IL MEDIOEVO: ECONOMIA, POLITICA E SOCIETÀ di Luciano Catalioto
1. L’eredità tardoantica Tracciare una parabola omogenea e sufficientemente documentata della vicenda storica di Messina nei mille anni del Medioevo ha da sempre rappresentato un compito particolarmente impegnativo, non solo per la perdita materiale di fondamentali testimonianze, come meglio si vedrà, ma anche per via della difficile lettura di un’ampia letteratura storica che, almeno sino agli anni Cinquanta del Novecento, risulta permeata da una fuorviante tendenza celebrativa. Una prospettiva storiografica municipalistica, alimentata dal confronto tardomedievale fra Messina e Palermo per il predominio nell’isola, che ha sedotto anche annalisti e storici acuti come Caio Domenico Gallo e Piero Pieri, il primo «accecato dal suo smisurato orgoglio cittadino»1, l’altro propenso ad accomunare impropriamente Messina alle più potenti città marinare che operavano nel Mediterraneo e in Oriente tra XII e XIV secolo2. La questione, peraltro, si complica per l’analisi storica dei secoli altomedievali, dal momento che quasi del tutto inesistenti sono le fonti utili alla ricostruzione dei quadri demici, politici e socioeconomici del centro dello Stretto negli anni cosiddetti “barbarici”, compresi tra la caduta formale dell’Impero d’Occidente nel 476 d.C. e la riconquista giustinianea della Sicilia avviata da Belisario nel 535, epoca di cui sopravvivono anche tracce rare e assai frammentarie dell’attività artistica e monumentale3. Tuttavia, la realtà medievale di Messina è, nel complesso, caratterizzata da alcuni tratti distintivi che si possono leggere come strutture di lunga durata, cioè come concetti e dinamiche che, per usare un’espressione braudeliana, il tempo stenta a logorare e che, pertanto, esercitarono nei secoli di mezzo un’azione costante e determinante nelle vicende economiche, politiche e sociali. La felice posizione geografica e la particolare conformazione fisica del porto, ad esempio; il collegamento serrato e quasi sempre ininterrotto con le piazze commerciali della Calabria costiera e con le sue terre, che produsse la realizzazione nell’area dello Stretto di una sorta di economia integrata; la genesi, infine, e la lenta affermazione di un’élite urbana dotata di tratti distintivi propri, frutto di una gestazione cui non erano state estranee sollecitazioni esterne e il condizionamento di dinamiche sociali particolari, talvolta caotiche. Sicché, da un certo punto di vista, la storia medieva-
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A sinistra: Frontespizio de Gli annali della città di Messina (1755) di Caio Domenico Gallo e, a destra: Veduta della città di Palermo. All’illustre annalista si deve la realizzazione di un’opera monumentale, che ancora oggi risulta interessante, pur con le necessarie cautele critiche, per la conoscenza della storia della città. Lo scritto esprime una vigorosa coscienza identitaria, alimentata dal confronto tardomedievale tra la Città del Faro e Palermo per il predominio nell’isola.
le di Messina dovrebbe avere inizio il 10 ottobre 1060, quando cioè la conquista normanna avrebbe «reinserito l’isola nel milieu politico e culturale dell’Europa cristiana»4 e nel momento in cui prendeva avvio la costituzione di una società, presto forte di 20-25.000 componenti, nel cui ambito sarebbe sorta e si sarebbe espressa un’élite sempre più definita e consapevole. Eppure, per meglio comprendere la complessiva vicenda di un’area di cui per molti aspetti, siano stati essi di natura economica come di ordine strategico-militare, è risaltata la centralità, occorre risalire indietro nel tempo, pur nella desolante rarefazione delle testimonianze. Informazioni molto generiche su Messina sotto la dominazione vandalica e gota (476535) possiamo trarre dal Bellum Gothicum di Procopio di Cesarea5, che tuttavia riferisce solo come la città fosse retta da un comes civitatis, il quale, analogamente a quanto avveniva a Palermo e a Lilibeo, era posto alle dipendenza del comes Syracusanae civitatis, che ricopriva anche la funzione di comes provinciae Siciliae. La funzione del comes civitatis, evidentemente, era strettamente collegata alla difesa, dal momento che sin dai tempi di Teodorico l’amministrazione finanziaria era gestita da defensores eletti dalla popolazione e da curatores di nomina regia, ai quali erano sottoposti i curiales, incaricati tra l’altro dell’esazione delle imposte. Dalla stessa fonte ricaviamo che la Sicilia, al tempo di Totila, attraversò un periodo di rinascita economica e sociale dovuto alla relativa smilitarizzazione del territorio e all’incentivazione di nuovi insediamenti rurali, cui fu conseguente l’incremento delle attività agrarie. Accanto ai patrimonia della chiesa e ai latifundia imperiali, cresce il numero delle massae, territori concessi a conductores che ne curavano la mes-
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sa a frutto sotto il controllo di actores delegati dal potere centrale. Delle massae, avviate in Età imperiale e rinvigorite durante quella gotica e poi bizantina, rimane memoria storica nella toponomastica del territorio di Messina, che all’epoca fu sede di una consistente schiera di burocrati regi e ospitò, accanto ai piccoli commercianti e artigiani vincolati alla propria condizione, un gruppo collocabile al grado medio della scala sociale cui si attinse per la composizione di curiales, susceptores e vindices6. La desolante lacuna documentaria sulla vicenda di Messina barbarica e bizantina e la labile sussistenza di testimonianze archeologiche relative ai circa quattro secoli che vanno dalla caduta dell’Impero romano d’Occidente allo sbarco arabo dell’8277, non hanno mai consentito alcuna ricerca di rilievo, come già lamentato un trentennio fa da André Guillou8. Le sue sconfortate parole fanno eco ai pesanti giudizi espressi da Michele Amari e, in Età a noi più vicina, da studiosi del territorio e storici dell’arte quali Biagio Pace, Giuseppe Agnello e, con espresso riferimento al centro dello Stretto e alla colpevole indifferenza verso probabili reperti d’Età bizantina, da Paolo Orsi9. La struttura fisica non pare subisse trasformazioni sostanziali rispetto alla urbs romana, quando l’abitato intra moenia si estendeva tra i due torrenti principali, il Portalegni e il Boccetta, e aveva come epicentro la zona dell’attuale Duomo10, probabilmente sede della vita sociale e di prestigiose residenze forse simili alla ricca casa di Heius
Scorcio paesaggistico dell’attuale Massa San Nicola. Le cosiddette massae, insediamenti rurali connessi alle attività agrarie, sorsero in Età imperiale romana, costituendo per buona parte del Medioevo una risorsa per la vita della città. Di esse rimane ancora traccia nella toponomastica cittadina.
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Mamertinus ricordata da Cicerone11 quando Messina era una delle 68 oppida civium romanorum e tra le 8 «libere ed immuni»12.
2. Sotto le insegne di Bisanzio La posizione strategica di Messina, presidio irrinunciabile e base ideale di raccolta e smistamento delle truppe destinate alla guerra condotta da Belisario in terraferma, decretò la sua scelta come principale presidio militare sin dalle prime fasi della Guerra greco-gotica, quando il generale bizantino potenziò la guarnigione presente in città e, verosimilmente, anche le fortificazioni murarie13. Lo stratega bizantino sarebbe poi tornato a Messina per riorganizzare l’esercito nel 54714, un anno prima dell’ultimo assedio della città ad opera dei Goti, quello condotto da Totila, che alla testa di un esercito disorganico non riuscì ad avere ragione della difesa della città, organizzata dal comandante bizantino Domnenziolo, e si limitò a saccheggiare il territorio peloritano prima di essere ricacciato definitivamente oltre lo Stretto dalle nuove schiere di oplites giunte da Costantinopoli15. Sebbene la pacificazione e il ritorno nell’alveo della romanitas comportasse per l’isola la costituzione di una nuova stratificazione sociale, una notevole autonomia giuridica e un incremento delle attività agricole (soprattutto granarie) e commerciali, Messina era destinata a svolgere un ruolo primario di presidio militare fortificato, per via della propria posizione cruciale a guardia dei due mari e per la congenita carenza di un adeguato retroterra terriero che favorisse l’impianto di strutture produttive e il consolidamento di gruppi mercantili all’interno della società urbana. Questa, infatti, ancora per qualche secolo sarebbe stata fortemente plasmata dalla preponderanza entro le mura di militari e burocrati greci (intesi, qui e più avanti, come personale di formazione culturale, politica e religiosa bizantina) che avevano il controllo del porto e, sebbene sia ancora prematuro parlare di classe, sicuramente composero una compagine largamente incidente sull’assetto della società urbana. L’amministrazione politica della Sicilia venne demandata ad un pretore, direttamente dipendente dal questore costantinopolitano; la gestione finanziaria fu affidata al comes italicae patrimonii residente a Costantinopoli; il comando militare venne esercitato da un dux che svolgeva anche le funzioni di giudice; nelle maggiori città, tra cui già Plinio aveva contemplato Messina, amministravano la cosa pubblica in maniera non sempre limpida funzionari imperiali di medio e piccolo spessore16. In ogni caso, la posizione dello scalo messinese, proiettato insieme a quello aretuseo verso l’Oriente e punto di transito obbligato nelle rotte commerciali che univano le due parti del Mediterraneo, favorì sicuramente la sopravvivenza di un’attività commerciale stabile, che assicurava alla società urbana un certo dinamismo culturale, demografico ed economico17. Allo scorcio del VI secolo, l’immigrazione monastica basiliana accelerata dalla spinta longobarda e il forte impegno profuso da Gregorio Magno nel recupero dell’isola al Patrimonium Petri, fecero registrare per Messina una ripresa del livello socioeconomico, grazie ad un’efficiente organizzazione delle attività umane, eminentemente agricole, inquadrate entro gli schemi della burocrazia gregoriana (actionari, actores e defensores cittadini dipendenti da un rettore insediato a Siracusa), ma anche attraverso l’acquisizione e il consolidamento di una cultura e una sensibilità artistica e religiosa “orientale” di cui pur-
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troppo sono giunte a noi tracce molto labili. Tale sensibilità si espresse, ad esempio, nella presenza a Messina di botteghe artigiane dirette da maestranze qualificate, che si specializzarono precocemente nella lavorazione di tessuti e manufatti preziosi, come le due palmatianae che nel 591 il vescovo Felice inviò (forse con navi proprie) a Gregorio Magno18. Le relazioni che allora intercorrevano tra la sede peloritana e la curia papale furono sicuramente improntate ad un rapporto disteso e cooperativo, se un anno dopo Gregorio si rivolgeva a Felice, in qualità di rettore del monastero di San Teodoro da poco eretto e consacrato, per chiedere di concedere asilo ai profughi del Sud Italia, sia cattolici che ortodossi19. Pertanto, già alla metà del VI secolo, con il vescovo Eucarpo, e poi nel corso del VII, dopo gli episcopati di Felice e Dono (591-595), i presuli messinesi, dotati di autorità e privilegi da parte del papa e posti a capo di grandi domini terrieri, affiancarono gli igumeni greci e acquisirono risalto nel panorama politico e amministrativo, soppiantando in certa misura i defensores, che divennero semplici judices cittadini e furono peraltro esautorati da competenze fiscali, demandate a funzionari imperiali20. In quegli anni, quindi, nel centro messinese come in numerose aree del Valdemone, si realizzò un proficuo clima di convivenza tra clero latino e monachesimo greco, ma nella Seconda metà del VII secolo è documentato un deciso processo di ellenizzazione delle comunità monastiche che si innestò sopra il persistente sostrato culturale bizantino rafforzato e alimentato grazie al flusso costante di monaci provenienti da Bisanzio21. Il fenomeno è da collegare, senza dubbio, al trasferimento nel 663 della corte di Costante II a Siracusa22 e al vasto movimento migratorio greco che, dalla Prima metà di quel secolo, dalla Siria e dall’Egitto si era riversato pure nell’isola, alimentato sia da monaci iconoduli in fuga dalle persecuzioni degli imperatori iconoclasti, sia da profughi melchiti dispersi dopo il 614 dai persiani sassanidi di Cosroe II e, in seguito, dallo stesso imperatore bizantino Eraclio. Tra la fine del VII e l’inizio dell’VIII secolo, pertanto, il latinismo favorito da Gregorio Magno a Messina e nel suo territorio si era stemperato in una progressiva ellenizzazione23, dissolvendosi significativamente dopo il pontificato di Gregorio II (715-731), quando la chiesa di Roma prendeva posizione contro l’iconoclastia imposta nel 726 da Leone III Isaurico (716-741) e si assicurava l’appoggio dei Franchi, accelerando in Sicilia l’affermazione della giurisdizione bizantina su quella romana e il passaggio dell’episcopato latino nell’orbita del patriarca di Costantinopoli24. La scissione della chiesa siciliana dalla sede di Roma, avvenuta a quanto pare nel 73725, la ricondusse alle dipendenze del patriarcato di Costantinopoli, che elevò il presule siracusano al rango di metropolita nominandone suffraganeo quello di Messina. Sicché, nella città zanklea e lungo le strette valli ubicate nelle sue immediate vicinanze, si rafforzarono alcuni cenobi di rito greco (San Nicandro o Nicario, forse San Nicolò all’Arcivescovado, San Pantaleone, San Tommaso Apostolo, Santa Maria di Bordonaro) la cui attività agricola, sostanzialmente intensiva, garantì alla città un flusso continuo di derrate alimentari e una pur modesta circolazione di merci, oltre che di idee e modelli di vita26. Prima che la rivolta dell’ammiraglio Eufemio, nell’827, aprisse le porte dell’isola ai musulmani, Messina, da sempre interlocutrice privilegiata di Costantinopoli, partecipò attivamente alla vita amministrativa e religiosa, opponendosi all’iconoclasmo e intervenendo con i propri episkopoi (Gaudioso, Gregorio III, ecc.) alle dispute dottrinarie che divi-
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Ricostruzione cartografica della città altomedievale. La scarsità di testimonianze archeologiche relative ai circa quattro secoli che vanno dalla caduta dell’Impero romano d’Occidente alla conquista araba, rendono possibili solo ipotesi di ricostruzione dell’insediamento urbano altomedievale (evidenziato all’interno del documento). Dalle fonti emerge comunque il ruolo primario di presidio militare fortificato svolto dalla città, sulle cui mura si consumò, tra l’altro, l’eroica resistenza dei messinesi contro i musulmani guidati da al-Fadl Ibn Gafar.
sero le due chiese. Questa indubbia vitalità urbana di Messina, tuttavia, era destinata a spegnersi rapidamente sotto l’avanzata delle truppe islamiche, che nell’843, varcate le mura della città, cominciarono a scrivere un nuovo lungo capitolo della sua vicenda.
3. Fra dominazione bizantina e araba Nelle edizioni ottocentesche di Caruso e Gregorio della Cronica di Cambridge, in cui si cita erroneamente Messina al posto di Mineo, si racconta della conquista della città ad opera del musulmano Asbag e dell’uccisione del comandante bizantino Teodoto sotto le sue mura verso la fine dell’830, quando però gli arabi si trovavano al di là del Salso. La lettura di Amari, confermata dai testi greci della Cronica27, corregge tale svista e ci consegna un corretto inquadramento cronologico delle fasi belliche28. La conquista del centro peloritano, in effetti, ebbe luogo tra il 10 ottobre 842 e il 29 settembre 843, quando i napoletani, che secondo Giovanni Diacono avevano stretto un patto di alleanza con gli emiri già nell’83629, sostennero fattivamente i musulmani guidati da al-Fadl Ibn Gafar. Amari, basandosi su quanto affermato da Ibn al-Atir30, descrive le fasi dell’assedio e l’eroica resistenza dei messinesi, sopraffatti alla fine dalla strategia del condottiero islamico, che attirò le forze assediate lungo le mura prospicienti lo Stretto con una parte delle proprie
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truppe, mentre «l’altra schiera irrompeva in città dall’alto, feriva alle spalle i difenditori, li scompigliava e Messina era presa»31. Dopo la conquista araba dell’843, il nome di “Messina” e del “Mar del Faro” ricorre nelle cronache musulmane solo verso l’886, quando le forze dell’emirato approfittarono del rientro in patria dello stratega Niceforo Foca, richiamato sul fronte dell’Asia Minore in seguito alla morte di Basilio il Macedone, per organizzare l’armata di conquista contro la Calabria e, nel settembre 888, sostennero una cruenta battaglia navale nelle acque di Milazzo contro la flotta bizantina frettolosamente accorsa da Costantinopoli32. Erchemperto33 colloca la battaglia nello Stretto di Messina, mentre Ibn al-Abbar torna a parlare della battaglia di Milazzo, nelle cui acque la flotta araba sarebbe stata guidata dall’emiro Iakoub, figlio di Ahmed e predecessore di Aaroun el Khams nel governo di Messina34. Dopo la battaglia di Milazzo, le forze musulmane, capitanate da Mugbar Ibn Ibrahim Ibn Sufyan, rafforzarono la loro posizione a Messina, che soprattutto a partire dall’877 assolveva la funzione di base militare, nella campagna contro la vicina roccaforte di Rometta, «terra limitata dal sito a mediocre prosperità – ma – forte asilo in tempo di guerra»35, e nel contado circostante. Per tutto il corso del X secolo le vicende del centro peloritano rimangono avvolte nel più fitto mistero, non se ne fa menzione nelle cronache in lingua araba, dove piuttosto si dà ampio spazio a Rometta e alle vicende belliche che la interessarono sino alla sua caduta, nel 96536. In questi anni, i cittadini messinesi si trovarono coinvolti attivamente nel conflitto tra le truppe aglabite e l’ultima roccaforte cristiana, che si
Tramonto su Capo Milazzo. Completata la conquista della Sicilia, i dominatori arabi sfruttarono la Città del Faro come base militare per rivolgere le proprie mire espansionistiche contro la Calabria, ancora nelle mani bizantine. Proprio nelle acque della vicina Milazzo, nel settembre dell’888, i musulmani ingaggiarono uno scontro sanguinoso con la flotta dei nemici cristiani.
