compleanno lo festeggiai con quella ragazza incontrata sul treno il giorno del mio congedo, Tatiana, divenni maggiorenne e questo la sollevò da ogni eventuale complicanza penale. Ripresi il normale percorso scolastico e di addestramento fino a quando sono stato di nuovo prosciolto, questa volta senza tante scuse, mi fu detto che era un fatto che avrei dovuto accettare le cui ragioni le avrei comprese successivamente. I miei parenti all’ambasciata americana mi confermarono infatti che presto sarei stato di nuovo arruolato, direttamente alla Folgore e che nel frattempo avrei soltanto dovuto riprendere i contatti con Camp Darby. Così feci fino a quando nel Settembre del 1987 sono stato arruolato nella Brigata Paracadutisti Folgore, nella quale dovetti simulare di non aver mai avuto esperienze militari prima di allora, dovetti comportarmi come un normale diciannovenne chiamato alle armi, come tutti gli altri giovani che si affacciavano per la prima volta alla vita militare. Sono stato inviato alla “Smipar” (scuola militare di paracadutismo) per acquisire il brevetto di paracadutista militare, una volta ottenuto sono stato quindi inviato al reparto operativo a Livorno, al 185°, ove transitai nei ruoli di carriera. Paradossalmente mi accolse proprio un sottufficiale che aveva fatto il 58° corso con me, che con me era parte di quel gruppo elitario di aspiranti paracadutisti, che con me aveva condiviso dieci mesi, gomito a
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L’età uniformata
gomito. Il quale mi riconobbe ma non fece domande, aveva già visto cose simili, colleghi che scomparivano per lungo tempo per poi tornare con gradi diversi e con il foglio matricolare in bianco, ormai era dentro il mestiere e pensava che anche io fossi inserito in qualcosa del genere. Al reparto non esistevo, nel senso che c’ero ma non partecipavo alle sue attività, dopo l’alzabandiera andavo a Camp Darby fino al pomeriggio quando tornavo in caserma e quindi me ne andavo a casa mia, vivevo ancora con i miei. Fino a quando nel Gennaio del 1988 sono stato definitivamente congedato dall’Esercito Italiano, dopo tre anni di una singolare carriera, dopo tre diversi arruolamenti e tre diversi congedi. Parlavo correttamente inglese e ancora non avevo ben compreso per chi lavorassi o che cosa avrei dovuto fare, il congedo fu la fine di una sorta di corso, durato ben tre anni. è stato in questo periodo che ho potuto apprendere ed imparare a pedinare, ad attivare delle contromisure di sorveglianza, ad usare le armi, gli apparati radio, ad apprendere le tecniche e le procedure per operare in modo diverso dal classico militare di caserma, in modo ambiguo, strano, marginale ed emarginato, solitario. Alla Folgore mi sono sentito un fantasma, avevo atteso tanto per farne parte ed ora che c’ero ero praticamente invisibile, inserito fra gli invisibili, lontano dal gruppo, dalla squadra, dal plotone, dagli altri. Parte di qualcosa di sconosciuto ai più, di qualcosa di non facilmente interpretabile e molto difficile da spiegare, qualcosa che era definito una sorta di dispositivo del quale nulla sapevo. Diciannove anni erano pochi, ma come diceva mio zio Domenico, i miei pochi anni contenevano già molto perché avevo vissuto in quegli ultimi tre delle esperienze importanti che avevano consentito di concretizzare le mie qualità interne ed esterne, maturando una consapevolezza fuori dal comune.
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Per il resto del mondo ero un giovanissimo paracadutista, uno dei tanti, anonimo e assolutamente compatibile con quell’ambiente, per altri ero un sicuro e fidato collaboratore, come appare da alcuni rapporti informativi della Difesa che mi riguardano. Ero felice di aver comunque raggiunto il traguardo che mi ero prefissato, di aver superato le difficoltà e gli ostacoli, sapevo che la Folgore era impegnata in tante operazioni non tutte conosciute ed alcune riservate, sapevo dell’operazione in corso in Perù e di altre, ero un giovane uomo pieno di energia, concentrato in particolare verso ciò che la mia età mi stimolava, come le donne, la scoperta dei sentimenti, della passione, l’autonomia lavorativa, l’indipendenza economica, la moto ed i viaggi, cose da giovani. Mi aspettavo di essere chiamato a fare quelle missioni delle quali sentivo parlare dai colleghi più anziani e dagli americani, quelle dove sparisci per un pò per andare in qualche zona calda, d’altronde i miei parenti mi avevano consentito di comprendere la serietà del lavoro dell’ufficio ove erano impiegati e m’immaginavo una sorta di attività del genere nel mio prossimo futuro, anche se avevo dismesso l’uniforme, ma in fondo non ero così interessato a fare la vita di caserma. Un ufficiale mi disse sarcasticamente che ero un ottimo soldato ma un pessimo militare. Non mi sarei mai aspettato invece quel che è accaduto nel Marzo del 1988, quando sette carabinieri hanno suonato alla mia porta e mi hanno arrestato. Diciannove anni erano pochi, anche se ne dimostravo ventisette, erano pochi per vedermi ammanettato.
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ARIA O SALETTA?
Il carcere è un contenitore di libertà. Non c’è nulla di poetico in carcere se non la poesia dei carcerati per evadere dalla propria detenzione. Ogni cosa dentro il carcere è psicologicamente studiata, dai colori delle mura alla gestione dei rumori delle sbarre e delle porte blindate. Non c’è nulla dentro il carcere se non la psicologia pura nella espressione dei suoi meccanismi difensivi per fuggire da quella realtà dolorosa quale è la consapevolezza della propria prigionia. “vieni dalla libertà?” Mi chiese una guardia mentre mi stavano introducendo all’interno del carcere nel quale sarei rimasto per settantasette giorni. Non risposi come non risposi mai più a nessuna domanda, a nessuna offesa, a nessuna provocazione, se non con cenni facciali e accenni gutturali per rispondere positivamente o negativamente alle sole domande che mi hanno fatto mentre stavo dentro una gabbia, “aria o saletta?”. 19 anni erano pochi per essere contenuto dentro una cella, erano il fulcro della libertà per qualsiasi adolescente in evoluzione, proteso verso la vita e le scoperte che la vita consentiva di esperire. Mi sono accorto di essere un ragazzo, un ragazzo di diciannove anni mentre la cella mi fu chiusa alle spalle della sezione in cui mi parcheggiarono, nel momento in cui la guardia chiuse la blindata con le mandate, il cui suono mi è rimasto impresso nella memoria per anni. Da quell’esatto momento non ho più avuto terrore di nulla, da quel momento la paura non è stata più il mio sensore ma una sorta di siringa per adrenalina. Il carcere è un contenitore di libertà. Parola che non avevo mai effettivamente preso in esame; sembrava così scontata la libertà durante le mie
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Singole Esperienze collettive
lunghe passeggiate nei boschi, le mie nuotate in mare aperto, le mie gite in motocicletta, i miei voli con il paracadute, durante l’espressione dei sentimenti e della passione dell’amore. Non ero più libero ma un detenuto contenuto dentro un contenitore di detenuti, oggetti e non più soggetti, cose di una casa circondariale. Dei prigionieri. Ero e mi consideravo un prigioniero e non un detenuto, il mio essere soldato non era venuto meno solo perché poche settimane prima ero stato posto in licenza illimitata senza assegni dall’Esercito, in attesa di congedo. I giorni passavano nel nulla più assoluto, caratterizzato dalla mia scelta di andare in saletta o all’aria durante l’ora consentita per uscire da quei centimetri della cella. Niente se non la mortificazione dei toni delle guardie, le botte che prendevo per il mio rifiuto di chiamare “superiore” le guardie stesse. Infatti questo era il termine con il quale pretendevano di essere appellate altrimenti non rispondevano a nessuna richiesta, che doveva essere obbligatoriamente fatta per scritto attraverso il modulo detto “la domandina”, da richiedere alla guardia tramite la manifestazione di sudditanza chiamandolo appunto “superiore”. Ero stato un soldato per oltre tre anni, un paracadutista, assistere a uomini in uniforme che si comportavano da persecutori mi rendeva solo rabbioso e non vittima delle loro angherie, anche laddove prendevo le botte o quando mi portavano alle cellette per somministrarmi una serie di trattamenti molto violenti, soprattutto psicologicamente violenti. Fortunatamente l’addestramento ricevuto e le mortificazioni vissute durante gli anni in uniforme mi hanno consentito di affrontare quella esperienza, alla quale non era possibile reagire ma solo resistere. La minaccia costante che mi veniva fatta era quella di una relazione negativa o di una denuncia da parte di una guardia, che avrebbe potuto non solo peggiorare la situazione attuale ma anche svilupparne nuove e ben peggiori fino ad allungare la permanenza in carcere.
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Aria o saletta?
I giorni passavano ed io giocavo alla libertà, immaginandomi gli spazi amati, immaginandone i colori che mi hanno fatto innamorare degli spazi liberi come il verde del prato, l’azzurro del cielo ed il blu del mare. Giocavo alla libertà mentre scrivevo parole piene d’amore alla fidanzatina che avevo, un’amica d’infanzia, una compagna di scuola, una vicina di casa che poco dopo divenne una poliziotta. Non smetterò mai di ringraziarla, perché se sono riuscito a resistere dentro quella gabbia lo devo anche a lei ed al suo meraviglioso modo di amare l’amore, con l’intelligenza e l’ironia, anche nei momenti terribili come quelli, per due diciannovenni che eravamo; affacciati alla finestra della vita, già decisi sul nostro futuro, incapaci di reagire a quel trauma se non con la fantasia dell’amore che abbiamo espresso in tanti fogli bianchi colorati di emozioni, con i quali ci scambiavamo i pensieri autistici dell’amore contenuto dentro una gabbia, nella quale ero solo un cane e non avevo nemmeno il diritto di abbaiare. Dopo un paio di settimane una guardia mi portò dentro una stanza, ogni volta che uscivo dalla mia gabbia, ad ogni passaggio attraverso ogni singola porta, cancello o blindata che fosse subivo una perquisizione. “Collega” così si chiamavano fra di loro le guardie nell’avvisarsi mentre raggiungevamo un filtro, un cancello o un ufficio. Non ho mai sentito o saputo un loro nome se non quello di una guardia che avevo conosciuto prima del mio arresto, il quale quando mi ha visto giungere in carcere mi ha guardato con gli occhi sorpresi e sofferenti, in silenzio, in quei pochi secondi in cui ci siamo guardati abbiamo deciso di non esserci mai conosciuti prima. Nella stanza incontrai un uomo che avrà avuto più o meno una quarantina di anni, aspetto militare, che non avevo mai visto prima. Mi chiese infatti se avessi avuto l’impressione di conoscerlo o di averlo visto da qualche parte durante il mio servizio militare. Mi chiamava per nome, Fabio, strano per un militare pensai, generalmente si rivolgevano nei miei confronti sempre con il cognome, col grado oppure con qualche simpatico sopran-
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nome stimolato dal mio stesso cognome, con tutte le sue possibili interpretazioni. Non si qualificò, non disse a quale reparto apparteneva, non disse nemmeno di essere parte di una amministrazione dello Stato, quel giorno si limitò a guardarmi, a chiamarmi per nome e ad osservarmi. Ascoltò il mio silenzio per una decina di minuti poi se ne andò. Avevo deciso di non avere alcun rapporto con gli altri detenuti, nessuna forma di amicizia, nessun contatto oltre quelli obbligatori o necessari, nessuna relazione. D’altronde per loro ero una sorta di sbirro e non mi vedevano di buon occhio, capirono solo che non ero amato dalle guardie dalle volte in cui prendevo le botte o quando tornavo dalle cellette con il viso gonfio di “schiaffi e solette”. La saletta era una stanza di poco più grande della cella, ma sempre troppo piccola per contenere tutti i detenuti di quel braccio, nella quale avevamo la possibilità di giocare a scacchi oppure di leggere qualcosa. L’aria era semplicemente un cortile murato ove muoversi, correre in circolo come i topi, giocare a calcio. La saletta era anche il luogo ove assemblarci durante le perquisizioni generali, quelle grosse, fatte in ogni cella con l’ausilio dei cani; rinchiusi in questa saletta, nudi, mentre le guardie, che non erano le solite della sezione ma di un altro reparto, controllavano e devastavano quel poco che avevamo nelle celle. In cella d’altronde era possibile avere ben poco oltre la chiave del piccolo armadietto situato all’esterno, per aprire il quale occorreva chiamare un “superiore” e chiedere gli oggetti per l’uso quotidiano che vi erano riposti, il cibo comprato a caro prezzo dallo “spesino” ed altre cose. Qualche giorno più tardi sono stato di nuovo portato al cospetto dello stesso uomo, il quale questa volta mi disse quel che avrei dovuto fare, cioè la “spugna”, semplicemente la spugna. Assorbire notizie ed informazioni e riportarle a lui o a qualche altro suo delegato. Non si qualificò, non disse nulla altro se non le indicazioni relative ai due detenuti dai quali
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avrei dovuto captare notizie, senza cercarle, solo assorbirle laddove sentite; erano due uomini coinvolti in fatti di sangue, di armi e di eversione, con omicidi sulla coscienza e senza coscienza sugli omicidi commessi in danno di altri detenuti. Anni dopo riconobbi quest’uomo in un ufficiale paracadutista, transitato dalla Folgore al Sismi, indicato da una fonte qualificata, un ambasciatore, di essere un appartenente alla Falange Armata, un operatore dell’ufficio “K” della settima divisione del Sismi, quella di Gladio.
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IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
I ferri da campagna, così erano chiamati i braccialetti di metallo con le maglie e la catena, mi stringevano i polsi tanto da farmi male mentre le guardie mi trasferivano dal cellulare al tribunale per essere processato. La lunga catena mi teneva legato a loro come un guinzaglio che sembrava non finire mai. Mi misero dentro una gabbia nell’aula del Tribunale, offerto agli occhi di tutti coloro presenti. Iniziò il dibattimento che ripercorse le varie fasi dei presunti fatti che causarono il mio arresto, degne di essere valutate e comprese per capire quanto era facile, per chiunque, finire in galera con il vecchio codice penale, quello prima della riforma del 1989, anche senza particolari intenzioni di incastrare qualcuno da parte di qualche poliziotto ossessionato dal proprio ruolo, dal bisogno di emergere e di raccogliere encomi. Nel Dicembre del 1986 un noto transessuale, prostituta abituale, raggiunse una piccola stazione dei Carabinieri per denunciare che la notte prima aveva subito un furto, uno stereo portatile e 300.000 lire, da parte di un giovane con il quale aveva avuto un rapporto sessuale dentro la sua abitazione. Indicò il giovane come un militare, un amico del suo fidanzato, anche questo militare, che il transessuale disse essere un carabiniere, un carabiniere paracadutista. Nel corso di pochi giorni egli cambiò per tre volte i contenuti della sua denuncia senza mai indicarmi o segnalare nulla che potesse essere ricondotto a me, fino a quando disse di avermi riconosciuto dentro un pub. Indicò ai Carabinieri il mio nome ed il mio cognome che asserì di averli estratti da un mio documento d’identità che qualcuno gli mostrò. In effetti ricordo che una sera del marzo 1987, mentre mi trovavo dentro un noto pub cit-
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tadino, in compagnia di due incursori paracadutisti, notai la presenza di questo transessuale, molto noto in città, insieme ad un ragazzo che sapevo essere un carabiniere paracadutista. Mi fu presentato e mi chiese notizie circa un altro carabiniere paracadutista che avevo probabilmente conosciuto, chiedendomi se avessi saputo qualcosa circa la sua attuale destinazione che indicò in una caserma di Bologna, nella quale poco tempo dopo avverrà un massacro di Carabinieri. Qualche giorno dopo alcuni carabinieri perquisirono la mia abitazione dicendomi che ero stato accusato di rapina in danno del transessuale e che cercavano lo stereo ed i soldi che secondo questi gli avrei rubato durante il rapporto sessuale che, sempre secondo quanto detto dal transessuale, avremmo avuto il 16 Dicembre 1986. Negai ogni addebito e accompagnai i carabinieri, diretti dal comandante della stazione nella quale il transessuale aveva sporto la denuncia nella mia stanza, ove trovarono e sequestrarono un pugnale tipo militare ed una pistola giocattolo, la riproduzione di quella vera, ma a salve. Non fu trovato nessun oggetto riconducibile alla presunta rapina. Nel frattempo proseguivo la mia strana carriera militare presso i vari reparti, non seppi più nulla per un anno fino al giorno del mio arresto avvenuto nel mese di marzo dell’anno successivo, giustificato dalla richiesta della custodia cautelare in carcere per il pericolo di fuga e d’inquinamento delle prove. Arresto richiesto con queste motivazioni a distanza di quindici mesi dal presunto evento, mesi nei quali sarei potuto fuggire o avrei avuto il modo di inquinare qualsiasi prova. Mesi nei quali ho servito lo Stato ricevendo rapporti informativi e note caratteristiche più che positive. Il processo fu caratterizzato dalla ilarità da parte degli astanti per gli argomenti trattati e per il modo che il transessuale aveva di raccontare i fatti, contraddicendosi molto spesso, incalzato dalle domande del mio avvocato, un principe del foro livornese grande amante de “il Vernacoliere”.
