Segrete Di Bocca N. 20

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20DANGELO06

Fondatore Giacomo Lodetti / Direttore Giorgio Lodetti / Direttore Artistico Roberto Plevano / Progetto Grafico Franco Colnaghi Anno VI, N. 20 • Gennaio-Marzo 2007 • Galleria Vittorio Emanuele II, 12 - 20121 Milano • e-mail: giorgio.lodetti @ libreriabocca.com

ROBERTO CASADIO

il pianeta è solo uno sferico carcere, un braccio della morte a cielo aperto in cui ciascuno è in attesa della chiamata al patibolo. Roberto Casadio, pittore di grande temperamento, pur non investito dal sanguinario orrore della guerra, ha un occhio altrettanto penetrante e severo, capace di mettere a nudo l’ambigua malinconia del vivere in un universo malato di entropia, ansimante di provvisorietà, avvelenato da annunci di fisico degrado e di morte. Dopo avere inutilmente rivolto ansiose domande a un cielo muto, Casadio deve rassegnarsi a distogliere lo sguardo da un orizzonte che rimanda solo silenzi di lune e lucori di stelle, forse già spente, per rivolgerlo al nostro carnale sconforto di povere cose palpitanti nell’ostilità del creato. L’impatto con i quadri di Casadio, che non lasciano mai indifferente l’osservatore, avvenne anni fa nella sua Romagna a una Fiera dell’Arte. Attorniato da una serie di sue tele impetuose e drammatiche dai colori caldi e guizzanti che spiccavano nettamente nel panorama di ripetitivo squallore e di penosi conati imperversanti nelle gallerie, nelle fiere e dilaganti nei musei e negli spazi pubblici in un’orgia di pervicace valorizzazione del nul-

è l’umanità essenzialmente corrotta a costituire la materia di ogni opera E. M. Cioran

Otto Dix con la sua pittura generava scandalo e fu contestato perchè “fanatique de la vérité impitoyable, qui analysait, disséquait, déformait, dénudait, démasquait” (Schmidt, Neue Zürcher Zeitung, 1929). Ma non è colpa di Dix se siamo immersi in una realtà abominevole che ci travolge con la brutalità delle guerre, degli stupri, degli addii, delle sopraffazioni egoistiche e che si impone con indecenza allo sguardo disingannato e feroce dell’artista in una universale estensione di tragedia, assurda e divina insieme. È un campo di sterminio vasto come il pianeta, in cui Eros e Thanatos si giocano orrendamente le spoglie degli uomini, massa impulsiva e sventata che si riproduce tra fiotti di animalesco piacere e brevi illusioni di felicità: gocce d’acqua cinicamente centellinate a riarse bocche morenti per dilungarne la sconcia agonia. È un’umanità che scorrazza con frenesia ottusa sotto distrazioni di nuvole e non si accorge che

Arlecchino e la modella, 2004

ALESSANDRO PAPETTI Avanti… confessa! siamo entrati nel tuo studio e abbiamo visto tutti quei ritratti, sembrano sospesi con il viso all’insù, scommetto che li hai impiccati e ti sei divertito a osservarne i volti dall’alto, quasi a implorarti di tagliare la corda e non soffocarli! Ma no, io i ritratti li concepisco così, figure colte in equilibrio prospettico, volti che paiono interrogarsi sul proprio ruolo, quasi attendendo una conferma, un assenso, sovrastati da un destino schiacciante e timorosi di scivolare nel vuoto, in quel grigio plumbeo che già sembra inghiottirli, condannati in attesa di giudizio. Sembra quasi che voglia essere tu il giudice: guarda che abbiamo trovato anche delle crocifissioni e dei conigli squartati!

Superbia, 2004

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Le interrogatorie visioni

tersi da quella pelle che è una cancrena del tempo e il segnale più tangibile e irriverente della nostra condizione di disfacimento. Varlin è stato il mio primo maestro di vanitas, a rappresentare figurativamente l’umana dissolvenza, ironicamente accettata, Bacon me ne ha urlato la costante, devastante contiguità. Incutono timore le tue figure senza testa, come se volessi farle a pezzi, distruggerle e occultarle nei loro ambienti, in quegli interni desolatamente vuoti! non è che li hai sotterrati? No, semmai sono loro a sotterrare me, a ossessionarmi con la loro non presenza: io vedo già gli ambienti vuoti, popolati da una assenza imminente, dalle ombre di coloro che sto osservando e tra un po’ saranno altrove, sono le figure filiformi di Giacometti che si allungano nel vuoto, corrose da un’individualità che ne tradisce la sottile, etimologica incomunicabilità, l’ulcerante consapevolezza di un progressivo e silenzioso distacco. Gli interni delle abitazioni deserte sono i veri protagonisti, noi siamo la polvere che li ricopre, le fabbriche dismesse sono lo specchio delle nostre voci assenti, i resti inorganici di un passaggio umano assimilabile ai residui di un processo industriale. Però poi sei passato da queste visioni anguste a quelle gigantesche dei cantieri navali, forse sono mappe di qualche traffico illecito ? In effetti sì, sono mappe, ma di un desiderio di fuga dal soffocamento di quegli ambienti spogli e desolatamente grigi, monocromi come il pensiero dominante di osservare tutto con lo sguardo del dejà-nu, dove al classico schema del dejà-vu, del già visto o vissuto, si sostituisce un ossessivo già nudo, spogliato dell’immediatezza del presente, carico del richiamo emotivo della scena sgombera dei protagonisti, dell’io lasciato a contemplare il dopo, una sorta di delocazione esistenziale.

Beh, quelli rappresentano l’estrema sintesi del destino umano, simboli di una sofferenza quotidiana che ci violenta e di un sacrificio che cerca riscatto… In fondo la nostra vita è uno stentante alternarsi tra una consapevole crocifissione e una brutale macellazione, dolorosa ascesi e delirante abbruttimento, accomunati da esangue rassegnazione, la stessa di quei corpi appesi. Il mio è un inno alla carne, cerniera di congiunzione tra sacro e profano, guscio emotivo in progressiva, inarrestabile disgregazione che sembra manifestare l’angoscia di sottrarsi al vuoto incombente, in un contorcersi baconiano in cui non interessano i volti, ma il tentativo di lacerazione di un involucro soffocante, a scuo-

Boulevard St. Germain, 2006

Nudo notturno, 2006

Nei miei immensi cantieri non si notano presenze umane, ma si immaginano le folle che animeranno quelle costruzioni, un annunciato battesimo di vita, quasi un futurista varo di frastuoni che orchestrerà una miriade di emozioni, caotico agglomerato di individualità. È una silente esplosione di vita e movimento, una rivincita alla staticità degli interni, una fuga impulsiva dal vuoto che ci attende: il mio vuole essere un monumentalismo aggregante, esattamente l’opposto dei desolanti sce-

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ROBERTO CASADIO la, egli si levò incontro come un Dante pacificato, emergente da un girone di creature gementi e dannate di incontenibile pathos, in marcato contrasto con la sua espressione accattivante e distesa. Questo dissidio tra bonomia e intransigenza ci ha sempre incuriosito ed attratto in Roberto Casadio, cordiale e discorsivo nei contatti umani, impietoso e irremovibile nel suo studio, a tu per tu con la devastata armonia di volti e di corpi, o piuttosto di ani-

Nastro rosso, 2004

LE INTERROGATORIE VISIONI DI ALESSANDRO PAPETTI nari urbani di Sironi, manifesto di un’angoscia umana e politica. L’alienante mancanza di orizzonti è sconfitta dalle mie costruzioni navali, il messaggio di un Rex felliniano che presagisce il viaggio che affronteremo, una enorme capienza di presenze a maturare l’allegoria di un’avventura collettiva, di una futurista aeropittura che non vuole essere puro entusiasmo costruttivo, sfida eroica alla realtà, bensì enorme scialuppa di salvataggio, arca di Noè pronta a sottrarci a un naufragio: è una giganto-pittura in cui al-

Portacontainer notturno, 2005

me, che l’inesorabilità del tempo sa voracemente corrompere e lui ancora più celermente anticipare nelle sue tele così atrocemente presaghe. E’ in primo luogo la sofferenza dei conflitti della bellezza e della sua inarrestabile consunzione che sottende la ribellione umana ed artistica di Casadio. Nudi di donna, infocate meteore emananti splendore (Nudo rosso, Riposo), prepotenza di seni che “fondono” la sottile ipocrisia dei vestiti e si mostrano incandescenti ai nostri peccaminosi languori (Capelli rossi, Brindisi), imbarazzanti avvenenze muliebri (Omaggio a Courbet, Le tre mele), raffinate nostalgie feticiste di erotizzanti reggicalze neri (Arlecchino e la modella, Invidia, Lussuria), le Belle fumatrici irrequiete — unghie rosse affilate e trucco pesante a mitigare occhiaie scavate dalla lascivia — perse a divagare tra nebbie di fumo e di alcol su naufragi di amori e fantasmi di figli perduti, trasfigurano in degradate creature in cui ogni attrattiva si spegne, sopraffatta da garbugli di rughe, dalla fatica volgare del vivere, dal ricordo delle ferite, dal rattrappirsi dei sogni (Nastro rosso). Roberto Casadio sa, quando dipinge, che anche la sua mano è moribonda. E che essa ritrae carnali oggetti di contemplazione ormai prossimi al niente, pronti a dissolversi in un soffio di cenere. La sua pittura rivela gli inganni dell’esistenza e l’insondabilità del suo complesso mistero, il cui cardine non può che essere ancora la donna, capace di tenere in vita il mondo, in una contaminazione di esuberanza e di morte, di speranza e dolore, in un groviglio di sconvol-

genti contraddizioni: Dea Madre e Furia infernale, vergine e prostituta, incoercibile forza della natura e corpo violato, fragilità e incontenibile energia rigenerante, gorgo di passioni e simbolo angelicato, concupito enigma di sublimate meschinità. Casadio, dall’entusiastica ammirazione per il fascino muliebre, così magnificamente affermato nelle imponenti allegorie dei Vizi capitali e in particolare della Superbia — un corpo di donna colmo, di straordinaria avvenenza, eccitante nella sua nudità procace accentuata da trasparenze di vesti leggere - e dell’Invidia — magistrale scor-

la resa incondizionata e allucinata del singolo si sostituisce il prodotto di una capacità corale di reazione, un “memento vivi” che fa abbandonare il vissuto grigiore degli interni. Non mi convince questo entusiasmo, tu vuoi fuorviare l’attenzione… Sì, forse lo scopo è proprio questo, immergerci in una realtà complessa in movimento, ritrovare un dialogo con l’ambiente che ci accoglie, fuggendo dal chiuso per arginare il senso di abbandono e crollo imminente che ci dilania, ci parla degli oggetti abbandonati, delle scolorite impronte che sopravvivono al nostro passaggio. Così i miei personaggi li reinvento in attesa del varo di quelle navi a popolarne le cabine, o immersi nel traffico delle strade parigine in una affannosa guida verso il caos, risucchiati ancora una volta da un vortice di voluta e incosciente trasgressione nei confronti di un tempo che fluisce con la stessa intensità, quasi a ignorarne le dissacranti conseguenze. Da questa euforia vitale di fuga maturo così l’analogo disagio degli esterni, di quegli scenari urbani che paiono resti di un’esplosione atomica, privati improvvisamente di ogni attività vitale, testimoni di una civiltà distrutta, come cristallizzati nel tempo. Ancora una volta mi assale l’iniziale senso di

sospensione nel tempo dei ritratti e degli interni, avverto la vita come accumulo di povere tracce che ci sopravvivono, una poetica alla Boltanski, l’oggetto come anima delle nostre emozioni, immobile testimone di un veloce passaggio: così poltrone, letti, tavoli parlano di noi, ma vivono di vita autonoma, raccontano delle varie identità che hanno ospitato, come un albergo ad ore. Ma questo Boltanski è tuo complice? Ma no! è un artista che come me guarda il mondo col disincanto di chi lo vede spoglio di ogni significato, che ne esalta i piccoli oggetti come monumenti alla memoria e ne mette a nudo la fragilità. Ecco, nell’acqua ho trovato l’elemento più consono a rappresentare questo senso di sospensione e di disarmante nudità: forse è un richiamo al grembo materno o più semplicemente a un mezzo che rallenta il nostro affanno, scomponendolo in movimenti più gestuali, di eleganza teatrale, che sottolineano un’inutile ansietà di sopravvivenza. Ecco, in questo atteggiamento Boltanski è mio complice. Ah! finalmente hai confessato! Fortunatamente, in questa calda giornata estiva, il rumore di un tuffo nella piscina di fron-

CYRILLE MARGARIT

Red Mask, 2006

Il mezzo è il digitale perché le foto sono ormai tutte in digitale; col computer si manipola e si trasforma la realtà. Attraverso il computer la realtà diventa sogno e il sogno diventa una nuova realtà reinventata e differente. Il digitale permette di passare dal figu-

