Segrete Di Bocca N. 19

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20DANGELO06

Fondatore Giacomo Lodetti / Direttore Giorgio Lodetti / Direttore Artistico Roberto Plevano / Progetto Grafico Franco Colnaghi Anno V, N. 19 • Ottobre-Dicembre 2006 • Galleria Vittorio Emanuele II, 12 - 20121 Milano • Tel. 02 86462321 02 860806 fax 02 876572

materializzato la sua idea, creando un essere imbalsamato da pregiudizi avvizziti, icona “ortopedica” della rigidezza mentale, aggregato di cartilagini sorrette da una impalcatura fossilizzata, ricoperta e protetta da inconsueti drappeggi mistificatori. “Vedrà che Armodio riuscirà a sistemarla in qualche famoso studio di avvocato (suona quasi come una raccomandazione!), qualcuno che apprezzerà quel senso di autorità che riesce a infondere. Dopotutto lei non porta i segni di quella mutazione genetica che altri soggetti hanno subito, assumendo fisionomie in sintonia con l’attività che svolgono, manifestando vere e proprie nevrosi somatiche, pensi a Il re delle viti, al Ritratto d’archivista. Metaforicamente imprigionato nella sua artificiale costruzione, si rifugia tra le altre tavole, ma ecco spuntare Il libro dei consigli. “Non ce la faccio più a sopportare il mio peso, sono stracolmo di raccomandazioni inutili che cadono nel vuoto inascoltate!”. E in effetti è un enorme libro afflosciato su una mensola di marmo su cui giacciono accatastate lettere alfabetiche logorate dal tempo, frammenti di frasi e di vita troppo spesso ignorate: è un autentico miracolo di morbidezza e tristezza, consunto lenzuolo che avvolge un cadavere occultando cumuli di speranze e promesse deluse. A spezzare quella immobile atmosfera di disastro incombente intervengono due tavole delicate che sembrano farsi com-

UN’INTERVISTA ARMODIO…MIO

SI, si e si, 1998, tempera su tavola, cm 40 x 50

Era parecchio che desideravo un incontro con Armodio per approfondire quel suo carattere ludico che in realtà rappresenta l’evoluzione estrema e sofisticata del lirismo figurativo del suo ineguagliabile maestro Foppiani, rivisitazione dialettica in cui scompare la figura umana e protagonista è l’oggetto, unico ed emblematico depositario di un’umanità che ormai avvistiamo come lontani segnali di fumo che si alzano da una distesa arida, decriptando i messaggi di Armodio, scalandone irte simbologie che si ergono a paradossali monumenti alla vulnerabilità umana.

Fu così che Armodio mi ricevette nel suo studio, ma purtroppo, proprio l’inizio del nostro incontro venne interrotto da uno squillo del suo telefono cellulare: un importante critico d’arte, di grande levatura intellettuale e dai modi soavi, era appena arrivato a Piacenza e lo attendeva in stazione. Armodio si precipitò a riceverlo per poi condurlo in studio, dove mi pregò di attenderli entrambi. Così, mentre curiosavo nello studio, avverto alcune voci : incredibile ! …. dal cumulo di tavole accatastate in bell’ordine esce il Giudice nutrito dalla Giustizia. “Sono stanco di fare il burattino ispirato da una mente suprema, mosso da un filo invisibile tirato da quella mano protesa come nella Creazione di Adamo, quella Giustizia che i miei occhi stentano a vedere, come immobilizzati in questa pelle avvizzita da fossile del quaternario! …E poi la toga, il colletto, la parrucca, sembrano bende di carta che si avviluppano a confezionare una mummia! …questo ridicolo uovo sulla testa poi, sarà pure simbolo di fertilità di idee, ma mi fa tanto unicorno”. “Su, non si giudichi proprio lei troppo severamente, apprezzi la sua grazia maestosa” rispondo, ironizzando tra di me nel pensare come Armodio abbia magistralmente

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CADEL

ribaltando la prassi che utilizzava la fotografia come supporto mnemonico per la pittura, decide di ispirarsi ai capolavori per ricreare un modello fotografico di gusto raffinato, a sua volta pregno di contenuto artistico. L’opera nasce quasi per caso — racconta Cadel — dall’innamoramento per Schiele, uno dei più interessanti e originali pittori del secolo scorso. All’inizio voleva essere una sperimentazione sull’aggressiva distorsione figurativa che Egon usava per rappresentare la fisicità dei corpi e sulla frontalità dei soggetti come emergenti da un drammatico vuoto, senza rimandi di ombre o profondità prospettiche, divenuta presto una scommessa con la dolce moglie Angela a riprodurre con altri mezzi la tensione emotiva che sprigionano le opere di Schiele, sfruttando esperienza e passione maturate nel campo del ritratto glamour, del nudo, della moda e della pubblicistica. Da qui — continua Cadel — la scelta di spostare la pennellata dell’artista direttamente sul corpo dei modelli e non sulla fotografia come inizialmente immaginato, riecheggiando modi da body art che pretende di utilizzare il corpo direttamente come “materia espressiva”.Trovato un ottimo body painter nell’estroverso e paziente Guido Daniele — sono necessarie varie ore per dipingere con appositi (e costosi) colori ad acqua interi corpi — si è presentata molto più ardua la ricerca del cosiddetto casting, che doveva corrispondere ai caratteri somatici dei soggetti originali e, ancor più difficile,

Egon Schiele, prodigio irripetibile, abbandonava la sua tormentata maschera a un pallido sudario di lenzuola. Erano passati solo dieci anni dal suo precoce debutto, Nel cuore dell’albero fronzuto c’è un uccello, di colore smorto, per lui più che sufficienti per diventare un si muove a malapena e non canta; grande. Con lucidità appassionata e una migliaia di verdi si rispecchiano nei suoi occhi. tecnica inedita, amando ardentemente — Egon Schiele il terribile impulso che lo bruciava e lo torMorire a 28 anni, già celebre a un’età in cui mentava — e genialmente ritraendo non si è ancora uomini, divorato da un’e- essenziali nudità di corpi, dagli anticonforpidemia di spagnola che gli aveva strappa- mistici autoritratti ai feroci volti di neonati, to dalle braccia pochi giorni prima la dalle irriverenti prospettive erotiche alle moglie incinta, per Egon Schiele era forse gotiche posture ischeletrite, egli aveva già la conclusione di una sfida. Nello scenario patito la guerra, la messa al bando e addidell’Impero austroungarico che si sgretola- rittura il carcere, con l’accusa di diffusione va nella mattanza di una guerra mondiale di oscenità da parte degli immarcescibili (1918) e mentre la Secessione viennese benpensanti e di un giudice ipocrita, ridiorganizzava una trionfale mostra retro- colo Torquemada che bruciò platealmente spettiva con una cinquantina di sue opere, uno dei suoi intollerabili disegni! "Nessuna opera d’arte erotica è una porcheria, quand’è artisticamente rilevante. Diventa una porcheria solo tramite l’osservatore, se costui è un porco." scrive Egon nel suo amaro diario di Neulengbach. Il tempo, dopo una serie di censure, ha finalmente fatto giustizia della stupidità umana ricollocando l’opera di Schiele ai livelli più alti dell’arte. Meno di un secolo dopo Cadel (Adelmo Chiapponi), un estroso e vulcanico autore Reclining nude with yellow towel, 2005, fotografia-body painting, cm 50 x 70 di fotografie bergamasco,

Gi D’A., 1998, tempera su tavola, cm 100 x 60

Self-portrait, 2005, fotografia-body painting, cm 70 x 50

scovare e soprattutto convincere i maschi(!) a farsi dipingere ignudi ed a lasciarsi fotografare. Le modelle, più professionali e disinibite, venivano più agevolmente selezionate tramite agenzie specializzate. Se tuttavia le modelle non avevano remore a denudarsi per farsi pazientemente colorare e poi riprendere, un problema era

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Notturno, 1979, tempera su tavola, cm 100 x 70

è visibile un labirinto (quello di Ariannna appunto) di carta il cui filo trattiene il coperchio; l’illusoria immagine di dolcezza e di scherzosa ironia viene sopraffatta , come accade in tutte le opere del Nostro, dal pensiero della estrema fragilità di quell’oggetto, da quella inaspettata caduta che svela un labirinto entro cui è facile leggere l’estrema provvisorietà della vita, la tragica possibilità di scoprire un angolo di inferno anche in paradiso, di imbattersi in una imprevista, indecifrabile trama di eventi. Anche la carta con cui sono forgiati tutti gli oggetti, i libri, le caffettiere, i fiori, richiama questo motivo di manieristico gusto per la deformabilità, vana e sofferta lotta per plasmare un destino imprevedibile, desiderio di stabilità che ritroviamo nella seconda tavola Sì, sì e sì, dove due caffettiere si stringono unite da tre anelli, quasi avvinghiate a pronunciare un triplice sì di eterno matrimonio. Con un clamore d’acciaio entra in scena Gi. D’A. (Giovanna d’Arco): “Io sono la più forte, salda a terra senza pericolo di cadute accidentali o di ridicoli rovesciamenti!”. “Sento odor di bruciato!” si azzardano a mormorare sornione le altre tavole, alludendo al fatto che quegli imponenti stivali altro non sono che i miseri resti di un’eroina arsa viva, di una presenza umana ormai cancellata che ha lasciato traccia di sé in quegli oggetti, umili e muti testimoni

di una storica avventura: vi è quasi una interpretazione esoterica dell’oggetto, un lirismo evocativo che cattura l’essenza di chi li animava, magico transfer di personalità, quasi un vitale passaggio di consegne, una osmosi emotiva che ne fa un rassicurante mausoleo alla memoria. Mentre “Giovanna d’Arco” si ritira ancora una volta sconfitta dal suo ardore, appare una delicata composizione di fiori Fiori fuori; quasi con voce supplichevole accenna a un tentativo di rappacificazione: “siamo tutte creature dello stesso padre, cerchiamo di far fiorire un senso di fratellanza, prima o poi finiremo tutte appese a una parete e dovremo separarci!”. Guardo rapito questo autentico miracolo della fantasia: è una divertente provocazione giocata sulla analogia lessicale e fonetica delle due parole e su quel posizionamento anomalo dei fiori (fuori dal vaso appunto) che ne fanno un piccolo gioiello surreale, inno trionfale e angosciato alla vita, disperato tentativo di aggrapparvisi nonostante tutto, esattamente come fanno quei fiori sorretti da un

esile filo di ferro che avvolge un improbabile vaso di carta. Ma ecco rientrare Armodio, senza l’illustre critico: “non si è potuto fermare, appena il tempo per un caffè in stazione ad illustrarmi la sua ultima fatica letteraria”. “Anch’io ho bevuto un caffè in compagnia dei tuoi quadri, un caffè… sulla carta, e ti assicuro che parlano di te!” Così si conclude la mia intervista, un vero sogno… sempre sulla carta!

