Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA IN TEORIA E METODOLOGIA DELLA RICERCA ANTROPOLOGICA SULLA CONTEMPORANEITÀ
FOLKLORE NUZIALE E IDENTITÀ SARDA L’ANTICO SPOSALIZIO SELARGINO
Prova finale di Francesca Salis Relatore Prof. Fabio Viti
Correlatore Prof. Gino Satta
Anno Accademico 2005/2006
Indice INTRODUZIONE
5
Tradizione e tradizionale Dal dato folklorico al bene culturale attraverso la valorizzazione turistica Identità, appartenenza. Il paese Strategie e segni dell’appartenenza Note sulla ricerca: posizione etnografica e metodologia della ricerca
6 8 10 14 15
1
21
“DELLE USANZE MARITALI” NEL CAMPIDANO DI CAGLIARI
1.1 1.2 1.3 1.4 1.5
Premessa Su fastigiu - Il corteggiamento La figura del paralimpu Sa pregunta - La domanda della sposa Fidanzamento o matrimonio?
1.5.1 1.5.2
1.6 1.7 1.8 1.9 1.10 1.11
La risposta della Chiesa romana Le coabitazioni
L’esame dei contraenti Su trasferimentu de is arrobas - Il trasporto del corredo La benedizione degli sposi e il corteo nuziale La cerimonia del matrimonio Il ritorno del corteo nuziale. L’usanza detta s’arazza o de sa razia Su cumbidu - Il banchetto nuziale
21 25 27 29 30 33 35
37 40 44 45 48 49
2 LA TRADIZIONE NELLA RAPPRESENTAZIONE DEI MATRIMONI ALLA SARDA
53
2.1
59
Le componenti tradizionali della festa
2.1.1 2.1.2 2.1.3 2.1.4 2.1.5 2.1.6 2.1.7
2.2 2.3
3
Il rituale della vestizione Il commiato dai genitori Il corteo nuziale Dopo il rito ecclesiastico La classificazione di Pirisinu Il trasporto del corredo e Sa coja antiga ussassesa Le particolarità di Su Hujviu Ulianesu - L'Antico Matrimonio Olianese
Le fonti etnografiche Matrimonio tradizionale?
TRA FASCISMO E VALORIZZAZIONE TURISTICA REGIONALE
3.1 3.1.1
3.2 3.3 3.3.1 3.3.2
3.4
Il racconto degli informatori Tasselli diversi di un unico mosaico?
Lo studio del folklore Il foklorismo fascista Analogie tra Matrimonio Selargino e foklorismo fascista La festa dell’Uva
La valorizzazione turistica dell’isola
59 61 64 67 71 72 75
77 81
85 86 88
89 91 95 97
98
4
LA MESSA IN SCENA DELLA “SELARGINITÀ”
4.1
Da borgo del contado a città dell’hinterland
4.1.1 4.1.2 4.1.3 4.1.4 4.1.5
4.2
L’economia selargina nell’Ottocento Boom demografico e abbandono dei campi L’abbandono delle feste tradizionali Appendici di Cagliari? La reazione selargina
Una tradizione “tipicamente selargina”
4.2.1 4.2.2 4.2.3
5
Lo spessore temporale della festa Bistiri a sa sarda a Selargius Sa cadena de anca, la catena rituale del Matrimonio Selargino
IL FOLKLORE COME RICHIAMO TURISTICO E IDENTITARIO
5.1 5.2 5.3
Finanziamenti e spese Il tempo della festa Lo spazio della tradizione
5.3.1 5.3.2 5.3.3
5.4 5.5
105 105 105 106 112 115 116
121 122 122 136
143 145 151 154
Percorrendo il passato Sa domu cerexina – La casa selargina E se si trasferisse tutto a San Lussorio?
154 161 165
La partecipazione di gruppi in costume Quale lingua?