Brindisi, 2003

Digital Evidences

ci circonda e che viviamo è lì dentro; un occhio magico indagatore che mette a nudo noi stessi e tutto ciò che ci capita a tiro. Da lì la realtà non può sfuggire. È l’evidenza, Ma vi è un “ma”, una domanda, una sfida più che altro:“ma è veramente tutto e solo quella la realtà?” E se fosse anche qualcos’altro, qualcosa che sta al di fuori della mera percezione visiva e sensoriale? Perché non provare ad andare “oltre”, a stravolgere quella realtà per farla divenire sogno? Per vedere cosa c’è dietro la facciata, dietro l’angolo? Sperimentare un mondo diverso per arrivare non si sa dove, alle radice dell’essere o al di là dell’essere stesso? Da qui parte, nella ricerca di Margarit, la fusione tra “digital” ed “evidences” che diventa una nuova forma di figurazione o una pura astrazione. E Margarit gioca con figurazione e astrazione in modo nuovo su un supporto di alluminio dove le fotografie non vengono incollate, ma vengono direttamente impresse con una tecnica totalmente nuova. La luce non è più quella proveniente dal quadro, dal chiaroscuro pittorico, ma viene colta direttamente dal mondo esterno; è la luce del sole, del giorno che interagisce direttamente con il supporto di alluminio dandogli nuance e modulazioni differenti. Una tecnica nuova, una nuova sperimentazione sui materiali per

rativo all’astratto sulla medesima base di partenza; è il figurativo che si fa astrazione, la realtà che vira verso l’astrazione e diviene sogno. Quindi nel digitale il sogno è realtà. Il mondo del reale viene sperimentato e vissuto sotto sfaccettature diverse, sotto altre luci; si mostra il sogno contenuto nella realtà; le altre possibili realtà, le moltitudini di “realtà” diverse. Un corpo umano diviene macchia, colore, emozione pura; un grattacielo di New York si incendia in un fuoco morbido e caldo che non scotta, che non ha nulla di pericoloso o mortale. È solo un “altro” Empire State Building. Una Ferrari che sfreccia al Gran Premio di Monaco non è solo il mito che tutti vediamo e conosciamo; è un soffio, uno stridio, un urlo, movimento puro, movimento dell’anima, moto del tempo, l’espace d’un matin. È il sogno.“Evidences” in inglese significa “prove” di un processo o di un discorso. Prove di realtà che ci circonda. Quello che viene riprodotto dal mezzo fotografico è realtà. In francese infatti significa “evidente” vale a dire sotto gli occhi di tutti: reale. Per Cyrille Margarit la realtà è quella che si vede e si fissa attraverso un obiettivo.Tutto il mondo che

cio di un discinto corpo femminile disteso, incendiario, inesauribile oggetto di desiderio sprofonda nel desolato sconcerto del suo disfacimento peccaminoso, della sua sinistra condanna all’infezione del mostruoso e del brutto. Una pennellata fluente, pastosa, dal timbro deciso e ricco di tonalità, staglia primi piani sfrontati su dissolventi cupezze da retroscena, tagliate a volte dal cono indagatore di un occhio di bue o da un indiscreto sciabolare di riflettori che mettono al vivo stati d’animo, simulacri di maschere abbandonate, cascami di menzogne, estenuate ossessioni, caligini di memoria. Quadri che scagliano voluttuose censure al fascino vizioso del vivere, opponendo straniato sgomento all’interrogativo del nostro rovinoso sparire, alla bestemmia del dolore, al millenario incalcolabile accumulo di sofferenze delle moltitudini umane (e animali) che dovrebbe far scoppiare il cuore di qualsiasi dio che non si sia voluto distrarre. L’amara poesia che Casadio riversa nei nostri occhi affascinati e smarriti percorre un’impietosa teoria di solitudini, di dolenti intuizioni, di echi di disperazione e di sfiorite bellezze disperse nel tempo che ci raggiungono come un interminabile grido di belva ferita. Quell’urlo sordo che attraversa l’anima di ciascuno di noi e che solo l’ultimo sipario di silenzio saprà finalmente acquietare, raccogliendo nel buio della terra la nostra indifesa nudità.

Giovanni Serafini

Paris - Metro Passy, 2006

te alla mia abitazione mi fa svegliare d’improvviso: ho sognato di essere Papetti, uno dei più coinvolgenti e significativi artisti del panorama internazionale e ho vissuto un interrogatorio da incubo, sottoposto al suo stesso disagio di identificazione, alla sua stessa coscienza dell’inadeguatezza di un vero mezzo espressivo al livello dell’umano sentire. Ora ho il terrore di continuare quell’interrogatorio nel chiuso del mio studio, interrogando le immagini dei suoi personaggi, cercandone una autentica complicità.

Aldo Benedetti esprimere un modo di sentire, un mondo che è quello tutto particolare di Cyrille Margarit. Un sognatore, uno dei pochi e degli ultimi rimasti! Un senso estetico il suo, fatto di istinto Chrysler, 2006 puro, che scaturisce inconsciamente dalla sua anima.Tutto è giocato su un ideale di bellezza che è prima di tutto bellezza interiore, è scavo nell’animo umano, è un atto di amore. Solo su una base di tal genere si può costruire un “Artista”; sull’istinto, sulla delicatezza, sulla purezza. Cyrille riesce ad essere tutto ciò, riesce ancora a meravigliarsi di fronte al mondo, alla sua bellezza, alla sua magia. Riesce ancora ad emozionarsi di fronte ad un paesaggio o al volto di un bambino. Fino a quando avremo esseri umani capaci di provare ancora e nonostante tutto sentimenti di tal genere, avremo ancora e fortunatamente “Artisti”. Cyrille è uno di questi.

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Cynthia Penna

LUCIANO VENTRONE

Leptis magna, 2006

STUDIO FORNI - Milano Il corpo femminile, cantato da poeti e scrittori, immortalato sulla tela dai più grandi pittori di tutti i tempi, diviene il soggetto prescelto da Luciano Ventrone, per un nuovo ciclo di opere, che affiancano ed accompagnano le più note nature morte. Ventrone aveva già affrontato questo tema all’inizio della sua carriera, prima di intraprendere quel lungo viaggio che lo ha portato ad essere uno dei più indiscussi maestri del nostro tempo. In questi anni di continua ricerca pittorica, sulla luce e sul colore,Ventrone ha dato vita a memorabili cicli di nature morte, immortalando sulla tela composizioni di frutti o foglie illuminati da quella luce fredda, algida che è divenuta una della sue più note

caratteristiche: oggi la scelta di rappresentare con la stessa tecnica e lo stesso sguardo il corpo femminile. Non è la prima volta che l’autore decide di affrontare temi diversi dalla natura morta, ne sono un esempio i deserti e le marine, ma forse il nudo si inserisce in modo più incisivo all’interno del suo universo pittorico. Nelle prime opere su questo tema compare accanto alla modella un piccolo cesto di frutta, quasi una dichiarazione di poetica, un rimando evidente alle altre opere per evidenziare la medesima attenzione posta nel raffigurare le membra femminili al pari di una zucca o di un melograno. Anche la scena pittorica è la stessa: un fondo nero ed un piano d’appoggio bianco. Non vi è un interesse psicologico, introspettivo; dal volto della modella non traspaiono emozioni o sensazioni che tradiscano il suo stato d’animo, o svelino qualcosa della sua personalità, tutto ciò che si vuole svelare è lì, davanti ai nostri occhi, nell’armonia e nell’eleganza del suo corpo, nel fascino emanato dai suoi capelli, rappresentati nei più piccoli dettagli, tanto da sembrare veri, tangibili. La sua interiorità rimane un mistero, conservato per sempre nell’atmosfera rarefatta del quadro. Nelle ultime opere scompare anche il cesto di frutta, la composizione diviene ancora più essenziale, affidata solo al corpo della modella, che assume, a volte, posizioni più articolate, descrivendo all’interno della tela delle forme geometriche nelle quali la luce si insinua accentuando le forme o sottraendo allo sguardo porzioni di pelle. In alcuni dipinti i giochi chiaroscurali sono più violenti, lasciando in ombra intere parti del corpo, come in Leptis magna dove, forse non a caso, è proprio il viso a rimanere quasi nascosto, mantenendo così ancora una volta celati i segreti dell’anima.

Sono già passati tre anni da quando con un gruppo di amici decisi di organizzare un Premio di pittura dedicato ai giovani artisti, che si è fatto e si è andato consolidando nei due appuntamenti biennali previsti, 2004 e 2006, con catalogo edito Bocca contenente le opere finaliste e l’elenco dei partecipanti. L’idea è nata dalla necessità di contattare giovani artisti fuori dal mio tradizionale ambito, infatti, sono riuscito a conoscerne parecchi, sia in italia che all’estero. Grazie al contributo e al sostegno di molti critici, tra i quali vorrei citare Aldo Benedetti,Antonio D’Amico, Philippe Daverio,Victoria Fernandez, Sara Fontana, si continua e per il prossimo appuntamento, con la recente collaborazione di Antonella Piccardi della Galleria ArteIdea ci saranno considerevoli cambiamenti, che non svelerò in questa sede. Entrambe le edizioni hanno suscitato molto interesse di pubblico e di critica, ma il fatto che mi entusiasma di più, è il notevole successo degli artisti selezionati, ovviamente in primis i vincitori delle due edizioni: Eltjon Valle 2004 e Claudio Magrassi 2006. Con Eltjon ho avuto la riprova che talento, impegno e voglia di fare premiano. Artista

Oltre la geometria, 2006

GALLERIA FORNI - Bologna Presso FORNIBOOKSHOP saranno in vendita e consultabili diversi prodotti editoriali: non solo i cataloghi delle mostre ospitate dalla Galleria nel corso del tempo, ma anche i volumi editi da prestigiose case editrici quali Electa, Charta e Skira sull’opera di alcuni importanti artisti che hanno esposto presso la Galleria; fra tutti basti citare Giorgio Tonelli, Luciano Ventrone, Alessandro Papetti o Giovanni La Cognata. Il nuovo spazio si propone in questo modo di diventare un punto di riferimento per l’editoria d’arte e le pubblicazioni di un settore, quello fotografico, che vanta un numero sempre più ampio di appassionati. L’ambiente, reso caldo e accogliente dalle librerie in legno, è stato pensato tanto per poter ospitare appuntamenti quali presentazioni e anteprime, quanto per favorire la consultazione del materiale da parte del pubblico.

Galleria Forni - Bologna, via Farini, 26 - e-mail: forni @ galleriaforni.it Studio Forni - Milano, via Fatebenefratelli, 13 - e-mail: forni.mi @ iol.it www.galleriaforni.it

Barbara Frigerio

CLAUDIO MAGRASSI

Krisalide, 2006

Still-human-life

Premio Movimento Segrete di Bocca

non essendo particolarmente appetibile, offre la possilità ai giovani di entrare in contatto con molti addetti ai lavori, tutti quei personaggi che negli anni hanno collaborato e collaborano con la rivista e la Libreria. Galleristi e soci si sono già interessati a contattare i finalisti ed in particolare Claudio, con il quale, ho già avviato i programmi per il prossimo anno. Il suo lavoro non è veloce, sono opere dipinte con colori cupi, tele sbrecciate, cucite e rattoppate, volti che scrutano e si scrutano, a volte sofferenti a volte autoritari, non più giovani ma non anziani, uomini che conoscono la vita, che hanno sofferto e gioito, volti consumati dalla

albanese, studia a Brera, in due anni, ha già all’attivo nonostante la giovane età, classe ’81, tre mostre personali, la segnalazione a numerosi premi organizzati in Italia, un catalogo edito con Bocca e contatti internazionali. Ovviamente per Claudio dovrò attendere un po’ di tempo, ma gli esordi sono molto interessanti, classe ’69, ha frequentato il Liceo Artistico di Tortona dove attualmete vive, per affinare e migliorare la conoscenza delle tecniche artistiche ha frequantato lo studio di colleghi, tra cui quello di Benedicenti. Ha all’attivo diverse mostre personali e collettive. Claudio, che ho conosciuto alla serata di premiazione in libreria, è una persona di una sensibiltà e semplicità disarmanti. Quando l’ho proclamato vincitore, si è visibilmente commosso trasmettendomi la sua emozione. Il premio pur

società ma a lei resistiti, volti veri. La sua ricerca è introspettiva dell’animo umano, volti dipinti in spazi chiusi illuminati da luci calde e colori forti: rossi, marroni, gialli. Ho visto poche opere recenti e, mentre le prime erano legate alla tradizione Caravaggesca, a personaggi e simboli religiosi, in particolare la crocefissione e la corona di spine, o nature morte; i volti hanno tutta la tradizione della pittura precedente, e soprattutto hanno quello che io reputo fondamentale in un giovane artista, la personalità, sono riconoscibili quindi sono suoi.

