Segrete Di Bocca N. 11

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B

di occa ARTISTI

IN

RIVISTA

Anno III, N. 11 • Luglio-Settembre 2004

Direttore Responsabile: Giorgio Lodetti / Direttore Artistico: Roberto Plevano / Progetto Grafico: Franco Colnaghi Via Molino delle Armi, 5 - 20123 Milano • Tel. 02 58302239 02 58302093 - Fax 0258435413

Strabilianti Orizzonti Splendenti Marcello Lo Giudice Francesco Gallo Marcello Lo Giudice dipinge con il cuore, con un senso arcano del ritmo, con una ricerca passionale dell’armonia, lavorando con il colore in maniera libera, ma controllata, sentendo il piacere del fare apparire una visione, giocata con le tecniche dell’informale nel vortice dei segni che vengono ora imprigionati, ora liberati dagli smottamenti della materia pittorica, in una impressione di continuo movimento, come di grandi masse nuvolose attraversate dai raggi di luce, sempre in bilico tra qualità riflettente, trasparenza suggestiva e fascinosa. Il legame con la sintassi travolgente, della liberazione del sé, guida la mano e la volontà, in una condizione medianica che mette in contatto gli automatismi dell’incoscienza, con i propositi coscienti dell’esplorazione di frontiere, ardite del linguaggio delle forme, colte nel loro momento critico, nella scomposizione in cui tutto diventa potenza, volontà, gioco. Marcello Lo Giudice dipinge con la mente, con un forte avvolgimento delle trame del pensiero nelle volute gestuali che non sono solo automatismo, ma invenzione di una cartografia fantastica, dove i luoghi sono l’esito di una verginità aurorale, fatta di apparizione, di ribellione ad ogni ordine estroso e apertura speculare ad una necessità interiore che trova sfogo nel tracciare una propria unità che non si piega ad un ordine naturalistico esistente, ma si protende nella follia di percorrere un cammino di creazione, che è fatto di ruvidezze, di grumi, di escrescenze, tutti ridotti con la forza del gesto a sostenere la prova dell’opera, la fuoruscita del segreto del laboratorio, tutto intimo, interiore, per apparire come fenomenica di una attualità sconcertante, che si concentra sull’essere sublime che abolisce le frontiere del linguaggio, agganciandosi alle storiche radici della tradizione. Perché l’informale è, già da tempo, una tradizione del linguaggio alto della pittura, in pendolarità con la figurazione e questo è un suo momento recessivo in cui molti lo disertano, che attrae spiriti forti e combattivi, come Marcello Lo giudice, che vi trova il luogo ideale per esprimere sentimenti ed emozioni che non si placano, nelle pieghe della società dello spettacolo, ma reclamano uno strabiliante varco per il sublime, che è un momentaneo abbandono della parola e della definizione, per accedere all’indicibile, che è la provocazione del nuovo, il suo accadimento ai confini dell’invisibile. Un anacroniSummer, 2004, olio e pigmenti su tela, cm 140 x 140

smo forte, il suo, fatto di esaltazione titanica, di sfida ad ogni pacificazione formale, ad ogni moto di quiete. Siamo in quella the possiamo definire, una sperimentazione a forte tensione romantica, dove volutamente si fanno prevalere le motivazioni che vengono da impulsi vitali, destati dalla voglia di fare, di fare apparire sulla tela i fantasmi della mente, generati dalla vita ma desiderosi di avere una propria esistenza particolare, sia pure colta in un attimo preciso, che corrisponde ad uno scatto di umore, ad una prevalenza di colorazioni ottimistiche, oppure ad una di rabbia o di delusione. L’informale ha questo di bello, di essere astrazione libera da costrizioni geometriche e quindi dalla freddezza olimpica della riflessione, del dubbio, del ripensamento. Qui gioca un eros della pittura, che si sente liberato da ogni costume, da ogni peso della convenzione e torna a fare scorribande, per i boschi del desiderio, per le labirintiche scene del caos, che si aprono e si chiudono, offrendo prospettive diverse, modificando l’ottica stessa del paesaggio pittorico, caricandolo di effetti orizzontali e verticali, uniti a tratti da mosse trasversali, che lo fanno divenire un tessuto. Un tessuto vitalizzato dagli effetti di luce che Lo Giudice evoca dalla stessa materia impastata in maniera trasfigurante, illusiva, testimoniando così della lettura attualizzan-

te dei grandi maestri italiani, da Corpora a Vedova, da Turcato a Scialoja, dall’acquisizione della cultura dell’improvvisazione e della contaminazione, tipica di una fase immortale dell’avanguardia novecentesca in pittura come in musica, in una sorta di metafisica dadaista che ha assorbito lo spirito gezzistico, come nuovo metodo per sfruttare gli automatismi della mente e del corpo, la grande risorsa dell’intuizione.Tutto questo per dire che siamo in un pieno di complessità, che splende in ogni suo momento, come in una favola barocca dove tutto è circolazione arteriosa, essenziale estrinsecazione di una volontà di potenza di indole creativa e nessun elemento vuole sottomettersi all’altro, ma primeggiare nella tensione tra l’estensione e la verticalità. Così, in uno squilibrato equilibrio si viene a cogliere una radicale idea della pittura, come sfogo di tensione, come luogo di accadimento del frammento che mi richiama il Borges di sempre, quello che si chiede perché non gli spuntano le ali per poter volare e il perché non possa trasformarsi in fiume impetuoso, che porti il suo nome a scorrere come una minaccia apocalittica e che gli fa affermare, in questo nostro tempo di tramonto:“Sono la contraddizione assoluta, il parossismo delle antinomie e il limite delle tensioni; in me vi sono vapori e scintille, inondazioni di fuoco e incendi d’acqua”. Culmine e abisso, insieme!

Senza titolo, 2004, tecnica mista su legno, misure variabili

Armando Santelli Antonello Negri I lavori di Santelli degli ultimi dieci anni sono riconducibili a un’area di figurazione che si direbbe nuovamente vitale dopo esser stata messa tra parentesi a lungo, a vantaggio di operazioni esclusivamente o più marcatamente mentali, soprattutto in Italia. Il pensiero, nel suo caso, passa attraverso una forma di comunicazione artistica tradizionale, quella della grafica, virtuosisticamente applicata al più elementare supporto al quale ricorre il disegnatore-pittore (ancorchè qui stropicciato, con un’allusione visivamente molto efficace all’idea di consumo, o consunzione). I grandi disegni tradiscono ascendenze di certo più nordiche che mediterranee. Uno dei temi che attraversano il lavoro di Santelli, quello della “carne e ferro”, nasce negli anni della Nuova oggettività tedesca, quando uomini e macchine cominciavano a mostrare sinistri incroci; lo stesso tema, sempre in Germania, è stato ripreso e sviluppato negli anni Sessanta, in modo particolare a Berlino. Credo si debba guardare in tale direzione per dare al lavoro di Santelli delle coordinate storiche e di tendenza. Come in tante opere di artisti di

Maurizio Mazzoleni per le Segrete di Bocca in 3° pagina Crono-Topi in evoluzione 2004,Tecnica mista su carta, cm 29 x 42

quell’ambito, gran parte dei suoi personaggi sono circondati da macchine, in ambienti di produzione sia arcaici Hai sistemato i bicchieri?, sia tecnologicamente avanzati Spari tu o sparo io?. Ma appare evidente che anche interni domestici Aspirante parricida, ambientazioni rurali Raptus e non luoghi Graziato, Senza Pietà sono soltanto avanzi di meccanicovirtuali comunicatività (o, ovviamente, non comunicatività). Nei disegni grandi la “macchina” è un basso continuo che si sente anche quando non si vede; è dà il ritmo. Ma il filo conduttore dell’opera di Santelli è la mancanza di ritmo. I personaggi che ritrae non stanno al ritmo; seguono invece la natura, la loro natura, come M, il mostro di Dùsseldorf del leggendario film di Fritz Lang (siamo ancora in Germania, non a caso). Che cosa ci può fare - si chiede nel film Peter Lorre - se la sua natura è in conflitto con le buone maniere di tutti gli altri, con le maniere dettate da ritmi che vanno bene a tutti ma non a lui? Non può farci nulla; e meritare il codice a barre che gli compete. Cod. N° 031, Urlo negato, 1995 grafite e inchiostro su carta, cm 71 x 101

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Cod. N° 62 Il bacio di Erika e Omar 2002, grafite e inchiostro su carta, cm 71 x 101

GIOVANNI IUDICE Galleria Forni A Bologna dal 13 novembre al 9 dicembre 2004 La luce bonnardiana della Stanza, 2000, ripensata sulla tradizione nuova dei Freud e dei Pearlstein. Così, in sintesi, e a voler essere generici, si potrebbe racchiudere in slogan l’approccio pittorico di Giovanni Iudice. Ma si sarebbe, appunto, generici, e ingenerosi.

Iudice non muove da modelli rassicuranti scegliendosene epigono. Una tradizione riconosce, ma con amore feroce e lucido, senza rispetto. Questo dicono, primariamente, le misure fiamminghe delle tele e delle tavole, sulle quali egli interviene con lavorio cautelato, assor-

Giovanni Iudice, Nudo e poltrona, 2004, olio su tela, cm. 100 x 100

to, in cui lo scrutinio di ogni passaggio comporta l’addensarsi lento e meticoloso dei toni, dei veli, come per coagulo luminoso. Circoscritto, padroneggiabile è l’ambito della definizione pittorica, ossessione sottile della finestra e, più, spazio rappreso in cui l’arroganza della visività può ribaltarsi, per accelerazione deviazioni infinitesime, in passo visionario. Alla visione, al regard, egli si rivolge elidendo ogni affettazione di stile e di modo, con sguardo diretto e arguto, con l’umiltà, in prima istanza, di un what you see complice della storia dei rapporti tra pittura e fotografia, senza l’abbigliamento di una preventiva clausola di sottrazione di trascrizione. Altro gli sta a cuore. Il farsi forma e, più, il farsi clima emotivo della scena attraverso la luce; della luce, quell’incidere sui corpi, quel bagnarli delle proprie temperature resti-

tuendoli in sorta di apparizioni di dubitante fisicità, di sfuggente plasticità, di inafferrabile sensualità, ma di intensa presenza; della presenza, quella reticenza narrativa, quella istantaneità atmosferica, come momento non esemplare di una fluenza luminosa che vale il tempo. Ecco, dunque, l’operare sui toni in diminuendo, come scavando nell’ombra, negli interni, che rimontano alle bianchezze di luce diurna senza algori mentali, come per transito naturale d’affetti. Ecco, per converso, i paesaggi marini e, più, la scommessa tematica di Nudo nell’orto, tentare condizioni luminose alte, piene, quasi un nitore che la luce solare rende esemplare, fra dorature meridiane e toni argentini. Iudice va saggiando, in questo suo ancor breve corso d’opera – ma che ne fa, già, una delle figure problematicamente più autentiche e interessanti della nuova

generazione, una sorta di metabolizzazione definitiva dello iato tra modernità e tradizione, tra vero ottocentesco e artificio mentalmente analizzato novecentesco, in nome di una normalità dello sguardo che sia consapevole, colta, orgogliosa dei propri retaggi storici, ma a un tempo capace di esercitarsi per visioni fragranti, dirette, non allusive ad altro che alla propria qualità d’esperienza. Non è un caso, in tal senso, che egli operi attentamente, parimenti che alla identificazione del tono luminoso, sul taglio d’immagine, bordeggiando i protocolli di genere ma sempre immettendovi deviazioni significative: non è, il suo, un comporre ordinato, ma un continuo decostruire e ricostruire, sino al punto in cui la visione si innesca di una sorta di teso equilibrio interno, appena riverberante ma fondamentale per far lievitare la più esplicita azione sui valori di tono.

Giovanni Iudice, Nudo con sedia e sottana, 2004, olio su tela appl. su tavola, cm. 58 x 119

(…) E’ un lavoro con un destino, quello di Iudice: del quale, è certo, sarà assai fruttuoso esser curiosi.