168 175
BIBLIOGRAFIA
4 ▪ Indice
185
Introduzione Sappiate adunque, ch' egli v'ha in Sardegna una quantità di costumi ricca di considerazioni, d'aspetti, e di riguardi, che non furono ancora posti sotto la speculazione della filosofia […]. Laonde i moderni Etnografi, che pei faticosi e incerti studi […] tanti rischi si mettono, e tante migliaia di leghe divorano, qui vicino nel seno del Mediterraneo, senza tanto travaglio, verrebbero al pienissimo loro intendimento. Ivi non molto discosto dalle marine d'Italia troverieno di che render paghi i desideri loro, meglio che nelle giogaie del monte Tauro, del Caucaso, e del Tibet […]. Bresciani, Dei costumi dell’isola di Sardegna, 1850 Il lavoro qui presentato intende proporre una lettura etnografica delle modalità di produzione e costruzione di una tradizione e di un’identità locali all’interno di processi storici e sociali di portata più ampia, messe in atto in un’area dell’hinterland del capoluogo sardo attraverso l’organizzazione di una manifestazione folkloristica relativa alle locali usanze nuziali. I matrimoni folkloristici sono un fenomeno culturale sardo ancora inesplorato, di cui si fornisce una prima contestualizzazione generale. La riproposta delle tradizioni sarde relative alle usanze matrimoniali messe in scena in una manifestazione folkloristica quale “L’Antico Sposalizio Selargino”, ma anche in altre simili manifestazioni organizzate in altri paesi dell’isola, si presenta come oggetto di studio di particolare interesse per analizzare e verificare sul campo alcuni dei temi dominanti della ricerca antropologica: tradizione, identità, turismo. La ricerca sul campo si sofferma in maniera prevalente su uno solo di questi “matrimoni alla sarda”, attraverso il quale vengono mostrate le forme di produzione della tradizionalità legate alla costruzione di un sentimento di appartenenza locale, a loro volta connesse a processi intellettuali, politici, sociali ed economici di portata più ampia. Uno studio che intende, da una parte, analizzare i modi di costruire un sentimento di appartenenza comunitaria e dall’altra le dinamiche e gli effetti che tale costruzione mette in atto. Le interpretazione locali della tradizione rappresentano strategie di elaborazione di una identità locale e nello stesso tempo della relazione di quest’ultima con i più ampi contesti regionale, nazionale, europeo. Il doppio (se non triplo) piano interpretativo secondo cui sono esaminati molti degli elementi che caratterizzano la manifestazione è l’effetto più evidente della compresenza di locale e globale. Si interpreta per sé e per i
propri fini, ma anche in base all’idea che ci si fa delle aspettative degli Altri, categoria che include da una parte i sardi (esterni al paese), dall’altra i turisti (“continentali” o stranieri).
Tradizione e tradizionale In quanto evocazione del passato, la rappresentazione folkloristica, si pone non solo come ricostruzione o riproposta autentica e fedele della tradizione, ma anche come forma di “salvaguardia e difesa della tradizione”. Dagli anni ’80 del secolo scorso la nozione di tradizione è stato oggetto di ampio dibattito antropologico il quale ha determinato uno spostamento nell’orientamento teorico ed empirico della disciplina folklorica o demologica, nella sua accezione di “studio della tradizione”. Attualmente la nozione di tradizione non è più intesa come eredità culturale accettata passivamente dai contemporanei per un suo valore intrinseco, quanto piuttosto