suppone «divenisse l’Acropoli della antica patria», mentre la Città del Faro, spopolata, pare «rimanesse come porto ed emporio», di proporzioni peraltro modeste37, oltre che base militare per la difficile conquista del Valdemone e le frequenti scorrerie in territorio calabrese. Sappiamo comunque che Ibrahim Ibn Ahmad, il quale aveva conquistato con ferocia Taormina nell’agosto del 902, il mese successivo alla testa di una nutrita schiera diretta in Calabria marciò su Messina, dove si fermò per due giorni prima di attraversare lo Stretto38. Durante la Seconda metà del X secolo la Città del Faro, aspramente contesa tra musulmani e bizantini, accentuava il proprio carattere militare e assolveva una mera funzione di presidio dal momento in cui, con la caduta di Rometta, la linea del fronte si spostava nello Stretto e teatro di più significativi eventi bellici diventava la Calabria, tenacemente controllata dalle truppe inviate da Bisanzio39. Alla metà di luglio del 950, ad esempio, il condottiero musulmano al-Hasan, diretto con un poderoso esercito e una nutrita flotta a fronteggiare in Calabria i bizantini sbarcati all’inizio dell’estate a Otranto e Bari, stazionò per breve tempo nella Città del Faro, dove peraltro avrebbe fatto ritorno in autunno per lasciare la flotta a svernare nel suo porto40. Nel 964, quando l’imperatore bizantino Niceforo riprendeva l’offensiva contro i musulmani dell’isola, sicuro della propria forza offensiva e sostenuto dalla profezia del vescovo siciliano Ippolito41, l’esercito islamico, rinforzato da una flotta e da una folta schiera di berberi condotti dall’Africa da al-Hasan, si accampò tra Rometta e Messina, mentre i bizantini, il 13 ottobre di quell’anno, occupavano la Città del Faro e ne rafforzavano le difese murarie. Manuele Foca e il protospatarius Niceta, però, inviando i messinesi contro le truppe di al-Hasan, commisero l’errore di lasciare sguarnita la città, nuovamente assediata dalla flotta di Ahmad, che si attestò nel suo porto «per cavar la voglia d’un novello sbarco ai Bizantini che s’eran messi in salvo a Reggio»42. Ripreso il controllo delle terre circostanti sino alla caduta definitiva di Rometta nel 965, «nel mese poi di luglio furono poste in fuga le chelandie dei Cristiani a Reggio»43 e le truppe islamiche fecero quindi di Messina il caposaldo del loro dominio nelle acque dello Stretto e la base logistica delle loro incursioni continue nel territorio di Reggio, che rimase presidiata dai bizantini di Niceforo Foca. Dopo l’uccisione di Niceforo, avvenuta nel dicembre 969, e l’ascesa al trono d’Oriente di Zimisce, che siglava un accordo di pace con l’impero di Ottone e si alleava con i pisani, i bizantini lanciarono una nuova offensiva contro i musulmani e occuparono momentaneamente la Città del Faro, che però da lì a poco (maggio 976) venne riconquistata da Abu al-Qasim, alla testa di un esercito composto da siciliani e, come sostiene il cronista arabo Ibn al-Atir, da una «gran compagnia di dotti e virtuosi cittadini» di Messina44. Questa rimase in mano ai musulmani sino al 1038, quando il generale Giorgio Maniace e il patrizio Michele Doceano attraversarono lo Stretto alla testa di un esercito bizantino radunato a Reggio e composto, peraltro, da una nutrita e agguerrita schiera di mercenari normanni condotti da Guglielmo d’Altavilla, detto Bracciodiferro. Come sostengono le cronache di parte normanna, soprattutto quelle malaterriana e di Amato di Montecassino, per la conquista di Messina fu determinante l’intervento degli uomini di Guglielmo, i quali «ont combatu à la cité et ont vainchut lo chastel de li Sarrazin»45, il che peraltro suggerisce come il controllo della Città dello Stretto da parte dei musulmani, con-
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centrati piuttosto nella difesa della rocca di Rometta, fosse occasionale e molto blando. Ma il dominio di Messina non pare sia stato più duraturo e efficace sotto il protospatario Kekaumsˇnoj (Catacalone detto Arsiccius), che riuscì ad esercitarlo sino ai primi mesi del 1042, quando il centro dello Stretto rimase l’unica roccaforte della resistenza bizantina ultra Pharum, caratterizzandosi più come presidio di retroguardia che come testa di ponte per un’improbabile riconquista dell’isola. L’armata preposta al controllo di Messina, costituita da trecento cavalieri e cinquecento pedoni del tema d’Armenia, aveva in effetti consistenza di presidio, a difesa di una società cui le fonti non dedicano alcuno spazio, ma che era senz’altro fortemente contratta sotto il profilo quantitativo ed economico. Messina riuscì a respingere l’attacco dell’armata musulmana, a quanto pare condotta sotto le sue mura dal principe kalbita as-Samsam, e Catacalone, dopo avere saccheggiato l’accampamento nemico nel marzo 1042, rientrò trionfante in città alla testa di una schiera di bizantini e messinesi, che però non sarebbero stati in grado, meno di un ventennio dopo, di resistere all’avanzata di nuove truppe, costituite principalmente da normanni e da cosiddetti “lombardi”46.
4. La “rinascita” normanna Un’immagine largamente diffusa di Messina nelle fasi immediatamente successive alla conquista normanna è quella tramandata da Amato di Montecassino, secondo cui il Guiscardo, constatato «que la cité estoit vacante des homes liquel i habitoient avant», avrebbe dato inizio emblematicamente al suo ripopolamento dotandola «de ses chevaliers»47. La tesi del desolante stato di abbandono e immobilismo socioeconomico, che avrebbe denotato Messina già negli ultimi decenni dell’emirato, ha suscitato qualche perplessità in studiosi che, evidentemente, non hanno tenuto pienamente conto della tendenza celebrativa insita nella cronache del monaco cassinese, della propensione all’esagerazione di Goffredo Malaterra e della conclamata inattendibilità della Breve istoria della liberazione di Messina, chiaramente falsa, che nel celebrare il sentito patriottismo dei tre nobili cittadini (Ansaldo de Pactis, Niccolò Mamulio e Giacomo Saccano) per tradizione fautori della congiura antimusulmana, rimanderebbe all’esistenza tra le mura di una compagine cristiana numericamente modesta ma dotata di carisma politico e consapevolezza48. In effetti non abbiamo nessuna indicazione in grado di suggerire ipotesi circa la demografia e la costituzione del tessuto sociale messinese prima della conquista normanna, né è rimasta traccia dell’impianto urbano, sicuramente stravolto già dal violento sisma che si abbatté sulla Sicilia Orientale nel 1169 (quando «apud Messanam etiam maximus et manifestus terre motus fuit»49) e dai catastrofici eventi del 1783, di quelli del 1908 e ancora dell’ultimo conflitto mondiale50. Certo è che gli Altavilla, stimando Messina «quasi clavem Siciliae»51, le assegnarono un ruolo ben più ampio della riduttiva funzione di avamposto fortificato o porto-rifugio di frontiera svolto sino ad allora. Sicché Ruggero il Granconte nel 1081, «undecumque terrarum artificiosis caementariis conductis»52, diede subito avvio ad un organico programma edilizio diretto, innanzi tutto, al rafforzamento delle strutture difensive della città, a cominciare da quelle murarie, che l’anonimo autore della Epistola ad Petrum definiva «una cerchia rafforzata dalla frequente presenza di torri»53, e pro-
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Strutture difensive della città normanna. In alto: Antico castello di Matagrifone in un disegno acquerellato (1640) e, a destra: Resti della torre ottagonale. Nel 1081 Ruggero il Granconte diede inizio a un organico programma edilizio. In particolare, presso l’antico castello di Matagrifone vennero ricostruite e rafforzate le mura urbiche, i cui resti sono ancora visibili nell’attuale area occupata dal sacrario di Cristo Re.
seguendo, dopo il 1086, con la realizzazione del tarsianatum e del palatium, che sicuramente è il «propugnaculum immensae altitudinis» citato da Malaterra ed esemplato da Pietro da Eboli54, cioè il palazzo comitale e poi regio che sorgeva, «bianco come un colomba»55, di fronte al porto, anch’esso ampiamente ristrutturato negli anni della contea. Probabilmente nel 1096 veniva edificata, «cum turribus et diversis possessionibus»56, la prima cattedrale di Messina, dedicata a S. Nicolò e ubicata a poche centinaia di metri dall’attuale Duomo sorto alla metà del XII secolo57, cioè in quel nucleo urbano, delimitato dall’arsenale, dal quartiere detto Amalfitania e dalla loggia dei genovesi, attorno al quale si andava coagulando la vita sociale ed economica della nova urbs Messane58. Le prime fasi dell’insediamento normanno nella Città del Faro sono scandite da una massiccia immigrazione, costituita principalmente da intellettuali e milites bizantini fuoriusciti negli ultimi anni dell’emirato, che avrebbero concorso alla formazione della nuova classe dirigente (non a caso avrebbero esercitato per tutto il XII secolo un vero e proprio monopolio della carica stratigoziale e di altri incarichi amministrativi), e da una folta schiera di artigiani e contadini provenienti anch’essi dalle terre calabresi, cioè i cosiddetti populares destinati, insieme alla plebs, a comporre il tessuto connettivo urbano59. E Messina, soprattutto in Età normanna, rimase proiettata verso la Calabria, i cui mercati entrarono tra le mire degli operatori locali e le cui terre costituirono, almeno sino al Vespro, il naturale sfogo di possidenti e piccoli feudatari peloritani, penalizzati dall’assenza di un retroterra nell’isola in grado di assicurare agiatezza economica e prestigio sociale60. Questa particolare condizione impedì che la Città del Faro subisse l’egemonia dei milites, protesi piuttosto,
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A sinistra: Scorcio architettonico dello slargo Quattro fontane (XVII-XVIII secolo) e, a destra: Particolare dello stesso. Numerosi mercanti forestieri, attratti dalle vantaggiose prospettive commerciali e dalle agevolazioni fiscali, si stabilirono nella Città del Faro. In particolare, gli amalfitani si insediarono lungo l’attuale via Primo Settembre. Lo slargo Quattro fontane è oggi situato proprio nell’area un tempo occupata dal quartiere Amalfitania. Due fonti sono ancora visibili mentre le altre due, danneggiate dal terremoto del 1908, sono conservate nel Museo regionale di Messina.
attraverso l’acculturazione e l’acquisizione di competenze giuridiche, verso la conquista di quelle cariche burocratiche che rappresentarono anche l’obiettivo del ceto mercantile e di quei gruppi di burgenses, definiti meliores, con i quali gli stessi milites avrebbero realizzato una duratura collaborazione pienamente realizzata nell’ultima Età sveva61. Del tutto estranei alla gestione politica locale, ma fortemente interessati alle nuove prospettive commerciali (soprattutto quelle offerte dal traffico del grano)62, furono i mercanti forestieri, innanzi tutto amalfitani (ma in seguito anche catalani, genovesi, provenzali, toscani e veneziani), richiamati da agevolazioni fiscali e commerciali entro le mura della città, dove fondarono logge e fondaci e costituirono i propri quartieri in prossimità del porto63. Gli amalfitani, presenti nell’isola sin dall’813, si insediarono in un quartiere, l’Amalfitania, che si sviluppò attorno alla ruga Amalfitanorum, ma il loro rilievo decadde alla fine del XII secolo, quando emersero più attivi operatori peninsulari, cioè genovesi, pisani e veneziani, tutti insediati più o meno stabilmente nella Città del Faro con logge e fondaci e fortemente interessati alle rotte orientali64. I genovesi, che a Messina ebbero un console già nel 116965 e istituirono un flusso continuo bilaterale con l’isola dalla metà del XII secolo, avrebbero consolidato le proprie posizioni commerciali soprattutto in Età sveva66,
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come pure gli operatori pisani, i cui rapporti con i liguri furono sempre caratterizzati da una forte rivalità67. Anche i mercanti veneziani, seppure frequentatori meno assidui dello scalo peloritano, ebbero un fondaco in tarsianatu veteris civitatis (cioè presso l’arsenale della città vecchia) nella Seconda metà del XII secolo e fruirono di significative agevolazioni commerciali, soprattutto sotto il regno di Guglielmo II68, quando non a caso è segnalata la presenza di qualche trafficante messinese nella repubblica lagunare e Pagano di Messina era il nocchiero di una nave veneziana che nel 1169 salpava alla volta di Costantinopoli69. Di altri operatori forestieri, infine, abbiamo sporadiche indicazioni e della loro presenza entro le mura di Messina possiamo ricavare solo qualche notizia indiretta, come nel caso degli inglesi, la cui incidenza commerciale in Età normanna può essere desunta esclusivamente dall’attestazione in quella sveva della ruga Anglicorum70, dal momento che coloro venuti al seguito di Riccardo Cuor di Leone nel 1190 erano crociati e pellegrini in transito per la Terrasanta. La presenza di questi operatori forestieri, pertanto, contribuì ad assegnare a Messina una fisionomia particolare, la connotò cioè come una vera e propria megalopolis «per il continuo andirivieni di viaggiatori» – annota il geografo di Ruggero II –, per la presenza di un arsenale particolarmente attivo e di un porto oltremodo vivace, «un’autentica meraviglia» dove «si raccolgono le grande navi nonché i viaggiatori e i mercanti dei più svariati paesi latini e musulmani»71. E analoga immagine emerge dalle descrizioni di
Chiesa di Santa Maria della Valle detta “Badiazza” (XII secolo). Durante la dominazione normanno-sveva, l’episcopato messinese, divenuto sede metropolitica, ebbe come suffraganee le diocesi di Catania, Cefalù e Lipari-Patti. Nel contempo, esso ampliò la sua giurisdizione sui centri del Valdemone, realizzando una capillare penetrazione testimoniata da questa chiesa-fortezza che rappresenta uno dei più interessanti monumenti medievali della città.
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A sinistra: Chiesa della Santissima Annunziata dei Catalani (1150 ca.) e, a destra: Particolari decorativi. Rappresenta una delle più importanti strutture religiose di Età normanno-sveva. La chiesa presenta elementi di arte araba, bizantina e normanna. Attualmente risulta posta ad un livello più basso rispetto a quello urbanistico attuale, successivo al terremoto del 1908. L’edificio sacro è tra i pochi grandi monumenti della città che hanno resistito all’onda sismica.
Ibn Giubayr e dello pseudo Ugo Falcando, i quali, in riferimento agli ultimi anni della dominazione normanna, insistono sul cosmopolitismo e sul carattere mercantile di Messina, «meta de’ legni che solcano il mare venendo da tutte le regioni»72, dove «il sudiciume ed il fetore sono la diretta conseguenza di transazioni economiche continue e dell’ammassarsi di commercianti venuti da ogni dove»73. Per questi decenni, comunque, nel Mediterraneo e negli scali di Levante è segnalata una pur modesta attività di mercanti peloritani74, sostenuti dai favorevoli orientamenti della politica doganale attuata da Guglielmo I e proseguita nei primi anni dell’Età sveva75, mentre i rapporti commerciali con l’entroterra siciliano vennero tenuti in vita dalle attività intraprese dall’episcopato messinese (ufficialmente sede metropolitica sotto il pontificato di Alessandro III), che tra il 1131 e il 1166 allargò il proprio distretto sino a comprendere le sedi di Catania, Cefalù e Lipari-Patti76, e dalla capillare penetrazione, soprattutto nel Valdemone, delle sedi basiliane, espressione peraltro di una chiara egemonia culturale di tradizione greca77. In definitiva, se con i privilegi concessi da Ruggero II e Guglielmo I si affermava a Messina il potere politico di una élite prevalentemente greca composta da milites e maiores civitatis, il saldo dominio di tali gruppi venne sostenuto dalla chiesa locale che assunse un ruolo economico di spicco nell’entroterra siciliano e esercitò in città un predominio commerciale a fianco dei mercanti peninsulari, grazie ai privilegi ottenuti da priorie benedettine (Santa Maria Maddalena de Valle Iosaphat, Santa Maria dei Latini), ma anche sociale e culturale, attraverso l’attività del monastero basiliano di San Salvatore in Lingua Phari, e di altri centri di rito greco presenti nel territorio peloritano78. Messina pertanto, crocevia di intensi scambi di merci e di idee negli ultimi decenni del dominio normanno,
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assunse una posizione centrale all’interno dello scacchiere politico mediterraneo divenendo «l’arengo dove si consumarono esperienze di politica internazionale»79, culminate nelle vicende che portarono alla cacciata dall’isola di Stefano di Perche tra il 1167 e il 1168 e, soprattutto, nei drammatici avvenimenti che, nel 1190, determinarono il drastico abbattimento dell’egemonia greca nella Città dello Stretto ad opera di Riccardo Cuor di Leone80 e aprirono un nuovo capitolo della vicenda storica messinese.