Flaminio Gualdoni dal catalogo Giovanni Iudice dipinti e disegni edito da Mazzotta nel 2002

GALLERIA FORNI - Bologna, Via Farini 26, tel. 051 231589, [email protected], www.galleriaforni.it

TRANSITI & MIGRANTI Riccarda Montenero Donato Di Poce L’artista Torinese, ma di origini pugliesi Riccarda Montenero, completa il suo periplo espositivo Milanese con queste due bellissime personali di libri d’artista dal titolo “Transiti”presso la Libreria Bocca, e “Migranti”, installazione di un gruppo scenico scultoreo presso Bazart, dopo aver dato un saggio delle sue qualità scultoree nella mostra collettiva alla Ca’ Bianca Arte “ La scultura lingua viva”. Transiti, si compone di una serie di libri, papiri, pergamene, rotoli, pagine, realizzate in metallo e carta che testimoniano anche la sua passione per il disegno. Infatti all’interno e sulle superfici visibili delle opere appaiono ombre, segni e sagome con la presenza forte, essenziale e nuda del corpo, quasi a voler riscattare in questo viaggio di memorie dentro la solitudine globale dei media la centralità dei rapporti, del corpo umano cancellato dalla storia, in una catarsi di solidarietà e presenza In-differenza, 2003 quasi ossessiva. Migranti, testimonia più realisticamente l’ialluminio, grafite dea del viaggio e ricerca di un nuovo habitat interiore e fisico, con poetiche valigie, orologi e corpi di metallo e catrame, assemblaggi di carte di viaggio e di memoria, frammenti di lettere interiori e snodi esistenziali e lirici, che vogliono fermare il tempo per varcare e allargare i confini fisici del mondo alla ricerca dell’infinito e di un nuovo respiro oltre il catrame dei sensi e le clonazioni mediali, tecnologiche e umane. Il migrante nel suo anelito di vita e di libertà, con la sua valigia di sogni e di speranze si oppone inconsapevolmente anche contro la massificazione e l’omologazione di civiltà, diventa anche una scheggia impazzita che scardina certezze, dogmi e fondamentalismi civili etici e religiosi. Queste opere hanno la sacralità delle preghiere di libertà, sono rotoli di desiderio che si dipanano tra le pagine ferrose e leggere insieme, tra pergamene che portano il peso del silenzio vissuto con ostinazione e l’assenza sopportata con forza eroica, sono valigie e pagine segnate dal passagIl viaggio, 2001 gio dell’uomo migrante e clandestino che come dice l’arrete, catrame tista stessa sono “uno sguardo poetico nelle contraddizioni

del pensiero globale che deprime l’approccio profondo, totale e libero alle cose del mondo, che spinge il diverso nel sospetto, lo combatte e lo costringe al peso del limite.” In questi lavori, l’identificazione tra l’artista, l’opera e il lettore-viaggiatore è totale, poiché le opere attraggono, vogliono essere toccate, sfogliate e lette, viste in un connubio ottico-aptico-emozionale che lascia senza respiro perché coincide e colma un vuoto esistenziale che è di tutti e da cui non ci si può e forse non si vuole nemmeno sottrarsi, perché il messaggio ultimo poetico estetico e civile che ci arriva è che o ci si salva e si vive insieme o si muore nella polvere delle parole. E allora accogliamole e viviamole insieme, materie e segni parole e sogni, come stazioni di bellezza e di speranza da cui non solo si transita ma vi si arriva e vi si abita come in un nido di carta e ferro da cui si può volare leggeri sulle nuvole dell’essere in un cielo interiore che ci lascia sempre più soli e agghiacciati.

FRANCESCO DOSSENA Giorgio Salmoiraghi SpazioBoccainGalleria dal 28 Ottobre al 14 Novembre 2004

Natura morta con dragone, 2004, olio su tela, cm. 50 x 50

SpazioBoccainGalleria dall’11 al 21 Novembre 2004

Francesco Dossena è un giovane pittore, ricco di talento, che felicemente rinnova i valori classici dell’Arte occidentale. Possiede notevoli capacità disegnative, compositive e tecniche, come ben si può vedere nei dipinti di figura. L’ultima opera che ha dipinto è una deliziosa madonnina, eseguita con virtuosismo, tanto da apparentare il giovane maestro ad Antonello da Messina. Squisite poi le Nature Morte, di impronta fiamminga, nelle quali è palpabile la resa degli oggetti, siano essi frutta o elaborati tessuti. Invito l’amatore d’Arte a godere di come il pittore ricerchi la perfezione di particolari importanti, ad osservare come dipinge gli occhi delle figure: sono occhi che vedono e ci comunicano le sensazioni la vita e l’anima del soggetto.

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aurizio

Mazzoleni

L’espressionismo di Isa Stella Umberto Marinello L’Opera di Isa Stella copre un periodo di trent’anni di attività, trent’anni in cui l’artista ha compiuto un percorso evolutivo di grande interesse sondando le possibilità espressive di vari movimenti che hanno caratterizzato l’arte del nostro secolo alla ricerca del proprio io artistico. Si avvicina dapprincipio all’Impressionismo, ma questo approccio dura poco. Molto presto è attratta dall’esperienza postimpressionista e poi approda alla pittura dei Fauves con il tipico ispessimento della materia/colore e con l’introduzione di pennellate forti che sono il preludio a quella libertà gestuale che caratterizzerà la sua pittura successiva. Poi, all’Accademia Internazionale di Salisburgo, c’è stato l’incontro con l’Espressionismo, alla scuola del maestro Jacobo Borges. Si tratta di una vera e propria folgorazione, perché l’Espressionismo le permette o, meglio, le fornisce la chiave per esprimersi in tutta la sua forza, per dare consistenza espressiva al suo forte carattere. Un Espressionismo che non abbandonerà più, nemmeno quando, nell’ambito della sua evoluzione, approderà prima alla pittura informale e poi all’Astrattismo. Sono espressioniste quelle pennellate così marcate, spesso addirittura violente; sono espressionisti quei colori così decisi, così netti, così vigorosi. Sono espressio-

nisti la densità insistita delle emozioni, il riferimento continuo alla realtà contemporanea, il modo forte di affrontare i propri problemi esistenziali e di reagire ad essi. Ma l’Espressionismo di Isa Stella non ripete pedissequamente i canoni della corrente, non copia, non imita, non è asservito a quello dei grandi maestri. Perché in lei c’è una variante.Vi inserisce infatti quello che è un lato peculiare della sua personalità: Isa Stella è infatti una donna mediterranea che ha nei propri geni la solarità della nostra atmosfera. E quindi ecco i colori vivi, squillanti, aggressivi, forti. Colori che parlano di vita, una vita caotica se vogliamo, ma pur sempre prorompente, esplosiva. Ed è proprio in questa esplosione che sta la forza della sua pittura. E quando si inoltra nell’informale e nell’astratto, conservando l’impronta espressionista, lo fa perché ha sempre più bisogno di sentirsi libera, di riscattarsi dalle limitazioni della forma. C’è la vita nelle opere di Isa Stella, ma ci accorgiamo che purtroppo questa vita a volte non è più godibile, che la persona scompare per lasciar posto alla massa, che l’uomo sembra perdere la propria identità. E’ il contrasto tra la solarità dell’atmosfera e la fatica di esistere.

Giorgio Scaini

per quella evidentissima padronanza dello spazio e per la consumata capacità di dominio delle sue infinite, possibili articolazioni: elementi questi che ci rimandano - ma solo per assonanze ideali - a quel periodo della storia dell’arte durante il quale lo spazio fu reso oggetto di “forzature” e “dilatazioni” portate concettualmente e visivamente sino alle più estreme conoscenze. Ed è in questo tipo di spazio che si “muovono” le figure di Scaini; leggere e fluttuanti ma anche densamente plastiche e volumetricamente compiute; leggiadre ed eleganti, incorniciate da un divertito lirismo ma al contempo descritte in forze solide e in vibranti brani di poesia e di accurate introspezioni psicologiche. Ma il “referente” ideale dell’Artista non è reperibile internamente a un solo periodo della storia dell’arte: si possono ignorare i linearismi sinuosi che ci rimandano ai preziosismi del Liberty o alla monumentalità elegante di certe espressioni della Art-Deco? L’iconografia di Scaini attinge ad un repertorio vario e ampio che muove dal suo patrimonio culturale (frutto di sudori e conoscenze, di faticosi processi di assimilazione, impagabile bagaglio per un artista professionalmente serio) e si congiunge a una “quotidianità” reinventata dalla fantasia e da un “che”, sempre presente, improntato ad una sottile ironia e ad un disincantato stupore. È una realtà “rivisitata” con gli antichi strumenti della simbolizzazione e dell’allegoria, e filtrata da interdimenti espressivi direttamente collegati alla sfera delle risonanze interiori. Scaini si esprime con forme dinamiche, espressionisticamente dilatate e, a volte, futuristicamente compenetrate fra loro; forme perfettamente levigate alternate alla freschezza di modellati incisi o “graffiati” per imbrigliare la luce in inusuali effetti chiaroscurali, di indubbia suggestione. Ma la suggestione non è solo affidata all’eleganza delle forme o, semplicemente, al fascino tematico di molte opere e alle loro sofisticatissime stilizzazioni; vi concorre anche il colore, elemento di una secondaria importanza nella complessiva economia di tantissimi lavori. Sculture policrome, dunque, che rinnovano suggestioni timbrico-pittoriche ove la commistione fra materiali eterogenei (terracotte, metalli, patine bronzee auree e

argentee, ecc.) alimenta, anch’essa, quella sensazione di ricchezza intrinseca, quasi crisoelefantina, e di grande libertà espressiva. Quello di Giorgio Scaini è un atteggiamento essenzialmente figurativo che si avvale però di una imagerie non condizionata dalla mimesis; le sue immagini sono liberamente interpretate e guidate da una profonda sensibilità (plastica e cromatica) e da una feconda carica inventiva. La sua figurazione è retta da una scelta folta di valori essenziali ed umori psichici estratti direttamente dal profondo. Le opere di Giorgio Scaini rifuggono perciò l’atteggiamento “contemplativo” e ci invitano ad uno scambio emozionale, improntato a un sistema di rapporti e di intime relazioni con la complicità di una tecnica preziosa, di un linguaggio sofisticato e colto, e con le armi accattivanti di un “mestiere” che, può avvalersi di mille diverse e sorprendenti soluzioni plastiche-formali.

il cui mattino “cominciò con canzoni e poesie”. Spesso cerchiamo nelle sue parole il filosofo, il teologo o quel mistico che non incontrò mai Dio, per usare le belle parole di Padre Marino Rigon - primo traduttore dal bengali di Tagore in Italia - ma che lo chiamò, che lo sognò da grande poeta qual era. Proviamo allora ad ascoltare solo il poeta Tagore, che si lasciò indietro le vecchie ampollose forme del bengali-sanscrito per scrivere nella lingua di tutti i giorni, inventando una nuova “poesia in prosa”, come la chiamava egli stesso: rubava alla metrica tradizionale della doha, poesia a strofa popolare, reinventando al tempo stesso nuovi schemi metrici. Una prosa musicale e poetica. Una poesia che si serve di una lingua così semplice da lasciarci stupefatti. Ed era una poesia scritta per essere cantata. Per la prima volta la musica non è la grande assente nelle opere di Tagore pubblicate in Italia. Prese da diverse raccolte, 24 canzoni - Pioggia, Amore, Puja sono un omaggio alla poesia e alla musica del pensatore in-

diano: l’artista Arup Kanti Das ha curato la produzione delle canzoni musicate da Tagore e la registrazione avvenuta negli studi JMD Sounds di Kolkata nel 2003; un coro di grandi artisti, tra cui spiccano il giapponese Azuma, l’italiano con un cuore indiano Pietro Coletta, il cinese Ho-Kan e il giovane albanese Aghim Muka, con i loro disegni originali hanno celebrato “la voce universale” del grande poeta e impreziosito questo piccolo volume. Un omaggio alla ricerca di Tagore, al suo sogno, al suo Bengala dorato, alla sua meditazione che si trasforma in canto, a quei canti che il poeta stesso diceva, con dolcezza,“non condurre in alcun luogo”. Un brindisi alla vita e a ciò che è proprio delle anime più nobili: la leggerezza.

Franco Migliaccio

L’albero della vita, 1987 terracotta patinata cm 95 x 100 x 35

Osservando le opere di Giorgio Scaini ci viene da pensare alla irripetibile stagione del Barocco. Non certo per l’indulgenza a quel senso ornamentale, aggraziato e gentile - mai ridondante e fine a se stesso - intenso come serissimo gioco sperimentale; nemmeno per un diretto richiamo culturale ed iconografico, più o meno latente, con la grande arte del Seicento, ma, piuttosto,

Rabindranath Tagore Anna Schoenstein “Un saluto a chi mi conosce imperfetto e mi ama”. Così scriveva Tagore, con disarmante modestia, in una cartolina indirizzata ad Albert Einstein, incontrato negli anni Trenta a Berlino. Un momento che fu, raccontano i testimoni, come se due pianeti fossero impegnati a conversare: al pianeta Einstein, pensatore con la testa di un poeta, rispondeva il pianeta Tagore, un poeta con la testa da pensatore. Poeta, pensatore, amico dei bambini, mistico religioso, patriota: un figlio dei saggi dell’antica India, Ake Ueda

L’abbandono, 2000, acrilico su carta, cm 80 x 100

Primo ballo, 1988, terracotta policroma, cm 70 x 57 x 25

SpazioBoccainGalleria presentazione 21 Ottobre 2004, ore 18,30

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Premio Movimento Segrete di Bocca Premiazione

Giovedì 14 Ottobre 2004 - Ore 21,00 Libreria Bocca - Galleria Vittorio Emanuele II, 12 - 20121 Milano - Tel. 0286462321

Artisti finalisti

Marco Arduini

Carla Benvenuto

Ines Daniela Bertolino

Manuele Blardone

Paolo Bosisio

Gabriele Buratti

Andrea Buzzi

Simona Ceccarelli

Andrea Cereda

Christian Evallini

Aghim Muka

Alfredo Omaña

Rosa Quaglieri

Jeannette Rütsche

Giacomo Sampieri

Sergio Sansevrino

Snebur

Matteo Soltanto

Eugenio Giuseppe Tursi

Eltjon Valle

La giuria è composta da:

Raphaelle Blanga, Rossana Bossaglia, Sergio Dangelo, Philippe Daverio, Alessandra Delfino, Barbara Ferriani, Alessandro Papetti Presidente onorario