Giorgio Lodetti

Privato vende al miglior offerente opere della propria collezione d’arte di artisti contemporanei. Prenotare una visita al 339.6859871 Opere di Ajmone, Arrivabene, Bacci, Baj, Becon, Becca, Berrocal, Bertante, Bonalumi, Borioli, Celada, Colnaghi, Corona, Dangelo, Del Pezzo, Della Torre, Fomez, Lavagnino, Nespolo, Olivieri, Papetti, Petrus, Ercole e Luca Pignatelli, Arnaldo Pomodoro, Raciti, Rampinelli, Rognoni, Attilio Rossi, Sanesi, Sangregorio, Sersale, Sesia, Tadini, Tiboni, Vago, Valentini, Velasco, Vicentini, Vistosi, Zanon, Zazzeri e altri. N O T A

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Per ricevere gli inviti e le comunicazioni degli eventi promossi dalla libreria è necessario inviare via e-mail nome e cognome a: [email protected] BIANUCCI CINELLI studio comunicazione organizzazione eventi ufficio stampa via Lambro, 7 - 20129 Milano - Italia tel. +39 0229414955 fax +39 0220401644

Larvale II, 2006

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La Libreria Bocca è lieta di annunciare la collaborazione con l’ufficio stampa diretto da Francesca e Chiara Bianucci Cinelli, per una maggiore e migliore diffusione delle iniziative culturali promosse.

Maria Teresa Isenburg Negri

MATÈ

Vetro nell’immaginario,2003

Da circa dieci anni organizzo mostre, di artisti contemporanei è un lavoro che, tra una difficoltà e l’altra, faccio con piacere, ovviamente alternato a quella che è la mia principale attività: il libraio. Il rapporto con chi fa arte, l’Artista, è sempre diverso,in questo caso l’esperienza serve solo per essere il più pratico possibile, infatti come in tutti i rapporti interpersonali, non ci sono regole fisse su come doversi comportare o su cosa dire. Ogni mostra rappresenta un passo in più in un mondo che solo apparentemente può sembrare chiuso e ristretto, l’arte, soprattutto quella contemporanea, non è un

brante. Dopo quel primo incontro ci siamo visti spesso in Libreria e un paio di volte a casa sua con mia moglie Laura. Matè è una scultrice ma non scolpisce, i suoi lavori non sono dipinti, ma si appendono, non hanno le dimensioni volumetriche di una normale scultura,ma a questa appartengono.Utilizza spesso il vetro,un materiale forte e delicato, trasparente e colorato, ma anche: ceramica, porcellana, plastica, specchio. Le sue opere sono agglomerati, stratificazioni di storie e di eventi accaduti.Da anni la sua ricerca sonda il riciclaggio di materiali di uso quotidiano e comune, piatti, piattini, tazze, tazzine, teiere, barattoli, zuccheriere e altro che,una volta rotti, perdendo la loro funzione primaria, quindi rifiutati accantonati gettati,vengono sapientemente riabilitati, una reinterpretazione del ready-made di Duchamp. Lei non sceglie un solo oggetto ne raccoglie molti, li recupera, li utilizza e,unendoli ad altri,dà loro nuova vita. Le sue accumulazioni diventano opere d’arte da ammirare e contemplare, con una loro storia da raccontare e testimoniare,appese alle pareti si affacciano sull’ambiente circostante che così viene riflesso, sfaccettato, smontato, ricomposto, distorto, ingrandito, rimpicciolito. È un dialogo unico, continuo, irripetibile, magico. Lo stesso appartamento vive delle storie di Matè, ricco di particolari di sue opere, di oggetti raccolti e non ancora utilizzati, di piccole sculture, di fiori e pian-

mondo riservato ai soli addetti;gli artisti per primi, non amano essere ignorati dal pubblico e si lamentano quando i vernisage sono deserti, a differenza del passato, dove la prassi era non presenziare neppure.Oggi tutte le presentazioni sono delle vere e proprie celebrazioni,feste nella festa, tutto è più veloce e frenetico, la mostra deve funzionare il giorno della presentazione se non addirittura prima dell’apertura ufficiale. La durata serve solo per concludere trattative, contatti,vendite e nuove esposizione. Il fine è la diffusione dell’opera,la sua circolazione sul mercato, un meccanismo in cui ci cascano molti,ma spesso,anche qui esistono le famose, mosche bianche. Ci sono personalità al di sopra delle parti che, con il loro passato più o meno ricco di riconoscimenti ed esposizioni,si estraniano, non chiedono, non si propongono, ma sono capaci di coinvolgerti, interessarti e mostrarti le loro opere con quella competenza tipica dei grandi. È questo il caso di Matè, nome d’arte di Maria Teresa Isenburg Negri. Un giorno è entrata in Libreria e, come spesso accade, c’era un amico comune che ci ha presentati, Sergio Dangelo. Matè è un’artista che porta con eleganza e charme i suoi anni, ha una luce interiore forte e vi-

NO MAN NO LAND

Biennale d’Arte Ferrara

Giorgio Lodetti

SpazioBoccainGalleria mercoledì 21 febbraio 2007 - ore 18,30

PLEVANO INCONTRA

Possono due concetti di simile ed apparente universalità, riassumere tutto il contenuto di un evento artistico vario e differenziato? Ecco la sfida di questa Biennale d’arte di Ferrara (ormai alla sua terza edizione) in cui sembrano riunirsi in ordinato affollamento i temi, gli stili, le tecniche e le umanità di diversi artisti e nazionalità. Proprio nella doppia negazione del titolo, in quell’universale “NO” risiede il primo, immediato significato dell’esposizione.“Nessun uomo, nessuna terra”, un “non io” ed un “non luogo” che, già in sé, sembrano voler conservare una totale assenza di identità. La negazione serve ad esprimere questo: la modificazione del predicato dell’enunciato stesso; negando il tracciato esistenziale che ognuno di noi segna nel corso della vita, tende ad universalizzare le esistenze, eliminando confini e differenze, per rendere esseri umani e luoghi comuni gli uni agli altri, pur nella conservazione pura di ogni singolo “enunciato d’arte”. In questo sta l’originalità dell’esposizione ferrarese: nel saper superare quelle differenze che appaiono come fisiologiche nei rapporti umani. Ecco, quindi, come la Terza Biennale d’arte diviene luoMarina Iorio Alberto Bertuzzi go (e qui sta il gioco di differenze con il titolo) di incontro e di scambio di esperienze d’arte e di vita, in un universo che racchiude e sottolinea le differenti originalità, ponendole di fronte a confronti diretti, in un continuo scambio di colori, linee, pennellate e di plasticità difformi che, nella tattilità della materia, si incontrano e si scontrano, dando origine ad un variegato insieme che, nella straordinarietà delle differenze di paesi (europei ed extraeuropei), cerca di riassumere l’intero senso dei rapporti umani. L’occasione è stata senza dubbio ghiotta, tanti sono stati i nomi e le istituzioni illustri che hanno partecipato in modo diretto all’iniziativa promossa da Ferrara Pro Art, dalla Galleria d’Arte Contemporanea Sekanina e dalla Fondazione D’Ars di Milano diretta da Grazia Chiesa; ci siamo fatti coinvolgere e messi in gioco con le diversità, l’originalità di ognuno, nella speranza che, questo nuovo momento di incontro tra le parti, divenga “scoperta” ed insieme “superamento” dei limiti insiti in ognuno di noi, nel nome di un progresso artistico che diviene apporto interessante anche dal punto di vista sociale. Nel “dialogo” e con il “dialogo”, infatti, risiede la più efficace ricetta per una sostanziale e netta pacificazione sociale, di cui l’arte si fa portavoce e mezzo di comunicazione diretta.

In un pomeriggio di settembre, passando per via Brera, andavo a trovare l’amico Cappelletti dell’omonima Galleria, mi imbatto in un concorso di pittura alla Galleria Ponte Rosso in memoria del pittore Carlo Dalla Zorza. È la sera della premiazione, gran eccitazione, gran folla, molti giovani.Al tavolo della giuria saluto l’amica Bossaglia e percepisco subito il livello dei partecipanti, tutti bravi, sono una trentina di opere degli artisti selezionati sui 480 partecipanti. Mi colpisce subito un bellissimo quadro astratto di Brunella Rossi, ma subito dopo vengo letteralmente catturato da un’opera figurativa Una giornata di pioggia di Ester Negretti. È un viso di giovane donna che sembra riflettersi nel vetro di una finestra mentre fuori diluvia, ma il volto non è speculare, simmetrico ad un’immagine riflessa, potrebbe essere l’alter ego dell’artista, il suo doppio. Opera intrigante, sensuale, d’impatto comunicativo potente, l’occhio rimane sedotto, direi turbato perché non trova un’interpretazione univoca, rassicurante. Si entra nei territori misteriosi dell’enigma, di significati reconditi che rimandano ad altri significati in un labirinto speculare infinito. Mi sono venuti in mente certi sguardi nelle opere di Rembrandt, Velasquez, Michelangelo, del ghigno esilarante di Mozart, dell’intensa seriosità di Beethoven. In altri momenti arrivava una sensualità sfrenate e lussuriosa di una donna che prende coscienza dell’enorme potenzialità seduttiva, ma pochi istanti dopo percepivo l’opposto di una condizione di insopportabile e devastante disorientamento esistenziale di fronte alle difficoltà e le incertezze della vita e del futuro. Mentre sono assorto in questa altalena di sensazioni opposte la Prof.ssa Bossaglia nomina quest’opera quale vincitrice del secondo premio. Con mia sorpresa scopro che l’autrice è una ragazza giovane di 27 anni. Dopo alcuni giorni visito il suo studio e con mio stupore vedo grandi opere astratte di impianto geometrico ma con inserimenti di segno e di materia personali, orchestrati in una tensione in divenire. Sono coinvolto in una dinamica esistenziale complessa e in apparenza caotica, ma in realtà supportata da un rigore normativo possente nel ristabilire un equilibrio vitale nel

Michele Govoni Nabil Al-Zein

te, animali imbalsamati o in ceramica, sculture etniche, maschere, un caleidoscopio di vita e ricordi, di frammenti di vite passate e presenti, sue, loro, nostre. Viaggiando per il mondo è una testimone degli avvenimenti a cavallo di due secoli, ricordi, pensieri e sensazioni che tornano sono presenti e fanno parte della sua arte.C’è il sole della Florida, il colore del deserto del Sahara, la terra d’Oriente e la sua filosofia,ci sono passato,presente e futuro nell’arte di Matè e tanto altro. Il piacere di essere incantati, affascinati e illusi di rivedere noi stessi riflessi nelle sue opere,la possibilità di interpretarle o essere interpretati da un’arte che ci è appartenuta nella quotidianità e ora non è più nostra ma di Matè che le ha dato nuova vita.

Le immagini pubblicate sono opere di artisti selezionati alla Biennale

Ester Negretti

Una giornata di pioggia, 2005

mare delle contraddizioni umane. Forme per lo più quadrate e rettangolari si scontrano, deflagrano, si ricompongono in una lotta senza fine, con un segno poderoso e devastante e una materia sfinita nell’affievolirsi della luce. C’è una grande padronanza del colore, dai bianchi ai neri con gamme raffinatissime di grigi caldi, eleganti, solari, che trasmettono ancora speranza e fiducia. Il tempo viene percepito su piani istantanei, immanenti, e la caoticità apparente, ad una attenta e prolungata osservazione, si tramuta in una classicità senza tempo, immortale come tutte le grandi opere d’arte. Questo mondo convulso costringe l’artista ad imprimere alla forma, alla materia, al gesto, al ritmo una velocità concitata e drammatica nuova ed irradia lo spazio in uno spasmo in espansione e contrazione, fra lotta e pacificazione. Mi colpisce l’entusiasmo, la freschezza, il candore di questa giovane artista, la sua voglia di fare, di cercare, di trovare con i mezzi intramontabili della pittura, della materia, con l’atavico movimento del braccio e della mano che tracciano e lasciano segni pregnanti di magica energia del fare perenne dell’uomo. Mi chiedo dove arriverà questa donna, questo folletto geniale che a questi livelli ha senz’altro una dispensa celeste che la guida e sorregge nel suo fare creativo. Ester Negretti, ne sentiremo parlare, non è un augurio, è una certezza.

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MAURIZIO CARIATI

GIANNI MORETTI

Morphing

Maurizio Cariati, classe ’83, nato a Cosenza, formazione artistica con specializzazione “metalli”, il suo leit motiv è un morphing ironico grottesco, immagini fotografiche estrapolate da riviste, trovate su internet, ritratte con scatti dal vero. La maggior parte delle opere hanno per soggetto volti “generazionali” in close up, catturati e filtrati con l’uso del fish-eye. Prima di dipingere, dietro i telai spessi, su una base di legno si avvale del poliuretano espanso, per creare una sagomatura aggettante. I colori (acrilici) sono stesi direttamente su sacchi di juta con pennellate veloci e decise. Alcune zone del supporto sono ricoperte da strati croApri sono io! 2006 matici densi e materici, altre vengono appositamente lasciate “nude” a leggere la texture della fibra naturale.Tra l’immagine rappresentata e l’intelaiatura l’artista individua un’asse “a fuoco”, circoscrivendo le zone a rilievo racchiuse nei volumi imprigionati.Chi osserva le sue opere può notare che frontalmente la profondità rimane appiattita; infatti, l’anamorfosi è adoperata da Cariati come tecnica di dissimulazione affinché l’espediente permetta allo spettatore di accertarne la tridimensionalità solo di scorcio. Solo osservati obliquamente, dunque, i volti sembrano “vuotarsi” e denunciare la componente fisica-emotiva? Dall’interno del “sacco”dietro la quinta della linearità convezionale del bozzetto. Così Cariati che ha sottratto completamente i riferimenti spazio-temporali alla pertinenza pittorica, moltiplica i livelli di lettura attivando una determinazione sincretica che chiama in causa fumetto, grafica 3D, fotopittura e pittoscultura.

