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di occa ARTISTI
IN
RIVISTA
Anno IV, N. 13 • Gennaio-Marzo 2005
Direttore Responsabile: Giorgio Lodetti / Direttore Artistico: Roberto Plevano / Progetto Grafico: Franco Colnaghi Via Molino delle Armi, 5 - 20123 Milano • Tel. 02 58302239 02 58302093 - Fax 0258435413
John Keating Claran Carty Il genere classico della natura morta cade in declino nel tardo XX secolo. Forse per aver perso di vista le proprie origini. Diviene il suo contrario, qualcosa di sicuro e rassicurante, una realtà ben ordinata. Nulla di più lontano da quanto i pittori olandesi e fiamminghi avessero in mente nel XVII secolo. Gli oggetti della vita quotidiana ritratti — fiori, una clessidra, una ciotola di frutta, un orologio, una candela, una brocca o una terrina rovesciata, un bicchiere vuoto, un teschio — sono solo simbolici. Il loro oggetto è la transitorietà delle cose terrene, la vacuità del possesso, l’inevitabilità della morte. Il loro secondo titolo può essere “vanità delle vanità”, che letteralmente si traduce in “sensazione di vuoto”. Ironico è il destino di questa forma di pittura, emblematica della follia umana che conta sulle cose terrene, che avrebbe significato investimenti a lungo termine e smisurati prezzi pagati nei secoli successivi alle aste di Sotheby’s e Christie’s. John Keating sovverte questo comodo legame.A partire dagli ultimi anni ’90 dipinge composizioni di frutta e verdu-
Rafael Dussan Giacomo Lodetti Al primo impatto le opere che Rafael Dussan presenta in questa personale alla Libreria Bocca, mi danno la sensazione di una mirabile sintesi tra naturali doti di prodigioso disegnatore con quelle, altrettanto naturali, di arguto pensatore, giacché l’artista colombiano, che qui manifesta una personalità intelligente, fragile ed acuta, sembra aver voluto rappresentare, peraltro con ottimi esiti, l’invisibile, impalpabile e sottile carica di erotismo che, lungo tutta la nostra esistenza, condiziona i nostri corpi. Movimento e potenza sono le successive sensazioni che queste immagini comunicano, con le loro forme e il colore che sottende al segno una costante vibrazione di calore e sessualità. Conoscevo i non pochi problemi della miserabile e pur felice vita di migliaia di raccoglitori stagionali, legati alla raccolta delle bacche lungo oceaniche piantagioni che si estendono, verdi e rigogliose, ai piedi delle pendici dei vulcani di Antiochia. […] Ma non avevo mai pensato che la Colombia possedesse una produzione artistica, né avesse dato luce ad artisti con nulla da invidiare alla nostra tradizione rinascimentale, mai mi era passato per le mani un libro di artisti colombiani, mai avevo dovuto ricercare il catalogo di una mostra d’arte organizzata in Colombia negli ultimi trent’anni. Quando un giorno di ottobre del 2003 capita, come sempre capita per caso alla Bocca, che un tale d’aspetto molto simile ad un moderno Ulisse, di nome Rafael Dussan, entrasse in libreria, portando sotto braccio una cartella colma di suoi disegni.Voleva mostrarmeli, avendo notato dalla vetrina la presenza di una certa personalità. Ma aveva sentito parlare anche dell’attività di promozio-
ra con una modalità che si riallaccia alle origini metafisiche della materia. Uva, mele cotogne e melanzane sembrano dissolversi nella carta. Le ritrae nel momento di massima maturazione, oltre il quale ci sarà solo putrefazione. Sono la metafora del ciclo naturale di vita e morte, un annuncio di caducità. La loro provvisorietà è incarnata nella carta su cui sono dipinte. Keating ha iniziato a fabbricare a mano la sua carta di Amalfi due anni fa. Non è dissimile dalla carta pesta. La spezza e a volte la mescola con le ortiche o altri materiali organici. […] Ne ottiene una carta composta a mano, anziché modellata a mano.«[…] Non ti trovi davanti a un semplice foglio di carta bianca, sul quale imporre la tua idea. Devi rispondere e reagire al suo volere. Fluttui insieme a lei, cercando di estrarne l’immagine». La frutta è ritratta con dovizia di particolari,ma al tempo stesso sembra scomparire nella carta.Tutto è in uno stato di continuo movimento. «Non me ne sto lì seduto davanti a una natura morta e la dipingo» afferma. «In me produce un eco molto maggiore». Il modo in cui ritrae la frutta è un aspetto della decostruzione e della dissolvenza che hanno caratterizzato i suoi disegni e la sua pittura sin dagli inizi. «Cominci a renderti conto che, per quanto credi di trovarti in un altro posto, fai sempre riferimento alle cose che avevi all’inizio, agli assilli dei primi momenti»
sottolinea. «Arrivi sempre allo stesso punto, ma per vie diverse, lo guardi da un’altra angolazione». Ancora sedicenne alla scuola di Clonmel, dipingeva già con una paletta limitata di colori […]. Come gli adolescenti della sua età, si sintonizza con Woodstock e con l’intera epoca psichedelica. […]. La prima personale di Keating, allestita alla Lincoln Gallery nel 1981, è stata intitolata Orbiting Perspectives (Prospettive orbitanti) […]. La Hendriks Gallery ha presentato i suoi Human Friezes (Fregi umani), enormi tableaux ritraenti corpi sotto teli bianchi, sensualmente vivi ma nel contempo allusione a cadaveri avvolti. Nel 1996 inizia una serie di studi sulle mani della madre […]. «Le mani vivono di una vita autonoma. Sono come i granchi. Si muovono in modo totalmente indipendente. Nelle mani ci si può leggere una vita». Ritrae la madre anche in una serie di teste astratte che, come le sue nature morte, sembrano essere colte nell’attimo in cui emergono dalla carta, dissolvendosi nello stesso momento, in modo non dissimile dalla Sacra Sindone. Le dimensioni si sono ridotte, diventando più eloquenti, più prossime alla vignetta. Keating è riuscito a trovare nelle forme classiche la metafora delle sempre crescenti frammentazione e fugacità della vita moderna. Per un momento tutto è iperreale. L’attimo viene fugacemente colto. Poi fugge via nella fretta del vivere.
ne delle arti che la libreria da anni, sotto la guida della famiglia, pur tra mille difficoltà finanziarie, sta svolgendo, a favore soprattutto dei giovani. Scattò così in quel momento una scintilla dalla quale, col passare del tempo, nacque l’amicizia che portò a progettare questa mostra e questo catalogo, il cui testo è stato espressamente richiesto da Rafael, contro ogni logica di competenza. Il XX secolo è stato testimone di cambiamenti radicali nell’arte, più di qualsiasi altro periodo storico e fortunati sono coloro i quali ci hanno vissuto. Nel primo decennio del secolo il cubismo ruppe con i tradizionali metodi di rappresentazione, aprendo la strada all’astrattismo e successivamente alla prima guerra mondiale, alle avanguardie, confermando la molteplicità di linguaggi esplosi dopo la seconda guerra mondiale. […] Ciò nonostante la pittura continua a mantenere un
posto rilevante, esistono ancora artisti per i quali, come per i maestri dell’antica Grecia, il corpo umano rappresenta la sfida più grande. Dussan è uno di costoro, quello che dipinge può sembrare spesso grottesco, i suoi studi di filosofia lo portano a caratterizzare le figure come animate da una sottile sofferenza che è la sofferenza dentro la quale vive la sua gente e molta anche della nostra. «Figure che sembrano lottare per svegliarsi da un sogno o stirarsi per recuperare qualcosa delle loro forme originali. Ma la fluidità con la quale sono delineate le libera dalla loro massa, comunicando all’osservatore un’ironica leggerezza e grazia. I suoi quadri ricevono forza dall’immediatezza e dalla spontaneità del suo disegno. La sua linea vibra di poetica ambiguità, ancor più quando il disegno assume forme organiche». Queste parole di Enzo Battarra hanno colto il messaggio della sua pittura. Alessandra Merlo, storica dell’arte, scrive invece: «dovendo definire l’opera di Rafael preferisco pensare a un disegnatore e quindi a uno “scultore”, non a un pittore, se avesse senso fare queste distinzioni». Il suo segno a stento riesce a contenere i corpi che, deformi e grotteschi, travalicano le linee di confine, per intrecciarsi, contaminarsi, sovrapporsi, stratificarsi.
Paolo Scirpa per le Segrete di Bocca in 3a pagina Senza titolo, 2004 Tecnica mista su foto, cm 29 x 42
Segue a pag. 20 Individui, 2004 tecnica mista su carta, cm 100 x 35
17 Per la tua pubblicità chiama Gabriele Lodetti allo 02860806 - Giorgio Lodetti allo 0258302093
Serie Life Fragment tecnica mista su carta
Nudo di donna (Licia), 1977 tecnica mista, cm 98 x 68 Collezione G. Lodetti
Enos Malagutti Flavio Caroli «Non vorrà dire che Malagutti è piu competente di uno storico dell’arte?», mi chiese un collega, credo in buona fede, qualche tempo fa. Eh sì, caro amico, volevo dire proprio questo; che Enos Malagutti, conoscitore, restauratore (e anche eccellente pittore in proprio), stava alla stragrande maggioranza degli storici dell’arte odierni come una Ferrari sta a una Fiat Punto. Per complessità di studi: Malagutti leggeva come un disperato e aveva — lui che pure tradiva qualche complesso per la mancanza di attrezzatura accademica — un’esattezza di riferimenti bibliografici da far invidia a qualsiasi dottorando. Ma questo è il meno. Sentivo di sostenere quella modesta convinzione per l’esperienza del glorioso vegliardo, un’esperienza cominciata più di
mezzo secolo fa con Mauro Pelliccioli, e proseguita con la lunga vicinanza a Roberto Longhi (era lui spesso a trovare i dipinti su cui il maestro avrebbe tessuto scritti memorabili), e ai massimi studiosi e mercanti d’arte della seconda metà del secolo. Non ho visto una sola mostra, negli ultimi anni, che non esponesse almeno tre o quattro dipinti passati per il suo studio; degli altri, conosceva quasi sempre la storia e i passaggi di proprietà. Ma mi accanivo sulla mia idea suprattutto per un altro motivo. Per la Magia di cui Malagutti era portatore. Sono entrato con lui in quelli che ogni conoscitore sa essere gli anfratti più selvaggi dell’antiquariato e del collezionismo: i retrobottega dei raccoglitori bergamaschi e fiorentini. Rambo, al confronto, era un dilettante. Il Professore sventagliava attribuzioni (di fronte, di profilo, e, con improvvisi scatti, persino alle sue spalle) con la precisione di un guerriero assolutamente cauto e micidiale. Impugnava non un fucile mitragliatore, ma un paio di occhiali. Quando dimetteva quelli da riposo, e impugnava le lenti da guerra, erano guai per tutti. Ho visto gli abitanti di giungle avvezzi a tutte le insidie,
Franco Zazzeri scultore-scultore Giancarlo Cerri
Franco Zazzeri Campo arato, 2000 bronzo diametro cm 100
Per parecchi secoli era scultore chi scolpiva, chi, della scultura, ne faceva il proprio mestiere. Nella storia dell’arte moderna, a partire dall’inizio del secolo scorso, il concetto di “scultura” è profondamente mutato: ovvero, per essere scultori, non è stato più necessario saper scolpire. Ora, se percorriamo l’itinerario dal secondo dopoguerra ad oggi, si potrà constatare quanto sia avvenuto in proposito.Ad esempio: graduale ma inarrestabile abbandono dei materiali tradizionali (marmo, pietra, bronzo), sostituiti da ferro, lamiera, resina e tante altre materie industriali. Inoltre, la grande promiscuità delle varie discipline artistiche, avvenuta dalla seconda metà degli anni Quaranta sino alla nostra contemporaneità, ci fa considerare, sotto certi aspetti critici, la stupefacente evoluzione (anche, a volte, involuzione decadente), dei vari modi d’intendere scultura, pittura, architettura. C’è dunque modo e modo, negli ultimi decenni, d’essere scultore, pittore, architetto e così via. C’è chi è scultore-pittore, chi scultore-architetto, chi, invece, vuol essere ancora “soltanto” scultore, nel senso più autentico del termine stesso. Franco Zazzeri (1938) è tra questi e, a parer mio, ciò gli fa onore. L’artista aretino è scultore nel senso più tradizionalmente e culturalmente italiano. Le sue innovazioni, tipiche della generazione anni Trenta, tengono però conto del passato più recente, anche in campo internazionale. Avendolo conosciuto ormai molti anni orsono — nei primi anni Sessanta — ricordo e rivedo il suo periodo “figurativo”, con le tematiche preferite: Natività, Nucleo famigliare, Implorazione. Già era evidente la sua caratteristica primaria: innata capacità di sintesi accompagnata da rigore compositivo. Da quel tempo ormai lontano, Zazzeri ha percorso il
Alexander Kossuth Michael Engelhard
Emanuela danzante 2002 bronzo h cm 83