Giacomo Lodetti

Alberto Ghinzani, scultore-pittore Giancarlo Cerri Ghinzani, scultura di novembre, 2000 lamiera e resina dipinta cm 58 x 28 x 20

Alberto Ghinzani (1938),ha studiato e si è diplomato a Brera avendo avuto come maestro Marino Marini. Ghinzani l’ho sempre visto come scultore pittore.La qual cosa,a parer mio, non guasta affatto. Alcuni esempi nella storia dell’arte moderna: Medardo Rosso, Marino Marini, Lucio Fontana, Alberto Giacometti, Umberto Milani. Come si può notare, Alberto Ghinzani è in assai buona compagnia;gli artisti sopra menzionati, tutti, chi più chi meno, sono stati scultori-pitto-

ri. Il ‘più pittore” di tutti? Umberto Milani che, negli anni Cinquanta-Sessanta fu pittore informale d’avanguardia pur vincendo, nel 1963, la Biennale di Venezia come scultore. Dopo un avvio improntato alla attenta osservazione della natura nella sua continua perenne metamorfosi, nei suoi momenti più intensamente drammatici di cui l’artista si rende interprete tramite l’osservazione del “particolare” reso protagonista (anni Sessanta-Settanta) con opere quali Traccia e Sull’acqua, Ghinzani procede nel suo percorso con altre opere “costruite”tendenti ad una figurazione maggiormente “bloccata”che perviene ad una aggiornata idea di monumentalità.Si vedano,in proposito,le sculture facenti parte del ciclo “Pianura”dove,al di là dei precedenti “paesaggi”,viene sapientemente inserita la figura. La vera importante “svolta” avviene intorno alla metà degli anni Ottanta, grazie anche all’uso di nuovi materiali adoperati dall’artista per ottenere effetti materici e cromatici di sicuro effetto plastico e forte impatto visivo. Ghinzani, da questo periodo in poi,si affida sempre meno al bronzo usando prevalentemente lamiere, resine e vernici industriali per l’esecuzione dei suoi lavori che — sul piano estetico — pervengono ad un sostanziale mutamento. Opere quali Ritratto perduto e Antiche mura (1987),via via sino alle pittoricissime “Sculture di novembre”, realizzate tra la fine degli anni Novanta ed i primi recenti anni del nuovo millennio, stanno a testimoniare la sua innata predisposizione e sensibilità pittorica. Non soltanto quando usa i colori primari ma, soprattutto, quando propone la vastissima gamma dei suoi amati “grigi” e le coloratissime “terre”. In proposito si tengano presenti queste opere: Grande piega

notturna, Pagine (1999) e Casa dell’inverno (2002), dove si noterà l’infallibile “occhio pittorico” del maestro pavese. Ho sempre pensato Ghinzani come artista tra i più completi incontrati durante l’arco della mia esistenza,sicuramente il più colto tra quelli della mia generazione da me conosciuti. Completo perché è finissimo nel disegno e, come già detto, con i colori ci fa ciò che vuole egregiamente approdando poi alla scultura pienamente consapevole di ciò che vuole ottenere. Infine è profondo conoscitore della storia dell’arte in tutta la sua complessità! Alberto Ghinzani ha percorso il suo itinerario artistico tenendo varie “personali” in rinomate Gallerie tra cui ricordo:Galleria delle Ore,Milano (1966-’70-’71-’95), Galleria Documenta, Torino (1974), Galleria Bergamini (1975-’81), Galleria Palladio, Lugano (1987) ed ha esposto in luoghi pubblici tra i quali:Museo Butti,Viggiù (1995),Museo di Sarnano (1997),Castello Sforzesco diVigevano (2002).Per ciò che concerne rassegne collettive di prestigio ha partecipato alle Biennali di Milano, alla Quadriennale di Roma del 1999 e ad altre importanti manifestazioni internazionali. Ora la Città di Torino gli dedica due grandi esposizioni contemporaneamente, una a Palazzo Bricherasio, l’altra al Circolo degli Artisti, mentre a Salò si terrà una sua importante mostra concernente la parte grafica,al Museo del Disegno. Ecco, dunque, l’opportunità di conoscere meglio uno tra i più significativi artisti della generazione anni Trenta. Le mostre di Ghinzani si terranno: a Torino, Pal. Bricherasio/Circolo degli Artisti dal 16 settembre al 20 ottobre a Salò, al Museo del Disegno dal 6 settembre al 6 ottobre

Roberto Plevano incontra Gaetano Orazio

Gaetano Orazio “Sacrificio II”

Roberto Plevano

Gaetano Orazio

L’incontro con Gaetano Orazio è avvenuto casualmente alla presentazione di un libro di poesie dell’amico Alberto Figliolia alla Mon dadori di Milano. I nostri sguardi si sono incontrati e ci siamo chiesti dove ci fossimo già visti. Sì, ci eravamo già visti alla mostra sul Nuovo Costruttivismo alla Libreria Bocca a cui partecipavamo entrambi e mi ricordai anche di un interessante servizio televisivo di Philiphe Daverio (Passe-partout di R.A.I.TRE) su di lui. Ho visitato il suo Studio, una cascina immersa nel verde della Brianza, sono rimasto colpito dal personaggio e dalla sua opera. Da qui la necessità di conoscerlo meglio e di questa sua testimonianza. Parlare con lui è come respirare aria pulita di montagna, intuisci di avere di fronte un uomo particolare, intensamente poetico e spirituale. Ti seduce accompagnandoti mentalmente nel suo fiume da cui trae ispirazione, dove tutto vive e scorre, in una comunicazione intima, profonda, vera, primordiale. Lo sguardo è da animale ferito ma non domato, limpido, lucido, buono, con lampi d’immensa dignità, e ti invade un senso immediato di simpatia e amicizia. Mi ha impressionato particolarmente un’opera che occupava tutta la parete di una grande stanza al piano di sopra. Era la stiva di una nave con centinaia di schiavi neri legati a ceppi di ferro in piccole bare nel viaggio supplizio dall’Africa alle Americhe ai primi dell’Ottocento, il tutto reso in una inquietante serialità astratta. Immensa e potente metafora della brutalità e insensatezza del male. In questi tempi mostruosi di finta e martellante comunicazione politichese, pubblicitaria, tecnocratica, nella tragica farsa finale di un potere cinico, violento e mistificante, ascolto la tua voce e mi viene di credere ancora nell’uomo, entità poetica del cosmo. “Dire quando ho iniziato a dipingere è difficile, forse verso i venti anni, anche se fin da ragazzo ho sempre sentito il bisogno di disegnare; il mio è un percorso anomalo.All’età di quindici anni ho fatto il mio ingresso nel mondo del lavoro in un’officina metalmeccanica, ci sono rimasto trent’anni, pochi giorni dopo esse-

re arrivato a Milano da Angri in provincia di Salerno. Avevo ancora addosso il profumo della mia terra, per capirci quella dei pomodori San Marzano, terra ancora riscaldata dal Vesuvio che vedevo lontano dall’alto di casa mia, mi portavo dentro ancora l’azzurro del mare e la visione dei monti Lattari che con le improvvise pioggie trasformava le strade del paese in ramificazioni fluviali. È strano come nel tempo abbia rimosso tutti i ricordi che mi legavano a quei luoghi; è solo da pochi anni e con la pittura che ho rimesso in gioco tutto. La terra lombarda mi ha affascinato fin dal primo giorno che l’ho incontrata e col tempo ho sentito il bisogno di renderle omaggio. Mano a mano che maturano gli anni la pittura è il viatico per comprendere l’amore e l’attenzione che ho per le cose, il caso ha voluto che lo faccia in questi luoghi. Le famose otto ore che quotidianamente trascorrevo in fabbrica non hanno intaccato quello che era ed è il bisogno di conoscere e partecipare al mondo. Solitamente ho condotto una vita appartata ma sempre con attenzione agli accadimenti artistici. La mia è una ricerca sul “luogo”, ho rivoltato sottosopra per anni la periferia milanese cercando coordinate tra il fumo di una ciminiera e un campo di frumento, mi sono perso nell’individuare le relazioni tra le architetture industriali e quelle vegetali che vivono ai margini degli insediamenti urbani, sempre da solo con un’unica pretesa: la natura come maestra. Sono riuscito, lo spero, a conciliare il lavoro in fabbrica con l’amore per la pittura, a non accettare compromessi, a non far diventare la pittura un lavoro; essa è per me l’unica possibilità di riscatto da un quotidiano che livella in basso. Ognuno di noi è possessore di quelle che Thoreau chiamava «dispense celesti». Le mie penso siano nelle mani, depositarie di un fare che prende corpo solo nella natura. Quello che faccio è un lavoro di sostanza, se sfioro una foglia di granoturco e poi dipingo voglio che le mani rendano la sostanza della foglia del granoturco altrimenti non dipingo. Ritorno ai primordi, all’uomo delle caverne: apro gli occhi e saggio la luce, i profumi, gli umori del giorno, li faccio miei e cerco di dare concretezza all’avvenire. Nessuna bravura esecutiva, anzi, mi interessano gli inciampi perché pretendono più attenzione e quindi l’uso delle mani è indispensabile.Tutte le cose viventi non sono forse plasmate da grandi mani invisibili? Negli ultimi anni,oramai dieci, mi sono «trovato» lungo il torrente che scorre accanto all’Abbazia di San Pietro al Monte in Civate (Lecco); è lì, in quel microcosmo che con la pittura mi adatto alla durata della cose. Quando ritorno dal torrente sono solito guardare indietro, mi piace pensare che il mio passaggio in quel luogo non abbia mutato nulla e che in mia assenza tutto scorrerà come sempre. Mi domando spesso

se la poesia abbia bisogno delle nostre parole, se la luce a cui i vegetali si elevano abbia bisogno dei nostri colori e dei nostri gesti. La vita è una lunga convalescenza, faccio il possibile per non affrettare i tempi per arrivare al termine del vagito che ho urlato alla nascita. Mi porto alle cose che mi circondano con la medicina dei giorni, con lentezza e discrezione riesco a volte a sintonizzare il mio con i due respiri della Salamandra, a seguire una processione di lumache, a star dietro ad una libellula fin quando nei campi non si spengono le lucciole o l’ultima lampadina delle case. Riesco a sostare sulla curva di un fiume come ad un angolo di marciapiede, mi emoziono a guardare il lilla dei fiori della cicoria comune; quando posso mi dono e chiedo conforto al buio e al silenzio. Se è vero, come spesso si dice, che in arte e in poesia tutto è già stato detto, è anche vero che io non c’ero.Vorrei, ora che ci sono, vivere fino in fondo ciò che mi è dato, anche la possibilità di intuire che c’è un filo sottile che lega la caduta di una foglia e la traiettoria di un aereo supersonico: è sicuro che atterreranno. Solo quando dipingo mi permetto il lusso di velocizzare l’istinto e quasi mai riprendo i lavori già eseguiti. Non voglio che passi troppo tempo nella breve distanza che intercorre tra i pensieri, le braccia e le mani. La parvenza di «non finito» nei miei quadri sarà la completezza che gli daranno altri occhi se li guarderanno”.

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Gaetano Orazio, “Orizzonte”

Verso l’incontro L’abbraccio di Roland Van den Berghe Annie Reniers Da sinistra a destra 1 New York, 1917 Acquired for Marcel Duchamp by Walter Arensberg and Frank Stella at Mott Iron Works

Nel marzo del 2004 Roland Ven den Berghe fece girare la macchina da stampa senza imprimere le pagine del giornale Arte Incontro in Libreria Aprile-Giugno n. 45; producendo 248 riviste in bianco, che in data 30 marzo 2004 furono presentate al pubblico, in occasione della mostra personale, alle Segrete di Bocca. Il primo incontro che ho avuto con l’opera di Roland risale a molto tempo fa, quando espose nella galleria dell’università di Bruxelles alcuni volumi puri come la piramide, il cubo, la sfera.Volumi geometrici che sem-

bravano dipinti con la stessa tonalità dei colori adoperati da Mondrian. Sorse in me l’idea di un filo rosso fra la ricerca creativa di Roland Van den Berghe e l’opera di Mondrian. Quest’ultimo, spiega che davanti a un paesaggio di campagna al plenilunio, basterebbe tracciare una linea dalla luna verso la terra per ottenere una perfetta realizzazione compositiva. In una tela s’adempie un incontro multiforme: maschile e femminile, realtà naturale e realtà spirituale, contrapposizioni fra l'orizzontale e il verticale che formano l'incontro dinamico in un equilibrio fra posizione e contrapposizione (cfr. Mondrian, Realtà naturale e astratta.Trialogo du-

rante una passeggiata dalla campagna verso la città, in De Stijl 1919). Una sintesi di tale assunto filologico e critico lo si può scorgere nella croce del giornale bianco di Van den Berghe. L’apertura del giornale, infatti, consente allo spettatore di percepirne le pieghe e sostare dinanzi alla croce, leggendone i segni, identificabili nelle lettere V e A: una filosofia dei contrari, in un unicum, il cui rovesciamento delle parti nell’indicazione – segno è presente. Avviene così dell’Ave Maria come esperienza di croce e per il sigillo di Salomone, implicitamente suggerito; esperienze, queste, seppur insolite di “rovesciamento” care a Marcel Duchamp. Inoltre, vi è un chiaro senso di identificazione da parte dell’artista nell’opera, attraverso le tre lettere presenti atte a suggerire uno pseudonimo “V.V.V.” (chiaro riferimento alla rivista di Breton) con cui Roland Van den Berghe firma i suoi testi, come, tra l’altro, si vede sulla pagina da lui chiamata Immixture del giornale Le Monde (esposta alla mostra delle Segrete di Bocca) col titolo Eduardo e Peppino sont entrés dans la légende. Tornando, solo per un istante, a Mondrian focalizzia-