razione pittorica, rinculò istintivamente tirandosi un tremendo colpo sul naso con il poderoso battente e finendo all’ospedale con una ferita da cinque punti. L’incolpevole Magda, terminata la seduta, fece visita al malcapitato che trovò qualche consolazione nella rinnovata ventata di fascinosa femminilità. Ma il caso più delicato si era verificato quando un sosia di Schiele, completamente dipinto a colori sgargianti, forse per freddo e stanchezza si era accasciato per un maloReclining Female nude with legs spread apart, 2005, fotografia-body painting, cm 50 x 70 re, precipitando tutti in un’imbarazzata apprensione, nessuno sentendoCADEL si in grado di accompagnarlo al Pronto improvvisamente sorto il giorno in cui una Soccorso non sapendo come giustificare di esse, colta in pieno body painting dal quel variopinto spilungone svenuto. flusso mestruale, era stata costretta ad Fortunatamente per tutti il modello dopo indossare le mutandine, che si era provve- poco si riprese. Per imprimere sulle figure duto a dipingere con un bel color carne l’intensità del segno di Schiele e le linee mimetizzante e sulle quali si erano dovuti ingegnosamente deformanti sui soggetti artisticamente pitturare i peli del pube. Un fotografati si è ricorsi alla tecnica del digialtro incidente era occorso il giorno in cui tal art work tramite l’ottima PixelWay che un amico ignaro, aprendo la porta blinda- con abilità ed entusiasmo ha preso parte ta dello studio e trovandosi di fronte la alla corale azione creativa. Una delle magstatuaria imponenza di Magda Gomez giori difficoltà incontrate — ricorda Cadel splendidamente nuda in piedi su due se- — è consistita nell’“appiattire” le immagini die, a gambe spalancate durante la prepa- attraverso lo studio combinato delle luci

per riuscire ad annullare le ombre che inevitabilmente i modelli producevano sullo sfondo, con ricerca quindi dei fondali adatti individuati alfine nella tela da strappo. Unico intenzionale trucco di scena — racconta ancora Cadel — vista l’impossibilità di ottenere dal modello la condizione ade-

guata, è stato il dipingergli un generoso pene in erezione sulla giacca.Tra preparazione dei modelli, ricerca delle luci, conquista di una postura spesso innaturale e difficile, si è riusciti ad eseguire in media uno scatto al giorno. I lavori ispiratori di questa operazione “Omaggio a Schiele” sono i disegni a matita e tempera o acquerellati su carta. La somiglianza con gli originali è sorprendente, tra cui spicca l’incredibile specificità del giovane prestato agli autoritratti che ad impressionanti affinità somatiche aggiunge una sbalorditiva intensità espressiva. Queste invenzioni di Cadel — godibili anche sul sito www.photocadel.com — nate con dichiarato fine evocativo, finiscono per acquisire invece una loro convincente e compiuta originalità del tutto svincolata dagli archetipi, effondendo il sortilegio di nuove seduzioni. Le attraenti creature di Cadel, ideatore di una nuova categoria dell’arte, verranno finemente stampate in esiguo numero di esemplari per una stretta cerchia di intenditori. Subjets vivants scaturiti da una delle più belle pagine della storia dell’arte che invece di restare imprigionati nelle cristallizzate ispirazioni dei capolavori si nutrono di fantasiose linfe e sanguigne pulsioni per incantare le nostre complesse concupiscenti passioni.

INTERVISTA ARMODIO...MIO pagnia. “Noi siamo felici di ciò che rappresentiamo, del senso di protezione che riusciamo a trasmettere”. Sono due magnifiche opere della serie Caffettiere: la prima Da Arianna, è una caffettiera rovesciata sul tavolo al cui interno

ENRICO CAZZANIGA

Togliere al palazzo Governativo - Belgrado, 2004 candeggina su fustagno nero, cm 190 x 130

Seated Women with bent knee, 2005 fotografia-body painting, cm 70 x 50

Aldo Benedetti Da Arianna, 1998, tempera su tavola, cm 40 x 50

Giovanni Serafini sto concetto del “togliere” è un qualcosa che va oltre la pura sottrazione di materia: è piuttosto uno scavo nella psicologia, nell’animo e nello spirito dell’uomo senza orpelli e senza sovrastrutture ideologiche. L’uomo si pone nudo davanti a se stesso in una ricerca del sé e del proprio spirito non deformata da sovrapposizioni prese a prestito dalla cultura di massa. Una tensione all’eliminazione del “di più”, del superfluo culturale, della mas- Togliere ai passanti - Berlino Est, 2005, candeggina su fustagno nero, cm 50 x 80 sificazione ideologica, della uniformità di bisogni e certezze e del sentire non è che una verità del sé senza riserve. comune, per andare al fondo di se stessi Trattasi di un processo quasi psicoanalitico espresso attraverso un mezzo tecnico-artisenza riserve e senza paure. La ricerca artistica effettuata caparbiamente stico e una ricerca pittorica. da Cazzaniga da più di dieci anni esprime La non banalità del mezzo tecnico prescelproprio la volontà di non lasciarsi uniforma- to si accompagna alla non banalità del messaggio espresso che è quello di una ricerca re da mode e stilemi. Una operazione coraggiosa che vuole indi- del proprio sentire libera da costrizioni e care una strada di fuoriuscita dalle “tene- preconcetti, in pratica, liberata da chiusura e bre” del nero, dalla cecità spirituale, verso cecità spirituale. una esplosione del proprio spirito, verso una scoperta della luce interiore che altro Cynthia Penna

Scavo intellettuale

Chi si “imbatte” casualmente nella persona di Enrico Cazzaniga, anche per una sola volta, non lo dimentica più. La sua semplicità e purezza interiore, la sua raffinatezza di modi, la sua delicatezza di spirito, colpiscono l’interlocutore al fondo dell’anima. Chi si “imbatte” poi nelle opere di Enrico, ancor di più ne rimane toccato e stupefatto: la delicatezza, la poesia e la raffinatezza emergono prepotentemente dalle tele al fondo delle quali si nota ad evidenza una profonda ricerca del mezzo espressivo. Enrico è quel che suol dirsi un artista “puro” nel senso che, accanto alla purezza dell’animo, vi è una purezza della ricerca in senso tecnico. Un artista che unisce nelle sue opere scavo intellettuale e “scavo” metodologico; ricerca del mezzo tecnico in senso proprio e ricerca interiore senza riserve. Il concetto del “togliere” viene reso in senso pittorico attraverso una eliminazione di materia e di colore scolorendo la stoffa di fustagno nera o blu con candeggina e dosando il prodotto in modo da ottenere nuances di luce e di colore sempre nuove e diverse. Il nero del fondo delle sue tele si apre, si distende attraverso inondazioni di luce che vanno a formare la scena. Ma que18

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ANDREA MARTINELLI

Grande volto di uomo, 2005, tecnica mista su tavola, cm 180 x120

Ha le stesse iniziali di Antonello da Messina e le sue opere recenti ne confermano una sorprendente analogia formale e di contenuti : questo momento della evoluzione artistica di Andrea Martinelli (Prato, 1965), il più geniale esponente e provocatorio asceta della nuova Figurazione internazionale, lo consacra come l’Antonello del XXI secolo. Come il grande maestro siciliano sembra dar voce ai ritratti dei propri personaggi, dotato anch’esso di una rara capacità di introspezione psicologica che riesce a fissarne i tratti somatici in pieghe dell’anima. Forte di una eccezionale, raffinatissima tecnica di disegno, Martinelli ha superato la precedente esperienza delle “Senescenze”, rappresentazioni di superbo impatto emotivo, visioni di anziani assunti a un limbo liberatorio, dignitosa anticamera della morte, di cui portano il colore venoso sulle carni , le rughe deformanti sulla pelle, la luce spenta negli occhi diafani che invocano attenzione, implorano quasi perdono per una presenza ingombrante e fastidiosa, materializzazione inquietante di un incubo scomodo e ossessivo, di una verità non volu-

Donna seduta

Eroi silenziosi

ta. Sono i ritratti di persone vicine a Martinelli, i cari nonni Dino e Dora, e di serene creature deformate dagli anni che popolano un mondo parallelo, inaridito dal tempo e immerso in un tragico silenzio accusatorio: la figurazione psicologica di Martinelli sa ferirci direttamente, non fornisce alibi accomodanti, riscopre quasi la denuncia sociale di un Morbelli, impegnato a ritrarre collettive visioni di anziani desolatamente abbandonati, tenuti in vita da un calvario di ricordi che ne accentuano la condanna a una mortificante incomunicabiltà. Martinelli rifiuta però la passiva rassegnazione a una corrosiva consunzione temporale e invoca un orgoglioso riscatto da un’incombente dissoluzione che ci rende comunque oscuri protagonisti di un cammino di vita. I ritratti diventano sculture della memoria, di cui noi stessi ci sentiamo inconsapevoli committenti: quei corpi piegati dal tempo hanno una loro dignità statuaria, hanno scritto pagine della nostra esistenza, contribuito a garantirci un disperato diritto di replica. Confessioni di meravigliosa dolcezza sembrano avvicinarli a noi, alle nostre stesse crisi di identità, mentre ci svelano maschere di pirandelliana caratterizzazione uscite dal palcoscenico buio della vita, creature della notte illuminate e ascoltate per pochi istanti, quasi a spiegarci il senso della loro recita. Non è però un “Memento mori” quello di Martinelli, è piuttosto un “Ecce Homo”, presentazione della condizione umana di composta dignità, sofferta enunciazione di un teorema di sconvolgente lucidità: ognuno di noi, pur essendo un vinto in partenza, è un eroe quotidiano, illuminato da un laico bagliore di luce che ne definisce i lineamenti, ne accende le illusioni e ne consegna la memoria. Ecco quindi le ultime opere di Martinelli, sublime e riuscito tentativo di catturare la psiche dei propri personaggi, con la stessa perfezione artistica, la stessa complice ambiIl volto del grande nonno III, 2004, tecnica mista su tavola, cm 172 x 112 guità di un Lotto, arricchita

PIERALBERTO FILIPPI Segno e volume sono le chiavi per leggere l’arte di Pieralberto Filippi. Risale ai primi anni Novanta il tentativo dell’artista monzese di definire un vocabolario di linee continue e di forme essenziali, potenzialmente volumetriche, e di concertarle con infinite varianti nella pittura e nella scultura, dando vita a strutture dinamiche ed eleganti, arabeschi improntati a una spiccata sensualità. Queste masse morbide e curve, che chiedono — come vorrebbe l’artista — di essere accarezzate, sono agitate da un vento futurista che favorisce uno scambio continuo tra le due e le tre dimensioni e accentua la scansione ritmica della materia. Filippi si concentra su volumi densi ed espansi, valendosi esclusivamente di curve e rotondità, e sempre aderendo, più o meno allusivamente, alla figurazione umana. Questa viene contorta e compressa, oppure dilatata ed estroflessa, individuandone i caratteri strutturali ed evidenziandone le possi-

però da un’inquietudine moderna, contaminata dalla esacerbante e tormentata conflittualità esistenziale di uno Schiele, dalla lacerante e impietosa esperienza figurativa di un Freud, dalla dilaniata e spietata spiritualità di un Bacon. “In … viso veritas” potremmo dire variando un noto detto popolare, l’attenzione di Martinelli si concentra sui visi, propaggini estreme di un’impronta divina che mette a nudo il nostro io, forse il dio sofferente che si agita in noi, tormentato dal dubbio di un sacrificio incompreso, di un’inutile sofferenza a riscatto dell’uomo. Il Nostro non solo supera la superba e penetrante impostazione fisiognomica dell’“Ecce Homo” di Antonello, ma ne rovescia l’assunto psicologico: non è Cristo che si immola per l’uomo, ma è l’uomo stesso che si interroga sulla presenza in sé di Dio, su un destino che ne confonde le avide tracce, che nasconde sul nascere le orme di istanti già cancellati. Osservando le opere abbiamo la possibilità di assaporare questo carosello di combattuta umanità, affollarsi di voci e brulicante crocevia di emozioni, dalla scintilla di vita che si accende fiduciosa negli occhi de Il ragazzo che guardava lontano, trasmettendoci un assetato desiderio di esperien-