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L’evento che fece realmente ridere tutti fu quando il giudice chiese al transessuale di riconoscermi ed indicarmi, il quale aveva la scelta di individuarmi fra me ed una ragazza di colore che mi stava accanto, non sbagliò. Questo fatto stimolò quella mia reazione emotiva che avevo contenuto nei lunghi mesi di prigionia. Sono stato condannato al massimo della pena, anni tre e mesi uno di reclusione con l’interdizione dai pubblici uffici per anni cinque, per i reati di rapina e di armi. Avevo già trascorso settantasette giorni in carcere e la prospettiva di passarci degli altri anni mi gelò il sangue. Non rimasi soltanto colpito dalla condanna, per armi in special modo, ma dalla sua entità, il massimo della pena per un diciannovenne incensurato, che fino ad allora aveva fatto il militare di carriera, che nel periodo nel quale fu consumato il presunto reato aveva compiuto diciotto anni da pochi mesi. Soprattutto ero deluso dal fatto che non riuscii a dimostrare che nei giorni in cui il transessuale disse che avvenne il fatto, ero alla base americana Ederle di Vicenza. Durante il viaggio di rientro in carcere sviluppai con l’immaginazione un piano di fuga, avrei potuto colpire la guardia alla mia destra, disarmarla e minacciare l’altra per togliermi i ferri, quindi evadere e raggiungere la Francia. Purtroppo il tragitto fu più breve della mia fantasia e arrivammo al carcere prima della fine della mia fantasiosa fuga. Ero scioccato, condannato al massimo delle pena per qualcosa che non solo non avevo mai fatto, ma che da quanto emerse al processo era evidente che non fosse mai avvenuto. Pensai che probabilmente quella era una sorta di missione, pensai che da fare solo la spugna sarei stato inoltrato in qualche altro carcere per infiltrarmi in chissà quale gruppo eversivo, che la condanna per armi era probabilmente una sorta di biglietto da visita per accreditarmi in qualche modo verso la criminalità che avrei dovuto infiltrare. Volli pensare questo
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per non affrontare il pensiero che ero stato condannato a tre anni ed un mese di galera, che non ero più un incensurato, che la mia fedina penale era stata sporcata. Avevo solo diciannove anni. Qualche ora dopo, mentre ero nella mia gabbia subendo le grida degli altri detenuti enfatizzati dalla notizia della mia condanna, mi raggiunse una guardia dicendomi che era giunto l’ordine di scarcerazione e che sarei stato trasferito agli arresti domiciliari, ove rimasi per altri cinque mesi. Il carcere è stato il contenitore della mia libertà mentre gli arresti domiciliari furono la mia libertà contenuta. Vedevo tutto ciò che non potevo fare, dalla semplice passeggiata alla possibilità di evadere. Erano una vera tortura psicologica, ove avevo tutto rispetto al nulla del carcere, mangiavo, avevo i miei affetti vicino, non c’erano le guardie a prendermi a botte, ma sono stati ben peggiori del carcere perché ai domiciliari ero la guardia di me stesso, ero il mio principale persecutore. Ho festeggiato i miei venti anni di età da prigioniero, fu un compleanno triste con le candele spente. Un giorno squillò il telefono e qualcuno dall’altra parte della cornetta mi disse che ero stato rimesso in libertà. Nonostante la mia giovane età ed il trauma che avevo vissuto, iniziato sin dal mio primo strano congedo del 1985 fino al giorno del mio arresto, cercai di capire in cosa ero stato coinvolto, sforzandomi di analizzare ogni fatto al quale avevo partecipato o che avevo potuto sapere durante la mia permanenza nelle varie caserme italiane oppure a Camp Darby. Dal 1985 al 1988 la mia vita è stata caratterizzata dalla carriera militare, dalle basi americane, dai paracadutisti. In qualche modo il soggetto che mi aveva denunciato era riconducibile a questi elementi. Era un informatore dei carabinieri, il suo fidanzato come egli ha ammesso e dichiarato in atti era un carabiniere paracadutista, che avevo conosciuto dentro Camp Darby. La sera che lo incontrai al pub ero con due incursori che lo conoscevano, anch’essi presenti spesso a Camp Darby i quali assistettero al
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nostro colloquio, mentre era in compagnia di un altro carabiniere paracadutista spesso presente alla base americana. Ancora non sapevo che uno di questi due incursori, entrambi transitati dal Col Moschin al Sismi, era un collaboratore del soggetto che mi chiese di fare la spugna. Ancora non sapevo che l’altro incursore lo avrei rivisto durante il confronto che avrei svolto alla Procura di Livorno venti anno dopo, relativo le indagini della tragedia del traghetto Moby Prince. Ancora non sapevo che il giudice che dispose il mio arresto sarebbe stato a sua volta arrestato e che un altro giudice aveva il figlio tossicodipendente che prendeva la roba dallo stesso fornitore del transessuale e di suo nipote, quest’ultimo poi morto per overdose, tutti confidenti della polizia e dei carabinieri. Nel momento in cui appena liberato andai a tuffarmi in mare aperto, mentre nuotavo, sapevo solo che avrei impiegato ogni mia risorsa per dimostrare la mia innocenza, per dire ai miei genitori che loro figlio aveva patito quella tortura, e loro con me, senza colpa. Il mare mi accolse ancora una volta con tutta la sua energia, era freddo, provai una profonda sensazione di benessere, ad ogni bracciata l’acqua si mischiava con le mie lacrime, le mie lacrime erano libere ed io con loro. Quando incontrai i miei due parenti che lavoravano all’interno dell’ambasciata americana di Roma, mio cugino Massimo e mio zio Domenico impiegati al controspionaggio militare, mi dissero che quanto mi era accaduto era terribile, ma che ero stato considerato dai loro amici positivamente per come avevo reagito, resistito e superato l’evento senza mai perdere la calma. Che presto avrei avuto modo di riprendere la mia vita, di fare il mio lavoro, l’unico che sapevo fare e che avevo fatto negli ultimi quattro anni dei miei venti anagrafici, il lavoro del soldato.
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LEGIO PATRIA NOSTRA
Aubagne mi ha visto arrivare a bordo di una motocicletta con la pioggia d’inverno, che abbandonai poco prima il cancello d’entrata del quartier generale della Legione Straniera francese, il quale sembrava la bocca di un imbuto che ingoiava centinaia di vite, per farle sparire e rinascere con un kepì blanc calzato in testa, dopo aver distrutto e ricostruito la personalità e la persona che aveva scelto di arruolarsi in questo mitico e mitizzato reparto militare. Mi accolse un legionario di origine ispanica, il quale dopo avermi introdotto all’interno di alcuni locali mi prese i documenti, mi guardò, sorrise beffardamente e mi salutò in francese. Dentro la caserma la vita era simile a tutte le altre organizzazioni militari, cambiava solo il tipo di uniforme ed i toni della cadenza che guidava la marcia, che nella Legione era molto più lenta rispetto agli altri reparti, con un passo dolce, cantato, leggero. Mi dettero una tuta ginnica con i colori della Legione, rosso e verde, raggiunsi uno stanzone dove trovai gli altri aspiranti legionari, provenienti da mezzo mondo, molti giovani, alcuni giovanissimi, qualcuno giunto in gruppo, altri, come me, da soli. La giornata era strutturata con adunate generali, chiamate con un fischio, nelle quali alcuni legionari ci spiegavano, in francese, le attività da svolgere, quindi dall’attesa dietro il piazzale, ove c’era un grosso albero ed una sorta di cortile sterrato, nel quale ci radunavamo in attesa del fischio, senza nessun legionario a controllarci; le risse erano frequenti, qualche cazzotto volava sempre fra i più nervosi, forse i più indecisi. C’era di tutto, ragazzi in fuga da mandati di cattura, uomini in cerca di una nuova vita,
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Singole Esperienze collettive
ex militari innamorati del proprio lavoro, sognatori, frustrati, delinquenti, vittime, varia umanità che la Legione avrebbe accolto, forgiato e reso strumento per il governo francese. La “gestapò” era la sezione della polizia militare della Legione Straniera, ove incontrai un ufficiale che mi fece alcune domande, mi presero le impronte, non ricordo se mi fecero anche la fotografia, ricordo invece il commento di un legionario che sorridendo disse che sapevo come usare il tampone dell’inchiostro, facendomi così capire che le informazioni su di me le avevano già prese. C’era un giovane ragazzo bianco proveniente dal Sud Africa, che parlava uno strano inglese ed uno strano francese, avrà avuto diciotto anni, con il quale feci coppia sia in camerata che nel cortile d’attesa, difendendoci uno con l’altro contro qualche scatto di rabbia di uno dei tanti disperati, specialmente quelli che non avevano scelto la Legione ma che non avevano altra scelta nella vita, forse inseriti nella lista catturandi del loro paese d’origine, forse semplicemente disperati che mal digerivano gli ordini e l’inquadramento militare, specialmente quello della Legione Straniera che non era certo un luogo di educande. Alla momento della firma del contratto parlai con un ufficiale che mi spiegò che per i prossimi cinque anni sarei stato proprietà della Legione Straniera francese, che avrei potuto cambiare il mio nome, che al termine della ferma avrei potuto continuare la carriera militare oppure tornare alla vita civile con un nome nuovo e la nazionalità francese, che il fatto che ero già stato un paracadutista non contava nulla e che per diventare un parà della Legione avrei dovuto eccellere in ogni attività. Nell’ufficio c’era anche un legionario che mi parlò in italiano, infatti era italiano, il quale dopo che firmai il contratto mi portò alla vestizione, ove ricevetti una uniforme verde da lavoro per affrontare le settimane successive, caratterizzate da un colore di un nastrino che cambiava in base al superamento di alcune selezioni,
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Legio Patria Nostra
fino a raggiungere l’arruolamento e l’invio presso la scuola di addestramento nella quale dopo alcuni mesi di corso i soldati avrebbero ricevuto l’emblema della Legione Straniera, il kepì blanc, con una caratteristica cerimonia, fra canti e falò, fino al grido del motto “legio patria nostra” che suggellava l’entrata nel mito. Non raggiunsi mai quel momento, me ne andai prima, nonostante avessi già firmato il contratto, ma ebbi modo di scambiare due parole con un americano che, portandomi i saluti di mio cugino Massimo, mi propose di entrare in alcune strutture private, ove portare la mia esperienza e la mia voglia di imparare, ove avrei potuto continuare a fare il soldato senza le costrizioni di un reparto militare. Londra sembrava un grosso nuvolone con la gente sotto, non mi piaceva, era fredda, umida e soprattutto grigia, mi mancava il mare, il sole che in quella città non ho mai visto; fortunatamente il tempo era poco perché lo impegnavo tutto nell’imparare questo mio nuovo lavoro, quello del consulente privato per la sicurezza, inserito all’interno di un dedalo di società private internazionali, la maggior parte americane ed israeliane, che offrivano i più vari servizi di sicurezza e di intelligence alle grandi industrie, a qualche governo, ai grandi finanzieri, agli investitori nei paesi considerati ad elevato rischio, quelli nei quali c’era una guerra in corso, c’era stata oppure avrebbe potuto esserci in base ai rapporti della valutazione del rischio stilati dagli operatori in teatro che misuravano la febbre ai vari leaders delle fazioni in lotta, specialmente nei paesi africani. Stavo imparando l’arte della captazione, del pedinamento e delle contromisure di sorveglianza, stavo imparando a dossierare, a compilare e valutare i rapporti informativi descriventi persone e strutture, fatti e situazioni, mi addestravo fisicamente e mentalmente per affrontare le difficoltà che avrei incontrato nei teatri operativi, stavo imparando le lingue in attesa di raggiungere il prossimo paese di destinazione, la Germania Est; era il 1989, avevo ventuno anni e stavo ringiovanendo.
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CHECK POINT CHARLIE 1989
Il treno era freddo, molto freddo, stavo viaggiando di notte in Germania diretto a Berlino, quando vidi per la prima volta due guardie della Germania Est che erano salite a bordo per il controllo dei documenti dei viaggiatori, era così strano vedere di persona il simbolo della guerra fredda, il nemico che mi avevano insegnato a temere, quello protagonista dei tanti film nei quali Berlino era sempre stata rappresentata con un velo di romanticismo e di tristezza; in realtà l’unico film che ben mi ricordavo era stato “noi i ragazzi dello zoo di Berlino” e tanto romantica quella città non mi apparse, come poco gentili furono i due militari della Germania Est, che marciavano in modo così marziale anche mentre camminavano; pensai per questo a quanto doveva essere stato pressante il condizionamento che avevano subito e che probabilmente doveva essere costante durante tutta la loro giornata. Al mattino raggiunsi Berlino Ovest, lo “zoo” del film, cioè la stazione ferroviaria; la città era divisa nei settori inglese, americano, francese e quindi la Berlino Est, d’influenza sovietica, triste. Provai delle sensazioni strane, non avevo mai patito tanto freddo quanto quel giorno, capii di essere molto lontano da casa, capii di essere immerso nella parentesi della storia, al centro dell’asse che equilibrava gli scenari mondiali, in una città distrutta e ricostruita sopra quella vecchia; la palude, questo significava Berlino, un tempo sede di quella pazzia che era stato il nazismo i cui simboli potevo vederli ancora in alcuni vecchi angoli della città mai ricostruiti, le cui conseguenze erano davanti ai miei occhi, una città divisa, fredda, grigia e triste, molto triste.
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Singole Esperienze collettive
I giorni trascorsero e piano piano imparai a muovermi all’interno della città, fra i vari settori, specialmente imparai a capire che il Check Point Charlie chiudeva alle ventitre e che dopo sarebbe stato molto difficile tornare nel settore occidentale senza incappare negli incessanti controlli della polizia dell’est, molto simile ai personaggi dei film, con i loro vestiti neri di finta pelle, le espressioni serie e quell’atteggiamento di perenne incazzatura, d’altronde non è che facessero una vita particolarmente brillante oltre quel muro. Conobbi Sabine, una meravigliosa giovane ragazza di Berlino Est che amava pattinare, la incontrai in uno dei miei primi passi dall’altra parte del muro, diffidandone subito convinto che fosse una sorta di guardia intenta a capire i motivi delle mie visite, con la quale imparai l’arte della terribile colazione dell’est formata da cibo dagli strani sapori, forti ed acuti. Nel settore ovest mi spacciavo per un bisessuale italiano in cerca di libertà, in fuga dalla oppressione italiana e speranzoso di trovare nella città aperta di Berlino l’accoglienza gradita fra la numerosa comunità gay, bisex, lesbo presente in città, con i suoi locali, le sue strade a tema, la sua atmosfera di libertà come se fosse l’ultimo giorno sulla terra. Il mio lavoro consisteva nel mettere in pratica quello che avevo imparato a Londra, cioè penetrare gli obiettivi d’interesse, di volta in volta indicati da coloro con cui collaboravo; obiettivi, cioè persone, di cui poco sapevo, che frequentavano quei locali bisex nei quali io stesso mi ero inserito, che avvicinavo fino a farmi portare nella loro casa o nella loro auto, ove poter piazzare degli ambientali, prima di abbandonarli senza averne soddisfatto i desideri, con uno dei migliori metodi per non stimolare la loro ira o la loro curiosità, il vomito, bastava infatti simulare di vomitare e sputacchiare qua e là per ridurre ogni velleità sessuale nei miei confronti, giustificando che come italiano non ero abituato a bere tutta quella birra, scoraggiandoli così dal persistere ogni approccio sessuale, da rimandare a tempo indeterminato, mai. Un pomeriggio mentre ero nel settore est ho assistito a come
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Check Point Charlie 1989
la storia può cambiare in un secondo, vidi la gente radunarsi come mai prima, con le guardie che avevano delle espressioni fra il sorpreso ed il curioso, Sabine abbandonò i suoi pattini, mi prese la mano e mi disse di correre via, di tornare all’ovest perché non capiva quel che stava accadendo ma sapeva quanto era elevato il rischio di finire in mezzo ad una sparatoria, conosceva la violenza delle guardie, riconobbe le macchine degli uomini della famigerata Stasi, corse dai suoi genitori che nel frattempo la raggiunsero con la loro piccola Trabant, un’auto strana e buffa, simile alla Nsu Prinz che aveva avuto mia madre prima di rinunciare a guidarla, dopo averla battuta contro ogni cosa in movimento. Le dissero che non sapevano cosa stava accadendo ma che era qualcosa di grande, mi sembrava di essere stato proiettato in un passato remoto, con i colori, gli abiti, l’atteggiamento ed il comportamento di quella gente, i cui sguardi esprimevano tanta paura ma anche la speranza che qualcosa potesse cambiare. Entrai anche io in quella strana scatola di metallo con le ruote piccole, che puzzava di miscela, ricordandomi la mia vespa 125 ET3 primavera che avevo avuto qualche anno prima, ereditata da mio fratello. Raggiungemmo una fila di altre macchine, molte Trabant e qualche altra appena più grande, piene di gente, non era mai accaduto prima che a Berlino Est si potessero riunire così tante persone senza che le guardie iniziassero a sparare, anche se lanciavano l’acqua con gli idranti, che si gelava addosso dal freddo che c’era, stimolando delle danze spontanee simili a quelle che facevano i deportati nei capi di concentramento. Era il 9 Novembre 1989. Quella sera ho avuto l’opportunità di fare la pace con la mia libertà, perduta dentro un carcere italiano e mai ritrovata nonostante l’apertura della cella, perché la libertà è uno stato d’animo e non solo la possibilità di muoversi. La folla cresceva di ora in ora, sfidando quei pochi poliziotti che ancora non si erano resi conto che anche loro erano di fronte alla possibilità di la-
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sciare quel luogo triste e grigio, i quali manganellavano qualcuno di tanto in tanto, fino a comprendere la stupidità di quel gesto, fino a diventare essi stessi folla, che premeva contro un muro orribile, il quale dividendo Berlino aveva diviso il mondo intero; sparirono le armi ed apparsero i picconi, le mazze, qualcuno arrivò con una ruspa vecchia, ma non riuscì a fare nulla perché nel frattempo si guastò. Da una parte e dall’altra del muro la gente si radunava, chiedendone a gran voce l’abbattimento, le guardie sopra il muro stesso avevano riposto le armi ed ormai erano solo il simbolo di un’epoca finita, caduta come stava per cadere il muro, non crollato ma smembrato pezzo per pezzo, parete per parete, sgranellato dalle tante unghiate di libertà, come piccoli morsi di topi ansiosi di fuggire dalla gabbia. Sabine piangeva e rideva, il padre aveva sognato di poter rivedere la sorella rimasta all’ovest durante la costruzione del muro, la madre era invece ferma, immobile dentro la piccola macchina, incredula; c’erano stati molti morti prima di allora a causa degli spari delle guardie che colpivano chiunque avesse tentato di superare quel muro, ed ora quel mostro si era aperto, crollato sotto il suo stesso peso, pronto ad accogliere le speranze ed i sogni dei tanti berlinesi dell’est che in fretta e furia avevano caricato le piccole macchine e si erano messi in fila per passare all’ovest, fuggire via da quel mondo vincolante e pressante, dal controllo della Stasi, dalle delazioni, dai comitati, dalla burocrazia, dalla povertà e soprattutto dal contenimento fisico e culturale opprimente e deprimente. Con Sabine ci perdemmo nella folla, non l’ho più rivista, non ho più saputo nulla di lei e della sua famiglia, ogni tanto m’immagino che starà pattinando in qualche città tedesca con i suoi figli, ai quali racconterà come crollò il muro di Berlino, in compagnia di quel ragazzo italiano che parlava tedesco con un terribile accento toscaneggiante, che riuscì a cucinare degli spaghetti alla carbonara all’interno di una bettola dalle parti di Alexander
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Platz, per dei palati che poco capirono del gusto ma che apprezzarono il coraggio della libertà trasformato in una mangiata collettiva, la quale era vietata e che mi costrinse a restare clandestinamente all’est perché avevo ormai superato le ventitre, l’ora del rientro dal Check Point Charlie, da dove passai il giorno dopo con tutta la folla senza più tanti controlli, infatti molti occidentali approfittarono di quel momento per rientrare all’ovest dopo essere stati clandestinamente all’est, ognuno per le proprie ragioni. Poi la vita riprese il suo corso, con altri controlli, meno marziali ma presenti, fino allo smantellamento dei settori in cui era stata divisa Berlino e la sua progressiva ricostruzione. Berlino è stata la città più ricostruita al mondo, che nasconde un’altra città nel suo sottosuolo, quella città che il nazismo avrebbe voluto più grande ed imperiale di Roma per manifestare il dominio sul mondo, dopo aver sterminato i nemici, dopo aver distrutto la vita di milioni di persone; un sottosuolo ancora pieno di bunker, di dedali di viuzze costruite per difendersi dagli incessanti bombardamenti degli alleati durante la seconda guerra mondiale, con cucine, ospedali, caserme, uffici postali, birrerie, tutte nascoste sottoterra, compreso il bunker nel quale Hitler pose fine alla sua vita. La caduta di quel muro mi ha consentito di elaborare parte del trauma patito con la mia prigionia, ho ritrovato il senso della libertà, la gioia della libertà e soprattutto la capacità di crescere, di riconoscere la mia età, quella di un ragazzo di ventuno anni, felice anche di giocare all’interno di un lavoro serio, all’interno di fatti molto più grandi di me, nei quali ero parte, comparsa, spettatore. Man mano che i giorni passavano iniziai a capire che la caduta di quel muro fu troppo repentina per non rappresentare un rischio di ulteriori crolli, come la storia poco dopo confermò. Una sera incontrai un vecchio berlinese, che aveva bevuto molto, eravamo seduti sui gradini delle fontane dell’Europa Palace, mi piaceva ascoltarlo, conosceva qualche parola di italiano perché aveva combattuto sul fronte di
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Cassino durante la guerra, mi raccontò la sua storia, simile a quella di tanti giovani berlinesi di allora; parlava del potere di Hitler, dell’enorme macchina del nazismo, delle sfilate nei viali nei quali si radunavano centinaia di migliaia di persone inneggianti, di quei soldati alti e fieri, delle mille bandiere, dei cavalli, dei canti, descriveva i fatti come se quella bottiglia di un liquore indefinito fosse una sorta di macchina del tempo, i suoi occhi erano una cinepresa capace di mostrarmi le immagini dei suoi ricordi, che potevo vedere oltre che ascoltarli dalle sue parole alcolizzate. Mi raccontò la guerra del pane, quando, poco dopo la presa di Berlino i sovietici lanciavano il pane alla folla di civili affamati, poco alla volta perché si divertivano a vederli scannare fra loro, spinti dalla fame. Mi raccontò quando una sua amica gli fornì i vestiti del marito morto sotto le bombe, ancora sporchi di sangue, permettendogli così di non essere ucciso sul posto se avesse ancora indossato la sua uniforme di soldato tedesco. Mi raccontò quando, dopo la guerra, si sposò ed ebbe i suoi figli, poi la sua sconfitta come marito e come padre ed ora stava lì, accanto ad un perfetto sconosciuto, solo, in attesa che la cirrosi epatica se lo portasse via, ormai vecchio e stanco anche dei suoi stessi ricordi. Si chiamava Peter, morì tre mesi dopo, trovato assiderato non lontano dallo zoo di Berlino, che dava il nome alla stazione ed al giardino zoologico, formato anche da tante persone che si erano perse, diventando animali, perdendo il ruolo di uomini per restare solo delle presenze, che si estinguevano per droga, per fame, per freddo ed anche per quella vecchiaia che si portava via la memoria di un’epoca fatta di uomini alti e biondi, cavalli e mille bandiere, troppe per restare al vento, i cui drappi coprono ancora gli occhi sulla storia dalla quale non abbiamo imparato nulla.