5. L’Età sveva, trasformazioni sociali e politiche Gli anni a cavallo tra XII e XIII secolo sono segnati dal passaggio della corona del Regnum Siciliae dagli Altavilla agli Hohenstaufen, un avvicendamento la cui drammaticità emerge emblematicamente nella Epistola ad Petrum e che a Messina, teatro in quegli anni di avvenimenti tumultuosi, avrebbe avuto esiti molto significativi e duraturi all’interno della struttura demica e avrebbe inciso profondamente sulle trasformazioni della società e dei suoi orientamenti politici81. Dopo la radicale decapitazione della classe dirigente di formazione greca, prodotta dall’azione di Riccardo Cuor di Leone, si generò infatti un processo di “latinizzazione del potere” che stravolse nell’immediato l’assetto della macchina burocratica e la composizione dei suoi quadri, ma i cui effetti più marcati si sarebbero mostrati nel rafforzamento di un nuovo ceto di maiores civium, composto da uomini di cultura e di denaro, dal quale furono tenuti lontani gli aristocratici e consistenti gruppi di mercatores. Tuttavia, come opportunamente rilevato da Enrico Pispisa82, le esperienze maturate dalla Città del Faro durante l’Età sveva risentirono della sostanziale differenziazione degli atteggiamenti assunti di volta in volta dagli Hohenstaufen (Enrico VI, Federico II, Corrado IV e Manfredi), sebbene non venisse mai meno in seno alla società messinese la volontà di perpetrare orientamenti tracciati nei precedenti decenni e consolidare conquiste acquisite sino all’Età di Guglielmo il Buono, quali la costituzione di un solido ceto amministrativo e la proiezione commerciale del proprio porto nel Mediterraneo e verso Levante. D’altra parte, che Messina, clavis Siciliae della cronaca malaterriana, in Età sveva continuasse a gravitare più verso la Calabria e i mercati mediterranei e orientali, piuttosto che nell’entroterra siciliano, è suggerito dalla reiterata e rafforzata definizione di «clavis et custodia totius Siciliae»83 espressa da Saba Malaspina allo scorcio dell’Età sveva, quando cioè la sede messinese, «quasi in centro positam» richiamava mercanti e visitatori «a diversis mundi partibus»84. Come si è accennato, una struttura di lunga durata che caratterizzò Messina nei secoli centrali del Medioevo è senz’altro individuabile nel progressivo consolidamento di un ceto di burocrati e grandi mercanti immigrati (soprattutto pisani e genovesi), i quali non ebbero potere politico, ma le cui attività generarono una diffusa ricchezza in seno a gruppi di artigiani e piccoli mercanti, che si sostenevano principalmente grazie al mercato calabrese. Le classi produttive e i piccoli feudatari si proiettarono verso la Calabria, mentre nel territorio peloritano la modesta disponibilità di feudi e del connesso prestigio limitò il potere dei milites, che nell’impossibilità di competere con i meliores finirono per dare corpo con loro ad un’élite alquanto singolare, frutto di una convergenza che non avrebbe prodotto conquiste autonomistiche né significativi episodi che possano indicare concreti tentativi di scalata al potere politico.
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Denarius di Federico II (1247-1248). La politica fortemente restrittiva delle libertates mercantili e delle autonomie urbane adottata da Federico II fu all’origine della rivolta messinese del 1232. Durissima fu la reazione dell’imperatore, che fece giustiziare il capo del moto, Martino Mallone (Bellone), insieme a molti altri cospiratori.
Ma tornando alle delicate fasi dell’affermazione sveva nella Città dello Stretto, Enrico VI, che in essa aveva trovato un solido sostegno alla sua azione politica, mostrò di avere «particolarmente a cuore i ceti dirigenti ed i mercanti di Messina, i quali potevano offrire un aiuto decisivo»85: attraverso una serie di provvedimenti normativi adottati tra il 1194 e il 1197 riordinò le competenze dello stratigoto e dei giudici, le cui cariche vennero escluse dal meccanismo dell’appalto per divenire prerogativa regia, e intraprese un’opera di razionalizzazione amministrativa che tendeva a risaltare la centralità del ceto burocratico nella gestione urbana, consentendo ai gruppi amministrativi della città di assumere consistente autonomia commerciale e di emergere anche sotto il profilo economico86. Questa felice stagione dei nuovi emergenti, tuttavia, fu di breve durata, interrotta dagli indirizzi normativi, fortemente restrittivi delle libertates mercantili e delle autonomie urbane, che Federico II aveva assunto con le assise di Capua del 1220 e avrebbe ribadito con più vigore nelle Constitutiones melfitane del 123187. Messina, in definitiva, nel giro di un decennio vide frammentato e svuotato di contenuti il proprio apparato burocratico, svilita la capacità d’azione della sua curia stratigoziale sottoposta al rigido controllo regio; ma, soprattutto, si ritrovò privata di consistenti prerogative commerciali, che negli anni precedenti avevano garantito un benessere esteso anche ai gruppi inferiori della cittadinanza. Nel malcontento che tali misure alimentarono presso ampi strati della società, soprattutto in seno al ceto mercantile, sono da ricercare le cause della rivolta che nel 1232 esplose a Messina, estendendosi presto in molti centri della Sicilia Orientale, e che fu orchestrata, oltre che dal ceto mercantile, anche dagli ambienti feudali. La rivolta venne soffocata nel sangue dalla durissima reazione di Federico II, che fece giustiziare il capo del moto messinese, Martino Mallone (Bellone), insieme a molti altri, ma che non si rivolse contro il ceto burocratico, per il quale si aprivano nuove prospettive di ascesa grazie al drastico incremento degli uffici e delle connesse attività. Cominciò così ad emergere un ceto di maiores civium composto da “uomini di cultura” e “uomini di denaro”, un gruppo alquanto omogeneo di funzionari-amministratori che comprendeva anche judices, magistri, notai, portolani, secreti e, almeno a partire dal 1230, «delegati preposti alla vigi-
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lanza annonaria, stretti da giuramento alla retta esecuzione della delicata funzione, e detti perciò “giurati”»88. In questo senso, nell’ultimo quindicennio dell’Età sveva il ceto burocratico ampliò le proprie competenze e si rafforzò, dal momento che l’assenza di controllo centrale negli anni di Manfredi e la politica largheggiante di Corrado IV in materia mercantile avevano fatto sì che i centri urbani si impadronissero «della sfera amministrativa a loro delegata dai conti e dai maggiori baroni, i quali dominavano saldamente ogni parte del Regnum, strumentalizzando a proprio vantaggio gli uffici regi»89. Il baronaggio, infatti, ebbe agio di emergere solo dopo la scomparsa di Federico II, sotto il cui dominio le forze nobiliari non erano state messe in condizione di esprimere le proprie velleità egemoniche, e Messina, per un breve periodo (1251-1255), fu in mano al feudatario calabrese Pietro Ruffo che, in opposizione a Manfredi e in ossequio al papato, assunse il vicariato in Sicilia e Calabria90. Il contrasto tra il conte di Catanzaro e Manfredi consentì momentaneamente al ceto dei populares di emergere, sotto la guida del messinese Leonardo Aldigerio, e di tentare una singolare esperienza comunale «more civitatum Lombardiae et Tusciae»91, la costituzione cioè di «una federazione di città subordinata al fascino cupo della Chiesa ed alla spirale della sua logica politica, e che Bartolomeo da Neocastro, con felice espressione, chiamò repubblica di vanità»92. Soffocata nel nascere dall’azione di Manfredi e avversata dalle forze feudali legate al sovrano, tale sperimentazione autonomistica si mostrò ambigua e disorganica, in ultima analisi effimera e sostanzialmente diversa dal fenomeno, apparentemente analogo, che all’indomani del Vespro avrebbe portato Messina alla costituzione di una Communitas Sicilie, la quale non fu espressione dei ceti mediani e subalterni, ma venne orchestrata in modo strumentale da un compatto gruppo di milites e grandi feudatari, i quali avrebbero aperto le porte della città a Pietro III d’Aragona93. Nell’Età di Manfredi, pertanto, le redini del potere economico furono nelle mani dei ceti burocratici e dei milites, ai quali è possibile accomunare proprietari terrieri e uomini di denaro impegnati in spregiudicate transazioni immobiliari, ma soprattutto una folta schiera di cives che al potere politico aggiungevano il prestigio culturale e la cui rinomanza si sarebbe estesa ben oltre l’ambito locale, grazie all’attività del cosiddetto “laboratorio messinese”. Questo si collegò alla “Scuola poetica siciliana” in modo originale, perché espressione delle esperienze culturali della classe burocratica e non di un vivaio di corte omologato e impersonale, ma anche perché il ceto dirigente peloritano, attraverso l’impegno di questi funzionari-poeti, si accostò «ad un patrimonio letterario che si estende alla letteratura in lingua d’oïl e ad altri apporti»94. E a questo proposito, occorre rilevare come la felice stagione culturale attraversata da Messina nel XIII secolo lasciasse un’impronta profonda anche grazie all’azione della chiesa, anch’essa espressione dei ceti emergenti, nei cui scriptoria operarono traduttori dal greco e dall’arabo di grande spessore culturale, come Bartolomeo e Stefano di Messina, e la cui produzione figurativa attinse risultati di rilievo nel panorama artistico europeo95. In definitiva, possiamo affermare che, nel corso dell’Età sveva, Messina maturò una serie di esperienze attraverso i rapporti di volta in volta instaurati con il potere regio, passando dalla breve stagione di Enrico VI, caratterizzata dal rafforzamento della curia stratigoziale e da una maggiore liberalizzazione delle attività mercantili, ai lunghi anni della politica fridericiana, che svilì il governo della città con un rigido controllo burocratico degli
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uffici e un drastico ridimensionamento di qualsiasi forma di autonomia amministrativa e commerciale, sia urbana che feudale. Sotto il dominio di Corrado IV e Manfredi, e nelle episodiche espressioni di forme di governo alternative, la società messinese si evolse attorno a tre poli ben definiti, cioè la chiesa, i mercanti stranieri e il ceto burocratico, attorno al quale si muovevano gli interessi dei milites e di alcuni proprietari terrieri. L’incontro di queste forze, che produsse nell’immediato l’affermazione di un gruppo rinnovato e ancora alquanto indistinto di maiores civitatis, avrebbe dato frutti più maturi nel lungo termine e, pertanto, in questa prospettiva possiamo affermare che Messina visse in Età sveva «una serie di decisive esperienze che prepararono quel profilo di centro dominato da amministratori-affaristi, che la città avrebbe pienamente assunto nel secolo seguente»96.
6. L’affermazione dell’universitas Durante il primo decennio del governo angioino, il «passaggio dell’amministrazione cittadina dalle mani degli officiali regii a quelle di organi elettivi»97 segnò un’importante tappa in campo istituzionale e legislativo, comportando profonde trasformazioni in ambito economico e sociale, e fu soprattutto la universitas Messanae ad acquisire competenze amministrative e diritti elettivi, privilegi commerciali e vantaggi fiscali di varia natura e insolita rilevanza98. Con il trasferimento di una parte della gestione amministrativa alle rappresentanze locali lo spirito del governo era profondamente mutato e il nuovo orientamento politico della monarchia finiva per agire, soprattutto, sulla coscienza collettiva, sollecitando dinamiche di classe molto forti e producendo la formazione di nuovi equili-
Chiesa, oggi sconsacrata, di Santa Maria Alemanna (1220 ca.). L’edificio sacro fu costruito all’epoca del regno di Federico II, quando la città subì, per opera del sovrano, un drastico ridimensionamento della propria autonomia amministrativa e commerciale. Completamente restaurato, rappresenta una significativa espressione dell’arte gotica nel Mediterraneo.
bri sociali. Tali istanze, che avevano portato all’aperta ribellione della città all’autorità di Federico II nel 1232, suggerendo come «l’intera vicenda possa spiegarsi con il rifiuto, da parte di universitates grandi e piccole, del nuovo testo legislativo, del quale si temevano le forti valenze accentratrici e limitatrici di pretese libertà»99, avrebbero anche determinato nel 1266 la pronta adesione di Messina agli Angioini, dai quali si era certi di ottenere ampi spazi di autonomia amministrativa. Carlo I d’Angiò, oltre ad accordare a Messina la facoltà di eleggere judices e magistri iurati e ai cittadini quella di intervenire nella nomina dei comites tramite referenze scritte (licterae testimoniales)100, delegò atti che prevedevano un concorso elettivo della universitas civium, come quelli pertinenti la ripartizione delle collette ordinarie (subventiones) e la custodia di uno dei registri da parte di un proboviro (fidelis vir) eletto col concorso «communis universitatis ipsius»101, della distribuzione della nuova moneta (novi denarii) della gestione di incarichi doganali, servizi di guardia, manutenzione di strutture difensive, e così via102. Non è un caso che Messina rimanesse sostanzialmente schierata con gli Angiò durante la rivolta del 1267-1268103, sebbene un atto del 1269 informi che nel centro peloritano, nel corso della rivolta, si erano manifestate aperte ribellioni da parte di baroni, milites e burgenses – dai livelli sociali più alti, quindi, a quelli più bassi –, «nec non et terrarum et bonorum suorum»104. In effetti i facinorosi furono perdonati da Carlo105 e per i cittadini messinesi si aprì una felice stagione di privilegi doganali, provisiones relative al possesso di beni immobili e altri vantaggi106. Nel febbraio 1272, ad esempio, una norma interdiva a Messina l’importazione di vino, determinando il rincaro del prodotto locale e prospettando un’allettante speculazione per gli operatori del settore107; con lo stesso atto l’Angioino, reputando i cittadini di Messina sinceramente devoti e fedeli, «liberaliter eis – reddit – ad beneficia et ad gratias liberales», concedendo il prestigioso privilegio della “Galea Rossa”108. Infine, il commercio locale venne tutelato pure dalla concessione regia all’adozione del rotolo comune (33 onze e 1/3), «quod in cunctis Regni partibus observatur», in sostituzione di quello tradizionalmente usato nel territorio messinese (30 onze) e che, in base a quanto esposto dagli ambaxatores, determinava un «preiudicium dicte civitatis»109. Il prestigio di Messina e il benessere diffuso dei suoi habitatores, come peraltro suggerisce la vicenda delle leggi suntuarie di cui si dirà in seguito, crebbe rapidamente negli anni Settanta e una spia chiara di tale crescita emerge dalle ripartizioni degli oneri predisposti dal vicario dell’isola per l’armamento della flotta, dove Messina, il 16 marzo 1276, venne chiamata a partecipare con un contributo ben più alto rispetto a quello imposto alle altre sedi siciliane (7 galee di fronte a 4 per Palermo con Termini, 1 sola per Catania con Augusta, e così via)110. L’attività dei cantieri messinesi si intensificò, sia per garantire all’Angioino un serrato collegamento con le coste africane e i centri tirrenici, sia per fornire le imbarcazioni necessarie alla difesa delle rotte nel settore Orientale del Mediterraneo, mentre Messina brulicava di ogni sorta di visitatores non sempre graditi, ma testimoni comunque di un dinamismo commerciale diffuso presso tutti gli strati della società111. Fra il Duecento e il Trecento, quindi, le dinamiche sociali produssero a Messina il consolidamento del ceto mediano e la promozione di una casta di burgenses-giuristi professionalmente legati ai meliores e ad essi vicini culturalmente112. Grazie agli ampi margini di autonomia concessi da Carlo d’Angiò alle comunità urbane del Regnum Siciliae, a
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Messina si andò costituendo una potente e inconsueta élite locale, cioè un’oligarchia urbana guidata da intraprendenti mercanti-burocrati legati a famiglie rapidamente arricchitesi attraverso i commerci e la gestione in gabella di molti uffici, che era adesso protesa alla conquista del cingolo militare perché fosse sanzionato anche il prestigio sociale. Ma, nel lungo termine, la fortuna della compagine mediana sarebbe dipesa in larga misura dal ruolo esclusivo di detentori della cultura dei suoi esponenti e l’esercizio dell’attività giuridica si mostrò sicura via di ascesa sociale soprattutto a Messina, in questo senso il centro più prestigioso del regno dopo Napoli, presso la cui scuola, «l’unica sede frequentata dai siciliani dal 1224 al 1282»113, si erano sicuramente formati molti giuristi che operarono a Messina in qualità di judices o di advocati, quali Natale e Pietro Ansalone, Donadeo Bove, Grifaldo Camuglia, Giaimo Capello, Alemanno Cepulla, Nicolò Chicaro, Ferrerio Cisterna, Guido delle Colonne, Cataldo Grifo, Rinaldo de Limogiis, Francesco Longobardo, Giovanni Maniscalco, Pellegrino de Maraldo (Peregrinus), Giovanni Rizzari, Giovanni de Rubeo, Santoro de Salvo, Nicolò Saporito, Giovanni della Scaletta e molti altri114. Fra le attività cui si dedicarono i membri del ceto dirigente urbano, iter e strumento della loro promozione sociale, vi furono quindi quelle connesse all’appalto ad cabellam di uffici pubblici (arsenale, dogana, fondaci, macelli, officium rationum, portolanato, secrezia, zecca), e quelle connesse all’esercizio di incarichi giuridici e notarili, per il cui espletamento era d’obbligo disporre di una consolidata conoscenza del diritto. Questa dinamica sociale allarmò Carlo d’Angiò, che alla fine degli anni Settanta infittì il controllo del potere centrale sull’attività dei porti siciliani e il 22 luglio 1278 sancì che nello scalo di Messina non vi fossero più di tre portolani, uno dei quali eletto dalla curia e di origine transalpina, i restanti nominati rispettivamente da parte del vicario regio e dei magistri procuratores115. E come ulteriore contrappeso alla presenza di famiglie egemoni locali, Carlo d’Angiò avrebbe quindi incoraggiato nel centro peloritano l’attività di un nutrito gruppo di affaristi e mercanti stranieri, non solo marsigliesi e nizzardi, ma pure amalfitani, fiorentini, pisani, pugliesi, senesi, sorrentini, veneti e, dopo gli accordi di pace raggiunti con Genova, anche liguri, i quali ottennero beni immobili – case, fondaci, logge, franchigie, immunità – e tassi assai convenienti sui diritti doganali delle merci esportate (jus exiturae)116. Sarebbe interessante offrire una lettura più approfondita delle vicende relative alle famiglie immigrate dal regnum peninsulare nelle fasi del consolidamento monarchico e pienamente integrate nel tessuto sociale di Messina, tra le cui maglie si espressero negli anni Settanta burocrati-mercanti e giurisperiti protesi verso la nobilitazione. Ma basti qui citare, tra i più rappresentativi appaltatori di uffici, alcuni membri di famiglie originarie di Aversa, Ravello, Scala, Telese e di molti centri della Puglia, quali Bartolomeo e Leone Acconzagioco; Madio, Orso e Stefano d’Afflitto; Pietro e Tancredi d’Alessio; Andrea e Rinaldo de Bonito; Bisanzio e Goffredo Bucchinarro; Costanzo Cadirola; Bartolomeo, Bonaventura e Giovanni Cataldo; Aldoino e Tommaso Caziolo; Federico e Riccardo de Falcone (Virgiliis); Giovanni Laconia; Guglielmo e Leone de Pando; Bartolomeo e Giacomo Sasso; Costantino, Francesco e Palio Spina; Matteo e Pescarolo da Trani; Nicolò Trara117. Un discorso a parte, in effetti, andrebbe fatto per alcuni casati che espressero tra i propri componenti affaristi, judices, notarii e terrerii, inseriti a tutti i livelli della struttura burocratica, come le famiglie d’Alessio, de Bello, de Falcone o Virgiliis, de Maraldo, de Riso, Rogadeo e Rufolo118.