Segno e volume

scelti di volta in volta: pietra, marmo, legno, bronzo patinato e terracotta, oltre al poliuretano dei modelli e alla lamiera dei recenti progetti. Ora l’opera di Filippi attraversa un’ulteriore maturazione: la pittura tende alla tridimensionalità e all’aggetto, mentre la scultura aspira alla monumentalità e a un dialogo aperto con lo spazio. Non a caso

bili metamorfosi in elementi naturali. Infatti l’ingigantimento di alcuni dettagli conduce ad esiti radicalmente astratti e inoltre suggerisce un’ambigua fusione di componenti umane e vegetali, un’evoluzione della vita verso la natura. Ecco allora la sequenza di paesaggi morbidi Personaggi e materici, dominati da quella medesima matrice ovale che ha generato tutte le figure. Al dialogo arioso ed equilibrato tra la forma e lo spazio, Filippi affianca, periodicamente, l’effetto di netto contrasto tra una grezza fisicità e una linea pura e ordinata. Fondamentale, nella pittura, è il ruolo del colore, con la dominanza iniziale di toni blu e bianchi e il graduale inserimento, entro campiture ben definite, di toni squillanti e antinaturalistici: rosso, verde, giallo e arancione. Nella scultura, invece, il colore è quello dei materiali

Volto-ombra IV (o il volto di mia madre), 2005 tecnica mista su tavola, cm 67x49

ze, all’inquietante sguardo del triplice ritratto Le tre ombre, che assurge a sintesi estrema dell’opera dell’artista, icona dignitosa e composta di una sfida all’ignoto. Altri ritratti riprendono questo tema dello sdoppiamento, di una angosciante incertezza esistenziale che li rende eroi dubbiosi di un giorno, ombre materializzate agli angoli delle strade, evase da un’oscurità spettrale per entrare nelle nostre coscienze con i loro primi piani invadenti, a suggerire un messaggio di pietà, a comporre i frammenti di un’umanità segreta e sconfitta, come quella descritta dal grande Testori (primo scopritore del talento di Martinelli), in perenne oscillazione tra una terrena dannazione di miseria e un mistico impulso di ideale resurrezione, equilibristi incerti tra santità e dannazione, angeli incatenati a terra, prigionieri di un corpo che ne violenta la purezza, umiliandoli a una disincantata crudezza o forse, come ne L’uomo con la mano sul volto, riscattandoli a comunicarci il presagio di un naufragio imminente, ma di un approdo sereno. Incantevole il ritratto della madre, una delle ultime opere, sublime testamento di toccante dolcezza e rarefatta introspezione, autentico miracolo di comunicatività emotiva, acceso da uno sguardo che ce ne rende tutti figli, struggente annunciazione di un comune passaggio terreno che ci affratella e ci illumina con la velocità e il bagliore di un lampo.

Aldo Benedetti fra le possibili suggestioni verrebbe da citare, oltre ai padri europei della scultura organica (Brancusi, Arp, Moore e il nostro Alberto Viani con le sue Superfici curve continue), l’astrazione lirica e surreale di Georgia O’Keeffe e le fantasie aeree e primordiali di Calder e di Mirò.

GIANCARLO DI SIMONE

Sara Fontana

Oasi metafisiche in un mare inviolato

Creature indefinibili, animate da bagliori colorati vibrano impalbabili in un mare inacessibile. Non prigioniere dell’abisso, ansiose di luce, ma paghe della propria solitudine sembrano illuminare di vita il silenzio che le avvolge, senza dominarle. Quella vita che si materializza nell’accurata ricerca del colore che ora diventa vita, ora prende forma come dal nulla, in uno straordinario effetto di sofficità, pur attraverso tonalità intense e a volte contrastanti. Immagini che parlino di un oblio cercato, e conquistato in una dimensione surreale; e laddove l’anima, sottoforma di uccello, cerca di volare, sembra aprire le ali dalle viscere della terra.

Irene Torrisi 19

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Senza titolo, 1999, olio su tavola, Ø cm 35

DONATELLA RIBEZZO Pensare che Donatella Ribezzo sia solo una pittrice, sia solo una brava illustratrice, una “dotata”, sarebbe come dire che un cielo stellato è solo notte e le luci o il mare è solo acqua, o che la primavera è solo stagione. Chi la conosce un po’ e vede i suoi quadri, capisce quanto l’amore e la sua proporzione artistica, siano un’intenzione, uno slancio, un sentimento che diventa freccia mentre l’anima è l’arco che lo scocca. Donatella disegna negli animali il gesto e l’anima, lo sguardo della leonessa in caccia, con tutta la sua mistica magia, tutta la sensualita’ di un istinto che diventa rito, sacrificio, magia ancestrale, dramma , poesia… Questa tecnica di pittura su piastre di ceramica, molto complessa, della quale bisogna tenere conto per la variazione cromatica ad ogni passaggio tramite la cottura, permette di ottenere profondita’ e luminosita’, una particolarita’ che da’ all’animale una sensazione di vita. La Ribezzo, non è solo un testimone passivo, una fotografa di animalita’, Lei con la sua pittura cattura l’anima attraverso lo sguardo dell’animale coi colori te la inchioda addosso e se non la senti o non riesci a vederla è solo perche’ non ci metti il cuore. Donatella, interiorizza in un pro-

L’anima... attraverso lo sguardo

CHIARA CERATI

cesso empatico profondo il sentimento animale per poterlo sentire dentro prima e dipingere poi: come un atto d’amore…come un amplesso di anime qualcosa che passa dentro attraverso la sensualita’, intesa come comunicazione, come accoglienza del messaggio con la natura, come atto d’amore catartico che celebra la vita nella vita, attraverso una profonda fisicita’ fatta di ombre e tenerezze di colori e seduzione…

Maurizio Vignozzi

Chiara Cerati oggi offre al pubblico milanese le sue opere. Milano vanta una tradizione gloriosa e accoglierà quest’artista di delicate forme. I fiori di Chiara Cerati sono il “fiore” perché dei fiori, colgono il profumo, la trasparenza e il senso consolante: una specie di promessa, di augurio di partecipazione alla felicità. Abbiamo bisogno di ottimismo e, in questi momenti di grandi incertezze, dobbiamo ringraziare chi, come Chiara, lavora nel segno della fiducia. per quanto riguarda i ritratti, utilizzando l’impressione cioè la fotografia, Chiara Cerati traduce la realtà in valore atemporale e non solo istantaneo. La qualità pittorica è inoltre di primo livello. Complimenti e auguri. Mario Donizzetti Rose, 2005, olio siu tela, cm 30 x 40 Ritratto giovane avvocato, 2004, pastello, cm 50 x 70

SpazioBoccainGalleria

Istinto della paura, 2006, piastra su ceramica, cm 33 x 45 Attrazione fatale, 2006, piastra su ceramica, cm 25 x 50

LORENZO PIEMONTI

mercoledì 6 dicembre 2006 - ore 18,00

Cromoplastico

CHRISTOPHE MOUREY

904

Forme geometriche perfette in cerca di uno spazio definito. Si posizionano immutabili e perpetue verso una pluridirezionità che apostrofa intenti matematici. Il fascino misterico rimane intrappolato dai solchi che scandiscono la composizone dando vita a un fluido gioco cromatico definito e senza incognite morfologiche. Il disegno, madre delle arti, è alla radice del progetto, dove l’idea elabora in nuce l’esecuzione che diviene operatività applicata ed estetizzante. È forse il desiderio di un equilibrio cercato e sperato nella quotidianità del sociale? Piemonti, nella sua opera, consolida gli opposti, facendoci prendere coscienza che l’arte può sempre, attraverso i suoi linguaggi, proporre una realtà ideale che nella quotidianità è solo utopia.

Scrutare, osservare e imprimere sulla carta singoli elementi d’identità macrocosmiche; uomini, donne, sguardi enigmatici che riflettono intenti a noi misteriosi, movenze che ricordano gli attimi impercettibili della riflessione precedente un’azione. Generali e soldati che osservano per agire, uomini virili pronti all’impresa titanica, fanciulle nel pieno della loro consapevole bellezza che ci lasciano intuire le armonie dell’animo umano. Un cosmo corredato da oggetti inanimati che circondano la storia e la vivono con un’utilità funzionale alle umane creature. L’artista, in questo viatico di osservazione acuta, si fa interprete di un mondo a lui lontano che lo tange, limitandosi a captare le silenti richieste e sigillarle indelebilmente coi colori. Piccoli particolari posti in sequenza, scorporati dal loro originale contesto, divengono ora un atlante della memoria. Si perpetuano non più quelle emozioni ormai racchiuse nei meandri della storia, bensì i sentimenti che l’artista ha catturato nel suo acclimatarsi col luogo prescelto e che ci ha voluto trasmettere per far sì che ogni singolo fotogramma diventi un vivo ricordo.Tali sono gli intenti di Christophe Mourey che, attraverso 216 disegni, ha tessuto il cuore architettonico e strutturale di Palazzo Cusani a Milano. Il suo è lo sguardo del contemporaneo orientato a catalizzare forme di vita, in questo caso inanimata, per renderli oggetti viventi grazie all’ausilio del disegno e delle successive sensazioni che suscitano nell’osservatore. Christophe è l’artista bohemienne che si ferma ad eternare ogni singolo desiderio. Nelle sue performance la

Antonio D’Amico

Cromoplastico 904, 2005, acrilici, cm 50 x 50

DANIELE CAZZATO

L’incanto nello sguardo dei bimbi è sorprendente ogni volta che si fermano a contemplare un mistero fatato. Stupore e bellezza provengono da occhi sensibili e non superficiali. Certo, mi direte, intenti scontati, questi, ma non del tutto se si proviene da un quotidiano frenetico. La Libreria Bocca, scrigno di sogni che attraggono i passanti, invita allo stupore e alla meraviglia. Se l’arte, coi suoi multiformi linguaggi, è veicolo

La prima impressione che si ricava dai pastelli di Chiara Cerati è quella di una sbalorditiva esattezza nella restituzione dell’immagine, che non teme i più impegnativi confronti con celebrate fattispecie di un passato prossimo remoto. Tanto è catturante e imponente la presenza del ritratto da voler per sé l’attenzione tutta del riguardante, nello spazio e nel tempo, grazie ad un virtuosistico conguaglio dell’accorto ingrandimento dell’immagine con l’istantaneità fotografica della posa (dissimulatamente colta) che coglie il movimento e dunque la vita, riscattandola dalla meccanica immortale fissità fotografica grazie a un sapiente capillare governo del colore, dosato con una sottigliezza di trapassi tale da inverare l’osservazione leopardiana che «il sommo dell’arte è la naturalezza e il nascondere l’arte». Naturalezza che, come sempre scriveva il grande poeta dell'innocenza perduta: «Appena si può chiamare qualità o maniera, non essendo qualità o maniera estranea alle cose, ma la maniera di trattare le cose naturalmente, o come elle sono». Come dolcemente parla in questi volti di un’infanzia ancora intatta. Franco Gavazzeni

Sospensioni d’Arte

di fortuna o semplicemente le sue forme non contengono sterili concettualismi, bensì celano segrete sorprese, non rimane che soffermarci con stupore e un pizzico di gratitudine dinanzi al suo cospetto. In inghilterra vedere volare una o più gazze ladre ha un significato preciso, tanto che nella tradizione popolare esiste una filastrocca, che da oggi verrà associata all’arte e all’espressione creativa dei voli di Daniele Cazzato. Sul soffitto della libreria, infatti, potranno vedersi volare: «One for sorrow, Two for joy, Three for a girl, Four for a boy, Five for silver, Six for gold and Seven for a secret never to be told» A quel punto non ci rimarrà che esclamare: Good Morning Pica Pica!

gente è protagonista assoluta così come i loro desideri. Sedersi al suo cospetto formulando una richiesta precisa significa tornare a casa col disegno originale; a lui rimane una stampa a colori quale puzzle per formare un nuovo atlante. Stimolare la memoria è il suo obiettivo e coniugare i ricordi che divengono sempre più personali è l’intento che nell’arte mantiene viva la storia dell’uomo. Così come Mnemosine per Warburg, per Christophe l’immagine diviene protagonista assoluta della vita nelle sue multiformi sfaccetture. Anche l’oggetto più banale, ma in quel preciso istante significativo per la persona che si è fermata dinanzi a lui, diviene ready-made nella nuova dimensione della memoria. D’ora in poi, qualsiasi cosa esso sia, vivrà nel cosmo dell’arte.