L’opera di Alexander Kossuth conosce un unico tema: la figura umana. Evidentemente è convinto che tutto ciò che muove l’uomo, tutto ciò che lo riguarda, tutto ciò che l’uomo è, possa essere rappresentato nella figura umana. Questa convinzione si fonda su un’esperienza tanto sensoriale quanto spirituale e psicologica. Il corpo umano è ai suoi sensi, al suo occhio, al suo tatto l’oggetto di gran lunga più interessante, in quanto il più bello, della natura visibile. Tutte le sue opere irradiano questa gioia sensoriale originaria per la bellezza della forma umana sia nella sua interezza che nelle singole parti: orecchie, nasi, mani, piedi, articolazioni, ogni singola forma lo affascina tanto quanto la figura intera formata (non composta) da tutte que-
suo itinerario che l’ha portato sino ai giorni nostri tramite tappe non brevi, dove si è soffermato a lungo su meditate ricerche ed appropriate scelte. All’inizio degli anni Settanta lo troviamo intento a sviluppare geometrizzazione dell’immagine con opere particolarmente significative quali: Stratificazione e Concetto geologico, composizioni verticali tendenti ad aspetto monumenta-
Nudo di schiena (Luisa), 1984 tecnica mista cm 68 x 48 Collezione G. Lodetti
inchinarsi davanti a lui come al cospetto di un sovrano. Finisce un mondo. Malagutti, il più grande,era veramente uno degli ultimi giganti. Per di più, era generoso: alzi la mano chi non ha avuto un parere prezioso o un aiuto insostituibile, raramente riconosciuto. Non si lamenti sempre, Professore. Non perde niente. C’è tanta bella gente lassù. Scommetto che Longhi le ha accarezzato la testa come accadde nel ‘40 ed è tornato sull’anello mancante nei primi anni del Correggio… Noi invece abbiamo perso lei. E non è che non sappiamo come sostituirla. È che non la sostituiremo più. le. Segue il quinquennio 1975-1980 con altre due tematiche predilette: Genesi dell’uomo e Genesi della sfera, entrambe intese in senso geologico. Opere, queste, dov’egli compie un’indagine di escavazione della forma per giungere ad una drammaticità introspettiva. Dalla seconda metà degli anni Ottanta procede con opere di ragguardevoli dimensioni realizzate in chiave sempre più essenziale (Figurazioni astratte dell’inconscio, Albero geologico, Parallelepipedo) dove la forma torna, sempre più, a salire. Opere severissime, queste ultime, assolutamente prive di orpelli, di tutto ciò che può considerarsi “inutile” all’opera stessa. Sempre innamorato del bronzo, materia di cui egli conosce ogni segreto, Franco Zazzeri prosegue nel suo itinerario e, in anni recenti, elabora opere quali: Resurrezione, Traslazione, Sorgente, Campo arato, tutte appartenenti al ciclo anni Novanta-Duemila. Gran bel “giro” di sculture, queste dell’ultimo decennio, dove il maestro toscano esprime pienamente la sua personalità ed il forte senso del “mestiere”, qui inteso nel senso più alto del termine stesso. Il curriculum del Nostro è ricco di importanti mostre personali e rassegne collettive d’alto prestigio. Qualche “personale”: Galleria Montenapoleone, Milano (1967); Galleria “La Darsena”, Milano 1970, ’73); Arengario di Monza (1974); Galleria Zunino, Milano (1975); Palazzo dei Diamanti, Ferrara (1980); Galleria Schubert, Milano (1995, 1999); Palazzo Pretorio, Sondrio (2002). Alcune rassegne nazionali e internazionali: Biennale del Bozzetto, Padova (1979); Biennale di Milano (1984, 1989); Biennale di Venezia (1986); Quadriennale di Roma (1999). Sue opere sono state acquistate da Enti Pubblici e collocate in importanti luoghi quali, tanto per citarne qualcuno, Metropolitana Milanese (Stazione Centrale), Aeroporto di Milano-Linate, Comune di Milano, sede di via Pirelli. Franco Zazzeri l’ho sempre considerato scultore-scultore, un puro nel suo modo d’intendere la Scultura. Egli è, a mio giudizio, tra gli artisti più interessanti della sua generazione.
ste forme. La forma e l’espressione dei dettagli armonizzano sempre stupendamente con la forma complessiva e con l’espressione, potenziandola e chiarendola. La posa di un indice “parla”. Questa esperienza sensoriale della bellezza del corpo umano distingue l’arte di Kossuth dal classicismo. Quest’ultimo ha un’«idea» di bellezza umana improntata all’antichità, è arte dall’arte. L’arte di Kossuth non fa riferimento all’esperienza dell’arte esistente, bensì alla sua personalissima visione. Non è spinto da un’idea di bellezza umana tramandata dall’antichità, bensì da quel che vede e riscopre da sé in maniera assolutamente nuova.“Questa «l’esperienza primordiale» del suo essere artista […].” evidente che nel rappresentare la figura umana Kossuth giunge e deve giungere a soluzioni formali che sono assolutamente nuove, per le quali non esistono modelli. Praticamente in ognuna delle sue opere egli ci dimostra che in rapporto al tema della figura umana vi è ancora infinitamente tanto da scoprire e da inventare […]. Nelle figure di Kossuth percepiamo con la stessa intensità tanto la loro sensualità quanto il loro appagamento spirituale. Esse sono strabiliantemente identiche a sé stesse, ovvero sono forma. Non mentono. Sono quello che sono […]. Così come le sue figure significano solo sé stesse, anch’egli è esclusivamente sé stesso. Semplicemente non gli interessa cosa fanno gli altri, cosa pensano o scrivono di lui. Non appartiene a nessuna scuola, non segue nessun maestro, nessuna tendenza, nessun ismo. La sua opera è l’espressione compiuta della sua persona.
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Emanuela con la sfera, 2002, bronzo
Al Caffè degli Artisti Giacomo Lodetti
Dialogo arcaico fuori misura, 2004 tecnica mista su carta cm 35 x 110
Segue da pag. 21
...Rafael Dussan Alcuni particolari risaltano, come quelle mani nodose che sono sempre in primo piano, come artigli pronti a ghermire i pensieri, corpi senza spessore, diafani, impalpabili, trasparenti eppure abbondanti, invadenti, maternamente generosi e opulenti. Dussan è un autentico artista ispirato, pensa col disegno, parla col disegno, sogna col disegno, vive per il disegno e finirà col raggiungere la celebrità col suo disegno, questo è il mio augurio. […]
Danzatori, 2003 tecnica mista su tela cm 39 x 103
Prosegue l’iniziativa del Biffi, Storico locale degli Artisti, attivo in Galleria Vittorio Emanuele II fin dalla sua inaugurazione,risalente al lontano 1867 che, in collaborazione con l’altro locale della Galleria, la Libreria Bocca, ha dato vita, ad un programma di proposte artistiche, con l’obiettivo di avvicinare il grande pubblico della Galleria, alla produzione dei nostri più rinomati artisti. Dopo l’esordio, avvenuto nel settembre del 2004 con Max Kuatty, le mostre sono proseguite con opere di Giovanni Sesia, nel mese di ottobre, Francesco Chieppa che ha esposto il suo Sublime Callas il 7 dicembre, giorno dell’inaugurazione del rinnovato e ammodernato Teatro alla Scala,Walter Valentini, nel mese di gennaio 2005 e Giancarlo Ossola nel mese di febbraio. Sono previste, a breve, esposizioni di Luiso Sturla,Adalberto Borioli e Giorgio Milani.
Francesco Chieppa è nato nel 1955. Vive e lavora a Milano. Nell’ambito della pittura neoespressionista rappresenta uno degli esponenti più importanti, di fama internazionale. Ha all’attivo numerose performance in Germania, Gran Bretagna, Francia, Spagna, Portogallo, Cuba oltre che in Italia. Sue opere sono presenti nei musei di Jena, Eisemberg, Città del Vaticano e l’Havana.
SpazioBoccainGalleria fino al 9 marzo 2005
Francesco Chieppa, Sublime Callas
Pierantonio Tanzola
Pasquale De Luca
I ri…tagli di vita
La terra e l’anima Antonio D’Amico
Aldo Benedetti
Senza titolo, 2004 olio su tavola
Giancarlo Ossola, Atelier 3 (A Vlaminc)
Se occorreva una prova che la pittura fosse sublime declinazione della fotografia, ci viene fornita in modo autorevole dalle opere di Pierantonio Tanzola (Udine 1963), giovane e promettente pittore di eccezionale talento. Ed è proprio un magico coagulo quello che riesce a fissare, un dripping di sensazioni che si rapprendono prima di colare nel vuoto, foglie mai cadute che volteggiano nell’aria tracciando profili con la stessa casualità della nostre esistenze. L’artista proviene da un’esperienza di fotografia che ne ha maturato la capacità quasi concettuale, essenzialista, di vivisezionare la realtà. Non sono immagini rivolte a cogliere situazioni originali, in grado di suscitare curiosità o attenzione, ma soggetti di deformata quotidianità: il taglio fotografico, obliquo e interrogatorio, pare volerci suggerire la sfuggevolezza del banale in tutta la sua frammentaria e discreta ricchezza, comunicarci un senso di profondità e transitorietà, di fuga studiata da un realismo ingombrante o presuntuosamente metafisico. Non a caso i titoli delle sue opere rappresentano proprio l’orario in cui l’artista le ha create, scrivendo quasi un diario personale delle sue emozioni, un autentico reportage esistenziale, quello di un “inviato normale” che di speciale ha una straordinaria capacità tecnica di rappresentazione e un’invidiabile abilità nel trasformare ogni situazione in gioco della memoria, forse, conscio rifiuto di quell’incombente avvertimento (“ed è subito sera”) che cerchiamo di esorcizzare.Tanzola è il fotografo di una umanità colta nella sua normalità, o, meglio, accolta in un corale abbraccio grandangolare che ne deforma i contorni nel tentativo di insinuarsi nelle pieghe più sottili, di accarezzarne i profili più lievi: dimostra un sentimento di umana pietas verso i soggetti delle sue opere, impegnato a sdrammatizzarne i ruoli, a demolire la grandiosità delle architetture che ne oppri-
mono la dimensione. Anche l’imponenza dei classici palazzi italiani o il tumulto delle metropoli sono rappresentati con una eccezionale tecnica figurativa, ma sempre in una prospettiva da farne mettere in discussione la stabilità, quasi a farci avvertire un sottile complesso di insicurezza. Sa farci accettare la vita, dipingerci eroi di un istante, sussurrandoci con estrema delicatezza la chiave di un mistero: la sua tecnica ricorda quella di un grande artista francese, Gustave Caillebotte, forse il più moderno degli Impressionisti, colui che seppe trasferire le suggestioni della nuova pittura dal paesaggio en plein air all’ambiente delle città, agli interni, alla fretta bruciante del secolo nuovo.Tanzola è invece figlio del nostro sentire, avverte un geometrico smarrimento, non crede ai “magnifici destini” dell’umanità, l’impianto architettonico è un’audace tecnica demolitoria, commemorativa di un fragile equilibrio. Sono autentici ritagli di vita quelli che Tanzola tende a consacrare in gesti inutili e banali che ci consegnano all’indifferenza, le sue opere sono un vero monumento al “limite ignoto”. Qualcosa che appare, 2004, olio su tavola
La Galleria Nuovospazio Artecontemporanea via Calzolai, 24 - Piacenza info:
[email protected] dal 2 al 30 aprile 2005
Giunge a noi dalla Magna Grecia,terra di tradizione e fervore, alla ricerca del suo colore, quello denso e ricco di tutta la solarità che si respira in Calabria. È in quei luoghi che gli antichi trovarono la perfezione e da sempre i buoni sapori si concentrano nell’umiltà di prodotti che la terra elargisce solo a quel popolo con cotanta ‘beltà’. I calabresi, gente accogliente, valorosamente coscienti delle loro doti, legati alle radici di una tradizione che si rinnova nei loro cuori ogni giorno.‘Carismi’ questi che in Pasquale De Luca e soprattutto nella sua arte rivivono e si materializzano La finestra, 2004, olio su tela ai nostri occhi attraverso la pastosità dei colori che compongono forme fulgide, opulente e vivide, proprie di una polarità dicotomica: l’amore per la propria terra e l’entusiasmo per l’arte. De Luca è figlio di quell’ardore emozionale! La ricerca visiva che l’artista opera nei suoi ultimi lavori mira alla riscoperta del suo animo come protagonista del suo futuro; l’impegno che attraverso la pittura si esplicita è il sinonimo della maturazione di un percorso che dalla pura visibilità dell’oggetto, colto dal vivo nella sua essenza fisica, giunge alla scarnificazione del pensiero con l’emergere, in assoluta evidenza della tela grezza: morfologicamente sinonimo dell’animo umano. Mille rughe, le trame della tela, la piatta freddezza della materia… un antipodo che si esprime attraverso l’incomprensione di una società che insegue strade forse lontane e poco aderenti alla semplicità delle forme pure! Se Pasquale De Luca con le sue figure appena accennate, scalfite dalla ‘macchia’ grezza della tela esprime il suo stato d’animo scegliendo il pretesto figurativo, l’interrogativo ‘impressionistico’ è dato dall’enigma che suscita in chi guarda le sue opere… può considerarsi un’esigenza surrealista di giudizio? Passa un messaggio di riflessione, in questo mondo sempre maggiormente privo di paletti di sicurezza; affacciandosi dalla finestra del proprio io, l’uomo contemporaneo cosa vede? L’arte di Pasquale De Luca ci invita a ritrovare noi stessi attraverso semplici prati coltivati con alberi i cui frutti sarà bene gustarne nella piena totalità e con coscienza di ciò che siamo… forse, quest’arte, nel suo inconscio potrebbe rivelarci ciò che saremo!