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Un’attenzione particolare merita la casta dei iurisperiti, la cui presenza appariva indispensabile all’economia di un’amministrazione spiccatamente burocratica come quella peloritana, avviata verso una rapida ascesa sociale che, dopo gli stravolgimenti del Vespro, l’avrebbe portata all’identificazione con i milites attraverso una fase di ricerca antagonistica di supremazia politica. Le figure più rappresentative del nuovo ceto di giuristi si formarono tecnicamente presso la sede messinese, dove furono attivi in Età angioina diversi judices locali che, formati nell’ultima Età sveva, ottennero dal sovrano angioino la licentia exercendi advocationis119. Il già noto Guido delle Colonne, ad esempio, judex Messanae nel 1266, nel comprensorio peloritano avrebbe esercitato l’avvocatura all’inizio del 1270 prima di entrare a far parte della corte stratigoziale nel 1272, e percorsi analoghi seguirono le carriere dei giudici Simone de Burgundo, Francesco Longobardo e Bartolomeo da Neocastro120. In strettissima relazione con le pratiche commerciali della città si svolse l’attività dei notarii, i cui atti rivestono un’enorme importanza per un’obiettiva e attendibile ricostruzione della società, rappresentando il termometro dei livelli di sviluppo economico dei ceti produttivi e chiarendo i termini del singolare rapporto notaio-mercante instaurato nella sede messinese. La sua attività si svolgeva talvolta nella pubblica piazza, come stipulatore di transazioni private121, oppure, con la qualifica di funzionario regio, all’interno dei fondaci, dei macelli, dei portolanati e delle secrezie, degli uffici doganali e di quelli rationum. I rogatori di atti pubblici, che svolgevano mansioni di segreteria o di cancelleria, oltre ad avere l’obbligo di rispondere a precisi requisiti ed essere sempre idonei all’incarico, incorruptibiles e fideles122, dovevano essere dotati di una solida preparazione in campo giuridico e legislativo, simile a quella dei judices, per la cui preparazione tecnica il centro dello Stretto si presentava come il più prestigioso dopo quello partenopeo. Non sorprende, pertanto, il fatto che larga parte dei pubblici attuari impegnati in tutte le attività dei centri isolani fosse di origine messinese o, comunque, da lunga data insediata nella Città dello Stretto, presso la quale aveva avuto modo di formarsi e poi di ricoprire incarichi regi presso la dogana o il fondaco, come Guglielmo Fabro di Radario, il salernitano Matteo Manganario, Guglielmo di Piacenza, Guiduccio Tarabotta e altri123. Fra le figure emergenti della compagine notarile locale, impegnate nella Prima metà degli anni Settanta presso le strutture amministrative e finanziarie di Messina, alcune avrebbero successivamente ottenuto la concessione di beni feudali nello stesso distretto in cui esercitavano l’ufficio, altre beneficiarono di prestigiosi incarichi in altri giustizierati, come nel caso dei membri delle famiglie Calvaroso, de Magistro, Marcabei, de Marino, Ruffo124. Di molti altri notai siciliani abbiamo notizia attraverso gli atti della cancelleria angioina, basti osservare che nel territorio peloritano, durante il solo biennio 1270-1272, ottennero l’autorizzazione all’esercizio della professione circa cinquanta rogatori125. Su alcuni rappresentativi membri della casta notarile siciliana sarebbe necessario soffermarsi con maggiore riguardo, vista l’enorme incidenza che le rispettive famiglie esercitarono sulle dinamiche sociali in rapida evoluzione presso la Città del Faro. È a tal riguardo indicativo il fatto che alcune di queste congreghe familiari, sebbene in Età aragonese il ruolo esclusivo di detentori della cultura giuridica entrasse in crisi con l’allargarsi della cultura stessa e il diffondersi dei juris doctores, continuarono ad esercitare un concreto potere politico sin oltre il tramonto della monarchia angioina, anche quando la funzione dei notai «lentamente viene meno, sino a limitarsi a quella di estensori dell’atto giu-
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ridico e garanti della sua forma e autenticità»126. La fortuna dei de Bello, de Maraldo e de Riso, dotati all’origine della loro ascesa sociale di ingenti disponibilità finanziarie accantonate attraverso una pratica accorta della mercatura, poggiò sulla loro presenza diffusa in tutti i centri del potere, tanto ai vertici della pubblica amministrazione che in seno all’apparato giuridico127. In questo senso, quello dei de Riso appare il gruppo familiare più idoneo a rappresentare, con una certa completezza di sfumature, la facies sociale e le tendenze del ceto mediano messinese in Età angioina, soprattutto attraverso l’azione del miles Matteo, che si affacciò alla vita amministrativa della città falcata nel settembre 1269, con l’incarico di nauclerius (protontino), e scalò rapidamente i vertici della milizia e quelli dell’apparato burocratico, sino alla carica di maestro portolano e procuratore, cavalcando con spregiudicatezza contingenti necessità belliche e obblighi diplomatico-commerciali della monarchia128. Al tragico epilogo della famiglia de Riso, sopravvenuto nel corso della rivolta del 1282, corrisponde la diversa sorte di molte altre figure emergenti del centro messinese, le quali, adattandosi alla nuova realtà e aderendo agli Aragonesi, continuarono ad esercitare la propria carica e ad occupare un posto di primo piano in seno alla nuova società cittadina, accanto a quegli elementi del ceto nobiliare-urbano che adesso potevano rivendicare un ruolo dirigenziale e consolidare il proprio potere. Ma l’esclusione dalla gestione del potere del forte casato messinese, attuata attraverso l’eliminazione fisica dei suoi componenti (Baldo, Giacomo e Matteo) o il loro esilio, denuncia innanzi tutto la presenza di forti tensioni all’interno della compagine mediana del centro peloritano e l’esistenza di una lotta sotterranea. Questo confronto, tuttavia, non avrebbe causato un azzeramento dei ceti dirigenti, né un radicale rovesciamento dei rapporti di potere interni alla universitas, ma avrebbe lasciato emergere, accanto ai gruppi consolidati di mercanti-burocrati e uomini di legge, un’agguerrita schiera di grandi e piccoli feudatari, dai quali sarebbe emersa una singolare nobiltà che sarebbe più appropriato definire “patriziato urbano”129. Il gruppo dei milites, infatti, non sarebbe riuscito a conquistare uno spazio rilevante ai vertici della società peloritana prima del Vespro, momento che avrebbe siglato la loro concreta rivalsa sui ceti mediani dietro la spinta di Alaimo da Lentini, sebbene la casta feudale, cui non conveniva rinunciare alla cultura tecnico-giuridica propria dei meliores, mirasse piuttosto ad un’alleanza con l’apparato burocratico e si mostrasse pure disposta ad accettare un’osmosi fra le due compagini130. Tanto più che i meliores civium, che avevano il diritto di eleggere gli acatapani, potenziarono le proprie attribuzioni a partire dalla metà degli anni Settanta del Duecento, quando si arrogarono gradualmente anche il privilegio di nominare i membri della iuratia, le cui funzioni si sarebbero sovrapposte a quelle dei primi, tanto da indurre Federico III, nel 1311, a vietare ai giurati di assumere, sicut actenus, l’ufficio di acatapano131. D’altra parte, sino a tutto il XIII secolo, nel processo formativo della nuova élite e nell’azione politica condotta dalla universitas Messanae, il ruolo di gruppi cittadini situati nei più bassi gradini della scala sociale, i populares, fu decisamente marginale, mentre la conferma da parte del sovrano di alcuni statuti suntuari e la loro successiva revoca testimonierebbe l’incontro-scontro fra burgenses e nobili, i quali si sarebbero alternati nella guida dell’amministrazione locale e avrebbero proiettato nei successivi decenni precisi «modelli comportamentali a fini politici»132.
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7. Meliores, milites e burgenses: la nascita del patriziato urbano A partire dal 1282 Messina fu quasi ininterrottamente dominata da grandi baroni133. Ai vertici si pose dapprima Alaimo da Lentini, che larga parte aveva avuto nelle vicende del Vespro, poi, fino al 1354, dominarono i Palizzi, quindi Enrico Rosso controllò il centro peloritano ad intervalli irregolari fino al 1375 e, infine, esercitarono la loro influenza per tutti gli anni Ottanta gli Alagona. I milites, da parte loro, oltre lo sfruttamento di modeste proprietà in città e nel territorio circostante, curarono principalmente insieme ai meliores la gestione degli uffici e operazioni speculative, come l’appalto di gabelle, attività di cambio e di prestito, vari generi di traffici. Questo gruppo composito, prima di realizzare una piena osmosi, avrebbe raggiunto un certo equilibrio di potere, giacché, se è vero che i milites, forti della loro competenza tecnico-giuridica acquisita già nel periodo angioino, ebbero la preminenza all’interno della curia stratigoziale, è molto probabile che, da parte loro, i meliores finissero per esercitare un vero e proprio monopolio nell’ambito della giurazia. Inoltre, occorre osservare che anche i milites privi di consistenti beni terrieri acquistarono prestigio, in virtù della loro cultura giuridica, e la compagine dirigente vide così il prevalere al suo interno dei cavalieri; ma d’altra parte, ai burgenses fu possibile l’accesso al cavalierato, quando adeguatamente sostenuti dalle proprie disponibilità finanziarie e muniti anche loro della necessaria preparazione culturale134. Nella vita economica messinese erano presenti altri gruppi sociali che comprendevano agricoltori, magistri e medici135, ma soprattutto piccoli trafficanti incalzati dall’espansione degli appetiti di milites e meliores, e artigiani che seppero approfittare della notevole circolazione di denaro per assumere importanti commesse136. Tutto ciò comportò una diversa distribuzione della ricchezza e, di conseguenza, un accentuato dinamismo delle proprietà immobiliari e terriere a Messina e nel suo distretto. Questi cambiamenti danno la misura dell’evoluzione economica e sociale del centro peloritano, mostrando una società in movimento nella quale, accanto ad influenti benestanti, vivevano piccoli proprietari molto attivi nel tenimento peloritano, la cui fisionomia aveva assunto forma durante la breve stagione angioina, caratterizzata dalla messa a coltura di terrae vacuae e da una massiccia ridistribuzione di beni confiscati ai proditores regni137. Appaiono significative, per delineare l’andamento dell’economia e della dialettica sociale a Messina nel corso del Trecento, le testimonianze relative alle fiumare e alle altre terre del tenimento peloritano, come quelle di Aftilia, Camaro e Cataratti, San Filippo il Grande, le contrade di Cumia, Mili, Salice, San Giacomo, Santa Maria Annunziata e Santa Maria de Scalis138. Interessante osservatorio è costituito, in particolare, dal Territorio del Faro, dove molti documenti tratti dal tabulario di Santa Maria di Malfinò, oltre ad attestare la presenza del notaio Nicolò de Gregorio, del milite Bonfiglio Longobardo, dei Palizzi e di Nicolò de Riso (Nicolosus), rivelano pure la presenza di altri personaggi, come il mercante Ruggero Aceto, sicché si può osservare che l’accaparramento di beni terrieri interessò anche i commercianti, oltre che i nobili e i burocrati139. In questo senso, la rapida ascesa di milites e burocrati, sostenuti dalla politica di Pietro III, Giacomo II e Federico III140, prospetta l’impetuoso incremento delle proprietà di nobili, amministratori, finanzieri e altri personaggi di cui non è possibile definire le attività, ma che probabilmente erano in gran parte affaristi e mercanti141.