Antonio D’Amico Palazzo Cusani - Sentinella dell’arte Circolo Ufficiali di Milano - via Brera, 15 - MI dal 6 al 27 novembre vernissage martedì 7 novembre Galleria Brambati Arte - Antologia via Natale Perego - Vaprio d’Adda dal 12 novembre al 10 dicembre vernissage domenica 12 novembre Le Trottoir Performance p.zza XXIV Maggio, 1 - Milano dal 13 al 18 novembre vernissage - finissage sabato 18 novembre Libreria Bocca presentazione catalogo eventi 6 novembre 2006 ore 18,00

BIANUCCI CINELLI studio comunicazione organizzazione eventi ufficio stampa

Antonio D’Amico Good Morning Pica Pica!

via Lambro, 7 - 20129 Milano - Italia tel. +39 0229414955 - fax +39 0220401644

SpazioBoccainGalleria

Imprimere la vita!

dal 9 novembre al 30 gennaio 2007 20

Per la tua pubblicità chiama Antonio D’Amico 338 2380 938 - Gabriele Lodetti 333 2869 128 - Giorgio Lodetti 338 2966 557

La Libreria Bocca è lieta di annunciare la collaborazione con l’ufficio stampa diretto da Francesca e Chiara Bianucci Cinelli, per una maggiore e migliore diffusione delle iniziative culturali promosse.

GIANNANTONIO DE MALDÈ a cura di

Franco Tarantino

Serie: La Dea e la Croce, 2006, tecnica mista su tela

Ci sono artisti che prendono d’assalto la tela, o meglio nel caso di Giannantonio De Maldè le tele, con un affanno, un’ingordigia degna di un affamato, quasi che il tempo non bastasse, quasi che possa esistere un momento in cui si dovrà per forza smettere, che l’evento creativo, quell’evento, sia l’ultimo, che l’arresto, inevitabile, sia definitivo. Vita e morte insieme, quindi, in una metafora la cui arte è sentita come intreccio complesso di fasi creative, fatte di molteplici punti di partenza ricchi di slancio ma di cui l’artista già percepisce, quasi con stupore, l’inarrestabile fine. In realtà solo conoscendo questa splendida frenesia si può seguire e comprendere il percorso della sua ricerca; assistendo, come mi è capitato, alla “crescita dell’albero dalla parte delle radici”, al dipanarsi dall’interno di questo processo, di cui i singoli quadri sono

WALTER TRECCHI A differenza di quella di Boccioni, quella di Trecchi è una “Città che as…sale”, un germe che si sviluppa autonomamente, distruggendo la presenza ingombrante dell’uomo: restano tracce di un passaggio, colori rugginosi che tradiscono un ripensamento, una pausa di riflessione o, forse, una coraggiosa ammissione di impotenza. E’ stupendo riconoscere nelle opere di Trecchi le forme del Razionalismo italiano del rivoluzionario e geniale Giuseppe Terragni, ma è ancor più sorprendente leggervi la delicata denuncia di un sogno spezzato e il contemporaneo recupero di un’ascesa interrotta. E’ la secchezza essenziale e ruvida di Montale applicata alla pittura, un intrecciarsi di impalcature e tubolari che disegnano una gabbia esistenziale, suggeriscono, parafrasando l’illustre ligure, “assi di seppia”, gusci vuoti e abbandonati su cui affilare la durezza dei destini fragili e banali che li abiteranno. In Trecchi non c’è gaddiana cognizione del dolore o ferroniana disgregazione della figura umana, come consunta da un male urbano corrosivo e inarrestabile, c’è invece l’dentico dignitoso riscatto morale di Montale, un tecnicismo pittorico altrettanto poetico e simbolico,

Cantiere IV, 2005, tecnica mista su tela, cm 75 x 100

nascita del gesto e del concetto nel quale sono state generate. Questa modalità, quella di vivere l’arte nel suo farsi senza rigidezze “strategiche” o progettuali, per molti versi avvicinabili ai ritmi interni dell’esperienza informale, ha qui invece (imprevedibilmente?) degli esiti espressionisti che derivano da un’esplicita volontà di risalire a ritroso nel tempo alle origini del fenomeno che ha determinato l’action painting e le espressioni a lei collegate. Ciò ci conduce al terzo punto: la ricerca, i suoi obbiettivi, i suoi approdi. Forse si potrebbe pensare che dato il linguaggio fortemente espressionista presente in varie opere essa, si risolverebbe nel puro esito formale implicito in ogni singolo atto creativo. Ma è veramente così? I guerrieri, Casa Sandri, Le nuvole etc... dai colori violenti o delicati, cupi o solari sono forme che “chiedono” la saldatura, l’accordo con stutture e contenuti fondanti. Questo essere in bilico tra incompletezza e definizione (è il fascino dell’ambiguità) motivo per il quale si presentano a noi in forme reiterate, seriali, l’una diversa dall’altra ma appartenenti alla medesima “personalità”. Il soggetto rappresenta l’elemento poetico dell’arte di Giannantonio De Maldè, insieme di solidità e evanescenza variabilità del tema e continuità dello stesso. Ma quali sono i contenuti fondanti ai quali accennavamo? È indubbio, in molte

soltanto le tappe. Il traggitto, al momento ignoto, si vedrà dopo ma subito si coglie che le opere non ci sono date come pezzi unici in sé conclusi o “soltanto come immagini a sé stanti” ma come segmenti di un divenire pieno di stadi invitanti ad esplorare sentieri con ostinazione o con fragilità ma in tutta sincerità. Ciò si coglie anche osservando soltanto il dinamismo, l’instabile vitalità delle immagini le cui figure sembrano, in molti casi, volersi sottrarre alle aggressive campiture monocrome in rosso, ocra, azzurro che ne costituiscono lo sfondo. Così questa creatività si è formalizzata sotto ai miei occhi secondo tre modalità: le serie tematiche, che appaiono “compatte” e al loro interno coerenti, quasi dei racconti, che ci parlano di emozioni fuggevoli, di mappe mentali, di paesaggi ancestrali rivissuti nella memoria, di esseri mitici che esistono per essere subito bruciati e vanificati al nascere di un nuovo ciclo. L’idea, o meglio, la messa in luce, di un processo creativo che non ha punti fermi ma solo apici, al punto che si può affermare che una parte cospiqua della fruizione, della comprensione di ogni opera è affidata agli empatici legami che la uniscono, al di là dei titoli e dei soggetti, al significato dell’intera serie. Opere ricche di valenza, quindi, ma solo se si è disposti, a seguire e ripercorrere il flusso dello spazio e del tempo fino alla

Costruzioni in cemento... armato

affollato di cantieri, irto di torri e tettoie che ci immergono in una staticità metafisica, cancellando l’incubo delle periferie angoscianti di Vespignani, sgretolando la schiacciante monumentalità urbanistica di Sironi, trasferendoci piuttosto nel magico mondo di un miraggio metropolitano che ci consegna a un “cemento amato”, mutandolo in elemento durevole di sopravvivenza, quasi scialuppa di salvataggio, affrancamento dal disagio di un naufragio annunciato. Ripercorriamo così il percorso artistico di Trecchi, in cui si avverte un messaggio di costruttiva rivalsa, un’evoluzione che prende avvio dai primi interni di capannoni abbandonati, popolati soltanto dal silenzio della memoria, opachi fantasmi di epoche e attività dismesse che implorano un ricordo, alle immagini di gru che richiamano la sacralità di svettanti cattedrali gotiche, lo stesso dinamismo di una società in affannosa ricerca di nuovi orizzonti, fino a giungere agli stupendi cantieri del riscatto, alle impalcature che sostengono una soluzione di vita, ai teloni che, come bende, avvolgono e alleviano le ferite di un’umanità che trova rifugio in quelle costruzioni, autentico progetto di speranza che è fiducia nelle capacità creative dell’uomo, nel suo disperato tentativo di trovare un ordine. Si passa così dalle prime “delocazioni”, dalla poetica dell’assenza, l’evocazione di una presenza al negativo, gli attrezzi orfani di fabbriche deserte, come sagome ancora impresse su di un letto vuoto e scomposto, all’entusiasmo allusivo, in positivo, delle “allocazioni” degli oggetti, testimoni di un’attività in essere, del desiderio di affermare una continuità, ricevendo quasi un prezioso mandato testamentario da trasmettere: forse realizziamo solo disperate palafitte su un terreno pronto ad inghiottirci, forse siamo soltanto ossi di seppia che il mare porta a riva, ma l’importante è costruire, vivere con trasporto e intensamente quel breve tratto di costa che ci divide dal bagnasciuga, riempendo di affet-

Città sospesa, 2005, tecnica mista su tela, cm 150 x 110

lo stesso desiderio di appaltare un inganno, di opporsi a un crollo impietoso, edificando agglomerati di speranza: ciò che appariva soffocante “costrizione” dell’anima nei recinti di rigide geometrie architettoniche è ora meditata costruzione di un consapevole progetto di vita, di uno scenario urbano che riflette un preciso disegno spirituale. E’ così che seguiamo il dettaglio e la scabra raffinatezza delle costruzioni, gli impasti densi di malta e colla che ricoprono con ingegneristica precisione una carie esistenziale e sembrano ripetere la descrizione degli umili e aspri muri di sassi di Montale, oltre cui spazia lo sguardo e si immagina il mare, simbolo salvifico di evasione. La meticolosa capacità descrittiva e il tagliante impianto scenografico, la pennellata distesa come calce e satura di colore livido e corposo su tele composte di frammenti uniti da cuciture che sembrano suturare un taglio, quasi piaghe ormai cicatricizzate, delineano un profilo urbano

opere, un forte riferimento all’arcaicità, all’etnicità, punto di partenza, questo, di molte ricerche artistiche del XX secolo, che qui è risolto al di là dell’evidenza dei riferimenti formali, con un tentativo, si potrebbe affermare, di intuizione delle origini che va oltre il puro richiamo atavico o la pura rivisitazione delle forme artistiche non occidentali.

Giovanni Marconi ti ed emozioni quella piccola intercapedine che ci separa dal nulla, che ci consegna a chi accoglierà il nostro esempio di coraggio. E’ un assorto sguardo morandiano che si ripete con la stessa ostinata e delicata insistenza, fino a convincerci di un’anima condivisa, di costruzioni che hanno l’identica muta spiritualità delle bottiglie dell’esoterico maestro bolognese, immobili spettatrici di una surreale inversione di ruoli, in cui siamo noi le vere comparse, sospesi nel tentativo di trovare una giustificazione, di “mettere in cantiere” la ragione di vivere...