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Nel 1991 tornai in Italia per qualche tempo, mio padre aveva scoperto di essere il contenitore di un terribile tumore che se lo stava mangiando ed intendevo stargli vicino, come al resto della mia famiglia nel percorso che dovemmo affrontare fino alla sua morte, fatto di chemioterapia, di radioterapia, di dolore, di medicazioni, di speranze e di delusioni, di negazione e di realtà, fino alla fine dei suoi giorni. Ho sempre conosciuto mio padre, che si chiamava Mario, come un uomo attivo, impegnato nel suo lavoro, faceva il capo draga, fumava tantissimo, troppo, tanto che ha nutrito il suo tumore per anni, aggiunto a tutto l’amianto che ha inalato, toccato e respirato nel corso del suo lavoro e chissà cos’altro. Vederlo in quel letto d’ospedale, con il suo pigiama celeste era una tortura, di tanto in tanto fuggiva dalla stanza per raggiungere la vicina piazza dei miracoli ove si mischiava coi turisti, per fumarsi le sue sigarette in pace; era ricoverato a Pisa, faceva la cavia in pratica, ma così riceveva una migliore assistenza, ormai si era affezionato ai suoi medici ed aveva fiducia in loro, sarebbe stato peggio convincerlo diversamente. Era un uomo dei suoi tempi, nato e cresciuto sotto il fascismo, costretto a crescere in fretta dalla guerra e dalla miseria, chiuso e riservato, non esprimeva le sue emozioni ma era capace di amore, di bontà e di quell’altruismo che lo caratterizzava, quasi come se volesse trasmettermi le sue carezze attraverso gli altri, che mi parlavano di lui con dolcezza. Ricordo che da bambino mi portava a bordo delle sue draghe, delle bettoline, in darsena toscana ove aveva l’attracco proprio sotto la torre del Marzocco, all’interno di una sorta di cantiere nel quale c’erano due pastori
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tedeschi bellissimi, con cui giocavo, in attesa che papà avesse controllato gli ormeggi e le apparecchiature di bordo. Salivo spesso sulla draga, amavo l’odore di mare, di olio bruciato, di ferro reso rovente dal calore del sole, di ruggine, di resine marine, di pesce. Quando lo salutavo lasciandolo solo all’ospedale sentivo lo stomaco chiudersi, non tanto per la paura di non vederlo più, ma perché sapevo bene a cosa andava incontro, la chemioterapia, la radioterapia e tutto il resto, con il tumore che gli stava mangiando le ossa, che sparivano letteralmente dalle lastre, sostituite da collari, da ferri, da impalcature che trasformavano mio padre in una sorta di cantiere umano. Era andato da poco in pensione quando scoprì la malattia, aveva un orto che coltivava con passione e continuò a farlo fino a quando non fu costretto in ospedale, era ritornato alle sue origini di contadino, dopo tanti anni in mare. Ogni tanto mi sdraiavo sul letto, restavo immobile guardando il soffitto bianco, isolandomi dal resto del mondo, rifiutavo l’ipotesi che potesse morire, cacciandola via con la coscienza di fuggire la realtà, per la quale non ero ancora pronto come non lo erano mia madre e mio fratello; lui, mio padre, lo aveva capito e manifestava il suo solito spavaldo coraggio perché non aveva mai imparato ad avere paura nella sua vita, non che non la provasse, non la sapeva esprimere come non riusciva ad esprimere i suoi sentimenti, le sue emozioni; era il primo ad incoraggiare tutti noi quando doveva affrontare delle terapie dolorose che gli marchiavano il corpo, che mia madre curava con tutta la devozione e l’amore che aveva donato a mio padre per tutta la vita, rinunciando a se stessa, senza farsi troppe domande, vivendo il suo destino di moglie e di madre per come la sua cultura l’aveva cresciuta e predisposta. Vedere papà sdraiato sul divano di casa quando non era ricoverato in ospedale era un sollievo, per quanto il colore del suo viso ed i segni nel suo corpo non lasciavano spazio a grandi fantasie di guarigione, ma ero felice
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Il sorriso di un padre che muore
di saperlo a casa, con la famiglia, con il suo cane, Bigol, che non lo abbandonava un attimo, che lo riscaldava con il suo corpo quando papà aveva le crisi di freddo, sdraiandosi su di lui. La notte che morì non feci in tempo a chiamare la mamma e mio fratello, papà alternava momenti di coscienza con momenti nei quali dondolava la testa da un lato all’altro dal dolore, il suo corpo era distrutto dal tumore, non riuscivo nemmeno a potergli accarezzare la testa perché sentivo le ossa muoversi, era tenuto insieme da una sorta di busto metallico che gli sorreggeva il mento per evitare che morisse soffocato, non aveva più le vertebre cervicali, si era fatto così piccolo, così magro, così vecchio. Riprese coscienza e mi sorrise, gli detti da bere, togliendogli quell’orribile macchina succhia bava, gli feci la barba e lo pulii ovunque, donandogli quella dignità alla quale teneva tanto. Morì poco dopo, in silenzio, sereno, forte, tanto forte da sconfiggere il dolore rinunciando fino all’ultimo alle smorfie della sofferenza e regalandomi quello che nella sua vita rare volte era riuscito a fare, un sorriso, il sorriso di un uomo che muore di fronte a suo figlio. Questa immagine di mio padre ha cancellato in un attimo il nostro conflitto, la nostra difficoltà di relazionarci, le nostre difese, la nostra stupidità per non esserci mai lasciati abbracciare, la nostra reciproca coscienza di amarci, di essere vicini quando eravamo lontani, preoccupati uno dell’altro in un tacito mutuale abbraccio; con quel sorriso mi ha donato la gioia del suo ricordo che porto con me ormai da tanti anni, pronto a raccontare la sua storia ai miei figli per tramandarne il coraggio di fronte al dolore, di fronte alla morte che l’ha trovato vivo, anche nella coscienza che la sua vita era giunta al termine. Restai per alcune ore di quella notte a vegliare il corpo di mio padre, gli legai il mento e le gambe con un drappo bianco, gli smontai quell’orribile busto con tutti i suoi accessori, quindi chiamai mia madre e mio fratello
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che mi raggiunsero in ospedale, con i quali mi sentivo in colpa per non essere riuscito ad avvisarli in tempo, affinché avessero potuto godere di quello stesso sorriso. Qualche settimana dopo la sua morte, mentre ero già tornato nella mia casa, vivevo ormai da solo all’Isola d’Elba, con il mare fuori dalla porta, ero nel letto che dormivo quando mi svegliai all’improvviso, mi misi a piangere chiamando mio padre, tutta la notte, belando come un bambino, come quel bambino che si era ricordato il sorriso di suo padre che la memoria e gli anni avevano nascosto. Mi ricordai infatti il sorriso che mi regalò mio padre quando imparai ad andare in bicicletta, a cavallo di una graziella blu con il contro pedale, sulla quale anche mio fratello aveva mosso le prime pedalate: per tutta la notte mi ricordai che mio padre m’insegnò tante cose, che mi regalò tanti sorrisi, mi addormentai solo al mattino, per poi risvegliarmi poco dopo, sorridente. Aprii la porta, feci due passi e mi fermai in riva al mare per sentirne il sapore, per ascoltare il vento, per guardare oltre la vita che per mio padre era ormai finita. Mi tuffai per farmi accogliere ancora una volta dall’energia del mare.
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GLI ORCHI A BANGKOK
Bangkok era una caotica città fatta di caotici silenzi alternati a rumori infernali dei clacson, dei motori, dei cantieri. Mi rifugiavo spesso lungo il fiume prendendo una barca per trovare quella quiete di cui avevo bisogno. In quella città ho imparato a riconoscere i predatori di bambini, nei suoi quartieri ove il sesso ed il turismo si confondevano in una unica offerta. Visi occidentali, tedeschi, danesi, italiani, australiani, americani, francesi, quindi espressioni orientali dei giapponesi e dei coreani, tutti intenti alla scelta della bambina o del bambino di turno con cui fare sesso, nel modo più gradito, senza regole, senza umanità, solo oggetti di piacere fatti d’infanzia. Tutti anonimi cittadini, gente comune che avrei potuto incontrare in qualsiasi altro luogo, nessuna espressione a tradimento della loro pulsione, della loro cultura pedofilica, nulla che potesse anche marginalmente renderli diversi da me o dagli altri. Raggiunsi il confine con la Cambogia per incontrare i miei committenti, per i quali condussi un lavoro, quindi mi presi qualche giorno di relax a Pukhet, mangiando frutta fresca in compagnia di una amica americana che avevo conosciuto da poco e che mi raggiunse, Allison, impegnata in una nascente associazione che anni dopo divenne il punto di riferimento della lotta allo sfruttamento dei minori nel turismo sessuale, la quale conduceva una ricerca proprio sulla prostituzione minorile e sulla richiesta da parte degli occidentali di bambini molto piccoli, prepuberi, anche sotto i sei anni di età. Aiutarla nel suo lavoro mi ha consentito di confrontarmi con una realtà che conoscevo ma che non riconoscevo nella sua crudeltà, ove lo sfruttamento
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sessuale era alla base di un traffico e di un commercio dell’infanzia di più ampio respiro. Riuscì a parlare con un pedofilo italiano, un bresciano in pensione che si era trasferito in Thailandia da qualche mese, felicissimo della sua scelta, al suo fianco c’erano tre bambine, molto piccole, dieci al massimo dodici anni, occhi furbi e sorriso esperto, gergo classico delle puttane, abbigliamento composto da capi da donne adulte indossati da bambine, i capelli bellissimi, neri e lisci, curati, le mani stanche e gli occhi di un solo colore, questo ricordo di quelle tre bambine. L’uomo si sentiva paradossalmente un benefattore perché le aveva comprate da un bordello, le nutriva e le curava in ogni loro esigenza, ripagato dalle attenzioni che le bambine avevano imparato a vendere per mantenersi quel tutore gradito e ormai amato, con il quale la confidenza era così palese negli ammicchi sessualizzati che non lasciavano spazio a dubbi di alcun genere. Non provai particolari sensazioni di disagio, mi limitai ad osservare ed imparare, guardando ed ascoltando l’uomo nei suoi racconti di caccia, nei suoi dubbi durante la scelta delle bambine, preoccupato che fossero state violate anche nell’orifizio anale, che egli desiderava integro, le aveva fatte visitare per scongiurare il pericolo di malattie veneree, come fanno i fattori alla scelta dei maiali nelle fiere agricole. Allison lo osservava dall’alto verso il basso, era una ragazza molto bella, proveniente dallo stato dello Utah, era una mormona, i capelli lunghi, castano chiari e gli occhi di un blu profondo, intenso, preparata nella sua materia, laureata in psicologia; dopo aver lavorato negli USA per qualche tempo, decise di darsi alla cura dei bambini nei paesi del terzo mondo scegliendo quell’associazione che gli aveva proposto alcuni incarichi. Le traducevo quelle parole che anche io facevo fatica a comprendere a causa del forte accento bresciano e del dialetto che mischiava all’italiano, Fabrizio, questo era il suo nome, sembrava divertito dal mio interesse, che comprese come una sorta di interesse diretto verso le bambine, verso
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Gli orchi a Bangkok
quel mondo senza regole ove potevi acquistare una bambina di sei anni per meno di mille dollari americani. Mi raccontò, vantandosene, delle sue esperienze con numerose minori tailandesi, delle fotografie che aveva scattato e che collezionava, degli incontri con gli altri pedofili all’interno di una sorta di club nato spontaneamente nei bar gestiti dai tedeschi che circondavano il quartiere del sesso di Bangkok. Diffidava dei giapponesi che egli considerava dei sadici perché era risaputo che i gestori dei bordelli preferivano vendergli direttamente le bambine ed i bambini ad un prezzo elevato, coscienti che erano dei “vuoti a perdere”, che li avrebbero maltrattati a tal punto da non essere più commercialmente utili. Quando l’uomo ci lasciò lo osservammo andar via con le sue prede, tre bambine molto piccole e molto basse, tutte capelli e profumo, ancheggianti e paradossalmente felici di essere schiave di un solo uomo. Allison mi raccontò che ben conosceva quel mondo, che la miseria, il degrado e soprattutto la richiesta avevano fatto crescere l’offerta in modo esponenziale in tutto il paese, concentrando sulle maggiori località turistiche numerose bambine e adolescenti provenienti sia dalla Thailandia che dalla Cambogia, dal Laos, dal VietNam. Mi disse che una grande responsabilità in quel commercio l’avevano gli americani, i quali durante la guerra con il VietNam trovavano in Bangkok l’isola felice ove sfogare i desideri più perversi, aggravati dalla brutalità di quella guerra, città in cui trovavano l’offerta di quelle piccole donne. Il giorno dopo mi portò in un villaggio nel nord del paese, molto piccolo, nel quale aveva iniziato un’opera di alfabetizzazione contro le malattie veneree, una vera piaga per moltissime ragazzine, spesso ripudiate dalla famiglia e costrette a tornare alla vendita del proprio corpo per sopravvivere, oppure al procacciamento di altre bambine per soddisfare le richieste del proprio padrone. Incontrai una bambina con un sorriso smagliante, un viso molto bello,
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gli occhi profondi e le labbra che sembravano disegnate, con dei modi gentili che le donavano una energia meravigliosa, aveva tredici anni, non ricordo più il suo nome ma ricordo bene la sua storia, venduta a soli sei anni dalla famiglia di origine ad un uomo che disse che l’avrebbe tenuta come tuttofare a casa propria, invece la rivendette ad un primo bordello e da lì ad altri fino a quando Allison la incontrò in un ospedale della carità dopo che aveva partorito il suo bambino, che morì poco dopo, almeno così le fu detto. Allison mi spiegò che, quel che io stesso avevo notato e di cui ero rimasto colpito nella bambina, era esattamente quello che gli occidentali cercavano, la purezza della bellezza e la gentilezza in queste bambine e più in generale nelle ragazze tailandesi, che facevano di loro delle amanti gradite, delle schiave rassegnate, delle puttane ricercate. Mi spiegò quanto era facile camuffarne l’età trasformando in bambine quelle ragazzine più grandi, oppure in donne quelle bambine più piccole, in base ai gusti del cliente. Chiesi se c’erano dei controlli di Polizia ma si mise a ridere dandomi con il suo splendido sorriso la risposta più esauriente, continuammo il giro delle visite sia in quel villaggio che in altri per tutto il resto della giornata, successivamente tornammo a Bangkok ove avevamo appuntamento con Fabrizio in un bar gestito da un tedesco. Karl era un cinquantenne proveniente da Flensburg, nel nord della Germania, viveva in Thailandia da oltre venti anni, prima era stato in Birmania e prima ancora in Malesia, ove aveva lavorato per una azienda tedesca per poi mollare tutto e raggiungere Bangkok, il paradiso, diceva lui. Guardava Allison con sospetto, aveva capito che non era una turista e nemmeno una donna interessata ai massaggi tailandesi, lo rassicurai dicendo che era la mia ragazza e che le piacevano le donne, molto giovani; Karl rise di gusto e mi strizzò l’occhio esclamando una frase in tedesco alla quale risposi nella stessa lingua, iniziando così una conversazione più
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amichevole grazie alla quale ne conquistai la fiducia. Mangiammo delle ottime aragoste alla piastra servite con tante e diverse salse piccanti, bevendo finalmente una vera birra tedesca, apprezzata anche da Allison che era interessata a capire i livelli di commercio dei bambini in quel quartiere, nel quale i bordelli erano tanti, con le bambine in vetrina o esposte in ampie aule per essere scelte dai clienti. Fabrizio parlava solo bresciano, con qualche parola in inglese, mi colpì quando gli chiesi come faceva a farsi capire, rispondendomi che molti bambini parlavano italiano, confermandomi così l’importanza della presenza degli italiani in quel paese, in quel commercio, talvolta gestito anche da cittadini provenienti dal nostro bel paese, italiani brava gente pensai. Karl ci introdusse all’interno del quartiere, indicandoci in quale locale andare ed in quale non entrare, quale mafia temere e quale invece no, quanto pagare e quanto pretendere, era un esperto di quel mondo in cui era ormai immerso da anni. Allison sapeva manipolare la conversazione portandola sulla richiesta di soggetti più raffinati, meno commerciali, una sorta di mercato nero dei bambini, più riservato. Karl rispose che avremmo dovuto seguire i giapponesi per trovare qualche specialità particolare, Allison rispose semplicemente che voleva comprare delle bambine per crescerle come le sue schiave, per giocarci come le bambole, più o meno quello che aveva fatto Fabrizio e le altre migliaia di uomini come lui. Le chiesi quante donne erano inserite in quel circuito, mi dette una risposta agghiacciante dicendomi il numero delle donne che raggiungevano quel paese per comprare le bambine per immetterle nella tratta delle schiave in favore dei ricchi uomini arabi e del medio oriente. Quella sera capii quanto potevo essere utile alla lotta contro la pedofilia e contro lo sfruttamento sessuale dei bambini, non solo orientali, perché ero cosciente, anche ascoltando i commenti di Fabrizio, di Karl e degli altri occidentali presenti nel locale, di quanti bambini erano ormai stati inseriti nel circuito della prostitu-
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zione minorile; anche in Europa, specialmente a Berlino, città che ben conoscevo ove i bambini non avevano il viso orientale ma gli occhi chiari degli slavi, dei russi. Rividi Allison qualche settimana dopo, rientrando dal confine con la Cambogia, era stanca e si apprestava a tornare negli USA per un evento che riguardava la sua comunità, composta da mormoni. Rimanemmo in contatto per qualche tempo, poi si è sposata, ha avuto dei figli ed ora è una brava analista, lavora nella sua comunità di mormoni, nello Utah. Debbo ringraziarla perché è stata lei a stimolarmi nella scelta di prestare la mia esperienza contro la predazione dei minori, insegnandomi a comprendere la differenza fra il pedofilo e la pedofilia, fra l’abusante ed il predatore di bambini.