“a process of interpretation, attributing meaning in the present though making reference to the past” [Handler, Linnekin, 1984:287], ”un meccanismo di selezione, e anche di invenzione, proiettato verso il passato per legittimare il presente” [Canclini, trad. it. 1998:160], “una strategia fondativa” [Ariño, 1997:14], “un punto di vista che gli uomini del presente sviluppano su ciò che li ha preceduti, una interpretazione del passato condotta in funzione di criteri rigorosamente contemporanei […] un processo di riconoscimento di paternità” [Lenclud, 2001:131] La disciplina non può allora limitarsi allo studio di ciò che preventivamente è stato etichettato come tradizionale, bensì cogliere i processi attraverso cui si giunge alla costruzione di oggetti che si pensano dotati di tale proprietà. L’obiettivo di questo lavoro non è studiare la manifestazione folkloristica in quanto oggetto dotato di tradizione, l’interesse non è rivolto ai comportamenti tradizionali come dati, quanto piuttosto come prodotto finale di pratiche sociali e di strategie discorsive. Oggetto della ricerca è la comprensione delle concrete modalità degli usi della tradizione, il come e il perché della conservazione nel presente, nonché il senso e l’effetto sociale prodotto. Attraverso quali strategie di valorizzazione e di attribuzione di senso la tradizione si impone come insieme oggettivo di dati di fatto? Come viene utilizzata, da quali attori sociali, in quali contesti? Per quali motivi? In questo senso, si è cercato di andare oltre l’impostazione di Hobsbawm e Ranger [1982]: sappiamo ormai che “tradizioni e identità, sentimenti nazionali e immaginari
6 ▪ Introduzione
regionalisti, paesi e storie locali, pensieri e oggetti tipici sono invenzioni” [Palumbo, 2003:13]. Con il termine “invenzione” non si intende però implicare che la comunità inventata sia falsa, l’antropologia sembra aver definitivamente chiarito che invenzione non equivale a falsità1. È un dato acquisito che la forza della tradizione non si misuri sulla base del criterio dell’esattezza della ricostruzione storica [Lenclud, 2001:132]. I contenuti della memoria possono essere inventati, possono ignorare il passato o negarne la complessità. Tale consapevolezza ha permesso di mettere in secondo piano il problema dell’autenticità, quindi di aprire la ricerca ai fenomeni cosiddetti folkloristici o di revival, che l’approccio classico escludeva o cercava di gestire separando i tratti “autentici” da quelli “inventati” e ricorrendo a categorie sfuggenti come quelle di relitto, persistenza, recupero2. La dimensione fittizia delle appartenenze non va vista in termini di verità o falsità [Gallini (a cura di), 2003:19; Anderson, trad. it. 1996:25]. L’attenzione degli studiosi dovrebbe piuttosto concentrarsi sulla capacità di dire ”il vero anche quando dice il falso”, non “di corrispondere a dei fatti reali, o di riflettere ciò che è stato, quanto di enunciare delle proposizioni assunte, in definitiva, in anticipo come consensualmente vere” [Lenclud, 2001:132]. Se l’appartenenza, come nel caso studiato, si costruisce come forma di riferimento a un passato comune, trasmesso attraverso la modalità esplicita della rappresentazione pubblica, il suo punto nevralgico è la forza dell’interpretazione del passato proposta. Qual è dunque l’immaginario di cui si nutre un fenomeno come il Matrimonio Selargino? Quali sono le proposizioni assunte come vere? Su quali discorsi, oggetti, gesti, basa la sua capacità di essere accettata e vissuta come emotivamente coinvolgente, incorporata, vera? Poiché “non è tuttavia mai inutile saperne un po’ di più sui materiali di cui il presente si impadronisce per costituirne una tradizione” [Lenclud, 2001:132] e poiché un sostanziale accordo presenta tali manifestazioni come fedeli rappresentazioni di un modo tradizionale di fare le cose di cui si conservano dei frammenti, il primo capitolo getta uno sguardo sul tradizionale prototipo cui fanno riferimento i matrimoni folkloristici. In particolare, ho cercato di restringere lo studio alle usanze relative al Campidano di Cagliari, per tentare un’analisi più specifica della rassegna selargina, senz’altro la più significativa.
