Segrete Di Bocca N. 9

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  • Words: 18,567
  • Pages: 15
B

di occa ARTISTI

IN

RIVISTA

Anno III, N. 9 • Gennaio-Marzo 2004

Direttore Responsabile: Giorgio Lodetti / Direttore Artistico: Roberto Plevano / Progetto Grafico: Franco Colnaghi Via Molino delle Armi, 5 - 20123 Milano • Tel. 02 58302239 02 58302093 - Fax 0258435413

Figuralismi Icone dopo le Clonazioni

Pippo Spinoccia il luogo del dove

Felice Naalin

Dove abitare? E con quali abitanti mai per limitrofi coinquilini? La domanda qui nell’area pazzescamente metropolitana, dove le scapole dell’uno agganciano lo sterno dell’altro e nel luogo dove l’olfattività, se mai superstite, di ognuno è linciata dalla secrezione o sudorazione ghiandolare della congerie umana che gli si accatasta sopra in compatta variabilità, la domanda, si diceva, è organoletticamente fondata e di difficile, leggasi impossibile, elusione civile. Pippo Spinoccia, con il garbo e la misura imprevedibilmente anche sovvertitrice che trasferisce nell’opera, non si dà alla reticenza consuetudinaria rilegata nei cataloghi d’arte, ma ordisce e ardisce una risposta operativamente artistica.Allora Spinoccia, al cui mazzo di carte dell’inventività non manca una sola briscola, sembra vivere uno scarto nel processo distributivo e incomincia a collocare a destra e a sinistra le sue figurazioni, inappuntabilmente tutto in un unico fiato. Spinoccia che ha percorso l’intero speco vertebrale appenninico di questa penisola, passando dalla sua trinacria alla mia nebbia, non è di quegli artisti che si rifugino nella nostalgia e nella sua espressione di quattro approvvigionamenti dal capoluogo originario, sempre cari all’orchestrazione gustativa dei non pochi dignitari dei nobilissimi luoghi comuni. La sua salita verso le note timbriche e perimetriche dell’espressionismo germanico, a partire dalla foresta nera in su, è un procedere in cordata solitaria, come un gentile alpino che non rinunci alla fattura dell’abbigliamento suo proprio, quello sì ringagliardito dallo scirocco originario. Ma poi, c’è un ma poi: la forte contornazione delle nature morte di Cézanne che approda antropologicamente a quelle delle figure di Rouault, entrambi discendenti dai fili di luce e di piombo delle silenti nordiche vetrate, in Spinoccia sono diventati dei semplici materiali, anche geometrici, del suo bel cantiere del Novecento, che ha saputo rigovernare nell’inventario dell’allusione artistica figurativa. Queste segnature nere ed eleganti diventano, nell’impresa di costruzioni di Spinoccia, l’urbanistica del villaggio, la sua profilatura snella e circompresa, sotto le scaglie di luce dell’ora del giorno, ora segreta di un giorno interiore, porto sicuro o rovello dell’incantamento. Nero, che non è la mancanza di luce, come nel bianco e nero, ma nero come saturazione di tutti i colori dello spettro, vale a dire non il nero che angustia come luogo della penuria, ma quello della sazietà delle cromatiche luci occorsevi. E questo nero felice, (l’espressione ossimorica è candidabile, si creda, ad una sua accettabilità,) rieccolo farsi gra-

In un mondo come il nostro dove l’arte ha la pretesa più di voler stupire che commuovere, occorre avere le idee chiare e lavorare in una direzione di riconciliazione, una sorta di nuovo patto tra l’artista e il pubblico, il progetto di un contenitore in cui sono benvenuti tutti i moderni mezzi espressivi, dal computer alla telecamera, senza abbandonare quelli tradizionali. Si vuole ripristinare la consapevolezza del lungo cammino della storia dell’arte, senza negazioni alcune. Questo non significa che bisogna solo continuare a copiare i classici, ma anche ai giorni nostri si può realizzare un affresco senza fare del manierismo. Si apre Figuralismi all’insegna della semplicità e della chiarezza, liberati da promesse utopistiche slegate dal vissuto quotidiano. Una serie di mostre che partono da Milano per approdare prima in Europa e poi in America, un sito internet (www.figuralismi.tk) dove vengono accolti gli artisti che sono interessati al progetto, un dialogo aperto con i poeti, con i musicisti e con artisti che si sono dimostrati sensibili ad accogliere questa nuova realtà. La proposta appare come prima inaugurazione operativa di un progetto iniziato ancora nel 1990. Figuralismi mi sembra quasi un destino, scritto da qualcuno in un luogo indefinito, oppure definito da noi in ogni momento della nostra crescita artistica e culturale. L’operazione è sempre la stessa: tracciare il segno del nostro essere nel mondo. Le ipotesi possono essere entrambe vere. il tutto può essere visto come prodotto da noi, libero arbitrio, oppure accolto giacché era predestinato ad essere formulato. 0Nel Medioevo si pensava che la sapienza, espressa con un linguaggio ricco di spiritualità, fosse patrimonio solo dei chierici, mentre i laici erano destinati a restare ignoranti. Anche il nostro tempo ha generato una nuova separazione del sapere artistico. Di fatto, una schizofrenia che ha prodotto due gruppi distinti di operatori delle arti. Da un lato i letteraticritici che hanno dettato le regole e i sistemi, dall’altro gli artisti che hanno spesso eseguito le visibilità delle teorie. Era successo anche nella cultura neoclassica quando gli archeologi insegnavano agli artisti-esecutori la purezza degli stili classici (dorico, ionico e corinzio). Riflettendo su tutto ciò, ho immaginato questo nuovo “spazio” dei Figuralismi, le idee nascono senza separazioni ideologhe o di appartenenza. La teoria si relaziona direttamente con la pratica e ogni artificiosa separazione tende ad essere esclusa. Ad un primo approccio imbattersi in un nuovo “ismo”, può generare diffidenza se non addirittura perplessità. Ne abbiamo incontrati ormai molti nell’ultimo secolo. Tutti alla ricerca di una nuova verità: Cubismo,Astrattismo, Dadaismo, Surrealismo, ecc.Volevano trasformare il mondo immaginare nuovi sistemi di produrre arte. Sono stati accolti con grande entusiasmo, altri hanno creato persino sconcerto. E comunque hanno turbato profondamente.Tutti volevano concorrere a definire una verità al di fuori delle tradizioni e delle certezze delle culture già consolidate. L’Ismo che qui si annuncia procede in una direzione opposta. Si propone di divenire dimora della propria interiorità, non la ricerca continua di sconvolgenti teorie rivoluzionarie. Si affida alla comprensione, vuole raggiungere la contemplazione, rappresentare il nostro essere nel mondo.

Guido Oldani

Spinoccia per le Segrete di Bocca in 3° pagina Momento ore 12,50 2003, disegno a fusaggine e acrilico, cm 42 x 29

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ta, o graticola, sbarre d’impedimento in cui non si sa mai da che parte di esse stia il più libertario o il peggio soggiogato. I numeri sono di celle dove si impara la mielagione umana, come quella delle api operaie e la golosità filozuccherina ha le sbarre adescatrici del diabete. Le facce, invece, assumono sulle loro spalle l’intera drammaticità delle figure o meglio dei figuri umani che hanno preso a menarvi vita, come dei parafulmini bagnati in una nottata di pieni e fragorosi temporali. Il bilanciamento è nella tavolozza dispiegata e attutita, manifesta e poi rivolta al pudore della terra e dell’ocra, alacre carne dell’abi-tare consentito nell’opera spinocciana. Il suo equilibrio di colore, in cui è sempre un lucore a lasciare l’ultima impressione, si gioca tutto nella scala che va dal sommesso al fremito di salvificazione appena in calce. E dunque codesta circoscrizione pittorico architettiva del lavoro di questo autore, alla fin fine non inchioda il visitatore, pardon!, il viandante trasognato, a nessun trasalimento verso l’abisso. Certo, ci sarebbe anche quello, a voler proprio guardare, ma ciò che salta addosso di più è quel senso minimo di impalpabile luminosità, come se il tutto potesse essere una lanterna a chiarore breve, là dove uno di questi giorni saremo lasciati cadere mollemente, quasi un’Alice nel paese delle meraviglie, ma in una storia di segno tutt’altro e imparagonabile. Che ci sia qui quel che vedrebbe un diogene, tra la lanterna e quel che lascia scorgere, a fine ricerca, se aggiornasse a noi la sua domanda? Pippo Spinoccia. Cornucopia mediterranea altarini e dipinti 1998-2002 a cura di Bruna Milani Piacenza, Studio Jelmoni Via Molineria S. Nicolo, 8 dall’8 al 22 maggio

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Autoritratto speculare in cella 2003, acrilici su tela e carta cm 93 x 60

Fragole e pannocchie di De Luca Francesca Torchia

Fragole olio su tela di sacco cm 90 x 86,5

Pannocchie olio su tela di sacco cm 130 x 110

Cosa dire su Pasquale De Luca? Lo conosco da più di otto anni e posso dire che è una persona sincera, buona e affidabile. Molto semplice, ama la natura, sua fonte inesauribile di ispirazione. È vissuto in mezzo al verde, a pochi passi dal mare. Suo nonno era un contadino, coltivava piante di arance, mandarini, mandorle e ulivo. Da lui ha preso l’amore per la natura e non mi sorprende coglierlo spesso intento ad osservare un uccellino sulla spiaggia. Ha sempre creduto in quello che faceva, da piccolo disegnava e dipingeva senza alcun insegnamento tutto ciò che gli capitava, un lume o un vaso di terracotta. Decise di frequentare l’Accademia di Belle Arti di Catanzaro, e nel ’93 prese la laurea. Lo conobbi nel ’95 per puro caso e ho trovato in lui una persona affidabile, socievole e sincera, con una grande passione per l’Arte e il suo mondo.Abbiamo modo di discutere, di scambiare idee, pareri e andare a vedere qualche mostra insieme. Non è facile andare avanti ed esprimersi, ma ha una forza e una volontà immense. La voglia di dare e comunicare è più forte di qualsiasi altra cosa. La grinta, la passione e la dedizione che mette nel suo lavoro è meravigliosa. Ha un piccolo studio nella parte antica di Cropani Marina e lì passa la maggior parte del tempo, è circondato da cose curiose, legnetti raccolti dal mare, conchiglie, vecchi macinacaffè e tanti libri d’arte classica e moderna, intere collezioni di fascicoli di artisti e videocassette. Cos’altro dire su di lui, che è una persona che ha tanta voglia di comunicare la sua arte e farsi apprezzare così com’è.Tende le sue tele da solo, le inchioda sul telaio, gli piace crearsele su misura e a modo suo. Ma è da un po’ che non riusciva a vedere la tela più come un semplice supporto per i colori. Desiderava qualcosa di diverso che gli comunicasse. Così un giorno vide un vecchio sacco abbandonato ed è partito tutto da lì. Il ricordo del nonno contadino che coltivava la sua terra e mieteva il grano. Le sue mani dure, forti piene di calli erano il peso del suo lavoro. Ecco perché il sacco con la sua ruvidità, il suo odore di

grano, di castagne, fa scaturire nella sua mente una serie di emozioni cui deve dare libero sfogo. Ecco che nascono: le Fragole e le Pannocchie, due fra i più bei sacchi dipinti, sintesi dei suoi pensieri più intensi. Il sacco non è più solamente materia, supporto, ma è un pensiero e gli spazi lasciati nudi senza colore sono un’emozione, una speranza. Nell’insieme, il sacco vissuto è passato, ricordo, è una forza che attraverso il pensiero esplode e incontra la materia. Il disegno, il colore, sono il suo presente, la sua vita, la sua gioia, il suo modo di esprimersi. Nella pannocchia, e nelle fragole, frutti della natura, si riflette la sua semplicità. Riesci quasi a vivere nel quadro, ad avvertire le sue stesse emozioni. La tecnica, il disegno, l’equilibrio, i colori puri, in perfetta armonia, la luce pulita, serena quasi vibrante, tutto viene percepito, simultaneamente, davanti a un suo dipinto. Qui racchiude la natura e la sua volontà. Gli auguro con tutto il cuore di riuscire a fare apprezzare la sua arte, cosi come l’apprezzo io.

Incontro con l’opera d’arte Fernanda Borio Ricordare il primo incontro con un’opera d’arte come significato della propria esistenza.Tutto può concorrere a renderla indimenticabile: il momento, il luogo, l’ambientazione, la propria età, le condizioni fisiche, morali e materiali.Vorremmo sapere da chi leggerà questo breve scritto, il suo primo incontro con un’opera d’arte indimenticabile. “L’uomo cerca nell’opera d’arte la scossa di un incontro con l’invisibile e non la contemplazione di una virtuosità tecnica”. Jean Servier

Michelangelo Buonarroti, Creazione di Adamo

Questo bellissimo concetto dà l’esatta idea di ciò che l’arte è come messaggio e comunicazione tra gli uomini. Il vero artista è un “iniziato” che fa da mediatore tra i non iniziati e la potenza superiore dello spirito cui tutti gli esseri umani consciamente o inconsciamente tendono. In tale senso è di fondamentale importanza il “primo incontro” con un’opera d’arte senza preventiva preparazione. Se l’opera d’arte possiede la capacità di attirare attenzione comunicando ciò che contiene, e che tuttavia è invisibile, si produce quella scossa emotiva che unifica lo spirito dell’artista a quello dell’osservatore. La prima impressione forte, quale che sia, resterà impressa nel DNA di chi

l’ha provata e mai, rivedendo l’opera in tempi successivi, riproverà la stessa irripetibile emozione. Certamente verrà 0 in tutti i suoi aspetti: formato, materiale, tecnica, composizione e così via e la conoscenza di ciò che ne è il soggetto la renderà materialmente più comprensibile e fruibile. Ma l’attimo magico del primo incontro sarà qualcosa di simile a un paradiso perduto. L’opera d’arte può trovarsi sola e isolata in un ambiente chiuso o aperto, stretto o largo ed essere di per se stessa il centro motore di attrazione. Oppure può far parte di una mostra dello stesso autore ed emergere tra tutte le altre per le sue qualità intrinseche percepite dall’osservatore. O ancora, può trovarsi nell’ambito di una collettiva che sollecita il raffronto tra opere di diversi autori, tecniche ed espressività opposte fra loro. A chi vi si accosta senza averla mai vista prima, o che conosca l’autore indirettamente per fattori culturali, o che non ne conosca neppure la collocazione temporale evolutiva in un certo periodo storico, l’opera d’arte indirizza il suo richiamo, proporzionale a ciò che contiene al di là di quanto è immediatamente visibile. A questo punto entra in funzione la psicologia dell’osservatore che nel soffermarsi davanti a un’opera ne avverte il linguaggio nuovo per la propria sensibilità che lo porta a imprimersi nella memoria in modo indimenticabile il primo incontro con quell’opera d’arte. La folgorazione che proviene dal primo incontro provoca nell’osservatore, a volte a livello inconscio, le domande: “Cosa mi attrae in quest’opera così intensamente? Al di là della sua oggettivazione espressa da un titolo, l’atto creativo cosa contiene e vuole comunicarmi?”. Sentire l’interna vitalità dell’opera d’arte produce la “scossa” citata da Jean Servier e chiaramente evidenziata da Michelangelo nell’incontro delle due mani: quella del Creatore e quella che ha creato, dandole vita.