mo l’attenzione sull’importanza del quadrato bianco come centro di contemplazione (Ker mit Swiler Champa), ricordando che negli schizzi, l’artista, cerca una proporzione dei piani per attrarre lo sguardo dello spettatore attraverso il quadrato bianco. In Mondrian l'opera è un momento in evoluzione che cresce nella mente dell’osservatore; medesima sensazione si avverte nell’opera di Roland Van den Berghe. Una seconda mostra, sempre all’università, raffigurava tre pareti con una serie di fotografie. Ho pensato, "cosa c'è da vedere?", questo perché lo spettatore in un primo momento non sa cosa deve guardare!. Poi ho visto un motivo ricorrente: la bicicletta con contadini e ragazze. Più attentamente lo sguardo ha focalizzato una gruccia, posta vicino a un albero e una casa, di sbieco, e ho pensato: "questo elemento rappresenta il dolore e la bici la gioia". Solo in seguito ho capito che il soggetto raffigurato era il Vietnam; un ragguaglio storico certamente molto discreto. Roland lavora con accenni, con un segno che poi cresce nella mente e diviene immagine quando gli elementi si incontrano. La bici è la gioia, tutti in Vietnam vanno in bici, nei villaggi, poi… è la gruccia! Dunque, positivo e negativo, gli opposti si incontrano quasi sempre per caso. La bici può anche ricordare la Roue de Bicyclette di Duchamp; e la gruccia In Advance of the Broken Arm come oggetti enigmatici, isolati in un regno intermedio tra realtà naturale e simbolo aperto a risonanze diverse nella mente degli spettatori, i quali possono trovare con l’immaginazione questa libertà di interpretazione grazie alla frazione d’interstizio, che esiste anche per l'artista. Quindi una libertà, un momento che si può definire coefficiente d’arte. Quando ho visto l’opera L'abbraccio, ho pensato: "ho capito l'incontro, l'incontro tra Pessoa-Duchamp, Roland-Duchamp". L’abbraccio rimanda a un’altra opera di Roland e di seguito tutte si richimano fra loro in un barlume di elemento che si sussegue sempre lo stesso nei suoi diversi lavori. Se guardiamo, per esempio, MUTU M', ritroviamo Duchamp nel titolo stesso, incontro tra R. Mutt, pseudonimo di Duchamp con cui ha firmato la Fountain del 1917 et Tu m', il suo quadro del 1918. La Fountain è un’orinatoio rovesciato a 90°. Dunque un oggetto che viene mostrato allo spettatore.Tra l’altro nella fotografia di Alfred Stieglitz di quell’opera vediamo i sei buchi dell’oggetto ormai enigmatico, posti quasi al centro dell’immagine, come una figura emblematica, simbolo di una totalità. Innalzare l’oggetto a 90° significa trasfigurare il naturale in dato spirituale. Nell’opera MUTU M' di Van den Berghe si vedono dieci buchi: è già un’interpretazione che va oltre i sei buchi di Duchamp; da sei a dieci, in cui la somma degli elementi 1+2+3+4= 10, la Tetractys pittagorica. Con il Quattro che sta alla base innova una visione del tetragramma.Van den Berghe ha alzato a 90° un oggetto che ha visto (e comprato per un fiorino simbolico) in una tabaccheria prestigiosa del '900 ad Amsterdam, trasferendo dall’orizzontale al verticale dieci sigari. L'artista da parte sua presenta allo spettatore una sorta di offertorio di contemplazione.Van den Berghe riprende l'atto unico di Duchamp, continuandola come fosse uno "spettatore integrato" (Cesare Brandi). La funzione critica di quest’opera risulta poi nel confronto dell’immagine emblematica con il denaro buttato in basso, chiara allusione al commercio. Qui il confronto è fra la trasparenza luminosa della tetractys e del tetragramma e il denaro. A questo punto, immaginando di partire per un viaggio fantastico, ci apprestiamo a leggere l’avvoltoio raffigurato su MUTU M' e sull’Abbraccio come simbolo della dea madre Mut, la dea egiziana. Con quell’idea si va in Egitto, dove Eduardo e Peppino de Filippo sono arrivati in mongolfiera dopo il giro del mondo nel 1999. Certo, non loro, ma Bertrand Picard e Brian Jones. I nomi sono stati

sostituiti da due ben più conosciuti in Italia. Quando un nome viene sostituito emblematicamente costituisce una profondità: vi sono due strati, dove uno nasconde l'altro, come se fosse lo pseudonimo o l'eteronomo. L’opera di Roland è cosparsa di simboli, ma i simboli non sono niente se non si parte dalla nostra vita, dal nostro sviluppo psicofisico. Alzando l'oggetto a 90° abbiamo una costruzione che rimanda alla vita dello spirito e non alle cose materiali. L’intreccio è sistematico: Roland, che vive in Olanda, incontra Mondrian e quest’ultimo incontra Duchamp nella mente di Roland. Pessoa incontra Duchamp perché ha scritto una poesia famosa sul tema della tabaccheria, molto nichilista, dove saluta qualcuno a distanza, e quel saluto è un riscatto che salva il mondo. La sua è una disperazione che parte dalla presa di coscienza che il mondo non ha senso, basta un gesto d'incontro, quasi d’amicizia, un legame e il mondo ritrova l'unità; anche se con un saluto. La poesia finisce col saluto e il mondo diventa di nuovo splendido. Se guardiamo i due giornali esposti qui nell’Abbraccio, l'Expresso incontra Le Monde, il Portogallo incontra la Francia. Se compriamo i giornali e li pieghiamo l'uno dentro l'altro per portarli via sottobraccio succede qualcosa. Il sigillo bianco di Le Monde, con dieci buchi, lascia un’impronta sull’Expresso, quando pieghiamo un giornale nell’altro, esso lascia un’impronta blu come il cielo del Portogallo.Tale impronta, che avviene sopra l'orizzonte, cambia sostanza (pensiamo al Grande Vetro di Duchamp con i due regni diversi) e contiene sei buchi, è più immateriale, è già celeste. Dunque: sotto l’orizzontale, il sigillo - simbolo di autenticità - è pesante, è un’oggetto, e qui sull’altro giornale c'è solo l'impronta a forma di mongolfiera.Tocca allo spettatore fare emergere il legame. L’invito è a noi rivolto, di adempiere a un gesto di unione: unire i due giornali come i due triangoli di perspex e farli incontrare, uno rivolto in su, sul quale è posato Le Monde, l’altro triangolo come una tenda che protegge l'incontro tra terra e cielo. Roland Van den Berghe trasmette messaggi da diversi paesi, sostituisce un piccolo testo di giornale con un altro, mettendo un messaggio personale su quelle pagine. Questa però è un’operazione che non si vede, ma si sa! È l'oggetto-concetto, non è arte concettuale, è il concetto-oggetto: l'astratto nel concreto. Il bianco in sé non è niente, se non attraversa un oggetto o se non sviluppa una vibrazione. Il collegamento con l’artista italiano, Manzoni, è facilmente collegabile. Nei suoi quadri con le cuciture, il fatto di tagliare e poi riunire di nuovo è un gesto di rimando emblematico. Anche Rückriem, lo scultore, l’ha fatto, tagliando la pietra per poi riunire le due parti (avviene una vibrazionie nel taglio e la scultura si sviluppa dall’interno). O il taglio di Duchamp nel Grande Vetro: succede qualcosa quando i due elementi si incontrano e per Duchamp l'opera non finisce, lascia il Grande Vetro incompiuto. Gli dava noia, e la lascia definitivamente incompiuta. L’invito a noi rivolto, ancora una volta, è di continuare e ultimare la sua opera…ancora incompiuta! .... al prossimo Arte Incontro

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2 New York, 1917 Marcel Duchamp Signed and dated on the bearer: R.Mutt 1917 3 Paris, 1950 Acquired for Marcel Duchamp by Sidney Janis Signed and dated on the bearer: R.Mutt 1917 4 New York, 1951 Marcel Duchamp Signed and dated on the bearer: R.Mutt 1917 5 Stockholm, 1963 Acquired for Marcel Duchamp by Ulf Linde Signed and dated on the bearer: R.Mutt 1917 6 Milano,1964 Reproduced by Arthuro Schwartz and Marcel Duchamp Signed and dated on the bearer: R.Mutt 1917

With the framed newspapers: 1/12 “recto”and 1/12 “verso” both part of the collection Koen Deprez, Brussels

With the envelops: 9/248 “recto” 9/248 “verso” collection G. Lodetti

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Sotto vuoto spinto

Attraverso gli sguardi

Valeria Modica

Mariola Vicentini

Eliana Colombino

Antonio D’Amico

Sotto vuoto spinto è una metafora del sesso “pronto da consumare” prodotto in serie e protetto da confezioni sottovuoto che garantiscono l’asetticità del “prodotto”. L’erotismo, la sensualità, il sesso, caratter izzati dall’idea del movimento, del divenire che intrinsecamente li avvolge diventano qui fermi, bloccati standardizzati e prodotti in serie secondo procedimenti rigorosamente industriali che l’artista ha voluto seguire r icorrendo alle macchine delle industrie alimentari per il confezionamento sottovuoto. Erotismo massificato, uniforme nelle sue manifestazioni, imprigionato nelle maglie della rete planetaria dei consumi, e visto dall’artista in chiave ironica. I materiali utilizzati provengono dall’uso quotidiano: appaiono gli imbuti e le spugne che scelti dall’artista vivono un momento d’esaltazione balzando dagli anonimi scaffali di un supermercato alle tele colorate e materiche, simboli traslati di un erotismo non represso e giocoso, casalingo ed ironico. L’uso di materiale del quotidiano non artistico e legato alla civiltà del sintetico e abbraccia l’essenza del messaggio che l’artista vuole tramandare: la civiltà dei consumi ricca di oggetti e di simboli facilmente fruibili dove la sessualità s’impadronisce del design degli oggetti di uso comune e dell’arte stessa che diventa nell’intento dell’artista merce riproducibile quasi industrialmente in serie, assemblata e confezionata con un packaging tecnologico quale il sottovuoto. L’artista crea le sue opere con procedure rigorosamente artigianali dalla predisposizione dei telai alla stesura e preparazione delle tele spesso materiche trattate con polvere di marmo: per quest’ultima produzione sceglie il messaggio forte e antiartigianale del sottovuoto per dare enfasi all’idea di fondo che la crisi della diversità è nel sesso come nell’arte.Valeria Modica è nata a Caltanissetta nel 1967, opera e lavora a Palermo. Nel 1991 si diploma all'Accademia di Belle Arti di Palermo nella scuola di Decora-

zione. Dal 1992 al 1993 arricchisce la propria professionalità nella collaborazione con alcuni laboratori di ceramica a Palermo, sperimentando nuove forme espressive. Nel 1995 si trasferisce alla "Fiumara d'Arte" di Castel di Tusa e lavora alla creazione e ideazione di oggetti ceramici e di nuovi motivi decorativi per la Fiumara. Mettendo a punto le tecniche sperimentate collabora con artisti di rilievo quali Elisabeth Fralet, Graziano Marini, Paolo Grassino, Luigi Mainolfi. Nel 1998 allestisce e realizza collaborando con l’artista Richard Long, per il Comune di Palermo, la mostra due installazioni legate alla land art presso i Cantieri Culturali alla Zisa di Palermo. Nello stesso anno e nel medesimo sito collabora con Rosemarie Trockel e Carsten Holler alla realizzazione dell’installazione Addina. Nel 2000 la mostra personale dell’artista per la Provincia Regionale di Palermo Lineaspirale presso l’oratorio di Santo Stefano Protomartire a Palermo. “Sotto vuoto spinto” nasce come mostra virtuale di opere estremamente materiche negli anni successivi.

L’arte di Mariola Vicentini concettualmente si edifica sull’espediente singolare, e quanto mai originale, che consente allo spettatore di scrutare la percezione intima che l’artista possiede di se stessa e del mondo che la circonda più da vicino. Fermarsi a guardare i suoi quadri significa entrare nella sfera percettiva di una giovane artista che sembra dilatare lo sguardo, come davanti allo specchio, immergendosi nell'intimo d’ogni singola parte recondita. La sua opera, quindi, è l’esatta corrispondenza della percezione che Mariola possiede del corpo, degli eventi che la colpiscono e degli affetti a lei più cari. In questa direzione, la pittura diviene una lente d’ingrandimento della sua psicologia interiore, concentrandosi Abissi, 2004, acrilico su tela visivamente nel punto di massima espressione dell’universo cromatico, vale a dire negli sguardi dei protagonisti.Verosimilmente, infatti, i personaggi, siano esse donne o uomini, con fogge orientali o non, raffigurano per traslitterazione gli sguardi con cui Mariola guarda il mondo.Tra l’altro, è quel gioco intrigante degli sguardi che cattura l’attenzione dello spettatore con subitanea ammirazione per un’arte che affascina e lancia nuove dimensioni di lettura. Riconoscersi attraverso quegli sguardi è possibile, così come estrapolare i sentimenti – l’orgoglio, la sofferenza, la rabbia – dagli assetti luministici diviene la sensazione, da parte di chi guarda, di sentirsi quasi spiato e scrutato da quei visi. Mariola Vicentini nasce ad Arezzo nel 1974, frequenta e si diploma all’Ent Art Polimoda nel 1998. In seguito, si dedica alla moda vincendo alcuni premi e collabora ad una linea di collane creative. Attualmente si è trasferita a Roma dove vive e lavora. La sua pittura potrebbe riassumersi, sebbene cosa non facile da fare per la poliedricità d’intenti, come un cannocchiale diretto su due direzioni contemporaneamente; da una parte i sentimenti, quindi l’anima in cui sono contenuti allo stato primordiale, dall’altra la società, globo entro il quale i sentimenti trovano il loro pieno esplicitarsi.