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Giacomo Sampieri
Relax, 2004, Olio su tela
Attualità della forma nei ritratti dipinti Giorgio Auneddu
“Preferisco dipingere degli occhi umani piuttosto che cattedrali, per quanto maestose e imponenti siano, l’animo di un essere umano, anche gli occhi di un pietoso mendicante o di una ragazza da marciapiede sono più interessanti di tante altre finte bellezze…” (Vincent Van Gogh) La vera bellezza, quando la si incontra e riconosce nel percorso della vita, è sempre incontro di esperienza e cultura. E ciò è ancora più vero se la si commisura all’armonia di un paesaggio o al corpo di una donna. Arte come nostalgia di bellezza nel mondo è capace di tramutare, o trasfigurare, le parti più retoriche o banali dell’apparenza delle cose, con le meraviglie fisiche e metafisiche della loro manifestazione. Per noi nel corpo di una donna vi è la stessa bellezza del mondo, poiché nella bellezza delle sue forme vi è racchiuso il felice lampo dell’essenza della vita. Luce e anelito di espressione e sublimazione del giorno e della notte, ovvero della quotidiana realtà, che trova, come in una poetica stagione totale, nell’opera dell’artista una propria ed attuale significanza interpretativa. Dipingere la bellezza nelle sue forme più libere, espressive e comunicanti, è stato sempre un banco di prova non solo tecnica e compositiva, ma anche stilistica, per l’artista. L’ossessione per il soggetto da dipingere — come indicava Francis Bacon all’amico Lucien Freud — è l’unico impulso necessario al pittore per mettersi al lavoro e potersi esprimere:“… Un segreto diviene noto a chiunque osservi il quadro attraverso l’intensità con cui è sentito. Il pittore deve sbrigliare qualsiasi suo sentimento per l’immagine che ha davanti e non rifiutare nulla da cui sia naturalmente, istintivamente, attratto”. Del resto anche Freud sostiene che il ritratto si realizza con la piena partecipazione dell’essere umano in posa. L’arte del ritratto, infatti, esige un continuo e sincero rapporto tra pittore e modello, tra l’artista e il suo soggetto. Così soprattutto per la fisicità del corpo e al contempo il suo lirico sentimento, nella sua più fragile e piena bellezza. I dipinti di Giacomo Sampieri sono corpi di giovani donne, appena uscite dalla piena pubertà, non più tremanti, ma già adulte nella loro spregiudicatezza, sono dipinti senza vergogna, a volte con coraggio di trasposizione succinta e di sintesi Michela, 2004, Olio su tela
Fausta Dossi Sara Fontana
Danza spettrale, 2000, maniera nera stampata con torchio calcografico, cm 24,5 x 32
L’opera di Fausta Dossi è intensa e sincera, essenziale e ricca di suggestioni, vigile sulla realtà e protesa allo stu-
della forma antiretorica, davvero attuale. I suoi spazi figurativi sono neutri e crudi, permeati di intrigante luce intensa e sensuale, in accordo con la forza aggressiva della posa arrogante, forse anche per questo positiva e stilisticamente buona e riuscita. I suoi corpi sono nudità senza essere mai nudi, sembrano sfidare chi li osserva, non si prestano ad essere toccati, ma solo ad essere visti. Così Francesca, Olga, La ragazza in bianco e la sedia rossa, intensi esempi del repertorio di ritratti di Sampieri. Sono giovani donne che sanno come esprimere la loro emancipazione, e la loro bellezza è riferita alla stessa immagine che oggi propone la società moderna. Immagini di donne stereotipate dalla società consumistica dell’era tecnologica, che vuole la donna espressamente bella, seducente e fotogenica. Ecco anche perché la scelta delle sue modelle ricalca la posa fotografica dei patinati rotocalchi alla moda, e spiegato il perché la fotografia artistica è alla base del suo lavoro, quale mezzo per cogliere dal vero, con un sapiente scatto, le immagini che altrimenti non sarebbero colte così rapidamente ed efficacemente. Il mondo della figura femminile, con i suoi mille corpi armonici, belli e significanti come volti, con gli innumerevoli ritratti, fragranti e morbidi come petali di fiori al primo sole, diviene fonte di sorgente, ricca di intensa motivazione di ricerca, cioè vera protagonista, soprattutto nella produzione più recente, dell’arte di Giacomo Sampieri. L’artista ragusano, ma da sempre attivo in Piemonte, dove la sua famiglia si trasferì a Settimo Torinese dal 1956, è figlio d’arte: il nonno paterno era pittore ed affrescò importanti edifici pubblici e privati quali la Villa di Donna Fugata e lo stesso Duomo di Ragusa. Il Sampieri è anche pittore di estrema educazione sensibile verso espressioni e tematiche quali nature e paesaggi spesso ripresi dal vero, durante i suoi viaggi estivi, en plein air con la particolare tecnica del pastello e dell’acquarello su carta, con le quali raggiunge (vincendo premi e segnalazioni anche internazionali), suggestivi e delicati effetti espressivi, intessuti di flebili e trasparenti chiarismi qualitativi. Nella sua formazione artistica, dopo gli studi tecnici, e l’assidua e appassionata frequentazione delle sale dei musei, completa la sua ricerca pittorica con la frequentazione del pittore Romano Campagnoli (già allievo di Italo Cremona), uno dei più originali artisti piemontesi attivi a Torino, da cui apprende in parte, oltre al gusto ironico per la vita, lo studio della luce e il senso coloristico a favore dell’equilibrio cromatico e della libertà compositiva e antiretorica, eccellenti qualità estetiche che incideranno positivamente nella evoluzione stilistica dei suoi ultimi lavori. Nelle sue tele la presenza dell’artista se è nell’atto stesso del dipingere, è anche, e significatamente, nello specchio dilatato della stessa introspezione soggettiva, incantata ed incantevole, azione del silenzio. Azione del silenzio che è ad esempio nello sguardo intenso ed emotivo delle sue edulcorate modelle da rotocalco. Sguardi apparentemente indifesi, e invece pieni di energia di vita, ove vi è tutta la bellezza del corpo. E nell’attesa degli eventi della vita, lo spazio del corpo è fondamentale, ogni donna lo sa. Forse il pittore Sampieri vuole comunicare con le sue
modelle la pacata e insieme sconvolta e vaga rassegnazione al dolore del non poter avere, e al dolore che la sua sincera bellezza possiede. Corpo di donna come volto davanti al mondo. Nel suo stato fisico e metafisico, oltre lo spazio ed il tempo.Attualissima verifica di pittura la sua, nell’attuale recupero delle realtà del sentimento del corpo e della figurazione, oltre le cerebrali neo-teorie della forma, propria delle più aggiornate tendenze pittoriche internazionali della postavanguardia. In ogni suo ritratto, che in sé raccoglie il senso della attualità dell’azione, del movimento e del gesto, si percepisce il fascino di ogni piega della pelle, di ogni più lieve sfumatura, di ogni palpito cromatico, appena accennato sulle sfumate gote o sulle giovanili labbra dal sensibile e morbido disegno. Si percepisce, se non si è proprio insensibili, il fascino dicevo, del fare pittura per il gusto di esserci dentro, senza artificio o inganno, di esserci davvero, per sfida od orgoglio, quasi ossessivamente, disperatamente. Dipingere come felice ed appassionata arte del conoscere e del conoscersi. I suoi ultimi lavori sono per lo più ritratti intensi e magnetici, che sembrano dipinti senza respiro, in quell’essere colti in un estremo atto di sintesi del corpo, come colti e rappresi in un rapido e simbolico flash fotografico, in cui si può restare muti e senza fiato, in una metafisica e silente attesa. I suoi ritratti sono fermi e stagliati nel nitido contorno, in piena luce sul piano dello sfondo piatto, simbolico come una texture di manifesto pubblicitario, senza altra descrizione se non la superficie cromatica depurata, permeata di un chiarore estremo, che accentua l’intento antidispersivo, lasciando sconcertato e solo lo spettatore al centro del quadro, conducendo la visione verso la piena realtà dello sguardo: quale migliore azione silente nel conoscere e riconoscersi attraverso un ideale specchio dell’anima?
dio dell’antico. Riflette, in parte, il suo temperamento di donna schietta ed ironica, sempre appassionata e totalmente dedita verso ciò che fa. La curiosità e la sperimentazione tengono viva la sua ricerca, che da alcuni decenni è fluidamente distribuita fra pittura, scultura e incisione. Un lavoro rigoroso, sostenuto da pragmaticità e consapevolezza, che tuttavia lasciano ampio margine al mito e all’immaginazione. Forme astratte, cariche di memorie, di silenzi e di attese, talora interrotte da squarci improvvisi, evocano elementi della natura e del cosmo. Ultimamente è spesso protagonista la scrittura — in realtà un antico amore di Fausta Dossi —, con caratteri più chiari e leggibili nei collage, con segni grafici ambigui e misteriosi, ancora in attesa di decodificazione, nelle sculture in legno e in bronzo. L’artista opera da sempre tra due poli di attrazione, l’orientamento a una solida strutturazione delle forme e l’inclinazione verso la levità dei materiali e delle tecniche. Due vocazioni che si distanziano e si ricongiungono continuamente, alla ricerca incessante di nuove soluzioni. Lo si intuisce nelle maniere nere Corpi senza peso e Danza spettrale, con il movimento fluttuante delle sagome femminili bianche su fondo nero. Altrove, nelle incisioni, sono invece linee sottili che generano trame inquiete, campi di azione e aree neutre di passaggio. Insieme, questi elementi accentuano il senso della profondità. Lo si percepisce nelle opere bidimensionali, che inqua-
drano l’espressività materica (affidata ogni volta a materiali diversi) all’interno di una rigorosa architettura spaziale. La scelta del collage, sempre più frequente negli ultimi anni, risolve tale connubio in composizioni attentamente calibrate e in preziosi effetti di trasparenza. Oppure, nella serie ultima di Geografie dimenticate, in vivaci accordi cromatici. E infine lo si coglie chiaramente nelle sculture, in cui il peso della massa plastica è alleggerito da fessure, da spazi vuoti e da motivi decorativi, che esaltano il ruolo della luce e le proprietà intrinseche dei materiali. Qui soprattutto si svela la forte tensione ascensionale e trasfigurante, di significato spirituale, che muove la ricerca di Fausta Dossi.
Sul canapè, 2004 Olio su tela
Stivali di ritorno, 2004 Olio su tela
SpazioBoccainGalleria dal 5 al 20 aprile 2005
21 Per la tua pubblicità chiama Gabriele Lodetti allo 02860806 - Giorgio Lodetti allo 0258302093
Fiore del giardino segreto bronzo, cm 53 x 33
Fra Poesia... e Arte Donne
Spelta, Donne, acquatinta con interventi di colori naturali e supporto di materiali misti (plastica e alluminio), cm 50 x 50 € 380,00
Siamo donne, figlie di Artemide, innamorate della Luna. Abbiamo riso e pianto, stretto i denti nel dolore, nelle nebbie degli autunni e nel Sole delle primavere. Siamo forti sideree
eterne sublimi e spietate per arditezza d’Amore. Coglieremo ancora profumi nei campi di biancospini e di viole. Ce lo impone la vita!