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Figuralismi, appagando anche le aspettative del pubblico, si pone come un incontro. Un contenitore che non esclude nessun tipo di produzione. Tutti riconosciamo che il bello assoluto è veramente uscito di scena, le varie ricerche quasi sempre elitarie sovente si sono allontanate dal senso dell’apprensione comune. Quello che si cerca è un recupero di interesse e di credibilità. Spesso l’arte ha perso il suo pubblico per reciproca incomprensione. Molti appassionati si sono rifugiati nei grandi autori, nell’arte del passato, abbandonando frequentemente le nuove proposte che risultavano incerte. Partendo dalle periferie del dibattito sull’arte figurativa, i Figuralismi - icone dopo le clonazioni mettono in pratica l’arcaico simbolico, la capacità che ha l’immagine di rimandare alle memorie soggettive. Un’estasi che concede il tormento e/o la gioia. Agli inizi, mi sono incontrato con i filosofi per definire i Figuralismi, pensando di promuovere un sistema espressivo-linguistico comprensibile. Capace di commuovere. Pronto ad accogliere chi sperava di ricevere l’Arte. In quest’elemento fecondo, s’ipotizzava un contenitore possibile per gli artisti, attenti alla propria unicità, consci di dovere la verità nell’Arte. Si pensava di radunare artisti, in un apparente disordine, capaci di affrontare con i sistemi delle immagini la visione poetica del presente.Anni passati nel profondo malessere dell’isolamento a sbirciare sommovimenti poco capiti e mai pienamente condivisi. Il tempo lungo di meditazione teorica è stato in ogni caso necessario per capire e per cogliere la necessità di proporsi. Non si tratta di ripercorrere la storia come è stato fatto da alcuni citazionisti. Le vissute esperienze non si cancellano e le clonazioni disgustano nei ritorni. Ogni cosa ha una sua dimensione. Ogni manifestazione naturale o artificiale ti aiuta a capire meglio il nostro presente. Le esperienze del nostro tempo ci hanno resi smaliziati e liberi. Ci hanno dato occhi più attenti. Il caos potrebbe trasformarsi in ordine, non cercando le regole, ma accogliendo delle regolarità. La grammatica e la sintassi dell’arte non sono definibili a priori ma nelle pratiche di ogni artista. Attraverso l’attenzione al mondo, l’artista diventa capace di mettere in crisi la logica economicaquantitativa attualmente dominante. Forse pensare alla genialità della proposta di Filippo Tommaso Marinetti (Noi canteremo…i nostri occhi abituati alla penombra si apriranno alle’più radiose visioni di luce) con il suo Futurismo non è sbagliato. Ci aiuta a capire il modo di agire, di creare gruppo capace di potenti passioni, di desideri, di ambizioni che si possano realizzare nei comportamenti. Se oggi abbiamo un vantaggio, rispetto al passato, è nel non costringimento dottrinale, tutti abbiamo voglia di libertà, tutti abbiamo il desiderio di creare in autonomia la nostra arte. Il “canto” è aperto. (e-mail: [email protected]) Felice Naalin, pittore, scultore e scrittore, laureato in architettura a Venezia, è professore di Storia dell’Arte.

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L’abbraccio Roland van den Berghe e Marcel Duchamp Annie Reniers Che cosa può indurre oggi un artista a continuare l’opera di Marcel Duchamp, quando fu proprio lui a rompere con tutte le tradizioni? Non sarebbe meglio cominciare col chiarire questa domanda, precisando che, forse, Duchamp ha stravolto il modello della creazione artistica senza tuttavia rompere con una o più tradizioni spirituali? Per rimanere al processo creativo, è un dato generalmente acquisito che Duchamp è all’origine di una serie d’interrogativi sull’arte che hanno instaurato una nuova forma di trasmissione. Sarebbe, dunque, il padre fondatore di una stirpe di ricercatori, pensatori e poeti riuniti sotto l’egida del Processo Creativo. Ora, come funziona questo cervello creativo? Che cosa capta, che cosa sovverte, lui che è sempre a caccia del nuovo, dell’insperato e del meraviglioso? Da quali circostanze fortuite comincerà a tessere la sua tela avventurosa? E come contrassegnare la costellazione o configurazione improbabile che la sua mente è riuscita a strappare al caos? Che nome dare a quella cosa che nasce un mattino, senza che il suo nome risuoni nuovamente degli echi venuti da tradizioni diverse e dunque da stili diversi? Gli interrogativi si riducono ad uno solo: come rompere continuando? Fu questo il senso dell’opera di Kierkegaard in La ripetizione: porre l’assoluto come unico maestro di pensiero. Continuare Duchamp, ecco un progetto ambizioso. Ci troviamo nell’attuale esposizione davanti ad un’opera ambiziosa, frutto di tutta una vita di lavori che si concatenano, riferendosi l’uno all’altro come il pensiero di Duchamp. Perché è proprio a Duchamp che rende omaggio Roland van den Berghe. Bisognava, per far riconciliare Duchamp con se stesso, fargli incontrare Fernando Pessoa. È cosa fatta in MUTU M’ e nell’ABBRACCIO. Cosa può fare, allora, un artista oggi? Un artista che subisce il peso delle tradizioni millenarie, che altro non lasciano, se non tracce? Solo le tracce fanno sognare, dice il poeta René Char. Ed è proprio nonostante se stesso, ma grazie alla propria memoria, che l’artista diventa un punto d’incontro e prosegue l’interrogativo metafisico trasmesso da alcuni esploratori che gli inviano dei segnali. Rimarrà sempre la questione della rivelazione e del linguaggio cifrato, del mistero e della sua attrazione, della seduzione e del rifiuto delle immagini. Una struttura ricorrente propone l’estensione dell’Uno nel multiplo, a condizione che lo sguardo dello spettatore creativo vada costantemente dall’uno all’altro polo della creazione. Il suo sguardo si esercita al va e vieni e si sofferma su un dettaglio che diventa chiave. Proprio come lo spettatore, l’artista aspetta che il caso gli porga una chiave d’interpretazione del mondo. Da lì, tutti i simboli si susseguono in una serie sempre aperta. Duchamp e FOUND ANNOUNCEMENT Pessoa, Roland van den Berghe e Eduardo e Peppino MESSAGGIO Genova De Filippo. Se l’artista vuole rimanere assente dalla sua Wednesday, June 13, 1979 opera, il risultato sarà Marcel-Fernando-Eduardo e PepGrand Hôtel 10 Giugno 1979 N.23 – Anno XXXIV L. 400 pino. È così che tutte le deviazioni diventano possibili, in quanto indici dell’inafferrabile poeticità dell’Essere. PosReversion (1979 – 2003) Roland Van den Berghe siamo fare incontrare l’Expresso portoghese con Le Mon-

de francese, facendo in modo che uno abbracci l’altro. Eccoci in piena metafisica dell’estensione. Farli incontrare a 45º, sotto la protezione di una tenda trasparente. Vi aggiungeremo, in Le Monde, un triangolo costituito da dieci punti (1+2+3+4+10: la Tetractys pitagorica, le 10 Sefirot) sotto forma di lacrime, il cui vuoto si proietterà su l’Expresso sotto forma di mongolfiere azzurre, sei. In effetti, piegandosi uno sull’altro, i nostri due giornali entrano in un’altra dimensione. Al disotto della linea dell’orizzonte (del Grande Vetro...) regna il mondo di qua giù, lineare e pesante, mentre planando al disopra

White Newspaper, (Bruxelles, 27 April 1968) Nell’aprile del 1968 Van den Berghe fece girare a vuoto il cilindro di stampa della rotativa sulla quale veniva stampato il settimanale di cultura belga “De Spectator”. In questo modo produsse 100 giornali in bianco che in data 4 maggio 1968 furono presentati al pubblico riunitosi nella Sala Rotonda del Palazzo delle Belle Arti di Bruxelles.

dell’orizzonte, possiamo scorgere il numero sei, (1+2+3), a connotazione aerea e cosmica, primo numero perfetto,“numero nuziale” per Platone, sigillo di Salomone e, innalzato al quadrato (6x6=36), grande Tetractys pitagorica: (1+3+5+7) + (2+4+6+8)=36. In questo gioco di specchi, stampigliare e stampare, piegare e spiegare, lo spettatore-lettore si ritrova complice delle trasformazioni-trasmutazioni infinite.Alle quali l’autoreattore può aggiungere i propri ricordi dell’azzurro più bello fra tutti gli azzurri: l’azzurro perfetto del cielo del Portogallo, il cui colore corrisponde “esattamente” all’azzurro delle ali dei piccioni dipinti che s’incontrano in una certa frazioncina, di una certa regione del Portogallo: Fabrica, per la precisione, nelle vicinanze di Tavira. Senza dimenticare, in questo caso specifico, gli echi e gli scambi tra personaggi e avvenimenti raccontati in Le Monde, l’Expresso, Grand Hôtel e Arte Incontro in libreria di Milano, che ben porta il suo nome. Ma che titolo attribuirgli? L’Abbraccio. Quest’opera abbraccia un’opera precedente intitolata MUTU M’, ars combinatoria avente come risultato l’Egitto con la dea Mut, il luogo nel deserto chiamato Mût e il quadro di Duchamp intitolato Tu m’. MUTU è formato da quattro lettere, che caso fortunato. Gli spettatori sono presi, malgrado loro, in questa rete di segni che non fanno l’opera, ma che costituiscono la tela di fondo sulla quale l’opera crea l’evento. I materiali dell’opera diventeranno quanto piu possibile trasparenti. Il plexiglas è perfetto per suggerire un nuovo Grande Vetro, in cui lo spettatore è preso nella semplicità dell’abbraccio sotto la tenda del tabernacolo. I due giornali, piegati sotto la protezione del cielo, suggeriscono un rovesciamento cielo-terra altrettanto radicale e ancora più aereo del capovolgimento dell’Orinatoio a 90º che rinvia la Fontana ad una speculazione sulle dimensioni spaziali e spirituali. Forma e immagine aerea, l’Abbraccio permette ai due protagonisti, Eduardo e Peppino alias M.D. e F.P. di spiccare il volo, e perché no in mongolfiera, ottimo mezzo di trasporto, riflettente e leggermente imprevedibile nel suo percorso. È come se l’opera di un artista ne illuminasse un’altra e, al limite, come se tutte le opere d’arte s’illuminassero reciprocamente. Ma cosa succede? Perché Peppino abbraccia con lo sguardo e con la mano il viso del fratello? Sappiamo che si sono riconciliati sul letto di morte di Peppino. Ma perché Marcel presenta allo spettatore il proprio profilo avendo l’aria di guardare altrove? Leggiamo l’iscrizione

che compare sulla pietra tombale della famiglia Duchamp:“D’altronde sono sempre gli altri che muoiono”. In una nota Roland suggerisce che Marcel Duchamp, lo sguardo rivolto lontano, sembra vedere la fine del tunnel, il bagliore della luce... L’artista sale e scende dal sublime al popolare, attento solo al processo creativo. È così che come in una favola, Duchamp e Pessoa s’incontrano sotto le sembianze dei fratelli Eduardo e Peppino De Filippo che si riconciliano. Si abbracciano. È l’attimo della morte, il ritiro definitivo dell’incompiuto che unisce. È grazie a quest’attimo, forse, che la creazione continua. Creazione tentacolare di legami, che si prolungano nella mente di ogni spettatore. Dove finisce l’opera, dove inizia la lettura? Marcel Duchamp amava il filo che vola e cade, tre volte, scoprendo la manifestazione dell’Uno. In occasione della mostra First Papers of Surrealism nel 1942 a New York, divenne attore-spettatore srotolando un lungo spago in molteplici viluppi, formando una ragnatela dal pavimento al soffitto e tra i pannelli dell’esposizione, riportato nel catalogo come “sixteen miles of string”.Voleva indicare la difficoltà di capire l’arte moderna, secondo l’interpretazione di Harriet e Sidney Janis, o si trattava piuttosto di un tentativo di occultare le opere d’arte? O ancora: l’Uno si scioglie, si srotola e così facendo si mette a nudo. Si mette a nudo come la Sposa. Piero Manzoni lascia che una linea si srotoli e si riarrotoli e il cilindro stesso diventa opera. È possibile che ogni intervento umano comporti perdita di verità? Lo sguardo di Marcel si perde verso una luce improbabile, mentre guarda, compassionevole, il fratello Fernando morire. La du-plicità regna. È quando il tragico si fonde al grottesco che la creazione continua. Vertigini. Ci sarebbe dunque sempre un’ante-opera e una ante-lettura, qualsiasi lettura? La creazione come l’interpretazione non sono forse una risposta ad un appello che di per sé è gia risposta ad un appello precedente? Tutto torna. Ed una ex-position (esposizione) che altro fa se non trarre dall’invisibile ciò che accade ad ogni istante in un qualche luogo, ossia stabilire dei collegamenti, tessere delle tele? Nel processo creativo tutto si sviluppa in un mondo che non aspetta altro che essere rivelato e che forse si ripiega nel segreto. Il giornale. Una pagina si piega, l’Uno diventa due, il due diventa quattro, in croce. Il processo è cominciato. Una pagina può contenerne un’altra. L’abbracciante-abbracciato. La pagina piegata diventa tetto, custode della scrittura. La pagina stampata diventa giornale, evento. Un luogo può contenerne un altro, una data un’altra. Nascita-morte. I giornali possono essere leggermente rivisti e corretti: IMMIXTURE, firma V.V.V., allusione a Breton. La mongolfiera dei due avventurieri dello spazio atterra in un luogo stranamente chiamato Mût. Richiamo alla dea Mut rappresentata nel geroglifico da un avvoltoio. Eccoci in Egitto, terra d’origine. Il lettore, felice, ha il tempo di ritrovarvi Tu m’, l’ultima tela misteriosa di Marcel Duchamp, alias R. Mutt, col suo volo di quadrati colorati disposti in prospettiva come in un tunnel. Le dimensioni, le pieghe, le superfici rimandano lo spettatore ad un universo scintillante. Lo scritto rinvia ad una scrittura ad infinitum. Le domande riecheggiano nello spazio dell’esposizione.