1 2
Si vedano a questo proposito gli articoli di Handler, Linnekin, 1984 e Hanson 1989 e 1991 Una definizione di queste categorie si trova in Delitala,1992
Introduzione ▪ 7
Nel secondo capitolo vengono invece descritti i tratti tradizionali che costituiscono il Matrimonio Selargino nella sua concretezza. Non si tratta tanto di un tentativo di descrizione della festa quanto di analisi degli elementi messi in scena. Da una parte questi sono stati messi a confronto con la tradizione nuziale in area campidanese, dall’altra con gli altri matrimoni folkloristici presenti in Sardegna. Tale strategia ha permesso di far emergere l’arbitrarietà nella scelta operata dai costruttori della tradizione, per cui sulla base di un canovaccio simile si ottengono messe in scena differenti, a seconda degli aspetti che si decide di privilegiare in termini di tempo e spazio.
Dal dato folklorico al bene culturale attraverso la valorizzazione turistica Non tutto ciò che viene dal passato è considerato degno di essere conservato, trasmesso culturalmente o valorizzato come tradizionale. La nozione di tradizione rimanda piuttosto all’idea di un ambito determinato di fatti, un deposito culturale selezionato. Alcuni studiosi, ad esempio Lenclud, hanno visto nel processo di tradizionalizzazione la scelta consapevole, arbitraria e strumentale per cui “ogni gruppo, ogni entità sociale si procura la propria tradizione, andando ad attingere dal passato il vessillo che più gli conviene” [Lenclud, 2001:133]. Altri, come Dei, hanno criticato questa impostazione, mettendo in dubbio la consapevolezza della strumentalità del processo, nonché l’arbitrarietà della scelta, che “non tutte le tradizioni, in un certo contesto storicosociale, sono ugualmente suscettibili di essere inventate” [Dei, 2002:87]. Nel caso in questione, le motivazioni emerse a livello locale non appaiono sufficienti a spiegare la nascita di una festa come il Matrimonio Selargino. La manifestazione è uno dei primissimi esempi di valorizzazione del folklore sardo, sorta in un periodo, gli anni ’60 del secolo scorso, in cui il richiamo alla tradizione stentava ancora ad acquisire quella connotazione positiva che costituisce il requisito fondamentale del suo costituirsi come bene culturale etnografico. Solo inserendo la manifestazione nel più ampio contesto delle politiche culturali intraprese durante il fascismo prima e di quelle adottate dalla Sardegna in seguito all’istituzione quale regione autonoma poi, è possibile comprendere le motivazioni che inizialmente portarono alla proposta di una manifestazione di questo tipo.
8 ▪ Introduzione
Nel terzo capitolo ho quindi cercato di dare conto, almeno in parte, delle dinamiche storiche e culturali che hanno dato luogo al processo di “turisticizzazione del dato folklorico”, segnalato, forse per la prima volta, da Gallini nel 1971, cioè al recupero in un contesto diverso degli elementi della tradizione, trasformati in spettacolo per i turisti. Si noti che se molti aspetti del folklore sardo sono sopravvissuti sino ad oggi, la ragione va ricercata anche nell’aver concepito il folklore come un’importante risorsa fonte di richiamo turistico. Non è un caso dunque, che la valorizzazione delle tradizioni si presenti storicamente in strettissima connessione con la promozione turistica. La stessa gestione del folklore è stata affidata agli enti di promozione turistica. Da una parte la Regione, che si è preoccupata di stabilire leggi apposite di salvaguardia istituzionale e finanziamento pubblico, dall’altra i vari