Grazia Greco Angela Sassu, In attesa dell’amore, olio su tela cm 120 x 145
€ 1.500,00
Il desiderio Nei tuoi capelli Mi portasti Un po’ di sole, tanta luce negli occhi, tanta gioia nel cuore, un nodo alla gola quando non ci sei, una immensa felicità nelle tue carezze, tanta malia
nelle tue parole ma, tanto vuoto quando al tramonto ti penso e sei lontano, quando ricordo quei baci che m’han fatto impazzire e il desiderio inchioda il mio cuore. Grazia Greco
Daniele Baldo, Creazione, olio su tela, cm 80 x 80
€ 1.100,00
Piangere
snebur S E Q U E N Z E dal 22 febbraio al 16 aprile 2005 inaugurazione lunedì 21 febbraio, ore 18.30
MOVIMENTO ar te contemporanea
L
Corso Magenta 96 ■ Milano ■ T/F 02 436246 www.movimentoarte.it ■
[email protected] martedì-venerdì 14.00 ■ 19.00 sabato 11.00 ■ 19.00 al mattino e il lunedì su appuntamento
È come se all’improvviso nella vita di tutti fosse rimasto solo il bisogno di piangere. Ognuno è solo con le sue ferite e nessuno si affretta a guarirle. Com’è bella e vuota
questa casa! Se non fosse per qualche nota di Chopin ci sarebbe il silenzio delle veglie di lutto. Non si può nemmeno accendere il televisore perché la tragedia ci assale. Grazia Greco
Chi fosse interessato alle opere può contattare il numero 3382380938
Christian Zucconi
Graziella Bertante
Recupero di forme dissolte
La sospesa realtà tra l’apparire e l’essere
Aldo Benedetti
Laura Gavioli
Ho sempre ritenuto che l’Arte sia sofferta ricerca di un personale alfabeto espressivo, sfida per la conquista di autonoma capacità interpretativa: così lo scrittore vuole segnare la pagina bianca, lo scultore sagomare il blocco informe di pietra, entrambi intenti a colmare un vuoto incombente, a tracciare un segno di passione entro cui riconoscerci, intuendone l’angoscia segreta. Proprio a questo proposito, chi ha la fortuna di conoscere Christian Zucconi avverte una particolare tensione comunicativa, il desiderio di scolpirti l’immaginazione, quasi a inciderti il cuore, affiancandoti in un viaggio simile al Purgatorio dantesco, rivisitazione di un tempo che è magico recupero di forme dissolte, rilettura di parole svanite. È un materializzarsi di corpi, un affollarsi di voci che rianima un teatro oramai deserto, dove si rievocano ruoli consunti, si ripensano testi mai scritti. È una plasticità sofferta, che ha radici lontane, prende forma dalla religiosa sacralità degli stilizzati bassorilievi romanici per attingere alla irrequieta e vacillante monumentalità michelangiolesca, alla pensosa dinamicità di Rodin, alle corrosive deformazioni di Giacometti, alle etrusche proporzioni di Marini fino allo scavato dolore di Wildt. Ma il Nostro si rivela originale mandante testamentario di questa storica tradizione, ne fa anzi una autorevole trasposizione dantesca, plasmando la materia con la stessa precisione di un sismografo, registrando l’intensità dei sussulti umani, delle angoscianti perturbazioni di affetti e desideri: “secondo che ci affliggono i disiri e li altri affetti, l’ombra si figura”, come recitava l’Alighieri. La tensione plastica delle figure di Zucconi riflette questo pedaggio di sofferenza, le membra allungate, le mani deformate, i visi Amputazione, 2004, travertino persiano scavati sembrano invocare un’assoluzione, chiederci conferma della loro stessa dubbiosa consistenza, implorarci una fuga da quella prigionia di pietra, da un destino sottolineato con drammatica crudezza. È affascinante come lo spirito ribelle del Nostro, il suo impeto di figurare le nostre ombre utilizzi una tecnica istintiva, a taglio diretto, senza bozzetti preparatori, estraendo dalla materia con incisiva naturalezza ciò che essa ci nasconde e nel contempo ci invita a riconoscere, quell’immagine di umana pietas adagiata sui corpi corrosi e tarlati da un tempo impieto-
Giovanni Buoso La memoria dei libri Bruno Vergano Sfumature e dissolvenze pergamenacee. Muti frammenti di colore, simboli, reperti. Bandiere senza patria. Parole sprofondate nella memoria dei libri; pallido è il ricordo, ma la materia rimane, confusa ed attraente.
Uomo spezzato, 2004, travertino persiano
so che non ammette mutilate e tardive manifestazioni di rimpianto per parole mai pronunciate, carezze mai date, sorrisi mai regalati. Allo stesso modo la dantesca passionalità di Zucconi è sostenuta da un’eccezionale qualità esecutoria che non ammette ripensamenti o tentennamenti progettuali, ma incide la pietra con la spigolosità sensoriale di un pittore cubista, coniugata alla consumata abilità artigiana di un fabbro che modella ferrei fantasmi: le figure paiono così vestire la virginale immediatezza di un ordine perentorio dell’anima, assecondare una sentenza di immediata esecuzione. Zucconi non utilizza il freddo nitore del marmo per le sue opere, ma un travertino persiano che richiama il calore del rosa delle costruzioni romaniche e trasmette un sussulto di umana partecipazione nel mostrare quella caratteristica porosità superficiale che pare anticipare un’osteoporosi dell’anima, un disfacimento annunciato, tragica dissolvenza sostenuta da un sogno tenace come la pietra, a dispetto dell’effetto di avanzante devastazione. L’irruenza vitale e la innata raffinatezza impreziosiscono le opere di una sensazione di sbozzato secondo l’antica tecnica del non finito, di quell’essenziale michelangiolesco che ritroviamo nella Pietà Rondanini degli ultimi anni del superbo maestro toscano, in una composizione che è quasi apparizione, dove la realtà delle proporzioni risulta magicamente superata dalla misura di un dolore e un amore che sono evangelico riscatto, promessa di ritrovare in ognuno di noi il volto di Dio. Zucconi sembra ancora raccogliere un’altra suprema eredità artistica, quella di Rodin, e aprire, superandola, la Porta dell’Inferno realizzata dall’artista francese per il Museo delle Arti Decorative di Parigi seguendo lo schema di un dantesco groviglio di corpi che testimoniano il tormento umano: ma il Nostro ci apre uno spiraglio di speranza, un prezioso e pensoso riscatto da quei “disiri” che fanno del nostro vivere un quotidiano Purgatorio. Accogliamo queste stupende creature come silenziosi compagni di viaggio, massicce e delicate presenze che ci invitano a credere che nessuno di noi è orfano,ma vive in un sogno collettivo popolato dalle nostre ombre, animato dalle nostre pulsioni, da umani e tormentati “disiri”. Questo il primo impatto visivo con le opere pittoriche di Buoso, nel tentativo di sintetizzarne il messaggio. L’ispirazione, lo si percepisce con immediatezza, parte sempre dal profondo, anche se apparentemente sopraffatta da schemi compositivi ritmati dall’eleganza di accostamenti cromatici e formali. Il desiderio di dare un nuovo abito a scarti di materiale cartaceo, a dismessi ed inespressivi brandelli di tela e di pergamena, altro non è per Buoso che il risultato di intuizioni innovative, uniche, sapientemente mediate. Protagonista assoluta è la “materia” trasformata in objet d’art, capace da sola di suscitare sensazioni ed emozioni.
3 Cuoio su tela, 2004 cm 20 x 20
Frammenti di pergamena e tempera colorata su cartoncino, 2004 cm 21,5 x 30
Le ragazze, le bambine, le donne che interpretano nella terracotta i ruoli della vita, assegnati loro da Graziella Bertante, sono delle dolci e ironiche creature che recitano la loro parte sulla scena quotidiana. Sono figure che ispirano un certo senso di normalità e offrono un modello di vita credibile anche se si tratta di una vita speciale, si può dire una vita in parallelo con l’esistenza della loro madre-autrice la quale vuole per esse il massimo, il meglio e sembra dirci che tutto deve essere perfetto! Infatti l’esecuzione della forma della scultura, così come la laboriosa ed accurata dipintura della terracotta,rispettano il più scrupoloso naturalismo; gli incarnati delle fanciulle,le vesti,gli accessori, le passamanerie, gli animaletti da compagnia (La bella e il soriano), e poi le panchine (Ai giardini), i divani, i giochi: tutto è della massima importanza perché questa esistenza sia completa e confortevole, rassicurante e felice. L’opulenza delle forme serve a sottolineare il piacere del cibo e diverse sculture riprendono il rito pigro dei pasticcini ben ordinati sul vassoio e pronti per essere assaggiati, ma anche il piacere dello svago e del gioco, riproposto con La voce della radio, con lo Spazio onirico, dove la bambina è inginocchiata sul cavallo a dondolo; è evidente pure l’amore per il fantastico e per il mito, che fa parte della scuola e della cultura dell’artista e la coinvolge fin nelle sue radici più profonde ed intime, basta osservare alcuni lavori recenti come Inesplorate terre, L’unicorno, Incontro speciale, Le asinelle e Prima lezione di volo... Le forme generose delle nostre ingenue e felici creature sono il motivo ricorrente del lavoro dell’artista, ma esse non devono essere interpretate come il significato ultimo e determinante dell’opera perché così facendo si andrebbe a ridurre il senso di questa ricerca a semplice trasposizione ironica della realtà oppure a compiaciuto perdersi nei meandri del sogno. Certo si comprende bene come l’artista sappia usare gli artifici e le metafore per non scoprire apertamente la sua verità che invece è più confidenzialmente riservata al mezzo della parola ed è rintracciabile nella sua poesia. Ne risulta che la lettura profonda del suo lavoro artistico non passa solo attraverso la carezza epidermica dello sguardo sull’opera di scultura e non sta nel compiacimento tollerante per la carne esibita con tanta innocenza orgogliosa.Si sa che il soggetto dell’opera d’arte non è molto di più di un espediente per l’artista,di un mezzo per lanciare un messaggio più complesso e importante. Così è anche per il lavoro di Graziella Bertante che non può essere guardato dall’esterno, semplicemente per quello che appare, ma necessita di un sondaggio più accurato e di uno sforzo di comprensione per entrare dentro e capire cosa vuole dirci veramente, qual’è il profondo significato che sta prima e oltre la felice apparizione. La sua poesia, decisamente presente come attività parallela alla scultura, ci può indirizzare e aiutarci a comprendere cosa si cela dietro il sorriso e la pacifica abbondanza: Più che nell’azzurro/ è nelle nuvole/ che voglio stare/ Immersa fino al collo/ in una profonda catarsi/per morire senza dolore. L’idea che la Bertante vuole portare all’evidenza dell’opera d’arte non è quindi quella che può venire da una lettura semplice e perfino superficiale, ma al contrario come nell’opera Le maschere, ci sono tanti aspetti e messaggi cifrati dietro la facciata apparente di questa esibita “incantata realtà”. Profondi significati e riferimenti alla nostra vita reale, alla storia, come nelle recenti opere Ricordando Praga, 2003, oppure Venti di guerra, 2003-2004, o L’albero filosofale, 2002 circa, oltre alle tre sculture Le stilite, donne che dall’alto della loro colonna di espiazione e di purificazione, lanciano al mondo dei segnali, pregano e predicano, scongiurano, gridano il dolore di vivere, mai assopito nei secoli dei secoli, ma nello stile di oggi e mostrando la consueta noncurante leggerezza...
SpazioBoccainGalleria dal 16 al 30 marzo 2005
23 Per la tua pubblicità chiama Gabriele Lodetti allo 02860806 - Giorgio Lodetti allo 0258302093
Venti di guerra, 2003-04 terracotta policroma
Le maschere, 2002 terracotta policroma
Le asinelle, 2004 terracotta policroma
Stilita 1, 2004 terracotta policroma
Marcello De Angelis Genesi Irene Disco
Osservare Marcello De Angelis durante l’operazione creativa è un’esperienza particolare: lo spettatore incuriosito deve munirsi di grande pazienza, poiché si tratta di un lavoro meticoloso, lento e concentrato su piccoli Genesi, 2004, acrilico injection painting su tela centimetri di superficie. L’artista interviene sulla tela con un lavorio scrucm 30 x 40 poloso: impugna una siringa da iniezione e lentamente fa defluire il colore, realizGenesi, 2004, acrilico zando labirinti, injection painting su tela grovigli neurali cm 45 x 60 in rilievi cromatici. La sua produzione è scandita da questa lenta operazione, ragione per cui Isole della memoria, 2003 l’artista veronese acrilico injection vanta un limitapainting su tela to numero di cm 30 x 40 Injection painting
opere all’anno. Il suo iter artistico ha come comune denominatore il significato simbolico attribuito alla cerniera lampo, che acquisisce un senso del tutto mentale e provocatorio, è l’elemento centrale dell’opera, il perno ideologico su cui ripone la capacità razionale. Marcello De Angelis è passato dall’uso della cerniera alla sua smaterializzazione, la “zip” rappresenta il nuovo ordine del ragionamento, il ponte logico tra le “isole della memoria”. È necessario un ritorno spirituale alle origini, un salto all’indietro verso quella rappresentazione di un dialogo intimistico, riservato ed interiore con la propria essenza e con il proprio spazio, scrive De Angelis nel manifesto neospaziale. Ed è proprio lo spazio che diviene essenziale, uno spazio labirintico, riflessivo: le “isole della memoria” rappresentano il rispetto e la cura che l’individuo rivolge alla propria salute morale. L’artista denuncia la banalità della cultura “deviata”, la progressiva illogicità collettiva di fronte all’omologazione sociale e comportamentale dei nostri tempi. Il sistema mediatico ha condotto ad una graduale riduzione di
ragionamento nei confronti dei fenomeni culturali della società.Attualmente Marcello De Angelis sta lavorando al ciclo Genesi, in cui utilizza la sua tecnica, ribattezzata injection painting. Come il termine Genesi suggerisce, lo scopo ultimo dell’artista è il recupero delle origini: Genesi è la caoticità del segno che si orienta e genera la struttura modulare, il punto di partenza e il fondamento della rivelazione cristiana, l’origine della dignità dell’uomo al centro dell’universo, incontaminata dalle lusinghe del pensiero corrotto. La sua analisi artistica è rivolta alla ricerca di una forma di comunicazione innata in ogni uomo e raggiungibile soltanto attraverso un’immersione cosciente in sé stessi. Per questa ragione, il labirinto diviene una scrittura personale, formata da segni che non seguono nessuna convenzione. Così, Marcello De Angelis dipinge con la mente per difendere la libertà individuale e per portare in auge un’autentica etica di vita collettiva.