Tania Giuga

Tuffatori nei pozzi, 2005

Il disprezzo generale verso un elemento tanto inconsistente, quanto fastidioso, come la polvere risulta noto a tutti in più aspetti del nostro quotidiano. Ma c’è polvere e polvere. Quella che raccoglie, soffia e spolvera Gianni Moretti nei suoi lavori si traduce in un irresistibile fascino. Questo giovane, e promettente, artista pondera il suo agire su un’operazione – quella dello spolvero appunto – che affonda le sue radici nelle primigenie forme artistiche dell’uomo: una manciata di colore e sagome su cui imprimerlo per poter lasciare una traccia, un’orma che restituiscono un segno che si ripeta come memoria. I pochi elementi della carta e del pigmento, mantenuto puro, bastano come unici mezzi a Gianni Moretti per comporre liriche musicali che danzano nell’aria e si lasciano trapassare come spiriti dal nostro stupore. Le figure, che si accennano, si addensano e disgregano, sono frutto di un’immediatezza tanto pensata, quanto immediata, da ricordare l’istantanea poeticità degli Haiku orientali. Come a queste composizioni poetiche non occorrono troppe parole per esaudire la poesia di un racconto e donarci l’ebbrezza dell’intensità, così alle opere di Gianni Moretti non servono dettagli superflui, non occorre una dichiarazione di intenti ma basta l’accenno e delle ombre sfuggevoli fanno breccia in noi, per aprire, con un leggero sussulto, il nostro sentire. Non si devono capire, non si devono solo vedere, per afferrarle bisogna innanzitutto sentirle le sue opere. Affascina, cosa che personalmente ho avuto modo di comprovare ripetutamente, proprio la giustap-

Il mio amico Lino! 2006

ANGELO SBLENDORE

Il nome della rosa

Angelo Sblendore, con il suo cognome bello e strano, ci rimanda con le sue “sblendide” rose sui banchi di scuola. Rosa rosae, rosae rosam. Rosa rosa, Rosae rosarum rosis, rosas rosae rosis. Lui le declina in tutti i casi, ablativo compreso, singolare e non. Lasciando il mondo latino ci ritroviamo nella poesia francese dell’800 che dà i titoli a questi lavori: L’alba spirituale, L’orgoglio A colei che è troppo gaia, 2006 punito, Canto d’autunno, A colei che è troppo gaia, De profundis calmavi, sono poesie di Baudelaire della raccolta I Fiori del Male che ispirano Sblendore nella realizzazione dei suoi lavori, oli su tela con colori di marca Rembrandt, a volte colori Maimeri. Marroni, verdi, beige, amaranto, rosso, puro olio bianco, puro olio azzurro, per rendere la terra, il cielo, la nebbia, il ghiaccio e la brina. Queste rose sono persone, hanno caratteri e atteggiamenti antropomorfi. Nei quadri di Sblendore può esserci un freddo nordico, la rosa è persona, è ricordo di un sud caldo e freddo, silente, poetico e serio. La bianca rosa thea, la rossa rosa gallica sono figure teatrali frustate dal vento e dalla neve che non è altro che calce, spessore materico che copre i colori ad olio. I quadri di Sblendore sono materico-espressivi, comunicano una temperatura a volte Celsius, De profundis clamavi, 2006 a volte Fahrenheit, soffiano il vento in faccia a chi guarda, ma siccome per Sblendore tristezza è mezza bellezza, oltre al vento, da questi lavori esce anche una musica di Sibelius. Essi sono osservabili da tutte le posizioni perché non hanno un piano di riferimento di paesaggio. Questi frammenti di affreschi pompeiani si possono vedere da nord, sud, est ed ovest. Le rose e le foglie sono classiche, quasi fiamminghe, è lo sfondo L'Orgoglio punito, 2006 che rende contemporanei questi lavori, a volte invadendo i primi piani per dichiarare “Siamo nel terzo millennio”. Queste rose e queste foglie, così macrofotograficamente precise sembrano essere le uniche forme di vita ad aver resistito al soffio della bora. E nel vento si sente un’eco: è il nome della rosa.

posizione tra i suoi lavori, il suo spirito e il suo modo di essere artista, amico e persona. Proprio così la personalità si completa, non limitandosi esclusivamente ad un buon esito pittorico ed artistico, ma nel coinvolgimento nella sua arte di tutto sé stesso e delle proprie esperienze. Raramente il lavoro di un giovane artista si può considerare tanto pronto, tanto efficace e maturo, ma i suoi spolveri (così come le foto, i disegni, le incisioni, …) ci appaiono di sicura certezza, riflessioni di un’intellettualità acuta e capace, frutto di un sentimento e di un vissuto realmente percepiti. Inevitabile il restarne coinvolti anche per noi. Sono opere scritte con un codice divenuto ora, per la sua efficacia, universalmente comprensibile: ci parlano tanto dell’artista quanto di noi stessi e delle nostre comuni esperienze. Gianni Moretti non è però mai tracotante nella traduzione del suo essere artista; con un atteggiamento composto e garbato, riesce a parlarci sottovoce con un’estetica che ci lascia un segno e che non possiamo né smettere di guardare né di ascoltare. Si dice che per l’Arte si debba essere portati ma una buona tecnica resta un vuoto artificio, figlia di una professionalità unicamente accademica, se privata del sentire dell’artista. Gianni Moretti invece sente e poi sa trasmetterci questo suo racconto, aprendo con i suoi lavori una via al nostro coinvolgimento verso una comune passionalità partecipata.

Matteo Galbiati

SIMONA CIARI Ispirarsi alla natura senza indulgere ad atteggiamenti di naturalismo è quanto compete alla ricerca pittorica di Simona Ciari che di quello sconfinato territorio esplora piuttosto che le forme, la magica energia degli elementi e sono suoi temi il cielo il mare il sole la sabbia — come dire l’aria l’acqua il fuoco e la terra —. C’è infatti qualcosa d’alchemico anche nella fattualità delle opere in cui l’artista sperimenta il dialogo tra materie diverse coniugando il colore pittorico ad ingredienti plastici che le consentono d’intervenire sulla superficie e suscitare spessori e sgocciolature, solchi incisi, granulose striature. Con ulteriore scatto espressivo interagiscono anche vetri trasparenti, sassi colorati e fili di rame, quasi a scandire il mobile e imprevedibile sconfinamento tra gli elementi. Ogni suo spartito sembra infatti teso a rendere gli opposti compartecipi di un unico disegno armonico e come naturale riflesso anche nella strutturazione dell’opera ricorre spesso la composizione multipla, di più parti destinate a comunicare nella loro combinazione di forma e colore nello spazio. E luce e spazio, liberi da regole di fisica scientificità, appaiono essere i numeri guida che accompagnano questo affasci-

Jean Blanchaert

La polvere

In progress

nante viaggio ricco di suggestioni figurali e astratte, luce e spazio non reinventati per una rappresentazione fantastica ma nutrimento di un equilibrio nuovo tra percezione tattile e visiva capace di attribuire all’immagine la vibrazione di un evento in progress.

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Roberta Fiorini

La spirale del gusto opere per una collezione a cura di Adalberto Borioli

4 Riccardo Pezzoli, Il rosso e il nero 2006, collage su tempera cm 26,5 x 20,5 € 450 1 Paola Scialpi, Troppo presto donna, 2006 acrilico su tela, cm 50 x 40 € 1.000 2 Giovanni Compagni, Scheggia blu, 2005 tecnica mista su tavola, cm 70 x 50 € 800

3 Camillo Franciskelli, Classico dei 3 caratteri 1999, pastello a olio su cartone cm 60 x 35 € 2.000

7 Piero Vezzi, Talblickweg, 2005, cartella di 7 litografie di cm 50 x 70, tiratura 35 es. € 1.000

5 Maria Serena Olivari, Kahvè n° 4, 2003 tecnica mista su gesso e juta,cm 90 x 70 € 2.200

6 Antimo Mascaretti, Le amiche, 1992, tecnica mista su tela cm 100 x 120 € 2.200

10 Graziella Bertante, Rinoceronte, 2005 terracotta policroma, cm 37 x 20 x 60, es. unico € 4.500

8 Lorenzo Piemonti,Cromoplastico 960,2006 rilievi, cm 40 x 40 € 2.400

9 Giorgio Vicentini, Colore crudo, 2006 tecnica mista su polifoil e tela cm 100 x 100 € 3.600

11 Salvatore Sebaste, Volo, 2003 tecnica mista, cm 70 x 50 € 1.500

12 Roberto Origgi, Un tavolo inclinato, 1995 acrilico e olio su tela, cm 90 x 130 € 2.800

1 Paola Scialpi

tel. 0832.347359 - cell. 340.4951799

2 Giovanni Compagni

tel. 0323.516045 www.gicoarte.it e-mail: [email protected]

3 Camillo Franciskelli

cell. 335.7364562 e-mail: [email protected]

4 Riccardo Pezzoli

tel. 030.311389 e-mail: [email protected]

5 Maria Serena Olivari

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6 Antimo Mascaretti

cell. 347.7118710 e-mail: antimomask @tiscali.it

7 Piero Vezzi

tel. 0571.42177 - cell. 340.9480865

8 Lorenzo Piemonti

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9 Giorgio Vicentini

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10 Graziella Bertante

tel. 0523.338409

11 Salvatore Sebaste

tel. 0835.543248 - cell. 338.9875131 www.salvatoresebaste.com e-mail: [email protected]

12 Roberto Origgi

tel. 02.55210627 - cell. 339.3753854

Per prenotare una presenza in questa rubrica contattare Antonella al 320.5735630 Inviare il materiale a Fotolito Lombarda tel. 02.70635627 e-mail: [email protected]

ENRICO MONTICELLI a cura di

Franco Tarantino

Calm Worry, 2006

Un universo cristallizzato che si autoalimenta e rivive in continuazione la sua personale, metamorfica memoria. Un istante sospeso, vivifi-

DANIEL TARONDO

Neoclassico, 2006

“Tutto ciò che è bello, è bello di per sé; ha il termine della sua bellezza dentro di sé; né annovera tra le sue parti la lode; e lodato non diventa né peggiore né migliore”. Marco Aurelio, I ricordi IV, 19 La cosa che più mi ha colpita di Daniel è la straordinaria tenacia che gli ha permesso di non farsi soffocare da quella invisibile presenza che attraversa la vita di molti artisti: di arte non si vive. L’artista è diverso, vive nel suo mondo, non ha voglia di lavorare, vive di notte, non ha regole. Qualcuno sopravvive e si rovescia l’immagine: quell’artista è superiore, ha avuto il coraggio delle proprie idee, lavora ininterrottamente anche di notte, riesce a vivere senza farsi sopraffare dalle regole. Perché l’arte, per nascere dall’anima dell’artista, ha prima subito centinaia di processi fuori e dentro di lui. Daniel ha coltivato il proprio sogno senza mai vacillare, è stato capace di far vivere la propria vocazione pienamente. Ognuno, certo, vive secondo la propria verità. Gli archetipi che segnano il giusto cammino sono di pochi, è impegnativo aguzzare la vista dell’anima per farsi consigliare.Conoscendo l’artista Daniel mi rallegro al pensiero che anche lui non sia rimasto contaminato da verità che appartengono al sistema solare di altri. Uscire dalla ruota, parafrasando i buddisti, per l’artista è questo. Daniel ha percoso a lungo quella ricca galleria capace di

ne stilistica astratta. Sfere evanescenti, bianchi quadrati e altri elementi geometrici sono entrati a far parte di questo nuovo alfabeto artistico. Singole e marcate lettere hanno iniziato a fare il loro ingresso sulle tele, simboli evidenti della necessità di dare un ordine e una classificazione a questa nuova fase.Accanto alle lettere, hanno iniziato a lasciare il proprio “segno” anche brevi frasi, a volte spezzate, a volte quasi epigrammatiche: una vera e propria irruzione del verbale all’interno di questa “sinfonia” visiva. Una svolta che, a prima vista, può apparire brusca ma che appare perfettamente naturale all’interno di questo percorso di sperimentazione, dove il significato, la dimensione del concetto, si incarna nella realtà tangibile della pittura e la geometria che permea sottilmente le opere, quasi come una levigata epidermide, diventa generatrice di un ordine ra-

cato da raffinati equilibri cromatici e formali, tensioni luminose e complesse metafore visive. La ricerca di Enrico Monticelli rievoca tutto questo e la materia pittorica sembra instaurare un contatto simbiotico e profondo con l’osservatore, assecondando armonicamente le diverse modalità stilistiche. Nella serie di opere degli anni ’90, sulla superficie delle tele prendevano vita dimensioni oniriche e claustrofobiche a volte attraversate da attori quasi incorporei, avvolti da un’aura nostalgica e apparentemente distaccata. Tuttavia nel corso degli anni, l’espressività dell’artista si è notevolmente evoluta e modificata, rivelando inediti linguaggi pittorici, con al centro la costante esigenza di equilibrio formale. I colori si sono stemperati e raffreddati e la materia cromatica si è come liberata dall’urgenza del “gesto”, lasciando il posto a una sintassi più matematica e riflessiva, quasi un “ritorno all’ordine” all’interno di quest’evoluzio-