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Aldo Benedetti

Cantiere VII, 2005, tecnica mista su tela, cm 150 x 110

AGHIM MUKA

propongono allo sguardo recettivo. L’artista, albanese di Fieri, vive da diversi anni a Milano. Appena lo incontri capisci l’importanza delle sue origini, la necessità delle radici forti, la grazia rabbiosa delle attitudini naturali. Oggi rappresenta al meglio la cultura albanese senza che nulla dichiari il legame in modo ideologico. La sua arte ha una dimensione che non si limita a richiami localistici o autoreferenziali, ne ad un falso internazionalismo privo di onestà culturale. Al contrario, incarna la libertà del diario privato che si disvela con generosità e controllo, secondo le necessità etiche che chiedono spazio estetico. Viene da dire, finalmente un artista che non gioca con la retorica del disagio balcanico, che non abusa del degrado sociale per farne una bandiera da biennali e collezionismo snob. Di fatto, Muka distilla il mondo dentro percorsi evocativi Origini Anna Oxa, 2006 ed alchemici, istintivi ma sotto auscultabile controllo. Il tecnica mista su tela, cm 181.5 x 121 lavoro si porta dentro l’accrescimento del viaggio, la scoperta coraggiosa, il moto precario degli spiriti nobilmente nomadi. Opere come pagine di un diario non più “di bordo” ma “sul bordo” delle cose, del vissuto quotidiano, dei sogni speranzosi, della visione morale. Un appuntarsi la vita mentre si cammina tra realtà e geografia mentale, sul confine pericoloso del disvelamento, oltre il limite valicabile della pura bellezza.” Nel suo viaggio poetico, Muka ci propone oltre alle tele, un video e una installazione. Il video, dal titolo Pane, vede come protagonista lo scultore Eugenio Zanon, scomparso la scorsa primavera, a cui Muka dedica l’opera stessa. Nel video, attraverso una narrazione allusiva, si sottolinea l’importanza della semplicità del Pane quotidiano spesso dato per scontato nel corso del ritmo frenetico dei tempi moderni, ma proprio perché quotidiano, forte di una valenza insostituibile, simbolo dell’esistenza stessa, simbolo religioso di riscatto ed elevazione spirituale. L’installazione, Anima Mundi, rappresenta un Pavone, espressione di bellezza, di libertà, di eleganza della natura, animale fiero e nobile che diviene metafora dell’origine primordiale del mondo. Filo di ferro, rigido, teso, aggrumato e piume di seta bianca, morbide, impalpabili, sono i materiali che si contrappongono e intersecano indissolubilmente nell’installazione. Ferro come le difficoltà del vivere, seta come l’anima bianca del mondo che abbraccia uomini, creature animali e vegetali, fino ai fili d’erba di un prato.

Origini: Anima Mundi

L’artista albanese Aghim Muka, attraverso l’utilizzo di diversi linguaggi, ripercorre il sentiero che unisce simbolicamente le origini dell’essere umano, l’Anima mundi. Iniziando questo percorso dalle sue origini albanesi, Muka tesse una ragnatela che intrappola nelle sue maglie visioni di altre civiltà, e narra la sacralità e inviolabilità dell’esistenza dell’uomo. La tematica delle Origini e dell’Anima mundi, poetica che da sempre contraddistingue la ricerca di Aghim Muka, ancor più ha preso spunto dall’incontro con Anna Oxa, di origine albanese, per cui ha realizzato l’immagine per la copertina del suo ultimo cd musicale, “La musica è niente se tu non hai vissuto”. Nel quadro Origini che ha realizzato per la Oxa, l’artista si è ispirato alla ricerca di una radice di comune appartenenza a tutti gli essePavone, 2006, tecnica mista su tela, cm 100 x 100 ri umani e il divenire della bellezza e della essenza umana nella sua tragicità. Le tele in mostra, evocative, struggenti, fanciullesche, pulsanti di emozioni, ricordi, richiami, creano un percorso simbolico di un viaggio tra spazio, tempo, culture. Sono tele di un artista che ragiona in modo diverso come dice di lui Philippe Daverio, curatore della LVII Edizione del Premio Michetti, “Laboratorio Italia 2006”, a cui ha invitato Muka nella sezione Bizantini. Scrive appunto Daverio:“ragionano in altro modo quelli della riva opposta alla nostra sull’Adriatico perché in mezzo a quel mare che sembra un golfo o forse il prolungamento fluviale dell’estuario del Po, in mezzo a quel mare passa una linea virtuale di demarcazione che separa il Mediterraneo fra oriente e occidente, fra latini e tutta una altra serie di segnali. Sono segnali di Bisanzio, del Medio Oriente o tolemaici, ma sono segnali più lontani ancora. Perché chi guarda il mare dalle coste dell’Albania vede come gli etruschi antichi il sole che cala nell’acqua e lo sente sorgere molto lontano dietro alle spalle, laddove è sorta quella stirpe alla quale apparteniamo tutti noi indoeuropei.” E per Muka le origini sono importanti, ma non si ferma a quelle, tramite le sue origini scruta, osserva, ricerca quella comune a tutti gli esseri viventi. A tal proposito scrive Gianluca Marziani: “densità narrativa, aperture misteriose, cicatrici indelebili, memorie stratificate, bellezza crudele… sono alcune delle principali scoperte che le opere di Aghim Muka Persia, 2006, tecnica mista su tela, cm 200 X 200

QUASIMODO e BOTTARI Là dove s’incontrano versi e colore, regna sovrana la creatività e l’ingegno e il rinnovato mistero dell’ut pictura poësis rivive nell’incontro dell’onirico mondo poetico di Salvatore Quasimodo con il lirismo cromatico di Lorenzo Maria Bottari. L’artista siculo, ormai da anni a Milano, ha «letto e restituito a noi per immagini e invenzioni coloristiche e moti di fantasia onirica, vite vegetali e acque e sorti umane rifluite nelle tele», alcune poesie del poeta siciliano, così come ben afferma Umile Francesco Peluso nel suo testo del catalogo pubblicato nel 2001 (L.M. Bottari, Quasimodo quasi sognato, casa editrice Editma). Bottari sogna Quasimodo, nonostante per il poeta «la vita non è sogno», e i versi divengono colore «lasciando trasparire la freschezza, che è espressione di eternità», secondo Alessandro Quasimodo e, inoltre, riferendosi alla trasposizione cromatica di Ed è subito sera, una delle poesie più significative della produzione quasimodiana, «dove ci colpisce il dolore universale, il senso della vita che è breve», Bottari riesce a scalfire la tristezza ed imprimere «una gioia universale». Gli sguardi riflessivi che Bottari indaga, per Quasimodo aperti alla ‘solitudine’, attraverso un corposo colore denso di vitalità, travalicano la chiave pessimista che vive nelle poesie di Quasimodo, dove «sarà vano il tempo della gioia» e dove i versi individuano colori dai «vapori di nebbia» e «qui nero il fumo degli incendi» e la quiete è raggiunta per mezzo di un «geloso silenzio». Quel silenzio generatore di rifles-

Maria Cristina Vicamini

Miniaci Art Gallery Via Brera, 3 - Milano Origini: Anima Mundi Alessandro Riva - 12 ottobre 2006 Albanian Feeling Giornata del Contemporaneo - 14 ottobre 2006 a cura di

Corpi MARIA CHIARA ZARABINI ambigui

Un incontro sognato

sione a cui invitano le arti sorelle. Simile tripudio d’intenti è all’apice dell’evento che si terrà alle SegretediBocca dove protagoniste assolute diverranno l’arte pittorica di L.M. Bottari che, coi suoi caldi colori, interpreta pittoricamente i testi quasimodiani e la dolce e melodica lettura poetica di Alessandro Quasimodo con la partecipazione di Maria Cristina Pianta ed altri amici. Rivive l’eterno, quando parola e armonia s’intrecciano per dare vita al mistero della beltà e della grazia. In una società così distratta che ha «smarrita ogni forma» e «rimane appena aperta l’indolenza, il ricordo d’un gesto, d’una sillaba, una come d’un volo lento d’uccelli… ci resta, forse il cuore…»

I modelli che Maria Chiara Zarabini plasma in rete metallica non trovano una facile definizione, anche se appare subito evidente la loro capacità di coinvolgere lo spazio circostante, trascinandolo in un movimento che evoca la gravitazione cosmica. Questi nodi, o pezzi, o gomitoli, o altre cose ancora, secondo le titolazioni dell’autrice, mostrano chiaramente la loro indole sociale, tendendo a far gruppo e ad assumere un significato collettivo. Eppure ognuno di loro, pur somigliando ai vicini, non ne ripete mai le movenze e sembra anzi non guardarli nemmeno, intento ad attorcigliarsi intorno alle proprie evoluzioni. L’insieme si presenta come un’anarchica tribù e ricorda i grumi di nuvole portati dal vento o i pezzi di materia scaraventati in aria da un’esplosione raggelata. Ma ogni singolo componente del gruppo, visto da vicino, assume la complessità di un ulteriore aggregato di forme e fa pensare alle circonvoluzioni di organi vitali o di effiorescenze. Pur rifuggendo da qualsiasi precisa riconoscibilità geometrica, ogni forma muove in maniera precisa lo spazio intorno a sé, come la scultura ha sempre saputo fare. Da lontano gli elementi possono apparire come scontrosi sassi, dotati di una volumetria ameboide ma solidamente determinati dai tagli metallici e quindi assimilabili al mondo minerale. Gli intrecci e le trasparenze delle reti moltiplicano però i contorni e li rendono mutevoli al variare della luce, conferendo alle forme la magica consistenza di liquidi o di veli tessuti. Infine, se ci si accosta molto agli intrecci, ogni superficie sembra fluire e confondersi nella successiva, tanto da annullare ogni

Antonio D’Amico

E la tua veste è bianca, 2006, olio su tela, cm 50 x 40 Ed è subito sera, 2001, olio su tela, cm 70 x 50

Segrete di Bocca giovedì 30 novembre ore 18,00 via Molino delle Armi, 5 - Milano

Labirinto, 2006, Museo Nazionale Villa Pisani a Stra - VE

confine, che svapora in una gassosa indeterminazione. La serie di figure si presenta danzando ai nostri occhi per svelarsi sempre diversa, in continua fuga da precise riconoscibilità e diretta verso indefinite mete di significato. L’operazione si limiterebbe a trasmetterci una negativa sfiducia nella comprensibilità del mondo, se a sorreggerla non ci fosse una grande fede nelle possibilità di plasmare i corpi. In fondo l’obiettivo di riunire insieme, in un solo oggetto, allusioni al mondo solido, liquido e gassoso equivale all’ambizioso progetto di scolpire un’immagine del mondo, che pertanto è visto come rappresentabile. Forse allora è la vastità dell’orizzonte intravisto a rendere l’autrice diffidente verso le semplificazioni razionali. Del resto la sua preferenza per le forme organiche esprime una partecipazione emotiva alla mutevolezza della vita, dove appunto non è possibile separare gli stati della materia se non nell’astrazione del laboratorio. I corpi ambigui non sono dunque espressioni di scettico riserbo, ma anzi di un’adesione tutta femminile per la verità di ciò che vive e muta.

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Guglielmo Monti Soprintendente Museo Nazionale Villa Pisani

Possibili Luoghi

GRAZIA GABBINI

AGOSTINO ARRIVABENE

Strati di tempo sottratti al passato, elevati a presente nel valore di traccia. Grazia Gabbini intesse memoria e suggestione, metafore antiche e intuizioni vibranti. La superficie contratta nelle rughe di forza dichiara un’esistenza profonda. Allude, richiama, accentra senza racconto. Non esiste narrazione. Non esiste una affermazione assoluta. La carta inoffensiva diviene materia di forte concretezza, quasi forgiata o plasmata come terra ardita, scolpita nei segni e nei risvolti, vissuta nella prospettiva del volume in rapporto allo spazio. E tutto intorno si permea di suggestione. È superfiNido, 2006, collage di carta e pigmenti filo di ferro, cm 19 x 19 x 19 cie ma si accredita di solidità corposa e si muta, nella concezione contemporanea, in essenza scultura. Fili di un reticolato aperto, tracciato inesistente o simbolo superstite di legami e strutture convenzionali, disarcionate dal tempo, erose dalla stessa consuetudine che le generò e infine approdate alla libertà per saggezza del destino. Forse intuendo l’altrui desiderio di appartenenza al corpo materia del suo lavoro, Gabbini ha dato vita ai “nidi”, naturale confluenza delle superfici e consequenza spontanea della tessitura a intreccio di volumi e vuoti, luce e ombra, percepibile e sottinteso. Nidi nella metafora di linguaggio, cellule vitali o agglomerati di convivenza nella leggibilità di traduzione. Nidi per riparare in solitudine o decollare liberi all’orizzonte dell’ignoto, solcare spazio e tempo, risolvere emozioni in luce.