Federico Severino Giovanni Serafini In un naufragio ci si aggrappa a un relitto per salvarsi. Anche le opere d’arte sono relitti.
Pensiero non nato, 1995 bronzo, cm 62 x 33 x 26
Fragilità della creta e rigidezza del bronzo, la sensibilità e il furore: le due anime, le due fasi feconde di Federico Severino, scultore in bilico tra la precaria serenità dell’armonia e l’inevitabile sopraffazione dell’atrocità del vivere. La malleabilità dell’argilla modellata dalle sue dita sapienti, che trasformano idee in umide creature di terra, richiama l’operato di un divino demiurgo, infondendovi una sorprendente, quasi blasfema vitalità propria. E i successivi passaggi della solidificazione nel forno prima e poi nella laboriosa colata del bronzo, procedimenti magici e complessi per attribuire connotati di immortalità al parto della fantasia, accendono riverberi di fuoco nei suoi occhi di veggente e sulla sua grigia barba bruciacchiata dai lapilli di un dio Vulcano intento al suo certo prodigio. Niente sembrerebbe più immobile di una statua. Le sculture di Severino si caratterizzano invece per una loro irrefrenabile energia: corpi contorti, lanciati, riversi, accoccolati, sottesi di spasimi, arsi da segrete inquietudini che li pervadono e li sommuovono fin nel profondo, facendoli fremere fin nell’ultima fibra. Opere che ci conquistano per la loro profonda attuale drammaticità, pur nella ricchezza dei rimandi mitologici, in cui affiorano i nostri incubi segreti, l’oscura intuizione di un irreparabile primigenio peccato, lo spavento ancestrale dell’uomo che prima tremava nelle caverne e ora continua a tremare nei grattacieli. Il prodigio insensato della vita e della bellezza dei corpi, che Severino sa descrivere con consolante classica maestria, ma che sa anche deformare o sovvertire a piacimento nell’inseguire i fantasmi del suo complesso fantasticare e delle sue brucianti intuizioni, si dispiega nella sua opera con ricorrente trepidazione. In particolare ci affascinano l’articolata espressività delle mani e dei piedi, di rara compiuta bel-
lezza, il prostrarsi e l’erigersi, la trasecolante espressione di afflitto stupore e l’intensità emotiva che promana dalle sue fantasmagoriche creature di terra cotta e di bronzo. La nostra inesauribile fame di bellezza, che malgrado le dosi massicce di sozzura pseudoartistica ancora urge, si nutre riconoscente di questo amalgama raffinato di classicità espressiva e di attualissime riflessioni sul mistero di esistere. Non a caso Severino è filosofo e sa estrapolare dalla diuturna commedia umana, con eleganza talvolta, più spesso con rabbia, che pure si stempera in estenuata malinconia, i nostri aspetti più meschini e contraddittori, i tabù e i difetti che ci vengono restituiti in una scultura leggibile e intelligente, colta e mai proterva, elegante e ricca nelle forme, che ci riconcilia con l’attualità dell’arte: segno di di serietà e di bravura contro un’epoca inetta e ridicola e capace di suscitare i nostri archetipi estetici più autentici, più incontaminati. Piccolo Minotauro e Arianna, 1996 bronzo, cm 35 x 41 x 20
Alessandro Traina Pagine di meditazione Patrizia Serra Fogli di metallo sottile, dai bordi taglienti, nettissimi, si muovono neri sul piano verticale della parete ripiegandosi, come fossero trascinati dal loro stesso peso, e formano morbide pieghe. A volte è un angolo che inizia a pendere dolcemente, a volte un altro si piega, a volte tutta la pagina si ripiega, come su sé stessa: è leggera ed abbandonata ad un tempo, netta e scivolosa. Dentro a queste pieghe si stendono rigidi ruvidi fogli paralleli, fragili e densi trattenuti appena da solide calamite, opposti per natura ai loro danzanti involucri possono essere di diversi colori purché questi esaltino la loro natura rugosa ed assorbente. Così Traina esplora lo spazio servendosi di un piano e dei suoi movimenti minimali, mettendo in dialettica le differenti superfici di strutture analoghe ma non uguali. A volte le strutture in acciaio si lanciano ed invadono lo spazio con installazioni tridimensionali, a volte modulano le pareti con piani paralleli, a volte un lungo nastro si ripiega in angoli, torcendosi in pieghe secche: tutto è doppio, scivoloso e ruvido, colorato e nero, elastico e rigido, resistente e fragile. Si va formando una sorta di “paesaggio altro”, misto di
strutture velate e di minime variabili, simile ad un deserto, più che a qualcosa di costruito, dove scorgi i secchi spigoli o i morbidi crinali che definiscono gli spazi e li identificano agglomerato per agglomerato, sequenza per sequenza, opera per opera. Ogni volta che il problema si pone, il piano ritagliato e netto è il punto di partenza: una serie di gesti ordinano la superficie considerando la possibilità non solo plastica di un moltiplicarsi e trasmutarsi della visione, quasi che le calamite fossero le uniche garanti di ciò che vediamo, suggerendo una precarietà legata al tempo oltre che allo spazio, come se la scultura potesse scivolarci via dagli occhi disfacendosi nelle sue componenti. La tensione di ogni opera è forse legata a questa sua precarietà, ed in fondo costituisce la poesia di queste minimali sottili ingannevoli pagine di meditazione. Senza titolo, 2001, ferro acrilico su carta a mano, 2 calamite, cm 60 x 55 x 24
24 Per la tua pubblicità chiama Gabriele Lodetti allo 02860806 - Giorgio Lodetti allo 0258302093
Sul filo dell’arte
Via Scoglio di Quarto, 4 - MI Tel. 0258317556 - 3485630381
arte contemporanea V. le Col di Lana, 8 - MI 0258317556 - 3485630381
a cura di Stefano Soddu
domanda surreale
Codici, 1997, materiali su tavola, cm 150 x 75 x 15
“Può convivere in arte l’ingegnere e l’artista?”
risponde
Paolo Barlusconi Artista e ingegnere convivono splendidamente perché dietro a entrambi c’è l’uomo che decide se fare ricerca e come farla. La ricerca artistica infatti è per me l’attività chiave che permette di passare dal mistero al senso. Il background tecnico è di supporto all’artista soprattutto per far fronte alla sfida iniziata col terzo millennio la quale si giocherà in buona parte, a mio avviso, sul terreno della “virtualità” (olografia, computer art) e delle opere/installazioni multimediali. E poi, non dimentichiamoci: anche Leonardo era ingegnere.
Visita allo studio di Giovanni Campus Stefano Soddu Mi ha fatto attendere molti mesi Giovanni Campus prima di ammettermi nel suo studio. Forse per innato pudore o forse perché effettivamente impossibilitato.“Sono fuori Milano”.“In fase di trasloco”. “Impegnato per predisporre una mostra”. “Lo studio non è pronto”. “Sono in partenza”. “Le vacanza d’a-
gosto…..poi a settembre ci accordiamo”. E così è stato. Nel suo nuovo studio sui viali del tram, di fronte alla Darsena dei Navigli. In un muro vicino al palazzo dello studio di Campus una targa ci informa che l’edificio venne abitato, per lunghissimi anni, e fino alla morte, da Elio Vittorini; alcuni portoni oltre, dopo aver attraversato un cortile spoglio, in fondo, sulla destra, nascosta, si scorge una scala che scende su un cavedio. In fondo alla scala, una piccola targa sulla porta indica lo studio di Giovanni Campus che mi attende sulla soglia. Sulla finestra, alla sinistra della porta, alcune sue scarne e geometriche sculture in ferro. Giovanni è un uomo ascetico e asciutto, dal viso magro e tormentato che spesso caratterizza chi vive secondo le direttrici del proprio pensiero. È un intellettuale che attraverso le sue interrogazioni sul mondo e i dubbi sull’esistenza, trasmette, nel suo operare d’artista, un’etica meditata e profonda e una propria visione dell’universo e dell’uomo. La geometria, lo spazio variabile, i tempi e contrappunti, le dinamiche tra il reale e il virtuale, tra l’artificiale e il naturale, tra l’individuale e il plurale, sono tra gli strumenti che adopera per definire il proprio pensiero nel suo percorso artistico che è iniziato, in giovanissima età, negli anni Quaranta e ancora prosegue con caparbietà e costanza in un continuo, ininterrotto, coerente sentiero. Dall’ingresso si accede direttamente allo studio. Una stanza rettangolare di circa trenta metri quadri imbiancata di fresco, col pavimento chiaro.Accanto alla porta e all’unica finestra che dà luce, la scrivania con alcuni fogli di carta in fase di preparazione e la libreria. Sul pavimento un piccolo torchio da stampa che sembra in disuso. In fondo alla stanza, sulla sinistra, un tavolo triangolare, sulla destra, una seggiola e una poltroncina, al centro, una quinta che nasconde un passaggio. Tutt’intorno, appoggiate per terra e attaccate al muro, poche sculture e lavori. È una stanza ordinata e pulita. Non ci sono tavoli da lavoro o cavalletti. Né macchie di colore, né trucioli di legno o scarti di lavorazione. È abitudine di Giovanni Campus lavorare sul pavimento che, per l’occasione, ricopre, a protezione, con un grande telo di plastica. La sua produzione è riposta sugli scaffali, in una stanza buia, dietro la quinta.Tutte le opere, numerosissime, sono incartate, in buon ordine e catalogate per periodo o anno – così mi dice Campus – senza aver bisogno di note sull’imballo. Si ricorda delle posizioni e senza fatica riesce a trovare quel che cerca. In attesa dell’arrivo di Enrico Cattaneo, per le fotografie, illustro ancora a Giovanni lo scopo della mia visita e del libro che dovrà uscire per la fine dell’anno. Enrico arriva subito dopo col suo passo tranquillo e dondolante, con la borsa della macchina fotografica al collo. Io mi faccio in disparte. Osservo con curiosità la rassegnazione professionale di Giovanni che posa per farsi fotografare. E apprezzo la sua disponibilità a qualcosa che non rientra certamente nella sua indole schiva. Accetta persino, da ex fumatore oggi intollerante al fumo, che Enrico accenda le sue sigarette. Io non oso accendere il mio Toscano.Terminato il lavoro, ci sediamo, per quattro chiacchiere, attorno alla scrivania. Ci racconta dei suoi viaggi frequenti negli Stati Uniti e della prima volta che giunse a New York quando atte-
se con ansia, per alcune ore, chi lo aveva invitato, unico suo riferimento nella città. Dei suoi precedenti atelier, di quello in via Solferino e dell’ambiente che in quegli anni ’70 popolava il quartiere contiguo a Brera. Ci conferma dietro il vago ricordo di Enrico, che il suo attuale studio, unito allo spazio confinante, è stato effettivamente adibito nel passato a galleria d’arte specializzata in fotografia. Luogo quindi predestinato all’arte. Giovanni Campus ci offre un aperitivo al bar accanto. All’esterno pioviggina. Io, ispirato, berrò un bicchiere d’acqua gasata, in ossequio alla mia dieta, mille volte iniziata e mai seriamente proseguita. Da:“Ritratti di Studio”, testi di Stefano Soddu, fotografie di Enrico Cattaneo - Signum Edizioni d’Arte
Arte in azienda Francesca Della Monica L’evoluzione e il progresso sono termini che portano in sé i concetti di orizzonte, di cammino, di apertura al possibile. Allargare i confini del proprio universo fisico, mentale od emotivo, dunque, diventa essenziale per chiunque aspiri ad una crescita, come individuo e come professionista. Oltrepassare la linea che delimita il confine delle differenti realtà e porsi in un territorio in cui il nuovo nasce dalla contaminazione, dalla comunicazione, dall’intersezione tra ambiti che il senso comune o l’abitudine non accosterebbe mai. È questo l’atteggiamento di chi si dispone a cercare ed accogliere nuovi stimoli, senza il timore di rivedere le proprie posizioni, con la curiosità di sperimentare nuovi approcci. Ma è sempre più complesso, in un mondo di programmata, imposta e spesso banale informazione, trovare le occasioni per accedere ad un percorso intimo e profondo, in cui possa svolgersi una reale crescita, in cui possa avvenire l’impercettibile e prezioso cambiamento dell’individuo. L’uomo sembra intrappolato in una sorta di chiassoso labirinto in cui la voce di chi ha qualcosa da dire si perde nelle pieghe del conformismo, nelle logiche delle mode, nella burocrazia imperante che esiste sempre per chi è un cittadino qualunque. Ma in questo oceano di assurdità continuano a vivere le testimonianze, sudate e solide, di chi non si arrende. Frequentando studi polverosi e periferici di artisti poco celebri, ho scoperto anime nuove. Ho lasciato il mio stupore sulle tele, sugli occhi seri di chi si è scontrato con la durezza di un mondo che non ama dar spazio a chi non sia già conosciuto. Ho visto il nuovo e il diverso. Ho immaginato la bellezza del poter dar spazio a queste voci, tante, solitarie.Voci diverse ambientate però in luoghi non “scontati”, dove generare quel processo di contaminazione, tanto importante perché il cambiamento sia profondo. È nato così il progetto artistico che ho importato in azienda. Quale ambiente meno ovvio? Tra stampanti e computer, tra clienti e sale riunioni ha avuto luogo la sottile provocazione. Opere d’arte ovunque, a rammentare la loro silenziosa presenza. Il significato, privo di tempo, che offrono all’uomo. Ogni tanto uno sguardo; una sosta di un collega dinanzi ad una tela, un guardare ogni giorno più attento. Ciascuno con le sue emozioni, con il suo modo di capire le cose, si porta nel cuore uno stimolo nuovo, forse un seme. Difficile, quando si sperimenta in azienda un progetto di questo genere, è sempre il coniugare il credo sincero nel valore che la cultura veicola ed il ritorno, in termini di immagine, che l’investimento deve necessariamente comportare. Ma la cultura è sempre esperienza di conoscenza e crescita e se gestita con passione e rigore può solo generare processi virtuosi. Questo mi ha insegnato l’esperienza. Creare spazi mentali ed emotivi nuovi, dar spazio a nuove voci, trovare risposte originali a domande apparentemente ermetiche, acuire la capacità di “vedere” dell’individuo, rendere meno rigida la tendenza a chiuderci di fronte a codici espressivi che non ci appartengono; questi e molti altri gli obiettivi e le ragioni che dovrebbero guidare l’investimento in cultura, guardando innanzitutto al contributo da offrire alla collettività in termini di conoscenza e all’assonanza con quei valori che, al di là di ciò che si professa, dovrebbero realmente animare tante mission aziendali…