K, 2006

Tutto nuovo niente di nuovo

attraversare il tempo; umilmente ha osservato, religiosamente. Ascoltandolo parlare mi è facile immaginarlo percorrere quella galleria luminosissima che raccoglie il frutto della vita dei molti artisti prima di lui e dove assimila il segno, la pennellata, le forme, i colori, E gli occhi, gli sguardi, i ritratti. E, sempre seguendo il pensiero di Daniel artista, all’improvviso scende il buio: l’arte diventa lo specchio di un tempo in cui è persa la leggerezza, il contatto con l’ambiente circostante, la perdita del senso del sacro, così strattamente legato al bisogno dell’uomo. E in quella virtuale galleria, lentamente, la luce si affievolisce, fino a diventare priva di colore, una raccolta capricciosa di chi vuole sminuire il gusto naturale del bello. Daniel Tarondo. Dicevamo: tutto nuovo, niente di nuovo. Ci troviamo di fronte ad una pittura legata al gesto del disegno, dove i segni di pigmento si incrociano e danno forma a volti spesso monocromatici, intensi. Rivive il segno del disegno del quattrocento ma senza essere fuori tempo. Una pittura fresca, allegra, positiva, che entra in simbiosi con l’osservatore trasmettendogli la sensazione che ogni cosa sia al proprio posto. Perché, si chiede spesso Daniel, che senso ha dividere i propri spazi con immagini che creano angoscia, tristezza, mancanza di luce?

refatto, complesso e misterioso. Occasionalmente, alla ricerca di un contatto con una dimensione più tattile e materiale, compaiono anche oggetti emersi dal flusso della vita quotidiana: brandelli di iuta e granelli di sabbia, catturati direttamente dal sottobosco saturo di concretezza dell’Arte Povera, come se fossero frammenti integrati con inaspettata eleganza in un più ampio brano musicale. Infine, le opere più recenti necessitano di un’attenta lettura per via delle nuove suggestioni di cui si carica l’intervento dell’artista. Geometrici spazi bianchi diventano, in queste ultime, il tramite espressivo di un inedito alfabeto artistico: i titoli che personalizzano i diversi lavori si ritrovano quasi come degli anagrammi o dei giochi mentali tra le pieghe della materia cromatica e delle sue innumerevoli declinazioni. Una sorta di gioco intellettuale con lo spettatore, sfidato a leggere dietro le apparenze per scoprire, a volte, proprio l’essenziale. Una possibile chiave di lettura per comprendere questa svolta può essere rintracciata nell’inaspettata osmosi tra gli echi raffinati e gli equilibri cromatici, presenti nelle opere di Burri, e un certo tipo di Concettuale, interiorizzato ed espresso da Enrico Monticelli tramite il linguaggio a lui più congegnale, quello della pittura. Un Concettuale dove la presenza di elementi verbali così autoreferenziali riporta alla mente anche alcune tracce del multiforme universo della corrente verbo-visuale, presentando affinità con artisti come, solo per restare nell’ambito italiano,Vincenzo Ferrari. Un percorso individuale, ma che sembra raccogliere in sé gli echi e il fluido patrimonio “genetico” di gran parte delle avanguardie del secolo scorso in un’originale e intima rielaborazione.

Viola Monticelli

ALEJANDRO FERNANDEZ na tra paura e amore e bisogno di attraversare sempre questa porta suprema. Parole, vibrazioni che da echi si fanno pittura. La necessità di reinventare la scrittura è per riallacciarsi ad una tradizione storica orale ormai quasi perduta, è rievocazione di un mito passato, cancellato con una sofferenza collettiva che per secoli fu lotta silenziosa ad armi impari. I numeri raffigurati sono semi gettati verso un futuro misterioso e migliore. Gli archetipi solari, o meglio di contrapposizione e compenetrazione Sole/Luna, emergono nelle scelte cromatiche: i gialli, i rossi, i blu, i bianchi.AlHorizonte marino, 2006 la ricerca rappresentativa di altre percepite dimensioni e ci invia questo ulLa porta delle stelle timo supremo messaggio: venite, guardate vi L’arte di Alejandro Fernandez assale e cattura mostro la mia anima. con un impatto che è allo stesso tempo, diaAlberto E. Cantù logo e percorso. L’essenza primaria: pensiero/parola/opera, si stabilisce in un pulsare enerSpazioBoccainGalleria getico dal “fuori” al ”dentro” e viceversa. mercoledì 10 gennaio 2007 - ore 18,30 Le sue opere, schematizzate dalla “finestra/sipario”, si fanno veicolo di condivise emozioni: fino al 23 gennaio 2007 ricevere e dare, tuttavia nella scelta quotidia-

Loredana Perrone

SpazioBoccainGalleria mercoledì 31 gennaio 2007 - ore 18,30 Angelo, 2006

Totorita, 2006

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MARCO TAMBURRO

Attesa, 2006

“…le esalazioni che ristagnano sui tetti delle metropoli, il fumo opaco che non si disperde, la cappa di miasmi che pesa sulle vie bituminose. Non le labili nebbie della memoria né l’asciutta trasparenza, ma il bruciaticcio delle vite bruciate che forma una crosta sulle città, la spugna gonfia di materia vitale che non scorre più, l’ingorgo di passato presente futuro che blocca le esistenze calcificate nell’illusione del movimento: questo trovavi al termine del viaggio”. Questo frammento di brano tratto da Le città invisibili di Italo Calvino evoca in me alcune immagini delle famose città-metropoli di Marco

ERIO CARNEVALI

te nei nostri sogni più reconditi, teatri, scacchiere e pedane da gioco che diventano tanti campi di battaglia o vie di fuga dove l’uomo mette in gioco la sua ultima carta e prova a tirare l’ultimo dado che segnerà la sua sorte. Il senso di instabilità e di ansia convulsiva che prorompe da queste tele si percepisce soprattutto dalle linee-forza dinamiche che si spezzano, si scontrano, si intersecano tra loro, segnando traiettorie labili e sfuggenti che confondono i passanti nel loro cammino, un labirinto di sensazioni e di stati d’animo che si perdono nel vuoto dell’esistenza. La propensione verso gli ampi spazi scenici che l’artista matura con l’esperienza scenografica insieme alla passione per la fotografia, assolvono un ruolo fondamentale nella realizzazione dei suoi quadri: il rapporto architettura-spazio diviene sempre più articolato e mutevole, amalgamandosi con i vortici delle pennellate dinamiche, con i segni graffianti che rendono l’opera sempre più vicina a un graffito metropolitano e con le dinamiche inquadrature prospettiche, prese dall’alto, dal basso, di sbieco, che sembrano evocare la pittura aereo-futurista. Questo costante senso di mobilità che ritroviamo nelle sue opere serve a rendere la realtà stessa del quadro effettivamente mobile, attraverso segni e pennellate labili e sfuggenti che sembrano percorrere la tela all’infinito, inarrestabilmente. Le immagini che dipinge sono spesso sgranate ed evanescenti, solcate da ombre spettrali che assumono forme diverse secondo la definizione dei contorni e dell’intensità del timbro cromatico. Il mezzo cromatico rafforza maggiormente la potenza e la sintesi

Tamburro. Le città che egli rappresenta sono l’espressione più tangibile del caos umano e del vuoto esistenziale che attanaglia l’uomo moderno, un vuoto questo che va dilatandosi sempre più e che rischia di aprire un solco sotto ai nostri piedi, per poi ingogliarci definitivamente nel buio insondabile delle sue viscere infernali. In questi dipinti la figura umana è una semplice comparsa, un’ombra, uno spettro consumato dal tempo che insegue incessantemente le traiettorie infinite della città, attraversando lunghe strisce pedonali, salendo in alto a vertiginosi e monumentali grattacieli. L’esistenza dell’uomo si riduce a un repentino passaggio sulla terra, un segno transitorio che indica il termine del suo breve viaggio, un viaggio che all’andata è sempre bello, ma al suo ritorno ci lascia a metà strada. Con la sua acuta e visionaria fantasia Marco riesce ad andare oltre alla semplice percezione del reale, riesce a trascendere questa misera e triste realtà che ci circonda, per condurci con il solo ausilio dei suoi sensi e della sua immaginazione verso un viaggio dove il varco è un orizzonte infinito aperto a tutti, dove c’è spazio per i sogni e per i desideri più arcani: prospettive traballanti, fatiscenti e avveniristici grattacieli, uomini-clown sospesi su fili instabili, volti simbolici come quello indemoniato di Jack Nicholson in Shining o quello malinconico di Charlot che entrano silenziosamen-

Die Emotion der farbe

what you see, i riverberi profondi di una poesia del luogo fondamentale: quella, per intenderci, che rastrema sapori di natura entro toni e rapporti in consonanza, che spreme trasparenze e liquidità sino a produrle in brividi emotivi: senza che ciò comporti altro che colore, colore solo. Quanto è diverso, questo scriver pittura alla prima, dai rigorismi metodologici e dagli alibi gestaltici sui quali pure s’è ritenuto di proiettare, in decenni d’equivoco, ogni esperienza di pittura senza oggetti. Quanto, soprattutto, è figlio non della messa in distanza del naturale fatto oggetto, e anzi del Raccorciamento estremo, sino al punto di confondersi, per osmosi sentimentale, dell’artista con la sua visione. Questo il punto sul quale Carnevali, sereno inflessibile, lavora per scavo metodologico, elidendo ogni traccia che lo possa far riferire a un dover essere pittorico fatto di tradizione e modalità, e invece scandendo le tappe, verrebbe da dire le giornate, di un processo lucido di identificazione del flusso emotivo con il colore, con la luce.

È una pittura che echeggia una tradizione lirica, fatta di orizzonti slontanati. Astratta, certo, ma per sintesi tesa di pulsazioni emotive in comportamenti primari: del colore, delle sue temperature, dei gesti semplificati, ma quasi intensivi, che gli danno luogo. Erio Carnevali persegue con limpida onestà intellettuale — merce rara, in questi tempi di blague visiva — un percorso che rimonta alle radici meno clamorose del moderno, quel districarsi dei fondamenti del pittorico dalla cultura di simbolo, che pure ha significato, del simbolo, ritenere e amplificare umori, e spessori, in una sorta di nudità essenziale della visione. Così, dopo la stagione fondamentale dei ripensamenti kandinskijani, primi Novanta, egli ha percorso il crinale sottile della tradizione nuova statunitense, l’hard edge soprattutto, ma come liberando, sotto l’icasticità del

Leçon de morale, 2006

ANTONIO NOIA Nella linea evolutiva del disegno nel XX secolo, certamente vi sono dei momenti particolarmente estremi e significativi. Se si prende il lavoro di Duchamp Con la lingua nella mia bocca si vede come l’artista abbia saputo accostare la scultura con il disegno, in altre parole due fasi (preliminare e finale) della stessa operazione artistica. L’opera assume così un valore concettuale perché fa riflettere su se stessa. Ma questo comporta anche una riflessione sull’arte in generale e sul suo modo di procedere. E certamente ci vogliono artisti sensibili e intelligenti per fare que-

Spazialità definita quanto indefinibile, 2006

Le città Invisibili

Terre comuni sto, perché non bisogna rinunciare né al lavoro artistico, quindi alle sue ineccepibili caratteristiche formali, né al mettere a nudo processi di pensiero e d’esecuzione che spesso restano in secondo piano, cioè presupposti in quella sintesi che semioticamente si chiama extratestuale. Credo che i recenti lavori di Antonio Noia abbiano la caratteristica illuminante d’essere figli della mano e del pensiero concettuale. Un artista così polimorfo, nel senso autenticamente freudiano, ha raggiunto esiti importanti in una serie di lavori in cui tra fotografia e disegno si determina un’osmosi perfetta. Quello che accade è che la ricerca fotografica per lo più diretta verso paesaggi con caratteristiche indeterminate, venga coniugata con la precisione e la grafia del disegno a grafite.Tra i due mezzi si determina un equilibrio di tensione e pertanto portatore di piacere e novità. La fusione non distribuisce il lavoro in una media uniforme, piuttosto crea dei campi di forza reciprocamente coesi. Antonio Noia con sapienza e precisione sa giocare su più fronti percettivi. Dall’inserimento del disegno tra due fotografie ad una giustapposizione diretta in forma di dittico, per esempio, le sue possibilità

Confine, 2006

espressive sono molteplici. In questo modo la manualità diventa non solo il contrappunto della meccanica fotografica, ma se ne appropria in quanto progettualità. L’indecisione del fruitore, quell’ambiguità alla base del “piacere del teso” per dirla con Roland Barthes, consiste non sapere mai quale dei due mezzi sia prioritario, almeno dal punto di vista temporale. Foto o disegno? In un certo senso il problema è pseudologico, però porlo può servire a dipanare la lettura dell’opera. Il disegno completa, reintegra, quasi in una forma di restauro, l’opera fotografica o piuttosto l’opera fotografica risulta la realizzazione di quanto è visibilmente disegnato? La questione si pone perché è l’artista stesso a lasciare un magico alone di ambiguità. E del resto non potrebbe essere diversamente in una prospettiva coscientemente concettuale, perché non esiste nessun lavoro che si spieghi da solo. Piuttosto risulta evidente

comunicativa delle immagini, attraverso una varietà di passaggi e sfumature tonali di bianco e nero, interrotte spesso da violenti squarci di rosso. A dare ancora più forza al senso di finzione scenica e alla ripetitività delle cose che si manifestano all’uomo, negli ultimi lavori l’artista mette in scena semplici oggetti, scelti e decontestualizzati secondo un criterio di ripetitività multipla:puzzle,dadi, orologi, biglie, semafori, obbiettivi, niente altro che un pretesto per rafforzare il valore dell’immagine stessa,per avvalorare l’esistenza materiale che li connota. Come un regista, Tamburro si diverte ad assemblare i suoi pez- Particolare zi e le sue pedine dietro alle quinte sceniche di quel “teatro della vita” che per lui non è altro che la rappresentazione simbolica di un’umanità trasformata in tristi burattini manipolati da un congegno infinito di fili, tra i quali si rivede impotente anche lui.