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Non ho mai amato molto il freddo, Zagabria in quella prima metà degli anni novanta mi presentò una giornata di vento teso e gelido, contro il quale la mia sciarpa si arrese subito paralizzando la mia schiena ormai resa marmo dalla rigidità fisica; fortunatamente arrivò la donna che mi accompagnò all’International Hotel Zagreb. Era l’assistente di un ex colonnello delle forze armate britanniche che si era riciclato in un dirigente di una società privata che offriva consulenze per la sicurezza alle varie organizzazioni presenti su tutto il territorio della ex Jugoslavia, martoriato dal conflitto che era iniziato tre anni prima, poco dopo la caduta del muro di Berlino. Non sapevo bene che tipo di servizio stava prestando per l’ UNPROFOR, la forza delle Nazioni Unite, ma sapevo che avrei dovuto incontrarlo per programmare la mia attività da condurre all’interno dei territori fra Mostar e Sarajevo, nei quali le feroci battaglie fra le parti in lotta avevano già contribuito a smaltire la generazione dei giovani croati, serbi e bosniaci, fra cristiani, ortodossi e musulmani. Era in corso una delle tante tregue, fragile come le altre, condizionata ora da un colpo di mortaio contro dei civili in fila per il pane o per l’acqua, ora da un massacro di civili compiuto dalle varie bande paramilitari formate da mercenari, da delinquenti, da presunti leader provenienti da mere esperienze di ultras da stadio, ottimi catalizzatori di criminali e di avventurieri, capaci di uccidere ma non di combattere in quella guerra civile, nella quale le vittime maggiori sono state appunto i civili, mietuti dall’inciviltà colpevole della civile Europa, resa cieca dalla propria ignavia e sorda alle grida di chi aveva visto quell’orrore proprio al centro di una comunità, cui la storia
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evidentemente aveva insegnato ben poco dopo il nazismo. Il colonnello sembrava Higgins, quello dei telefilm di Magnum P.I. degli anni ottanta, oppure Cico dei fumetti di Zagor, non mi ispirava grande fiducia, mentre la giovane moglie che gli stava al fianco sembrava essere il suo miglior consigliere, la quale si meravigliò del fatto che un italiano potesse parlare così bene inglese e conoscere addirittura delle altre lingue, giustificò il fatto in modo autonomo considerandomi figlio di emigranti, glielo lasciai credere. Raggiunsi Dubrovnik tre giorni dopo, ove incontrai un ufficiale svizzero dell’UNPROFOR, una sorta di osservatore stanco di osservare quel che nessuno desiderava vedere e sapere, il quale mi dettagliò con mappe ed informazioni rispetto alla via più sicura per raggiungere Sarajevo da solo, in modo anonimo, senza grande copertura, in un territorio infestato da bande di varia etnia, oltre ai reparti in lotta attualmente frenata dalla tregua in corso. Ragusa era il nome originale di quella bellissima città costiera, una zona relativamente calma escluso qualche colpo di mortaio, un paio di missili e le solite sparatorie, ma niente rispetto alla distruzione avvenuta nelle altre città della ex Jugoslavia, ora suddivisa in zone, territori, enclave. I colori del mare erano stupendi durante il tramonto, nonostante il vento freddo mi piaceva restarmene a ridosso lungo un piccolo pezzo di spiaggia che percorrevo con le mie scarpe d’avventura, le avevo nominate così perché mi seguivano da molto tempo ormai nei vari teatri in cui avevo operato; un anonimo paio di stivaletti di pelle, invecchiati e mantenuti morbidi con il grasso del maiale, un vecchio metodo contadino che mia nonna mi aveva insegnato fra la raccolta della mentuccia di campo e il superamento abusivo della fila alla posta. La madre di mia madre era una donna molto forte, durante la guerra il marito era sul fronte francese, lei seppe tirare su tre figli, trovare da mangiare e soprattutto avere anche il tempo per parlare male di qualcuno insieme alle altre donne del vicinato,
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Ex Jugoslavia
mantenendo quella meravigliosa normalità pettegolante paesana nonostante i fascisti, i nazisti e le bombe. Ero in attesa di salire su un autobus che portava verso Mostar alcuni anziani che erano riusciti a raggiungere quelle zone considerate cuscinetto nelle quali le varie organizzazioni umanitarie offrivano il rifugio temporaneo contro gli assalti delle varie milizie, quando una anziana donna con un fazzoletto legato in testa, quello tipico delle contadine, si staccò dalla fila per correre a salutare il marito che invece sarebbe rimasto ancora un po’ a Dubrovnik, era una misura di sicurezza adottata per evitare che intere famiglie fossero distrutte in caso di attacco, quella di scaglionare le partenze dividendo i parenti. Ci fu un grande abbraccio fra i due, magri e con la sofferenza scritta in faccia, i quali si salutarono con una dolcezza che rare volte avrei rivisto in vita mia, la donna carezzò il viso antico dell’uomo con il palmo della mano mentre questi le metteva dei soldi ed un uovo in una sacca, non c’erano lacrime ma era un pianto silente fatto di un millimetrico distacco di mani fino alla loro completa divisione. La donna salì fra le grida dell’autista che aveva paura di restare fermo troppo a lungo per non dare il tempo ad un potenziale cecchino di collimare il bersaglio. I cecchini erano infatti il fiore all’occhiello di quel massacro, pietanze speciali nel menù dell’orrore, capaci di abbattere le persone come mosche, capaci di quella poesia di guerra che li stimolava a colpire le coppie di giovani fidanzati in fuga su un ponte, attendendo che fossero capaci di raggiungersi benché già feriti e darsi la mano prima di essere finiti, proprio per enfatizzare ancora di più il messaggio di morte siglato dal dito e dall’occhio di un cecchino anonimo, vero rebus per gli osservatori che avrebbero dovuto relazionare la bandiera per cui sparava sui civili inermi. Il viaggio iniziò, mi offrii di sedere in prima fila accanto all’autista, come lui ero il più giovane a bordo, l’unico straniero, dissi di essere un giornalista francese che intendeva fare un reportage sulla tregua in corso, sfruttando
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quel poco di serbo-croato che nei mesi precedenti avevo imparato a parlare; una delle prime frasi che sono riuscito a dire durante il corso è stata non mi sparate, mentre ho imparato a leggere in fretta la scritta campo minato in caratteri cirillici. Ogni tanto vedevo l’espressione preoccupata dell’autista quando in lontananza si affacciava un posto di blocco improvvisato, fino a rilassarsi quando riconosceva i componenti di qualche milizia, alcuni dei quali salivano a bordo per controllare gli occupanti, con lo sguardo truce, da finto duro, armati fino ai denti, mi chiedevano chi fossi ed io mostravo le tre o quattro macchine fotografiche che mi ero portato dietro, parlando in francese e dicendo che desideravo incontrare quelli della Legione Straniera che erano stati inviati come truppe dell’ONU a difesa dei civili, quando ci riuscivano e quando qualche cecchino non ammazzava anche loro. Sapevo che l’ONU non era molto amato, specialmente gli olandesi, ma ero certo che proprio per la tregua in corso nessuno avrebbe rischiato di colpire un giornalista francese, poco dopo che era stato ucciso l’ultimo legionario. Mostravo anche una sorta di lasciapassare che nessuno avrebbe mai letto. Solo in un caso ho temuto di fronte ad uno di questi miliziani il quale era completamente ubriaco o drogato, giocherellava con una pistola mentre mi chiedeva alcune cose in serbo-croato, non rispondevo e tenevo la testa bassa in segno di sottomissione, al fine di gratificarlo sperando che si allontanasse al più presto, così fece. Una delle procedure per evitare di finire ammazzati da un miliziano ubriaco o arrogante è proprio quella di dissimulare ogni capacità di reazione o di osservazione, evitando di guardare il soggetto o ciò che lo circonda, immagine da scattare prima mentalmente al momento della percezione del pericolo; evitando di rispondergli per non dargli l’opportunità di interpretare male il contenuto della risposta e di porre altre domande, mettendo in conto qualche spintone, qualche cazzotto oppure un calcio; se fossi stato costretto a rispondere avrei dovuto farlo in modo secco e diretto con un si o con un no, senza stimolare
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discussioni, se non sapevo cosa rispondere bastava che iniziassi a piangere ed implorare di non essere ucciso. Questo è ciò che mi era stato sommariamente insegnato dai miei istruttori americani, israeliani, inglesi, sudafricani e francesi, tutti ex di qualche reparto militare del loro paese d’origine, tutti membri di quella ragnatela di società private che contribuivano a implementare il valore operativo della struttura del colonnello inglese per il quale in quel momento stavo conducendo il mio lavoro, senza sapere assolutamente chi fosse il suo committente principale. Ci fermammo poco dopo aver raggiunto un ponte sulla strada, verso Sarajevo, qualcuno ne approfittò per fare i propri bisogni, l’anziana donna tirò fuori l’uovo dalla borsa e con dolcezza iniziò a sgusciarlo, mangiandolo a piccoli morsi, come se carezzasse ancora il viso del proprio marito, probabilmente già in viaggio su un altro autobus. Hedna era un bosniaco sulla cinquantina, ex musicista, padre di due ragazze gemelle trucidate assieme alla moglie bosniaca dai componenti di qualche milizia serba una sera di due anni prima. Viveva in un villaggio intorno a Sarajevo quando all’imbrunire giunse una Lada rossa con un megafono che invitava la popolazione a consegnare le armi, il cibo, i valori ed i ribelli, dicendo che poco dopo ci sarebbe stato un rastrellamento invitandoli a riunirsi al centro del paese; le due figlie erano poco più che adolescenti, dalle foto che mi mostrò notai che erano molto belle, anch’esse musiciste come il padre, che suonava il violino, aveva suonato anche in Italia in gioventù conservando un bel ricordo di Padova, la moglie era mora, coi capelli ricci, conosciuta da bambino e cresciuta con lui. Quando giunse il reparto si accorse che non erano soldati ma membri di una delle tante squadracce formate da paramilitari, simili a quelli che avevano compiuto il massacro di Vukovar, i quali per prima cosa divisero gli uomini dalle donne, i bambini dalle madri, le donne giovani e le ragazze da tutti gli altri per portarle a bordo di alcuni autobus, oppure in qualche angolo per violentarle senza
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troppa privacy, riuscendo a farlo anche di fronte a tutti, figli compresi. Le due sorelle e la madre dovettero soddisfare oltre quattordici miliziani prima di essere sgozzate e incravattate con la propria lingua, come loro le altre che evidentemente si ribellarono in qualche modo o forse furono solo uccise come esempio per tutti, proprio per evitare le ribellioni fra le donne destinate ad una orribile forma di detenzione e di schiavitù, fino a partorire dei serbi, fino a suicidarsi per non farlo, fino ad uccidere il proprio figlio oppure ad abbandonarlo se in qualche modo fossero riuscite a sopravvivere. I giorni trascorsi con Hedna furono educativi, cercava di essere gentile con tutti, aveva ereditato una golf da un suo parente scomparso da qualche parte, che offriva ai giornalisti presenti a Sarajevo insieme ai suoi servizi di autista e di guida, parlava un ottimo tedesco e sicuramente la sua scelta fu fatta dal colonnello inglese anche prevedendo la sua capacità di reagire in caso di attacco o di sequestro da parte di qualche paramilitare sbandato o meno organizzato, soggetti che Hedna cacciava come prede, pronto ad ucciderli con l’arma che teneva nascosta sotto la scocca della macchina. Tornai a Mostar qualche giorno dopo, salutai Hedna con il quale imparai a mangiare quei pochi frutti del suo orto di guerra, in quella desolante miseria che era Sarajevo, compresi anche il gesto dell’offerta dell’uovo sodo donato alla moglie da parte dell’anziano profugo, infatti al mercato nero un uovo costava trenta marchi tedeschi, l’unica moneta valida al posto della Kuna. La guerra è sempre stata un mezzo di arricchimento per i molti che invece di combatterla l’hanno semplicemente sfruttata. Mentre mi allontanavo sentivo il suono dei colpi di artiglieria che avevano ripreso a dar voce alle grida della guerra, uno di questi qualche settimana dopo donò la scusa alla NATO per intervenire contro quegli obiettivi già conosciuti e mai interdetti prima, quando raggiunse un mercato facendo strage di cittadini inermi intenti a racimolare qualche uovo sodo pagandolo con la vita.