Found announcement

Corriere Della Sera, Milano, Mercoledi 4 luglio 1979 Anno Piccola Publicita p.16, 17 Messagi Personali, Roland Van den Berghe

ANNIE RENIERS è nata a Bruxelles nel 1941. Ha studiato Filosofia e Letteratura Tedesca all’Università di Bruxelles, dove si è laureata con una tesi in ontologia-fenomenologia dell' arte contemporanea. È attualmente docente di Estetica e Storia dell’arte contemporanea all’Università di Bruxelles (VUB). Ha pubblicato numerosi saggi di estetica e volumi di poesie in fiammingo e francese. Ha vissuto a Roma dal 1965 al 1977. MARIA GRAZIA GROSSI traduzione dal francese NICK STRONG immagini al computer

Segrete di Bocca, 30 Marzo - 25 Aprile 2004

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Caro Marcello Natale Addamiano È sempre difficile scrivere di un giovane talento, tradurre in parole le raffigurazioni di Marcello Mantovani per seguirne il nesso filologico che lega la sua pittura alla realtà di oggi con convinzione di grande carattere. I ritratti dei familiari, di amici, sono temi recenti, affrontati con la stessa carica espressiva, con la volontà di aggiungere sempre qualcosa di nuovo al suo linguaggio pittorico. Considero quindi questi ultimi dipinti come parte integrante della sua ricerca artistica. La volontà del colloquio umano è, per Marcello, soprattutto volontà di poesia. Egli non cerca delle forme ma trova figure, volti, oggetti e frutti. Ferma sulla tela volti di persone, gente di oggi: un quotidiano di affetti e storia è il suo racconto. La carica di passione realistica e la coscienza stilistica sono colte in piena adesione sentimentale, risolte con toni lirici e subito integrate nella resa oggettiva. L’equilibrio formale è ugualmente complesso e armonioso nel canto di personaggi scanditi di segni e colore, intrisi di luce. Marcello non si è mai di-

Io sono Vanessa, 2003, acrilico su tavola, cm 50 x 82

Claudio Nicoli Patrizia Cerri “Ha grande potere evocativo, non solo colui che vive una data mitologia ed agisce di conseguenza, ma anche ogni autentico narratore di miti, creatore o risuscitatore di mitologia” Karely Karenki Forza evocatrice del Mito, invenzione plastica, ricerca di rigorosi equilibri sono la giusta chiave di lettura per le sculture di Nicoli. Il Mito è l’immagine di un mondo perduto eppur così vivo nella coscienza e consapevolezza dell’uomo contemporaneo, laddove i valori etici e civili che connotarono le gesta degli dei ed eroi sembrano oggi essere venuti meno o, forse, non essere mai esistiti. Noi abbiamo perduto l’accesso immediato alle grandi realtà del mondo spirituale, ed a questo appartiene tutto ciò che è autenticamente mitologico; la scultura di Claudio Nicoli ci ricorda che fatti grandiosi sono avvenuti sulla terra e che questo “passato glorioso” è in parte reCavallo e cavaliere, 2002, bronzo, cm 38

scostato da un riferimento alla realtà, proprio perché la realtà è l’invenzione che ciascuno di noi fa del mondo che percepisce: la sua pittura, il suo mondo poetico, la sua realtà, la sua felicità di dipingere, le sue nuove intenzioni di ridurre il quadro alla luce-colore, con supporto materico, arricchito da una colorazione fatta da terre calde di tono. Per Marcello, matita o pittura, il discorso è tutt’uno. È interessante come sa cogliere, rappresentare così bene ciò che avviene dentro di lui: ha gli occhi buoni per capire la buona pittura e s’abbandona alla gioia di dipingere. Dipinge i suoi pensieri, è sincero, sa che l’arte moderna e contemporanea è micidiale e spesso è fatta di indovinelli linguistici. Marcello ha imposto la nuova visione e la realtà, che da tempo andava maturando, osservando, e la ricerca si è arricchita, ha acquisito nuove sfumature, ha spostato la sua attenzione agli affetti familiari più vicini, oltre i luoghi dove di solito ritrae i suoi personaggi. Ha chiuso la porta dello studio per meglio meditare. Sono bastati pochi metri e l’incontro con nuove facce e nuovi accordi luminosi per ampliare di conoscenza i suoi abituali procedimenti pittorici. È cambiata soprattutto la luce, una luce di composizione e di spazio, dove le nuove facce vivono con diretta e immediata espressione fatta di tocchi sicuri, dentro densi impasti materici con luce uniformemente diffusa, che si distende con omogeneità sulle figure dando solidità plastica, pur rimanendo sempre calda di tono e sentimento. La materia pittorica della superficie riceve i personaggi in un’atmosfera dorata e conferisce all’immagine una sensazione di calore e di diario. La figura, strettamente collegata da tempo alle stagioni del cuore, alle emozioni, agli stati d’animo, è interpretata in un gioco denso di alta e fervente matericità di luce/colore. La ricerca di Marcello, poetica e tecnica, è incentrata in una sorta di evocazione figurale, sensoriale, in sospesi racconti, come possibilità e urgenza di sentire e di vivere la natura umana. Oggi, in tanta giovane pittura europea si avverte una così decisa ripresa della figura, un desiderio/bisogno di guardarsi, di conoscersi, di tornare a specchiarsi recuperando un’identità fisica: il corpo, e un’identità temporale: la memoria. Le ricerche tecnologiche sull’immagine (foto, cinema, video), utilizzate come nuovi media, sono momentaneamente rifiutati dal nostro pittore, che preferisce oggi esprimersi in forme di realismo tormentato, arricchito da segni ritmici così che la scelta formale tende ad un espressionismo duro, selvaggio, con forti sciabolate segniche e un colore sicuro. L’orto di casa, dei sentimenti domestici, delle persone che lo abitano: questa è la scelta e il mondo di Marcello, che, da poco, ha circoscritto il suo interesse a pochi soggetti e a pochissime figure, interessato più alle tessiture di luce, maturando uno stile originale di rappresentazione, capace di far sentire la figura armoniosamente inserita nel contesto naturale. Marcello racconta la sua vita, fatta di atmosfere

familiari dove, da vero pittore, trasporta e realizza una sua galleria di personaggi, cercando quasi di raggiungere l’effetto di un reportage, di un diario per immagini vive, suggestive di comunicazione e di una buona sapienza caratteriale e psicologica delle persone ritratte, come documento di vita. Queste ultime sono perfettamente inserite nei bianchi caldi dello spazio, i volti sempre risolti con tocchi sicuri ed evidenziano i tratti somatici e le espressioni, o meglio le maschere espressive delle persone. A questo scopo Marcello esplica una indubbia, ben maturata capacità tecnica: le sue immagini vivono anche di una sua identità espressiva e psicologica. Auguri, Marcello, con una stretta di mano.

cuperabile. Il percorso artistico di Claudio Nicoli affonda le sue radici in quella che è la cultura classica, dalla quale ha attinto non solo la ricerca plastica ma anche la forza evocatrice del mito. Il mito come fonte per narrare grandi gesta in chiave di lettura personale e moderna nelle sue scelte interpretative. Dalla terra prescelta dagli etruschi, Nicoli ha sicuramente tratto grande fonte d’ispirazione.Trasferitosi prima in Toscana, terminati gli studi accademici, poi in Umbria non lontano da Chiusi, l’antica Cleusin, insediamento urbano già dal VIII secolo a.C. e poi romana Clusium una delle più antiche città della Dodecapoli Centrale, ridà vita a forme arcane, antiche, com’è antico lo spirito che lo porta a plasmare dalla terra suggestioni di memoria classica nella più spontanea e limpida espressività.“Sono nato con l’argilla in mano” dice l’artista; ed è ancora una volta la terra, questa volta tutta emiliana, nasce infatti nel 1958 a San Giovanni in Persiceto a pochi chilometri da Bologna, a costituire il suo bagaglio emotivo. Per Nicoli è il pane della memoria che impasta tradizione e cultura; nella terra che l’ha visto bambino, l’argilla era dappertutto assieme all’acqua, un autentico invito alla creazione. La ricerca plastica di Nicoli nasce infatti dal suo stesso inconscio e da un immaginario che fa parte della nostra cultura mediterranea. Egli attinge al “Grande Passato”, riportandolo emotivamente in sintesi, si rivolge alla plasticità greca per ciò che concerne gli equilibri ed alla enigmaticità etrusca per ciò che riguarda il “racconto”. Claudio Nicoli, dice Paolo Levi in “Le fusioni del Mito e della Storia”, “…è uno scultore atemporale, formalmente disinvolto e grazie alla sua poetica egli può confrontarsi con i Maestri che attraverso i secoli hanno costruito il grande museo

della nostra storia dell’arte”; ed ancora,“…all’interno di ogni suo lavoro, si avvertono premesse arcaiche, che nulla tolgono ad un pathos contemporaneo. Egli riesce ad essere eretico e nel contempo severo, rigoroso nel suo richiamo alla classicità e rivoluzionario nell’esplicitare le lezioni apprese dalle modalità della raffigurazione contemporanea. Dovremmo, nella vita, imparare a sfrondare, a togliere tutto ciò che non è necessario”, dice l’artista”; ed ancora “lo vedi il perno vitale sul quale poggia l’esistenza della scultura, il centro dell’equilibrio attorno al quale essa ruota? Allora puoi comprendere l’opera; e l’anima del perno è l’idea”. Nicoli perviene ad una sintesi estrema della sua ricerca plastica nella serie di Cavallo e Cavallo e cavaliere dal 1990, dove “l’equilibrio” rappresenta per l’artista la costante ricerca di una valenza etica insita nel “fare arte”, il rigore composito avvicina lo spettatore all’essenza dell’opera stessa che passando attraverso lo spirito si fissa sulla materia. In queste opere l’autore affronta, tra l’altro, la dualità lacerante del binomio che, ricomponendosi, muta la sua parte animale in un impeto dello spirito volgendosi in energia vitale. Fortemente espressiva è la serie Icaro, dove un’esasperata tensione ritmico-emotiva sottolinea un’evoluzione interiore dell’uomo verso una crescita spirituale. Tensione, torsione, dunque, equilibri assoluti di masse in espansione, frammenti di volti di Eroi lacerati (Elmo di Achille, 1993 ), sono le creature che Claudio Nicoli ha prediletto per meglio lasciar trapelare l’arcana saggezza del Mito.

I batticuori di Jezek Mojmir Natalia Aspesi È stato davvero un incontro fortunato quello tra “Questioni di cuore” e Mojmir Jezek: fortunato soprattutto per me perché il tratto morbido e misterioso di Jezek ha reso inconfondibile la mia rubrica: sfogli magari distrattamente “Il Venerdì” e devi per forza fermarti davanti ad una finestra su cui si affacciano soffici cuori trafitti da pugnali, bocche a cuore, cuori faticosamente portati sulle spalle da ometti, cuori in un cassetto, cuori come mazzi di fiori: cuori sempre molto rossi, di un rosso festoso. Per frettolosità non l’ho mai ringraziato della pazienza e del talento con cui ogni settimana dà veramente luce alle incertezze e spesso anche agli autentici dolori di chi mi scrive. Lo faccio adesso, approfittando di questa sua mostra, che si intitola proprio, e lo ritengo un grande omaggio, “Questioni di cuore”: e su suo invito ci sono proprio “i miei cuori”, anche quello più emblematico della mia rubrica, un cuore a terra, frantumato come un coccio. Certe volte, mi pare che sia lui a rispondere meglio di me a chi mi scrive: io uso le parole, che spesso hanno torto o sono insufficienti, lui usa l’immagine essenziale e certe volte crudele: mancano i volti, nei suoi disegni, perché sono inutili e quando disegna i corpi, ne porge solo un pezzo, essenziale e protagonista: un seno, una natica, una gola, una mano, un piede, una schiena. Sono gli emblemi di un feticismo amoroso, l’interpretazione di un desiderio o di un sogno di chi scrive perché ama con difficoltà, perché non è amato, perché è negletto: e talvolta persino perché è felice, e Jezek l’ha capito prima di me.

David, 1997, bronzo, cm 54, p.d.a.

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Chiara, 2003, acrilico su tavola cm 40 x 50

Il senso musicale della linea Angelo Mistrangelo L’oiseau s’est confondu avec le vent, Le ciel avec sa vérité L’homme avec sa réalité Paul Eluard La pittura di Marianna Baglìo è fatta di silenzi, di luci smorzate, di colori meditati ed estremamente controllati, che caratterizzano tutte le fasi di un percorso legato ai valori della forma e della composizione. Un percorso che si è sviluppato attraverso poco più di vent’anni di presenze nelle gallerie italiane e francesi, di un impegno e di una indagine espressiva che ha preso l’avvio all’Accademia Albertina di Belle Arti, alla scuola di Francesco Menzio ed Enrico Paolucci. E in tale angolazione, si è sviluppato un discorso quanto mai sostenuto da una in-

teriore e interiorizzata visione della realtà circostante, da una capacità manuale che le ha permesso di “fissare” un paesaggio della memoria, da una intrinseca volontà di dare vita e consistenza a una foglia o a un limone, a una scodella o a un peperone verde, a una mela o a una conchiglia. Il dettato di questa artista, che ha insegnato discipline artistiche nelle scuole statali, appartiene a una dimensione mai sconfitta dalle consuetudini, dalle sottili angosce esistenziali, dai rapporti umani, ma tutto appare scandito all’insegna di una energia che si traduce in un contenuto lirismo. Si avverte, in ogni caso, una estrema consapevolezza nel delineare gli elementi di un naturalismo che va oltre la più scontata quotidianità, per trasformare ogni gesto in colore, ogni sentimento in una linea tagliente e, talora, lievemente inquietante, ogni lontano orizzonte in un paesaggio suggestivo e ricco di segrete riflessioni. Si ravvisa, quindi, nell’opera della Baglìo una tensione che percorre la superficie del quadro secondo un flusso che tende a un andante musicale, a una nota che si libera incorporea nello spazio, a uno spartito che riemerge da lontane stagioni e da incommensurabili silenzi.

La Ciotola, 2003 lavis ed acquarello, cm 31 x 18

Della materia di cui sono fatti i sogni Sara Fontana

In margine, 2003 collage di carta e pigmenti fili di ferro, cm 70 x 200

Nido, 2003, collage di carta e pigmenti, fili di ferro cm 19 x 19 x 19

Sono state la consistenza o la malleabilità le proprietà che hanno fatto della carta l’oggetto dell’attenzione e del lavoro di Grazia Gabbini? Da anni l’artista conduce con tenacia e rigore una ricerca appartata e consapevole. I suoi collages di carta e pigmenti nascono amalgamando carte veline, carte giapponesi, carte riciclate e carte da giornale e accorpandole con il colore. Oltrepassata la superficie di fogli in apparenza fragili ed effimeri, si scoprono veri e propri campi di forze, forze che un tempo gravitavano al centro mentre oggi se ne allontanano. In questi lavori elastici e resistenti la materia è colta in un istante del suo incessante divenire, esprimendo un senso di sedimentazione e ora anche di affrancamento. Sono vive testimonianze dello scorrere del tempo ed evocano arcane presenze recuperate nella memoria: reliquie del passato ma anche figure del mondo fantastico. Sono opere che condividono le leggi della scultura e quelle della pittura: prendono corpo grazie agli strati di materia, a una composizione articolata e al dialogo con l’ambiente, ma è pur sempre il colore che provoca la metamorfosi. È attraverso un paziente lavoro di sovrapposizioni e macerazioni, in cui anche il caso svolge la sua parte, che Gabbini trasforma la carta in una sorta di pelle, quella che lei chiama “la pelle della pittura”. Un procedimento per addizione il cui risultato è una sottrazione di peso. Questo paradosso della massima leggerezza congiunta con la massima pesantezza si potenzia nell’ultimo ciclo di lavori, intitolato In margine. Circa un anno fa l’artista introduceva per la prima volta il filo di ferro, un “materiale” e al tempo stesso un “se-

gno”. Un materiale “dissonante” rispetto alla carta e tuttavia sempre ricondotto entro un equilibrio armonico. Da allora nelle forme si è accentuata la tendenza ad aprirsi verso l’esterno, verso una più dinamica interazione con lo spazio, del resto già insita nelle carte del passato. Sono invece cambiati gli strumenti: al colore atmosferico ed evocativo di un tempo è subentrato un colore più pulito, mentale, e prevalgono blu lavanda, giallo acido e arancio; inoltre l’acqua e l’aria hanno preso il posto del fuoco, con esiti formali sempre più eterei e depurati. Non a caso le suggestioni richiamate dall’artista spaziano dai “colori delle notti orientali de Le mille e una notte, ai petali di Yves Klein sulle sue superfici dorate, alle forme libere e leggere del liberty, a certi corpi marini che ondeggiano sinuosi negli abissi”. L’ultimo capitolo della sua sperimentazione, sempre nell’ambito di una dialettica gravità-levità, si è schiuso con l’utilizzo di altri materiali di recupero. Sacchetti del pane e scatole di cartone vengono trasformati in soffici nidi che abbracciano frammenti di memoria, amorevoli custodi di sogni e paure. Così Gabbini ribadisce quella necessità di contenimento che l’ha spinta a racchiudere sotto plexiglas i piccoli lavori intitolati Icone.