Barbara Tamburro

Il segreto, 2006

Identificazione senza premesse, o aggettivi, o regole. Identificazione definitiva, nitida, sonante. Pittura che dice se stessa, e forse ancora un mondo. Flaminio Gualdoni come la padronanza perfetta dei linguaggi da parte di Noia, costituisca la base della riuscita di questi lavori. La tecnica è tutto, anche la casualità va aiutata, e questo proprio il su citato Duchamp lo aveva ben insegnato. Così questi fotodisegni oppure opere grafiche fotografiche riescono soprattutto non solo a convincere sulla chiarezza intellettuale dell’operazione, ma anche a risultare un fattore di novità da tenere in considerazione. L’effetto estetico è indubbio perché tra il bianco e nero della grafite e i toni alti delle fotografie, si crea una sospensione poetica veramente notevole. L’effetto di sorpresa, lo ripeto caratterizzato soprattutto dalla qualità dei lavori, probabilmente consiste nel cogliere impreparata l’immaginazione dello spettatore e nel lasciare un effetto di positivo straniamento. […] Valerio Dehò

Spazio memoria, 2006

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Sul filo dell’arte a cura di Stefano Soddu

GEOGRAFIA EMOZIONALE GEOGRAFIA EMOZIONALE ED APPUNTI DI VIAGGIO Quali e quante sono per te le motivazioni del viaggiare? Le ragioni sono, evidentemente le più varie e talvolta singolari. Si viaggia per vedere, si viaggia per comprare o per vendere, si viaggia per evadere, per fingere di smarrirsi, per occupare il tempo. Si viaggia per conoscere, per arricchire il proprio bagaglio culturale, per imparare le lingue estere e, talvolta, anche per pensare e fare arte. Immagino che quest’ultima sia la tua motivazione prevalente L’esperienza del viaggiare ha sempre stimolato la mia immaginazione oltre il visto, fino al punto di condurmi ad identificare il viaggio con gli “appunti di viaggio”, che arrivano dopo. Gli appunti di viaggio sono un risultato concreto, spontaneo ma non scontato. Nel senso che durante lo svolgersi del viaggio non so mai cosa mi resterà dentro di questo avvenimento dell’avventura che sto vivendo. Le visioni, le immagini richiedono tempo per sedimentare, per decantare. Solo dopo, talvolta molto tempo dopo, riaffiora l’urgenza di fermare una sensazione un’emozione che dallo spazio geografico attraversato durante il viaggio trae motivo ma che si è disegnata col tempo. Quale rapporto c’è tra il viaggiare e il tuo fare arte? Succede che le immagini archiviate nella memoria dopo un lungo percorso, durante il quale si contaminano con altre suggestioni, si rivelano ma non sono più le visioni del pae-

Stefano Soddu intervista Lucio Perna

prire le proprie geografie”. Il viaggiare è “KINEMA”, che in greco significa movimento ed emozione, da cui deriva la parola italiana “CINEMA”. La Bruno sostiene, e io condivido, che i concetti di “vedere e viaggiare“ siano inseparabili e lo dimostra attraverso un sistema evocativo di parole ed immagini, ad esempio: motion (movimento) ed emotion (emozione). Muovendosi attraverso lo spazio geografico si raccolgono un’infinita sequenza di visioni che si sovrappongono, si intrecciano con percezioni captate attraverso altri sensi: il tatto, l’olfatto, l’udito. La mescolanza senza un criterio prestabilito, ma solo casuale e spontanea, genera sensazioni ed emozioni che il cervello registra prontamente, incamera per poi filtrare e riproporre attraverso il ricordo. E il ricordo, per una serie di combinazioni chimiche e fisiche, ripropone il viaggio ma da fermi e recupera: visioni, sensazioni ed emozioni da cui emergono non più le immagini originarie ma quelle nuove costruite e mixate dalle soggettive pulsioni. Accade che le immagini incamerate si distorcano, si deformino o che un particolare prevarichino tutto il resto e rimangano motivo centrale e dominante del ricordo. Queste visioni alterate, modificate generano i miei “appunti di viaggio” che io chiamo “miraggi”. Una realtà a sé che in effetti non esiste ma che proviene ed è costruita dalla precisa visione di luoghi geografici e di ciò di cui questi luoghi-spazio sono composti (colori, odori, sapori, rumori-suoni, atmosfere soprattutto). Con i miei appunti tento di fermare queste visioni e ricreare, suggestiva-

Lucio Perna

individuare e conquistare. Come? Attraverso un percorso lento di riflessione e meditazione. Attraverso un più attento e metodico dialogo con noi stessi. Che poi vuol dire anche scoprirsi, conoscersi meglio e forse anche volersi più bene.Ti parlo della scoperta e del grande valore, anche terapeutico, del silenzio, del grande valore dello spazio vuoto, della capacità di vivere il poco o tanto tempo libero come dimensione della quale disporre in modo più proficuo. Con ritmi totalmente diversi da quelli della consuetudine di noi occidentali. E guarda che non ti sto dicendo nulla di nuovo o di inedito. Questi concetti sono già delle filosofie “new age”. Il titolo che dai ai tuoi lavori è quasi sempre lo stesso: “miraggio”. Mi spieghi perché? Tutti noi, quando pensiamo, pensiamo solo per immagini, quelle incamerate e archiviate che sotto lo stimolo del ricordo riaffiorano,

inconsapevolmente modificate e ci forniscono una rappresentazione molto personale, dove ciò che prevale è sempre il particolare sensazionale. Fra le sequenze di immagini di cui disponiamo il ricordo seleziona sempre quelle per noi più sensazionali, quelle più vicine al nostro “KINEMA”. Il “miraggio” è dunque il risultato di questo percorso. Ma allo stesso tempo è la rappresentazione emozionale di personali esperienze, di viaggi attraverso luoghi non solo fisici ma anche e forse soprattutto, interiori. Ogni opera che realizzo è sempre frutto di un pensiero che ho il bisogno di comunicare e che si crea sempre attraverso lo stesso percorso. Ecco dunque perchè quasi sempre lo stesso titolo. Miraggio come visione, molto soggettiva, di un mondo visto “dal lato della vita” come ricorda Vichi Vendola commentando i propri versi e che per primo, in Italia, ha parlato di “geografia emozionale”.

Emma Vitti

saggio osservato, ma altro. Un qualcosa oltre il visto. Non solo ricordo per immagini ma ricordo emozionale, ricordo quasi visionario. Ricordo di un “viaggio sentimentale” che si è evoluto attraverso un percorso interiore. Ed il viaggio talvolta ricomincia senza fisico spostamento, da fermo. Un viaggio di rincorse, di sensazioni già vissute che si confondono con armonie nuove in un giro stravagante di visioni nelle quali luoghi, volti, personaggi, rumori, odori, oggetti si ricreano suggestivamente in percorsi non più reali, in geografie solo soggettive. È questo il tuo concetto di “GEOGRAFIA EMOZIONALE” ? Giuliana Bruno, che di viaggio sentimentale parla nel suo “Atlas of emotion”, ricorda una frase di Walter Benjamin “si viaggia per sco-

mente, certe atmosfere. Per capire meglio, puoi parlarmi di esperienze o di luoghi da cui hai tratto”appunti di viaggio”? Per anni ho viaggiato lungo i paesi sahariani, dall’Egitto al Marocco, dalla Mauritania all’Algeria. Per anni il deserto ha alimentato e ancora alimenta la mia voglia descrittiva. E dal momento che amo dipingere la mia descrizione avviene attraverso la pittura. Ciò che prepotentemente emerge dai viaggi nel deserto e che compone, se vuoi, il fattore estetico dei miei lavori, è il senso e la scoperta di nuove ricchezze. Quelle, per intenderci, che non hanno una quotazione di mercato e che non si possono comprare. Quelle che, paradossalmente e potenzialmente, tutti saremmo in grado di possedere se capaci di

Enrico Cattaneo, paesaggio

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CLAUDIO BUSO

Cronogramma n. 1: De curru mali, 2006

Mi avevano sempre parlato di Claudio Buso (Padova 1955) come di un artista rappresentante di una certa Pop Art italiana, desideroso di iconizzare città e luoghi, a denunciarne quasi un’assuefazione consumistica. Quando ebbi occasione di vederne un’opera cominciai a dubitare della mia stessa capacità critica, mi accorsi che nulla era più distante da una sensibilità Pop di quella composta e luminosa Piazza Cordusio di Milano, crocevia simbolico di uno stile di vita, miracolo futurista che si arresta e diventa sogno rubato alla velocità, permeato della stessa velata e malinconica dolcezza di una cartolina ricordo. La Pop Art nasce in America negli anni Cinquanta opponendosi al dominio dell’Arte Astratta e sostenendo un’autentica liturgia celebrativa di immagini e oggetti della realtà quotidiana, accreditandone il ruolo di mito, feticcio da elevare agli altari dell’Arte cancellando il confine tra Arte e vita. Questa rivalutazione dell’oggetto è un tentativo limite di esaltare la materialità, quasi a farne un laico culto di sopravvivenza, un prezioso quanto vistoso viatico di salvezza alla consapevole disgregazione di un mondo artificiale e inconsistente. Andy Warhol ha stigmatizzato questa angoscia attraverso una ripetitiva sequenza di opere che appaiono testimonianze di un’epoca, affrancate da qualsiasi apparente interpretazione ideologica, pura “segnaletica” di vita: non

si può comunque non leggervi un preciso messaggio di omologazione, appartenenza ad una società che fa dell’equazione Arte = Vita un ossessivo istinto di protagonismo, di cieca fede nei principi di un ostentato consumismo, vistosa asserzione di presenza. Così lattine di Coca Cola e di zuppe Campbell, automobili e oggetti di massa assurgono a propaganda di un sistema di vita, fabbrica (Factory) di una felicità fragile e illusoria : gli stessi successivi ritratti di personaggi famosi sembrano trasformarsi in fotografie formato tessera scattate in diverse condizioni di luce, ma segnate dalla stessa allucinata, algida assenza di emozioni, assorti replicanti del vuoto. In Italia la Pop Art ha annoverato esponenti di più esplicita e tormentata ironia: dalla caotica e convulsa simbologia del grande Schifano, nutrita di insaziabile curiosità e avidità di bruciare emozioni, allo sconcertante visionismo capitalistico e capitolino del tragico Franco Angeli. La Pop Art era già degenerata in denuncia di autodistruzione e si avviava a rifugiarsi nel Realismo e nel conseguente Iperrealismo, il fascino chiassoso del consumismo rivelava tutta la sua inconsistenza e il boom economico segnava la stessa flessione del ripensamento ideologico post ses-