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L’UNPROFOR lasciò posto all’IFOR ed iniziò quella progressiva pacificazione armata che ha permesso di mantenere le varie tregue fino al disarmo definitivo, ha permesso di indicare al tribunale internazionale dell’Aja quei presunti responsabili dei tanti crimini di guerra avvenuti nella ex Jugoslavia, fra i quali mi auguro ci fosse stato anche chi ha trucidato la famiglia di Hedna, sperando che lui non nasconda più un fucile sotto la scocca della sua auto e che abbia ripreso a suonare il violino. Il viaggio di ritorno verso Mostar fu particolarmente teso, eravamo in colonna con tre auto, la prima in osservazione e bonifica, la seconda con a bordo me ed il personaggio d’interesse, la terza a chiusura e copertura del convoglio i cui mezzi non avevano altra protezione se non qualche piccola arma individuale e l’esperienza degli autisti; nulla ci avrebbe salvato da una bomba posta lungo la strada oppure da un tiro di RPG, sapevo benissimo che solo il mantenimento dell’anonimato dei passeggeri di quel convoglio avrebbe potuto garantire l’incolumità di tutti gli occupanti. Prendemmo l’uomo all’Holiday Inn di Sarajevo, da un inglese che alloggiava alla stanza 825, riconoscibile da alcuni dettagli e dalla contromarca prestabilita, così fu ed iniziammo a pianificare il percorso verso Mostar. Questi non sapeva che avevo già fatto il viaggio inverso a bordo di un autobus carico di profughi, che avevo lasciato lungo il percorso una serie di piccole borse impermeabili con alcune razioni di sopravvivenza ad ogni sosta, approfittando del momento di espletare le mie funzioni fisiologiche, sacchetti contenenti anche gli accessori idonei per una eventuale fuga a piedi attraverso la montagna. Non mi fidavo molto di lui come egli non si fidava di me, mi istruì rispetto alla destinazione finale e sul fatto che lungo la strada avremmo potuto incontrare una pattuglia dell’UNPROFOR formata da legionari francesi, che in caso di problemi con questi avrei potuto chiedere di parlare con un loro tenente di origine croata presente in teatro del quale mi dette il nome e la contromarca. I tre autisti erano locali, rela-
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tivamente giovani, tutti e tre erano già stati nella Legione Straniera in passato, l’uomo d’interesse era di Mostar e ricopriva qualche carica all’interno di ciò che restava della municipalità, il quale mi sorrise per non parlare mai più fino alla destinazione finale, che fu proprio il municipio di Mostar. Gli occhi erano attenti ma non ciechi di fronte alla bellezza di quei luoghi, contornati dal suono del fiume, che aveva trasportato anche molti cadaveri, la velocità delle auto non era sostenuta e potevo godere di quello spettacolo naturale che mi appariva ad ogni curva, ad ogni tornante, ad ogni sosta. Con gli occupanti delle altre auto ci parlavamo con i segni che avevamo prestabilito nel breve briefing prima della partenza, fatti con le mani, con i fazzoletti, con le frecce e con i fari, non usavamo ne radio ne radiotelefoni, nulla di elettronico; lo sventolio di un fazzoletto fuori dal finestrino dell’autista della prima auto significava di invertire la marcia il più velocemente possibile e sganciarci dal convoglio, mentre quattro colpi di stop consecutivi significava che era tempo di sosta, per fare il punto della situazione e per verificare il riscontro di alcuni segnali lungo il percorso, in base ai quali potevamo sapere l’indice di rischio dei prossimi chilometri. In quella operazione si sono mosse una serie di cellule formate da uno a tre operatori, i quali non sapevano nulla altro che il proprio perimetro d’azione, la propria missione coscienti che il rigoroso rispetto delle indicazioni ricevute e soprattutto degli orari stabiliti significava la vita o la morte di altri operatori. L’ex colonnello inglese che l’aveva organizzata era un esperto di questo tipo di esfiltrazioni, aveva scelto dei soggetti che difficilmente si sarebbero rivisti ancora, cellule formate da team rodati, come i tre ex legionari, oppure da singoli operatori provenienti da varie nazioni, ognuna assolutamente indipendente ed autonoma che riferiva ad un proprio contatto, diverso dal contatto di un’altra cellula. Sentivo il vento freddo come la tramontana che mi soffiava sul collo, mi sedetti lungo un’ansa del fiume, su una roccia per mangiare un boccone,
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fra i miei compiti non c’era quello di fare sicurezza attiva, ci pensavano gli autisti, dovevo solo raccogliere i segnali e valutarli per scegliere le opzioni sul programma in base alla valutazione del rischio effettuata nel frattempo da altri operatori. Provai una profonda sensazione di benessere quando un raggio di sole raggiunse la mia faccia, chiusi gli occhi e mi lasciai andare, il respiro del fiume scandiva il tempo mentre gli alberi filtravano i rumori e gli odori trasportati dal vento, stavo bene ed ero sereno, ogni tanto potevo sentire qualche colpo di artiglieria pesante in lontananza, non avevo paura se non di qualche gruppo di sbandati che infestavano la zona, pericolosi per quanto impauriti loro stessi d’incontrare delle truppe regolari o peggio ancora i paramilitari. Pensavo a come mi sarei comportato in caso di scontro a fuoco, se sarei stato capace di sparare, di uccidere; avere un’arma rende forti, sicuri, ma decisamente timorosi di doverla usare, in quel caso la pistola che tenevo nella piccola borsa a tracolla avrebbe potuto far poco in caso di attacco militare, sapevo che in tal caso avrei dovuto sganciarmi con l’uomo d’interesse appena avvertiti i primi colpi, certo che gli autisti avrebbero tenuto impegnati gli assaltatori con le loro armi e la loro capacità di tiro, questo era una delle ipotesi per le quali avevo disseminato le razioni di emergenza lungo il tragitto, che rappresentavano anche il segnale per la cellula di valutazione del rischio del mio avvenuto passaggio. Tutto era parte di uno studiato disegno, di cui solo coloro delegati dall’ex colonnello inglese sapevano legare un punto ad un altro, come i giochi dei cruciverba; disegno del quale noi eravamo solo i puntini neri. Giunsi a Mostar relativamente tranquillo, consegnai l’uomo d’interesse ad un francese e mi sganciai, fine dell’operazione; ricevetti il mio compenso, quarantamila dollari americani, contenuti in un pacchetto di banconote da venti, cinquanta e cento dollari fasciato con la carta stagnola, tipo quella che si usa per gli alimenti. Da quel momento avrei dovuto trovare il modo di ri-
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entrare in Italia, perché terminava ogni collaborazione con l’ex colonnello inglese e con la sua ciurma. Raggiunsi la cittadina di Stolac grazie al suggerimento di uno degli ex legionari con cui ci salutammo bevendo un pessima birra, il quale m’indicò un camion che doveva trasportare un gruppo elettrogeno da quelle parti, parlò con l’autista che per un centinaio di marchi tedeschi mi affittò il sedile del passeggero. Era parte di un convoglio di mezzi pesanti e questo mi rassicurò sul fatto che la possibilità di essere venduto dall’autista era minima, non avevo più la pistola con me, che avevo ricevuto e riconsegnato agli uomini del colonnello inglese, solo dopo averla pulita dalle mie impronte, mi tenni la borsetta a tracolla che ancora conservo, ora ci metto le lenze per andare a pesca. Mangiai una sorta di spiedino di carne locale, prima di trovare un passaggio per Dubrovnik, intendevo arrivare prima del tramonto, così feci, trovai una pensioncina appena fuori dal centro storico, umile e malandata, ma accogliente come non mai nonostante l’acqua fredda. Il giorno dopo ne approfittai per visitare le vecchie mura della cittadina, bellissima, con il mare sullo sfondo che sembrava un disegno ed i suoi sapori che mi regalarono una salubre sensazione di pace. Sentivo le voci dei bambini che attendevano in fila indiana di essere censiti da qualche operatore umanitario, gli andai incontro e conobbi Hellen, una grassa canadese con un viso bellissimo, lavorava per una agenzia dell’alto commissariato per i rifugiati dell’ONU. Aveva un profilo dolce, capelli biondi corti appena sopra le spalle, mi vide che osservavo quei bambini sorridendo con gli occhi, prima mi squadrò per bene poi mi sorrise anche lei, mi alzai e la raggiunsi salutandola in serbo-croato, mi rispose in inglese chiedendomi se fossi dell’UNPROFOR, risposi di no e rimase sorpresa. Uno dei bambini si staccò dalla fila quando mi vide, corse incontro ad
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Hellen, si fece la pipì addosso, avrà avuto sette anni, magro come un chiodo, era terrorizzato dalla mia presenza, mi abbassai, piegando le gambe e raggiungendo la sua altezza, gli chiesi come si chiamasse ma non rispose, non mi disse una parola, mi fissava con i suoi occhi grandi, blu di un taglio particolare, lungo come quello dei gatti. Cercai invano di rassicurarlo, continuava a tremare come una foglia mentre gli altri bambini lo osservavano come se stessero guardano un teatrino delle marionette, scambiai uno sguardo d’intesa con Hellen la quale nel frattempo le aveva preso in braccio e gli cantava lentamente una sorta di ninna nanna in francesecanadese, questo era il suo rodato metodo per calmare quel bambino, reso muto dalla vista di qualcosa di terribile a cui aveva assistito. Hellen mi raccontò che non hanno mai saputo chi fosse, quando fu consegnato da qualcuno dalle parti di Pale che lo lasciò nelle mani dell’UNPROFOR era ferito alle braccia, bruciate dal fuoco ed aveva una vistosa lacerazione alla testa da cui gettava sangue, dopo qualche mese lo hanno inserito in quel gruppetto gestito da Hellen, quello dei fortunati che sarebbero stati inviati in Canada, in Germania, in Svezia ed in Italia entro breve tempo, tutti apparentemente orfani, o meglio, non reclamati da nessuno; alcuni dei quali avevano vissuto momenti d’orrore che gli causavano una infinita serie di problemi fisici e psicologici, molti di loro avevano visto morire i propri familiari, uccisi barbaramente da presunti combattenti nascosti dai passamontagna e caratterizzati dal simbolo della tigre. Trascorsi un paio di ore giocando con loro, sentendomi un bambino e coinvolgendo gli altri in un gioco fatto di corse, di otto giri a testa bassa intorno alla borsetta che avevo poggiato a terra e dei tentativi di mantenere l’equilibrio nel tornare velocemente al punto di partenza; mi sentivo piccolo, mentre loro avevano perso la propria infanzia in quella guerra a due passi dall’Europa nella quale altri bambini erano pronti ad accogliere questi nuovi compagni nella propria classe.
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Pensai che avrei potuto riconoscere ovunque quegli occhi, quegli sguardi, anche quando quei bambini sarebbero diventati adulti, più di quanto quella guerra li aveva costretti a crescere, assumendo delle espressioni da grandi, con gli occhi attenti e furbi, oppure pieni di terrore e persi in un progressivo autismo dal quale non tornare mai più.
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MOBY PRINCE
L’hangar alla Darsena Toscana predisposto per l’accoglienza e l’esame dei resti delle vittime, progressivamente recuperate dal Moby Prince ancora rovente, si stava riempiendo di teli sbiancati allineati in terra, il cui numero aumentava ad ogni viaggio delle ambulanze fra la banchina e la darsena stessa. Sotto bordo della nave l’odore era molto forte, avvolto in una cappa di calore che sembrava aver fermato il tempo di fronte a quella bara fumante, già vecchia, in cui si era trasformato quel traghetto che fino a poche ore prima trasportava la vita. Vedere i resti carbonizzati della immagine di un uomo, di una donna, di un bambino, era come guardarsi allo specchio della paura, era capire che la vita finisce davvero, che la morte esiste, che è terribile e dolorosa, che trasforma un corpo, una mente, un sorriso in una maschera di resti bruciati che hanno assunto una posizione innaturale, a babbuino, con le fratture da combustione e quelle smorfie invisibili ma immaginabili sul viso che non c’era più, cancellato dalle fiamme. Guardarmi intorno e vedere padri, madri, fratelli, figli, mogli, amici, girovagare fra lenzuola stese e i corpi deturpati nella ricerca di tracce per riconoscere un segnale della presenza dei propri cari, come se fosse stato un gioco; scoperto, trovato, ora alzati e andiamo via. Ma non era così. Nessuno si è più alzato da quell’hangar. Mi alternavo fra l’hangar “Karin B” e la banchina, sotto bordo del Moby Prince, il traghetto che poche ore prima era finito addosso ad una petroliera, per cause che ancora oggi, diciassette anni dopo, sono sconosciute; banchina lungo la quale decine di ambulanze attendevano il proprio turno per portare una bodybag con dei resti umani
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dentro, di tanto in tanto raggiungevo l’azienda mezzi meccanici ove erano raccolte le famiglie dei passeggeri, delle vittime, che ancora speravano che un loro caro fosse saltato in mare e magari disperso, che un loro padre, una madre, un figlio, una sorella, un amico, un collega, un fidanzato avesse avuto il tempo di gettarsi fuori da quella nave trasformata in un braciere. Ricordo i colloqui avuti con un poliziotto del sud che aveva perduto il fratello, con il quale abbiamo cercato conforto reciproco, perché anche io ero terrorizzato da quel tipo di morte e dal dovermi confrontare con i veri protagonisti di quella fine, le vittime ed i loro cari. Forse, già in quei giorni, è stata dimenticata la verità di quei morti, già metabolizzati, già andati, ormai non più parte della esigenza di apparire, di esserci, di partecipare a quell’evento grande, importante, nel quale l’esposizione generale di tutti i soggetti coinvolti, dal semplice infermiere al politico importante ha pian piano nascosto le vittime che lentamente lasciavano il lenzuolo non più bianco nel pavimento dell’hangar, perché riconosciuti dai parenti attraverso un anello, un bracciale, un brandello di qualcosa che ricordasse una vita bruciata. Sono trascorsi diciassette anni, io ho i capelli che si stanno imbiancando, avevo ventitre anni quando ho partecipato a quell’evento, con il quale sono cresciuto ed al quale sono ancora emotivamente e non solo vincolato tutt’oggi. Scoprire la verità ancora non conosciuta, desecretare quella conosciuta, recuperare quella occultata, restaurare quella manipolata, potrebbe finalmente permettere a tutti di elaborare questa vicenda, affinché il 10 Aprile di ogni anno, la ricorrenza di quella tragedia, sia un giorno di ricordi teneri di persone morte in modo orribile, di abbracci fra i superstiti ormai rassegnati ma sereni e, non più, un evento da rincorrere nella speranza di essere stati più veloci di chi questa verità continua a spingerla sempre più in la.
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ABILMENTE DIVERSI
Ho sempre amato lavorare con l’handicap, utilizzando l’ambiente acqua come una grande sala di socializzazione e di riabilitazione. Mi ero preso un periodo di riflessione, ero impegnato nello sviluppo delle attività sociali in favore dei portatori di handicap fisico motorio, sensoriale ed intellettivo, stavo conducendo un bel progetto assieme ad alcune associazioni ed enti locali, introducendo nelle attività condotte in piscina con i numerosi bambini disabili anche i bambini normodotati, fra i quali qualche ragazzino proveniente dalla ex Jugoslavia, nella speranza che avesse superato il trauma e non si facesse più la pipì addosso, una volta ormai diagnosticata la sua forma autistica ed il suo mutismo. L’handicap è un mondo grande, nel quale ci sono delle patologie terribili, l’ho scoperto interagendo con un bambino sordo e cieco parlandogli solo attraverso il tocco della mano, guidandolo in ogni spostamento fino ad immergerlo in acqua ove sembrava rinascere. Gli appoggiavo la testa sulla mia spalla destra mentre con una mano sotto la schiena lo tenevo a galla, fino a sentire il suo corpo rilassarsi, cedere alla paura e abbandonarsi alla carezza dell’acqua; non riuscivo a vederne il sorriso ma lo sentivo, avvertivo la sua felicità di vivere un momento di gioia, che probabilmente non aveva mai vissuto prima. La sua rigidità era dovuta al fatto di essere cieco ed anche sordo, completamente isolato dal mondo esterno, una condizione che provai a ricreare per comprendere bene come avesse potuto vivere quel bambino, provando per poco tempo a bendarmi gli occhi ed a mettermi dei tappi nelle orecchie, riuscendo a fare pochi passi prima di perdere l’equilibrio; non avevo più la percezione della profondità, irrigidendomi
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Singole Esperienze collettive
sulle gambe e nelle spalle, avvertii la sensazione di vomito, provai molta paura, capii meglio la condizione di quel bambino ed imparai il linguaggio da utilizzare con lui, comunicando proprio attraverso le nocche ed il palmo della mano. Osservavo i genitori dei vari bambini che educavo in piscina, alcuni portavano i segni sul viso della sofferenza provata a causa delle numerose difficoltà incontrate per donare al proprio figlio una vita dignitosa; altri avevano assunto una espressione rabbiosa, causata dalle frustrazioni provate, dagli ostacoli reali e da quelli nati dal pregiudizio e dall’ignoranza. Incontrai un mio grande amico d’infanzia, che negli anni settanta stava sempre fuori dal negozio della mescita di vino del padre con un pallone in mano, chiedendo a chiunque gli passasse vicino di giocare con lui, lo faceva con quel meraviglioso accento livornese, “si gioaaa”; grande perché era grande, sia di età che di fisico, aveva un grave ritardo mentale per il quale aveva trascorso molto tempo nei manicomi prima che li chiudessero, ove aveva subito di tutto, motivo per cui ogni volta che doveva entrare od uscire da una porta si copriva il volto ed abbassava le spalle per paura di essere colpito. Ricordo che lo incontravo sempre nel tragitto che facevo a piedi da casa verso la scuola, con i pochi libri tenuti insieme da una cinghia di cuoio con la maniglia, i miei lunghi capelli biondi sempre spettinati, i miei jeans a macchie scolorite ed il maglione a collo alto di trevira che ho odiato per tutta l’infanzia; lo vedevo sempre con le spalle attaccate alla vetrina del negozio del padre, vestito di nero oppure con un orribile maglione di lana rosso, lo salutavo e lui subito alzava il pallone che teneva sotto il braccio e mi gridava “Fabiooo...si gioaaa?” ridendo e rimbalzando di felicità sulle gambe, con la bava che iniziava ad uscirgli dai lati della bocca grande, gli rispondevo di si ed iniziavamo a tirare calci a quel pallone di cuoio vero, non di plastica leggera, ma di quelli professionali, lui faceva la telecronaca
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Abilmente diversi
cercando di sillabare dei nomi che allora mi erano sconosciuti ma che poi compresi essere stati quelli dei giocatori che sentiva quando lui era ancora un bambino, una ventina di anni prima, negli anni cinquanta, prima del manicomio. Non mi riconobbe quando lo accolsi in piscina, era cresciuto anche lui, aveva ancora quella espressione dolce, ebete, felice e inconsapevole che lo rendeva un gigante buono, escluso per quelle due o tre anziane alle quali mostrò tutta la sua fallica virilità colto evidentemente da un momento di passione inconscia. Un mattino lo vidi arrivare con un pallone sotto il braccio, mi guardò e disse “Fabioo....si gioaaa?” Non mi aveva riconosciuto ma aveva solo imparato il mio nome, ho voluto però per un attimo credere al miracolo, lo ringrazio ancora per quel momento d’infanzia che mi ha regalato.
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Il mostro di Firenze era diventato per noi toscani un’abituale presenza, tanto da renderla oggetto di scherzi, cambiandone il nome, da Cicci il mostro di Scadicci, a Nello il mostro di Orbetello e così via per quasi tutte le provincie toscane, esclusa Pisa, non contemplata dai livornesi per antiche rivalità. Pacciani ed i suoi compagni di merende rappresentano il meglio del peggio della campagna toscana, per niente romantica e storicamente assassina, con i loro soprannomi caratterizzanti il modo in cui erano interpretati e vissuti dalla loro comunità, il “Torsolo”, il “Katanga”, il “Vampa” tutte definizioni per descrivere la loro scarsa intelligenza e l’elevata tendenza alla frequentazione di circoli, osterie varie ove incontrare altri avventori con i quali raccontarsi storie ed avventure, il più delle volte nate dall’abbondante uso ed abuso del buon vino toscano. Da bambino ho avuto l’opportunità di conoscere il “Vampa”, cioè il Pacciani, perché l’artigiano presso il quale lavoravo come garzone durante la mia infanzia usava recarsi a Firenze per comprare i trincetti con i quali intagliare le statuine segnatempo oppure l’alabastro utilizzato per costruire dei portagioie che rivendevamo da quel carretto a pedali durante i mercati oppure all’entrata dell’acquario di Livorno. L’ho visto solo due volte presso il venditore di trincetti che, destino burlone, era a sua volta un parente di un altro personaggio successivamente coinvolto nell’inchiesta infinita del caso del cosiddetto mostro di Firenze. Pacciani Sembrava uno come tanti altri, anonimo e caratteristico allo stesso tempo, tozzo, basso, icona del suo vivere di campagna e di lavori manuali.