E(s)senza lavagne Teolinda Coltellaro

Fuga, 1992, tecnica mista su vecchia foto anni ’40/50 cm 15 x 24, foto N. Masciovecchio

Il rinvenimento casuale di alcune fotografie di mobili e interni d’epoca (presumibilmente risalenti agli anni ’20-30), innesca nel fare artistico di Max Marra una dinamica reattiva volta alla manipolazione destrutturante dell’immagine. Le fotografie in questione, memorie ingiallite, parzialmente deteriorate dall’azione erosiva del tempo, sono infatti, all’origine di questi lavori che l’artista stesso, non a caso, chiama Lavagne. L’incontro fortuito e non preventivato con le sbiadite virtualità delle fotografie, porta in sé una forza eventica che intenziona l’agire dell’artista, rendendo di fatto possibile un processo creativo che rivendica ad elementi residuali del passato una nuova condizione d’esistenza. I suoi segni forti e decisi tendono a liberare l’immagine dall’esilio della propria riconoscibilità, ridefinendone il proprio destino di cosa; tendono ad infrangere l’involucro cristallizzato della sua esistenza storica, assegnando le tracce e i frammenti visibili che pur permangono di essa ad una dimensione a-storica: quella dell’opera, in cui si condensa il nucleo dell’esistere creativo. L’originaria struttura fotografica, sotto l’incalzare ritmico del gesto, diventa superficie nuova — Lavagna, appunto — su cui riattivare il percorso di formazione del segno, la sua genesi scritturale, in un progressivo disvelamento di: forme e significati; punti di fuga; prospettive mutevoli; larghe campiture nere in cui si contestualizzano porzioni dell’immagine primaria che, in un costante e scambievole trapasso dal passato al presente, aprono nuovi spazi alla narrazione pittorica. E, ogni lavagna diventa elemento essenziale — E(s)senza — in una successione di stati d’esistenza in cui nessuno degli elementi coinvolti comincia e finisce, ma tutti si prolungano l’uno nell’altro (Bergson). Ciascuna di esse costituisce un elemento sintattico prezioso nell’impaginazione del divenire esistenziale, nella sua ininterrotta ri-scrittura. Ogni lavagna è materia infinita, ritmica continuità che scandisce “la vita temporale profonda, il moto invisibile” che attraversa la superficie dell’opera; in cui si delinea chiaro il cammino di ricerca di Marra.

Diagramma dell’anima, tecnica mista su vecchia foto anni ’40/50 cm 24 x 18, foto, N. Masciovecchio

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Dedicato a Lei incontro con un mecenate Silvia Venuti

Macromappa, 2003, tecnica mista su tela, cm 100 x 100

Mappe terapeutiche Aldo Benedetti È un magma di colori tenuto assieme da un filo conduttore, il filo della necessità di una ragione, di un motivo di essere, quello che dà vita alle opere di Silvia Varini, quasi il tessuto connettivo di un’anima in ansia, in cerca di uno specchio, una superficie su cui riflettere la ragione di esistere, come un amore per la vita che voglia giustificarsi. Così l’acrilico sembra voler imprigionare una tensione pronta ad esplodere, a proiettare in un iperspazio simbolico pianeti che sono grumi di emozioni, aromi di un microcosmo che l’artista vuole indagare, quasi incidere con il bisturi a cercare il calore di un corpo, il sussulto di una reazione di vita. È come una “confessione terapeutica” e, non a caso, gli inserti di blister all’interno delle opere sono un chiaro richiamo alla funzione principale della pittura, a quell’indagine ribelle e appagante che ne fa desiderio di divincolarsi da un destino troppo stretto e incomprensibile e, d’altro canto, di accarezzarne la trama, scomporne e decifrarne la caotica casualità, costringendola a un progetto ordinato, quasi assecondando un magico ordito. Prendono forma così autentiche mappe esistenziali, schemi lineari misti a lampi di colore che denunciano il composto smarrimento psicologico di fronte a una ricerca che ha il sapore di un’evasione concettuale, ma che è in realtà istanza estrema di ingrandimento, tentativo inconscio di definire una sorta di struttura molecolare della realtà, formulandone una istintiva e liberatoria composizione. La Nostra è preda di una specie di “nuclearismo introspettivo” che non teme, come quello storico, deflagrazioni atomiche, ma la composta constatazione del vuoto, di una vita come riassunto di pure emozioni, mutilata di consistenze formali, delicato e istintivo intreccio di percorsi esistenziali: linee di tensione, quasi generate da un campo magnetico, si stagliano sopra macchie di colore di forte impatto emotivo e si allacciano alla tela come ferite ricucite da punti di sutura. Sono cicatrici ispessite, materiche, che tradiscono il desiderio di recuperare un’identità, di affermare una certezza, di indirizzare un giovanile entusiasmo senza concedersi a un incombente e insidioso, siderale spazialismo, amara denuncia di una terza onirica dimensione di fuga da una quieta bidimensionalità figurativa. Si assiste così a un salvifico recupero terapeutico del colore, di una commossa orchestrazione di tachisme, destinato a comporre un effetto di musicale stordimento, pura catarsi emotiva. Vengono alla mente i sublimi accostamenti cromatici di Burri, le sue originali intrusioni di materiali d’uso comune sembrano ricalcare lo stesso sogno e bisogno di decodificare la vita e farne un messaggio di umana e composta accettazione, forse di serena sconfitta. La Nostra giovane e promettente artista ha già fotografato nelle sue tele il disorientamento moderno di una società che ancora non sa distinguere tra forma e concetto, tra pensosa riflessione e accattivante emozione. Forse il tenue linearismo lirico che popola le sue opere nasconde la comune sensazione di una vita di precari equilibri in cui tutti ci improvvisiamo incerti acrobati sospesi ad analoghe esili funi che ci donano un senso di sicurezza nell’affrontare le luci e i colori di una emozionante quanto breve traversata.

Grazia Chiesa ha avuto l’indirizzo da Giorgio Lodetti dopo aver ammirato le gigantografie di opere d’arte, sul ponteggio di Corso Magenta 10. Come mai, si era chiesta, non pubblicità commerciale, ma una scelta controcorrente, una testimonianza di profondo amore per il bello e per l’arte? Da parecchi mesi, infatti, con il titolo Dedicato a Lei si susseguono artisti di qualità indiscussa. Grazia vuole conoscere l’artefice di questa idea straordinaria perché condivide la stessa disinteressata passione per l’arte. Con modi vivaci, il giovane e cordiale mecenate ci introduce nel suo studio e, dinnanzi ad uno scrittoio allegramente disordinato, iniziamo a parlare con slancio e sincerità. Grazia: Mi presento, io sono la seconda generazione della Fondazione d’Ars-Oscar Signorini, che pubblica la rivista d’arte contemporanea D’Ars, fondata nel Sessanta, e organizza mostre in gallerie e strutture dove la gente è invogliata a conoscere l’arte. M.: allora avremo un futuro insieme. Sa quanti giovani artisti conosco ormai da anni, con i quali ho allacciato un rapporto di grande amicizia, e che quando sono in crisi mi chiamano anche di notte? Hanno una critica eccellente dalla loro, ma fanno fatica a trovare spazi per esporre quando e come vorrebbero: la galleria pretende almeno 100 quadri all’anno quando loro riescono a farne 15 o 20. Il mercato ha certe regole e se non le rispetti sei tagliato fuori automaticamente. Il nostro statuto dice che Signorini ha voluto la nostra organizzazione per aiutare gli artisti ad affermarsi nel campo dell’arte, soprattutto i giovani. Vede, in questo settore, ci sono alcuni che non hanno né qualità pittoriche né tecnica, eppure forse perché si presentano bene o sono socialmente conosciuti hanno successo: quelli bravi, allora, vanno in depressione e telefonano di notte. Spesso abbiamo discussioni molto animate non per il modo d’interpretare la pittura, ma su come muoversi in questo mondo di pittori. “Si sostiene l’arte sostenendo lo spirito dell’artista” che ha bisogno di sentirsi apprezzato per quello che fa. Quando c’è amicizia ci si può permettere d’avere confronti chiari e poi è importante per il pittore avere qualcuno che dica le cose come stanno senza alcun fine commerciale. Sono cresciuto in una casa piena di quadri, poi mi sono sposato con una persona che ama moltissimo l’arte ed è stata una continua crescita. Come si chiama sua moglie? Maria. Quello che mi ha sempre affascinato negli artisti è la bravura. Quando giro per le mostre sento dire che il pennello non è più importante: secondo me tutti, come i grandi del passato, devono partire da una grande tecnica per poi sviluppare un proprio percorso. La gigantografia esposta in dicembre in Corso Magenta ha suscitato l’interesse di Patrizia Valduga che ha scritto un articolo su Repubblica intitolato: “Grazie Serafini per la strage di Corso Magenta. L’unico simbolo di Milano degno di essere menzionato”. L’ironia del quadro era tutta in quei piccoli babbi natale, stesi stecchiti, in un mondo dove tutti corrono senza meta. Quanto misura? Otto metri per otto. Serafini è un grande, l’avevo invitato nella mia piccola Galleria in via Sant’Agnese per partecipare alla mostra sullo Zoo domestico e si è presentato con un maialino… È un artista geniale in tutte le sue forme d’arte, dalla pittura all’architettura, ai libri, famosissimo il suo Codex pubblicato, vent’anni fa, da Franco Maria Ricci. E questa “Lei” di Dedicato a Lei, chi è? È un mistero facile da scoprire perché nasce proprio da questo mio modo d’essere. Non mi interessavano tutte quelle agenzie pubblicititarie che proponevano contratti così un giorno, mentre passavo in Corso Magenta per controllare il palazzo che stavo ristrutturando mi è venuta l’idea di dare visibilità ai miei amici artisti e abbinare all’immagine esposta una quarta di copertina su Arte Incontro. Il rapporto con Giorgio e Gabriele, giovani proprietari della Libreria Bocca, è così ricco d’entusiasmo che ci contagiamo a vicenda! E poi “Lei” chiaramente è Maria. In questa operazione non desidero si parli di me ma degli arti-

sti e del loro lavoro. Il primo, Adriano Pompa, è figlio del grandissimo Gaetano, che la critica dovrebbe riscattare da un ingiusto oblio.Adriano è un miniatore moderno che dipinge soggetti fantastici su fondi oro e produce 15 quadri all’anno. Dopo di lui abbiamo esposto un artista molto noto, presente in tutte le più importanti collezioni pubbliche: Odd Nerdrum che ha illustrato il manifesto del 45° Festival di Spoleto organizzato da Giancarlo e Erancis Menotti. Per questo inquietante e straordinario pittore norvegese è stata la sua prima partecipazione in Italia. Poi è stata la volta di quel pittore toscano dalla tecnica raffinatissima e dal carattere molto scontroso, che è Luca Crocicchi, amatissimo da Testori. Il lavoro esposto fa parte del suo secondo periodo, quello più sereno che si rifà a Bellini e a Piero della Francesca. In dicembre abbiamo esposto Luigi Serafini e a febbraio Vittorio Pescatori, che nel giugno scorso ha presentato le sue fotografie sul nuovo orientalismo, in una mostra a Palazzo Reale. Ogni sua immagine è un pezzo unico ritoccato con terre e le sue scatole magiche colgono l’anima del protagonista con giochi di specchi.Alcuni hanno visto in lui l’emulo di Cartier Bresson. Successivamente avremo Giuseppe Bergomi, uno tra i più importanti scultori italiani, seguito dal nuovo manifesto del Festival di Spoleto per il quale non abbiamo ancora scelto l’artista. Lino Frongia, un emiliano elegante, molto apprezzato da Gianni Versace, sarà l’ultimo. La sua produzione è costituita, prevalentemente, da autoritratti copiati dai classici. In futuro vorrei organizzare una mostra, in uno spazio pubblico di Milano, dove ogni artista possa esporre almeno tre opere oltre al quadro già presentato. Questi i sogni di Dedicato a Lei. Intanto portiamo a termine l’immobile da ristrutturare. Lei di che cosa si occupa? Mi sono laureato in giurisprudenza, ma ho preferito seguire l’attività di famiglia nel settore edile. Quando mi propongono una ristrutturazione cerco di ridare vitalità a queste “vecchie signore”, senza fare interventi radicali. È lungimiranza? Più che lungimiranza è attaccamento alle belle cose del passato. L’arte mi aiuta ad avere sensibilità e rispetto per l’antico. Io sono convinto di questo: “l’arte fa crescere se hai voglia di conoscerla”.