enti, a tutti i livelli istituzionali (dall’Esit alle Pro Loco, passando per Ept e Aziende di Soggiorno), che si occupano della distribuzione dei finanziamenti, gestendo, patrocinando, reinventando feste e sagre “tradizionali”. In generale sono state quelle feste a carattere devozionale che ancora resistevano, con difficoltà, nei vari centri, le prime espressioni di folklore valorizzate e finanziate dai vari enti regionali. Ma sin dall’inizio, si è cercato anche di incoraggiare la creazione di nuove feste che potessero essere oggetto di interesse turistico. Un esempio è appunto il
Matrimonio
Selargino,
una
manifestazione
folkloristica
che
nasce
come
rappresentazione di aspetti di vita tradizionale per l’intrattenimento dei turisti. “Spettacolo folkloristico”, “rievocazione”, “ricostruzione storica” “rassegna”, “sagra”, “kermesse”, “festa”: l’assenza stessa di un’unica espressione per designare questi eventi è un sintomo del loro non essere facilmente riconducibili a un’unica categoria di analisi e di comprensione. Una precisazione terminologica: come si vedrà, ho scelto di indicare le feste oggetto di studio con gli stessi nomi con cui sono indicate dal pubblico e dagli organizzatori, lasciando cadere la distinzione tra folklore e folklorismo. La decisione è stata presa sulla base di due motivazioni principali. La prima è che il fenomeno Matrimonio Selargino - ma il discorso mi sembra possa essere esteso anche agli altri “matrimoni alla sarda” - non mi pare possa essere analizzato efficacemente se studiato come esempio di folklore trasformatosi in folklorismo. Non si tratterebbe cioè della trasposizione dal piano della realtà vissuta a quello della rappresentazione spettacolare, una consapevole manipolazione, una trasformazione strumentale del materiale folklorico per scopi diversi da quello per cui è stato creato. Il Matrimonio Selargino è piuttosto un prodotto pensato sin dall’inizio per la fruizione da parte di un
Introduzione ▪ 9
osservatore esterno, che riprende gli elementi del folklore (balli, canti, musiche, vestiario) che si pensa possano incuriosirlo maggiormente. Non solo vengono ripresi elementi caduti in disuso o abbandonati completamente da tempo, ma il cui accostamento simultaneo sulla scena non ha riscontro con una ricostruzione verosimile del passato. Non si dovrebbe guardare alla manifestazione come un caso di messa in spettacolo di ciò che prima spettacolo non era, quanto piuttosto come un caso di spettacolarizzazione tout court, cioè come scelta e realizzazione di qualcosa appositamente
per
essere
esibito,
per
attrarre
l’attenzione
su
di
sé.
La
rappresentazione non evoca la realtà passata che si dice rappresentare, evoca piuttosto un’immaginaria realtà passata mai esistita, ma che appare verosimile per la presenza dei simboli (attuali) dell’identità. La seconda motivazione è che nei discorsi degli informatori i termini folklore e folkloristico sono usati alla stregua di sinonimi, il termine folkloristico non ha quella valenza negativa e svalutante assegnatagli da Cirese [1974:63], così come neppure mi è sembrato averla il termine turistico. La distinzione è stata avanzata solo da parte di alcuni informatori locali “colti”, per suggerirmi di distogliere l‘attenzione da un oggetto di ricerca non degno di seria attenzione. I termini folkloristico e turistico, utilizzati per segnalare i prodotti culturali non autentici, appaiono in questo contesto i referenti di una demarcazione accademica per ciò che merita di essere preso in considerazione dagli scienziati sociali.