Claudio Rizzi

CLAUDIA BIANCHI Il punto focale della ricerca di Claudia Bianchi è e rimane il dubbio ingenerato dall’idea di bellezza stessa, quel continuo interrogarsi ostinatamente e appassionatamente sul senso di ciò che vediamo. Per la pittrice la bellezza (ed in partiBocca di rosa, 2005, olio su tela, cm 50 x 40 colare la bellezza femminile) non è solo e semplicemente il frutto di armonia o perfezione delle forme, ma è primariamente lo stimolo fondamentale a scoprire il segreto, il mistero in cui essa stessa si cela: per lei la bellezza non è la fine di un processo (creativo), il risultato di una ricerca, ma bensì l’inizio di un’esperienza cognitiva, di un nuovo viaggio basato sul dubbio. L’immagine dipinta, spesso desunta dall’irreale o dal mondo patinato della moda, si carica, esaltandoli ed esaltandosi, di evanescenza, di transitorietà, di un effimero ideale privo di significati reali, che l’artista contrappone alla verità, all’autenticità, alla durata del “fare pittura” in quanto tale. Lo scar to che la pittura inevitabilmente (in)genera le consente di creare un meccanismo concettuale tutto giocato sull’implicita contraddittorietà dell’immagine, croce e delizia dell’intera modernità: la Black woman, 2005, olio su tela, cm 70 x 50 solida verità rivelata dalla pittura unita e contrapposta alla finzione. La sua pittura è certamente figlia dei media, della fotografia e della televisione in primis, ma altresì profondamente legata ad un’idea di pittura che dal realismo “sociale” caravaggesco arriva alla metafisica ideale ventroniana, al mistero visibile ed alle “verità

Il male di vivere II°, 2006, olio su tavola, cm 60 x 50,5

Il mistero può colpire ancora nel mondo immaginario che la pittura plasma. Cos’è in realtà che può giustificare l’attenzione d’un saggio ammiratore delle macchie paleolitiche di Joseph Beuys quand’egli tradisce la normativa del gusto stabilito come buono per lasciarsi attrarre da una grammatica opposta. Il mistero, che va ben oltre il linguaggio. Secondo i parametri che avevano determinato gli itinerari della mente visiva circa una trentina d’anni fa il mondo si trovava ad essere, per quanto incomprensibile, sostanzialmente semplice.Tutto s’era evoluto come per un rotolamento inarrestabile in una direzione univoca che prevedeva una corsia per chi era capace di capire. Conveniva essere dal lato giusto; l’altro forse neppure esisteva. E poi, inatteso nella sua decomposizione, crollò il muro delle certezze. Quel vallo berlinese costruito con modesti manufatti fu distribuito ai turisti. All’ansia da lui accertata si sostituì un’ ansia altra, sospesa. Gli esperti di storia della politica parlarono di ritorno allo status quo e i fatti sembrarono dar loro ragione poiché nei Balcani tornò densa e preoccupante la tensione anteriore al primo attentato di Sarajevo. Il tepore del pensiero debole, le certezze cortesi delle avanguardie, il conforto delle appartenenze ideologiche, l’edificio costruito con impegno e fatica si sfaldarono senza rumore. I cattivi rimanevano cattivi mentre i buoni diventavano meno buoni. Sicché i linguaggi tutti si trovarono nella posizione poco comoda di doversi verificare. Anche le arti furono costrette dal capriccio della storia a tornare allo status quo. Si ripartiva dal 1914. E ci si ritrovò d’un tratto nel turbinio degli ismi passati, cubisti e futuristi, dada e presurreali, metafisici e simbolisti tutti insieme, non nella medesima padella ma caduti nella stessa brace, che per giunta minacciava di spengersi. Se i ragazzacci della Transavanguardia avevano ritrovato il

Nido, 2006, collage di carta e pigmenti filo di ferro, cm 28,5 x 23,5 x 23,5

Idea di bellezza

nascoste” di Torrens, all’immaginario sensuale e irreale del reggiano Carlo Ferrari, “maestro” di vedere e sentire, non solo di pennelli. Alla volgarità spettacolare di una certa “cultura dell’immagine” l’artista contrappone l’inquietudine di un divenire in costante evoluzione: le sue figure non sono mai credibili, mai intaccate da quella corruzione che segna i volti e deturpa i corpi. L’immaterialità dell’immagine si rende concreta: tassello, anzi fotogramma immobile di un film mentale e ideale in

Printemp, 2005, olio su tela, cm 70 x 50

continua variazione e sempre pronto a negare se stesso, al pari di un’idea dipinta “come se” fosse realtà. Claudia Bianchi corre abilmente (e vertiginosamente) sul filo di una figurazione dall’equilibrio inventivo delicatissimo; una figurazione che tuttavia non sconfina mai nella serialità fotografica né nell’illustrazione patinata, tale e tanta è l’attenzione al “fare pittura”, ad accentuare, cioè, quello scarto tra immagine reale (fotografia) e immagine dipinta che solo la pittura può creare.

Alberto Agazzani

La camera incantata

diritto a riallacciarsi al Picasso degli anni più colorati o al Kubin degli anni più grigi, gli altri ragazzacci di Roma, i Balzati o i Frongia, si trovarono legittimati a guardare al manierismo e alla sua materia, a Mafai o a Scipione. Da alcuni anni già, poiché la superiorità dell’arte consta nella sua capacità di anticipare la politica, la cultura visiva, e quella musicale pure, s’era sentita postmoderna ma non aveva inteso ancora che cosa il termine volesse significare effettivamente. Si voleva credere nella purezza della propria forma ritrovata. Non s’era accorta che l’atmosfera s’era riempita d’ogni tipo di contagio, che il concetto stesso di contemporaneità s’era dilatato al punto da comprendere il passato più lontano assieme al mattino appena trascorso. Tornò legittimo tutto purché potesse essere portatore di poesia, che potesse sorprendere una fantasia che richiedeva l’abbattimento del tasso di torpore. Fu riscoperta come cosa utile la voglia di dipingere nei modi più classici possibili, non per essere retrò o citazionisti, per essere invece atavici e radicati. Fare i propri colori macinando le materie divenne un gesto di concentrazione e di meditazione. Questo è il mondo contraddittorio nel quale si è sviluppato Agostino Arrivabene e del quale egli è diventato negli anni testimone convinto e utile. Ecco il motivo ultimo del suo peregrinare fra le memorie di domani come in

Il cinghiale di Pitagora, 2006, olio su tavola, cm 60 x 70

un racconto di fantascienza, sposando al contempo i tremori simbolisti di Gustave Moreau. Ecco la spiegazione della sua trasformazione fisica in una figura d’artista conscio e sbalordito dal proprio percorso, dalla scoperta della luce come strumento e non solo come visione. La mania per l’oggetto piccolo va ben oltre il collezionismo da camera incantata, non è egli un maniaco rodolfiano ma un analista della poetica dei confronti minimi, delle stranezze totali racchiuse nei movimenti impercettibili. Oggetti improbabili costretti dal loro destino e dalla sua crudeltà sperimentale a coabitare, a sopportarsi, a supportarsi. Pesi e materie diverse che solo l’alchimia della pittura riesce a portare dal mondo quotidiano e forse pure banale in una dimensione epica, in un tempo delle trascendenze. E’ la natura fra la vita e la morte, non affatto quindi la natura morta, il teatro degli avvenimenti. E il rospo seduto sull’uovo, mentre si guarda allo specchio, è l’immagine di un po’ noi tutti, stupito e gongolante, non del tutto infelice perché attorno a lui il mondo della fantasia sta tornando a celebrare la possibile sua armonia, preziosa.

Philippe Daverio

SpazioBoccainGalleria mercoledì 25 ottobre, ore 18,00

Dal catalogo edito nel 2005 - Mirabilia Naturae

Vanitas con zolla di viole, 2006, olio su tela, cm 57,5 x 74

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www.agostinoarrivabene.it

TIRANAPRISHTINA PROJECT 2005

Anri Sala, No Baraga No Cry, Photo, 2003

The willingness to react in a country like Albania, where an artist is supposed to stay for a year, is unavoidable. Ex. While traveling to Prishtina for participating in an exhibition, reflects on the fact that by plane it takes just 25 minutes. In this way, one averts the 2000 hooks of Kukës “highway” and a not so nice to experience human landscape. Getting back to our example, the artist finds the inspiration and presents a project in between the two countries.This is the idea of Florian Agalliu, coordinator and organizer of art events. He decides to realize it through a cycle of video-reports, which seems to me quite a good idea. At this point, I decide in parallel to realize a project with the same title with no connection to the video-report, but availing my self of the participation of several Albanian and foreign artists.Therefore, the project TiranaPrishtina (the one of mine)

MIMMO SORMANI

could not get in direct contact with it, to get informed about its activities through the web. The whole project ended in September 2005 and it with this catalogue, which was planned as part of the project, since the very beginning of it. The structure of the catalogue is formless and disordered in presenting of the artists and their works. This means that the date and the place of birth rarely coincide with the given artist. Some works are placed next to the name of another artist.This is order to create a single image of the object, the catalogue, and get the absolute concentration on the artist’s work. In this way, generates a unique network of research and a full presentation of what this project aimed to express. For the project, TiranaPrishtina several artists contributed, journalists, critics, students, donors, assistants etc. Without their help, this project would not been realized. Even with the difficulties one can face in Albania when realizing such initiatives, which are often determined as lack of demureness and hooliganism, this project managed to finalize and energetically affect the cultural life, quite paralyzed, of a country like Albania, where the market culture (fundamental and abusive) is getting capital forms. All of us endeavoured to offer, through it, another product; to play with a provincial and incriminated mentality; to bring to the Albanian audience an alternative and urban version of art and facing of the different reactions of media and the public it self.The project TiranaPrishtina was one of the toughest but at the same time one of the nicest experience from which one can arrive at different conclusions. Starting

aimed to create a retrospective on the work of the Albanian artists from the mid 90s, a time when Edi Rama (today Mayor of Tirana) started, for the first time, to create a structure in which the students of the Academy of Arts in Tirana could get familiar with the visual art. This approach was of a great importance for young artists such as Anri Sala, Adrian Paci, Alban Hajdinaj, Gentian Shkurti etc. Simultaneously, the project TiranaPrishtina wanted to build up collaboration between very young and yet unknown in Albania, monitoring of the art exhibitions through the Albanian media and different workshops, conferences, round-tables etc. This project became a tool of information to help the audience of a city like Tirana, which still suffers the so-called hermetic system of communication. In the 11 presented projects, I aimed to present the work of the Albanian artists but not only. At the same time, I wanted to realize other projects such as “The weeks of Education” where the students of the Academy of Arts in Tirana had the chance to attend conferences and colloquies with personalities of the art world like Ismail Kadare, Angjelin Prelocaj. The Kino-Forum in Sazan Island where the soldiers had the chance to see documentaries and participate in conferences about the legends of the contemporary art such as Robert Crumb, Mike Patton,Terry Zwigoff etc. The project TiranaPrishtina was first presented on-line in march at www.tiranaprishtina.com, in order, for all those who