MOVIMENTO arte contemporanea Il 9 giugno si sono inaugurati i nuovi locali della Galleria Movimento Arte Contemporanea. Uno spazio unico dove ammirare opere di ar tisti emergenti e non. Un contenitore per l’arte curato in ogni particolare, studiato per incuriosire i visitatori e valorizzare al suo interno le opere. Una cornice pulita, bianca e nera, con prospettive simmetriche, sospese e giochi di luci. Il tutto per rendere l’ambiente minimalista, informale e accogliente.

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Via Scoglio di Quarto, 4 - MI Tel. 0258317556 - 3485630381

Sul filo dell’arte

arte contemporanea V. le Col di Lana, 8 - MI 0258317556 - 3485630381

a cura di Stefano Soddu

domanda surreale

“il sesso può essere arte?” risponde

Oreste Ferrando

La terra è più luce di ogni altro giorno da qui a dove teca n.1, 2002, cm 150 X 60 costruzione vetri float, fotolito, ferro, alluminio, fango, aerosol

Si, anche. Il sesso può tranquillamente essere arte visto e considerato che nell'arte contemporanea si vede così tanta prostituzione.

Visita allo studio di Sergio Dangelo Stefano Soddu Conosco Sergio Dangelo, surrealista di “grande razza” (Breton dixit), da moltissimi anni. Ho visitato un suo bellissimo studio negli anni sessanta, con le vetrate su un rigoglioso giardino. Era già un mito per il suo Movimento Nucleare. E poi, biennali di Venezia, Quadriennali di Roma e la vasta antologica nel 1972 al Palazzo Reale di Milano (87 opere esposte). Si tratti oggi di amicizia e di reciproco rispetto. Da parte mia anche di gratitudine per avermi tra l’altro aiutato, felicemente,, all’allestimento di una mia particolare mostra all’Oratorio della Passione di Milano, con preziosi suggerimenti di cui feci tesoro. Sergio Dangeto è una persona dolce. Ma non vuole evidentemente che questo lato del carattere appaia apertamente. Di solida corporatura frutto di anni di disciplina Kendo, ha occhi attenti e vivaci. Una parlata veloce e colta e una vasta e raffinata cultura da letterato e da pittore, rendono la sua conversazione una fonte inesauribile di informazioni di prima mano sulle vicende dell’arte e sugli artisti europei degli ultimi dieci lustri. Occupa da diciotto anni il suo attuale studio, dopo aver conosciuto gli atelier di Parigi, Londra, Bruxelles e lavorato, abitandovi, nella Villa Colleoni, del veronese. La porta d’ingresso si affaccia discreta e senza targhe su un cortile di un edificio della antica Milano che si estende a ovest di via Torino.”Prima era un cravattificio - mi informa - e non ho cambiato niente. Ho mantenuto le stesse lampade, alcuni tavoli e gli arredi, così come ho fatto nei prece-

denti studi. Amo gli studi che sembrano depositi. Un mio maestro, Dova, aveva la stessa idea. In tutti i miei luoghi di lavoro ho aggiunto solo alcuni mobili spesso recuperati in un secondo tempo”. Lo studio è composto da due locali. Il primo, a pian terreno, è adibito a biblioteca; il secondo, più vasto, a cui si accede da una scala posta sul fondo del primo locale, è seminterrato ed è il vero e proprio atelier. In ambedue i locali la luce è artificiale. La biblioteca. Sulla parete destra, appena oltre la porta alcuni disegni, incorniciati, di Carla, sua moglie, “Il Nido”, dei figli Amanda, “I Pulcini” e Simone, “Il Vortice”, fatti questi ultimi quando erano bambini. In fondo alla stessa parete un manifesto di una mostra organizzata a Vergiate negli anni cinquanta dove, si annuncia, suonerà la banda di Sesto Calende. Redatto da Bay in chiave ironica e con la retorica di quegli anni, riporta tra gli artisti, oltre Dangelo, nomi divenuti importanti, tra cui e per tutti Fontana. Di fronte una piccola scrivania piena di carte e libri; sul davanti una sedia “da posa” in legno scuro che costringe il modello ad un portamento innaturalmente eretto. Al fianco un mobile, disegnato da Ducros, a vetrine opache che nasconde la scala. Sparsi ovunque vari oggetti, quadri e sculture di amici artisti tra cui Sangregorio, Festa e Scanavino. All’imbocco della scala per il seminterrato un bel monocromo su cartone a nido d’ape rinforzato di Aubertin. L’atelier. La prima impressione, poi confermata, è di ordine e metodo. Sulla sinistra il banco attrezzi: martelli, pinze, tenaglie, cacciaviti di ogni misura appesi sulla parete per tipologia. Sul banco, in fila, una sterminata collezione di bicchieri di recupero di plastica color nocciola; all’interno chiodi e viti. Ovviamente in ogni bicchiere la stessa misura di minuteria. Più avanti una semplice libreria carica di cataloghi. Al centro della stanza i tavoli da lavoro macchiati di colore. Il più vasto è ricavato da un tavolo da ping-pong per le tele di grande formato. Dangelo non ha mai dipinto in verticale; il cavalletto serve solo per mostrare agli ospiti i lavori. Sulla parete destra il lavandino e un mobile con una insolita rastrelliera adibito ad accogliere colori e pennelli presenti in quantità industriale. Però ne usa pochi, mi confessa, e quasi sempre gli stessi. Non manca neppure un banchetto da falegname con le morse di legno: usato per le sue sculture e per comporre oggetti un poco dada.Teatrini surreali, sculture delicate, tra cui una con inserto di fiori e oggetti sparsi, completano il resto dell’arredo, unitamente ai quadri disposti alla base delle pareti con l’immagine rigorosamente rivolta verso il muro. C’è ovviamente l’armatura Kendo su una sedia. Surreale anch’essa nella sua orientalità collocata com’è tra le opere di “Dangelo San”, maestro con diploma giapponese della Zen Nippon Kendo Renmey. Orientale è anche il thè tibetano, che mi offre, e ama offrire agli amici, caldo e sapido in una piccola tazza azzurra di porcellana. Dangelo, poeta, pittore, praticante di scherma, da anni ha abbracciato la civiltà del thè. Il 3 luglio scorso grazie alla Regione Lombardia, Assessorato alle Culture identità e autonomie, e alll’Assessore Ettore Albertoni, si è iniziato a parlare in modo ampio, nuovo e diverso delle capacità di chi opera nella cultura oggi. Oltre duecento le associazioni presenti per un forum di grande richiamo e utilità nel confronto e nel dialogo la cui finalità è e sarà dare sostegni legislativi e attuativi migliori proprio per chi opera in questo campo. Mi sembra significativo riproporre uno di questi interventi, quello di Debora Ferrari che ha rappresentato il gruppo dei promotori dell’arte, quelli cioè che vitalizzano il contemporaneo. Una riflessione per un dibattito che può continuare… Stefano Soddu

La nostra missione? Dare un destino contemporaneo a ogni storia Debora Ferrari Fabbrica Arte - Direzione Chiostro di Voltorre “Ogni capolavoro è una purificazione del mondo. E l’emancipazione di ogni artista dai propri limiti rinnova la vittoria dell’arte sul destino dell’umanità. L’arte è un antidestino”. con queste parole scritte da André Malraux nel 1935 voglio salutare il pubblico presente per avviarlo fin d’ora dentro la mission che caratterizza le Associazioni di volontariato che si occupano di promozione culturale.

Sono Debora Ferrari, Presidente e socio fondatore di Fabbrica Arte, una piccola società cooperativa sociale di beni culturali onlus, che per prima in provincia di Varese ha voluto iniziare cinque anni fa un cammino - entusiasmante quanto rischioso - di modello no-profit nella gestione di beni monumentali e nell’organizzazione di eventi, partendo da basi scientifiche e favorendo un lavoro qualificato professionalmente (modello che dal 2000 stiamo applicando principalmente alla gestione del Chiostro di Voltorre in Gavirate, grazie a una convenzione con la Provincia di Varese, ente proprietario). Fabbrica Arte ha tra i suoi scopi la valorizzazione e la promozione del patrimonio storico artistico e monumentale, l’organizzazione di eventi culturali, l’interrelazione e l’integrazione territoriale di sistemi, dando anche lavoro a personale svantaggiato e creando nuove opportunità professionali per giovani che escono dai nuovi corsi universitari.Tornando dunque a noi, e a Malraux, la nostra mission si identifica con i nostri statuti: dare un destino contemporaneo a ogni storia, raddrizzare le visioni, attualizzare le letture, creare nuove possibilità di scambio culturale, dare spazio e godibilità alle arti, perché l’uomo di oggi possa comprendere e godere il patrimonio di cui è fortunato erede. CONTEMPORANEITA’ DEI PROGETTI E DELLE PROPOSTE Proprio questa è una caratteristica saliente del nostro operare: dare una lettura contemporanea a qualunque strato e stato della cultura per attualizzare i temi, vivificarli, renderli appetibili alla gente, metabolizzarli in forme diverse per trasformarli in energia per i contesti sociali in cui siamo inseriti. Profondamente legate alle esigenze del territorio cerchiamo sempre e comunque di precederlo, dando indicazioni di come evolverci, di come andare avanti, con un occhio all’oltre e al domani. Ripeterei i nomi di tutte le associazioni se volessi ancora rimarcare come vengono attualizzati i discorsi culturali, letterari, artistici, poetici, teatrali, ecologici e geografici, ambientali, divulgativi che voi, rappresentanti istituzionali che ci ascoltate, potete nuovamente evincere leggendo le nostre intestazioni. La nostra missione, sia che abbiamo un contenitore una sede - in cui attuarla, sia che ideiamo eventi itineranti o temporanei, è dare un “oggi” alla voce dell’arte che supera ‘di mille secoli il silenzio’. PUNTI SALIENTI PER UN FUTURO PRESENTE Con disponibilità e soddisfazione ci siamo confrontati al Forum di maggio e oggi a questo Forum rendiamo pubblico ciò che nei nostri animi cresceva già da tempo, grazie alla Regione Lombardia-Assessorato alle Culture, Identità e Autonomie, che ha ideato questo incontro, preziosa opportunità di crescita e confronto. Almeno tre sono i punti che possono creare una corrente alternata permanente con chi ci governa, ma anche fra di noi. 1) sinergia operativa sulle problematiche per dare voce alle nostre esigenze e dare modo alla Regione di attuare politiche di sostegno alle nostre attività creando un canale di avvicinamento e informazione costante; 2) sfruttare i sistemi regionali (biblioteche e musei) in accordo con l’Assessorato, per migliorare la promozione e la divulgazione sul territorio regionale ma anche per acquisire, da parte nostra, continui aggiornamenti e migliorie; 3) agevolare noi stessi l’integrazione fra le azioni delle associazioni lombarde, ciascuno sul proprio territorio per beneficiare dei risultati ottenuti. Occorrerà confrontarci sempre più spesso e trovare la forza comune di sviluppare sinergie - anche solo e semplicemente comunicative - in grado di stare al passo con una Europa che accresce i servizi, amplia i bacini di utenza e modifica le distanze. Sarebbe anacronistico oggi continuare a vedere singole istituzioni impegnate in una lotta di proposte per soddisfare un’utenza sempre più esigente. C’è un tesoro nascosto dietro questo non utopistico progetto, fortunatamente sostenuto dall’Assessorato alle Culture, Identità e Autonomie della Regione Lombardia: la crescita del territorio e la soddisfazione dei suoi abitanti.

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Sergio Dangelo El mar, 1955

Il ritorno, 2001, olio su tela, cm 80 x 40

Il National Museum of Women in the Arts arriva in Italia Simona Bartolena

Anna Laura Cantone copertina Andersen aprile 2004

Se è vero che non esiste un’“arte femminile”, così come non ne esiste una “maschile”, è altrettanto vero che sono esistite, e continuano ad esistere, moltissime donne che hanno fatto arte. Presenze importanti, spesso ingiustamente dimenticate. Il National Museum of Women in the Arts di Washington lavora da anni su questo argomento, proponendo, oltre che a una ricca collezione permanente interamente dedicata all’universo femminile, mostre, conferenze, iniziative editoriali sul tema. A settembre lo staff di questo prestigioso museo – il decimo americano in termini di importanza – sbarcherà in Italia, per presenziare alla nascita dell’Associazione degli Amici del National Museum of Women in the Arts, che si impegna, oltre che a diffondere l’immagine del museo in Italia e agevolarne i contatti con la nostra realtà culturale, anche a organizzare iniziative di approfondimento sul tema e a promuovere nuovi talenti. Un programma ambizioso e di grande interesse, al quale ci auguriamo che l’Associazione, che verrà presentata il 22 settembre, presso la “Società del Giardino” di Milano, riuscirà a tenere fede.