Identità, appartenenza. Il paese Nata come festa per i turisti, col tempo la manifestazione si radica nel paese e ne modella l’autorappresentazione secondo i dettami dello sguardo turistico. Il paese è la prima dimensione di appartenenza a cui ora fa riferimento la festa, ma non è l’unica, poiché inserita in quella più ampia dell’identità isolana. Con i termini identità e appartenenza, si intende fare riferimento alle strategie di identificazione (o di differenziazione) di individui e gruppi. Prendendo a prestito le parole di Gallini, il termine appartenenza rinvia ”alla dimensione soggettiva dei costruttori, in quanto attori sociali, e alle diverse, concrete situazioni al cui interno si mettono in atto procedure di condivisione o di competizione per definire appartenenze,
10 ▪ Introduzione
esclusioni, inclusioni”3. Anche Clemente, scrivendo dell’identità locale, ne mette in luce la connessione con la dimensione dell’individuo, più che con quella del gruppo [Clemente, 1997:22]. Entrambi fanno riferimento all’espressione demartiniana di patria culturale, un “prodotto culturale mai definito una volta per tutte” che rinvia, sul piano soggettivo, “al duplice ordine delle fedeltà e delle scelte” [Gallini (a cura di), 2003:7], alla “possibilità paradossale di scegliersi le radici” [Clemente, 1997:23]. La prima e principale forma di appartenenza indagata in questo lavoro è quella di paese. “L’Isola ha una capitale che possiede un suo contado e poi, lontani, ci sono tanti piccoli regni disuniti, trecentosessanta comuni”, scrive Todde [2006:30]. Selargius è uno dei paesi del “contado”, la cui politica culturale può essere letta come tentativo di resistenza e salvaguardia della propria autonomia e identità dall’inglobamento da parte della “capitale”. La prima parte del quarto capitolo fornisce i dati sui notevoli cambiamenti subiti dal paese nel giro di pochissimi decenni,
i quali potrebbero
spiegare l’attaccamento a una manifestazione che si caratterizza anche come ricerca di un passato perduto, un recupero nostalgico di memorie che dia il senso di una continuità culturale là dove al contrario si è vissuta una profonda discontinuità. Nella sua ripetizione annuale l’evento si traduce in atto simbolico che operando una congiunzione di passato e presente fonda la comunità di paese definendola nei suoi termini sociali, politici e religiosi. Selargius è un paese non in ragione delle dimensioni dell’abitato (che allora sarebbe più giusto definirla città) quanto piuttosto in riferimento agli sforzi compiuti per definirsi come “primo centro di riferimento e relazione a una cultura ibrida e molteplice” [Clemente, 1997:39], quindi in sintonia con l’analisi di Clemente del concetto di paese nel nostro Paese, “un mondo della memoria e dell’identità comune” [ivi:24], nonché “una realtà dell’immaginazione” [ibidem]. Il richiamo alla dimensione immaginativa è piuttosto frequente nei lavori che si interessano dei processi di costruzione delle appartenenze. Il concetto di comunità immaginate è di Anderson, che lo applica all’idea di nazione mentre sembra negarne l’applicazione a quelle entità più piccole dove tutti i membri si conoscono tra di loro4. Messa da parte questa distinzione, oggi prevale l’impostazione che ritiene che ogni appartenenza, a qualsiasi livello, contenga un’importante dimensione immaginativa. “Di 3
Presentazione di Gallini in id. (a cura di), 2003:12. In questo lavoro i termini identità e appartenenza sono usati per lo più in modo interscambiabile, mentre per Gallini il primo si distingue dal secondo per “le eventuali implicazioni psicologiche”.
Introduzione ▪ 11
fatto, ogni appartenenza esiste e si manifesta attraverso un lavoro sociale di produzione dell’identità e della differenza, cioè attraverso l’attivazione di modalità – immaginarie e pratiche – atte a indicare che questo o quello è un gruppo, e come tale è dotato di determinate caratteristiche che lo rendono differente da un altro” [Gallini (a cura di), 2003:7]. L’immagine costruita attraverso il Matrimonio Selargino si inserisce pienamente nel discorso tracciato da Palumbo sulla “produzione di spazi culturali autentici, oggettivati all'interno del mercato delle identità turistiche: una comunità, una storia, un'identità, un patrimonio” [Palumbo, 2003:285]. Un’immagine turistico –commerciale capace di agire in scenari ben più ampi di quello locale, una risorsa di cui si è capito quasi subito il potenziale