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Roberto Abbiati e il viaggio di Zarafa Vladek Cwalinski

Giardino delle piante di Girafe Legno e metalle, 2003

Roberto Abbiati ha la capacità di trovare storie al limite dell’incredibile e di svilupparle in progetti, che diventano anche mostre caratterizzate da un’intensa poesia, installazioni che commuovono i visitatori e poi,— secondo tutta la gamma della sua intensa creatività, — spettacoli teatrali che riscuotono un grandissimo successo di pubblico e di critica. È andata così con Navi, balene e marinai la mostra che ho avuto l’onore di curare nel 2001 presso la galleria Santabarbara a Milano ispirata al romanzo Moby Dick di Herman Melville, che poi nell’estate del 2002 a mia insaputa è diventata un’istallazione presso castello Pasquini a Castiglioncello e uno spettacolo teatrale itinerante per l’Italia, riproducente la stiva della nave del capitano Achab dove si può accedere solamente a dodici persone per volta. Roberto con questa performance teatrale ha saputo trasformare l’esposizione in un’installazione vivente, dove anche il pubblico fa parte dell’opera e dove sculture analoghe a quelle in mostra costituiscono la scenografia, appese sulle pareti della stiva. Vecchi cassetti con posate, attrezzi da falegname, piallatrici, disegni, conchiglie e fil di ferro che riprendono la forma della nave o quella della balena e che Roberto apre e chiude come finestre animate. Ora Abbiati ha saputo ripetersi, cambiando di nuovo tutto. Il nuovo spunto creativo è venuto da una bellissima storia realmente accaduta e da tempo dimenticata: quella della prima giraffa giunta nell’Europa moderna, che non vedeva animali di questo tipo dal tempo dell’impero romano. Zara-

fa, così veniva chiamato l’animale, era stata catturata in Sudan ancora piccolissima come dono, offerto dal viceré d’Egitto Mehmet Ali, destinato al re di Francia Carlo X. Seguendo il corso del Nilo fu condotta prima a Khartum e poi al Cairo dove fu separata dal fratellino. Da qui giunse ad Alessandria d’Egitto dove fu imbarcata su una nave che attraversò il Mediterraneo, con un foro nel ponte per permetterle di metter fuori la testa. Essa attraccò a Marsiglia nell’ottobre del 1826 e subito una folla di curiosi iniziò a interessarsi al suo prezioso carico. La curiosità popolare arrivò a tal punto che Zarafa, insieme al suo custode arabo Atir, nel suo trasferimento a piedi verso Parigi per andare al Jardin des Plantes al quale era destinata, passò tra due ali di folla entusiasta che la guardava con ammirazione. Essa giunse alla meta e rimase al Jardin des Plantes per diciotto anni. Le sue sembianze avevano così colpito la fantasia del popolo da influenzare la moda parigina per più di un decennio: si hanno allora cappelli a forma di collo di giraffa, vestiti che riprendevano il suo pelo maculato, servizi da té con teiere a collo lungo e tazzine ornate con giraffine… Roberto Abbiati riesce ancora una volta a stupirci con le sue opere, reFra tutti gli oggetti i più cari Sono per me quelli usati. Storti agli orli e ammaccati, i recipienti di rame, i coltelli e forchette che hanno di legno i manici, lucidi per tante mani; simili forme mi paiono di tutte le più nobili. Come le lastre di pietra

centemente esposte alla libreria Bocca dal 26 febbraio al 6 marzo 2004, proponendoci con la formidabile vena poetica che lo caratterizza tutto il viaggio di Zarafa a partire dal continente africano, evocato dagli splendidi caratteristici strumenti in legno che escono dai suoi cassetti a scandire le prime tappe del viaggio. Zarafa è sempre lì, come una presenza inequivocabile e discreta, essa appare come un’impronta sul fondo delle scatole-ambienti, bagnata da una pioggerellina di colore sgocciolante a dripping, quasi ricordo di tutte le intemperie che ha dovuto subire sul ponte della nave prima di giungere a destinazione. Il suo aspetto varia nel corso delle tappe di questo viaggio e si modifica passando dall’impronta a un vero e proprio ready made rettificato dove in memoria e ad onore della miglior vena poetica di Marcel Duchamp Roberto Abbiati gli dedica una canzone lontana e quotidiana utilizzando gli oggetti più cari ormai logori dall’uso per ricavarne forme che, come per incanto, vanno a formare la fisionomia di Zarafa, una giraffa con le rotelle che percorre le strade della Francia, una giraffa attaccapanni che esce dall’anta-ponte di legno della scatola-nave in cui viaggia ad ammirare il cielo stellato.Viaggio.Viaggio di Zarafa e viaggio-ringraziamento degli oggetti che passando di mano in mano, da mestiere in mestiere, da offerta in offerta, da mostra in mostra arrivano al loro Jardin des Plantes. intorno a case antiche, da passi lise, levigate, e fra cui crescono erbe, codesti sono oggetti felici. Penetrati nell’uso di molti, spesso mutati, migliorano forma, si fanno preziosi perché tante volte apprezzati. (B. Brecht, Poesie e canzoni, Einaudi)

Gualtiero Mocenni ou la poésie de la ligne entrecroisée Ante Glibota

Symposium int. di Kalinovac (Croazia), 1998, pietra bianca d’Istria, cm 150 x 90 x 250

Les souvenirs de l’environnement visuel de l’enfance et de l’adolescence, restent tellement gravés dans nos mémoires, dans notre conscient et notre subconscient, qu’ils nous intérpellent souvent de loin dans notre présent. Parfois, ce sont des actes qui nourrissent l’instant présent, précisément dans une rencontre avec le passé de l’imaginaire et des idées, forgeant le sens créateur, valorisant les choix et la sensibiité esthétique et artistique. Gualtiero Mocenni a toujours fait preuve dans sa vie artistique d’une grande fertilité créative, d’une énorme énergie qui s’est traduite par une quantité considérable de sculptures, de peintures, de gravures… On dirait même qu’avec le temps, son enthousiasme et son énergie ont exploré chaque jour davantage, ce dont témoignent de nouvelles réalisations de plus en plus nombreuses, de nouvelles participations à des symposiums aux quatre coins du monde, sans parler des œuvres significatives réalisées aux Etats-Unis, en Ukraine, à Cuba, etc. Pour la seule année 2002, Mocenni a pris part à plus de cinq symposiums européens de sculptures et notamment à un projet sur le théme de l’Europe réalisé en Sardaigne, pour lequel il a remporté le Premier Prix. Mocenni a réalisé une œuvre à Montbrison, en France, sur le thème d’Astrée et Céladon, intitulée La Rivière Lignon. Cette sculpture à la stylisation élégante, trouve sa clarté dans les courbes de volumes savamment superposés dont la tension se développe à travers des formes pures, retrouvant I’éclat lumineux du ciel nocturne d’Astrée, qu’Hésiode évoque dans La Théogonie, avec la force du vent porteur de vie, psychotrope. Dans l’œuvre de Mocenni, le rapport lumiéreespace-temps joue un rôle décisif, plus particulièrement dans les dernières œuvres réalisées de 2001 à 2003. Il crée autour de ces sculptures un espace mental structuré dans lequel la forme, cristallisée dans la matiére du marbre ou de la pierre, opère et résonne d’une vision optique diversifiée, dans laquelle l’artiste englobe la vision et la pensée, dans un mouvement vibratoire de lumiére et d’ombre et un épanouissement de la forme sculpturale. Les courbes se suivent accentuées par une succession de lignes droites qui se chevauchent dans la répétition et dégagent l’imaginaire de la matière propulsée dans un espace lisible, en tant qu’objet partagé, évo-

quant la subjectivité et l’objectivité de l’œuvre d’art à définir en tant qu’émergence de l’idée. Maîtriser les différentes techniques de travail du bois, du fer, de la pierre, du béton et en extraire le maximum, témoigne à la fois d’une habilité tactile, manuelle, et d’un cheminement mental. Le rythme des sculptures de Mocenni est lié à la verticalité, à la blancheur de la pierre, exprimant aussi un tourment métaphysique qui s’élève vers le ciel, ordonné en un rythme musical et porteur d’un nouveau mythe. Il se produit comme un mirage chez Mocenni, que René Char, (Visage de semence, 1938), inspiré, a décrit comme des:“…Volumes qui se mêlent / Et surfaces qui s’aiment…” Ante Glibota, historien d’art et d’architecture, membre de l’Académie Européenne des Sciences, des Arts et des Lettres, Paris.

Giovanni Sanjust Elena M. Daverio Cinquantenne romano sempre abbronzato quasi sempre a petto nudo, vive in totale simbiosi con la terra del suo giardino incantato, che da alcuni anni sta realizzando in Maremma, con una profonda totale e viscerale passione per i suoi animali, cavalli, mucche, cinghiali, cani, pavoni, tutti di razze molto particolari, ma sono i galli da combattimento, che fino da bambino ha collezionato, a godere della sua predilezione. Li ha comprati in giro per il mondo e naturalmente non combattono, ma sono i soggetti più frequenti della sua pittura, e lui li ritrae con una precisione maniacale, con una cura del dettaglio come fossero destinati a testi di studio scientifico. È dal 1975 che dipinge a tempo pieno, scolpisce e, su commissione, fa lavori di falegnameria come nelle botteghe del passato, realizzando tavoli, cassapanche, sedie dipinte con i suoi soggetti preferiti. L’architettura dei giardini, altra sua grande passione, l’ha portato a realizzare dal nulla bellissimi giardini cresciuti in pochi anni. La sua arte si esprime anche attraverso le pitture a muro, dove con la consueta cura, raffigura alberi e paesaggi di grande effetto che ha realizzato in casa di amici prima e in numerosi luoghi pubblici poi.

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Osvaldo Mosconi Giacomo Lodetti Sono reduce da una rilettura dell’opera di Proust “Alla ricerca del tempo perduto” e ancora una volta di più mi convinco che il tempo che sto vivendo è il tempo delle incertezze, dei dubbi, delle incomprensioni e del dissolvimento dei valori, di tutti i valori che le società del passato ci hanno tramandato. Quasi un preludio del tramonto.Voler dare vita ad un mondo nuovo non è più neanche un sogno, né tanto meno un’utopia perché il mondo nuovo è quello che ci sta alle spalle, quello appena trascorso nella nostra più autentica incapacità di comprendere cosa ci stia accadendo. Siamo già nel futuro, ma i più non se ne accorgono. Questo è il motivo per cui un individuo, ricco per meriti paterni, di madre ebrea, con simpatie maschili, più malato che sano e a sua detta incapace di volere, abbia, senza peraltro rendersene conto, scritto uno dei testi più emblematici del secolo passato. Che ben due, tra i meglio organizzati editori del tempo (Grasset e Gallimard) abbiano rifiutato il suo lavoro, peraltro già pubblicato a fascicoli in una rivista, la Nouvelle Revue Francaise, e vincitore del Goncourt, conferma l’incapacità di comprendere dei contemporanei. E se non ci imponiamo di cambiare, di aprire la mente

per sforzarsi di capire, sempre, in ogni circostanza, allora perdiamo l’occasione di godere di una grande fortuna che ci è capitata, senza che fossimo andati a cercarla, la fortuna di essere vivi. Uno dei campi di prova dentro cui capitalizzare i propri sforzi è l’arte, quell’attività dell’uomo, linguaggio universale, capace di mettere in relazione culture diverse. Gli artisti, tutti gli artisti, ne sono gli alfieri.Tra loro ho recentemente conosciuto anche Osvaldo Mosconi. Da lui ho ricevuto le sei figure femminili che ha realizzato, tempo fa, per un ciclo di mostre, alla Libreria Bocca sul tema della nudità femminile. Dalla mostra di Roberto Plevano, la prima: Donne allo specchio, l’iniziativa ha raccolto le adesioni di Luciano Ragozzino, Luca Vernizzi, Giancarlo Cerri. In questa società Il nudo femminile è passato da sinonimo del bello a messaggio pubblicitario, con lo scopo di far vendere qualsiasi prodotto, soprattutto se con la donna non c’entra nulla. Un esempio? Pensate alle pubblicità dei reggiseni, dei collant, degli assorbenti, delle creme per il corpo, ma anche della birra, di autovetture, del silicone o della cioccolata.Visitando almeno una volta la fiera del libro di Francoforte, vi accorgereste che l’editoria negli ultimi anni ha abbandonato metà dei padiglioni e che metà di quelli occupati, in rappresentanza della produzione mondiale, è a base di sesso. Il nudo femminile di Mosconi, con le sue forme mi comunica una sensazione di forza primitiva, energica e rassicurante. La tranquillità di una madre che in grembo sente crescere la sua creatura. La possanza delle rocce, quando le rocce sono possenti, i verdi dossi collinari della terra di mia madre, le Marche, e l’immanenza delle montagne. Mi intrigano questi suoi disegni. Li ho guardati e riguardati più volte cercando di coglierne la chiave di lettura. Senza conoscere nulla dell’autore. La forma di quelle figure mi trasmette una sensazione di quiete, quasi di una presenza potente che ti rassicura, ti protegge, ti accompagna. Mi lasciano nel dubbio se

Plevano intervista Mario Raciti

no la tristezza del niente. Ci sarebbe da dire che l’arte che non abbia rapporto con la morte non sia arte.“Non avrai in me un’immagine che non abbia scolpito il senso della morte”, ha scritto Michelangelo.Vorrei azzardare che tutta l’espressività, anche la più obbiettiva, sia esistenziale. Non c’è una pittura, una installazione, un video, come puro dato oggettuale: tutto deve riferirsi all’uomo, alle sue problematiche. L’arte nasce dalla profondità. A volte sposata alle nostre precarietà, ai nostri complessi: comunque alla complessità della psiche. Forse Ad Reinhard dipingeva in modo razionale e pulito perché aveva la fobia delle mani sporche. Io, ad esempio, ho dipinto teleferiche, palloni sonda o spazi irraggiungibili perché ho il timore di staccarmi da terra. Cosa significa per te essere attuali? L’artista, anche quello apparentemente conservatore, azzarda sempre. E’ ovvio. Ma certa confusione che regna oggi ha fatto confondere la novità, l’azzardo, con delle semplici varianti di mezzo. La pittura è caduta in disuso, secondo taluni, perché cosa vecchia, abusata. I giovani che escono dalle Accademie spesso abbandonano la tela per dedicarsi alla fotografia, ai materiali più vari per le loro installazioni, ai video. I reggitori del sistema basano spesso su tali varianti “tout court” il loro concetto di “nuovo”. È l’epoca del formalismo, a scapito dei contenuti. L’artista che sia tale può esprimersi con qualsiasi mezzo, ritengo tuttavia che la pittura, che richiede senza sotterfugi personalità e cultura per dire veramente, sia intramontabile perché mezzo diretto, comando razionale ed emozionale che testimonia senza trucchi il nostro fare. Come la nostra firma che, nonostante ogni tecnologia, è ancora insostituibile apporto personale. In una recente nota di presentazione a una mostra di acquerelli di Walter Valentini, così scrivevo:“La pittura davanti all’oggetto reale fingendolo ce lo allontana, ce lo sottrae, lo rende oggetto sognato”. Da cosa nasce in te l’impulso all’opera? Quando sai che l’opera è compiuta? L’opera nasce da un attrito: la banalità del presente e l’esigenza di evocare fattori lontani,profondi,e portarli alla luce qui ed ora. E’ per me una sfida al banale del quotidiano col ridestare in noi il senso della favola, del canto, del mito che poi di per se stesso è costituito da fattori controversi. Anche quando è narrativa, la mia pittura è lontana dalle cose: il mio colore, i miei segni più che vedersi, si sentono. Così si crea uno spazio imprevedibile che vive sulla tensione: quando il tutto si congloba e “dice”, unendo una forma consona ai contenuti, e non posso aggiungere né togliere, l’opera è compiuta. Le tue opere muovono l’inconscio. In alcune, soprattutto i pastelli,sei più evanescente,morbido con una misteriosa effusione di co-