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Molti anni più tardi raggiunsi Firenze dopo che al telefono un collega mi chiamò per andarlo a prendere alla uscita dell’autostrada, per raggiungere il “magnifico”, un palazzo che ospitava la Polizia di Stato. Da qualche tempo collaboravo con la sua struttura privata specializzata nei servizi ausiliari di Polizia Giudiziaria, intercettazioni telefoniche ed ambientali, penetrazione di obiettivi, società coordinata da un ex alto ufficiale del Sismi, il servizio segreto militare. Quando giungemmo all’ingresso c’era già un agente che ci aspettava, il quale ci fece accedere e salimmo fino all’ufficio del Gides, il gruppo investigativo delitti seriali, quello che indagava sui casi del mostro di Firenze. Avremmo dovuto controllare il fonico di una intercettazione ambientale ed il tracciato di una localizzazione satellitare che, una volta che fummo delegati dal giudice per le indagini preliminari, fu posta in essere nei confronti di un indagato dalla Procura della Repubblica di Perugia, coadiuvando la polizia giudiziaria la quale stava svolgendo delle indagini relative la morte di un medico perugino, Francesco Narducci, morto nel 1985; da informazioni acquisite il procuratore titolare dell’inchiesta ipotizzava che questi fosse in realtà un esponente di quel livello occulto che commissionava i delitti del mostro di Firenze, ucciso per evitare che egli potesse rivelare qualcosa. Tutta l’indagine, lunga più di trenta anni, aveva visto più volte la presenza di qualche manina occulta riferibile alla forte ingerenza massonica, a qualche servizio segreto deviato, a qualche setta satanica o esoterica che ospitava fra i propri adepti alcuni personaggi legati a quegli ambienti o che ricoprivano delle importanti cariche in seno alle istituzioni, la cui identità doveva essere mantenuta segreta, anche uccidendo ogni potenziale testimone per tutelarne la riservatezza. Erano ormai trascorsi molti anni da quando mi ero affacciato per la prima volta in quel mondo di consulenti privati, provenienti nella maggior parte dei casi da esperienze specifiche in seno alle forze armate, di polizia o dei
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servizi segreti, avevo ormai una valida esperienza per riconoscere i casi e soprattutto la correttezza delle attività rispetto alla delega ricevuta dalla autorità giudiziaria che richiedeva la nostra consulenza per piazzare delle microspie ambientali, per intercettare delle comunicazioni telefoniche, radio, oppure via internet, per copiare fax, posta elettronica, videochiamate ed ogni altra forma di comunicazione tradizionale ed elettronica. Avevo già condotto numerose operazioni, penetrando gli obiettivi d’interesse della polizia giudiziaria delegata dalla Procura procedente in tutta Italia, piazzando i sistemi captativi nelle auto, nei furgoni, nelle barche, nelle abitazioni, ovunque fosse necessario per riuscire ad ascoltare e vedere i soggetti sui quali erano condotte delle indagini giudiziarie a loro carico; coadiuvando il lavoro della polizia o dei carabinieri. Il mio collega stava operando sul software del computer utilizzato per il localizzatore satellitare piazzato nella macchina dell’indagato, un personaggio pubblico, famoso per il proprio lavoro, il quale dopo poche settimane sarà arrestato proprio dagli uomini del Gides, unità speciale che una volta di chiamava Sam, squadra anti mostro, uno di quegli strumenti tipici del nostro paese che risponde alle emergenze il più delle volte attivando dei dispositivi in modo approssimativo e certamente mai rodati prima, come nel caso dei numerosi omicidi compiuti dal mostro di Firenze, considerati appunto una emergenza. Uno degli agenti si avvicinò chiedendoci di aggiustare il contenuto originale di una delle intercettazioni, guardai il mio collega e lui guardò me, entrambi imbarazzati da quella richiesta, apparentemente illegale, fatta da un agente di una sezione speciale di polizia, da un ufficiale di polizia giudiziaria che conduceva una indagine delicatissima e di grande impatto sociale. Ci furono uno scambio di commenti fra il mio collega e l’agente, nel frattempo mi ero preoccupato di attivare il registratore che ho sempre portato con me, proprio per documentare casi del genere e
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ridurre il mio ruolo in ogni eventuale problema che potesse nascere da quel tipo di situazioni. Il nostro strano paese ha visto nel corso della sua storia democratica una serie infinita di depistaggi, di manomissioni di atti d’indagine, di inquinamento delle prove, di ingerenze nelle indagini da parte di soggetti appartenenti ai servizi segreti, alla massoneria, a qualche struttura dello Stato, occulta o segreta, tanto da impedire e ostacolare il raggiungimento della verità sulle numerose stragi e gli omicidi eccellenti che hanno insanguinato gli anni dall’immediato dopoguerra, dagli anni settanta fino a quelli novanta con l’uccisione dei giudici Falcone e Borsellino. Motivo per il quale quando sono stato chiamato da un ex generale dei servizi segreti militari per lavorare a stretto contatto con la polizia giudiziaria, ho subito pensato che sarebbe stato meglio prendere appunti, come mi avevano insegnato a fare mio zio Domenico e mio cugino Massimo, i quali lavoravano all’interno del controspionaggio militare americano ed erano ormai esperti di certe faccende. Così feci ed il mio registratore acquisi dei colloqui che mi preoccupai di consegnare successivamente ad un’altra autorità giudiziaria con tutte le dovute cautele, atteso la probabile presenza di qualche poliziotto infedele, di qualche agente dei servizi cosiddetti deviati, di qualche massone che operava dentro la Procura di Firenze o di Perugia che avrebbe potuto conoscere il contenuto di quanto da me acquisito e tentare di inquinarlo o di farlo sparire. In realtà l’agente non chiese grandi manomissioni, solo di aggiustare alcuni passaggi per togliersi dai guai rispetto la richiesta originale del procuratore ed in grado anche di offrire un maggiore valore probatorio al castello accusatorio nei confronti dell’indagato, il quale era certamente in grado di contrastare le indagini per i legami che aveva con importanti personaggi. Mentre ero in quell’ufficio ricevetti una chiamata su un altro cellulare, quello fornitomi da un uomo legato al servizio segreto militare qualche
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tempo prima, conosciuto nell’ambiente dell’ex generale del Sismi, il quale mi chiese di copiare il contenuto dell’hard disk di uno degli agenti del Gides, che conteneva le intercettazioni compiute nei confronti di un importante personaggio, nel quale si parlava di massoneria, di rituali e di servizi segreti; sembrava che questi fosse a conoscenza di quanto appena avvenuto e della richiesta avanzata dall’agente, immaginai che il mio collega avesse avvertito telefonicamente l’ex generale e questi si fosse mosso attivando i suoi ex colleghi del Sismi, in particolare quest’uomo, che era stato il suo capo reparto quando ancora era in servizio ai servizi. Così feci, trattenendo il respiro fino quando non uscii da quel palazzo; avevo compreso di essere in ballo su una musica diretta da altri e che qualsiasi azione avessi compiuto probabilmente ci avrei lasciato le ossa rotte, scelsi perciò di soddisfare tutti e di continuare a prendere appunti con il mio piccolo sistema di registrazione. Ero arrabbiato, non tanto per essere stato coinvolto in una delle tante cose strane che avevo già visto fare e vissuto nel corso della mia attività in quegli ambienti, quanto per la sensazione d’ingiustizia che provavo di fronte all’ennesimo inquinamento di una indagine. Soprattutto di quella indagine, che avrebbe dovuto scoprire, e forse ci stava riuscendo, i responsabili di quei terribili delitti nei quali hanno perduto la vita in modo atroce dei giovani, degli innamorati, dei figli, dei futuri genitori interrotti dalla mano assassina di uno o più soggetti che la cultura popolare tende a definire mostri come se fossero diversi, come se appartenessero ad un mondo tutto loro, lontano dal nostro, mentre potremmo incontrarli ogni giorno recandoci al lavoro, oppure nelle nostre stesse case, perché chi ha compiuto o commissionato quegli omicidi forse è un padre o un marito, di certo un figlio. Ero rimasto impressionato dalla morte del padre di una delle ragazze uccise dal mostro di Firenze, il quale aveva perso la salute ed ogni bene nella ricer-
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ca della verità fino a ridursi, nel corso dei tanti anni di indagini, in miseria e vivere di un sussidio raccolto da alcuni poliziotti di Firenze, i quali con spirito di solidarietà gli fornivano quel poco necessario per vivere una vita ancora dignitosa; quest’uomo morì con il cuore rotto a pochi passi dalla Questura di Firenze, per strada, inseguito solo dall’erario dello Stato che pretendeva dei soldi, lo stesso Stato che non gli aveva mai reso Giustizia per la morte della figlia. Si chiamava Renzo Rontini. Inoltre non sopportavo l’idea che qualcuno finisse in galera sulla base di una intercettazione manomessa o aggiustata, solo per rinforzare il castello accusatorio; paradossalmente ero convinto che proprio una stupida azione del genere avesse potuto inquinare una ottima indagine fino ad allora condotta, basata su elementi concreti che proprio quella manomissione poteva rendere nulli; questo è l’inquinamento delle prove in un senso o nell’altro, ove non sai se è compiuto per avvalorare una testi investigativa o per depistare e distruggere le prove acquisite fino ad allora, era questo il dubbio che mi aveva spinto a prendere appunti. Provavo una strana sensazione, cosciente di essere una parte marginale di qualcosa di importante, quella più debole, la più vulnerabile; erano trascorsi degli anni da quando scelsi di non aderire al carrozzone dei venduti, di tutti quelli che sembrano forti ma che sono solo schiavi della propria debolezza, compensata da un ruolo di potere, di cui abusano. Ero cosciente che avrei avuto qualche rogna, in un modo o nell’altro, per questo feci una serie di copie di quanto trafugato in quell’ufficio e di tutte le intercettazioni condotte. Ascoltandone alcune capii lo spessore di certi personaggi, pubblici, famosi, potenti, al contrario della leggerezza con cui commentavano la morte di tante giovani vite, con un linguaggio ed un gergo da caserma, capii quanta bassezza c’era in certi piani alti. Stavo valutando come far giungere quelle notizie ed i contenuti di quanto avevo acquisito ad una autorità giudiziaria non inquinata, come lasciare un
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traccia, un marcatore che avrei potuto usare successivamente come riprova della bontà dei documenti consegnati per verificare se fossero stati manomessi. Conoscere la storia aiuta, specialmente quella giudiziaria, quella del terrorismo e degli anni di piombo, gli anni settanta e la metà degli anni ottanta, nei quali coloro che allora erano dei semplici giudici istruttori ora li avrei ritrovati presidente di sezione o capo procuratore all’interno di qualche Procura della Repubblica o di tribunale, soggetti che avrei dovuto scegliere per far giungere gli atti a Perugia, senza passare da Firenze, che consideravo una procura certamente inquinata. Dopo una lunga riflessione scelsi perciò una Procura del nord Italia, che aveva a capo un magistrato che condusse una importante e significativa indagine alla fine degli anni settanta, che vedeva coinvolti dei pezzi deviati dello Stato, scelsi perciò di steganografare gli atti all’interno di una normale denuncia per reati minori, che firmai presso una anonima sezione di polizia giudiziaria all’interno della stessa Procura. Ci misero quasi due anni per essere recuperati e raggiungere Perugia, ma ci arrivarono. Nel frattempo io ho subito un attentato e sono stato accusato di rivelazione di segreti d’ufficio. Il mio tentato omicidio in realtà è stato ricondotto alla tragedia del Moby Prince, in quanto stavo iniziando una collaborazione con un avvocato che tutelava gli interessi di una parte offesa mirata ad acquisire una importante testimonianza dall’ambiente militare americano ed italiano inerente un presunto traffico di armi avvenuto la sera della tragedia. L’avvocato era stato negli anni precedenti un giudice che la mafia fece saltare in aria con un bomba, uccidendo al suo posto una madre con i due figli gemelli. Si salvò miracolosamente ma il ricordo di quelle vittime innocenti, sventrate dall’esplosivo destinato a lui, lo accompagna tuttora.
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MASSIMO
Avevo poco più di dodici anni quando squillò il telefono di casa, risposi e sentii la voce di uno zio di Tarquinia, un fratello di mio padre, il quale rimase sorpreso sentendo la mia voce, esclamando “ma allora chi è morto?” rivolgendosi alla moglie che gli stava accanto. Passai la cornetta grigia a mio padre, sempre restio dal rispondere al telefono, certo che fossero solo problemi di lavoro, ormeggi rotti o draga affondata. Scoppiò a piangere, non avevo mai visto prima di allora mio padre piangere, rimasi interdetto, stavo quasi mettendomi a ridere quando papà si girò e disse a mia madre “è morto Fabio”. Fabio era il figlio della sorella gemella di mio padre, che viveva a Roma, città natale di entrambi, era il minore di due fratelli, che qualche anno dopo fu seguito in quello sperato aldilà anche da suo fratello maggiore, mio cugino Massimo, morto annegato. Fabio lo avevo visto poche volte ma ne ero affascinato, era un bellissimo ragazzo con un fisico muscoloso, praticava anche lui lo sport della lotta libera, amava viaggiare in giro per il mondo durante l’estate, si lanciava con il paracadute, adorava il mare. Il padre, lo zio Domenico, era impiegato presso l’ambasciata americana di Roma, all’interno della Defense Intelligence Agency, il controspionaggio militare americano, non era un agente segreto ma un autista degli attachè militari delle forze armate statunitensi. Agenzia nella quale fu assunto anche Massimo dopo aver svolto il servizio militare nei paracadutisti della Folgore, nella quale anche Fabio avrebbe trovato spazio se la sua vita non fosse stata interrotta da una caduta dalla motocicletta che lo uccise, spezzandogli il collo. Era completamente
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diverso dal fratello, più impulsivo, combattivo, avventuroso, sognatore, anticonformista, era cresciuto negli anni settanta in quella Roma fatta di ragazzini politicizzati, divisi fra rossi e neri, sempre pronti a picchiarsi e troppo spesso anche ad uccidersi. Infatti la prima ipotesi fu che Fabio stava fuggendo da un gruppo di comunisti che lo inseguivano dopo che egli aveva scritto qualcosa sul muro di una sezione rossa, un simbolo fascista, ma che non fu mai avvalorata o approfondita, morta come Fabio, una sera di Maggio, al centro di Roma, come tanti altri ragazzi in fuga. Crescendo gli somigliavo sempre di più, del quale oltre che portare lo stesso nome avevo anche la stessa fisionomia, praticavo lo stesso sport, ero anche io un paracadutista, un sommozzatore, un viaggiatore, un sognatore ed un anticonformista. Sia Massimo che la zia Ida, la sorella gemella di mio padre, quando mi vedevano erano felici ma riconoscevo in loro quell’espressione di nostalgia rivedendo in me molti tratti del fratello e del figlio, al quale somigliavo anche nella postura, probabilmente condizionata dalla lotta libera, che rende muscolosi e con un collo grande. C’è sempre stato un grande affetto fra noi, anche con lo zio Mimmo, scomparso qualche anno dopo la morte di Fabio. Un gentiluomo che aveva vissuto il periodo della seconda guerra mondiale dal quale aveva imparato ad essere parsimonioso, a sfruttare le occasioni, da cosa nasce cosa, diceva sempre. Con Massimo avevo un legame particolare, era un appassionato di motociclette, legato al suo gruppo di amici storici con i quali aveva condiviso gioie e dolori, soprattutto le uscite in moto, le vacanze con i grandi viaggi in moto in Europa, quelli che quando arrivi hai la schiena a pezzi. Ricordo la prima volta che da bambino mi portò a bordo della sua motocicletta, un Morini 900 rosso, mi spiegò come era fatta, come funzionava, come usarla, come curarla, poi mi disse di stringermi forte a lui e di chiudere gli occhi, all’epoca il casco non era obbligatorio, eravamo verso la fine degli anni settanta, Massimo stava facendo il paracadutista nella Folgore, a Pisa,
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Massimo
era un ripiegatore di paracadute umani. Provai una emozione fortissima nel sentire la forza del vento, il rumore ed il calore del motore, la grande velocità, sentivo le vibrazioni e mi tenevo stretto ai grandi muscoli dorsali di mio cugino, che era un culturista, il quale ogni tanto mi dava qualche pacca sulle gambe che tenevo strette alla motocicletta come mi aveva detto. Trascorsi il più bel pomeriggio della mia infanzia. Anni dopo, quando ero già nell’Esercito, con Massimo il rapporto si era rinforzato, da adulti, da soldati, per quanto era un civile all’interno di una struttura militare, ma usava le armi e si recava spesso alla sede del Sismi, a portare la posta, diceva lui. Gli anni trascorsero, noi crescemmo, Massimo si era sposato e divorziato, visse dei momenti brutti dopo qualche incidente in moto, a causa dei quali aveva perduto un pezzo di piede ad acquistato dei pezzi di metallo, dentro la gamba ricostruita dopo che era andata in pezzi nell’ultimo scontro. Eravamo consapevoli del nostro lavoro, specialmente lui, al quale mi rivolgevo per ogni confronto legato ai miei incarichi, soprattutto dopo la morte dello zio Mimmo. Ogni volta che c’incontravamo, a Roma o altrove, il nostro divertimento era mostrarci l’ultima cicatrice, causata da qualche incidente che entrambi avevamo subito, in moto o in altro modo. Nonostante il trascorrere degli anni notavo nei suoi occhi quella dolce espressione di un uomo che ricercava il fratello in me, la cui somiglianza mi ha sempre imbarazzato e reso fiero allo stesso tempo. Ero a Venezia quando squillò il telefonino, era una americano che tentò di dirmi qualcosa che riguardava Massimo, capii solo la parola morte, ma non il resto perché la linea era interrotta, poi ebbi la certezza, Massimo era morto, anche lui. Annegato dopo che era caduto dalla barca su cui viaggiava. Il suo corpo era nero, su quel tavolo di metallo, gonfio, con una espressione impersonale, tanto che non sembrava più lui. Morto, già oggetto sotto le mani del medico che stava conducendo l’autopsia sul suo cadavere. Mi
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sforzavo di essere lucido, di non considerare quell’ammasso di carne, di ossa, di cervello, di interiora, di polmoni, di reni, di fegato come i pezzi di mio cugino. Prima che il medico iniziasse il suo macabro lavoro ero riuscito a esaminare esteriormente il corpo di Massimo, recuperato dal mare con un elicottero, fortunatamente in tempo perché non iniziasse la decomposizione; cercavo i segni di una squamazione, fra le dita dei piedi e delle mani, cercavo dei segnali nel suo corpo, nei suoi occhi, che erano stati pieni di vita, di dolcezza, di colore, ora resi ciechi dalla morte; cercavo qualsiasi traccia che potesse giustificare il perché un esperto sommozzatore era morto affogato nel giro di pochi minuti in uno specchio di mare calmo, caduto da un piccola barca a vela, per morire nel mare che ha sempre amato. Notai una ecchimosi sulla fronte, un chiaro segno di una contusione, ma non sembrava profonda tanto da ipotizzare che avesse ricevuto un colpo tale da stordirlo, cercai il più velocemente possibile di individuare ogni elemento utile per capire i motivi della sua morte, le ragioni per le quali stavo di fronte al corpo di Massimo e lui non c’era più. Mi misi in contatto con un suo ufficiale presso il controspionaggio americano, colpito dalla sua morte, era un suo amico e gli voleva bene, chiesi se ci fossero ragioni per le quali Massimo avesse potuto essere stato ucciso, rispose di no. Cercai informazioni ovunque, presso la capitaneria di porto che condusse le operazioni di soccorso, non si trovavano più tre oggetti importanti per mio cugino, il suo portafogli, il suo orologio e la sua macchina fotografica di cui era un grande appassionato. Mesi dopo il suo tesserino di servizio fu recuperato in Romania, il resto andò perduto fra le tante mani che raccolsero i suoi effetti, forse tutto disperso in mare come la sua vita. Nel corso delle indagini che stavo conducendo scoprii che un altro addetto allo stesso reparto era stato trovato morto in circostanze sospette, in un paese straniero, l’agenzia è presente in ogni ambasciata ed ha antenne ovunque, come la CIA con la quale lavora a braccetto. Alla fine mi convinsi
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Massimo
che la sua morte era stata causata da una serie di coincidenze singolari, dal modo in cui era caduto dalla barca alla sua impossibilità di recuperare un salvagente, fino alla velocità con cui è affogato. Massimo era cosciente di svolgere un lavoro delicato, nel quale avrebbe potuto conoscere notizie d’interesse per molti servizi d’intelligence, si lamentava spesso che i suoi amici del Sismi ogni tanto gli chiedevano qualche favore, che lui negava sempre; era molto legato agli americani, era cosciente che il benessere della sua famiglia ed il suo era dovuto proprio al lavoro che prima il padre poi lui si erano guadagnati con la propria affidabilità, riconosciuta dai più alti vertici della Difesa americana, che vollero omaggiarlo con il picchetto d’onore durante il suo funerale, come quel soldato senza uniforme che era, un uomo che non amava gli eserciti ma che lavorava per l’esercito più forte del mondo.