Ceramista a Vallauris

esisteva già da decenni una fiorente industria ceramica. Picasso insieme a sapienti artigiani e altri artisti che frequentavano l’Atelier Madoura dei coniugi Ramié, apprende l’arte del tornio e utilizza le terre come strumento della sua arte producendo numerose opere ceramiche conservate nel museo cittadino, al Museo Picasso della vicina Antibes e in diverse collezioni private. Da questo momento Vallauris diventa un centro fiorente dove il bel mondo del tempo (Alì Khan e Rita Hayworth si Autoscatto di André Villers nel suo giardino-studio di Mougins, maggio 2005 sposano qui nel 1959) si mescola con i virtuosi di penna (Gide, Incastonata fra il golfo di Juan e le colline Malraux, Cocteau…) e gli artisti di tornio della Costa Azzurra, si trova Vallauris, (Balthus, ammirato da Gide e da Picasso). ridente cittadina passata alla ribalta interChe cosa resta oggi di quegli anni ruggennazionale grazie alla presenza di Picasso ti? Un vivace centro artistico con la dal 1947 alla fine degli anni ’60. In questo Biennale Internazionale d’Arte Ceramica, luogo, ricco di argilla rossa e terra bianca, numerosi laboratori e botteghe, artisti oggi rinomati, ma alle prime armi nel periodo d’oro e giovani leve. Il 13 aprile 2005 mio padre Mimmo, che era in villeggiatura nella vicina Juan les Pins, decide di conoscere Gilbert Portainer, noto ceramista, vincitore di numerosi premi (Faenza, Bruxelles e Monaco) e fondatore del gruppo Le Tryptique con Albert Diato e Francine Delpierre. Davanti all’Atelier chiuso, ha la fortuna di incontrare André Iperti (anche lui lì per incontrare l’artista) che, dopo aver telefonato all’interessato, informa mio padre sulla sua assenza per un viaggio in Inghilterra. Iperti però è curioso e chiede le ragioni della visita e così Mimmo gli presenta il suo lavoro e le varie pubblicazioni, da quel momento nascono improvvisamente un’amicizia e un fecondo periodo creativo. André, infatti, è l’ideatore e l’animatore della Fondazione Sicard-Iperti, intorno a lui orbitano amici, artisti e ceramisti del calibro di Jean Derval Vaso a fiore, raku

Il gomitolo, vaso faïence + ossidi metallici

(esordiente all’Atelier Madoura nel 1949), di Roger Capron (noto per le decorazioni in ceramica e gres nello storico Hotel Byblos a Saint Tropez e le grandi sculture raku), di André Villers che nel 1953, a soli 23 anni, diventa il fotografo ufficiale di Pablo Picasso e lo immortalerà in tanti ritratti famosi. Molti altri artisti come Cocteau, Giacometti, Le Corbusier, Arabal e Mirò, saranno colti dal suo obiettivo, nel suo stile inconfondibile, capace di svelare le espressioni più intime che stanno dietro

Heldi Pema, Open Space 1, Photo, 2005

from the manners of corrupting the foundations or the compromises with the state institutions; the transformation of art into pure business; the dissolution of new spaces and learning to accept the existing of a group of vicious people who can make ‘The deals’… However, these phenomena were not ‘born’ in Albania, the same as the project TiranaPrishtina.What can spring up is the understanding and the coexistence in a system, where indeed the art is nothing else but a game. (don’t immerse it with the kids game!) Fani Zguro

Armand Lulaj, C.I.A PowerShift, Performance, 2002

all’immagine. Monsieur Iperti ha introdotto mio padre nella sua cerchia di amici artisti e si è creato un ottimo rapporto con tutta la nostra famiglia. Nel suo frequentatissimo Atelier papà si è messo all’opera producendo in poco più di un anno numerose ceramiche con i materiali locali, dapprima una serie in terra bianca, successivamente in terre rosse o refrattarie con la tecnica raku che prevede l’estrazione dal forno dei pezzi ancora incandescenti per modificarli e dargli la forma. In questi ultimi mesi si è cimentato con il modellato a bassorilievo e forme astratte tridimensionali. Per la decorazione pittorica usa ossidi metallici, smalti e ingobbio con una tecnica originale che alterna il sopra e sottosmalto. Mimmo Sormani ha trovato nella Costa Azzurra una seconda patria, e da instancabile creatore, esprime nelle sue ultime opere sia il retaggio della passata esperienza maturata a Faenza e in Brianza, sia la nuova realtà di cui si è intriso facendo suoi il retaggio cubista, i colori accesi e le materie più corpose. Ormai cittadino d’elezione a Vallauris, André Villers decide di dedicargli una serie di bellissime fotografie che lo ritraggono nel maggio 2005, e testimoniano di questa nuova tappa nella vita di mio padre.

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Marco Sormani Parigi 5 settembre 2006

Profondo rosso, gres d’arte e smalti

PLEVANO INCONTRA Ho conosciuto Giacomo nel 1999, nella sua libreria in Galleria Vittorio Emanuele a Milano. Ero in compagnia dei pittori Giulio Santabarbara e Sergio Dangelo che erano venuti all’inaugurazione di una mia personale con concerto jazz di Guido Manusardi amico di Sergio, questo per spiegare come il filo dei contatti artistici sia misterioso e provvidenziale. Giacomo è un uomo che ti fa sentire subito a tuo agio, alla pari, la sua disponibilità è autentica come il suo desiderio di comunicare, infatti mi ha dato subito il suo biglietto da visita dicendomi di chiamarlo quando volevo. Da questo primo incontro è nata la mia amicizia con la famiglia Lodetti. Dopo alcuni giorni Giacomo è venuto nel mio studio, ha visto le grandi opere astratte, ma si è soffermato su una serie di Donne allo specchio, che richiamavano le rocce della Gallura in Sardegna, e subito mi ha proposto una mostra nella sua libreria e la pubblicazione di un catalogo, prima che se ne andasse gli ho regalato un video con un’intervista fattami dalla TV svizzera, in cui parlavo, a ruota libera e senza censure dell’arte, del mercato, del successo, di una mega truffa ai miei danni, insomma della tragicommedia umana. Il giorno dopo alle 8 di mattina mi chiama sul cellulare per dirmi che sie era divertito come un matto nell’ascoltare le mie elucubrazioni e mi chiede se voglio fare il direttore artistico della rivista Arte incontro in libreria da lui edita. Gli dico che non ho mai scritto un articolo, non me ne intendo, ma lui insiste: “sei libero di fare quello che vuoi, io ti presento nel pros-

Giacomo Lodetti

simo numero con un testo di Riccardo Scognamiglio, psicologo dell’arte del DAMS di Bologna. E qui mi invento un ruolo che mi avrebbe potuto stimolare e rendere utile alla testata: dare voce, far parlare gli artisti in prima persona del loro fare, delle motivazioni, delle loro problematiche senza mediazioni e censure di sorta e soprattutto senza alcun costo. E così inizia la stupenda avventura di visitare gli studi degli artisti che mi trasmettono emozioni e poesia. Questo è il dono immenso che Giacomo mi ha fatto dandomi la possibilità di incontrare grandi maestri, parlare con loro, scambiare idee, opinioni, stimolandoci a vicenda sulle cose dell’arte. E così in questi sei anni ne sono successe di cose, di mostre in libreria o nelle Segrete di Bocca, di presentazioni di libri, cataloghi, e tutto con l’inesauribile motore che è la famiglia Lodetti, grazie alla moglie Donatella e ai figli Monica, Giorgio e Gabriele. Basti pensare alla mostra di Giorgio Gaber nella Loggia dei Mercanti con centinaia di artisti e il bel catalogo o le diverse mostre sul Nuovo Costruttivismo. A volte mi chiedo come una famiglia riesca a promuovere una simile macchina culturale in una Galleria Vittorio Emanuele ormai svuotata dal suo compito storico e ridotta a una serie di negozi banalmente commerciali, in una città lasciata al suo destino di inquinamento e rumore, di ansiogena velocità nevrotica che ci attanaglia tutti. E che dire dell’imponente pubblicazione voluta da Giacomo: Il Cèzanne degli scrittori dei poeti e dei filosofi a cura di A. Negri, E. Franzini e G. Cianci, frut-

GIACOMO BENEVELLI

L’altra storia della realtà

Recentemente alla ci per forme più grandi. La loro forma, perpeLibreria Bocca è tua un equilibrio classico e tende a dimostrare, stato possibile am- a chi le osserva, alcuni rapporti spaziali equilimirare deliziosi e brati. La fluidità del loro volume rafforza tale curiosi oggetti-scul- sensazione. Nella mia intenzione la loro forma tura che destavano non dovrebbe sollecitare soltanto una sensal’attenzione di tutti. zione estetica, ma la mia visione di bellezza e Multiplo split, 1975, bronzo Piccole forme bron- di equità formale come simbolo di una misura zee, apparentemente indefinite, che suscita- umana. Perciò rifuggo dal contingentale, dalla vano il desiderio di carpirne gli aspetti noda- descrizione dei particolari, dagli effetti decorali, per questo motivo ho voluto incontrami tivi, cercando di adeguare la loro forma alla con Giacomo Benevelli. qualità della materia con cui sono realizzate». A.D.: Nelle sue opere c’è sempre una A.D.: Sociologicamente in quale ‘ambito’ si costante soluzione di continuità formale che colloca la sua ricerca e quale ‘forma’ innovaemerge, o almeno così sembra, da un unico tiva apporta nel panorama della scultura motivo ispiratore. Mi può dire qual è la sua conteporanea? fonte d’ispirazione? G.B.: «L’arte applicata è essenzialmente ornaG.B.: «Più che di ispirazione parlerei di ricerca. mentale. Il valore intrinseco delle mie forme Nel senso che ogni mia forma è collegata alla non si pone come complementare di qualcoprecedente e condiziona a sua volta quella che s’altro, semmai può convivere con qualcos’altro. segue. L’ispirazione viene alimentata continua- Grandi o piccole che siano, la loro realizzaziomente dal fare. In questo processo creativo mi ne avviene attravero l’applicasforzo di perfezionare la forma della scultura zione delle regole operative che ogni volta eseguo. Lo faccio cercando il che da sempre hanno consuo inserimento nello spazio in modo che traddistinto la scultura. da qualunque parte la si osservi risulti Sono modellate con la conclusa. Come dire risolta. piccola o creta, plastificate col gesso, grande che sia il problema non fuse in bronzo o scolpite cambia. Quello che cambia è il nel marmo. La loro forma punto di osservazione. risulta definita dal contorCertamente tutto ciò ha una no del loro volume così sua “matrice iniziale”. Un qualcome le staute d’ogni cosa di indefinibile che risiede tempo. La loro parte connell’insieme delle acquisizioni cettuale non è esplicitamenricavate dall’osservazione delle te dichiarata ma tutta da cose. Infatti, definire le mie intuire. Ossia, non vincolo il forme “astratte” è improprio, le fruitore ad un teorema precodefinirei, piuttosto, come una stituito e inapellabile. Confido “ulteriore” visione della realtà». sulla sua immaginazione e A.D.: Le sue sculture-oggetto connelle sue capacità interpretengono in nuce il fine ultimo di tative. Non so dire cosa entrare nelle abitazioni di chi le colleporta o ha portato di Liaison 208, 1992, bronzo ziona e le apprezza. Qual è il loro nuovo la mia opera nel messaggio? panorama della scultura contemporanea; tra G.B.: «La loro piccola dimensione induce a l’altro non considero indispensabile l’aspirazioconsiderarle “oggetti”. In realtà sono soltanto ne alla novità. Mi preme invece che, in quanto sculture.Vale a dire delle forme con una prete- comunque inediti, i valori espressi risultino, a chi sa espressiva autonoma. Possiamo tutt’al più li osserva, autentici». considerarle come dei minuscoli progetti plasti- A.D.: Nella sua posizione, ponendosi quale

to di un anno di seminari all’Università Statale di Milano, sull’interpretazione filosofica, letteraria e poetica del grande artista da parte di autori come: Rilke, Wolf, Stein, Hemingway, Lawrence, Bonnefoy, Heidegger, Ponty, Lyotard, Deleuze. Un corso che avevo frequentato con grande interesse data l’immensa portata del suo messaggio per l’arte moderna. E come dimenticare le fanstastiche serate quando Giacomo arrivava trafelato, stanco, persino sotto Natale con la libreria ancora piena di clienti, pur di presentare una mia mostra con jazzisti e poeti! Un giorno mi disse: «Dietro tutta questa attività, c’è un’idea, un progetto e quando lo spiego, l’interlocutore rimane affascinato.». Uomo dall’intelligenza multiforme, generoso, imprevedibile e bizzarro, sensibile a captare le novità artistiche del momento, un moderno imprenditore culturale armato di coraggio ed entusiasmo che fa accadere le cose, le crea con una sua personalissima convinzione. Le sue energie ultimamente le impiega a salvaguardare le librerie storiche d’Italia, di questa povera Italia senza memoria, in balia di volgarità e mostruosità dilaganti. Ecco dunque la Libreria Bocca nel centro di Milano, con i Lodetti in prima linea a farci intendere che la poesia, la bellezza, l’arte, l’amicizia, la comunicazione, sono ancora possibili, dove la vita di tutti i giorni non è solo consumo, rumore, inquinamento, in questo circo insulso e falso. Si respira aria pura di montagna entrando alla Libreria Bocca, l’occhio si dilata attento sulle opere alle pareti, sul soffitto, sul pavimento, sui libri d’arte appoggiati un po’ ovunque, e si intuisce

che la vita è un dono e bisogna fermarsi per goderne l’immensa bellezza che ci offre. Ma dimmi, caro Giacomo, ora che hai compiuto i sessant’anni qual è il tuo segreto? «Forse quattro femmine. La prima mi ha dato la vita, mia madre, la seconda l’amore, mia moglie, la terza il successo, la libreria, la quarta, una figlia o una nipotina, la vecchiaia serena, ma di certo il segreto è stato investire sempre nella cultura.