Roberto Plevano L’incontro con Raciti è avvenuto nel suo studio con modalità per me nuove, un registratore acceso per qualche ora, con un fitto dialogo illuminante e commovente, mentre il mio occhio scorreva sulle opere appoggiate ai muri, con la luce che si affievoliva al tramonto e le emozioni che si accavallavano intense e vivificanti. Più di una intervista si è trattato di un colloquio sullo scibile umano, la vita, l’arte, la comunicazione, l’inconscio. Qui la sua parola appare concisa ed essenziale nella trascrizione delle parti salienti della registrazione. Puoi delineare, per sommi capi, il tuo percorso artistico? Ho iniziato negli anni ’50.Ancora prima mi incoraggiava uno zio commerciante di quadri. A 18 anni vinsi un premio agli “Incontri della gioventù”. Partecipavano allora quelli che poi furono miei compagni di percorso: Vago, Della Torre,Vaglieri, Romagnoni. Un amico mi consigliò di iscrivermi a Brera, invece frequentai l’Università laureandomi poi in Giurisprudenza, rimanendo per diversi anni come un fuoriuscito con un continuo travaglio interno. Nei primi anni ’60 decisi di dedicarmi esclusivamente alla pittura: cominciai a guardare all’informale con la volontà poi di costruire una nuova immagine, emblematica, visionaria, alla ricerca dei substrati della pittura; raccontare non direttamente ma per dati traslati che sottendessero altro, immagini lontane. In quel periodo leggevo molto di psicanalisi, frequentavo gli spettacoli musicali: ricordi indelebili con Furswangler, la Callas, Mitropulos, la Schwarzkopf… In pittura, e da allora, ho cercato costantemente le radici, il lato ancestrale, “presenze assenze”, oggetti favolosi, risalendo ai grandi nodi dei miti: ancora oggi queste opere ultime che vedi qui in studio, della serie dei “Misteri”, nascondono tutte un senso dell’oltre, di non percepibile, eventi che “non ci sono”. Tutto questo ha a che fare con un’altra dimensione, un aldilà. Che rapporti ha, secondo te, il fare artistico con la morte? Sono fatti estremamente connessi: l’arte, anche la più gioiosa, fa sempre i conti con la morte. L’arte cerca di esorcizzare la morte attraverso l’eros, e nello stesso tempo ne soccombe, perché l’eros è morte. Argomenti troppo complessi da risolvere in poche parole. L’arte comunque, l’arte della durata, esorcizza la morte perché la vince nel tempo. Se ci pensiamo, tutte le nostre azioni sono costruite sulla morte. Forse ci distrae dal senso della morte l’ovvio, il banale, l’effimero, tutte cose che però ci dona-

stiano aspettando o stiano fuggendo. Da quali esperienze dell’animo di Mosconi potrebbero scaturire queste visioni femminili? Non si scorgono volti, né seni, né tantomeno morbide curve di ventri gravidi. Non si vedono, però si percepisco. Da dove viene allora la sensualità che queste immagini mi comunicano? Sinuose ed arcuate schiene seguite da possenti natiche e le cosce, per lo più assenti, quando presenti, richiamano solide fondamenta sulle quali si impiantano potentemente le intere figure. Il pensiero corre inevitabilmente alle sculture di Moore. Come in lui, l’originale ricerca di Mosconi prende avvio dall’arte primitiva. Più di scultura che di pittura parlano queste figure. Nei lavori di Mosconi si percepisce un contenuto psicologico che tenta di raggiungere l’equilibrio tra forme astratte e forme figurative. Ho ripensato all’esperienza di Plevano i cui nudi erano stati ispirati dalle rocce della Sardegna, convincendomi che anche dietro ai disegni di Mosconi dovevano starci dei massi, delle presenze naturali forti, stabili e rassicuranti, dei contatti intensi con quella parte di natura più distante dal paesaggio, natura priva di forme di vita animale e vegetale, povera di colore, ma ricca di forme. Credo di intuire una delle chiavi di lettura dei suoi lavori. Mosconi, infatti, è un geologo. L’osservazione della natura per motivi professionali quindi è decisiva nella vita dell’artista. Grazie ad essa arricchisce la propria conoscenza della forma, alimenta la propria ispirazione e conserva una propria freschezza della visione. Le rocce mostrano in che modo la natura lavora la pietra. Questi disegni presentano perciò una sorprendente potenza strutturale e una forte tensione formale che fa di loro un’opera artistica di cui sono lieto, benché non sia mio mestiere, di avervene parlato e un giorno non lontano potervele mostrare. lore, in altre sei più costruttivo ma anche con un senso di collasso incombente che risucchia il tutto verso il nulla. Siamo all’aurora della percezione, mi fai pensare alla mia stupita visione infantile della realtà, siamo nell’indicibile e ciò mi commuove; sento una struggente nostalgia di come vedevo e sentivo e di come tutto apparisse leggero e magico, luminoso. È bello ciò che dici, sì è così! Noi galleggiamo nel mistero tra segni che ogni tanto collassano nel nulla per poi riemergere, e questo è il dramma dell’uomo ma anche la sua continua rinascita. Porsi dei perché e rimandarne la soluzione, perché attualmente impossibile, ci pone a cimento, ma la soluzione la cerchiamo perché abbiamo la sensazione che esiste. Le tue opere mettono in crisi razionalisti,pragmatici e linguisti e semiologi:Umberto Eco lo ricovererebbero alla Neuro in crisi di identità, sto scherzando, ma tu hai la rara capacità di strutturare e destrutturare i significati in modo genialmente sublime;è il fascino del nulla che diventa un pieno nel giardino incantato delle scoperte ancestrali, siamo all’inizio dopo la fine e le possibilità sono infinite perché infinite sono le istanze vitali. C’è speranza perché la vita è speranza. E l’ultimo quadro che mi stai facendo vedere ora, ispirato alla guerra, è il più inquietante di tutti: mi sembra una grossa meteora che sta arrivando, cupa e piena di antichi presagi e la terra con i suoi fardelli è li che aspetta inconsapevole tra uno spot televisivo e l’altro, ma nella luce del tramonto la meteora diventa leggera e trasparente e scivola via inconsapevolmente. Un’ultima domanda: se tu avessi fatto l’avvocato tutta la vita? Come pittore ho intentato causa alle banalità e ho sposato le cause dei sogni. Come avvocato nelle aule dei tribunali, sarei stato l’avvocato, forse, di cause perse delle cause perse…

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Mario Raciti, Mistero, 2003

Dialogo con l’oggetto le nature morte di Daniela Giovannetti Maria Grazia Bajoni

Magnolia, 2003 olio su ardesia cm 20 x 30

“Nei momenti più disperati della mia vita di artista”, disse nel 1920 Felice Casorati, intento a dipingere Le uova sul cassettone, “io ho potuto riconciliarmi con la pittura, dipingendo umilmente una scodella, un uovo, una pera”: questa considerazione, provocatoriamente esplicita in rapporto all’affermarsi delle avanguardie artistiche, ritorna alla nostra memoria oggi, quando ci capita di vedere le nature morte di Daniela Giovannetti, perché — è forse superfluo dirlo — più o meno tutti cerchiamo, in qualche modo, riproduzioni della realtà che, per dirla con T.S. Eliot, ci possano liberare dal peso dell’eccessiva realtà che siamo costretti, nostro malgrado, a sopportare. Lucchese di nascita, formatasi all’Accademia di Belle Arti di Firenze, Daniela Giovannetti ha esposto in molte rassegne personali e collettive in Italia (a Milano, Firenze, Roma, Lucca, Arezzo, Bari), in Europa, a Bruxelles e a Wuppertal, negli USA, alla Loring Gallery, Massachusetts, a New York e in Giappone, a Tokyo. Il fatto che sia una donna a dipingere nature morte non può non richiamare gli illustri precedenti dell’anversese Clara Peeters e della nostra Giovanna Garzoni, pittrici non secondarie nel panorama dell’attività artistica europea del XVII secolo. Tuttavia — come ha notato A. Veca (Art Dossier Giunti, n. 46, 1999, p.43) — c’è una differenza profon-

da fra una natura morta “antica” e una natura morta “moderna”, in quanto Cézanne, Van Gogh, Matisse, Braque, Picasso — e si potrebbero aggiungere alcune ri-produzioni/re-invenzioni di Lichtenstein degli anni 1972-1975 — affrontano “la rappresentazione del soggetto inanimato in modo simile e omogeneo a quello dell’universo animato”. La caratteristica che anzitutto colpisce nei dipinti di Daniela Giovannetti è la perfezione tecnica, che si potrebbe dire “fiamminga”, esercitata costantemente nella ricerca dell’ “anima” delle res, ma l’opera d’arte deriva sempre da un’esperienza e, come ha affermato Man Ray, non è destinata “a suscitare ammirazione per l’eccellenza tecnica”. In modo conforme alla tradizione delle nature morte, la pittrice dispone la maggior parte degli oggetti lungo un asse orizzontale, ma non sempre: sceglie un asse verticale per La torre, edificio metafisico di stoffe ripiegate e sovrapposte in cui il gioco di luce-ombra evidenzia la stabilità precaria, per il Vaso con rotolo di carta e per Il vaso artistico, dove la verticalità è giocata sul telo di lino, sfondo perfetto per trasparenze ed ombre. Il taglio più originale, però, è forse lo sfondo in diagonale de La ciotola dorata e de La ciotola marrone, mentre in Composizione su panno bianco, la disposizione geometrica degli oggetti — una studiata distrazione da essa è data dal coperchio appena scostato e sottolineato dall’ombra — risalta sul telo: in questo caso, il telo, elemento ricorrente come sfondo, diventa anch’esso oggetto “protagonista” al pari degli altri, marcato al centro da una cucitura che sottintende il rimedio a un taglio (potrebbe esservi un’allusione per contrasto ai tagli sulle tele di Fontana?), a destra da una piega che vive della sua ombra, a sinistra da una sfumatura necessaria su un panno non ben disteso. Ci troviamo proiettati in una staticità acronica, immersi in una condizione esistenziale lontana dal fluire del tempo e il “correlativo oggettivo”, per ripetere di nuovo Eliot, è qui tangibile nello spostamento da arte a realtà e viceversa. Questi oggetti assorti nel significato etimologico del termine, personae, maschere-attori di sentimenti, metafore di emozioni, vivi di luce e di oscurità, ci appaiono personaggi in cerca di parole non consumate, di sentimenti inespressi, dominati con forza, che potrebbero trovare negli haiku giapponesi: non è casuale che la pittura di Daniela Giovannetti abbia avuto successo a Tokyo. L’apparente realismo mimetico di queste nature morte, ma le chiamiamo così per convenzione, perché sono

José D’Apice Silvia Pegoraro

Annunciazione, 2003 china su carta antica cm 121,8 x 87 Tabula, 2004 tecnica mista su carta antica cm 54,5 x 53,2

Roger Caillois apre quel suo grande libro, Au coeur du fantastique, con questa tranquilla, apparentemente tranquilla, confessione:“Sono attratto dal mistero”,soggiungendo tuttavia: “ma non mi abbandono con compiacenza agli incantesimi del fantastico”. Mistero e fantastico sono dunque per lui due ordini di realtà, che non si confondono ma necessitano l’uno dell’altro. Il mistero è sempre legato al fantastico. Ma il mistero implica l’enigma, l’interrogazione, l’analisi. Il fantastico senza mistero è sterile divagazione. Questa straordinaria simbiosi tra mistero e fantastico sembra proprio il fulcro attorno al quale ruota la ricerca pittorica di José D’Apice. Il fulcro, in particolare, dei nuovi lavori che costituiscono il ciclo Bestiario, di cui Castelbasso Progetto Cultura 2003 offre una scelta in anteprima. Caillois, in quel suo libro che è l’albero genealogico del mistero, dichiara di essere attratto dal mistero unicamente per il bisogno di decifrare persino l’indecifrabile. Forse lo si può affermare anche del pittore brasiliano (che vive e lavora da più di vent’anni in Italia):il vero terminale del suo viaggio visivo è l’atto del conoscere, del pervenire insomma “au bout de l’énigme” (Caillois). La pittura di José viene dai domini del mistero, ne esce e vi rientra perdutamente. Non è una pittura solo misteriosa: è una pittura misterica. Per questo, certi suoi “rituali” restano segreti anche all’occhio più critico che vi si inoltri. Ma quanto più appare velata di un’inattaccabile aura, in realtà non fa che offrirsi quasi esigendo d’essere svelata, violata. Da dove viene, allora, la magia di que-sto Bestiario? Forse

da una tecnica pittorica abbagliante e ambigua, capace di unire tutta la capziosità del disegno antico alle più moderne tecnologie fotografiche e digitali; o forse dall’incredibile sodalizio che s’instaura qui tra un medioevo barbarico che risente di Antelami e Wiligelmo, le figure e i simboli di una ritualità arcaico-tribale e quelli di un immaginario surrealista rivisitato… La suggestione primaria di questa singolare pittura è d’essere nello stesso tempo

nature “vive”, non intaccate dall’orrore occulto della vanitas che pervadeva le nature morte antiche, l’essenzialità che costringe a una lettura frontale e respinge tutto quanto è accessorio, ci sollecitano ad essere interlocutori attivi: dobbiamo capire perché i Frutti secchi possono esistere soltanto su quel loro supporto cartaceo appoggiato a un tavolo che deve assolutamente stagliarsi su uno sfondo nero; perché i fiori non sono mai recisi per addobbo, non raccolti in un bouquet, non messi ad agonizzare in un recipiente, ma sono riprodotti singolarmente, nella loro unicità, proprio come lo sono I libri antichi che poggiano su un piano non disegnato, ma immaginabile: un oggetto/soggetto non dipende da un altro, ma vive in sé. E se osserviamo le camelie della Lucchesia, soggetto caro a Daniela Giovannetti per la leggerezza del loro essere, nonché per affetto verso la sua città natale, o i fiori di melograno, intuiamo una risposta moderna e signorile a tanta splendida iconografia dei giardini del Quattrocento fiorentino, a taluni particolari decorativi di cui si dilettò, ad esempio, Benozzo Gozzoli nella Cappella dei Magi nel Palazzo Medici Riccardi a Firenze. Ma l’oggetto/soggetto sembra chiederci ancora di più come nel caso dell’ Accappatoio giallo che ci appare come una cosa usata o come una quinta di teatro, ma è di più: è un segno, semplice ed esatto, eppure sconvolgente nella sua complessità simbolica di astrazione dissimulata. La raffinatezza dei Limoni dipinti su rame è notevole per il gioco di luce ottenuto dalla combinazione del riflesso del metallo con i colori del dipinto e con le fonti di luce ambientali; questi frutti esistono come i limoni nei fregi dei Della Robbia per la loro concretezza, ed esistono come i poetici, simbolici, limoni di Montale nei “silenzi in cui le cose / s’abbandonano e sembrano vicine / a tradire il loro ultimo segreto”, creature che sgelano il cuore,“trombe d’oro della solarità”.Tecnica non appesantita dal virtuosismo, imitatio/aemulatio del soggetto, non replica ossessiva, accordi e contrasti, ci appaiono i modi esclusivi dell’arte di Daniela Giovannetti.

Daniela Giovannetti Realismo Magico presenta Rossana Bossaglia Trento, Spazio After Seven-Vivere Via Bolzano, 59 Dal 12 marzo al 17 aprile

ermetica e contagiosa: è una pittura che non dà una risposta univoca sulla sua matrice di mistero, ma che però, suscitando una lunga serie di domande assedianti, finisce con l’introdurre quel mistero in ognuno di noi che sostiamo davanti a un quadro di José D’Apice.

SpazioBoccainGalleria 5-18 maggio 2004

Il mio Colosseo, 2004, china su pergamena, cm 81,3 x 62

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Sul filo dell’arte

Via Scoglio di Quarto, 4 - MI Tel. 0258317556 - 3485630381

arte contemporanea V. le Col di Lana, 8 - MI 0258317556 - 3485630381

a cura di Stefano Soddu

domanda surreale

“L’Arte è una malattia?” risponde

Rosanna Forino Ci ho pensato solo un attimo. Ma certo che è una malattia! Una malattia gravissima, senza speranza, senza cure conosciute e sempre in via di peggioramento. Scorre in un senso nei vasi sanguigni e poi nel senso opposto nei vasi linfatici. Si arrotola nel cervello, preme negli occhi e raggiunge le dita… un pensiero dopo l’altro, un’immagine dopo l’altra. Pervade tutto come l’acqua non arginabile. Però non è infettiva: uno starnuto, una stretta di mano non contagia il prossimo. Paradossalmente, è una malattia che Rosanna Forino, 2004 non conduce alla morte, al contrario aiuta incredibilmente a vivere: mette la mente in fermento, costringe la mano a impugnare fermamente il pennello (potrebbe trasformarsi in un fioretto) ed a immergerlo nel colore. Così comincia un duello a tre. I protagonisti: te stesso, il tuo inconscio, la tela bianca.Ad ogni stoccata una risposta.Toccato! E via un altro affondo… fino a che nasce un equilibrio di forme, di colori e sopraggiunge anche la pace interna. Fino alla successiva opera. Malattia senza speranza di guarigione… per fortuna!