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Significativa appare, ad esempio, la presenza del milite Grassotto Grasso insieme al fratello Bonino in un notevole giro finanziario di 450 fiorini, condotto nel 1308 con i Peruzzi e certi mercanti marsigliesi142, come anche il fatto che gli judices fossero regolarmente coinvolti nelle transazioni143, i meliores, oltre a collaborare con i milites nel commercio, finanziassero altri trafficanti144 e i notarii si dedicassero pure al finanziamento degli artigiani145. Tra gli intraprendenti uomini d’affari emergenti a partire dagli anni di Federico III, figurarono i fratelli Nicolò e Filippo de Adam, Bartolomeo de Arcudio, il milite Nicoloso de Brignali, il notaio Giacomo Marchesano, Simone de Pachi, Perrone Pistelli, Bentivegna di San Bartolomeo e altri146. Ma, dopo la successione di Pietro II, le cose sarebbero cambiate e la lunga guerra tra le parzialità baronali avrebbe sottratto a Messina gran parte del suo dominio sul mercato regionale, conducendo ad una grave crisi i medi e piccoli mercanti. I nobili-burocrati, con l’appoggio del re e dei Palizzi sino al 1354, avrebbero comunque continuato a prosperare grazie alla monocoltura granaria impiantata nei loro feudi ubicati in Val di Noto e all’ampliamento dei propri beni terrieri presso Messina, che avrebbero consentito loro di controllare stabilmente il mercato alimentare cittadino147. In definitiva, dall’Età di Federico III fino all’arrivo dei Martini i vertici amministrativi della città furono occupati dapprima da un gruppo egemone poco omogeneo, distinto al suo interno in virtù del prestigio sociale determinato dal cingolo militare, che comprendeva, in ordine decrescente rispetto al livello sociale, milites, maiores e meliores. Ma nei decenni successivi la fusione dei vari gruppi posti ai vertici amministrativi ed economici avrebbe dato vita a quel particolare ceto che, come si è detto, appare corretto definire patriziato urbano148. Questo ceto dirigente si costruì lentamente un patrimonio terriero nella Sicilia del grano e si dedicò al commercio, soprattutto – sostiene Stephan Epstein149 – a quello regionale, lungo le sponde calabresi sino alla perdita del suo controllo nel 1350, quindi indirizzato verso la stessa Sicilia. La costituzione del patriziato urbano nella Città dello Stretto può essere considerata un fenomeno di lungo termine, dal momento che, come ha osservato Enrico Pispisa, il patriziato stesso «si formò, dopo l’incubazione di un secolo, tra la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento e dominò, con alterne vicende, Messina fino all’inizio del Cinquecento, quando i populares entrarono stabilmente nel ceto dirigente»150. In effetti un momento fondante è costituito dalla decisione di Federico III di escludere dagli uffici civili la nobiltà feudale, offrendo così ai meliores civium il potere di scegliere i funzionari cittadini e la possibilità di sottrarre autorità allo stratigoto e alla sua curia. I sei giurati eletti ogni anno dai meliores, in sostanza, finirono per controllare tutti gli aspetti amministrativi, relativi alle finanze e ai commerci, mentre le questioni militari e di amministrazione della giustizia costituirono le competenze specifiche dello stratigoto. Tuttavia, l’osmosi tra milites e meliores si realizzò anche grazie all’opera di mediazione dei Palizzi, che durante la loro lunga egemonia (esercitata sino al 1354 da Damiano junior, Damiano senior, Matteo, Nicolò e Vinciguerra), controllarono l’economia locale con l’appoggio non sempre limpido di grossi mercanti genovesi, come i Doria e, successivamente, i Lercaro151. Il potere dei Palizzi resistette ai tentativi di ristabilire il controllo centrale effettuati dal duca Giovanni di Randazzo, e uscì indenne dalla rivolta messinese del 1342, ma non dalla peste nera che si abbatté pesantemente su Messina. Negli anni suc-
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cessivi, il potere di un altro feudatario emergente, Enrico Rosso, venne arginato dall’élite peloritana che operò in accordo con grossi mercanti stranieri, causando così un notevole danno finanziario agli operatori locali e generando uno stato di tensione in seno ai ceti inferiori della società. Questi attriti, comunque, incisero molto poco sugli assetti del potere cittadino, i cui detentori sfruttarono il debole controllo degli Aragonesi, impegnati nella lunga ed estenuante Guerra del Vespro, e approfittarono dei torbidi feudali tra parzialità latina e catalana, che nel 1377 giunsero al compromesso del vicariato a quattro (Alagona, Chiaramonte, Peralta e Ventimiglia), per rafforzare le proprie prerogative152. Durante il regno dei due Martini (1391-1410) e la breve reggenza di Bianca di Navarra (1410-1412), Messina, insieme a Palermo e a Catania, giocò un ruolo fondamentale nella strategia della conquista aragonese e nelle delicate fasi del suo assestamento153. La nobiltà civica peloritana, però, ebbe margini di autonomia maggiori rispetto alle altre due sedi dell’isola, perché più svincolata dalla pressione baronale, e poté quindi sostenere il progresso economico della città, di cui si avvantaggiarono principalmente i ceti mercantili, e alimentare le ambizioni municipalistiche che d’ora innanzi avrebbero fatto da sfondo alle vicende urbane dell’isola. Per collocare adeguatamente le istanze dei ceti messinesi all’interno del processo sociale della universitas, è necessario esaminare, oltre ai testi delle “antiche consuetudini”154, i contenuti dei capitoli presentati dalla cittadinanza ai nuovi sovrani tra il 1392 e il 1396 per l’approvazione di privilegi che furono prevalentemente di natura economica155. E in questo senso assumono rilievo le istanze contenute in un documento del 1396, edito recentemente da Enrico Pispisa, che danno la misura del potere contrattuale esercitato dai ceti dirigenti peloritani, ma soprattutto lasciano emergere come i rapporti dialettici e le intese di collaborazione tra Messina e la Corona fossero determinati dallo stato di necessità attraversata da quest’ultima nel corso del proprio consolidamento e, pertanto, «acquistino più il sapore di un ricatto che di semplici richieste»156. Le richieste formulate nei paragrafi dei capitoli miravano, soprattutto, alla tutela dell’economia urbana e al potenziamento del potere mercantile di un ceto che traeva maggiori benefici dalle transazioni commerciali che dagli investimenti terrieri e immobiliari. Sicché, tra gli altri, venne sollevato il problema della pirateria, che appare di matrice catalana più che saracena; si perseguì, inoltre, l’ampliamento del distretto e la possibilità di controllare il territorio con funzionari cittadini; altri capitoli, infine, miravano al riconoscimento dell’egemonia di Messina sulle altre città dell’isola e ad allentare il controllo regio sul governo urbano, come quelli relativi alla conferma dello stratigoto e alla regolamentazione degli uffici di acathapani, iudici, iurati e notarij actorum, che si chiedeva fossero «annali et chitadini di Missina»157. La città, in effetti, ebbe buon gioco quando si trattò di richieste relative allo sviluppo economico e alla tutela commerciale, anche nei casi in cui, allacciando collegamenti diretti con i mercanti veneziani, dovette aggirare le resistenze di Martino, che sosteneva gli operatori catalani pur garantendo una certa continuità nei commerci con la Serenissima158. Però, problemi sostanziali tra l’Università peloritana e i Martini si presentarono quando Messina chiese la reintegrazione al proprio demanio delle terre usurpate dai baroni, sia catalani sia latini, del cui sostegno la corona non poteva fare a meno159. Tale circostanza lascia emergere delle questioni di fondo, che potremmo individuare nell’inarrestabile crescita del potere baronale, nella lenta involuzione del potere esercitato dai ceti cittadini emergenti e, soprattutto, in una politica regia in-
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cline alle concessioni per necessità: Martino il Vecchio, di fatto, nel momento in cui la corona apparve rafforzata da favorevoli esiti in campo internazionale e da un consenso più diffuso nell’isola, non esitò a ritornare sui propri passi e riprese il controllo della Città del Faro tramite una fitta maglia burocratica e l’avvicinamento alle istanze baronali. Alla morte di Martino il Vecchio, nel 1410, e dopo il declassamento della Sicilia al rango di viceregno ad opera del nuovo sovrano Ferdinando I, Messina sarebbe stata tagliata fuori dall’agone politico che infiammò l’isola nei torbidi anni della successione e in quelli dell’assestamento viceregio. Tuttavia, sebbene la fine del regno indipendente vanificasse le aspirazioni politiche del patriziato urbano messinese, «si schiudeva per l’isola e per la città del Faro una nuova epoca particolarmente prodiga nei confronti di Messina, che avrebbe raggiunto posizioni economiche mai attinte prima»160. Le testimonianze relative allo sviluppo urbanistico di Messina nell’Età aragonese, offrono l’immagine di una città in piena espansione demica (forse 30.000 abitanti), popolata da famiglie emergenti e numerosi artigiani e commercianti che diedero nome a rugae e quartieri (argentieri, bottai, calzolai, orefici, setaioli, ecc.) e sotto i Martini fruirono della fiera, potenziata e regolamentata nel Quattrocento. La città vecchia, compresa tra i torrenti Boccetta e Portalegni e accessibile dalle porte Sant’Antonio e Reale, si era ampliata extra moenia già nell’ultima Età sveva con la costruzione della chiesa di San Francesco d’Assisi, ma la sua crescita disordinata fra XIV e XV secolo, lungo la magistra ruga – il Dromo ad essa parallelo, le poche piazze che si mostravano piuttosto come spazi non edificati e, soprattutto, il porto –, attesta un’espansione alquanto caotica, connotata da un’edilizia di scarso pregio, che puntava sulla funzionalità dell’aggregazione umana e, al di là di pochi esempi di dimora nobiliare, riproponeva una tipologia polinucleata attorno ad uno spazio comune che «per la Sicilia è stata anche di derivazione islamica»161. Un fenomeno molto importante nel Quattrocento messinese, in effetti, è quello della crescita economica, particolarmente vivace e diffusa presso tutti i ceti, sostenuta peraltro dall’esercizio di nuove pratiche mercantili, come il commercio della seta e dei cannameli, le quali comportarono il flusso continuo di mercanti stranieri di passaggio lungo la rotta di Levante o delle Fiandre e, soprattutto, l’apertura dei traffici anche agli operatori locali di estrazione popolare. Tale diffuso benessere economico, in sostanza, attenuò i contrasti di classe e produsse un bipolarismo tra due gruppi dominanti, il patriziato e il popolo, i cui contrasti sono riconducibili esclusivamente alla spartizione del potere, senza che ne venisse posto in discussione il sistema. Che la natura dello scontro tra gruppi sociali non debba identificarsi con una lotta di classe è dimostrato da un recente studio, in cui viene proposta come chiave interpretativa delle dinamiche sociali nella Messina del XV secolo un’indagine sulle professioni e sui mestieri (giuristi, magistrati, notai)162. In questa prospettiva è da inquadrare il lungo contrasto che oppose – sempre secondo un ordine decrescente rispetto al livello sociale – nobiles, honorabiles e magistri in un confronto, culminato nella rivolta di Giovanni Mallono del 1462, che si sarebbe stemperato nel secolo successivo163. Per capire la dinamica dei ceti urbani a Messina appare esemplare, peraltro, la vicenda della famiglia Mirulla giacché emblematicamente mostra il percorso seguito dagli honorabiles per accedere alle élites164. Ma ancora più densa di significati appare la vicenda di Antonello da Messina, chiarita recentemente da Salvatore Tramontana, il quale ha
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tracciato un incisivo affresco della società peloritana sensibile ai quadri mentali e alla vita materiale, prendendo spunto dall’esperienza di vita e dall’attività artistica del pittore messinese, ma anche attraverso una lettura attenta del suo testamento165. Che Antonello abbia tratto ispirazione dall’impianto urbano della città, oltre che dall’identità fisica dei suoi abitanti, emerge con evidenza dai suoi dipinti, ma dalle sue ultime volontà è possibile cogliere informazioni su molteplici aspetti della Messina dell’epoca, della sua vita sociale e religiosa166, dei suoi nessi economici e dei suoi complessi intrecci politici. L’atto di ripartizione dell’eredità di Antonello e la definizione dotaria per la figlia Catarinella, ad esempio, suggeriscono un’agiatezza senz’altro dignitosa, sebbene non equiparabile ai livelli di benessere evidenziati dagli inventari del medico Giacomo di Consolo o dell’argentiere Giovanni d’Urso. Ma gli spunti più interessanti sono offerti in relazione ad una vicenda molto importante e ancora poco approfondita, che vide coinvolte, a partire dalla metà del Quattrocento, le due frange dei conventuali e degli osservanti sorte dalla scissione dell’Ordine francescano167. Nell’esplicita volontà di Antonello di essere sepolto con l’abito dei francescani osservanti e di impedire la partecipazione alle esequie del clero della cattedrale e soprattutto dei frati conventuali, si percepisce la pesante atmosfera culturale, politica e religiosa che in città era alla base dello scontro interno all’ordine e delle fratture tra forze ecclesiasti-
In alto: Busto bronzeo di Antonello da Messina (1430?-1479) e, a sinistra: Monumento celebrativo (2005). Le due opere rappresentano alcuni fra i numerosi omaggi resi al grande artista dalla sua città natale. Si tratta di tributi doverosi, specie se si tiene conto del fatto che, nelle sue opere, Antonello ha spesso tratto ispirazione dal paesaggio cittadino e dall’identità fisica dei suoi abitanti.
che, ma nello stesso tempo è possibile cogliere la consapevolezza di un indirizzo sociale di quanti lottavano contro gli intrecci col potere dei conventuali e affinché i ceti meno elevati acquistassero una nuova dignità. Lo stesso sentimento di risoluta opposizione echeggia peraltro nelle ultime volontà di Esmeralda Calafato, più nota come S. Eustochia, confermando un atteggiamento di chiusura nei confronti dei conventuali diffuso in larghi strati della società e particolarmente sentito da quanti tentavano di colmare il divario fra le aspirazioni e la realtà. D’altra parte, il monastero di Santa Maria del Gesù, fondato a Messina dal Beato Matteo d’Agrigento intorno al 1425, non a caso fu il primo convento dei Francescani dell’Osservanza sorto in Sicilia e costituì per tutto il XV secolo un punto di riferimento spirituale per l’intera cittadinanza, come mostra la larghissima diffusione del culto dell’Annunziata. Ma, soprattutto, rappresentò un concreto referente per «la comuni genti constituta in grandi paupertati – la quale – cum grandissima fatica si sustenta, a causa soprattutto di la usura chi esti contra di la Santi Matri Ecclesia»168. La stessa funzione sociale, in sostanza, che allo scorcio del secolo avrebbe assunto a Messina il primo Monte di pietà istituito nell’isola, fondato il 9 marzo 1490 da Andrea da Faenza con il precipuo scopo di provvedere, come si legge nella Prefazione agli Statuti ratificati alla presenza dei giurati, dello stratigoto e del viceré, «ad subventioni di li poviri cittadini»169. Al culto della Vergine, nei cui riguardi la città peloritana fu particolarmente sensibile a partire dall’Età medievale170, sono da collegare una serie di leggende di grande impatto nell’immaginario collettivo dell’epoca – ma ancora ai giorni nostri radicate nella più genuina tradizione popolare del centro peloritano –, testimonianza del forte risveglio devozionale che scosse le coscienze dei messinesi negli anni difficili della guerra del Vespro, nelle fasi più acute delle crisi economiche e sociali del Trecento, ma, soprattutto, durante il travagliato percorso spirituale alle soglie dell’Età moderna. Alla venerazione della Madonna, che con il “prodigio della Caperrina” assolve la cittadinanza salvandola dalla peste e
A sinistra: Absidi della chiesa di San Francesco d’Assisi all’Immacolata (1254 ca.) e, a destra: Particolare della Pietà con tre angeli (1477-78?) di Antonello da Messina. È un imponente tempio le cui possenti absidi merlate sono state immortalate in un dipinto del celebre artista messinese. La costruzione dell’edificio risale agli ultimi anni della dominazione sveva e testimonia l’espansione extra moenia della città vecchia, originariamente compresa tra i torrenti Boccetta e Portalegni.
Attuali persistenze mitologiche. A sinistra: Dina e Clarenza, particolare del campanile del Duomo e, in alto, da sinistra a destra: Mata e Grifone per le vie cittadine. Entrambe le leggende hanno origine nell’Età medievale: l’eroismo femminile di Dina e Clarenza è riconducibile all’attacco angioino dell’8 agosto 1282; l’evento mitico dei due giganti è legato, invece, alle fasi della conquista normanna.
dalla carestia nel corso del Trecento171, idealmente si collega la celebrazione dell’eroismo femminile e il trionfo della pietà muliebre, esemplati dal cronista trecentesco Matteo Villani e dallo storiografo di fine Duecento Bartolomeo da Neocastro, il primo con il richiamo al fattivo impegno delle donne messinesi e al sacrificio di Dina e Clarenza durante l’attacco angioino a Messina l’8 agosto 1282172, l’altro con la tradizione, carica di forti valenze salvifiche, dell’apparizione della “Dama Bianca” sulle mura della città assediata173. Ma a tali diffuse credenze si aggiungono pure altri suggestivi eventi mitici, diffusi allo scorcio dell’Età di mezzo e durante i primi decenni di quella moderna, riferiti cronologicamente alle fasi della conquista normanna della città (“Mata e Grifone”), allo sbarco di Ruggero il Granconte presso la Città del Faro (“Fata Morgana”) e agli anni fridericiani (“Colapesce”)174. Spunti ulteriori di riflessione emergono se si considerano i significati sociali ed economici dell’attività mercantile e se si osserva come tra gli operatori messinesi attivi all’estero, dagli scali di Fiandra a quelli levantini, vi fossero, secondo un ordine decrescente rispetto al livello sociale, nobiles, honorabiles e discreti, ma anche artigiani facoltosi, soprattutto argentieri, orefici e setaioli175. Una serie significativa di esempi, offerti in questo senso da recenti indagini176, mostra che il volume di affari dei nobili era più ampio, ma che spesso anche gli honorabiles si impegnavano in grossi traffici e, insieme agli artigiani, concorrevano alla conquista delle magistrature cittadine. I tre gruppi urbani, pertanto, interagirono tra di loro con accordi e rapporti commerciali e finanziari, come avvenne tra Bernardo Cofino de Calafato (padre di Esmeralda) e i nobili Spatafora, oppure nel caso dell’honorabilis Nicola Perrono, che mantenne serrati contati con nobili, notai e mercanti. Un altro aspetto fondamentale della vicenda sociale di Messina in Età aragonese, come si è già accennato, è quello relativo all’attività di advocati, iurisperiti e notarii, per la cui
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preparazione professionale operavano in città qualificate scuole di diritto, frequentate dai messinesi in alternativa ai centri universitari della penisola. Però, se si esclude la scuola umanistica di Costantino Lascaris, il rilievo culturale di Messina fu nel XV secolo assai modesto177, sebbene si possa attestare una certa circolazione di testi classici e i ceti dirigenti fossero intellettualmente aperti, abbastanza da concepire e realizzare all’occorrenza la stesura di privilegi falsi, la redazione di cronache apocrife e la traduzione in lingua volgare della protesta cittadina del 1478, oltre ad una serie di interventi autocelebrativi che attingono alla cultura classica e alla tradizione di un Regnum Siciliae ormai perduto178. Sebbene nella Seconda metà del Quattrocento il numero degli uomini di legge appaia inflazionato, il prestigio e il potere degli iuris doctores non ne risentì, ed essi si mostrarono come un organismo tutto sommato omogeneo, perché fu sempre vivo il conflitto per la spartizione del potere ma gli obiettivi da perseguire rimasero comuni179. Non costituiscono una compagine compatta neppure i professionisti, che peraltro ebbero uno scarso rilievo politico, al contrario della classe mercantile e degli emergenti banchieri, i quali raggiunsero il potere politico attraverso quello economico. In seno al gruppo degli artigiani, ad esempio, i pittori occuparono un posto privilegiato e costituirono un ceto di piccoli benestanti insieme ad argentieri, cartografi, orefici e setaioli, seguiti da altri artisti e operai, mentre dall’altro lato della scala si situarono gli immigrati dalla Calabria180. A proposito della dinamica sociale degli artigiani, particolare rilievo assume il loro tentativo di dare vita, nella Seconda metà del secolo, ad una vera e propria corporazione, dotata di maestranze e regolata da statuti. Da queste istanze ha origine un lungo periodo di lotte sociali che avrebbero portato alla rivolta di Giovanni Mallono, cui prima si è fatto cenno, e alla lenta ma inarrestabile ascesa dei ceti medi e dei popolani verso la conquista del potere politico. D’altra parte, come ha dimostrato Lucia Sorrenti, anche i membri di questo ceto entrarono in possesso di proprietà fondiarie talvolta di rilevante spessore181, sebbene tale conquista risultasse in fin dei conti alla portata di molti operatori spregiudicati, sicuramente un iter maggiormente praticabile rispetto all’accidentato cursus che conduceva alla nobilitazione. Come si è osservato, il percorso seguito dal patriziato urbano verso la feudalizzazione si fondò principalmente su tre basi, carica pubblica, commercio e feudo, passando dai traffici e dalle speculazioni finanziarie, dal controllo di estesi possedimenti fondiari e beni immobili, fino al controllo degli uffici attraverso l’appalto delle relative gabelle. Ma è in fondo lo stesso itinerario seguito dagli honorabiles, che riuscirono ad acquisire baronie e relativo prestigio grazie alla propria disponibilità economica e alla loro acculturazione tecnico-giuridica, come avvenne emblematicamente in seno alle famiglie Ansalone, Balsamo, Campolo, Crisafi, La Rocca, Porcu, Romano, Saccano e tante altre182. Anche le più importanti cariche ecclesiastiche vennero occupate dai rappresentanti di questo gruppo, i quali assunsero così il controllo di chiese e monasteri dotati di estesi patrimoni e collegati ai centri nevralgici del potere politico. Queste dinamiche sono l’espressione di «un concetto fondamentale: che il potere politico è per i patrizi condizione necessaria alla loro affermazione»183; ma consentono anche di capire alcuni meccanismi che regolarono l’evoluzione del ceto medio, composto da intellettuali di varia caratura, magistri e medici, e di quello degli artigiani, entrambi profondamente diversificati al loro interno.