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Gian Carlo Bulli Schizzi e tabelle Alberto Veca Disegnare per uno scultore è esercizio non infrequente anche oggi come lo è stato ieri: ha un particolare fascino che dipende probabilmente dal “salto” che si deve compiere dall’indagine sul volume alla “scelta” bidimensione della carta, ma anche per l’affinità linguistica che i due strumenti possono contrarre perché si tratta in entrambi i casi di “presentare” e non di illustrare. D’altra parte, nel dibattito cinquecentesco sulle arti una affermazione ricorrente, inaugurata da Vasari, è quella del “primato” del disegno, del suo essere luogo/origine della scultura come della pittura. La congiuntura citata appartiene a gare certamente non attuali, ma il riferimento è ancora oggi valido, sollecitante per quanti, all’immagine riprodotta o realizzata direttamente su carta, declinano il loro interesse per le arti figurative. Il disegno può essere, come in questa occasione, una fase precedente la realizzazione di un’opera, un’idea di partenza, ma può essere anche un controllo, una
indagine nella fase della sua realizzazione, alla prova di alcuni “effetti” che saranno successivamente tradotti. Gian Carlo Bulli, comunque, esplora tanto la “pelle” della tridimensione quanto quella del foglio: questa declinazione sulla sensibilità del tatto che esplora e rende evidente rilievo e depressione, liscio e ruvido accompagna tanto il lavoro sul volume quanto quello sulla carta. Oltretutto in questa occasione espositiva sono stati scelti due tipi particolari di opere: il primo costituisce il primo approccio, anche “varianti” di quello che sarà, approssimativamente, l’opera tridimensionale da realizzare: sono allora, in una sequenza in qualche modo riproposta anche nell’impaginazione dei disegni, diverse soluzioni possibili a partire da un’idea, una invenzione. Diversamente, la seconda tipologia esposta si presenta come “prove” a confronto di stesure tattili e cromatiche che Bulli poi traduce nel volume, un’analisi semplificata del complesso dialogare fra forma, materia e colore che costituisce il punto saliente del lavoro. Nell’accostamento vi può essere simpatia, affinità ma anche dissonanza, secondo un ritmo costruttivo che, nella ripetizione sostanzialmente uniforme delle tessere, può appunto prevedere la gradualità come la variazione
Davide Casari
mo a intendere. Ne saremo capaci? Davide Casari si presenta con un itinerario che inizia da autodidatta sperimentandosi disegnatore della realtà cromosomica che lo circonda. Davide è un osservatore della concretezza, non la distorce, affida allo spettatore una sua impressione che può essere quella di ciascuno. Il punto di svolta, nel suo percorso, avviene quando s’imbatte nella lettura di Primo Levi, Se questo è un uomo. Quella sofferenza, diviene la sua sofferenza. Quell’esperienza diviene una lettura maturata attraverso segni che la memoria rielabora dal suo passato per farli divenire rigetti di animule pronte a esplodere e renderle finalmente libere. Libere come, attraverso la morte, l’uomo più forte ha trovato la giusta collocazione. Libere come chi sa cosa
L’arte come specchio della vita! Antonio D’Amico Sovente nel quotidiano, svariati piccoli gesti vengono portati a termine senza la consapevolezza di averli svolti o magari di averli vissuti con il giusto equilibrio che meritano, forse... per questo siamo troppo provati, troppo rigorosi, troppo gioiosi, troppo bruciati, troppo profondi... Non crediamo più che la verità resti ancora la verità. Epiteto, questo, che dalla filosofia di Nietzsche passa a concretizzarsi nell’azione inconsapevole e distorta vissuta dall’uomo contemporaneo. Ogni rapporto interpersonale è mosso da infrastrutture e barriere che impediscono la completa nudità dell’anima! La natura nel suo complesso organico cela ai nostri occhi la sua recondita identità permettendoci di comprendere la sua essenza solo superficialmente; solo quella ruvida scorza che riveste il cosmo. Omologati i gesti, gli sguardi, i movimenti; ripetutamente richiesti dai lavori che la società offre senza esclusione di sorta. Chi decide di uscire dal giro rimane escluso! ...Nell’emisfero del pianeta terra qualcuno osserva i suoi simili immersi in questo circuito da cui con ‘coscienza’ ha deciso di ritrarsi e adesso rimane incantato dalla finestra del mondo, dal globo di uno spazio sovraumano a interagire con i suoi simili guardando all’essenza della vita e scavando alla radice della sua persona. Non capita tutti i giorni di scoprire che un incontro fortuito, almeno apparentemente, rimanga segnato per sempre sulle trame di un’opera d’arte. È questo il momento magico, un sodalizio misterioso, in cui la mente libera dai fronzoli e dalle animule dei fantasmi del falso pudore capta l’essenza degli sguardi, calandosi in una comunicazione sensoriale che si catalizza in pieno nell’opera d’arte! Questo è ciò che avviene quando l’interlocutore è Davide Casari. Le sue sculture, e prima ancora, i suoi libri d’artista, non si possono comprendere appieno se la sua persona non ha scrutato il nostro fare, il nostro andare. Ogni minima allocuzione, ogni interazione che si ha con Davide è poi da lui rielaborata divenendo un prodotto, direi quasi geniale. La sua arte non potrebbe sussistere senza la sua vita, senza la sua storia. Storia che lo spettatore avrà modo di cogliere nelle sculture in carta pesta esposte in occasione della mostra nella Libreria Bocca. Corpi, la cui anima è stata divelta, pronti ad accogliere il respiro di ciascuno. Corpi la cui vitalità è stata mozzata da vane sensazioni di insuccesso e insoddisfazione. Corpi sviliti dal dolore o dalla monotonia di compiere sempre gli stessi gesti. Corpi che invitano il passante ad ascoltare le richieste che dal profondo dei loro pensieri propongono. Interrogativi, risposte... che solo se saremo attenti uditori riuscire-
forte, l’eccezione. Ciò che colpisce è il dialogo serrato fra la monocromia e l’intervento cromatico, sia esso in gradazione sia esso dissonante; come se in ogni occasione si sperimentasse la capacità espressiva della singola campitura a gara con quella adiacente e nel complesso della figura. Il “disegno per una scultura” è un impegno, quasi il passaggio obbligato da una figura “mentale” alla sua realizzazione concreta; il disegno a se stante è invece, almeno per Bulli, una prova di accostamenti cromatici che si tradurranno nel percorso sensibile delle sue recenti “tabelle” scultoree, dei “muri” che, nella perentorietà della definizione volumetrica, suggeriscono sottili differenze fra i diversi elementi, una sorta di messa in discussione di una solo apparente impermeabilità alla lettura. Il riferimento al tatto e al colore costituisce il punto nevralgico della ricerca dal momento che alla figura complessiva è attribuibile un valore “zero”, nel suo essere dipendente dalla logica dell’adiacenza, del valore “tabellare”, quasi una sinossi, dell’assemblaggio. Indubbiamente la tessera o la lista di legno che Bulli adotta per i suoi recenti lavori sono “altro” dalla loro rappresentazione in immagine nel disegno: in entrambi i casi si tratta di frammenti che acquistano senso nel momento in cui sono in relazione con altri, simili ma diversi episodi del discorso.
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vuol dire non tornare, e attraverso il filo spinato ha visto il sole scendere e morire, ha sentito lacerare la carne... stesse vicissitudini che l’uomo incontra nel groviglio della vita. Forse molti altri sono i significati che ciascuno potrà leggere nell’arte di Davide Casari e io sono pronto ad accogliere i diversi pareri, ma una cosa è certa, nessuno potrà rimanere indifferente!... O meglio nessuno che abbia ancora coscienza di possedere un’anima, la stessa che in Davide si specchia nella sua arte!
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Lo spazio di SpazioErgy a cura di GIULIO RESIDORI
Proseguendo nella attività di supporto e presentazione dell’opera di artisti contemporanei vogliamo ricordare la mostra allestita dal 12 gennaio al 5 febbraio ’05 al Palazzo delle Stelline a Milano di Giuseppe Mallai. Il catalogo presentato dalla Fondazione e dal consigliere regionale Stefano Maullu, con testi critici di Angelora Brunella di Risio e Domenico Defelice, è stato curato da Giulio Residori che ha anche organizzato la manifestazione. “Magico irreale” realtà e finzione, vita e teatro, norma e libertà, costruzione e gioco. Ed altro ancora. E’ stata l’occasione per i milanesi di vedere ed apprezzare le opere recenti dell’artista sardo che per l’occasione sono state prestate dai suoi collezionisti. Un evento irripetibile che consacra Mallai tra i protagonisti dell’arte contemporanea. Come fatto in passato desideriamo qui segnalare e ricordare tre esponenti artistici già promossi da SpazioErgy in passato come significativi esponenti della pittura (Jules Maidoff), della scultura (Ruggero Marrani), della grafica (Girolamo Battista Tregambe). JULES MAIDOFF Americano del Bronx, di ascendenza russa ma italiano per scelta e per amore da quando è venuto per la prima volta a Firenze nel ’56 con l’ambita borsa di studio “Fulbright”. Tornato a New York ha cominciato a preparare la sue prime mostre personali con successo di critica e pubblico ed acquisti importanti da parte di musei e fondazioni ed apprezzamenti da parte di personaggi del mondo della cultura e dello spettacolo come Robert Joffrey, George Harrison, Paul Mc Cartney, Ravi Shankar, Mick Jagger e tanti altri. Nel ’73 il trasferimento a Firenze ove si stabilisce stabilmente; nel ’75 fonda lo studio Art Centers International di Firenze frequentato da studenti di tutto il mondo – qualcuno ormai famoso – del quale è stato direttore ed insegnante sino al ’95 e la cui opera è ora continuata dalla moglie Mary. Oggi a 71 anni egli divide il suo tempo tra le esposizioni personali, soprattutto all’estero, ormai oltre 100 in tutto il mondo e le richieste di importanti collezionisti. Di Jules ho avuto la possibilità di pubblicare la sua monografia nel ’92 “Twenty years in Italy” dedicata appunto ai suoi primi vent’anni in Italia nonché la successiva “Recent Work “per le mostre di Orvieto e Fabriano nel 1997. Maidoff mi ha sempre sorpreso ed attratto per le sue invenzioni creative espresse attraverso un fantasmagorico caleidoscopio di colori con luminosità affascinanti dalle quali emergono particolari, segni, significati, prospettive. Gioiose immagini dalle quali scaturisce anche un esaltante senso della vita che ti porta ancor più ad apprezzare l’Uomo oltrechè l’artista. Egli racconta le sue storie in una atmosfera irreale con una pittura visionaria ove è continuo il dialogo tra realtà e fantasia ma ove la deformazione della realtà offre inediti valori all’espressione. “Il modo in cui il mio dipinto è realizzato, afferma Maidoff, deve motivare lo spettatore a districare le metafore.” Ed è anche il modo per scandagliare le sue memorie e dare vita a storie, aprire passaggi segreti, mostrarci la traccia di quello che è stato ed il segno di quello che potrebbe essere in futuro. Un po’ rare le sue mostre in Italia negli ultimi anni. Speriamo di poterlo presentare a breve per la gioia di chi apprezza la buona pittura.
GIROLAMO BATTISTA TREGAMBE Un bresciano che per una vita ha fatto l’intagliatore di marmo ed il pittore della domenica. Poi a cinquant’anni la folgorazione dell’incisione e dell’acquaforte. Autodidatta ed ora incisore professionista è forse uno dei migliori al mondo in quest’arte e sicuramente uno dei più importanti dell’ultima generazione. I suoi temi preferiti sono quelli dell’ambiente agricolo ove vive, le cascine, la campagna, le nature morte. Atmosfere e luci che egli sa trarre dal misterioso amalgama del bianco e nero. Una poetica che ancor meglio si comprende dopo aver conosciuto l’Uomo che è rimasto semplice e quasi stupito della sua eccelsa bravura. Numerosi i premi ed i riconoscimenti. E’ presente nelle più prestigiose raccolte con apprezzamenti critici degli studiosi più significativi e di un collezionismo colto. Il lavoro qui riprodotto “Paesaggio Agreste” una grande acquaforte di mm 290 x mm 555 è una delle più belle opere degli ultimi anni ed è stata acquistata in tiratura esclusiva da una multinazionale che ne ha fatto dono ai propri fortunati clienti.