L’armonia degli opposti

una sua immaginazione del creato, ancora in nuce, racchiusa in consistenze materiche compresse, non del tutto risolte, visibili e libere da limiti. Una incompletezza evidente ma non sofferta. È l’intimità che trionfa, quasi una conteplazione attualmente in corso che troverà, in un prossimo futuro ancora non esplicitato, il netto concretarsi nella vita attiva. Un movimento espressivo che dall’interno, in formazione, sfocerà all’esterno di se stessa. Mostrarsi ma non del tutto con un ego che risiede nelle viscere dell’oscurità, nella recondita e nuda terra. L’esibizione di se stessa, da parte dell’artista, non è ostentazione di una fisicità già definita, ma solo un silente inizio di disvelamento per evitare la totalità di consuetudini già composte in sentimenti assodati. Un progresso dinamico, oserei dire un barlume futurista, che si lascia mutare e ampliare dopo nuovi impulsi e sensazioni. I quadri di Elena rivelano una giovane donna-artista in cammino che per maturare il suo fare pittorico e il diluirsi della quotidianità necessita una protezione. Grandi e forti mani s’intendono espresse con adeguatezza, che divengono, in tale direzione, simbolo di guida e protezione. E se per questi intenti s’incrociano spirituale e materiale avviene un gioco simbiotico di identità. È il gioco delle parti, di pirandelliana memoria, che campeggia nelle figure e nelle radure in penobra di Elena Ferrari. Spazi, figure animate che aprono uno squarcio della sua identità. L’artista invita l’osservatore a passare dinanzi alla sua opera, scrutarne i sentimenti, per cercare un quid che permetta a ciascuno di identificare il proprio ruolo da protagonista per giocare se stessi nell’affascinante gioco della vita.

Elena Ferrari Antonio D’Amico

Tra cielo e terra Monica Isler Antonio D’Amico

Paesaggio di bosco, 2004, tecnica mista

La donna, l’artista, si rivela attraverso un dinamismo materico di forme contrapposte fra verticale e orizzontale …fra cielo e terra, dove il punto d’incontro, le radici e le fronde, rimangono oscure al nostro sguardo. L’intento della pittura di Monica Isler è di aprire una finestra sul mondo, il suo cosmo conosciuto, lo stesso che si addentra nelle radure umbratili dei suoi paesaggi boschivi. La realtà raffigurata trova, però, un punto di vista deforme, non una veridicità di narrazione ma un’alterazione ‘geometrica’ di espressioni filtrate dalla mente e vissute nell’oggi. Il percorso cromatico spazia dal naturale, con l’emozionale presente, non osando l’incerto, alla rivelazione di un io figurato, ravvisabile nel tronco, che certifica l’unica forza dell’ego: l’attuale stato di maturazione. I quadr i di Monica aprono mille curiosità, così come l’universo femminile, una gentile fragilità nascosta nella plasticità del colore e l’attaccamento al visibile. Ma nessuna certezza per ciò che sarà l’evoluzione …e noi ad essa attendiamo!

Nel variegato cosmo dell’espressione artistica contemporanea, sembra perpetuarsi, in alcuni proficui casi sempre più sovente, il forte legame, generatore di un sodalizio d’intenti, fra personalità e carattere dell’individuo con ciò che si concreta nella sua opera pittorica. Indiscutibilmente il quadro è il biglietto da visita, che non si presenta come un oggetto inanimato estraneo alla fisicità del suo protagonista ma è tracciato, con segni essenziali, attraverso la delicata fibra fluente di un cromatismo ancora in divenire. Elena Ferrari consegue il diploma presso il liceo artistico di Lodi e in seguito frequenta lo studio del pittore Vittorio Emanuele a Cusago e affina le sue capacità disegnative collaborando con diversi studi grafici. Già, perché incontrare Elena Ferrari, nata a Milano nel 1973, e captare, in separata sede, i suoi dipinti, significa riconoscere l’ideologia della filosofia dei contrasti, che trionfa nelle forme armoniche e avanza con audacia nella calma piacente degli equilibri espressi, forse anche troppo calibrati. In tal senso, è un perpetuo stimolare l’immaginazione di chi tende ad accostarsi al mondo pittorico di Elena, ancora tutto in divenire. Ogni forma raffigurata è pervasa da una trasparenza sperimentale che proietta lo sguardo verso orizzonti ancora da scoprire e intangibili. Luci, colori, spazi informi, tendono ad armonizzarsi come una danza suadente, lenta e avvolgente. Elena possiede

Paesaggio, 2004, olio su cartone, cm 50 x 36

Elena Mutinelli Sculture & disegni

Dal 7 Ottobre al 12 Novembre 2004 Banca Intermobiliare di Investimenti e Gestioni di Lugano Contrada Sassello, 10 - Tel. +41.91.9136666 - [email protected]

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Articolazioni spaziali di Valdi Spagnulo Giorgio Zanchetti Nelle costruzioni sottili, apparentemente ai limiti della legittimità e della sostenibilità statica, proposte in questa mostra da Valdi Spagnulo si risente — quasi in controtendenza rispetto alla linea di ricerca linguistica o massmediale privilegiata da molti tra i colleghi della sua stessa generazione (quella dei quarantenni, per intenderci) — la volontà di un approfondimento rigoroso e diretto della dialettica di struttura e materiale. La piegatura a freddo, a sola forza di braccia e senza esitazioni né ritorni, delle fini cornici metalliche di ferro o d’acciaio, dimostra una sensibilità tattile per l’armonia dell’angolo e della curva che non sarebbe stato possibile delegare a nessuna tecnica di forgiatura più elaborata e a nessuno strumento meccanico. La partita della resistenza della barra, del peso e della trazione della leva si gioca tutta tra la stretta del palmo e quella di una semplice morsa da banco. Sulla parete la loro linea spezzata circoscrive, senza racchiuderla in sé, un’area, proiettandosi con discrezione e leggerezza nell’ambiente e indicando così l’illusione di una soglia attraverso la quale la porzione di spazio, virtuale, interna all’opera e lo spazio, reale, in cui lo spettatore si muove possano coincidere e, contrapponendosi, identificarsi. Tale complessità d’articolazioni spaziali che queste strutture suggeriscono e impongono si colloca a mezza strada tra due tradizioni a primo vedere distanti e inconciliate, senza però assimilarsi piattamente all’una o all’altra. Da una parte possiamo individuare la linea d’una rinnovata scultura d’assemblaggio di matrice post-dadaista, nella quale l’oggetto (o una pluralità d’oggetti) di scarto, vissuto, è

prelevato e ostentato come portatore d’una memoria industriale al tempo stesso umana e meccanica, esistenziale e sociale, storica e metaforica: sono questi i legni smangiati, i plexiglas sgraffiati e macchiati, i metalli stessi bruscamente torti e saldati sul filo d’una parvenza di precarietà. Sul versante opposto è altresì riconoscibile l’indirizzo d’un raffinato esercizio grafico d’impronta neo-concettuale, in cui la consapevolezza del mezzo, la pertinenza del materiale e la puntualità descrittiva del segno lineare si integrano complemetarmente costituendo i tre differenti livelli di discorso (e i tre registri stilistici) di un’unità espressiva complessiva. Al contrario di quanto accade ed è accaduto spesso in altre esperienze artistiche recenti, questa duplice polarizzazione del lavoro di Valdi Spagnulo non costituisce per lui un limite né una dispersione di forze. Al contrario, gli permette di esercitare, spingendolo fino in fondo, un approfondimento analitico che è di per sé autonomo tanto dal materismo informale quanto dal concettualismo (o dal poverismo) rigorosamente intesi, poiché mantiene le proprie radici strettamente appigliate alla dimensione più immediata del fare e alla comprensione piena dei valori espressivi e formali della materia. Non è un caso che in questa mostra le sculture metalliche lineari che hanno caratterizzato la produzione di Spagnulo negli ultimi anni tornino ad essere affiancate da una nuova esperienza bidimensionale, ma non più derivante dalle campiture matericoinformali sagomate che occludevano parzialmente i telai chiusi e rigorosi dei secondi anni Novanta, bensì in direzione della spontaneità e dell’immedia-

SALA GARZANTI,

tezza di quelli che lo scultore chiama disegni o progetti, ma che sono, assai più propriamente, da definirsi opere autonome, di piccole medie dimensioni, in cui la medesima tensione spaziale e ambientale delle sculture maggiori è declinata, quasi in riduzione scalare, nella facilità di impiego e di sperimentazione del cartone, delle colle, della grafite e dell’acrilico. Si tratta di un fare in senso proprio compendiario, teso cioè a ridurre e sintetizzare tutti i passaggi retorici, compositivi e plastici in pochi o pochissimi tratti essenziali, che rendono, forse, più visibile la struttura che sottostà all’articolazione delle forme, senza divagazioni, senza fronzoli, con una intenzionale povertà di mezzi e d’intenti, ma non di maestria né di pensiero.

Shangai café, 2003 ferro, acciaio, plexiglas Collezione dell’artista

via della Spiga, Milano

FULVIO RINALDI novembre, 2004

Sospeso, 2003 ferro, acciaio, plexiglas Collezione privata

Mostra di Valdi Spagnulo “PARVENZE DI PRECARIETÀ” a cura di Giorgio Zanchetti Galleria Arte + arte contemporanea c.so Matteotti, 3 (ing. Via Romagnosi, 4) Varese Inaugurazione:

sabato 2 ottobre 2004 ore 18.00 dal 2 ottobre al 5 novembre 2004

Orari di apertura:

da lunedì a venerdì 15,30 - 19,00 sabato 10,00 - 12,00 domenica 10,00 - 12,30

Per informazioni:

Galleria Arte + arte contemporanea tel. 0332 237782 (orari di galleria)

Catalogo in galleria

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Vittorio Emanuele Carlo Adelio Galimberti Nelle ultime sue opere Vittorio Emanuele pare assecondare alla lettera e con ostinato coraggio la qualità necessaria che il letterato Luigi Dolce imponeva come condizione dell’arte del suo tempo: «L’ufficio adunque del pittore è di rappresentar con l’arte sua qualunque cosa, talmente simile alle diverse opere della natura, ch’ella paia vera», (L. DOLCE,

Le ombre lunghe del meriggio, 2004, olio su tela cm 75 x 118

Dialogo della pittura, intitolato l’Aretino..., Venezia 1557). Certo oggi è difficile ascoltare quest’imperativo ed è per questo che abbiamo parlato di coraggio. Infatti, ad un

SpazioErgy Giulio Residori

Giuseppe Mallai

Due righe di presentazione per chi non ci conosce. SpazioErgy è nato negli anni ’90 come iniziativa amatoriale nell’ambito culturale e da allora ha costituito supporto e dato incoraggiamento ad artisti giovani e meno giovani, accomunati dal desiderio di impegnarsi, di creare, di fare arte, ai quali non sempre era concesso di presentare le loro opere o di avere i riconoscimenti adeguati. In questi anni sono state organizzate oltre cinquanta mostre personali e collettive dotate di piccole monografie illustrative nonché una dozzina di importanti mostre, con supporto di grandi monografie, in spazi pubblici. SpazioErgy è diventato, quindi, un punto di aggregazione nella formazione di un gruppo che si riconosce in determinati ideali ed è un centro di valorizzazione delle capacità artistiche dei singoli; in tal senso SpazioErgy amplia ed ingloba gli interessi dell’Associazione Amici dell’Acquaforte, una associazione nata nel ’93 con gli stessi scopi ma in difesa dell’incisione originale. Da allora sono state esposte le opere di un centinaio di incisori di talento anche se talora poco noti al grande pubblico e numerose aziende sono state orientate alla pubblicazione di pregiate e personalizzate tirature di grafica originale d’autore per usi istituzionali e di relazione. I supporti provengono dell’entusiasmo e dal coinvolgimento di artisti e di alcune aziende che contribuiscono all’attività. La finalità,in conclusione,è di dare supporto a talenti artistici per i quali vale sempre l’invito ad un contatto con noi. Con questo numero inizia il nostro impegno con l’editore per presentare ogni volta tre artisti esponenti della pittura, scultura e grafica che, a nostro avviso, posseggono queste caratteristiche. La premessa era necessaria per meglio intendere le scelte che, in que-