economico e di prestigio sociale. Ed ecco che, appena è stato possibile, la festa, riguardante una tradizione genericamente “sarda”, organizzata inizialmente dalla sezione provinciale dell’Enal, diventa la “nostra” festa, la festa delle tradizioni selargine, il cui controllo viene assunto interamente dalle organizzazioni del paese (a questo scopo si provvede a fondare la Pro Loco). Se uno dei problemi fondamentali per la costruzione delle appartenenze è la necessità di autenticarsi mediante un’interpretazione del passato che sia accettata dai membri della comunità, l’abilità dei selargini è stata quella di appropriarsi di una festa i cui contenuti erano stati già da tempo oggettivizzati da diversi, importanti intellettuali (Marcello Serra, Francesco Alziator5). Una festa quindi che non poneva i soliti problemi di acquisizione del consenso, già stabilito, permettendo ampia libertà di movimento in uno spazio da tempo condiviso, familiare. Qui il Matrimonio Selargino diventa oggetto di competizione ai fini del relativo controllo. La manifestazione dà la possibilità di sfruttare risorse economiche e simboliche legata alla costruzione di mondi tipici, provenienti dalle istituzioni regionali nonché dall’inserimento nei mercati internazionali (per fare un esempio, la manifestazione è regolarmente presente alla Bit, la Borsa Internazionale del Turismo che si tiene annualmente a Milano). L’evento è connesso, inoltre, alle logiche e all'immaginazione dei media (tv locali e nazionali, quotidiani e riviste), capaci d'inscrivere rapidamente
4
Anderson, trad. it. 1996:25 e ivi, prefazione a cura di D’Eramo, p. 10 Il coinvolgimento di Serra verrà esaminato nel secondo capitolo. Per quanto riguarda Alziator, alcuni informatori mi hanno fatto notare, quale motivo di vanto e di legittimazione, che l’importante studioso ha assistito di persona alla festa e ha usato le foto scattate durante la manifestazione per illustrare quanto scritto nella sezione “Amoreggiamento e nozze” in La città del sole [1963] 5
12 ▪ Introduzione
universi locali in contesti comunicativi globali, fornendo ai protagonisti del conflittuale campo politico locale nuovi motivi di competizione e di legittimazione. Nella complessa macchina organizzativa messa in moto dalla festa è possibile scorgere l'attivazione di reti clientelari; la determinazione del ruolo riservato a ciascuno fornisce informazioni importanti sul paese e sul gioco delle alleanze in esso presenti. Si tratta di un aspetto delicato della ricerca che si è preferito in gran parte non esplicitare ma di cui si è ovviamente tenuto conto. In generale, si può affermare che la gestione della festa è oggetto di contesa tra i membri di un notabilato locale che non può essere inquadrato facilmente se studiato in termini di appartenenza politica, posizione occupazione, grado di istruzione. Non pare neppure particolarmente utile, in questo contesto, poiché rischia di poter essere applicata praticamente a tutti, la categoria di pendolarismo, sviluppata da Gian Luigi Bravo e approfondita nei lavori di Piercarlo e Renato Grimaldi, per la quale si ipotizza che i membri della comunità più interessati e attivi nella riproposta, ma anche nella conservazione, delle feste e cerimonie tradizionali, sono le persone che quotidianamente o comunque frequentemente, per lavoro, per studio, per attività politiche o associative, si spostano tra formazioni sociali differenti. Ciò che accomuna gli organizzatori della festa sembra piuttosto il loro identificarsi primariamente come “selargini”. Si tratta in netta prevalenza di uomini, oggi tutti sulla sessantina, che gestiscono attivamente la vita politica e culturale del paese sia attraverso le posizioni occupate in consiglio comunale, sia occupando le posizioni più importanti in associazioni culturali quali Pro Loco, gruppo folkloristico, coro, confraternite, ecc. Un’altra osservazione che mi pare importante mettere qui in evidenza è l’idea condivisa da tutte queste persone e vissuta come ovvia, naturale, per cui la manifestazione è da considerarsi una risorsa fondamentale per lo sviluppo dell’economia locale. L’assessorato alla cultura si confonde con quello al turismo e la cultura popolare è classificata sotto la voce di patrimonio, valorizzata principalmente in relazione al suo ritorno turistico. Anche qui, come praticamente in tutta l’isola, tutto ciò che si pensa possa favorire il turismo è oggetto di cure particolari6.