Il surrealismo in Frida Kalho Mimma Pasqua La questione del Surrealismo in Frida Kalho è stata molto dibattuta. È noto come Breton sostenesse l’appartenenza, senza ombra di dubbio, dell’artista al movimento da lui fondato nel 1924. Ma è altrettanto nota la reazione di Frida Kalho all’accoglienza calorosa fra i surrealisti a Parigi, nel 1939, dopo la mostra alla galleria “Pierre Colle”, quando afferma di non aver mai saputo di essere una surrealista fino a quando André Breton, arrivato in Messico nel 1938, non glielo aveva detto. In realtà la sola cosa di cui fosse sicura era che dipingeva tutto quello che le passava per la testa e perché ne aveva bisogno. Diego Rivera definiva quella di Frida una pittura “realista”, poiché la sua unica fonte di ispirazione era la sua vita.André Breton arriva in Messico nel 1938, ma i caratteri che egli riscontra nella pittura dell’artista sono, ad ogni buon conto, presenti già negli anni precedenti. Possiamo quindi parlare di una Frida Kalho, Io e la mia balia naïveté di Frida Kalho, di una sua genuina originalità che la mette al riparo da mode e tendenze? Una cosa certa è che non si lasciò influenzare, per scelta consapevole e per carattere, dal muralismo messicano. La sua è una pittura che sceglie il piccolo formato, perché esige un rapporto di intimità con lo spettatore. Un rapporto ravvicinato che consenta a chi osserva di cogliere la lenticolare, minuziosa descrittività che ad essa presiede. La pittura di Frida Kalho, è stato detto, è un’autobiografia raccontata per immagini, ma è soprattutto, a mio avviso, l’autobiografia dello sguardo che coglie se stesso. L’artista si osserva, osserva i segni e i cambiamenti che lo scorrere del tempo imprime sul suo viso, i solchi scavati dalla sofferenza. La sua immagine è

un’icona di grazia allucinata e inquietante. È consapevole che l’autorappresentazione, come specchio della vita, è ciò che rende vivibile la vita stessa e sopportabile il dolore. La sua colonna spezzata è il suo io frammentato, la sua realtà frantumata. Fare di questi frammenti un puzzle colorato e intricato come la foresta messicana, vestire di vesti scintillanti e appariscenti, di scialli, di anelli e collane la sagoma fragile che la fa assomigliare alle Madonne messicane cariche d’oro. La sua arte si svolge in un territorio di confine, fra una ingenuità da ex voto, come scelta consapevole, e un certo intellettualismo. Fra un’adesione convinta verso la forma espressiva popolare dell’ex voto, di cui adotterà le modalità rappresentative, ed una elaborazione sapiente che non può prescindere dall’attenzione e dalla conoscenza della realtà che la circonda.Abbiamo ragione di ritenere, e la sua vita, la sua partecipazione agli eventi storici e culturali del suo paese, e non solo, ne sono la prova, che Frida conoscesse i movimenti artistici del suo tempo, così come partecipava ai dibattiti accesi sulla storia e il destino del Messico, e che il cenacolo di artisti, pittori e fotografi che frequentava si facesse portatore delle novità e dei fermenti che attraversavano il mondo dell’arte. Si è detto che elementi, per così dire surrealisti, esistevano nella sua pittura prima ancora del suo incontro con Breton.Tuttavia, dopo la Mostra Internazionale del Surrealismo del 1940 a Città del Messico, organizzata da André Breton e Wolfgang Paalen, a cui parteciparono noti artisti surrealisti europei e messicani, è possibile notare un cambiamento deciso nella sua pittura. Se si confrontano opere come Henry Ford Hospital (1932) o Little Burbank con altre successive al 1940 si nota come allo stile fantastico e ingenuo, fondato sull’arte popolare messicana, si contrapponga una maggiore complessità ed enigmaticità. Opere come Ciò che l’acqua mi ha dato rappresentano la traduzione di quello stato di semincoscienza, invocato dai surrealisti, in cui i freni censori si allentano. È la rêverie, dove il legame con la realtà persiste in una sorta di sogno ad occhi aperti e in cui elementi allucinatori si mescolano a dati reali. Immagini che rimandano a Dalì, ma anche a Bosch e a Brueghel. Su un corpo immerso nell’acqua di una vasca da bagno vagano fantasmi di morte, di paura, di sessualità cruenta, in un’atmosfera sospesa e rarefatta accentuata dalla tonalità grigio-blu e dalla vernice stesa a strati leggeri. Non sorprende pertanto l’ammissione di Frida Kalho che giustifica l’enigma di un quadro di decisa ispirazione surrealista affermando di adorare la sorpresa e l’imprevisto che rendono magica la realtà.

Visita allo studio di Sangregorio Stefano Soddu Siamo a metà degli anni Ottanta. Una giornata di primavera. Si è svolta una manifestazione d’arte sul lago di Monate,in provincia diVarese.Sculture e installazioni collocate in riva o nell’acqua. Di grande suggestione. Eravamo in compagnia, io e mia moglie, di Valeria Belvedere, non ancora gallerista ma appassionata cultrice d’arte e collezionista. Al termine della manifestazione Valeria ci propone di andare a trovare lo scultore Giancarlo Sangregorio che ha l’abitazione e lo studio a pochi chilometri da dove eravamo. Ricordo una grande casa con vista sul lago, un uomo di età matura,apparentemente esile,di passo elastico pieno di forza e sprizzante energia.Una collezione di arte africana splendida, raccolta in numerosi viaggi effettuati in quel continente. Una compagna di aspetto raffinato e con accento straniero e nordico. Un deposito di sue sculture in pietra e legno inglobato in uno spiazzo fuori dal cancello. Fu quella una visita breve ma lasciò in me un segno e un ricordo destinato a durare nel tempo. Da allora di Sangregorio ho visto molte opere e l’ho incontrato più volte in varie occasioni espositive, pur senza farmi riconoscere e essere riconosciuto; ho seguito così alcune tappe del suo percorso, considerandolo un maestro e uno dei migliori scultori contemporanei. Siamo ora nel 2003. Sergio Dangelo chiede a me e a Gabriella di andar con lui e sua moglie Carla all’inaugurazione della mostra organizzata dal Comune di Sesto Calende per Sangregorio. È nata così l’occasione di un nuovo incontro e della mostra che Scoglio di Quarto organizzerà per lui la prossima primavera. Così è anche nata, per poter scegliere e vedere le opere da esporre, l’opportunità di una nuova visita alla sua casa e al suo studio.“Venerdì prossimo venite anche con Sergio e Carla a

colazione a casa mia.Vi preparo la polenta.Aspettatevi un pranzo frugale, però”. L’età non ha spento gli occhi vivaci e penetranti. Ha una voce giovanile e la sua figura minuta, sostenuta da un bastone etnico con l’impugnatura a scettro decorata e sporgente, sprizza forza, carattere, determinazione. La casa sorge a mezza collina, il lago è visibile ma è distante. Si accede da una via secondaria che scorre in mezzo al verde. Posteggiamo la macchina in uno spiazzo davanti al cancello, accanto al deposito di sculture del mio ricordo. Imbocchiamo un vialetto che porta all’ingresso protetto da un loggiato che ospita due grandi sculture con taglio figurativo. Ci accoglie Giancarlo, uomo schivo e un po’ burbero. È solo in casa. Dietro una porta a vetri scodinzola un cane.“Preferisco, quando ho ospiti, tenerlo chiuso. È buono ma un po’ invadente”. Un largo ingresso, sulla destra un corridoio con libreria e vari oggetti d’arte moderna, ma anche africana, inseriti tra i libri, una sala da pranzo accanto alla cucina. In fondo un grande soggiorno con ampie vetrate sulla vallata. Una porta dà alle camere da letto. L’arredamento è sobrio. Alle pareti dipinti e grafica di noti autori contemporanei. Nel soggiorno, verso la parete destra, alcune antiche statue africane che arrivano fino al soffitto; sulla sinistra due divani su cui ci accomodiamo mentre attendiamo di essere chiamati a tavola. Una calda polenta gialla, una selezione di ottimi formaggi, uno spezzatino di carne tenerissima di agnello australiano e del buon vino. La compagnia fa buon umore; Sergio Dangelo è come sempre un grande affabulatore e ci rallegra con chiacchiere non solo da “salotto”, aneddoti su artisti di fama frequentati e ricordi sui tempi andati. Qualche accenno di discorsi più seri o esistenziali ci conducono al caffè, servito alla turca. È ora di curiosare nello studio o meglio nei depositi di sculture raccolte in casa, visto che il lavoro viene soprattutto svolto all’esterno. Un’ala della casa, posta nella zona più bassa del giardino, composta da varie stanze adiacenti e da un ampio seminterrato, è piena di lavori, alcuni imballati, altri a vista. È come una miniera, più si “scava” e più emergono filoni di lavoro frammisti a collezioni di oggetti etnici. Sculture di varia misura e qualità di pietra strutturate a blocchi,sculture con inserti di legno o vetro.Composizioni effettuate per sperimentare nuovi materiali e alcune con parti insolitamente colorate di rosso. Sculture con accenni figurativi: le più vecchie; altre, la maggior parte, di cultura astratta. C’è materiale non per una sola mostra, ma per riempire un intero museo. È meraviglioso scoprire, spostando un lavoro, uno splendido pannello, e spostando il pannello un piccolo oggetto misterioso non ancora finito. Sangregorio con passo leggero ci illustra i periodi, le esperienze che non hanno ancora dato frutto e i progetti appena abbozzati e non ancora conclusi, come i lavori che intendono percorrere la via “dal dentro al fuori” in fase di formazione. Ci dice anche di essere stanco, di non credere più all’arte come soluzione della vita, almeno della sua: ma il suo lavoro dimostra il contrario al di là di ogni dubbio e di qualche momento di pessimismo che ciascuno è costretto a vivere. Per la mostra in Scoglio di Quarto torneremo però a scegliere le opere da esporre,“che venga un’idea nuova per cui valga davvero la pena organizzare la mostra; un progetto… una tematica da sviluppare… non so…” ci dice, lasciando in sospeso la frase. Poi a casa, in una camera da letto con testata africana e copriletto cucito a mano a piccoli telai, ci mostra le sue “carte”, una ad una. Sono carte spesse, lavorate artigianalmente su cui sono incisi segni forti, e colori naturali, da scultore. Descrive con poche parole i soggetti, lasciando alla nostra immaginazione ogni altra deduzione. La giornata si conclude con una visita ad un edificio progettato dall’architetto Rino Balconi; collocato su una vicina collina vi possiamo ammirare alcuni interventi e sculture del Maestro: inserito in un grande soggiorno, un meraviglioso camino e all’ingresso un suggestivo portale. Restiamo d’accordo di incontrarci presto a Milano, in Galleria, per definire i dettagli di quella che sarà certamente una mostra da non perdere.

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Inconoscibile, 1967

La mezzanotte il verno 1969

Un triplice incontro Emanuele Lazzati

A. Carpi Le cabine a settembre 1961, olio cu cartone cm 30 x 40

N. Addamiano Notte d’estate, 2003 olio su tavola cm 23,7 x 25,2

Nello scorso febbraio sono stato gratificato dalla visione di tre rassegne d’arte in altrettante località di esposizione, racchiudenti un paradigma di intersecazioni e di associazioni di idee e di sensazioni. In primo luogo: la gloriosa Libreria Bocca — che da tempo predilige il corollario di Galleria d’arte — ha ospitato per una dozzina di giorni sui suoi stigli opere pittoriche di Natale Addamiano, per la gran parte costituite da paesaggi della natia Puglia, nella fattispecie dell’altopiano murgiano, laddove il pittore nacque sessant’anni fa, più precisamente a Bitetto, villaggio di poche anime della provincia barese, nella quale si addensano grossi centri agricoli. Un elegante catalogo saggiamente proposto e contraddistinto da un pannello d’evocazione impressionista, nonché una pubblicazione di Disegni giovanili edita a Mantova, corredano la fisionomia e il tocco di Addamiano. I cupi tratti, torbidi e aggressivi, dei disegni non si conciliano con la compostezza serena, quasi direi idilliaca di vena turneriana, con paesaggi delle Murge, dominati dall’aridità della dura pietra millenaria (mi sia consentito di richiamarmi alle recenti scoperte di orme di dinosauri e di uno scheletro pietrificato in migliaia di millenni, in agro di Altamura, evenienze entrambe che hanno determinato di questa località nel cuore dell’altipiano un’omofonia con la basca Altamira, a sua volta singolare sipario di reperti antichissimi), sulla quale il mandorlo fiorito e il querciolo solitario nonché l’arida forra della gravina, ingentilita come una vezzosa antinomia da una bagnante ancheggiante, si stagliavano per il tramite di un equilibrio ritmico di sapienti pennellate. Non esiterei nel definire il quadro Notturno, 2002 opera di maggior rilievo ed effetto, in cui sotto un cielo corrusco e folgorante nell’estrema luce di un tramonto, quasi direi

un richiamo ai cromatismi chiaristici di Lilloni, le lampare dei pescherecci vaganti nel mare di Molfetta — dove Addamiano ha vissuto, operato ed esposto — sembrano lucciole vaganti oppure grumi di luci metropolitane, quali si scorgano da un’orbita stellare. Con Addamiano viene avulsa la secolare emarginazione delle Murge, dominate dall’immaginario collettivo dall'inquietante presenza del massiccio Castel del Monte di federiciana memoria, e ricondotte nell’ambito della nostra storia dell’arte. Né ebbero scosso l’estro dei due maggiori pittori pugliesi, sia del barlettano Giuseppe De Nittis, che pur ritrasse le ariose strade dell'Appennino dauno e del litorale adriatico, sia di Gioacchino Toma, il quale non lascerà orma del natio Salento, applicatosi alle nature morte e all’infelice Luisa Sanfelice nell’aspettazione del patibolo. In secondo luogo: da un quarto di secolo Natale Addamiano ricopre la carica di docente di Pittura all’Accademia delle Belle Arti di Brera, cattedra un tempo attribuita ad Aldo Carpi, interprete delicato di volti e di membra esauste a Mauthausen, tra i rari superstiti dell’olocausto. Ho così ammirato, nello stesso febbraio, nel Serrone della Villa Reale di Monza, i suoi quadri, in cui la mitezza d’animo, riverberata nel pastello, conserva un incanto evocatore su cotanto martirio. In terzo luogo: uno stimolo nostalgico della mia infanzia mi ha mosso a Gorizia, dove a Palazzo Attems l’ancor valido ultranonagenario Anton Zoran Music ha dato lustro alle sue ultime fatiche. Il riferimento con Addamiano è insito nella simbiosi tra le Murge e la similare prospettiva e uniformità del Carso, motivo immanente in Music, tuttora fedele alla lezione di Tomea e alle sue ascendenze slovene, nonché di par suo testimone degli orrori di Dachau, ritratti con un feroce vigore espressionista.Tutto ciò è antitetico all’habitat e all’humus delle sue marine dalmate e liburniche dove i larici di Monte Nevoso e i dirupati castellieri delle Alpi dinariche costituiscono un’estatica reminescenza del migliore Böcklin. L’avvenimento artistico ha contribuito a render più visibile l’afflusso dei visitatori da ol-