RUGGERO MARRANI : Nasce a Corridonia (Mc) nel 1941. Compie gli studi universitari presso l’Accademia di Belle Arti “P. Vannucci di Perugia. Nel 1963 la direzione dell’Accademia, gli conferisce il premio “Aldo Pascucci” per l’incisione. Allievo del Maestro Gerardo Dottori fino all’anno 1968. Tra il 1964/65 presenta le prime opere in collettive. Risale al 1969 la prima mostra personale, a Varese, cui fanno seguito altre personali in Italia e all’estero. Nel 1968 si trasferisce a Varese. E’ stato titolare della Cattedra di Discipline Pittoriche presso il Liceo Artistico Statale “A. Frattini di Varese fino al 1999; da allora ha lasciato l’attività didattica per dedicarsi esclusivamente a quella artistica. Nel 1975 inizia il periodo espressionista e successivamente quello metafisico. Dopo alcune esperienze nel settore della ceramica, inizia una serie di sculture tridimensionali, realizzate in ceramica policroma, dedicate alla figura umana, al dualismo bene – male sviluppando temi a carattere sociale. Nel 1976 si interessa ad alcuni studi progettuali di soluzioni modulari nel settore dell’arredamento. Alla fine degli anni ’80 Marrani abbandona definitivamente la pittura ad olio per dedicare tutta la sua attenzione alla ceramica. Attualmente lavora su vari progetti e soluzioni spaziali che sono la risultante dei lavoro svolto negli anni ’60 con Dottori. Tutta la sua attuale ricerca, partendo da analisi di planimetrie, viene chiamata AEREO SCULTURA. In estrema sintesi, l’Aereoscultura di Marrani è il risultato di quanto ha appreso durante il lavoro nello studio del suo Maestro Gerardo Dottori, negli anni ’60. In quel lungo periodo, i continui stimoli che Dottori gli trasmise attraverso il lavoro dell’Aereopittura, furono però accantonati per essere poi ripresi e sviluppati nel anni ’90. Il pensiero sul nuovo lavoro ceramico è la continuazione logica di quanto Marrani ha sviluppato in pittura. Partendo dalla attenta osservazione cartacea di planimetrie di città o agglomerati urbani che l’uomo ha costruito nel corso dei secoli, da quelle micenee, greche e romane, alle planimetrie Mazca in Perù, fino alle città medioevali e rinascimentali, Marrani è giunto a completare la sua nuova ricerca artistica. Anche nelle ultime opere a tutto tondo, chiamate “Totem”, l’artista applica lo stesso criterio, ispirandosi alle steli azteche, dove venivano illustrate storie e fatti della vita di un popolo. Totem è anche il titolo dell’ultima mostra che SpazioErgy gli ha dedicato corredata da catalogo delle opere esposte tra le quali abbiamo scelto quella qui illustrata. Maggiori informazioni informazioni possono Sempione 6363 tel.tel. 023311009 o nel sitosito www.spazioergy.it. Maggiori possonoessere esserefornite fornitedadaSpazioErgy, SpazioErgy,Corso Corso Sempione 023311009 o nel www.spazioergy.it.
LeLe foto sono state eseguite con con Fotocamera Digitale Caplio RXRX di Ricoh. foto sono state eseguite Fotocamera Digitale Caplio di Ricoh .
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Carmine Caputo di Roccanova La caduta del dettaglio Luciano Caramel Carmine Caputo di Roccanova è un caso anomalo, ma non isolato, e assai interessante, nell’ambito dell’astrazione geometrica, diviso com’è tra il bisogno di ordine e la coscienza dell’impraticabilità, oggi, di una razionalità a priori, con le connesse connotazioni di sospensione idealistica o, per converso, di certezza progettuale, rispettivamente caratterizzanti gran parte dell’astrattismo italiano degli anni Trenta e il concretismo rigoroso, di marca soprattutto zurighese. Posizioni entrambe irrimediabilmente innestate in situazioni storiche da molto tempo definitivamente tramontate. «I miei lavori», affermava Caputo già nel 1986, appena trentenne, «sono il frutto di scelte di vita la cui comprensione non può essere chiarita secondo schemi razionali». Dichiarazioni maturate nel suo pluridirezionato itinerario formativo, stimolato dal fascino del «concetto di arte totale espresso da Gropius», come mi ha scritto in una lettera recente.Frequenta infatti, fino al diploma e alla laurea, l’Accademia di Belle Arti, a Brera, seguendo prima il corso di pittura, poi quello di scultura, e la facoltà di architettura al Politecnico di Milano. Sperimenta così registri operativi differenti, unificabili solo a livello progettuale, come appunto nel Bauhaus gropiusiano. Il cui obbiettivo di un progetto nell’arte s’era presto scontrato con la realtà effettuale che informava il contesto storico, in una situazione che andò precipitando, fino al secondo conflitto mondiale, mettendo in crisi la fiducia di una progettualità che possa contrastare il destino. È il percorso analizzato con partecipata lucidità da Argan, che, partito alla fine degli anni quaranta, nell’immediato dopoguerra, dall’esame della scuola di Gropius, approda a metà dei Sessanta, in un saggio memorabile, innervato dal pensiero di Husserl e Heidegger, al riconoscimento della via di un’arte in progetto come l’unica percorribile nella contemporaneità nel confronto del progetto col destino, i due termini ai quali quel testo è intitolato e dedicato: quella, appunto, seguita da Caputo. Premessa la fiducia, ancora, nella ricerca attorno a «un concetto di ordine e di razionalità, di pulizia e di misura», in quella autopresentazione (ad una personale nella Biblioteca Comunale della natia
Roccanova) di quasi vent’anni fa Carmine sosteneva di cercare «anche un continuo rapporto tra le cose in superficie e quelle al di là di ciò che si vede, quindi anche tra la luce e l’ombra, perché questi sono i veri parametri dell’uomo». Sta qui il fondamento delle sue nuove, ultime indagini, documentate nelle importanti opere esposte in questa occasione, nelle quali, precisa il pittore stesso nella lettera ricordata, «mi interessano gli spigoli, le ortogonalità, i dettagli di quadrati [richiamati nel titolo della mostra, da lui scelto] che portano lo sguardo dello spettatore fuori del campo della tela per completare le forme». Resta sottesa, è evidente nella medesima terminologia, la radice gestaltica, di cui permangono i termini fondamentali, articolatamente, e con differenze anche sostanziali, sviluppatisi da un von Ehrenfels, alla fine dell’Ottocento, in avanti, in particolare sulla primaria questione del rapporto, e innanzi tutto della direzione di tale rapporto, tra il tutto e i suoi elementi costituenti. Un problema, certo, di percezione, che tuttavia, ovviamente, coinvolge ben altro, in Caputo e nei suoi “dettagli” non unilateralmente
Verso mille quadri tondi Una collezione fuori dall’ordinario sotto il segno dell’amicizia Giorgio Seveso Sono già ben oltre seicento i quadri “tondi” ( il bisticcio di parole è obbligato) che Duilio Zanni ha raccolto in quasi dieci anni. Sono piccole tele di 20 centimetri esatti di diametro, montate su un telaietto di legno leggero, sempre uguale e, fin dall’inizio, realizzati dallo stesso artigiano. Tante, anzi tantissime, in crescita esponenziale, e per questo c’è già qualcuno che vedrebbe bene la collezione inserita nel famoso Guinness dei primati. Anche perché la raccolta non è unica solo per l’insolito formato scelto o per la quantità considerevole di opere messe assieme, che ormai mirano esplicitamente a raggiungere e magari superare il migliaio. Lo è, soprattutto, per il modo in cui è nata e si è sviluppata negli anni. Duilio, per moltissimi anni fotoreporter al Giorno, ha cominciato ad appassionarsene quasi per caso, e tutto è dipeso dall’insostituibile rapporto di ammirazione e stima con alcuni artisti milanesi. Finalmente in pensione, e con più tempo a disposizione, ha infatti incominciato a frequentarli più assiduamente di quanto non gli capitasse prima, e ha preso a viaggiare con in mano l’inseparabile macchina fotografica e con qualche tondo ancora immacolato, proponendolo magari proprio durante l’inaugurazione di una mostra, un po’ a cambio lavoro con le sue prestazioni di fotografo, e un po’ — ma direi soprattutto — per simpatia e per amicizia. Poi, a poco a poco, con l’allargarsi del suo giro di conoscenze, con la frequentazione assidua di un gruppo sempre più numeroso di Gallerie, l’hobby iniziale si è trasformato in impegno costante verso gli artisti — soprattutto, oggi, verso quelli più giovani — e sono stati sempre più numerosi quelli con i quali è entrato in rapporto amichevole e che ha convinto a dipingergli il tondo. Proprio così. Si può dire che l’amicizia e la passione per l’arte sono precisamente il vero motore di tutta la collezione, fino dagli esordi. Da allora, un’inaugurazione dopo l’altra, un incontro dopo l’altro, le piccole tele iniziali si sono fatte decine, poi centinaia… Una specie di moltiplicazione miracolosa, che ha seguito passo passo le sue frequentazioni delle Gallerie e degli atelier degli
artisti, le conoscenze e le esperienze fatte. Come ha scritto per lui Rossana Bossaglia, ci sono molti tipi di collezionismo. C’è chi raccoglie opere di iconografia e data diverse, purché di qualità; chi coltiva passioni viscerali per questo e quell’argomento o periodo; e così via. Poi ci sono personaggi estrosi che si inventano collezioni originali, magari cominciando per gioco e arrivando a risultati esemplari nell’originalità e insieme interessanti come testimonianza storica. Questo è appunto il caso di Duilio Zanni e della sua collezione, cominciata come dice lui stesso più per caso che per precisa intenzionalità. «È stato mi pare a settembre del 1995,» ci racconta, «quando sono entrato da un falegname con un amico pittore, Lino Marzulli, per aiutarlo a trasportare alcuni grossi telai per i suoi quadri. E lì, in vetrina, ho visto delle piccole tele tonde, i miei famosi ‘tondi’. Mi è venuta quasi per scherzo l’idea di chiedere a Marzulli di dipingermene una. Da lì è cominciato tutto. Infatti, di lì a poco, ho chiesto la stessa cosa ad altri amici pittori che allora frequentavo assiduamente,da Leddi a Merisi, da Forgioli alla Benedini, e poi Martinelli, Cappelli ecc. Quello che proponevo era un ‘cambio lavoro’, in pratica un loro tondo dipinto scambiato contro un mio servizio fotografico. Da quel momento in poi, girando per studi e Gallerie, mostravo agli artisti che mi capitava di incontrare le foto della collezione, e offrivo loro lo stesso baratto». Oggi questa collezione così particolare rappresenta, per dimensioni e qualità, una vera e propria car-
definito (come peraltro in un artista non è necessario sia), non so se intenzionalmente o in conseguenza solo di un’evoluzione in atto. In ogni caso, anche se Caputo crede a delle Gestalt assolute, su posizioni strettamente isomorfiche, come mi sembra (e ciò corrisponderebbe alla sua poetica di partenza), l’accento è poi di fatto sul processo dell’approdo all’unità, con dichiarate finalità decostruttiviste. Indirizzo forse nel nostro artista ancora in gestazione, e non pacifico (traspare infatti una qual resistenza interna), che peraltro mi pare nella sostanza provato dall’evidenziazione dei contrasti che contraddicono l’apparente omogeneità armonica. Significativa, ad esempio, l’insistenza sulla Caduta del dettaglio, che dà addirittura il titolo alla prima delle opere esposte, offrendo una chiave di lettura per il titolo della mostra (solo Dettagli), altrimenti ambiguo, come del resto Caputo ha voluto fosse, sempre su siffatto registro. Rapportabile a tale operazione decostruttivista,esplicita,ad esempio,anche in Disequilibrio primario (pure qui un titolo illuminante), e più ancora in Prospettiva e in Rosso e verde, è inoltre un altro tema caro a Caputo, che torna su di esso ripetutamente, tanto che in un primo tempo voleva richiamarlo nel titolo stesso della mostra. Mi riferisco al “manierismo geometrico”. Sul quale l’artista ha scritto nel giugno scorso una bozza di dichiarazione che in alcune espressioni riprovava le difficoltà dell’affermarsi delle nuove istanze, e conseguentemente la genuinità e urgenza del loro emergere.Ma che s’è poi andato progressivamente precisando e rafforzando, nella constatazione dell’impossibilità di seguire le orme dell’astrattismo geometrico del passato, se non cadendo in anacronistici revival o in formule ripetitive,che l’artista rigetta con determinazione. Ecco la ripresa critica (di ciò, infatti, si tratta, almeno nelle prove più avanzate, piuttosto che di citazioni di tipo concettuale nel senso stretto, che di Caputo non è proprio) di forme e stilemi dell’avanguardia astratto-geometrica, da un Malevic a un Van Doesburg, ma anche di un Buren, su di un fronte quindi opposto a quello neoplastico, e ora, pur nella diversità, al nostro artista più affine, e infine persino, proprio “nella caduta del dettaglio”, come Caputo mi scrive, di un manierista per eccellenza quale il Giulio Romano degli affreschi mantovani per il Palazzo Te. rellata sull’arte italiana contemporanea, quasi — come ha sostenuto anche Alessandro Riva — una campionatura significativa, uno spaccato preciso della realtà espressiva di oggi e delle sue molte sfaccettature, raccogliendo la continuità di un discorso che si dipana dagli anni Sessanta a oggi. Ne emerge infatti un panorama svariatissimo, sia sul piano delle forme e delle poetiche che delle opere e dei comportamenti; un panorama ricco di diversità linguistiche e segniche, frutto di tradizioni culturali cui ogni artista ha attinto e variamente combinato, e che qui, nella dimensione speciale del “tondo” chiesto e dato per amicizia o per simpatia, trovano una loro sintesi interessante e davvero inedita. Insomma, ognuno di questi piccoli capolavori rotondi è un quadro, ben rappresentativo della sensibilità e del linguaggio espressivo del suo autore, ma è anche qualcosa di più prezioso: è un tassello nel grande mosaico della cultura visiva del contemporaneo e, insieme, il sigillo duraturo di un incontro umano.