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SPOSO
Il mio matrimonio è stato un evento strano, diverso da come avevo cercato di immaginarmelo. è stato un bel giorno, sereno, pieno di sorrisi, di gioia, di consapevolezza di iniziare un difficile cammino, non più da solo come ero stato abituato per tutta la mia vita. Sposarmi a trentotto anni è stata una scelta di vita, non un momento nel corso della stessa, è stato come concretizzare la mia giovinezza in un ruolo, quello del marito, nel quale proiettare tutta l’esperienza, il vissuto, l’agito, il visto, il patito, l’amato di una intera vita vissuta da giovane, pronto a viverla da giovane uomo. Mi mancavano mio padre, mio cugino, guardavo mia madre con il suo completo da matrimonio, non si sarebbe mai immaginata che mi sarei sposato, convinta della mia assoluta necessità d’indipendenza, di solitudine, di libertà. Vedevo gli altri parenti felici, certi della mia scelta, speranzosi che non mi sarei ficcato in qualche guaio, consci che la mia vita fino ad allora era stata completamente diversa dalla loro, più tradizionale, regolare, scandita da tempi e situazioni comuni, riconoscibili, non da chiamate improvvise, incarichi all’estero, incidenti e strane faccende legate ai servizi e alla giustizia, sapevano che ero un bravo ragazzo ma non capivano che cosa facessi in realtà; c’era chi era convinto che fossi nel Sismi o nella CIA, conoscendo il lavoro di Massimo e dello zio Domenico, chi invece sperava che prima o poi avrei messo la testa a posto e quel giorno lo sperò ancora di più. Mio suocero mi raggiunse con un sorriso e con gli occhi colmi di felicità quando mi porse la mano di mia moglie, prima di sedersi accanto alla sua, che aveva lo sguardo fisso sulla figlia che era bellissima nel suo semplice vestito da sposa, raggiante, serena.
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In realtà l’unico che era un po’ teso ero io, troppo rigido, anche per colpa di quella dannata cravatta che mi stava strozzando e per i calzini troppo stretti che mi fermavano la circolazione delle gambe, tanto che dovetti inventarmi un balletto per riuscire a calarli fino alle caviglie, suscitando lo sguardo di rimprovero di mia madre, uguale alla sua mamma, meraviglioso esempio di purezza, di semplicità, di spontaneità tarquiniese, che tale è rimasta nonostante i quaranta anni trascorsi da quando è emigrata con papà a Livorno. L’amore è una emozione strana, che nasce spontaneamente ma che necessita di essere coltivata, curata. Ho sempre creduto che l’unione fra due persone fosse il risultato di un incontro a metà strada di due vite autonome, le quali ne iniziano una comune pur mantenendo la propria indipendenza una dall’altro. L’amore è perciò libertà, completa ed incondizionata libertà, amore per la libertà del proprio marito e della propria moglie. Una coppia è l’essenza della libera scelta di esserlo, formata da due singoli autonomi ed indipendenti che rendono forte l’unione della propria libertà, non resa debole dalla incapacità di agire, delegando passivamente la propria vita nelle mani dell’altro. L’amore è l’energia che stimola l’azione e mai una reazione, è quella spinta capace di saldarti alla realtà pur mantenendo la tua voglia di sognare, è un sentimento che ti accompagna ogni istante della giornata che dedichi alla tua vita dedicata alla famiglia, la quale si dedica al rispetto della tua libera scelta di dedicarti a loro, mantenendo la tua serenità di farlo con gioia e non con rassegnazione, trasferendo amore e non rancore. L’amore è la rappresentazione della propria esistenza individuale, come persona, come essere umano parte di un mondo immenso e disperso in quello stesso mondo, nel quale restare uno fra i miliardi, libero di amare per come desiderato, indipendentemente dal sesso, dalla cultura, dal pregiudizio, l’amore non ha una etichetta ma è un dono che si fa e si riceve,
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Sposo
sempre, felici di essere il destinatario di un sentimento. L’amore è un sentimento da maneggiare con cura perché se troppo debole rischia di rinforzare solo l’egoismo e la pretesa di un dono che non può essere dato ma solo offerto; la famiglia è parte della vita, nella quale non trovare la propria vita, ma viverla con loro, ognuno per come sceglierà di fare, perché se amato e libero di amare saprà fare la scelta migliore, da non giudicare ma da accettare e rinforzare, sia che ci gratifichi oppure che ci renda tristi, perché l’amore nasconde sempre l’abbandono, la separazione, verso la quale imparare ad essere tolleranti, proprio con la forza dell’amore e non con la debolezza del voler essere amati.
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PREDATORI E PREDE
Ascoltavo il racconto di quella bambina di undici anni resa donna dalla violenza subita, che pativa sin da quando ne aveva sette. Avevo già conosciuto altre volte il risultato della pedofilia, avevo prestato la mia attività come consulente tecnico di parte in favore di altri avvocati che tutelavano dei minori vittime di abusi sessuali, ma quel racconto era riuscito a scuotere il mio solito equilibrio, il mio distacco forzato per mantenere la capacità di analisi dei fatti, senza grandi coinvolgimenti emotivi, senza particolari condizionamenti di sorta. I suoi occhi avevano assunto una tale espressione per cui era impossibile dare loro una età, intensi, profondi, tristi e allegri allo stesso tempo, capaci di guardare e non solo di vedere. Erano circondati da un viso piccolo, bianco, dolce e fragile, con la pelle delicata, profumata d’infanzia, colorata di purezza che era stata sporcata dalle mani adulte di un pedofilo, che eravamo riusciti a far arrestare e che avremmo dovuto incontrare e affrontare nel lungo iter giudiziario che ci attendeva, per il quale avrei dovuto sostenere la vittima con tutta la mia capacità di educatore e la mia esperienza di uomo. Guardavo e riguardavo quei filmati amatoriali che il pedofilo aveva girato durante le sue battute di caccia per predare quelle bambine fatte di pochi anni e di tanta voglia di giocare, sei, sette, otto anni, non di più. Aveva una passione per le bambine bionde, quelle con gli occhi chiari, coi vestitini quasi sempre dai colori tenui, che osservava per giorni e giorni, studiandone il comportamento, le abitudini, le movenze, osservando e pedinando la famiglia per sapere quando e come colpire la sua vittima e predarla, portarla con se, nel suo rifugio, per coltivarla per mesi e mesi.
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Singole Esperienze collettive
Osservavo le immagini, che descrivevano esattamente il racconto che mi aveva fatto la bambina, vedere quel corpicino ancora prepubere, nudo, coperto dal corpo più grande e più forte del suo abusante, che la penetrava, la spingeva e la batteva come fosse stato un animale da domare, fra le grida della bambina, i suoi pianti, le sue dita che cercavano di coprire invano quel poco di intimità che aveva imparato a riconoscere nella sua tenera età. I filmati erano stati collezionati in modo maniacale da quel pedofilo, progressivi nei periodi evolutivi delle sue vittime, descrivevano le caratteristiche delle bambine, informazioni che questi scambiava con gli altri membri della sua organizzazione, formata da numerosi predatori di bambini, non solo italiani, ma anche europei, giapponesi, americani, tutti capaci di rapire dei minori per trasformarli in oggetti di culto, di quella cultura pedofilica alla quale si ispiravano e che avevano assunto come stile di vita. Ero spaventato dalla normalità della vita di quelle persone, commercianti, impiegati, operai, maestri, medici, poliziotti, professionisti con un alibi sociale forte e tale da catalizzare la fiducia delle proprie vittime, ruoli chiave per cacciare, per rapire, per violentare, per coltivare le proprie prede. La volta in cui ho potuto guardare in faccia il pedofilo non ho visto una luce particolare nei suoi occhi oppure uno sguardo cattivo, ho visto un semplice uomo, comune uomo, normale uomo come tanti altri, goffo, impaurito, preoccupato, piccolo piccolo che per sentirsi grande ha abusato della piccola vita di una piccola bambina. Ora mi stava davanti, avrei potuto colpirlo, sfogare su di lui tutta la rabbia repressa accumulata durante la visione di quei filmati che egli aveva girato, nei quali ho visto la bambina mentre la forzava a cambiare la propria paura in uno strumento di alleanza al male che subiva per non sentirlo più, per ridurre quel terrore che provava sotto le mani di quell’uomo, piccolo. I giorni, le settimane, i mesi trascorsi a stretto contatto con questa bambina sono stati importanti per tutti e due, ero il suo educatore e lei mi educava
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Predatori e prede
ad esserlo, perché non sapevo, non ero preparato, non avevo strumenti se non le mie risorse interne per interagire con quella undicenne che aveva vissuto quattro anni da donna, costretta ad assumere un ruolo incompatibile con la sua età cronologica, forzata a bruciare le tappe evolutive, non solo fisicamente ma soprattutto psicologicamente, adeguata alla gestione delle proprie emozioni, adattata alle emozioni del suo persecutore, vinta, preda. Periodicamente l’accompagnavo dalla neuropsichiatra infantile che la seguiva, anch’essa disarmata di fronte a tanta violenza emotiva, la peggiore, perché quella fisica si supera, quella psicologica si elabora, ma quella emotiva rimane distrutta come un bombardamento di guerra, completamente da ricostruire, senza più alcun riferimento evolutivo, rimbalzante fra l’immagine esterna di quella bambina ed il negativo interno che sviluppava altre immagini, di terrore, di dolore, di paura, di completo abbandono di una bambina mai cresciuta come tale, impedita nel farlo da un adulto armato d’infanzia, il quale non ha solo deflorato la purezza di una minore, ma ha minorato la sua possibilità di continuare ad essere una bambina pura, nella sua semplicità, nella sua sorpresa della scoperta della vita; che da quel momento le sarebbe apparsa come una grande finestra, dalla quale vedere scorrere la vita altrui nell’attesa di riconoscere la propria, isolata da una trasparenza nella quale osservare il buio dei suoi pensieri, resi piccoli, minorati nella loro corretta struttura e viziati dai ricordi intrusivi, dalla memoria degli abusi, dal dolore che fino a quel momento aveva cacciato via e che ora presentava il suo conto a quel cervello troppo piccolo per contenerlo, già scisso dalla realtà e preda di quei meccanismi difensivi attivati inconsciamente proprio per non soffrire. Ogni sua azione, ogni movimento era sessualizzato, ogni espressione verbale nascondeva l’ammiccare sessualizzante che aveva imparato ad esprimere per soddisfare il suo aguzzino, con il quale era cresciuta. Mi trovavo di fronte ad una bambina di soli undici anni capace di offrire una tale
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Singole Esperienze collettive
energia sessuale da destabilizzare gli equilibri degli adulti, la sua fortuna, fino a quel momento, consisteva nel fatto che non era ancora sviluppata, per quanto la sua prima mestruazione avvenne poche settimane dopo. Fortuna perché se fosse sviluppata mentre era ancora nelle mani di quel pedofilo probabilmente questi l’avrebbe ceduta o soppressa, ormai troppo grande per le sue voglie. Fortuna perché ora aveva davanti a se una nuova fase evolutiva con la quale identificarsi, abbandonando pian piano quella bambina predata, violentata per rinforzare una giovane adolescente ancora capace di piangere di fronte alla sua vagina violata, che ora gettava sangue per natura e non più per le violenza subite.
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IL CAPORALATO DELL’AMICIZIA
L’amicizia è qualcosa che non ho mai conosciuto, ho avuto tanti compagni d’avventura ma mai un amico, una persona che in modo puro e disinteressato abbia scelto di scambiarsi con me, uomo o donna che fosse. Un mio anziano istruttore mi disse che quelli come noi hanno perduto i requisiti per vivere una vita regolare, tradizionale, fatta di semplici cose, di amici con cui mangiare insieme, scherzare, piangere, giocare, trascorrere il tempo della vita anche in modo leggero, superficiale, intervallato da quei momenti in cui la vita ti chiede di più, nei quali gli amici ci sono e ti stanno accanto. Quelli come noi sono coloro che hanno perduto il proprio tempo evolutivo, quelli che sono stati costretti ad essere adulti quando la propria immaturità era un diritto, quelli che sono stati costretti a fingere di essere immaturi quando la propria esperienza era un ostacolo per gli altri. Costretti a fingere di essere mediocri e dissimulare la propria intelligenza, la propria conoscenza per non stimolare le reazioni di paura, di sorpresa da parte di chi aveva vissuto una vita tradizionale, caratterizzata da un substrato di regolarità, di reciprocità di esperienze, di fatti e situazioni riconoscibili e non particolari o addirittura quasi incredibili. Questo è uno dei motivi per il quale sono stato in silenzio per tanti anni, dissimulando la conoscenza di una lingua straniera giustificandola con un padre emigrante, giustificando le molte lingue conosciute con un padre molto emigrante, giustificando le conoscenze in più settori professionali con la scuse varie, perché dire la verità, raccontare la propria storia sarebbe stato come imporre una conoscenza che richiede desiderio di conoscerla e non certo quel passivo
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Singole Esperienze collettive
interesse che si può avere durante una cena o una birra dentro un pub. Ho catalizzato molti adepti, ex militari, ex carabinieri, ex qualcosa colmi della propria frustrazione per essere appunto degli ex. Pieni della speranza che allacciando l’amicizia con me avrebbero potuto trovare il mezzo per rientrare in quel circuito professionale dal quale erano ormai degli ex, in un reciproco utilizzo strumentale della parola amicizia. Io usavo loro come manovalanza, loro usavano me come caporalato, in un ambiente fatto di padroni e schiavi, raramente di persone autonome e libere di vivere una amicizia disinteressata.