Cronogramma n. 31: De curru mali, 2006

BRUNO CERBONI BAJARDI

Ritratto di vecchio, 2006

Seguire il percorso degli studi di Bruno Cerboni Bajardi sul ritratto non significa trovare il grimaldello che apra ad una lettura

santottino: ancora una volta il Realismo italiano aveva tuttavia connotazioni diverse da quello americano. Mentre gli statunitensi Richard Estes e Don Eddy esibiscono una studiata maestria nel costruire una spiazzante tensione spaziale nei riflessi di vetrine e carrozzerie di automobili, cancellando la presenza umana, quasi imprigionando ogni emozione al di fuori di una raggelante oggettività, i Realisti italiani affrontano altri orizzonti: Gianfranco Ferroni proietta scenari urbani già esistenzialmente deformati, Banchieri disegna periferie dove l’uomo è un semplice manichino di passaggio. Il successivo Iperrealismo (nome coniato dopo la VII Biennale di Parigi nel 1971) sembra voler riqualificare, quasi con un ingannevole “ritorno all’ordine”, questo progetto di progressiva alienazione, recuperando le immagini nitide di una realtà di cui siamo disorientati spettatori, ormai rinsaviti dall’ubriacatura della stagione Pop, consapevoli di un negato protagonismo, di un fluire della vita fine a sé stessa, come il caricatore di un proiettore di diapositive. Ecco allora che l’Iperrealismo vuole addirittura superare la realtà, mettendone a fuoco, fotograficamente, dettagli ancor più inconsueti, ma non per drogarci di miti consumistici, quanto per renderci coscienti dell’umana capacità di indagine, riconoscerci almeno nel ruolo di estasiati narratori di una favola lucida e ambigua. È proprio la riproduzione fotografica a fornirci particolari irrilevanti su cui generalmente non ci soffermiamo ad alimentare una curiosità istintiva che il vivere quotidiano soffoca, svelandoci impensabili capolavori di perfezione: non più dunque esaltazione di idoli pubblicitari, ma sguardo stupito di chi ogni giorno si apre alla vita, di chi ne custodisce ogni istante co-

L’iper...marcato

Il ritratto? Un giallo napoletano

facile, universale e semplificata; piuttosto è percorrere una strada sulla quale sono disseminate sparse parti di un progetto che si compone passo a passo in un’unità di ampio respiro fatta di elementi moventesi su livelli diversi accanto ad altri che invece si coagulano attorno a nuclei che possiamo tentare di pescare entro le trame di una rete. Da una parte vi sono i pretesti, le occasioni; dall’altra i contesti, la materia pittorica che organizza un motivo di riflessione. Sarebbe perciò illusorio assegnare ai suoi lavori una potestà esemplare e additarli come sintesi del lavoro di un artista. Non è altrettanto ingannevole cercare tra questi frammenti un’unità tematica; meno illusorio (prendendo a prestito ad uso di metafora il titolo di un’opera di un maestro quale fu Alberto Giacometti, cui Bruno spesso fa riferimento come esempio di reductio e pulizia) cercare tra le righe l’oggetto invisibile, quel minimo comune denominatore che può contribuire a vivificare un dibattito sul ritratto, genere che secondo Bruno ha ancora molto da dire. Il Rinascimento italiano, cui pure, controcorrente, nel secolo scorso faceva riferimento Pietro Annigoni, rinnovò il genere con l’apporto di nuovi contenuti vivificati dal ricorso ad un apparato tecnico di forte matrice artigianale che però non rinunciava mai al rapporto diretto col soggetto. A questo punto il lettore potrebbe smar-

Sans Georges, 1999

rirsi e chiedersi: dove trovare quell’oggetto quando ironicamente proprio il titolo del Sans Georges (1999) ci avvisa dell’assenza del soggetto? Dove, sempre quel sottinteso, spicca nell’apparente sotto tono de Il barone rampante (1998) o nel Ritratto di vecchio (2001)? Per capirne di più, invece di inseguire il soggetto, dovremmo cercare la materia oggetto del ritratto e quindi percorrere a ritroso il tempo per scoprire quanto degli antichi maestri sia voce viva in Bruno e quanto sia importante il lavoro di imprimitura che per lui è “temperatura, atmosfera, aria che ruota in tutti gli angoli, rimbalza in tutto il quadro e diventa pensiero, silenzio che ordisce le occasioni. La tonalità dominante è funzionale ad un respiro più ampio”. […]

Roberto Peruzzi

Cronogramma n. 23: De signo medio, 2006

me prezioso incantesimo. È questo che comunicano le opere di Buso, il traguardo di una nuova luce, l’emozione di una “prima visione”: i soggetti e gli scenari prendono forma da immagini fotografiche scattate in precedenza e accuratamente selezionate secondo un criterio di protagonismo emotivo, quasi a impressionare un’altra pellicola, quella del ricordo, ottenendo un magico effetto evocativo e associativo. Nasce così il soggetto dei taxi gialli, i mitici yellow cabs simbolo di New York, bagliori luminescenti di una metropoli che ne fa elemento connotativo del suo dna: ancora un preciso profilo e impianto architettonico contraddistingue le Piazze di Bologna, Bergamo e Milano, ciascuna con la propria luce, non quella piatta e metafisica delle Piazze d’Italia di De Chirico, tutte sospese nello stesso scultoreo silenzio, ma un taglio luminoso che apre la ferita della memoria, scolpendo un’inquadratura indelebile che sintetizza spazio e colori. E qui veniamo ad un altro carattere distintivo delle opere di Buso, la consuetudine, che si rivela intima esigenza, di identificare univocamente, quasi con un moderno codice a barre, ciascun soggetto, rivendicandone i natali e le peculiarità. Ogni opera è vissuta come la nascita di una nuova creatura, attimo da catalogare e registrare attribuendogli un “codice vitale”, del tutto analogo a quello fiscale, ricavato da un algoritmo che tiene conto del luogo, del soggetto ritratto e dell’ora: questa caratteristica, che può apparire fredda archiviazione, è in effetti desiderio di assorbire ogni singolo istante di vita, rendendone inalienabile l’esperienza. Si può sintetizzare come una “ipermarcatura” messa ad arte in rilievo, che richiama volutamente la funzione dell’opera, non un barocco iperrealismo, ma l’esplicito invito a decifrare il ripensamento della visione oggettiva, la tranquillante certezza di non clonabilità e di irripetibile emozione. Buso si pone dunque come otturatore di un processo fotografico che filtra ogni virtuosismo puramente estetizzante per concentrarsi sul contenuto di un messaggio, su quella purezza di immagini e colori che ci insegna a percepire come un‘autentica firma di Dio.Vengono alla mente le parole semplici, ma coinvolgenti di quella stupenda canzone dei Beatles che ci invitava a bordo di un sommergibile giallo (Yellow submarine), alla ricerca di una bellezza e di un contatto umano che ritroviamo riflessi sulle lucide superfici dei taxi di Buso.

Aldo Benedetti

Cronogramma n. 28: De tabula media, 2006

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BEPPE BOLCHI

Città senza tempo è un progetto di Beppe Bolchi che affronta il tema del paesaggio urbano con l’apparecchio a foro stenopeico. Il risultato che se ne ottiene sono immagini che uniscono, alla fissità dei luoghi e delle architetture, la traccia del passaggio delle persone, quindi la percezione della loro presenza, ma non la loro figura. La città rappresentata in questo modo restituisce la valenza di case, edifici, arredi, quasi fini a se stessi, pur se disegnati e realizzati in funzione dell’uomo. Una rivincita che l’antica tecnica del foro stenopeico, con i suoi lunghi tempi di posa, con le sue visioni pensate e non rubate, fa in modo che sia la città stessa a entrare nell’immagine, a specchiarsi, ad aprirsi e rappresentarsi nella sua realtà, semplice o complessa, piacevole o meno bella, con prospettive assolutamente naturali, non falsate da obiettivi che vogliono codificare, stringere, allargare e quindi, in qualche modo, falsificare i luoghi stessi. Gli abitanti, le persone, gli animali, sono solo fantasmi, tracce di un passaggio che c’è oggi e che c’era ieri e ci auguriamo ci sarà domani. Quello che viene impressionato stabilmente sulla pellicola sono invece le strutture che l’uomo ha costruito e che l’uomo può sì distruggere, ma che normalmente gli sopravvivono, testimoni di vite presenti e passate, contenitori di esistenze, di passioni, di dolori, di entusiasmi che via via si dissolvono lasciando il posto ai ricordi e alla storia. La città rimane in silenzio, ascolta, avvolge, protegge, a volte schiaccia e stritola chi non riesce ad adeguarsi ai ritmi imposti dai suoi simili, non certo da mura e cancelli erti per proteggere e con-

LEO-NILDE CARABBA

Città senza tempo servare. La fotografia a foro stenopeico, pur non restituendo i minimi dettagli consentiti dagli obiettivi sempre più tecnologici, riesce nell’intento di rendere l’atmosfera, unitamente a una assoluta leggibilità dei luoghi; una visione quasi onirica, ma comunque reale, così come tutti i lavori dell’Autore, che pur scatenando approcci creativi diversificati, riesce sempre a rendere efficacemente la realtà, offrendo nuovi spunti di visione e di analisi. Il percorso di questo progetto si snoda attraverso paesi e città diversi fra loro, accomunati, però, dalla notazione autobiografica dell’autore. Infatti si tratta di un viaggio a ritroso nel tempo, rivisitando tutti i luoghi più cari o che in qualche modo hanno segnato la sua vita. Luoghi in cui ha trascorso momenti o anni, però tutti significativi del percorso stesso della sua esperienza, dei successi, delle difficoltà, delle sfide. Un tragitto che non è ancora terminato e quindi in qualche modo un work-in-progress, seppur celebrativo dei cinquanta anni trascorsi a stretto contatto con la Fotografia, dalla prima Bencini agli attuali apparecchi digitali. Italia, Germania, Inghilterra, Stati Uniti, Francia, Scozia, un viaggio nel mondo Occidentale pilotato dalle esperienze familiari e professionali che sono sempre diventate anche esperienze di vita.[…] La morbidezza delle immagini dovuta alla tecnica di ripresa, ben si presta a rappresentare la memoria; l’assenza del colore, pur nelle pastose tonalità dei grigi, restituisce questi ricordi senza altre emozioni, fermando il tempo e, allo stesso momento, rappresentandolo pienamente con le lunghe pose necessarie per impressionare propriamente la pellicola.[…]

Polittico DAU, lampada wood, 2006

,lL’aria, l’acqua, la terra, il fuoco, al di là della indubbia scelta assunziale, sono protagonisti istintuali delle opere di LeoNilde Carabba, potenze vitali allo stato puro che hanno trovato nelle sue opere una possibilità d’espressione e di coagulo fino a dare corpo a un’immaterilità energetica vestita di colore. La pittura è una passione intensa che danna ed esalta la vita, Carabba vi si immerge come in una catarsi da teatro tragico greco ed esprime potenzialità cosmiche in sequenze pittoriche che avvolgono e travolgono. Il fruitore tende a scomparire magicamente nel buio della sala, a essere sommerso da visioni notturne attraversate da impercettibili luci gialloidi che rimangono intrise negli occhi e che restituiscono una dimensione quasi extrasensoriale. Cercare di scoprire quali formule utilizza è difficile saperlo, è come un magma che non co-

nosce leggi ed imbrigliamenti, ma traduce materialmente dei componimenti astrali per i quali è interprete e segreta traduttrice di linguaggi a noi sconosciuti. Le soluzioni composte non accompagnano solo la matematica ma l’esistenza. I colori sono gialli accesi, verdi, rossi, arancioni, e il blu notte, materializzati con le polveri del sole. Possiamo immaginare queste opere collocate nell’immenso Oriente immerso nel fiume di colori degli abiti delle donne che si adagiano e s’intingono nel Sacro Fiume. L’Occidente è assorbito, trasformato, spianato dai ricordi di un’America lontana, lasciata negli anni Ottanta, oltre l’Oceano e con l’orizzonte ormai in chiaroscuro. Le donne lasciano spesso i loro difficili riconoscimenti e intraprendono viaggi per ricominciare da un a capo senza limiti e senza storie che si portano in valigie lasciate alla stazione. È questo che le arricchisce, saper lasciare la materialità delle cose, a volte il tutto, per ricostruire altrove. Le opere di Carabba trasportano lo spettatore in compensazioni siderali dove il passaggio metacomunicativo è senza peso corporeo. La proiezione prospettica travalica le leggi degli spazi considerati e ingarbuglia la lucidità dei luoghi architettonici in fibre luminose. C’è un ordine nascosto nella successione delle tessere che gravitano attorno al grande centro motore, punto di partenza e arrivo, dove i segni sono ribellamente liberi nel rigore di una composizione decisamente progettata.