secolo di distanza dall’esordio delle avanguardie storiche, la forma delle opere ha spesso dismesso il riscontro naturale, la riconoscibilità dei soggetti delle opere d’arte, abbandonando i sapienti sentieri della mimesi sui quali s’era da millenni incamminata la storia dell’espressione artistica. Ecco perché ho parlato di coraggio nella poetica diVittorio Emanuele,come quello di chi sfida le mode e le facili scorciatoie poetiche,rappresentate da coloro che si affidano a segni improvvisati magari per giustificare pretese concettose attorno a prodotti definiti artistici e che spesso compiono vere e proprie invasioni di campo, quando quattro parole cancellate da un testo o un sasso isolato in una stanza vuota s’ammantano di pretesi e ponderosi concetti filosofici che di pesante hanno spesso solo il fardello del “catalogone” che le accompagna, rivelando come si possa bistrattare la filosofia chiamandola “arte”, facendo quindi due danni in un colpo solo. Ma non si tratta solo di coraggio: esiste nell’opera di Vittorio Emanuele anche una sorta di “moralità” delle immagini come quelle che sgorgano da una “religiosa”, lunga, lenta, preziosa conduzione il proprio lavoro. Che è quella di chi ha lo sguardo che è degli artisti: uno sguardo che non soffoca l’esistente nella costrizione delle definizioni funzionali cui la nostra cultura l’ha ridotto, ma l’osserva e lo sollecita da innamorato per stimolarne la rivelazione dei sensi più nascosti. È questa una maniera che ci viene rivelata dal protagonismo della luce delle ultime sue opere. Quella luce sono gli occhi di Vittorio Emanuele che come in Le luci del meriggio sale delicata dal lontano orizzonte, per incresparsi nelle fratture d’un antico tronco spezzato, quasi che ogni ombra ed ogni bagliore siano frammenti d’una lunghissima storia che quel legno trattiene e ugualmente rivela. Od anche nella

seconda versione del medesimo soggetto, quando l’opacità del muro che in aurea sezione divide la composizione, fa da quinta teatrale allo spettacolo luminescente degli acini dei grappoli d’uva, che sporgendosi sul bordo del vaso che li sostiene intercettano quei raggi che in trasparenza hanno attraversato le foglie dei piccoli tralci di vite. Ed è la stessa luce che ne I cedri di ribera accarezza delicata l’intonaco del muro di fondo per accendersi infine nell’arancio prorompente del colore dei frutti che punteggia la base dell’opera, quasi una sorta di focolaio delicato e naturale, metafora della bellezza che si produce quando l’offerta della natura incrocia la sensibilità dell’artista. Un lavoro lento e disciplinato quello di Vittorio Emanuele, come di chi sente la responsabilità della storia che lo ha preceduto e che l’artista ripercorre con frequentazioni colte e impegnative, facendo interagire antico e contemporaneo, ma mai in modo gratuito o capriccioso, ma sempre restituendoci d’ogni nota dei suoi registri pittorico-musicali il timbro cromatico dal tono più seduttivo. Ecco allora che le citazioni di opere antiche, riprodotte nell’ironica veste di fotocopie accartocciate, paiono assumere una sorta di fedeltà ad un’antica fonte feconda, unita alla consapevolezza del tempo trascorso che lo spiegazzarsi della carta sembra affermare, mentre l’utilizzo del supporto della fotocopia che Emanuele riproduce dipingendola, intesse un fecondo discorso tra l’antico insegnamento dell’arte e le urgenze pressanti del nostro tempo.

sto spirito, proponiamo. Un pittore Giuseppe Mallai, uno scultore Marco Cornini, un incisore Carla Di Pancrazio.Tre validi artisti.

CARLA DI PANCRAZIO: una piemontese ormai naturalizzata veneziana, studi classici e laurea in storia della Critica d’Arte con una formazione artistica sotto la guida dei maestri Soffiantino e Ramella. Pittura ad olio ed acquaforte sono le sue espressioni artistiche pre-

GIUSEPPE MALLAI: Un sardo, nato nel 45 a Bonarcado (Oristano) ma che sin da giovane ha vissuto all’estero, in particolare a Londra ove è rimasto dal 66 al 72 seguendo i corsi d’arte; numerosi i viaggi in Europa soprattutto in Spagna ove ha vissuto per lungo tempo con i gitani studiando i loro costumi ed imparando a suonare la chitarra ed il flamenco. Tornato a Milano ha frequentato l’Accademia di Brera ove si è diplomato nel ’76 ed iniziando subito dopo la sua attività pittorica. Un simpatico compagno di serate il nostro Pino ma soprattutto un professionista nell’ambito del proprio lavoro pittorico che si esprime nel figurativo. Come ben disse Mario De Micheli la sua natura è di essere un artista che ama immaginare e rappresentare, cioè dare una forma alla sua fantasia, un volto alle sue figure facendo di ogni segno una suggestiva allegoria. Il tutto espresso attraverso una grande padronanza dello strumento colorico. Una pittura colta che fa di lui un artista magico ed un po’ irreale. Ha il pregio di avere una cerchia di collezionisti che ha sempre apprezzato il suo lavoro tanto che il suo nome è relativamente noto al di la dei suoi estimatori. Ma di lavori importanti egli ne ha fatti parecchi; dalle decorazioni del salone dell’Hotel Gallia a Milano a quelle di private abitazioni di pregio, quasi museali, dal grande ritratto di De Andrè a quello di El Camborio con Zeffirelli, Raphael Alberti ecc. oltre ad una produzione pittorica orientata in particolare sui grandi quadri. Dal 18 settembre al 14 novembre una grande mostra corredata da monografia antologica è aperta a Serra dé Conti bellissimo paesino nelle Marche, con i suoi lavori più recenti. Una quarantina di quadri, nel complesso, realizzati negli ultimi cinque anni. Una occasione per vedere ed apprezzare il lavoro di un artista impegnato e non allineato.

Vittorio Emanuele - Cascina Robaione - Cusago (Mi) - 02.48843062 - 335.57.82.122

Carla Di Pancrazio

dilette privilegiando tra i soggetti il ritratto e la figura umana ma anche le composizioni. L’attività calcografica comprende collaborazioni con enti e collezionisti per i quali cura personalmente la tiratura delle sue lastre e partecipazione con grafica ed illustrazioni alla edizione di libri d’arte a tema. Notevole ed apprezzata l’attività nell’ambito ex libris sviluppando un linguaggio intenso sintesi di una meditata ricerca compositiva e di una attenta traduzione delle esigenze del committente. Nel panorama calcografico contemporaneo Carla Di Pancrazio rappresenta uno dei punti di maggior espressività di quest’arte;un segno essenziale,deciso,con effetti quasi luminosi. Fantasia e proprietà del mezzo incisorio vanno di pari passo. Ne proponiamo uno dei pezzi più rappresentativi “Gli Orci di Brancaccio”.

MARCO CORNINI: scultore della nuova generazione (è nato nel 66) è considerato a ragione uno dei più promettenti artisti di lavori in terracotta. E con la terracotta egli racconta la contemporaneità di un mondo ove i personaggi sembrano assenti, drammaticamente soli ed incomunicabili, moderni nella foggia ma vuoti. Peraltro di una grande bellezza ed attrazione. Cornini è ormai un talento sbocciato e con riconoscimenti anche sul piano internazionale. Ne proponiamo un opera realizzata una decina di anni fa in occasione di una mostra a SpazioErgy (La meraviglia). Un cammino da allora sempre più ricco di soddisfazioni.

Marco Cornini

Maggiori informazioni possono essere fornite a SpazioErgy, Corso Sempione 63 tel. 023311009 o nel sito www.spazioergy.it. Le foto sono state eseguite con Fotocamera Digitale Caplio RX della Ricoh.

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Claudio Rotta Loria Dialogo tra un artista un critico e un’antropologa In occasione dei due eventi espositivi di Claudio Rotta Loria — il primo a Biella presso la Galleria Zaion dal 25 settembre al 6 novembre p.v., il secondo a Thonon Les Bains, presso la Chapelle de la Visitation, dal 12 novembre al 12 dicembre p.v. — riportiamo alcuni brani dell’intervista-colloquio tra l’artista, il critico Francesco Poli e l’antropologa Franca Pregnolato. Franca. Ciò che ha sempre caratterizzato Claudio e il suo lavoro, è stato il non rinunciare mai all’idea che

Equatore (installazione) Museu de Belles Arts de Castellò, Spagna

l’arte sia impegno di costruzione di senso e di cultura, via della conoscenza. Che la ricerca di senso e di bellezza attraverso la visione sia etica in se stessa e spinta vocazionale estranea a influenze di altra natura e ai conformismi del momento. Claudio. Quando ci siamo conosciuti — era il ’69 — c’era chi abbandonava l’arte per dedicarsi alla politica, poiché il clima ideologico dei tempi irrideva ad ogni tipo di poetica. Personalmente, affascinato dalle qualità sintetiche dell’astrazione, abbandonavo la figurazione e sceglievo la sfida didattica e gli spazi della ragione, pienamente convinto - lo sono ancora - che l’arte possa e debba educare alla visione, a quelle soglie percettive minime che definiscono l’esperienza estetica. Francesco. Sono per te gli anni delle griglie ambigue, delle superfici incise, delle spazializzazioni di forme geometriche elementari, dei colori primari, dei materiali leggeri e comuni come la carta, delle variazioni cromatiche minime. Cominci allora a costruire grandi forme nello spazio, valorizzando la terza dimensione - peraltro già presente nel periodo della tua formazione artistica -, l’uso della luce riflessa dei colori fluorescenti sul quadro e della luce al Wood, insieme ai primi interventi ambientali nelle strade e nelle piazze (allora non si usava il termine installazione) e all’uso della fotografia nella ricerca sui gesti.

Scelte paradigmatiche di molte esperienze successive. Franca. Nella Torino degli anni ’70 pochi resistevano alle seduzioni ideologiche o di mercato del momento. Erano artisti non allineati che difendevano la loro identità, oggi sorta di Indiani d’America dell’arte contemporanea, il cui patrimonio di conoscenze ne fa — come i classici visti da Pontiggia — schegge del nostro prossimo futuro. Aveva ben capito le potenzialità di quel tipo di ricerca artistica il primo governo socialista del Portogallo, la cui azione di rifondazione culturale era promossa in modo efficace in un manifesto su cui campeggiavano alcuni simboli elementari: un triangolo, una matita e un righello. E che nel luglio del ’75, invitava Claudio a una mostra itinerante tra Viana do Castelo, Porto e Lisbona. Un’esperienza tra le più vive e interessanti di quegli anni. Claudio. La fase successiva, è stata invece caratterizzata dalla riscoperta delle mie radici spirituali. Ciò ha rinforzato un aspetto del mio lavoro che non solo permane, ma è diventato il filo conduttore irrinunciabile. Fare cultura non basta, compito primo dell’arte è “fare anima”, sapendo evitare le ristrettezze e i conformismi del momento, per esprimere dimensioni più profonde. Francesco. Dagli anni ’80 in poi questo aspetto si esprime con forza nelle opere tridimensionali di grandi dimensioni, nei frammenti azzurri di mandala — simbolo dell’incontro tra uomo e Dio, di ricerca interiore — che collocavi sulle pareti, tra muri e porte, disposti a terra, appesi come vele ai soffitti di gallerie e di cappelle, intorno ai pilastri dei centri culturali, agli alberi delle stazioni, dentro fienili o chiese sconsacrate, sotto i tetti delle case, nelle gabbie di zoo smantellati: ovunque lo spazio contenesse le relazioni strutturali, i pieni e i vuoti che consentivano di dare un senso a quelle che in quegli anni cominciavano a chiamarsi “installazioni”. Claudio. Proprio così. E dentro i quadri — il pane quotidiano — riproponevo gli stessi aggetti, i fili in tensione dai colori fluorescenti in luogo dei neon o delle fibre ottiche, le stesse simulazioni di spazi inesistenti, ma percepibili. Senza dimenticare le forme bianche, la modulazione seriale, in uno sforzo continuo d’integrazione di codici espressivi. Franca. Sono stati anni intensi di ricerca di sintesi con altre culture estetiche, ad esempio l’arte d’Oriente, che “sa trasformare il gesto del braccio che dipinge l’albero nel movimento dell’albero”. Di riflessione sull’uso del segno e del colore, di pittura scrittura del mantra: quanti i metri quadrati di tela su cui la disciplina della sua mano ripeteva all’infinito, con colori dominati dall’azulete, la frase sacra che trasforma il fare arte in contemplazione! Claudio. Sì, e anche anni di crescita consapevole, nei quali mi sono confrontato con il valore del limite, in cui ho cercato le condizioni che danno senso e significato all’installazione, quelle

che esprimono lo spirito dei luoghi. Ricerca che, oggi, mi regala la libertà di un viaggio nel quale provo a disegnare nuove geografie, nuovi orizzonti e nuove terre e nuovi cieli. Francesco. Dagli anni ’90 in poi, il tuo lavoro si caratterizza, in effetti, per nuove e inaspettate geometrie, per uno sforzo di valorizzazione del simbolismo e al tempo stesso di mantenimento della continuità con l’astrazione. C’è anche il ritorno della fotografia come mezzo espressivo. Penso alle foto aeree di Insula, sospesa al centro di un fascio di luce; a “L’equatore”, quindici metri di geometrie destrutturate che lievitano intorno al loro asse.Agli archi di terre o al grande metro per le “misure giuste”. Una ricerca nella quale permangono continuità e innovazione. Franca. A questo va aggiunto il dialogo ininterrotto sui contenuti del mio lavoro di ricerca: l’uso culturale dello spazio, le modalità della visione, la prossemica come disciplina scientifica e dimensione del fare e del vivere quotidiano. Per un’arte non intellettualistica, come qualche critico decerebrato di nuova generazione magari pensa, bensì densa di cultura e alla ricerca di nuovi fondamenti, oltre che di più solide fondamenta. Francesco. Negli ultimi tempi lavori su un segno/gesto che pare una piroetta, un archetipo assopito nel profondo. E’ un segno/gesto efficace, inatteso e attivo. Il dinamismo, l’essenza di molti tuoi ultimi lavori, richiamano la rotondità della vita, il suo movimento originario, che è poi quello di un viaggio che ricongiunge a sé. L’equatore, in particolare, diventa moto cosmico, segno in evoluzione, firma e graffito insieme. Franca. Quando si affronta la rotondità, ciò che si evoca è la carezza, la cura, l’attenzione. In natura viene detta neotenia: forma capace di suscitare protezione. Il lavoro di Claudio esprime anche la dimensione personale di chi ha cercato di vivere con interezza vita privata e vita professionale. E con delicata poetica e passione arte e vita affettiva. Claudio. In fondo credo che l’affettività sia l’essenza di ogni ricerca e dell’arte stessa. E credo anche che l’arte impegni a custodire il sentimento più dell’emozione, l’incanto più che stupore o meraviglia. L’arte regala sussulti di giovinezza costantemente. Protagonista del mio lavoro di questi tempi è un segno/gesto semplice e speciale: è l’abbraccio e il calore della sua energia.