B

di occa

` iva S Lacarpia Omaggio a Moreno Chiari, 2004 acrilico e bitume su tela cm 150 x 170

In collaborazione con

SANTABARBARA ARTE CONTEMPORANEA

treconfine, che si riversavano a Gorizia dall’Alto Isonzo, dalle valli di Idra e del Vipacco che furono italiane nell’arco dei due conflitti mondiali, rimaste appartate ed estranee ma ora fautrici dell’indiscutibile concordia italoslovena. La mostra è stata operative sino al 29 febbraio, giornata suppletiva nella rara incidenza di una domenica bisestile, quasi un ulteriore motivo di plauso verso un gran verdaglio che onora l’arte d’Europa. Z. Music, Ida, 1987 tempera su carta,cm 42 x 27

“Era più difficile ieri o oggi? Stiamo parlando d'arte: nello specifico “la pittura”. Il fare, perciò pensare a qualcosa di nuovo, era, è e sarà una problematica di sempre. Ma questo non deve frenare o fermare coloro che sentono l’esigenza di dipingere (anche se spesso si dice che è stato fatto tutto). Non è vero. C’è sempre da fare, e non è poco. Il presente e il futuro. Di sicuro ci vuole intelligenza, modestia, capacità, impegno e poesia. Un esempio si può avere osservando le opere di S`iva, questo giovane che guarda con attenzione al passato cercando nel presente. Silenzio e fragore? Sacro e profano? Insensibilità e dolore? Travolti da questi interrogativi si ha il desiderio di entrare in questi corpi, a volte quasi gonfi e poco godibili, per poter vedere da vicino e capire meglio ciò che succede e perchè succede. Una volta entrati è tutto meno tragico e, grazie a quelle stilettate che fanno da impronta, con esse abbiamo una buona guida per proseguire quasi in punta di piedi ma senza timore in queste carni che sembrano accettare di buon grado le “sevizie” subite. In questo scenario, i colori sono caldi, i punti neri diventano arabeschi su pentagrammi di buona musica. La tela si espone, sicura che qualcuno la potrà apprezzare." G. Santabarbara

Segrete di Bocca 25 maggio 2004 ore 18,30 fino al 25 giugno 2004

rituale 1, 2003 acrilico e bitume su tela, cm 80 x 100

rituale 3, 2003 acrilico e bitume su tela, cm 70 x 100

rituale 7, 2004 acrilico e bitume su tela, cm 80 x 100

Via Molino delle Armi, 5 (interno) Tel. 02.58302093 - www.libreriabocca.com

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Clemen Parrocchetti Pietro Sergio Mauri L’ultima piccola e gioiosa mostra di Clemen Parrocchetti è stata un invito a visitare la gentile artista nel suo luminoso studio. Un panorama tutto milanese, un ottavo piano che si affaccia sul gugliato del Duomo e sotto il fungo della torre Velasca. La parrocchetti ha al suo attivo, dal 1955, una lunga storia espositiva. Numerose e vivaci tappe hanno contraddistinto il suo cammino fino a quell’estate del 1997, in cui l’artista si trovò una quantità di indumenti di lana distrutti dalle tarme. Avevano fatto baldoria nei suoi armadi. Presa da rabbia andò a documentarsi, ha ingrandito enormemente questi animaletti, dapprima disegnandoli e poi costruendoli con garze, fili di ferro e cotoni di vari colori. Questi piccoli insetti, trasformati in sculture imprigionate in involucri trasparenti, si potevano vedere fino al 1° febbraio salendo lo scalone del Museo di Storia Naturale di Milano ora, come luminose pianta-

ne, sono disseminati nello studio insieme a disegni che ritraggono non solo le tarme ma anche altri “amici”, nati da un racconto fantastico creato dalla Clemen: scorpioni, scarafaggi, pulci, pidocchi e cavallette. “Ritratti” che costituiscono per Carlo Pesarini, entomologo del Museo, una sorta di felice “entomologia del sommerso”! Clemen Parrocchetti percorre un solco pittorico esclusivamente proprio, liricamente sottolineato al femminile ma senza alcuna ombra di femminismo grazie ad una estrosa inventiva, sensibilità e colta ironia. “Non è giusto tenere mezzo cielo stellato e l’altra metà in piena notte” cosi pensando, al mezzo cielo femminile, Clemen ha iniziato anche a creare con gli oggetti della cultura della donna e negli anni ’70 costruiva con materiali poveri e soffici, con stoffe colorate vivacemente, unite a nastri e fili, per esprimere un fermento-ribellione ed una ottimistica visione da fabbro-sarta. Franco Russoli colse “la sua vitalistica, favolistica esplosione di felicità nel segno di un non sense che dava fiori e frutti gustosi volteggianti nell’aria limpida del paese della sincerità…”. Per Dino Buzzati la sua pittura “è nevrotica ed in-

sieme ottimista, perché nell’arte di questa pazzerella a lieto fine c’è una mescolanza di disegni dei bambini, dei matti, l’arte pop, il sadismo, le sagre carnevalesche con tornei di grotteschi e diabolici mascheroni”. Ieri ed oggi l’inventiva, la fresca e la franca comunicativa delle sue immagini, dall’arazzo al pittorico, hanno sempre coinvolto l’attenzione critica di Rossana Bossaglia:“…seguo da molti anni la sua attività e ogni volta e sempre più, sono sorpresa e gratificata dalla freschezza e giocosità del suo stile, dalle soluzioni compositive che ella escogita come se ogni volta scoprisse l’arte in quanto ludus, …il luogo della libertà d’espressione, un gioco non ingenuo dove l’esperienza di vita, anche quella del dolore, si tramuta in disarmata speranza e ci consegna un sorriso”. Clemen è una creatrice infaticabile che presto ci sorprenderà, di nuovo, con altre gallerie di ritratti: etnici, animali e se stessa. Una sorprendente Frida Khalo milanese!

Materia e sentimento, il percorso di Ferdinando Greco Lorella Giudici Se si dovessero tracciare le coordinate entro cui collocare il lavoro di Ferdinando Greco probabilmente esse sarebbero essenzialmente tre: materia, inquietudine e racconto. Con la materia Greco ha instaurato un dialogo intenso, spesso estremo, a volte contrastato e in alcuni momenti persino sensuale, quasi carnale, ma certamente costruttivo e mai scontato. Fin dai lontani esordi, l’artista ha ingaggiato una lotta che lo ha portato a domare quegli accumuli informi e ad adattare gli strati polimaterici, i grovigli di stracci, le colle e i pigmenti, disordinatamente riversi sulla tela, al teatro della vita. Un teatro che per Ferdinando ha umori tragici, emotivi, traboccante com’è di pathos e di passioni. Dai primi Reperti (coperchi di tombini metropolitani cristallizzati in strati di tempere e PVC) degli anni Settanta, ai più recenti Paesaggi portati via (grandi vedute cariche di colori, emozioni, di spasimi di materia contratta o irrimediabilmente lacerata), si coniuga tutto un repertorio di soluzioni formali che rendono l’intero suo lavoro ricco di contenuti, di simbologie e artisticamente fecondo di soluzioni. L’inquietudine è, d’altro canto, l’elemento che domina l’atmosfera, che asseconda interrogativi atavici e forse proprio per questo insolubili ma sempre stimolanti: vita e morte, ragione e istinto, religione e amore. Essa è qualcosa che permea di sé ogni più piccola parte del tutto, dal colore alla stoffa, dalla plastica all’oggetto cercato e deposto tra le pieghe di

quel rigurgito di mondo. L’inquietudine per Greco si fa allora sentimento, affanno, malinconia, straziante desiderio (quasi mai appagato) di certezze, insaziabile esigenza di affetti, urgenza di ardore, di vita. Essa diviene tensione continua verso le misteriose e terribili passioni umane, verso quella parte di sé e di altro da sé che alla logica preferisce l’impulso, alla regola contrappone i moti dell’anima, al raziocinio predilige i sensi. Del resto, è compito dell’artista spingersi verso gli estremi e per Ferdinando, gli estremi hanno sede nella parte indomita della natura (anche umana), la stessa che ha stregato Turner e Blake, Friedrich e Constable. Greco un romantico? Sì, se per Romanticismo intendiamo la lotta per l’esistenza, l’anelito al primitivo, i travagliati sospiri dell’essere, il mistero della morte e, con essa, la nostalgica ricerca di ciò che non è più. Cosa sono quei Mutanti se non creature partorite dalla paura, dal presagio e dal ricordo? Cosa sono quegli ampi paesaggi, aggravati da sassi e da legni, se non la concretizzazione di una segreta memoria? E quelle figure che emergono dal nero profondo, cosa sono se non fantasmi del passato, spettrali presenze dissepolte da polverosi stipiti dello spirito? E per ultimo il racconto, elemento costante di questo percorso, quasi condizione sine qua non per poter ancora dipingere. È, quello di Greco, un narrare autobiografico e diaristico in cui racchiudere riflessioni, ricordi, pensieri e appunti letterari senza soluzio-

ne di continuità. Un parlare, anzi, sarebbe meglio dire un inarrestabile flusso di coscienza (stream of consciousness) che si fa segno, messaggio e contenuto. Pagine e pagine di lettere che si riversano sulle superfici con ardore e ansia, non per un bisogno decorativo o enfatico, ma per la necessità di colmare con il verbo quello che per ragioni di spazio e di sintesi compositiva non può trovare sfogo con la pittura o tra le carnose braccia della materia. Negli ultimi quadri, poi, l’eros e lo spirito, la vita e la morte, la ragione e il sentimento, il desiderio e il timore lottano o convivono sullo stesso terreno (Sono venute a cercarmi le ombre, quelle maschili accompagnate da una bambola, 2003), si fronteggiano contendendosi i centimetri di colore e i grumi di macerie, catalizzando su se stessi l’essenza del divenire.

Enzo Fiore... Al levar del sole Mariagrazia Serina Ho scoperto una nuova gemma nell’incavo del braccio destro, così piccola che quasi non la vedevo. Il tempo è vicino, anche quest’anno (ma ha senso parlare di anni?). Solo il pensiero accelera il pulsante della linfa, e una strana gioia, un tenero calore, percorre questo mio nuovo corpo. E ogni volta lo stupore e questo stupido sorriso che mi dipinge sul volto (ma tanto nessuno mi vede). Quel primo mattino, al levar del sole, tutto era antico e tutto era nuovo. Qualcuno (Dio? Allah?) aveva mischiato le carte degli elementi. Nel buio, il silenzio faceva intuire spazi infiniti, assoluti. Poi, pigramente, come una carezza assonnata, la luce bianca ha percorso la linea dell’orizzonte. Ricreando lo spazio. E quella strana musica... solo dopo un po’ ho capito che era un respiro. L’ho capito dall’odore caldo, fragrante della terra che saliva dal basso, smuovendo nuvole di materia, cani, cavalli, alberi, radici. Sì, ricordo lo squillo del cellulare, ricordo di avere sbuffato (ma possibile che neanche in bagno…) e poi più niente. Ricordo sempre meno. La memoria scivola, mi abbandona. Perché proprio questo ricordo è rimasto tra i tanti che avevo? La sera, prima di addormentarmi, come in una

preghiera recito i nomi dei sette nani, per rassicurarmi di esistere. La prima volta che sono fiorito ero spaventato da morire. Oggi rido, ma ricordo di aver pensato: “Sono malato!”. La corteccia che si apriva, e poi quel fastidioso prurito. Quanti teneri germogli ho grattato ed estirpato, con quella furia bestiale che nasce dalla paura. Poi un palpito di verde, una minuscola foglia spuntata proprio all’altezza del cuore, e mi sono sciolto in una risata. Me ne sono accorto quasi immediatamente, quando ho cercato di correre via. La prima reazione è stata di confusione e di rabbia… poi la disperazione di non poter più camminare. La consapevolezza (di essere ormai straniero a me stesso, di avere un corpo che cresce e cambia anche contro il mio volere) è venuta dopo. Ma ho smesso da un pezzo di soffrire. Non riesco ad immaginare che qualcosa si possa muovere spontaneamente in questo strano teatro vitale. Solo l’ansimare del suolo solleva voragini che strappano il cielo e mutano continuamente il paesaggio. …come sarà?

SpazioBoccainGalleria 20 maggio - 6 giugno 2004

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Strano questo mio andar via assistito da piccoli mostri, avrei preferito un prete 1999/2000 olio e vinilici su PVC cm 150 x 170

L’uomo della pioggia 2004 tecnica mista su tela cm 210 x 175

Serena Olivari La Colonna delle Segrete di Bocca

Tutto ha avuto inizio quando un socio della Bocca mi parlò di un’artista ligure, sua amica, che avrebbe voluto farmi conoscere, per allestire una mostra dei suoi lavori in libreria. Non ricordo con precisione quando accadde il fatto, ma da allora sono trascorsi non meno di due anni. Ricordo invece l’impatto del quadro di Serena. Più delle mie parole, per comunicare le immagini del suo lavoro, mi avvalgo di un passo di una sua poesia, dal titolo Tazza bianca e nera: “il liquido trasparente della tazza, emanava soave, un impercettibile odore brillante di starnuti mai fatti che ti fanno sfrigolare le orecchie per poi non farcela più ....” E ancora da una sua lettera del 1991: “Vorrei spiegare come sono nate le due serie di lavori e come sono rese tecnicamente. Ciascun acquerello rappresenta una delle posizioni base del TAI-CHI-CHUAN, l’antica arte del movimento cinese per la saluta e la longevità. Ho cercato di esprimere, unito all’aspetto fluttuante e magico delle posizioni, quello un po’ smitizzante ed ironico di me in quel contesto”. Grazia, delicatezza mista a incertezza, dubbio e fragilità, più fisica che spirituale, scarsa considerazione dello scorrere del tempo, assenza dei punti di riferimento, sensibilità e discrezione riassumono per me che l’ho conosciuta, non solo la fisicità del personaggio, ma tutta la sua arte. Si è avvalsa della collaborazione, in questa circostanza, del suo compagno, Franco Carrozzini, che l’ha aiutata a realizzare la colonna delle Segrete di Bocca, qui presentata nei disegni preparatori, e che gli è costata ben due viaggi Genova-Milano, andata e ritorno, per gli adattamenti e le migliorie apportate al progetto iniziale. Maria Serena Olivari è nata a Genova il 23 aprile 1952, città in cui oggi vive e lavora nel campo della grafica. Laureata nel 1976, in architettura, da tempo è dedita esclusivamente alla pittura e alla ceramica. Possiede un discreto curriculum di personali e collettive, in prevalenza tra Genova e Milano, ma con uscite a Melbourne, Firenze, Bari, Svizzera e Finlandia.

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Via Molino delle Armi, 5 - Milano

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