erma bifronte, quali sono stati i suoi modelli fra gli artisti? E quali giovani artisti la guardano? G.B.: «Dagli idoli paleolitici a Brancusi, abbiamo alle spalle circa 35000 anni di attività scultorea. Tutti noi siamo in qualche modo figli di questo immenso patrimonio prodotto dall’uomo e operiamo con gli occhi colmi di forme artefatte che col tempo si sono accavallate a quelle naturali. Chi come me aspira ad aggiungerne altre si mette in un grosso guaio, ad esempio, può capitargli, come dice lei, di apparire come un’erma bifronte solo perché nella sua evoluzione affronta opposte direzioni. Per contro, c’è chi esaurisce le sue energie creative replicando fino alla fine dei suoi giorni la solita forma e non si capisce bene se è per povertà espressiva o scelta strategica. I giovani scultori?

Non so quanti di loro mi guardino, magari qualcuno c’è. Ma il problema per loro è un altro, in generale sono ormai disabituati a cercare a posteriori le ragioni di una forma, per loro la risoluzione sta nell’idea e nella sua enunciazione teorica prima ancora della sua realizzazione. Occorre tuttavia precisare che il rapporto tra lo scultore e la società è cambiato, un tempo le opere venivano richieste con un tema specifico perché gli istituti religiosi e quelli laici usavano l’arte per celebrare il loro potere e gli artefici creavano su commissione. Oggi creano sopratutto per se stessi, nel migliore dei casi lo fanno sostenuti da un mercante che si incarica di trovare gli acquirenti».

Giacomo ritratto da Wolfgang Alexander Kossuth

Antonio D’Amico

SALVATORE LANZAFAME Il paesaggio della Salina di Margherita di Savoia, le sfumature cromatiche d’intrigante suggestione mistica, sono le radici sulle quali Salvatore Lanzafame, giovane artista siciliano, fonda lo studio scientifico delle luci, rapito da un fascino che diviene turbinio emozionale. Turbinio mirabilmente espresso nei dipinti in cui, se il paesaggio è fonte d’ispirazione, tuttavia rimane sempre un pretesto per dare libero sfogo al colore, a quelle vibrazioni materiche che sono il centro indiscusso dell’opera dell’artista siciliano. Essa è costituita infatti, da diversi strati sovrapposti a definire simbolicamente i fogli della memoria, codici del tempo impressi nei luoghi ritratti, sintesi di una sensazione vissuta, esperienza emotivamente motivata nell’opera d’arte, nella sua limpida manifestazione. Protagonista, il colore è luce abbagliante o buio inquietante: i rossi e i blu sono tempesta e quiete, fuoco e acqua, terra e aria. Nella pittura di Salvatore Lanzafame, d’indiscutibile eco mediterranea, si rivela dirompente l’ambivalenza esterno-interno: il paesaggio è luogo esterno che si offre libero allo sguardo dei passanti, come si offrì a Federico II di Svevia quando giunse presso la salina in terra di Puglia («Se il Signore avesse conosciuto questa piana di Puglia, luce

Suggestioni dalla salina

dei miei occhi, si sarebbe fermato a vivere qui»), eppure innumerevoli e nascosti, monadi sono gli sguardi che su di esso incantati si posano. Il colore è sintesi, crocevia: custodisce i due elementi che nelle sue infinite pieghe si snodano, si sovrappongono, si allontanano.

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Tiziana Rasà

Salina, 2006, olio su tela, cm 70 x 70

MOVIMENTO NELLE SEGRETE DI BOCCA Galleria Movimento

Artisti selezionati edizione 2006

Libreria Bocca

Silvia Abbiezzi

Bruno Cerboni Bajardi

Massimo Bollani

Gabriele Buratti

Sonia Ceccotti

Marco Cerutti

Laura Chiara Colombo

Antonietta Corsini

Antonio Dell’Isola

Olson Lamaj

Claudio Magrassi

Octavia Monaco

Fabio Presti

Maddalena Rossetti

Jeannette Rütsche

Alessandro Stucchi

Giuria Adriano Altamira - Sergio Angeletti - Aldo Benedetti Philippe Daverio - Victoria Fernandez Alessandro Papetti - Luca Tommasi Comitato Promotore Raphaelle Blanga - Antonio D’Amico - Victoria Fernandez Sara Fontana - Giorgio Lodetti Cristiano Tassinari

Tiziana Vanetti

SpazioBoccainGalleria mercoledì 4 ottobre 2006 ore 18,00 serata di premiazione

www.francotarantino.com

Sul filo dell’arte a cura di Stefano Soddu

EDOARDO FRANCESCHINI

vare la sua primigenia tensione. La lunga storia di immagini dipinte da Franceschini, dalle prove degli anni Cinquanta ad oggi, è un territorio di forme che ripropongono in modo diverso gli impulsi e i dinamismi del colore vissuto come energia incontrollabile. Se si confrontano le differenti fasi della sua ricerca si avver te una straordinaria persistenza di forme impulsive legate all’ansia di fissare i labirinti interiori del paesaggio, percepito in modo circolare e sfuggente, costruzione astratta dei tragitti conflittuali della memoria. Eppure nulla è mai dato per acquisito, tutto è rimesso sempre in azione, dipin-

gere è infatti per Franceschini un atto poetico che vola altrove ma anche coscienza critica di uno spazio in divenire che disgrega le false cer tezze, piacere di sconfinare oltre il visibile, verso nuove visioni. È quanto accade nelle opere degli anni Novanta dove più for te è l’impatto cromatico rispetto al clima lirico ed evocativo dei lavori precedenti, più aspra è la configurazione nei confronti del ritmo fatto di slanci e di misure, bilanciate tra zone sature di segni e vuoti luminosi che coincidono con il bianco. Franceschini inventa equilibri tra movenze diversificate del colore, controlla la superficie con gesti veloci e impulsivi, come se volesse far partecipe il lettore dei suoi spasmi immaginativi, di quelle tensioni che non hanno altra giustificazione che quella del proprio affioramento. Orientarsi negli eventi di questa pittura è come saltare rapidamente da un punto all’altro e seguire le acrobazie del pennello che scatta, si ferma, riprende a graffiare la superficie giocando liberamente con i reper ti del vissuto, coinvolto nel fermento indescrivibile della fantasia. Appassionato di musica e interessato a cogliere i sottili rapporti tra colore e suono, Franceschini ha dipinto emozioni sonore, note cromatiche che trasmettono l’immediata sensazione delle forme in divenire. Con sensibilità e raffinata competenza ha colto infinite corrispondenze tra vibrazioni cromatiche e ritmi segnici. La musica sorella della pittura, recita infatti il titolo di una indimenticabile mostra di carte

foto di Enrico Cattaneo

“Tutto è ancora in gioco per quelli della mia generazione, ma soprattutto per i giovani impegnati sul cammino futuro, per i pittori liberi di credere che non v’è miglior cosa della sottile ver tigine che pervade il senso dell’opera, dal primo all’ultimo gesto. La tradizione è tutto ciò che non abbiamo dimenticato, è la speranza di poter guardare al futuro attraverso i colori che passano vibrando tra le dita, come materia misteriosa e fatale che accompagna il desiderio di raccontare i segreti della mente attraverso il flusso istantaneo delle immagini. La pittura è come la vita, non ha bisogno di molto per esserci, per fare quello che bisogna fare, il colore è un respiro nel respiro di tutti, un filo che corre fino all’estremo spasimo del suo desiderio di lasciare tracce durature”. Questi ultimi pensieri di Edoardo Franceschini possono essere considerati il testamento poetico di un ar tista che ha vissuto dipingendo intrighi del colore e scorrimenti del segno con stile inconfondibile, con quella liber tà d’azione del gesto che fissa sulla superficie tracce di percorsi interiori, brevi esplosioni di fantasia a caccia di orizzonti impossibili. Franceschini ha sempre creduto nella pittura come scintilla quotidiana dell’arte, origine e destino di una scelta sostenuta fino in fondo come unica possibilità di dar voce a folgoranti apparizioni, voci profonde del paesaggio immaginario, traiettorie del fantastico percorse d’un fiato, come si percorrono le scie di visioni non ancora visibili. Se la pittura è un cammino verso l’inconscio il colore ha la capacità di scavare nel profondo, mettendo a fuoco l’emozione dello spazio, il senso dell’incognito, la forma sfuggente dell’immagine che nasce in un modo che è difficile immaginare al di fuori del pensiero pittorico. Si tratta di un fervore cromatico che anima l’evento del dipingere, qualunque sia lo stato d’animo che assale l’ar tista davanti alla superficie vuota: la luce trema d’azzurro, le macchie sono dominate dal rosso, le linee fremono di verde sotto l’azione del nero che scivola sempre sicuro del suo tragitto. Gli intrighi dello sguardo divorano lo spazio tra fili vaganti, segni oscillanti e gorghi di colore dove l’occhio s’immerge e si eccita, di volta in volta, per ritro-

presso la Biblioteca dell'Accademia di Brera (2001) con un intervento pianistico di Giorgio Gaslini. In quell’occasione Franceschini ha suscitato emozioni musicali attraverso una serie di partiture dipinte con l’istinto di chi affida alle improvvisazioni del colore le oscillazioni imponderabili del suono. In precedenza, nel 1988, in uno scritto a proposito di Ravel, Roberto Sanesi aveva giustamente avvertito che Franceschini non dipinge la musica ma fa una serie di esercizi, organizza i ritmi del segno e del colore in una costruzione parallela. A questa identità di compor tamento si ricollegano le emozioni cromatiche che emergono soprattutto dal reper torio delle sue car te, esse testimoniano la gestualità istintiva con cui Franceschini ha fissato appunti veloci per i suoi viaggi musicali, infiniti pensieri dentro il colore, essendo la pittura la vera musica della sua vita.

Claudio Cerritelli (Milano, luglio 2006)

La rubrica di questo numero è dedicata all’amico e grande artista Edoardo Franceschini recentemente scomparso

29 Scoglio di Quarto, via Ascanio Sforza, 3 - Bazart arte contemporanea, V. le Col di Lana, 8 - Milano, tel. 0258317556 - 3485630381 - e-mail: [email protected] - www.bazart-scogliodiquarto.com

foto di Andrea Valentini

Sonorità cromatiche In ricordo di Edoardo Franceschini

PASQUALE

DE

LUCA

[email protected]

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