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Caduta del dettaglio, 2004, acrilico e foglia d’oro su tela, cm 60 x 60
Intorno al modulo, 2004 acrilico e foglia d’oro su tela, cm 60 x 60
Triangoli, 1990
Plevano incontra Luigi Marengo
Plevano: Puoi delineare per sommi capi il tuo percorso artistico? Marengo: Il mio inizio artistico coincide con la fine dell’ultima guerra mondiale nel 1945. Non avevo ancora vent’anni, eravamo tutti sconvolti e nello stesso tempo felici di iniziare a vivere. Da principio la mia ricerca pittorica è da considerarsi alla luce del chiarismo lombardo. I miei primi lavori di quest’epoca sono paesaggi del Ticino e del Lago Maggiore ma subito nel 1946/47 ho fatto una ricerca sui valori filosofici dell’uomo ed ho iniziato una pittura del segno istintivo perché ho considerato che con le nuove tecnologie che stavano nascendo, l’uomo sarebbe cambiato. Devi tenere presente che qui a Gallarate presso l’Aloni Sianum è nato il primo computer (nel mondo). Ho sempre considerato l’uomo legato alla natura e vicino alle cose semplici con i suoi valori morali e spirituali. Come dico sempre, l’uomo salta un metro e ottanta, fa i cento metri in dodici secondi, sta tre minuti sott’acqua e campa fino a cent’anni, perciò ha una precisa collocazione nel cosmo. Con le nuove tecnologie l’uomo cambia dimensione, va sulla luna e alla ricerca di nuovi mondi, trasmette i messaggi alla velocità della luce. Cercando di significare l’uomo che io conosco, l’ho identificato con il segno istintivo. Sì, perché prima dell’alfabeto, prima del geroglifico, prima del simbolismo,
Daniela Baldo Il viaggio dell’anima Antonio D’Amico Disporsi dinanzi alle opere di questa pittrice piemontese è come addentrarsi nei labirinti oscuri e, nello stesso tempo, misteriosi dell’animo umano... o meglio dell’animo femminile. Tele nelle quali si respira la poetica dell’inconscio espresso attraverso sprazzi di colore denso e materico, trattato con estrema raffinatezza e duttilità.Daniela Baldo, scorpora l’essenza intrinseca del colore creando, prima con le idee e poi sulla tela, forme ‘eterne’ rintracciate dai Il linguaggio artistico contemporaneo, espressione di una volontà di rappresentare senza necessità di imitare, si pone come scambio non soltanto di significazione, ma anche di messaggio, di stati d’animo e di visioni. In questa ritrovata libertà, Rinaldo Turati si dà agio di tradurre la sua passione per le icone e per i fondi oro del Trecento e del Quattrocento e la sua attenzione per altri linguaggi poetici, nella ricerca dell’altrove, dei luoghi segreti del numinoso. È un processo che, dalla materia indifferenziata e perciò generativa, reifica il cammino — o il ritorno — attraverso la prassi artistica verso l’intelligibile. Dalla mostra-installazione Reserare Portas si ricavava un appello al moderno Anteo, che ha perso il potere quando si è strappato dalle genuine, terragne radici del suo essere. Il motivo del nodo rimaneva presenza emblematica sulle Porte e si legava per rifrazione analogica, ad una
esiste il “segno istintivo”, che abbiamo tutti dentro di noi. Se dai un pennarello ad un bambino di tre anni, ti farà il suo segno istintivo. Perciò intorno al 1948 inizio questa pittura segnica che io ho chiamato “Istintismo del segno”, che naturalmente l’ho fatto vivere su delle superfici pittoriche sofferte nel senso di vissute con il tempo. In quell’epoca era interessato al mio lavoro il critico milanese Guido Ballo. Erano momenti felici per la pittura negli anni Sessanta,dove il mio interesse era sempre rivolto a questa ricerca. Mi ricordo che in quell’epoca in Italia si guardava al Gruppo Corrente con Guttuso, Migneco, Brindisi e altri, e poi il M.A.C. I giovani facevano la nuova figurazione. Non mi risulta che a quell’epoca ci fossero stati artisti che avessero sviluppato il mio discorso. Sono venuti dopo e in modo diverso Tancredi a Roma, Vedova a Venezia e altri, ma dopo gli anni cinquanta, così come Burri e Fontana con altre ricerche. Oggi come oggi continuo il mio lavoro sul segno istintivo con opere molto grandi che mi danno abbastanza soddisfazione. Concludo dicendoti che sono contro la commercializzazione dell’opera d’arte (vedi il libro Ecologia dell’arte edito da Rizzoli). P.: Che rapporti ha il fare artistico con la morte? M.: Bella domanda questa. Ritengo che la morte sia la cosa più giusta che possa esistere. Si nasce, si vive e si muore. La ricerca dell’eternità è stata perseguita e cercata in tutte le epoche da quando esiste l’uomo. Simbolicamente gli unici che sono riusciti ad ottenerla sono i veri artisti. Perciò considero un vero artista un immortale.Abbiamo moltissime testimonianze di capolavori che rendono l’artista sempre presente tra di noi viventi, e penso che più passano i secoli, sempre più questi grandi artisti sono più vivi che mai. L’arte è immortale e così gli artisti.
P.: Cosa significa per te essere attuali? M.: Oggi tutto cambia velocemente. Quello che qualche ora fa era attuale, adesso è già cosa vecchia. Il mondo industrializzato e globalizzato è talmente veloce che cambia come la luce dall’alba al tramonto. Potrei dire che se essere attuali è essere alla moda, direi una stupidata. Quello che ci costringe a tutti i costi ad essere attuali, ci porta ad inventare cose vecchie già superate e viste mille volte e inconsapevolmente facciamo delle cose che non dicono nulla, non servono a nulla e oggi come oggi non riescono nemmeno a stupire (come qualcuno cerca di fare). Più che essere attuali direi di essere noi stessi, e questo è già tanto. P.: Da cosa nasce in te l’impulso all’opera. Quando sai che l’opera è compiuta? M.:Alla base di tutto è come dicevo all’inizio, tutti gli stimoli vengono da un impulso istintivo che ognuno ha dentro di sé. Siamo uno diverso dall’altro, i nostri sentimenti, il nostro modo di comportarci, fa parte di noi stessi.Tutto questo crea la nostra personalità. Con la pittura abbiamo la possibilità di trasformare un nostro pensiero in una realtà concreta. La pittura ci da la possibilità di materializzare un pensiero. L’opera non è mai compiuta o finita,l’ultima pennellata la da chi guarda l’opera.Vorrei fare delle opere che non si concluderebbero mai. P.: Se tu non avessi fatto il Pittore, cosa avresti voluto fare? Ma.:Avrei fatto il Pittore.
viaggi della memoria e dal sovrapporsi di esperienze conscie o inconscie che ricava “...dalle nere pieghe del cuore”.Viaggi, i suoi, che in alcuni inserti si aprono al mondo lontano delle etnie. Lo spettatore assiste, quindi, all’esaltante «sentimento del colore, — come attesta Gerardo Pecci — visto quale veicolo privilegiato per mettere in evidenza la vastissima gamma delle emozioni e delle sensazioni dell’animo umano» (G. Pecci, Il colore della coscienza. La coscienza come realtà,in Daniela Baldo,Torino 2004,p.5). L’artista compie il gesto del dipingere ‘esprimendo’ i sentimenti reconditi del suo mondo interiore; azione intesa pluralisticamente dagli storici dell’arte che vi leggono «frammenti, visioni, volti, oggetti, scorci, fotografati dalla memoria e sviluppati nella camera oscura del cuore. [...] queste rappresentazioni — continua Giorgio Brezzo nel suo testo critico sull’artista —, sono le cose che abbiamo dentro, quelle che abbiamo visto da qualche parte, posti e gente che abbiamo conosciuto. Come un sogno le abbiamo viste sfilacciarsi, scomparire nei meandri della nostra mente o del nostro cuore» (G. Brezzo, Temponauta, in op.
cit.,Torino 2004, p. 4). In questo contesto dove l’espressione artistica si sposa con i pensieri percorrendo sinergicamente strade che portano diritti verso la poesia, l’assunto dell’ut pictura poesis trova ampia manifestazione in versi che sfociano dalla contemplazione di queste tele.
Rinaldo Turati
alterati che essi individuavano come “ospite” o come “spiriti”. Il vittorioso ritorno dalla lotta assicurava riscatto e salute, a volte alla comunità intera; i guaritori, per narrare l’avvenuta ricomposizione degli equilibri, riportavano canti, simulacri, cose costruite e intrise di mistero. Non diversamente, descrivere e rappresentare il mondo attraverso la pittura vuol dire evidenziare il rischio della labilità, rendere palese e tangibile il caos insorgente, dichiararlo, plasmarlo, fino a padroneggiarlo per renderlo vantaggiosamente condivisibile. Rinaldo Turati ha, insomma, rivendicato il diritto, che nelle società primitive spettava al mago, di imporre alla propria e altrui immaginazione una realtà capace di affiancare e arricchire quella sensibile. L’urgenza del vate, che è cosciente della distanza fra sintesi originaria di immagine-pensiero e progetto comunicativo, è uno degli aspetti per cui l’artista, nella società attuale, si è appropriato della nicchia ormai vuota dei tradizionali interpreti dell’ignoto.
La musica segreta dei segni Antonio Musiari precedente icona tematica di Turati, La vigna (1999). Anche i successivi interventi, come Giardino Oldofredi. Pittura, Musica e Poesia al Castello Oldofredi e Notæ Pictæ ai Chiostri di Santa Caterina annodano l’attesa epifanica al contesto visivo, mentre le pennellate, gli ori e i graffi restituiscono, con efficace finezza, il portato e le stratificazioni dell’esperienza. Rinaldo Turati esprime questi linguaggi tanto su grandi superfici scarificate che in piccoli inclusi materici nei libri d’artista, quali Foglie (2003), Primavera estate autunno inverno (2004) fino al recentissimo Terra di confini, libro oggetto costruito insieme al musicista Paolo Ugoletti (2005). La musica e i versi dei poeti sono le altre forme di creatività intorno alle quali Turati ama condensare i suoi segni.Tali sintesi, dall’intensa e coinvolgente forza evocativa, ci persuadono che molte manifestazioni della creatività contemporanea si debbano riallacciare teoricamente alle manifestazioni irrazionali che nel passato venivano definite, fra l’altro, magia bianca. Nel corso delle loro cerimonie, sciamani e medicine-men uscivano dallo stato usuale di coscienza e di rapporti interpersonali per proclamarsi congiunzione con le forze invisibili, amiche e ostili, avvertite dal gruppo. Gli sciamani si assumevano il dovere di affrontare il nulla; anzi la loro trance li conduceva attraverso stati di coscienza
“... raccontami dei pensieri fugaci dell’anima, di quanto ho visto e scruterò nel profondo degli abissi del tuo cuore! ... quando sarò riemerso dal mio dolce naufragio, ... dalle linee morbide della memoria riaffioreranno i ricordi di una vita che vivi e che per beltà e apparenza si apre al tuo sguardo ricco di verde speranza e oro ricchezza
Segni istintivi, 1956
Lacerazione, 2004 tecnica mista su tela
... dominate dal bianco candore, quello stesso che desideri e che da domani si affaccerà nel tuo futuro!” Sono dipinti, quelli di Daniela, che attendono lo speculum della materializzazione soggettiva, lo stesso che proviene dal viaggio mentale che ciascun uomo compie dal sorgere del giorno fino al suo tramonto.
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Senza titolo, 2004 tecnica mista su carta
Senza titolo, 2004 tecnica mista su carta
JAVIER MARIN
Testa di donna II, 2000, resina e bronzo, cm 78 x 49 x 44, es. unico
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PER L’ARTE