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In definitiva, se volessimo individuare una struttura nella quale inscrivere la vicenda messinese durante il dominio aragonese, dovremmo senz’altro fare riferimento alle élites, cioè, nel caso specifico, alla formazione di un ceto dirigente dotato di nuovi caratteri, frutto di un’evoluzione dei gruppi egemoni dell’Età precedente, quando non era stato possibile realizzare una compagine unitaria perché i modelli sociali non erano coincidenti. Nei primi decenni del regno aragonese, in effetti, non si sarebbe coagulato un ceto propriamente omogeneo ai vertici della società messinese, perché l’obiettivo dell’ascesa venne individuato nella conquista dello status feudale da parte di tutti i gruppi emergenti, che comprendevano sia grandi casati nobiliari, come quello dei Palizzi o dei Rosso, sia possidenti di medio spessore e semplici milites non dotati di prestigiosi beni terrieri, pertanto guardati con distacco dai feudatari e con diffidenza dai burgenses (costituiti da maiores e meliores)184. Ma nel corso del secolo successivo sarebbero sopraggiunte nuove sostanziali trasformazioni all’interno della società peloritana, dal momento che le forze cittadine emergenti, dotate di una grande mobilità sociale, avrebbero instaurato rapporti più intensi con gli altri gruppi, riuscendo a partecipare alla gestione amministrativa della città in virtù della loro ascesa finanziaria. In fondo, già da alcuni decenni l’ingresso dei popolani nelle élites, emblematicamente sancito dalla loro partecipazione alla giurazia e alle altre magistrature locali, aveva aperto per Messina un’epoca nuova, che l’avrebbe vista proiettata «verso itinerari non più riconducibili all’unità di svolgimento dei secoli XI-XV»185, sebbene qualche struttura, come il “patriziato urbano”, avrebbe costituito per l’Evo moderno un’eredità pienamente medievale. NOTE 1 ENRICO PISPISA, Stratificazione sociale e potere politico a Messina nel Medioevo, in IDEM, Medioevo meridionale. Studi e ricerche, Intilla, Messina, 1994, p. 378. 2 CAIO DOMENICO GALLO, Gli annali della città di Messina, nuova ed. ANDREA VAYOLA (a cura di), vol. II, s.e., Messina, 1879 (1a ed. 1758), p. 17; PIERO PIERI, La storia di Messina nello sviluppo della sua vita comunale, D’Anna, Messina, 1939, p. 5. 3 BIAGIO PACE, Arte e civiltà della Sicilia antica, vol. IV, Società anonima Dante Alighieri, Roma, 1949, passim. 4 E. PISPISA, Aspetti della storia di Messina in età normanna, in IDEM, Medioevo Fridericiano e altri scritti, Intilla, Messina, 1999, p. 221. 5 PROCOPIO DI CESAREA, Bellum Gothicum, trad. it.: La Guerra gotica, Garzanti, Milano, 2005, ad indicem e gli studi di SALVATORE LA ROCCA, Le incursioni vandaliche in Sicilia, Prem. stab. tip. Montes, Girgenti, 1917; FRANCESCO GIUNTA, Genserico e la Sicilia, Manfredi, Palermo, 1958. 6 F. GIUNTA, Sicilia barbarica, Edistampa, Vicenza, 1962, pp. 47-81. 7 A parte un sarcofago di probabile fattura bizantina, conservato presso il Museo regionale di Messina insieme ad alcuni frammenti lapidei e marmorei. 8 ANDRÉ GUILLOU, La Sicilia bizantina; un rilancio delle ricerche attuali, in «Archivio Storico Siracusano», n.s. IV (1975-1976), pp. 45 ss. 9 PAOLO ORSI, Messana, la necropoli romana di S.Placido, in «Mal», Roma, 1916, pp. 81 ss. 10 AMELIA IOLI GIGANTE, Messina, Laterza, Roma-Bari, 1980, pp. 8 ss. 11 MARCO TULLIO CICERONE, Verrine, II, IV, 1-3. 12 PLINIO IL VECCHIO, Naturalis Historia, III, 88. 13 P. DI CESAREA, Bellum Gothicum..., cit., I, 8. 14 Ivi, VII, 27. 15 F. GIUNTA, Sicilia…, cit., pp. 14 ss. 16 ADOLF HOLM, Storia della Sicilia nell’antichità, Carlo Clausen editore, Torino, 1896 (rist. an.: Forni, Bologna, 1965), pp. 529 ss. 17 Ancora lo storico di Cesarea suggerisce, indirettamente, tale immagine della vita civica messinese, attraverso la descrizione del rigoglio umano nel centro di Siracusa dopo la conquista bizantina (P. DI CESAREA, Bellum Gothicum..., cit., pp. 7 ss.).
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18 A. GUILLOU, La Sicilia bizantina..., cit., pp. 51 e 72 ss. e Gregorii I papae Registrum epistolarum, ed. PAUL EWALD - LUDWIG M. HARTMANN, in Monumenta Germaniae Historica, Epistolae, 1887-1891 (libri I-VII) e 1892-1899 (libri VIII-XV), nuova ed.: München, 1978, I, p. 64. 64. 19 Ivi, II, 51. 20 A. HOLM, Storia della Sicilia..., cit., p. 531 e Gregorii I papae Registrum..., cit., ad indicem. 21 Un quadro chiaro e documentato del fenomeno monastico nel Mezzogiorno bizantino è in ADELE CILENTO, Potere e monachesimo. Ceti dirigenti e mondo monastico nella Calabria Bizantina (secolo IX-XI), Nardini, Firenze, 2000, corredato da una ricca bibliografia. Si veda, inoltre, LUCIANO CATALIOTO, Il Vescovato di Lipari-Patti in età normanna (1088-1194). Politica, economia, società in una sede monastico-episcopale della Sicilia, Intilla, Messina, 2007, capp. I e II. 22 È una tesi, d’altra parte, a suo tempo sostenuta da DOMENICO G. LANCIA DI BROLO (Storia della chiesa in Sicilia nei dieci primi secoli del cristianesimo, vol. II, Tipografia Lao, Palermo 1884, p. 21) e sostanzialmente confermata da LYNN TOWNSEND WHITE JR., Latin Monasticism in Norman Sicily, The medieval Academy of America, Cambridge, Mass., 1938 (trad. it.: Il monachesimo latino nella Sicilia normanna, Dafni, Catania, 1984), pp. 44 ss. e da MARIO SCADUTO, Il monachesimo basiliano nella Sicilia medievale: rinascita e decadenza, sec. 11.-14., Edizioni di storia e letteratura, Roma, 1982 (rist. an. dell’ed. del 1947, con aggiunte e correzioni), p. XVIII, che peraltro rileva come l’apporto considerevole di questi rifugiati orientali in Sicilia sia provato innanzi tutto dalla tradizione manoscritta del Nuovo Testamento e si esprimesse pure nel settore giuridico e, naturalmente, nella liturgia e nelle arti. 23 A questo riguardo è significativo il fatto che papa Martino I, nel 653, venisse detenuto per un anno a Messina prima di essere inviato a Bisanzio per essere giustiziato (SILVANO BORSARI, Il monachesimo bizantino nella Sicilia e nell’Italia meridionale prenormanne, Istituto Italiano per gli Studi Storici, Napoli, 1963, ad indicem). 24 Sull’avvicinamento della chiesa di Roma ai Franchi, formalizzato nel 755, e sugli effetti dell’iconoclasmo nell’isola, si vedano L.T. WHITE JR, Latin Monasticism..., cit., p. 48 e M. SCADUTO, Il monachesimo..., cit., pp. XXV e XXVII s. 25 JOSEPH SIMON ASSEMANI, Italicae historiae scriptores, de rebus Neapolitanis et Siculis ab anno 500 ad annum 1200, vol. III, Tipografia Komarek (apud Angelum Rotilium, Linguarum Orientalium Typographum), Romae, 1751, III, p. 475. 26 S. BORSARI, Il monachesimo..., cit., pp. 18 ss.; L. CATALIOTO, Il Vescovato di Lipari-Patti..., cit., vol. I, pp. 2 e 3; M. SCADUTO, Il monachesimo basiliano..., cit. 27 Riportati in GIUSEPPE COZZA LUZI, La cronaca siculo-saracena di Cambridge con doppio testo greco scoperto in codici contemporanei delle biblioteche vaticana e parigina con accompagnamento del testo arabico per Bartolomeo Lagumina, Lao e De Luca, Palermo, 1890, pp. 24 e 99. 28 MICHELE AMARI, Storia dei Musulmani di Sicilia, ed. con note di CARLO ALFONSO NALLINO, 3 voll., Romeo Prampolini, Catania, 1986 (rist. an. dell’ediz. del 1933), vol. I, pp. 420 ss. 29 GIOVANNI DIACONO, Chronicon Episcoporum, in Rerum Italicarum scriptores, vol. I, col. 314. 30 IBN AL-ATIR, Histoire de l’Afrique et de la Sicile, in M. AMARI, Biblioteca..., cit., vol. II, p. 188. 31 Non pare tuttavia che al-Fadl abbia sparso molto sangue (M. AMARI, Storia dei Musulmani..., cit., vol. I, p. 448). 32 Il cronista arabo al-Bayan (in M. AMARI, Biblioteca arabo-sicula, 2 voll., Loescher, Torino-Roma, 1880, II, p. 362) parla della “tremenda battaglia” che costò la vita a migliaia di bizantini (forse 5.000 o 7.000) e della precipitosa fuga di cristiani dalle terre vicine, soprattutto da Reggio. 33 Cronica di Cambridge, in ROSARIO GREGORIO, Rerum Arabicarum, quae ad Historiam Siculam spectant, ampla collectio, ex regio typographeo, Panormi, 1790, p. 43. 34 Si veda il ms. di Ibn al-Abbar in MARC J. MÜLLER, Beiträge zum Geschichte des westlichen Araber, C. Keiser, München, 1866-1878, pp. 274 ss. 35 M. AMARI, Storia dei Musulmani..., cit., vol. I, pp. 569 ss. 36 Ivi, vol. II, pp. 303-13. 37 M. AMARI, Biblioteca..., cit., vol. I, pp. 125 e 216. 38 Si veda IBN AL-ATIR, Histoire de l’Afrique..., cit., pp. 188 e 475. 39 La forte contrazione demografica di Messina è registrata anche dal geografo arabo Yaqut, nei cui scritti la definizione assegnata a Messina, riferita verosimilmente ad un periodo di lunga durata, oscilla tra la dignitosa madinah (città) e quella più riduttiva di bulayad (villaggio). Si veda M. AMARI, Storia dei Musulmani..., cit., vol. II, p. 496. 40 Cfr. Cronica di Cambridge..., cit., pp. 49 ss. 41 M. AMARI, Storia dei Musulmani..., cit., vol. II, pp. 301 ss. 42 Ivi, vol. II, p. 311. 43 Cronica di Cambridge..., cit., pp. 46 e 78. 44 M. AMARI, Biblioteca..., cit., vol. II, p. 268 e IDEM, Storia dei Musulmani..., cit., vol. II, pp. 367 e 369. Abu al-Qasim, memore dei repentini capovolgimenti di fronte presso la Città dello Stretto, avrebbe in questa occasione rinforzato la rocca di Rometta (R. GREGORIO, Rerum arabicarum..., cit., p. 19). 45 Le truppe di Ruggero il Granconte, quindi, «combatterono per le strade della città sino a conquistare la roccaforte presidiata dagli arabi»: AMATO DI MONTECASSINO, Storia de’ Normanni volgarizzata in antico francese -Ystoire de
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li Normant-, VINCENZO DE BARTHOLOMAEIS (a cura di), Fonti per la Storia d’Italia pubblicate dall’Istituto Storico Italiano, Tipografia del Senato, Roma, 1935; GOFFREDO MALATERRA, De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae comitis et Roberti Guiscardi ducis fratris eius, ERNESTO PONTIERI (a cura di), in Rerum Italicarum scriptores , V, 1, Bologna, 1927. 46 M. AMARI, Storia dei Musulmani..., cit., vol. II, pp. 453 ss. 47 Roberto, pertanto, dopo aver visto «che la città era stata abbandonata dagli abitanti che la popolavano prima del suo arrivo», dispose in essa l’insediamento «dei propri cavalieri»: A. DI MONTECASSINO, Storia de’ Normanni..., cit., vol. V, cap. XIX. 48 M. AMARI, Storia dei Musulmani..., cit., vol. III, pp. 58-63 ss. 49 Cioè, «anche Messina venne colpita da un terremoto di manifesta violenza»: UGO FALCANDO, La Historia o Liber de Regno Sicilie, GIOVAN BATTISTA SIRAGUSA (a cura di), Fonti per la Storia d’Italia pubblicate dall’Istituto Storico Italiano, Forzani, Roma, 1897, p. 144. 50 Sulle vicende di Messina in Età normanna si vedano, in particolare: SALVATORE TRAMONTANA, Messina normanna, in «Nuovi annali della Facoltà di Magistero dell’Università di Messina», I (1983), pp. 629-40; E. PISPISA, Aspetti della storia di Messina..., cit., pp. 221-38; IDEM, Messina medievale. Uno sguardo d’insieme, in IDEM, Medioevo Fridericiano..., cit., pp. 195-220; IDEM, Messina medievale, Congedo, Galatina, 1996. 51 Tenere la Città dello Stretto, cioè, era considerato necessario per il controllo dell’isola, «come se fosse la sua chiave»: G. MALATERRA, De rebus gestis..., cit., vol. III, p. 77. 52 «Condotti con sé abili costruttori provenienti da tutte le parti»: Ivi, p. 78. 53 U. FALCANDO, La Historia..., cit., pp. 184 ss.; Epistola ad Petrum Panormitane Ecclesie Thesaurarium de calamitate Sicilie, in S. TRAMONTANA, Lettera a un tesoriere di Palermo sulla conquista sveva di Sicilia, Sellerio, Palermo, 1988, pp. 122-43. 54 Il palatium, quindi, pare fosse «un edificio difensivo di maestosa altezza»: G. MALATERRA, De rebus gestis..., cit., III, p. 77; PETRUS DE EBULO, Liber ad honorem Augusti sive de rebus Siculis. Eine Bilderchronik der Stauferzeit aus der Burgerbibliothek Bern, a cura di THEO KÖLZER e MICHAEL STÄHLI, J. Thorbecke Verlag, Sigmaringen, 1994, tav. XXVI. 55 Secondo la descrizione di Ibn Giubayr, in M. AMARI, Biblioteca..., cit., vol. I, pp. 144 ss. 56 «Munita di torri e dotata di possedimenti terrieri»: G. MALATERRA, De rebus gestis..., cit., vol. III, p. 77. 57 GUIDO DI STEFANO, Monumenti della Sicilia normanna, Società siciliana per la storia patria: S. F. Flaccovio, Palermo, 1979, pp. 56 ss. Dopo la consacrazione della cattedrale di Santa Maria, l’antico Duomo decadde progressivamente sino al suo radicale restauro ad opera dell’arcivescovo Pietro Bellorado nel 1506, risanato solo in parte nel 1333 grazie alle cento onze testate dall’arcivescovo Guidotto de Abbiate pro tecto operiendo de plumbo. Si vedano al riguardo C. D. GALLO, Annali..., cit., vol. II, pp. 10 e 247; RAFFAELE STARRABBA, I diplomi della Cattedrale di Messina raccolti da Antonino Amico pubblicati da un codice della Biblioteca Comunale di Palermo ed illustrati, a cura di, Tipografia M. Amenta, Palermo, 1888, p. 256; E. PISPISA, La cattedrale di S. Maria e la città di Messina nel Medioevo, in IDEM, Medioevo fridericiano..., cit., p. 267. 58 LÉON ROBERT MÉNAGER, Les actes latins de S. Maria di Messina: 1103-1250, Istituto siciliano di studi bizantini e neoellenici, Palermo, 1963, pp. 116 e 135. 59 E. PISPISA, Aspetti della storia di Messina..., cit., pp. 222 ss. 60 GIACINTO ROMANO, Messina nel Vespro siciliano e nelle relazioni siculo-angioine de’ secoli XIII e XIV fino all’anno 1372, in «Atti della Regia Accademia Peloritana», XV (1899-1900), pp. 227 ss. 61 E. PISPISA, Messina nel Trecento, Intilla, Messina, 1980; IDEM, Il regno di Manfredi. Proposte di interpretazione, Sicania, Messina, 1991; IDEM, Coscienza familiare ed egemonia urbana. Milites, meliores e populares a Messina fra XII e XIV secolo, in IDEM, Medioevo Fridericiano..., cit., pp. 239-50. 62 Significativo il fatto che G. MALATERRA (De rebus gestis..., cit., vol. V, tomo I, p. 29) sostenesse come il centro peloritano «a messe vocabulum trahens, Messana vocata est» («Messina trae la propria denominazione dal sostantivo “messi”»). 63 E. PISPISA, Stratificazione sociale e potere politico ..., cit., pp. 377-96. Si veda, inoltre, ROBERTO SABATINO LOPEZ, Storia delle colonie genovesi nel Mediterraneo, N. Zanichelli, Bologna, 1938, pp. 163 ss. 64 DAVID ABULAFIA, Le due Italie: relazioni economiche fra il Regno normanno di Sicilia e i Comuni settentrionali, Guida, Napoli, 1991 (Ia ed.: Cambridge university press, Cambridge, 1977); E. PISPISA, Messina nel Trecento..., cit., ad indicem; DIEGO CICCARELLI, Il tabulario di S. Maria di Malfinò (1093-1337), 2 voll., Società messinese di storia patria, Messina, 1986-1987, vol. I, passim. 65 SALVATORE CUSA, I diplomi greci e arabi di Sicilia pubblicati nel testo originale, tradotti ed illustrati, vol. I, Tipografia Lao, Palermo, 1868, p. 359. 66 E. PISPISA, Messina nel Trecento..., cit., pp. 137 e 295 ss.; JEAN MARIE LOUIS ALPHONSE HUILLARD-BRÉHOLLES, Historia diplomatica Friderici secundi, vol. I, tomo 1, H. Plon, Parigi, 1852, pp. 64-7. 67 LUIGI TOMMASO BELGRANO (a cura di), Annali Genovesi di Caffaro e de’ suoi continuatori, dal MXCIX al MCCXCIII, vol. I, Istituto Storico Italiano, Roma, 1890, p. 24; Annales Pisani di Bernardo Maragone, in Monumenta Germaniae Historica, XIX, p. 259; GIUSEPPINA CASAPOLLO, Insediamenti pisani in Sicilia (ricerche su documenti inediti del sec. XIII), in «Helikon», XI-XII (1971-1972), pp. 524-43.