Donatella Airoldi

Teresio Nocent

ELIO MAZZELLA L’universo pittorico si ammanta di continui risvolti emotivi e nell’arte contemporanea captiamo immagini che sono il risultato di un percorso intrinseco che l’artista ha operato su se stesso. Dall’inconscio emergono mondi incontaminati che vivono nel cosmo dei ricordi o della fantasia e con abilità divengono riflessi pittorici,pronti a risvegliare l’io bambino,dormiente dentro ogni anima. L’arte ha la capacità di far affiorare sommerse immaginazioni che si materializzano, divenendo immagini cariche di vitalità, provenienti da una realtà misteriosa: quella intrinseca dell’anima. Assistiamo al travaglio, sulla superficie, di un colore, a volte solo appena accennato, che si armonizza con la materia plasmabile e a rilievo della malta a cemento. Il concretarsi di forme che emergono dalla lunga preparazione stratificata di cemento e che ora il sapiente dosaggio dell’arte del levare, di michelangiolesca memoria, ha reso oggettive, sono figlie della pitto-scultura. Non un semplice dipinto che col gioco chiaroscurale rende tridimensionale la composizione, né un rilievo scultoreo… «c’è ancora un confine tra le due arti?», si chiede Argan; bensì un creare contemporaneo e istantaneo di malta e colore. Elementi scanditi in uno spazio dinamico che si aggrovigliano e si stendono con l’ausilio di strumenti dentati,quasi distillati in percorsi visivi che conducono lungo le scie dell’orizzonte. È questa l’operazione che conduce nelle sue opere Elio Mazzella, vivendo la sintesi di un’idea elaborata mentalmente e solo ora concepita senza precognizione. L’esecuzione non è altro che intellettualmente ed emotivamente dipendente dai gesti e dai movimenti delle figure quando si esteriorizzano. Le sue immagini parlano ‘dei riti di passaggio’subiti nello stadio della traccia graffiata sulla superficie; impronta compiuta con armonia e leggerezza, nonostante la pesantezza della materia cementizia. Gli anni ’70 sono per Mazzella il formidabile «recupero della poetica del muro, tanto diffusa nel periodo d’oro dell’informale»; timbro tecnico e stilistico che non abbandonerà mai, facendone un suo preciso tratto distintivo incomparabile. Nell’ambito dei nuovi percorsi di pitto-scultura l’artista

Milano, 2006

Le Segrete di Bocca via molino delle armi 5/3 20132 milano La Libreria Bocca in collaborazione con la Galleria Poleschi di Milano hanno il piacere di invitarla alla personale di

Aldo Mondino in esposizione opere dal 2000 al 2004

giovedì 22 marzo 2007 ore 18,30 dal 23 marzo al 20 aprile 2007

visite per appuntamento telefonico Lunedì-Venerdì info: 338 2966557 - 333 2869128 - 02 86462321 - 02 860806

Tra Oriente e Occidente

nuovi percorsi di Pittoscultura

elabora un antro di sole napoletano a Milano in via Canonica al 41 dove il geometrismo delle scacchiere irregolari, i mondi geografici e le figure antropomorfe stilizzate e alterate prefigurano esiti futuristi e aeropittorici. In Elio Mazzella, infine, quei miscugli fluorescenti per elaborazioni scalfite nel cemento che ora ha abbandonato il suo grigiore di fondo, raggiungono abbaglianti dimensioni cromatiche, vivide e fulgide. È qui che in nuce si prefigurano nuove atmosfere, le stesse che nell’immediato futuro, prima ancora che l’opera sia finita e un’altra venga abbozzata, scandiscono, nelle sperimentazioni di Mazzella, un’armonica dimensione tridimensionale delle arti sorelle, le medesime vagliate da Benedetto Varchi nel Rinascimento. Architettura pittura e scultura in Mazzella valicano i sentimenti del reale per raggiungere nuovi equilibri di pitto-scultura. Dal catalogo della mostra Nuovi percorsi di pitto-scultura Milano, via Canonica, 41

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Antonio D’Amico

IL TEATRO PITTORICO DI GORSENIO Achille Bonito Oliva* … Giancarlo Gorsenio opera mediante gli strumenti della pittura, impiegati come modi di rappresentazione di immagini interiori che trovano nello spazio visivo la loro capacità di apparizione. … Lo spazio si apre duttilmente per accogliere il sistema di segni che si organizzano e si definiscono sincronicamente col proprio supporto, con un impatto diretto, senza più alcuna gerarchia, senza direttive precostituite. Su questa zona fluida Gorsenio propone una griglia segnica di forme organiche, aperte e direttamente collegate con le pulsioni elementari della vita sensoriale. … Gorsenio produce immagini che volta per volta seguono forme diverse, si aprono e si chiudono su strutture formali differenziate. Quello che hanno di persistente è semmai l’ambigua capacità di comprendere dentro il loro alveo una pluralità di rimandi e di rinvii, tracce di un sentire complesso e articolato. Una sorta di panteismo guida la formazione e la crescita di queste immagini, un senso laico della vita che trova in ogni microcosmo la prova del divenire e della trasformazione della vita. Un senso che si sviluppa sotto la pelle della materia e che trova poi la sua affermazione nel suo affiorare nella forma. … In definitiva le opere pittoriche di Gorsenio sono il diagramma di una condizione esistenziale che trova nel linguaggio dell’arte e dell’immagine in particolare la possibilità di parlare, di esprimere una tensione che altrimenti non troverebbe parole possibili. * tratto dal testo di Achille Bonito Oliva, In Gorsenio la natura diventa teatro di una rappresentazione particolre

G. Gorsenio, Lisippo, olio su tela, 1982

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WONDERFUL

Arlette Vermeiren

Wonderful* o della “meraviglia”. Una mostra internazionale promossa dal Gruppo 78 di Trieste, incentrata sul recupero di una bellezza accantonata, che enfatizza la visibilità dell’arte, il suo concreto disvelamento, al contrario di concettuali minimalismi in voga non tanto tempo fa. Rinnovo di un vestimento suntuoso e spericolati incroci linguistici; un debordare nella forma come nei contenuti. L’opera H2O di Robert Gkligorov, ad esempio,

MARC FERROUD

sembra sfidare il creato, sovvertendo paradossalmente l’ordine che lo governa, utilizzando in diretta la natura – pesci, uccelli – al posto dei media convenzionali. Una sorta di neo-barocco, già evocato vent’anni fa da illustri studiosi, come Omar Calabrese e Gillo Dorfles, un barocco aggiornato all’era tecnologica, che non si esaurisce nello splendore del decoro ma investe le ardue tematiche del nostro tempo. Undici artisti tra la magia di una Serra ottocentesca convertita a spazio espositivo nella triestina Villa Revoltella e la galleria LipanjePuntin; tra l’arte tout court e i percorsi della moda — è presente anche Roberto Cappucci con i sui abiti/scultura — perché i crinali tra i due versanti sono spesso oltrepassati in una reciproca proficua invasività. Gli altri artisti a proporre svariate “meraviglie” sono Alessandro Amaducci, Giuliana Balbi, Lore Bert, Lucia Flego, Robert Longo, Anna Pontel, Amparo Sard, Carole Solvay, Arlette Vermeiren. Il catalogo si arricchisce dei contributi critici di Luciano Panella e di Paola Goretti, oltre a quello introduttivo della curatrice:

Fili di ferro sospesi, costruzioni in equilibrio nell’aria, disegni scolpiti che si auto-generano: questo è il linguaggio delle sculture dell’artista francese Marc Ferroud. Nato a Parigi nel 1954, Ferroud ha alle spalle una formazione non solo poetica e letteraria, ma anche informatica e scientifica che insieme si ritrovano e sono sintetizzate nelle sue sculture aeree. Con una scrittura tutta personale, questo artista lavora il filo di ferro galvanizzato creando delle architetture che si muovono nell’aria in un incontro fra leggerezza e complessità. La leggerezza quasi spirituale delle forme flessuose che possono arrivare fino a tre metri di altezza e la complessità matematica degli equilibri plastici che le sostengono e le reggono, ma non impediscono loro di muoversi. Un gioco, senza contraddizioni, fra il rigore della razionalità cartesiana e scientifica da un lato e il fluttuare dell’emotività e dell’interiorità dall’altro. L’universo che Ferroud mette in scena attraverso le sue opere è abitato, come dice Alain Jouffroy nel libro Ferroud - L’invention de Marc Ferroud,“da un uomo che, nonostante tutto, preferi-

Maria Campitelli * Catalogo della mostra omonima svolta a Trieste alla Serra di Villa Revoltella e alla Galleria LipanjePuntin

sce il rischio alla sicurezza che presiede alla applicazione delle leggi”. Deve essere sulla base di questa convinzione che, dopo anni passati ad occuparsi di informatica, Ferroud ha deciso di dedicarsi interamente all’arte. Le sue sculture non hanno mai un titolo, solo la data in cui sono state create, quasi che attribuir loro un nome rischierebbe di fissarle/agganciarle ad un senso che non gli è proprio, accostarle ad un simbolo rischierebbe di ingabbiarle. I disegni scolpiti di Ferroud sono, invece, lasciati liberi di fluttuare nello spazio fisico e nell’universo di senso; sono aperti al molteplice e al diverso che caratterizza il mondo d’oggi.

CAMILLA SOLYAGUA Human Being

Australia, pesca aborigena, 2006

Aldo Pavan è un Artista al di fuori del tempo e dello spazio. Le sue opere scaturiscono da uno scatto fotografico, per poi essere da lui ripensate attraverso gli occhi della mente. Lo scatto fotografico è la scintilla iniziale, in quanto la fotografia è il mezzo espressivo prescelto per catturare le immagini. L’attimo del clic fa la differenza tra quanto è già irreparabilmente svanito un attimo prima e quanto ne potrà conseguire. Ciò presuppone una scelta. Ma l’Arte di Pavan non si esaurisce in una fo-

Alessandra de Bigontina

Il mistero delle piccole cose

Three Seahorses, 1998 Se è vero che è lo sguardo il vero mezzo artistico del fotografo e che è appunto il modo in cui vede il mondo a fare la differenza, senza dubbio Camille Solyagua è un’artista inconfondibile e originale. I soggetti delle sue opere, appartenenti al mondo degli esseri viventi — fiori, farfalle, uccelli, meduse — provengono spesso dalle sue escursioni nella natura per raccogliere materiale, che colleziona, conserva e successivamente fotografa. C’è qualcosa di antico in questo modo di procedere, che ricorda le catalogazioni di fine ‘800 , ma nelle sue opere i soggetti assumono un carattere del tutto nuovo e sorprendente.Vengono stabilite nuove connessioni tra gli esseri e l’arte percorrendo sentieri preclusi alla scienza. Così, i cavallucci marini volano davanti alla luna piena e le meduse (fotografate nell’acquario di Monterey) sono navicelle spaziali che fluttuano in un cielo stellato. Quasi tutte le fotografie di Camille Solyagua sono still life realizzati in studio. Il risultato di lunghe ore trascorse in una sorta di laboratorio studiando fiori, farfalle, insetti. Un approccio che rende evidente il fascino che — da sempre — esercita sull’artista la connessione tra arte e scienza. Seppur drasticamente divergenti nell’approccio e nel metodo, artisti e scienziati trovano infatti nella natura la fonte primaria di esplorazione e scoperta. Entrambi sono mossi dal desiderio di comprendere e rivelare i misteri della natura, ma dal lavoro di Camille Solyagua emerge il desiderio di stabilire una connessione tra le infinite forme di vita, nella ricerca di un’armonia che le opere ci restituiscono. Dal punto di vista stilistico appare evidente la vicinanza dell’artista americana alla pittura. Componendo immagini che sembrano spesso quadri più che fotografie, rivela proprio nella libera giustapposizione un gusto vicino ai surrealisti e nelle sfumature una qualità della fotografia pittorialista, seppure in una declinazione del tutto diversa e originale. E se c’era bisogno di dimostrare che il modo in cui si guarda al mondo ha il potere di cambiarne il senso, i campioni (specimen) fotografati al Museo Nazionale di Storia Naturale di Parigi sfidano il tempo e la morte. Esseri preservati nel loro ultimo istante di vita, fluttuanti in provette e isolati in scuri laboratori di cui l’artista afferma “credo che questa collezione dovrebbe essere vista da un pubblico più ampio, e spero che queste provette possano essere guardate con compassione e un sincero desiderio di comprendere cosa rappresentano, cosa che può essere diversa per ognuno di noi”. Nelle opere della Solyagua è quindi spesso la bellezza dei suoi soggetti a invitare alla riflessione. Due sono le parole che ci sono venute in mente guardando le sue bellissime opere: esplorazione e scoperta, che senza dubbio hanno segnato i primi tre anni di vita di MiCamera e che ci guideranno in questa nuova avventura. In fondo è significativo che “Il mistero delle piccole cose” segni il passaggio di MiCamera a una nuova, più grande realtà.

Anna Pontel

ALDO PAVAN

Fili sospesi

tografia. Pavan rincorre il presente in giro per il mondo. Le sue fotografie sono vive, perché evocano le stesse emozioni di chi le ha scattate. Così il figurativo assume connotazioni astratte e l’astratto diviene figura e materia. Le sue fotografie escono dal proprio confine di istante isolato e sospeso. Ciò in quanto gli occhi attivano un’esperienza che coinvolge tutti i sensi. Le sue foto appagano le nostre necessità sensoriali e ci emozionano. Il suo senso estetico ci fa sentire il caldo, il sudore sulla pelle, il gelo alle mani, le spezie e gli aromi, la fame e la sete, la musica ed il rumore, la dignità e la speranza. Riusciamo perfino ad intravedere ciò che è avvenuto prima e ad immaginare come andrà a finire. Il suo sguardo diviene una mano che cattura immagini; la sua mente filtra luce, buio, forme e colori e ci restituisce storie, miti e leggende che ci trasportano lontano. In un tempo che ancora deve venire. Così una singola immagine acquista il medesimo potere evocativo di un film. Il lavoro di Aldo Pavan si inserisce nel progetto artistico Avvenirismo 3535, che riunisce Artisti che hanno fatto della propria Vita un’Arte.

Giulia Zorzi Kenya,Watamu, 2006

Wing Study, 1998

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