con il patrocinio del Comune di Vaprio d’Adda

16-24 OTTOBRE 2004

ANTIQUARIATO

XVIII MOSTRA MERCATO NAZIONALE

Villa Castelbarco Vaprio d’Adda (MI) ORARI: Lunedì, Martedì, Mercoledì, Giovedì 15.00 - 20.00 Venerdì 15.00 - 23.00 Sabato e Domenica 10.30 - 20.30 INFORMAZIONI: Tel. 02/90965254 - Fax 02/90965212 www.villacastelbarco.com Autostrada A4 (MI-VE) uscita Trezzo sull’Adda Ingresso aperto al pubblico a pagamento

30 Per la tua pubblicità chiama Gabriele Lodetti allo 02860806 - Giorgio Lodetti allo 0258302093

Valentino Vago La pittura murale civile e religiosa Giacomo Lodetti È consuetudine alla libreria Bocca fare la conoscenza di un artista quando viene pubblicato un libro sulla sua attività, dal momento che la vetrina affacciata sulla Galleria Vittorio Emanuele II è rituale meta di osservazione a Milano degli appassionati dell’arte. Lo è stato per Walter Valentini che ha illustrato le poesie di Leopardi in una raffınata edizione dell’editrice Una Luna, per Mario Ceroli che ha realizzato una serie di disegni per il volume di poesie Anima perduta di Adriana Iftimie e per Luca Pignatelli che ha realizzato sei belle tavole per le poesie di Alda Merini L’occasione quindi dell’uscita del volume di Laura Salandin, Valentino Vago. La pittura murale civile e religiosa, edito dalle Edizioni SINAI, € 19, ha portato il grande artista ad oltrepassare l’ormai mitica Porta del Sole. L’aggettivo solo apparentemente esagerato si addice particolarmente all’ingresso della Bocca, dopo l’erudita citazione che le ha dedicato Luisa Cogliati Arano alla presentazione di un’edizione delle Favole di Esopo illustrata da Nico De Sanctis, il suo creatore. Si contano ormai a decine le segnalazioni nel mondo, su riviste specializzate in Moda e Arte, della Porta del Sole che un industriale cinese, titolare di una catena di ristoranti a San Francisco, ha persino clonato come accesso ai suoi locali. Per la prima volta ho così fatto la conoscenza di Valentino. Un uomo alto, possente, distinto e dai tratti signorili che incedeva lentamente appoggiato al bastone. Fronte ampia e rari capelli canuti che fanno da orizzonte ad un volto dal dolce sorriso rassicurante. Alle prime battute di una rapida conversazione di rito percepivi immediatamente la sua profonda cultura, più che profonda, vissuta. Pensieri che raramente riesce a confrontare con un qualsiasi interlocutore, assai raro da trovare nella società odierna, scarsa di luoghi d’incontro per il piacere del solo conversare, capace di condividere o meno un’opinione sulla pittura. Potrebbe sembrare un orso ma non è così e io ne apprezzo idee e realizzazioni. Da allora ho avuto molte occasioni d’incontrarlo. L’ultima l’ha visto coinvolto con gli amici Borioli, Della Torre, Olivieri, Raciti e altri, in una mostra di cui si parlerà più in futuro che oggi, per essere stata la prima, finanziata dai commercianti per il rilancio della

Galleria Vittorio Emanuele II. Fino al giorno in cui mi disse: “Giacomo devi venire a vedere cos’ho fatto a Rovello” “A una condizione Valentino che guidi tu perché io odio il traffico”. Raggiunto l’accordo sul giorno e sull’ora mi reco in via Aldrovandi, saliamo sul suo mercedes che ha qualcosa del suo padrone, come gli animali del film di Walt Disney La carica dei 101, e in meno di mezz’ora arriviamo a destinazione. In macchina ci siamo raccontati quasi tutto quello che c'è da raccontare della propria vita e così ho appreso che Valentino è nato a Barlassina nel ’31, che come molti altri suoi coetanei aveva frequentato e terminato gli studi all’Accademia di Brera. Aveva 29 anni alla sua prima personale, tenuta in una Galleria di Milano, famosa negli anni ’50 ma che oggi non esiste più, l’Annunciata. Fu Guido Ballo, autore del libro Occhio critico, a presentarlo. Fuori dai molteplici movimenti artistici e indipendente di pensiero, Vago si caratterizza come artista autonomo e originale. Adesso che lo conosco meglio direi anche ispirato, come un profeta di una pittura che deve ancora venire ma che lui ha visto e vede, avendo la sua anima oltrepassato tutti gli umani orizzonti. Già perché Vago “cerca la luce dell’Universo”, non gli si può dire, quindi, cos’è o cosa faccia perché lo sa benissimo da solo e regge le proprie teorie con una rete di solide conoscenze, tanto in filosofia quanto in storia delle religioni. Arrivato a Rovello Porro ho avuto la più suggestiva esperienza della mia attività di libraio d’arte. Due realtà distinte ma tra di loro complementari e conseguenti mi hanno sorpreso in un luogo fuori dal mio pensiero, abituato come sono a vivere nel centro di Milano e nel cuore di problemi caratterizzati dall’ansia, dall’incertezza e dalla frenesia. La Chiesa dei Santi Pietro e Paolo e don Maurizio Corbetta, il suo parroco da 15 anni. Se non ci fosse don Maurizio non ci sarebbe stato il lavoro di Vago, né quello di Bodini, autore in quella chiesa di un altare da favola, opere d’arte entrambe che entrano in dialogo col credente come desidera lui, don Maurizio. Né la Chiesa vivrebbe di quello spirito capace di “dire” Dio a tutti coloro che vi entrano, spirito che riconduce ai primi tempi del Cristianesimo. Quando uomini parlavano

ad altri uomini e insieme affrontavano una vita che è sempre stata ostile. Classe 1956, Corbetta è il parroco dei primati. Giovane, colto, appassionato, cordiale e collezionista. Non per dire, ma la sua raccolta di musica classica, dal Canto Gregoriano agli autori contemporanei come Arvo Pärt, accumula ben 29000 CD. Per chi volesse contattarlo, so che gli farebbe piacere, per vedere la chiesa, per conoscerlo o solo per sentire una sua messa, questo è il suo email [email protected]. Entrato nella chiesa in compagnia di Valentino, vengo avvolto dagli Atti degli Apostoli, un affresco, a spruzzo con aerografo, tamponi di garza e pennello, di colori acrilici misti a tempere, di ben 7000 mq. Pittura di pura luce, che interessa l’intera vasta chiesa, dalle pareti ai soffıtti e alle volte. Immerso in quell’ambiente ho provato un sentimento non descrivibile ma che potrebbe ricordare lo stato d'animo degli Apostoli, quando sul monte degli ulivi, coi volti e gli occhi rivolti al cielo, assistevano più sorpresi che felici, all’ascensione di Cristo. Avevo l’impressione di lievitare guardando le pareti colorate, non sentivo più il pavimento sotto i piedi e mi domandavo come un uomo, non più giovane, avesse potuto concepire e realizzare un lavoro simile che sembrava uscire direttamente dal pensiero, senza passare attraverso un disegno, una traccia, una sinopia, una qualsiasi guida e fissarsi con una potenza strutturale incredibile ai muri. In poco più di un anno, tra il 2001 e il 2002,Vago ha realizzato, salendo sui trabatelli alle 5 del mattino, scendendone al calar della luce, questo capolavoro che invito il lettore ad andare a visitare. Il libro, per il tema trattato e correttamente enunciato nel sottotitolo, parla di questa Chiesa, della Cassa Rurale di Barlassina, della parrocchiale di San Giulio, dei tanti negozi, soffıtti e pareti affrescati dappertutto. Avrebbe meritato una dimensione maggiore per trasmettere in parte la comunicabilità delle opere diVago e le immagini a colori avrebbero meritato maggiore luminosità per l’identico motivo.Giudizio in ogni caso positivo per il meticoloso lavoro dell’autrice, per la selezione dei testi, definitivo quello di Luciano Caramel e per le schede delle opere.

Ettore tra i libri Franco Signoracci

Ho conosciuto Ettore Moschetti tra i ragazzi. Insegnava loro a incidere, tagliare, modellare, colorare; insegnava a prendere materiali e non guardarli più per quel che sono, dentro gli oggetti di uso comune, bensì a considerarli strumenti per costruire mondi esteriori e interiori, e ricercare figure (perché la figura umana, nascosta, ammiccante, velata o “sindone” che sia, sta sempre al centro della sua personale ricerca artistica, anche quando strizza l’occhio all’informale!). Così ho visto nascere un frontone di Partenone in grandezza quasi naturale, dove Fidia vibra per la scossa elettrica dell’oggi; e prima ancora ho visto un pannello, due pannelli in formica che riassumono le convulse e geniali rivoluzioni dell’Otto-Novecento artistico. Ho visto questi lavori dare vita e colori ad uno strano edificio in mattoni, che i ragazzi abitano…

Ma il suo insegnamento non è che la punta di un iceberg del grande, aperto lavoro di ricerca che Moschetti porta avanti. Perché Ettore dipinge, ma non solo: lavora con materiali diversi, che sotto le sue dita prendono una densa e calda consistenza (si tratti pure della luce, come diremo), per costruire forme plastiche dentro cui lotta la sua ricerca espressiva. Di fronte ai suoi lavori si ha sempre l’impressione di scorgere un mistero che ammicca, sorride, ma chiede di essere svelato nella sua profondità. Così è l’arte, così è l’uomo. Sorride, ma quanta vita e quanta esperienza dietro quegli occhi, che colgono nel colore e nei materiali vie da indagare a fondo, come testimoniano anche le sue mani da artista-artigiano. I miei non sono solo ricordi: ho avuto la fortuna di visitare di recente lo studio di Ettore Moschetti e ho percepito lungo quali direttive prosegua la sua ricerca, tra riprese del passato, della sua storia artistica personale, e straordinarie aperture a temi nuovi. Così da grandi quadri (di una originalissima tecnica puntillistica) guardano grandi volti dagli occhi enigmatici (è l’occhio scuro di Modigliani?); così finestre reali, ma aperte sul passato, trattengono frammenti di immagini, còlti dalla vita che scorse dentro quelle mura; così figure umane primigenie, quasi epiche, nascono dall’informale, che libera il gesto e accresce l’intensità espressiva. Così, infine, grandi lampade (una nuova via aperta dall’artista) fondono assieme metallo, disegno e luce, e sembrano piegare in onda morbida la luce stessa… Che ci sia in questi lavori anche l’influenza di Margareta Niel moglie di Ettore e della sua preziosa ricerca sul gioiello d’arte e sull’argento? Credo proprio di sì: dopo tutto, assieme a Margareta, Ettore ha già realizzato opere, allestimenti, mostre: felici incontri di luce, colori, gioielli e ferro. Dentro questa varia attività creativa l’artista sta

vivendo una nuova, feconda stagione si scorgono però delle costanti: e sono le figure. Soprattutto le forme umane, che attraversano l’opera di Moschetti come immagini epiche e originali (nel senso etimologico, che stanno all’origine), dentro cui vi è certo il gioco delle sue personali radici partenopee, ricche di frammenti di classicità, e — chissà — forse anche il suo destino. Quello racchiuso in un nome antico: perché tutti noi abbiamo ammirato il divino Achille, ma abbiamo amato l’umano, umanissimo Ettore! Ora, a partire dal 25 settembre, potremo vedere alcune opere di Moschetti esposte nel prezioso spazio della libreria Bocca, in Galleria: saranno grafiche e alcuni quadri. Quella sera stessa verranno presentati per la collana “I Girasoli”, diretta da Franco Colnaghi, edita dalla libreria Bocca due volumetti: nel primo Moschetti accompagna una poesia di Biagio Cepollaro, nel secondo Margareta Niel accosta piccole, preziose, coloratissime onde d’argento a un mio breve racconto… e per me è un piacere e un onore “uscire” assieme a questi due artisti e amici! Da ultimo, Ettore Moschetti e Margareta Niel saranno presenti con le loro realizzazioni (assieme ad altri artisti) anche nello spazio espositivo di via Solferino 31, a partire dal 10 ottobre. Quest’autunno Ettore tra i libri, dunque. Ma anche Ettore a Milano.

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JOHANNES HANNOT Leiden 1633-1685

PER L’ARTE

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