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68 G. B. SIRAGUSA, Il regno di Guglielmo I in Sicilia, Sandron, Palermo, 1929, pp. 377 ss.; ERNESTO PONTIERI, Ricerche sulla crisi della monarchia siciliana nel secolo XIII, Edizioni scientifiche italiane, Napoli, 1950, p. 255. 69 ROBERTO MOROZZO DELLA ROCCA - ANTONINO LOMBARDO, Documenti del commercio veneziano nei secoli XI-XIII, 2 voll., Editrice libraria italiana, Torino, 1940, ad indicem. 70 D. CICCARELLI, Il tabulario..., cit., pp. 37-39. 71 IDRISI, Il libro di Ruggero, tradotto e annotato da UMBERTO RIZZITANO, S. F. Flaccovio, Palermo, 1966, pp. 41 ss. 72 U. FALCANDO, La Historia..., cit., pp. 138, 144, 147 ss. e 155. Si veda, inoltre, M. AMARI, Biblioteca..., cit., vol. I, pp. 144 ss. 73 E. PISPISA, Aspetti della storia di Messina..., cit., p. 227. 74 MARIA ALIBRANDI, Messinesi in Levante nel Medioevo, in «Archivio storico siciliano», III s., XXI-XXII (1971), pp. 97-110. 75 CAMILLO GIARDINA (a cura di), Capitoli e privilegi di Messina, Deputazione di storia patria per la Sicilia, Palermo, 1937, docc. V, IX e XI, pp. 15 s., 25 s. e 32-34. 76 P. PIERI, La storia di Messina..., cit., p. 32; R. STARRABBA, I diplomi della Cattedrale..., cit., docc. I-III, VIII, XIV e XV, pp. 1-4, 11 ss., 20 ss. e 21-23; L. CATALIOTO, Il vescovato di Lipari-Patti..., cit., ad indicem. 77 Si vedano, soprattutto, M. SCADUTO, Il monachesimo basiliano..., cit.; CARLO ALBERTO GARUFI, Per la storia dei monasteri di Sicilia nel tempo normanno, in «Archivio storico siciliano», VI, 1940. 78 L.T. WHITE JR., Latin monasticism..., cit. 79 E. PISPISA, Aspetti della storia di Messina..., cit., p. 237. 80 A.R. LEVI, Riccardo Cuor di Leone e la sua dimora in Messina, in «Atti della R. Accademia Peloritana», XV (1899-1900), pp. 297-311; ETTORE ROTA, Il soggiorno di Riccardo Cuor di Leone in Messina e la sua alleanza con re Tancredi, in «Archivio Storico per la Sicilia Orientale», III, 1906, pp. 276-83. Un quadro complessivo irrinunciabile è tracciato da S. TRAMONTANA, La monarchia normanna e Sveva, Utet, Torino, 1986. 81 Epistola ad Petrum..., cit.; S. TRAMONTANA, La monarchia..., cit., pp. 212 ss. 82 E. PISPISA, Messina in età sveva, in IDEM, Medioevo meridionale..., cit., pp. 397-411; IDEM, Messina e Catania. Relazioni e rapporti con il mondo mediterraneo e l’Europa continentale nelle età normanna e sveva, in ivi, pp. 323-75. 83 Cioè «chiave e custodia dell’intera Sicilia»: SABA MALASPINA, Rerum sicularum historia: 1250-1285, in GIUSEPPE DEL RE (a cura di), Cronisti e scrittori sincroni napoletani, vol. II, Stamperia dell’Iride, Napoli, 1868, p. 341. 84 Nella città zanclea, pertanto, «confluivano viandanti provenienti da tutte le parti del mondo, come se fosse situata nel suo epicentro»: I Registri della Cancelleria Angioina, ricostruiti da RICCARDO FILANGIERI con la collaborazione degli archivisti napoletani, VIII (1271-1272), ed. presso L’accademia Pontaniana, Napoli, 1957, p. 135 (d’ora innanzi: R.A.R. seguito dal numero del volume e della pagina). 85 E. PISPISA, Messina in età sveva..., cit., p. 399. 86 C. GIARDINA (a cura di), Capitoli e privilegi di Messina..., cit., pp. 21-30; CARMELO TRASSELLI (a cura di), I Privilegi di Messina e di Trapani (1160-1355) con un’appendice sui consolati trapanesi nel sec. XV, Intilla, Messina, 1992 (1a ed.: Palermo, 1949), pp. 28 ss. 87 Gli effetti dell’azione fridericiana sul nuovo assetto della società messinese sono estesamente esaminati da S. TRAMONTANA, La monarchia..., cit., pp. 244-57. 88 P. PIERI, La storia di Messina..., cit., p. 78. 89 E. PISPISA, Il regno di Manfredi..., cit., p. 402. 90 Sull’azione di Pietro Ruffo si veda E. PONTIERI, Ricerche sulla crisi..., cit., pp. 5-128. 91 Assumendo, quindi, come modello gli ordinamenti dei Comuni lombardi e toscani: NICCOLÒ DI JAMSILLA, Historia, in Rerum Italicarum scriptores, vol. VIII, col. 579; si veda anche E. PISPISA, Nicolò di Jamsilla. Un intellettuale alla corte di Manfredi, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1984. 92 S. TRAMONTANA, La Sicilia dall’insediamento normanno al Vespro (1061-1282), in AA. VV., Storia della Sicilia, 10 voll., Società editrice Storia di Napoli e della Sicilia, Napoli, 1980, vol. III, p. 279. 93 Cfr. E. PISPISA, Il problema storico del Vespro, in «Archivio storico messinese», XXXVIII (1980), pp. 57-82; EUGENIO DUPRÉ THESEIDER, Alcuni aspetti della questione del Vespro, Grafiche La Sicilia, Messina, 1954 e LUIGI GENUARDI, Il comune nel Medioevo in Sicilia: contributo alla storia del diritto amministrativo, Fiorenza, Palermo, 1921, pp. 120 ss. 94 Occorre quantomeno menzionare, in questo milieu di burocrati-scrittori messinesi, Ruggero d’Amici, Guido e Odo delle Colonne, Rosso di Messina, i fratelli Stefano, Bartolomeo e Jacopo Mostacci, Stefano di Protonotaro, Mazzeo di Riccio, Bartolomeo e Tommaso de Sasso, il filosofo Teodoro (E. PISPISA, Messina in età sveva..., cit., pp. 404 e 409 ss.). Si veda, inoltre, GIUSEPPE LIPARI, Per una storia della cultura letteraria a Messina dagli Svevi alla rivolta antispagnola del 1674-78, in «Archivio storico messinese», XL (1982), pp. 68-79. 95 PAOLA SANTUCCI, La produzione figurativa in Sicilia dalla fine del XII secolo alla metà del XIV, in AA. VV., Storia della Sicilia..., cit., vol. V, pp. 143 ss. 96 E. PISPISA, Messina in età sveva..., cit., p. 201.
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97 FRANCESCO CALASSO, La legislazione statutaria nell’Italia meridionale. Le basi storiche. Le libertà cittadine dalla fondazione del regno all’epoca degli statuti, Signorelli, Roma, 1929 (rist. an.: Roma 1971), pp. 175 ss. 98 Una visione complessiva della vicenda siciliana in Età angioina è in L. CATALIOTO, Terre, baroni e città in Sicilia nell’età di Carlo I d’Angiò, Intilla, Messina 1995. Si vedano, inoltre, GINA FASOLI, Tre secoli di vita cittadina catanese, in «Archivio Storico per la Sicilia Orientale», s. 4, VII, 1954, p. 128; S. TRAMONTANA, Gli anni del Vespro. L’immaginario, la cronaca, la storia, Dedalo, Bari, 1989, pp. 32 ss. 99 FEDERICO MARTINO, «Messana nobilis Siciliae caput». Istituzioni municipali e gestione del potere in un emporio del Mediterraneo, in AA. VV., Messina. Il ritorno della memoria, Il Cigno, Palermo, 1994, p. 346. 100 GIUSEPPE DEL GIUDICE, Codice Diplomatico del Regno di Carlo I e II d’Angiò (1265-1309), 3 voll., Stamperia della Regia Università, Napoli, 1863-1902, vol. I, p. 147 e ROMUALDO TRIFONE (a cura di), La Legislazione angioina. Edizione critica, L. Lubrano, Napoli, 1921, p. 60, no. XLVII. 101 Per la nomina del probus vir, quindi, interveniva «l’intera cittadinanza»: LÉON CADIER, Essai sur l’administration du royaume de Sicile sous Charles Ier et Charles II d’Anjou, Ernest Thorin éditeur, Paris, 1891 (trad. it.: L’amministrazione della Sicilia angioina, a cura di F. GIUNTA, Flaccovio, Palermo, 1974), pp. 46 ss.; CAMILLO MINIERI-RICCIO, Saggio di codice diplomatico formato sulle antiche scritture dell’Archivio di Stato di Napoli, 2 voll., Tipografia di R. Rinaldi e G. Sellitto, Napoli, 1878-1883, I, p. 128. 102 R.A.R. VIII, p. 96; X, p. 60; XIV, p. 60. 103 S. TRAMONTANA, Gli anni del Vespro..., cit., p. 17. 104 Nella ribellione, cioè, i feudatari erano stati sostenuti dagli uomini residenti «nelle loro terre»: R.A.R. II, p. 93. 105 R.A.R. II, pp. 149 e 163. 106 R.A.R. VI, p. 151; VIII, p. 149. 107 R.A.R. IX, p. 287 e C. TRASSELLI, I Privilegi di Messina e di Trapani..., cit., p. 36. 108 «Concesse loro con liberalità benefici e privilegi liberali»: R.A.R. VI, p. 318. 109 Cioè l’uso del rotolo «adottato in tutte le parti del regno» per non «penalizzare economicamente Messina»: R.A.R. VIII, pp. 136 e 264; X, p. 66. 110 R.A.R. XIII, p. 105. Nel luglio 1274 lo stratigoto peloritano era impegnato nell’armamento di tre galeoni e due galee per vigilare la zona del Faro (R.A.R. XI, p. 236). 111 Nel corso del 1271 l’Angioino ordinava ai suoi ufficiali provinciali «ne ambaxiatores civitatis Messane molestentur pro homicidiis clandestinis, propter multitudinem advenarum, qui a diversis mundis partibus in eandem civitatem, quasi in centro positam, confluunt» («che gli ambasciatori della città di Messina non venissero ritenuti responsabili degli omicidi clandestini, i quali si verificano piuttosto a causa dei numerosi viandanti che qui confluiscono da tutte le parti, come se la città si trovasse al centro del mondo»): R.A.R. VIII, 135. 112 Sulla politica urbana di Carlo d’Angiò e, in particolare, sull’esempio messinese, si veda L. CATALIOTO, Terre, baroni e città..., cit., pp. 179-249. 113 ANDREA ROMANO, “Legum doctores” e cultura giuridica nella Sicilia aragonese, Giuffrè, Milano, 1984, pp. 9, 28 e 46. 114 R.A.R. I, pp. 55, 58; VI, pp. 4, 119, 330, 331; X, p. 231; XIII, p. 139; C. D. GALLO, Gli Annali..., cit., vol. II, pp. 94, 98, 100, 110, 113. Cfr. anche GIUSEPPE DEL GIUDICE, Bartolomeo da Neocastro, Francesco Longobardo, Rinaldo de Limogiis giudici in Messina, in «Archivio Storico per le Province Napoletane», XII (1887), p. 273. 115 R.A.R. XIX, p. 63. 116 R.A.R. II, p. 30; III, p. 62; V, pp. 92, 119 e 120; VI, pp. 171, 193 e 213; VIII, pp. 64, 66, 67, 70; X, p. 93; XI, p. 132; XIII, pp. 16, 30, 131 e 193; XIII, p. 72; XV, p. 44; XV, p. 26; XVIII, p. 3. 117 R.A.R. II, pp. 136, 226; IV, pp. 99, 111, 153, 173; V, pp. 73, 89, 200, 233; VI, pp. 85, 116, 166, 192, 255, 328; VII, pp. 12, 22, 99, 197, 234; X, p. 17; XIII, pp. 59, 72; XIV, pp. 20, 36, 39, 71, 111, 115; XV, p. 20; XVI, p. 146; XIX, pp. 21, 117, 223; XX, pp. 222, 249, 265; XXI, pp. 14, 24, 171, 180, 226, 240, 258, 263, 271, 275, 279, 281, 282, 284, 291, 292, 294, 295, 296, 299, 303, 313; XXII, pp. 89, 93, 115, 127,157, 158, 164, 169; XXIII, pp. 126, 265, 298, 303; XXIV, pp. 29, 106; XXV, pp. 17, 80, 105, 189. 118 R.A.R. XIV, p. 36; XXII, p. 123. In un atto del 1278, ma che si riferisce a certi beni occupati illecitamente nel corso dei primi anni Settanta da Nicolò e Matteo de Riso, è menzionato Bartolomeo Rogadeo come ex titolare di un patrimonio feudale (R.A.R. XXI, p. 260). 119 L. CATALIOTO, Terre, baroni e città..., cit., pp. 122 ss. 120 R.A.R. I, p. 58 e VI, p. 330; C. D. GALLO, Gli Annali..., cit., pp. 105, 110 e 191. Nella conduzione della vita urbana siciliana emersero diversi altri cittadini peloritani, quali Orlando de Amicis, Natale Ansalone junior, Pietro, Rinaldo e Ruggero Bonifacio, Bernardo Coppola, Pietro Francisci, Costantino de Gramatico, Giovanni Guercio, Bartolomeo e Pasquale de Marino, Ruggero Mastrangelo, Baldovino Mussone, Pulcherio Pisano, Francesco e Riccardo de Pulcaro, Giacomo Saladino, Bartolomeo Salimpipi, Giordano de Saraceno, Nicolò Tallavia. Si veda R.A.R. II, p. 90; III, p. 258; V, p. 89; VI, pp. 42, 192, 202, 254, 255; VII, pp. 22, 209, 226; VIII, p. 167; X, pp. 23, 53, 60; XIV, pp. 36, 71; XV, p. 25; XIX, p. 200; XX, pp. 226, 256; XXI, pp. 172, 179, 191, 275, 281, 300, 311, 327; XXII, pp. 123, 127, 169; XXIII, p. 292; XXIV, pp. 29, 155; XXV, pp. 17, 189; C. D. GALLO, Gli annali ..., cit., vol. II, p. 113. Figlio dell’omonimo messinese, Natale Ansalone fu zecchiere nella città dello Stretto fra il 1278 ed il 1279, in-
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sieme al concittadino Baldo de Riso, al palermitano Giacomo Sasso ed allo scalense Orso d’Afflitto, succedendo al palermitano Nicolò de Ebdemonia e ai peloritani Rinaldo de Bonito e Matteo de Riso (R.A.R. XXI, pp. 271, 292, 294, 295 e XXIII, p. 303). Di notevole interesse è un documento che contiene l’ordine di battere novi denarii diretto agli zecchieri di Messina il 23 giugno 1279: in esso compaiono dettagliate istruzioni sulla tenuta dei nuovi carlini ed è possibile trarre un’utile tabella di cambio che ci consenta di rapportarne il valore a quello dei marchi veneti e migliaresi, delle sterline d’argento, dei tornesi di Angiò, di Clarenza, di Poitiers, provenzali e toscani (R.A.R. XXI, p. 18 e, in francese, p. 226). 121 «Fino a tutto il secolo decimoquarto i notai usavano stipulare all’aperto. In genere si preferiva la piazza maggiore, dove si teneva il mercato e dove si davano abitualmente convegno i commercianti» (ALFONSO LEONE, Il notaio nella società del Quattrocento meridionale, Laveglia, Salerno, 1979, p. 8). 122 A questo riguardo si veda R. TRIFONE, La legislazione..., cit., p. IL. 123 R.A.R. II, 86; VI, p. 327; VIII, pp. 68, 71, 74; IX, p. 42. 124 Bartolomeo de Marino, insediato il 20 febbraio 1270 come notaio regio presso la corte stratigoziale di Messina, cinque anni dopo avrebbe svolto le stesse mansioni presso il giustiziere di Terra di Lavoro e Contea di Molise (R.A.R III, p. 258; XII, p. 61); Pasquale de Marino nel 1270 era notaio in sicla Messane e nel 1276 avrebbe ottenuto un feudo nella Piana di Milazzo (R.A.R. VI, p. 254 e XIII, p. 38). E poi ancora i cives Messane Guglielmo de Assinchio, Costantino di Cumia, Stefano di Messina, Giovanni de Nicoloso, Stefano de Tacca (R.A.R. I, p. 43; V, p. 255; VI, pp. 169, 170, 327; VII, p. 211; VIII, pp. 64, 75, 135; XIII, p. 20; XV, p. 50; XIX, p. 175). 125 R.A.R. V, p. 141. 126 A. ROMANO, “Legum doctores”..., cit., p. 45. 127 Pellegrino de Maraldo fu iudex Messane, vicesecreto, maestro procuratore e portolano (R.A.R. VIII, p. 73; X, p. 23); della famiglia de Bello, la cui attività venne svolta quasi esclusivamente nell’ambito della città di Messina, Bellonio fu actorum notarius (R.A.R. IV, p. 109; VII, pp. 22 e 192; XII, pp. 16, 202), Aliprando e Donadeo notarii campi Messanae (R.A.R. IV, p. 164), e, attestando l’esercizio di un vero e proprio monopolio, Giovannino fu notarii buczetti (R.A.R. VII, p. 211 e VIII, p. 66) e successivamente appaltava la carica di secretus Siciliae (R.A.R. IX, p. 42). 128 R.A.R. V, pp. 102, 106, 132. 129 Si veda E. PISPISA, Messina medievale. Uno sguardo..., cit., p. 204 e IDEM, Messina nel Trecento..., cit., passim. 130 Ivi, p. 28. 131 Utile al riguardo L. GENUARDI, Il comune..., cit., pp. 186 e 200 ss., il quale osserva come in quasi tutte le città siciliane, durante il regno aragonese, fosse attivo l’ufficio della acatapania, retto dagli acatapani o maestri di piazza che derivavano dai giurati preposti ai mercati nell’Età di Federico II. 132 F. MARTINO, «Messana nobilis Siciliae caput»..., cit., p. 347. Il testo relativo alle leggi suntuarie emanate per Messina il 16 giugno 1272 è integralmente riportato in R.A.R. VIII, p. 185 e IX, p. 290; l’applicazione di uno statuto suntuario super moderandis dotibus et cohercendo mulierum ornata venne confermata, dietro richiesta di alcuni cittadini messinesi presentatisi alla curia in qualità di ambaxatores e syndaci, allo stratigoto del centro peloritano il 30 aprile 1273 (R.A.R. X, p. 63). Si veda, inoltre, GIUSEPPE DEL GIUDICE, Una legge suntuaria inedita del 1290, Tipografia della Regia Università, Napoli, 1887, p. 162. 133 Cfr. E. PISPISA, Il baronaggio siciliano nel Trecento: uno sguardo d’insieme, in IDEM, Medioevo meridionale..., cit., pp. 243-61; S. TRAMONTANA, Michele da Piazza e il potere baronale in Sicilia, D’Anna, Messina-Firenze, 1963; ENRICO MAZZARESE FARDELLA, L’aristocrazia siciliana nel secolo XIV e i suoi rapporti con le città demaniali: alla ricerca del potere, in REINHARD ELZE - GINA FASOLI (a cura di) Aristocrazia cittadina e ceti popolari nel tardo Medioevo in Italia e in Germania, il Mulino, Bologna, 1984, pp. 177-93. 134 Si vedano le osservazioni di Federico Martino a proposito della composizione degli iudices a Messina tra il Vespro ed i primi anni del Trecento, dove risulta che quattro famiglie attingono la militia tramite l’esercizio di cariche amministrative: F. MARTINO, «Messana nobilis Siciliae caput»..., cit., p. 355. 135 D. CICCARELLI, Il tabulario..., cit., vol. I, n. 106, pp. 232-35; vol. II, n. 180, pp. 152-58; n. 192, pp. 191-93; n. 197, pp. 209-14; n. 221, pp. 292-96; n. 222, pp. 296-300; n. 231, pp. 325-30; nn. 254-55, pp. 406-13. 136 Ivi, pp. 120 ss. 137 L. CATALIOTO, Terre, baroni e città..., cit., cap. II. e passim. 138 D. CICCARELLI, Il tabulario..., cit., vol. II, nn. 233 e 244, pp. 335-40 e 374-78. 139 Ivi, vol. II, nn. 146, 154, 191,193-96, 201, 202, 206-8, 210, 212, 213, 215, 225, 227, 228, pp. 43-46, 76-79, 188-91, 194-208, 223-28, 237-51, 254-57, 260-67, 272-75, 307-9, 312-19. 140 E. PISPISA, Messina nel Trecento..., cit., pp. 5 ss. 141 D. CICCARELLI, Il tabulario..., cit., vol. I, n. 110, pp. 242-46; vol. II, n. 173, pp. 132-4; n. 176, pp. 140-42; n. 184, pp. 165-68; n. 187, pp. 174-77; n. 204, pp. 231-34; n. 249, pp. 393-96. 142 Ivi, n. 145, pp. 40-43. 143 È il caso, tra gli altri, di Bartolomeo Peregrino: ivi, n. 186, pp. 172-74 e n. 219, pp. 287-88. 144 Ivi, n. 203, pp. 229-31. 145 Ivi, n. 141, pp. 28-32.