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IN LIBANO
Entrai nell’ufficio del pubblico ministero che indagava anche la tragedia del traghetto Moby Prince avvenuta molti anni prima, il quale era uno dei componenti del pool costituito proprio per individuare le cause di quella strage, in cui sono morte almeno 140 persone in un rogo di vite annebbiato dall’ignavia e dalla incapacità investigativa, che ha trovato un risveglio solo dopo tanti anni e dopo che un ex giudice scampato alle bombe della mafia trovasse dei documenti utili per riaprire le indagini che loro non hanno mai cercato prima. Mi apprestavo per partire per il Libano, solo da qualche mese si erano conclusi i bombardamenti israeliani contro il sud di quel paese bellissimo, causando la morte dei soliti civili innocenti, dei soliti bambini recuperati sotto le macerie un pezzo alla volta, come accade in tutte le guerre, nessuna esclusa, siano esse umanitarie oppure autoritarie; sono conflitti e come tali la gente muore, sempre, soprattutto chi la guerra non la combatte in armi ma con l’arma della propria paura che spesso genera viltà; la paura è una sensazione indispensabile per ognuno di noi, misura il giusto equilibrio fra le azioni e le reazioni, quando questa misura si perde si attivano tutti quei meccanismi legati al terrore che danno vita ai tradimenti, all’omertà, all’ignavia che sono ben visibili in ogni tipo di conflitto. La mia guerra stava invece per iniziare, appena concluso l’incontro con quel PM, il quale mi chiese qualche notizia rispetto al monitoraggio elettronico del porto di Livorno condotto nel periodo della tragedia del traghetto Moby Prince, volle conoscere bene il mio rapporto, spesso conflittuale, con alcuni poliziotti locali, la mia collaborazione con qualche struttura d’intel-
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ligence non meglio specificata; soprattutto volle capire se stava di fronte ad un mezzo scemo oppure a qualcuno che avrebbe anche potuto fornirgli qualche notizia utile per le indagini. In quel momento, per quanto quel magistrato non m’ispirava alcuna fiducia, tanto meno il suo collaboratore di polizia giudiziaria, ho scelto di uscire in chiaro e di liberarmi da quella corazza di ambiguità che mi portavo dietro da oltre venti anni. Per questo ho invitato lo stesso pubblico ministero a pedinarmi, a monitorare il mio incontro con un agente segreto militare americano che sarebbe avvenuto pochi giorni dopo, a Firenze, proprio per pianificare le attività da condurre il Libano. Non sono mai stato un agente segreto e mai ho voluto esserlo, ma ho compiuto delle azioni d’intelligence privata che in alcune occasioni hanno avuto delle convergenze con gli interessi militari di vari paesi. In oltre venti anni tutto ciò che ho desiderato fare è stato dimostrare la mia innocenza per i fatti per i quali la mia carriera militare è stata distrutta e per i quali sono stato arrestato, scoprire i reali motivi che si nascondevano dietro quegli eventi, nei quali il mio arresto è stato solo un piccolo episodio di un programma di più ampio respiro. Senza capire che proprio quel desiderio di dimostrare è stata la mia condanna peggiore, che mi ha proiettato in un mondo di ombre, nelle quali il desiderio di far risplendere la mia innocenza è stata solo una grande utopia. Innocenza resa oscura proprio dall’interazione con quelle ombre, dalla quale ho potuto solo salvare dei pezzi di purezza e recuperare quelli ormai inquinati dalle azioni classiche delle operazioni in ombra compiute da un’intelligence tradizionale e da una meno ortodossa, forse la più operativa perché svincolata da catene di comando e di controllo e legata solo alla propria calamita di riferimento, un ex ufficiale di qualche servizio segreto che aveva capito che una intelligence privata è in grado di compensare quelle numerose lacune di un servizio di sicurezza istituzionale e produrre dei risultati concreti anche se non proprio regolari, ma d’altronde non è un ambiente di educande, nel
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quale l’obiettivo non è mai la soluzione di un problema ma solo il raggiungimento di una danno minore. Sbarcai a Beirut nel bel mezzo della notte, assalito dai soliti tassisti abusivi, la metà dei quali informatori di qualche servizio, che ignorai in attesa di trovare l’auto preventivamente parcheggiata da qualche parte; dopo alcuni minuti mi venne incontro un libanese, basso, tozzo, sudato, indossava una maglia grigia, un paio di pantaloni blu, delle scarpe nere, che mi salutò in tedesco, pronunciando quelle parole di contromarca che mi assicurarono che era la persona che avrei dovuto incontrare per recuperare la macchina, una vecchia Mercedes. La donna che era con lui avrà avuto una cinquantina di anni, era ancora bella come lo sono molte donne libanesi, segnata dall’esperienza e da una presunta propensione alla libera espressione dei ferormoni, avallata da quell’uomo che diceva di essere il marito, probabilmente divenuto tale dopo tanti anni di duro magnacciato militante in Germania. La strada verso il sud costeggiava il mare, bello, intenso, celeste, meno blu del nostro, in lontananza potevo scorgere le sagome delle navi militari della coalizione internazionale che aveva inviato dei contingenti di pace, fra i quali quello italiano, per stabilizzare il territorio dopo il ritiro degli israeliani, che avevano lasciato sul posto il Mossad e qualche nave spia in alto mare. Mi stavo dirigendo verso Al-Mansouri quando incontrai il primo posto di blocco dell’esercito libanese, che superai con l’accordo che appena giunto a Sidone avrei dovuto presentarmi al centro intelligence per essere registrato ed ottenere i documenti ed il lasciapassare, consistente in un codice numerico che sarebbe stato trasmesso alle varie postazioni di controllo dislocate per tutto il sud fino alla linea blu verso il confine con Israele. Mi fermai in un paesino sulla costa dove avrei dovuto incontrare un palestinese, il quale viveva del proprio taxi abusivo, gli bastava premere il clacson per trovare i molti clienti che chiedevano un passaggio collettivo per poche lire libanesi. La sua vecchia Mercedes non era solo vecchia ma
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antica, sporca e puzzolente di sigarette artigianali, che mischiate al puzzo di un presunto gasolio costituivano una insalubre miscela di odori difficile da togliermi di dosso. Mi raccontava la sua storia, lui parlava in un francese masticato ed io ascoltavo in un arabo conosciuto ma sempre in apprendimento, comunque capivo che mi stava dicendo le sue vicissitudini di rifugiato in uno dei tanti campi profughi palestinesi, nei quali era difficile la vita ed anche la morte, che raramente giungeva per cause naturali ma sempre accompagnata da qualche raid israeliano oppure favorita dalla scelta di sostenere la famiglia con il rimborso del kamikaze-martire, consistente in una grossa somma di denaro e con l’apprezzamento sociale, che in certi luoghi vale molto di più del denaro stesso. Ci stavamo avvicinando a Tiro, ci fermammo vicino alla moschea sui viali del lungomare, c’era un furgoncino con a bordo la macchina del caffè ed il suo proprietario. Dopo i salamelecchi di rito, il caffè buonissimo e forte, ci recammo dentro la moschea, loro pregarono, io ne approfittai per conoscere un altro palestinese da cui presi un’arma. L’arma che recuperai non era un granché ma comunque utile in caso di necessità, Tiro era un covo di spie, libanesi, italiane, francesi, americane, tedesche, belghe, siriane, palestinesi, Hezbollah, iraniane, giordane, ognuna di loro aveva il proprio informatore, che spesso erano parte di una “cooperativa” di informatori locali che si mettevano d’accordo per vendere le proprie notizie, spesso fasulle, ma gestite in modo equilibrato e convergente tanto da sembrare vere, tipo i pentiti italiani che avevano imparato a soddisfare la convergenza del molteplice per trasformare in prove una serie di chiacchere riportate di terza mano, seppure onorate di mafiosità. Stavo mangiando al Rest House, il grande albergo che ospitava tutti gli alti papaveri delle coalizioni militari, dell’ONU e dei vari governi, nel quale la percentuale di belle donne superava ogni statistica delle probabilità, d’altronde non c’è miglior strumento per acquisire notizie dai militari che una
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bella ragazza, magari assunta come cameriera, interprete, massaggiatrice, donna delle pulizie o direttamente come collaboratrice di uno dei reparti militari schierati sul territorio, sempre sotto minaccia di qualche attentato alla libanese, con le auto imbottite di esplosivo, che di tanto in tanto facevano saltare in aria qualche esponente di qualche fazione o partito in lizza per le imminenti elezioni. La mia bella donna libanese si materializzò sotto forma di una operatrice umanitaria di qualche agenzia dell’ONU, poliglotta e decisamente bellissima, da cui trassi delle ottime notizie relative alla reale situazione al sud, non tanto quella descritta dai vari telegiornali o rapportata dai militari. La sera cenammo insieme ad altri suoi colleghi in un ristorante al vecchio porto di Tiro, pesce buonissimo ed ottimo servizio, incluso il contatto con un gruppetto di libanesi provenienti da Yarun, ricchi e spavaldi, circondati dai loro guardaspalle e dalle loro donne. Proprio quel paese era uno dei miei obiettivi e quell’incontro fu occasionale ma utile per apprendere qualche notizia, senza fare domande, captando quelle risposte non date. Non mi presentai mai al centro intelligence di Sidone, per cui ero un perfetto clandestino armato in una zona del Libano considerata ad alto rischio, fortunatamente c’era una base italiana, la 1\26, nella quale avevo un amico ufficiale della Folgore che mi consentì di superare qualche ostacolo burocratico, anche se poi finimmo nei guai con la Procura Militare insieme al suo comandante, un giovane colonnello già esperto d’Iraq, il quale si mise in contatto con un certo Flavio, il capo centro Sismi, il quale correttamente con il suo incarico di agente segreto inviò i carabinieri paracadutisti del Tuscania che mi arrestarono perché ero dentro la base con un nome diverso dal mio. Mi portarono a Tibnin dove fui interrogato a lungo per poi essere rilasciato nel bel mezzo della notte sotto il mio alloggio presso Al-Mansouri, ove tanti occhi attenti degli Hezbollah iniziarono a chie-
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dersi chi fossi. Il carabiniere paracadutista che mi teneva sotto controllo era un ragazzo che avevo già visto qualche anno prima in Albania, in una situazione simile, durante gli scontri dell’estate del ‘97, il classico militare muscoloso e cagnesco, un armadio; scelsi come sempre di fare lo scemo, iniziando un atteggiamento di curiosità simulando di spiare dai fogli o dalle carte che erano sparse nel piccolo ufficio ricavato da un container, proprio per gratificare il carabiniere tanto che mi feci “cogliere sul fatto”, il quale mi guardò con lo sguardo esperto di quello che dice “ti ho beccato” e felicissimo della sua missione girò i fogli per non farmeli leggere, relazionando il suo superiore che “ero solo un coglione”. Conclusi la mia missione libanese con la consapevolezza che sin dal suo inizio il magistrato livornese si era attivato per monitorare sia me che l’agente segreto americano incontrato a Firenze, cosciente che quell’invito che gli feci non era solo una manifestazione di importanza ma soprattutto un suggerimento per dove andare a guardare per ottenere le risposte a quei quesiti che mi somministrò durante l’ interrogatorio. Dove recuperare quelle tracce elettroniche che la sera della tragedia del Moby Prince avevano presumibilmente visto tutto, ma come sempre rese cieche per interessi superiori. Incontrai nell’inverno del 2007 un ex giudice che era l’avvocato dei familiari di alcune vittime della tragedia, un uomo deciso, schietto, capace, esperto, segnato dall’esperienza del suo attentato, nel quale al suo posto morirono tre persone innocenti, una madre con i suoi figli gemelli. Dopo qualche incontro e qualche riscontro ci accordammo per incontrarci a Pisa per poi riuscire a raccogliere la testimonianza di una persona che nel 1991 ricopriva un incarico nell’ambiente militare, italiano ed americano, forse in grado di fornire quei documenti decisivi per capire le reali cause che avevano portato un traghetto passeggeri contro una petroliera alla fonda nella rada del porto di Livorno, relativi un presunto traffico di armi. Facevo in pratica il quadruplo gioco, perché tutti sapevano quel che stava
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accadendo, lo sapeva la Procura di Livorno, lo sapevano i servizi segreti militari americani, lo sapevano i nostri servizi segreti e lo sapevano anche quei quattro scagnozzi che mi hanno assalito, stordito e dato fuoco. Ero consapevole dei rischi, che tentai di comunicare allo stesso avvocato durante l’incontro di qualche ora prima, dei quali egli stesso era ben consapevole, ma d’altronde il gioco valeva la candela ed accettai di correrli come li correva quell’ex giudice, scrittore, ora avvocato che non avrebbe dovuto avere nessun interesse a rischiare la vita, se non la sete di giustizia e di verità ed anche la possibilità di chiudere i conti con una sua storica indagine che probabilmente spinse qualche manina mafiosa a premere un telecomando di Stato per farlo saltare in aria come accadde successivamente con Falcone e Borsellino. D’altronde non avevo altre scelte, sapevo che proprio la mia scelta di uscire in chiaro aveva innescato un meccanismo che ormai aveva preso vita autonoma; in certe faccende il battito delle ali di un piccolissima farfalla può scatenare un tornado dall’altra parte del mondo. I depistatori sono coloro che offrono false notizie per dirottare le indagini ma negli affari di Stato le indagini nascono quasi sempre già depistate; il Moby Prince è stato un affare di Stato nel quale i personaggi particolari come il sottoscritto hanno potuto invece impistare gli inquirenti verso quegli indirizzi investigativi sin dall’inizio omessi dal quadro d’insieme delle indagini, coscienti della propria vulnerabilità e della scarsa spendibilità processuale. Fabio Piselli non è certamente un soggetto presentabile all’interno di un dibattimento che ha come oggetto una strage come quella del Moby Prince, ne sono e ne sono stato pienamente cosciente. Motivo per il quale non ho mai avuto interesse a dimostrare la mia tesi ma ho scelto di indirizzare gli inquirenti verso l’acquisizione di quegli elementi che avrebbero soddisfatto le esigenze di giustizia, riducendo così il mio protagonismo ed anche il mio coinvolgimento probatorio. Ho detto e dato loro i nomi e gli indirizzi precisi e segreti di soggetti appartenenti ai servizi d’intelligence, italiani ed
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americani, che in funzione del proprio ufficio avrebbero potuto fornire quelle notizie utili per acquisire la documentazione esistente relativa ai tracciati radar, telefonici, radio e di altra origine riguardanti le operazioni militari in corso nella rada di Livorno la sera del 10 Aprile 1991. Ho fornito le indicazioni in mio possesso, senza fornire grandi spiegazioni di come le avessi ottenute, spesso dicendo anche qualche fregnaccia per tacitare i loro interessi più marginali, mantenendo focalizzata l’attenzione verso il luogo ove poter rintracciare quei documenti capaci di risolvere uno dei misteri d’Italia. Di farlo con gli strumenti chiari della giustizia italiana e non oscuri della intelligence privata, deviata o meno ortodossa. Strumenti che all’interno di un dibattimento processuale non sarebbero mai stati attaccati o resi nulli da informative fasulle di polizia o dei servizi, oppure da un molteplice e convergente pregiudizio nei miei confronti. Ho introdotto delle verità all’interno di alcune menzogne, il che è una tecnica base delle informazioni d’intelligence, cosciente di commettere il reato di fornire anche delle potenziali false informazioni ad un pubblico ministero sotto interrogatorio come testimone; proprio la natura di talune informazioni ha richiesto questo metodo affinché i magistrati che mi hanno escusso fossero capaci di resistere agli stimoli depistanti di altri soggetti, altresì interrogati, che hanno introdotto delle menzogne all’interno di alcune verità. E’ il gioco delle spie del quale gli arbitri non conoscono le regole, nel quale i giocatori vincono se riescono a manipolare gli arbitri, i quali sono e restano paradossalmente i registi del gioco stesso.
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FINE
Non c’è nulla di eroico nella sopravvivenza. Al contrario proprio il sopravvivere evidenzia la difficoltà di aver vissuto una vita spinta fino alla esigenza di sopravvivere. Ci sono state alcune occasioni nelle quali ho rischiato di essere ucciso, in Africa, in Bosnia, in Albania, altrove, di fronte ad un uomo che mi ha puntato la sua arma, durante il coinvolgimento in un conflitto a fuoco, sotto il tiro dell’artiglieria, oppure semplicemente dimenticato in qualche deserto africano. Non ho mai acquisito forza dalla debolezza di sopravvivere ma ho perduto l’energia della vita vissuta in modo sereno, una vita regolare, quella fatta di lavoro stabile e di famiglia, di amici e di sport, di piccole cose e di eventi importanti. Vivere ad alto rischio riempie di adrenalina ma svuota di sentimento, per poi scoprirmi un uomo capace di emozioni e incapace di eroismo, perché non mi considero un eroe per il solo fatto di aver scelto di dire la mia verità, dopo troppi anni di silenzio, oppure per essere sopravvissuto ad un feroce attentato. Mi considero un uomo di quaranta anni che ha deciso di augurarsi di arrivare a compierne ottanta, cosciente che non avrebbe raggiunto i quarantacinque se avesse continuato a vivere in quel modo, in quell’altalenante gioco delle identità che alla fine ne camuffavano una sola, quella di un ragazzo pieno di voglia di normalità, di cose semplici e facilmente riconoscibili che la vita può offrire a chiunque, capace o incapace di azioni eroiche. Ogni giorno temo che quattro scagnozzi possano finire il lavoro iniziato dentro la mia auto, che questi hanno dato alle fiamme, dalla quale sono uscito per il solo istinto di sopravvivenza, per la fortuna di aver avuto delle braccia forti, per la disperazione causata dal fumo nero che
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mi stava soffocando e dal calore delle fiamme che sentivo crescere alle mie spalle. Ogni giorno temo di poter essere arrestato per aver violato qualche segreto o per aver condotto qualche intercettazione abusiva. Ogni giorno temo che la vita che sono riuscito a ricostruirmi possa essere interrotta, ma sono felice di temere, perché finalmente vivo una vita nella quale posso riconoscere di nuovo il terrore ed esprimere la mia paura senza più il bisogno dell’adrenalina per sconfiggerla. Posso tornare a nuotare in quel mare aperto che rappresenta la mia libertà, nel quale vorrei essere sepolto, abbandonato alle onde, in cui ritrovare il sapore di mio padre, di mio cugino, di mio suocero, delle mie lacrime; il sapore della vita che merita di essere vissuta appieno per tutta la sua durata fisica. La morte è un evento inevitabile, è parte della vita, che tutti noi cerchiamo di esorcizzare nei più svariati modi. Ho imparato ad accettarla non perché l’ho vista in molte occasioni, ma perché non la conosco e non la voglio conoscere fino a quando non verrà a prendermi per portarmi via con lei. Sono sicuro però che la morte mi troverà vivo, non passivo, non rassegnato, non deluso, non frustrato, semplicemente vivo e sereno con la mia storia, nella quale ho elaborato i motivi per cui l’ho vissuta, augurandomi di riuscire a scrivere un giorno anche la storia del mio futuro...
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Indice
Introduzione
pag. 5
Inizio
pag. 11
L’età uniformata
pag. 15
Aria o saletta?
pag. 27
In nome del popolo italiano
pag. 33
Legio Patria Nostra
pag. 39
Check Point Charlie 1989
pag. 43
Il sorriso di un padre che muore
pag. 49
Gli orchi di Bangkok
pag. 53
Ex Jugoslavia
pag. 59
Moby Prince
pag. 71
Abilmente diversi
pag. 73
Al G.i.d.e.s.
pag. 77
Massimo
pag. 85
Sposo
pag. 91
Predatori e prede
pag. 95
Il caporalato dell’amicizia
pag. 99
In Libano
pag. 101
Fine
pag. 109
Finito di stampare nel mese di giugno 2009 presso lo stabilimento Tipografico Benvenuti & Cavaciocchi, Livorno