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146 Ivi, vol. I, nn. 116 ss., 117, 121, 124-126, 128, 132, pp. 260-63, 264-69, 279-81, 289-304, 308-11, 324-27; II, nn. 137, 144, 147, 149, 163, 170, 172,188, 217, 247 e 248, pp. 17-20, 37-40, 47-50, 56-61, 105-10, 120-23, 127-31, 178-82, 278-82, 386-93. 147 E. PISPISA, Economia e società a Messina nell’età di Federico III, in IDEM, Medioevo fridericiano..., cit., pp. 251-64. MARIA GRAZIA MILITI - CARMELA MARIA RUGOLO, Per una storia del patriziato cittadino in Messina (problemi e ricerche sul secolo XV), in «Archivio storico messinese», XXIII-XXV (1972-1974), p. 119. 148 Si veda CARMEN SALVO, Una realtà urbana nella Sicilia medievale. La società messinese dal Vespro ai Martini, Il Cigno, Roma, 1997, passim. 149 STEPHAN R. EPSTEIN, Potere e mercati in Sicilia. Secoli XII-XVI, Einaudi, Torino, 1996 (1a ed. Londra, 1992), pp. 250 ss. 150 E. PISPISA, Messina medievale. Uno sguardo..., cit. p. 204. 151 E. PISPISA, Messina nel Trecento..., cit., pp. 5-37 e passim; IDEM, Stratificazione sociale..., cit., pp. 388 ss.; S. TRAMONTANA, Michele da Piazza..., cit., pp. 256 ss.; C. TRASSELLI, Note per la storia dei banchi in Sicilia nel XIV secolo, Banco di Sicilia, Palermo, 1958, pp. 63 ss. 152 Un quadro esaustivo delle vicende politiche, economiche e sociali dell’isola fra il Trecento e il Quattrocento è offerto, tra gli altri, da F. GIUNTA, La Sicilia angioino-aragonese, Edistampa, Vicenza,1961; IDEM, Aragonesi e catalani nel Mediterraneo, vol. I, Manfredi, Palermo, 1953; VINCENZO D’ALESSANDRO, Politica e società nella Sicilia aragonese, Manfredi, Palermo, 1963; ILLUMINATO PERI, La Sicilia dopo il Vespro. Uomini, città e campagne (1282/1376), Laterza, Bari, 1982; IDEM, Restaurazione e pacifico stato in Sicilia (1377-1501), Laterza, Bari, 1988; HENRI BRESC, Un monde méditerranéen. Economie et société en Sicile 1300-1450, Accademia di Scienze, Lettere e Arti di Palermo, Palermo 1986; PIERO CORRAO, Governare un regno, Liguori, Napoli, 1991; SALVATORE FODALE, Scisma ecclesiastico e potere regio in Sicilia, I, Il duca di Montblanc e l’episcopato tra Roma e Avignone (1392-1396), Edigrafica Sud Europa, Palermo, 1979; IDEM, Il clero siciliano tra ribellione e fedeltà ai Martini (1392-1398), Vittorietti, Palermo, 1983. 153 Sull’Età martiniana in Sicilia si vedano: RUGGERO MOSCATI, Per una storia della Sicilia nell’età dei Martini, Università degli studi di Messina, Messina, 1954; P. PIERI, La storia di Messina..., cit., ALBERTO BOSCOLO, La politica italiana di Martino il Vecchio re d’Aragona, Cedam, Padova, 1962. 154 VITO LA MANTIA, Antiche consuetudini delle città di Sicilia, (Prefazione di A. ROMANO), Intilla, Messina, 1993, pp. 1-55. 155 C. GIARDINA (a cura di), Capitoli e privilegi di Messina..., cit., p. 147. 156 E. PISPISA, Messina e i Martini, in IDEM, Medioevo meridionale..., cit., p. 416; il documento è pubblicato alle pp. 429-35. 157 C. GIARDINA (a cura di), Capitoli e privilegi di Messina..., cit., p. 147. 158 ROBERTO CESSI, Venezia e i regni di Napoli e Sicilia nell’ultimo trentennio del sec. XIV, in «Archivio Storico per la Sicilia Orientale», 8, 1911, pp. 321 ss. 159 Esemplare, al riguardo, il fallimento delle ambascerie condotte dai messinesi Jacopo Castello e Tutio Umano nel corso del 1399: C. GIARDINA (a cura di), Capitoli e privilegi di Messina..., cit., pp. 153 ss. e R. MOSCATI, Per una storia..., cit., pp. 95 ss. 160 E. PISPISA, Stratificazione sociale..., cit., p. 394. Si veda, per un’indagine più estesa, IDEM, Messina nel Trecento..., cit., pp. 335-40. 161 M. G. MILITI, Vicende urbane e uso dello spazio a Messina nel secolo XV, in «Nuovi Annali della Facoltà di Magistero dell’Università di Messina», I (1983), p 67. 162 E. PISPISA, Ceti sociali professioni e mestieri a Messina nel Quattrocento, in IDEM, Medioevo meridionale..., cit., p. 440. 163 Si veda a questo proposito C. M. RUGOLO, Ceti sociali e lotta per il potere a Messina nel secolo XV. Il processo a Giovanni Mallono, Società messinese di storia patria, Messina, 1990 e C. TRASSELLI, La «Questione sociale» in Sicilia e la rivolta di Messina del 1464, Taddei, Palermo, 1955. 164 E. PISPISA, Ceti sociali..., cit., pp. 443 ss. 165 S. TRAMONTANA, Antonello e la sua città, Sellerio, Palermo, 1991. Preziose indicazioni sono contenute in un recente intervento non ancora edito dello storico messinese, dal titolo Antonello da Messina: i luoghi, il lavoro, la mentalità, in occasione di una giornata di studio su “Antonello da Messina e l’attività di Cesare Brandi in Sicilia” svoltasi a Messina il 26 settembre 2006 nell’ambito del “Progetto Città di Antonello” promosso dall’Università degli Studi di Messina. Si veda, inoltre, E. PISPISA, Il messinese Antonello, in IDEM, Medioevo meridionale..., cit., pp. 315-20. 166 La crescita di una forte sensibilità religiosa della città nei confronti del culto della Madonna ed i serrati rapporti tra il Duomo e tutte le forze politiche e sociali di Messina sono temi documentati da R. STARRABBA, I diplomi della Cattadrale..., cit, passim ed ampiamente illustrati da E. PISPISA, La cattedrale di S. Maria..., cit., pp. 265-84. 167 Per la cortesia con la quale mi ha fornito a questo riguardo suggerimenti ed utili informazioni ringrazio Salvatore Tramontana, che nelle pagine seguenti si intende implicitamente citato. 168 Queste le parole di Alfonso il Magnanimo in un documento del 1440: si veda S. TRAMONTANA, Antonello da Messina: i luoghi..., cit., ad indicem.
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169 Cioè per venire incontro alle necessità degli indigenti messinesi: F. MARTINO, «Messana nobilis Siciliae caput»..., cit., p. 363. 170 E. PISPISA, La cattedrale di S.Maria..., cit., pp. 265-84. 171 Si veda E. PISPISA, Messina nel Trecento..., cit., passim. 172 Suggestivi i versi del cronista fiorentino: «Deh com’egli è gran pietate / Delle donne di Messina / Veggendole scapigliate / Portando pietra e calcina. / Iddio gli dea briga e travaglia / A chi Messina vuol guastare». MATTEO VILLANI, Cronica. Con la continuazione di Filippo Villani, a cura di GIUSEPPE PORTA, 2 voll., Fondazione “Pietro Bembo”, Ugo Guanda Editore, Parma, 1995, II, p. 141. 173 BARTHOLOMAEI DE NEOCASTRO Historia Sicula (aa. 1250-1293), GIUSEPPE PALADINO (a cura di), Zanichelli, Bologna, 1921-1922, (RIS, XIII, III), pp. 67 sgg. e passim. 174 Si vedano: GIUSEPPE PITRÈ, Studi di leggende popolari in Sicilia e Nuova raccolta di leggende siciliane, in «Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane», vol. XXII, Torino, 1904, ad indicem; BENEDETTO CROCE, Storie e leggende napoletane, Laterza, Bari, 1976; RUGGERO M. RUGGIERI, La Fata Morgana in Italia: un personaggio e un miraggio, in «Cultura neolatina», XXXI (1971), pp, 118 sgg.; GIUSEPPE CAVARRA, La leggenda di Colapesce, Intilla, Messina, 1995. 175 Si veda GAETANO LA CORTE CAILLER, Orefici e argentieri in Sicilia nel secolo XV (da documenti inediti), in GIUSEPPE CANTELLA (a cura di), Le arti decorative del Quattrocento in Sicilia, Edizioni De Luca, Roma, 1981, pp. 134 ss. 176 E. PISPISA, Ceti sociali..., cit., pp. 445 ss.; C. TRASSELLI, I messinesi tra Quattro e Cinquecento, in «Annali della Facoltà di Economia e Commercio di Messina», X (1972), passim; IDEM, Messina dal Quattrocento al Seicento, in E. PISPISA - C. TRASSELLI, Messina nei secoli d’oro. Storia di una città dal Trecento al Seicento, Intilla, Messina, 1988, pp. 415-45. 177 Si veda GIACOMO FERRAÙ, La vicenda culturale, in La cultura in Sicilia nel Quattrocento, Edizioni De Luca, Roma, 1982, pp. 17-36. 178 E. PISPISA, “Regnum Siciliae”. La polemica sulla intitolazione, Centro di Studi Filologici e Linguistici Siciliani, Palermo, 1988, passim. 179 ANDREA ROMANO, Società e cultura giuridica nella Sicilia del Quattrocento, in ANDREA ROMANO (a cura di), Istituzioni, diritto e società in Sicilia, Edizioni Istituto di Storia del Diritto e delle Istituzioni, Messina, 1988, pp. 7 ss. 180 M. G. MILITI, Artisti, committenza e aggregazione sociale a Messina alla fine del Medioevo, in «Nuovi Annali della Facoltà di Magistero dell’Università di Messina», II (1983), pp. 560 e 559 ss.; M. G. MILITI - C. M. RUGOLO, Per una storia..., cit., p. 123; C. TRASSELLI, Sulla economia siciliana del Quattrocento, in «Archivio storico messinese», s. 3a, XXXIII (1982), p. 28; S. TRAMONTANA, Antonello..., cit., pp. 59-75; E. PISPISA, Messina nel Trecento..., cit., pp. 310 ss. 181 LUCIA SORRENTI, Il patrimonio fondiario in Sicilia, Giuffrè, Milano, 1984, p. 153. 182 E. PISPISA, Ceti sociali..., cit., pp. 449 ss. 183 Ivi, p. 451. 184 Come segnalato da E. PISPISA (Economia e società a Messina..., cit., p. 251), Il Fondo Messina nell’archivio della Casa Ducale Medinaceli di Siviglia e le 952 pergamene che compongono il tabulario di Santa Maria di Malfinò (D. CICCARELLI, Il tabulario..., cit.) costituiscono una fonte fondamentale per ricostruire le vicende patrimoniali di molti enti ecclesiastici messinesi, ma anche per far luce sulla gestione politica e sugli eventi economici e culturali della società urbana, dal momento che offre uno spaccato dove risaltano le azioni e gli orientamenti di molti esponenti dei ceti emergenti messinesi tra Duecento e Trecento. Per un disegno della complessiva traiettoria medievale di Messina: E. PISPISA, Messina medievale..., cit., e IDEM, Messina nel Trecento..., cit. Hanno affrontato tematiche economiche e socio-istituzionali S.R. EPSTEIN Potere e mercati in Sicilia..., cit. (specialmente pp. 246 ss.) e F. MARTINO, «Messana Nobilis Siciliae Caput»..., cit., passim. 185 E. PISPISA, Messina medievale..., cit., p. 210.
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Stele votiva della Madonna della Lettera (1934) Il sentimento di religiosa devozione verso la santa patrona costituisce una manifestazione, tra le più significative presso il popolo messinese, della forte coscienza identitaria cittadina. Lo testimonia, all’avvio del Cinquecento, il ruolo politico che il culto assunse anche presso gli emissari peloritani alla corte madrilena. Tale coscienza si espresse anche nella costante presenza di un fiero spirito autonomistico, che animò in particolare la rivolta seicentesca della Città del Faro, tra le più importanti nella storia dell’Europa del tempo, e palesò tutto il suo valore in occasione dei tragici avvenimenti della Seconda metà del Settecento.
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