6
Il ruolo del turismo come mezzo di sviluppo è un tema molto sentito in Sardegna. A questo proposito, una voce fuori dal coro è quella dell’intellettuale cagliaritano Giorgio Todde [2006:30] che si scaglia contro la politica prevalente per cui “l’unica crescita desiderata, progettata e accettata è quella turistica. Il turismo violento e nevrastenico dei due mesi anfetaminizzati durante i quali organismi semplificati - i turisti – confondono la vacanza (il vuoto nobile dei pensieri) con la vacuità (il pieno di pensieri vuoti)”
Introduzione ▪ 13
Strategie e segni dell’appartenenza Quali sono gli strumenti messi in campo dai soggetti per costruire una versione celebrativa della propria storia, del proprio patrimonio culturale, di una propria singolare appartenenza comunitaria? Per Palumbo è necessario concentrarsi sul ruolo centrale e attivo (performativo) giocato da simboli e oggetti, dai modi di dire e dai modi di fare, nel realizzare la naturalizzazione dell’evento presentato. Anche per Gallini [(a cura di), 2003:12] parole, oggetti, gesti, azioni sono il modo attraverso cui si riproducono nell’immaginario sociale i segni dell’appartenenza, gli strumenti con cui si è capaci sia di intervenire sul reale sia di rappresentarlo. Costumi, oggetti, gesti della tradizione veicolano un messaggio che è tanto più forte quanto riesce a sfruttare un terreno narrativo e ideologico comune sia, e in primo luogo, al singolo paese contesto della manifestazione, sia a tutti i sardi in generale. Per ognuno di questi elementi si è constatata la maggiore e minore efficacia simbolica sulla base dei discorsi che scaturiscono intorno alla manifestazione. L’obiettivo della seconda parte del quarto e del quinto capitolo è appunto quello di esaminare il ruolo giocato da specifici elementi nel contesto del Matrimonio Selargino. Nel quarto capitolo vengono esaminati in particolare i discorsi intorno agli elementi chiamati a mostrare la selarginità della festa: l’abbigliamento tradizionale, la catena, la riproduzione di una tavola del 1800 scelta come logo dell’evento. Nel quinto capitolo sono esaminati altri elementi quali la questione dell’uso della lingua sarda, le motivazioni sottese all’uso dello spazio, quale la scelta di ambientare parte della rappresentazione in tipiche case campidanesi e la scelta del percorso del corteo nuziale, le motivazioni che hanno spinto a situare la festa in settembre, le voci di spesa e gli enti finanziatori dell’evento. La rappresentazione folkloristica è per certi aspetti assimilabile a una rappresentazione metonimica per cui una parte rappresenta il tutto. Da questo punto di vista viene esaminato il ruolo dei gruppi folkloristici, in cui una parte della comunità rappresenta l’intera comunità. Se per Clemente “l’asse del mondo paesano laica e moderna è rappresentata piuttosto dalla banda municipale che non dalla chiesa e dal campanile” [Clemente, 1997:38], nel contesto sardo il ruolo di “ibrido societario” e “perno della vita paesana di oggi”, di associazione “laica e regolamentata, interclassista, disponibile per le circostanze istituzionali politiche, civili e religiose, per quelle del ciclo della vita, e per il ballo” mi sembra piuttosto attribuibile alle associazioni folkloristiche locali.
14 ▪ Introduzione
Nella costruzione del prodotto “matrimonio tradizionale” si nota una continua manipolazione degli assi cronologici e degli ordini di antecedenza -successione, causaeffetto. Inoltre, in tutti i matrimoni folkloristici è presente la tendenza alla ritualizzazione di ogni oggetto e gesto. Particolarmente evidente nei casi in cui è la “tradizione” a prescrivere una certa formalità (ad esempio per la benedizione materna), si parla di comportamento rituale anche per ogni altro elemento che presenti una certa regolarità nelle sequenza delle azioni. La vestizione degli sposi si trasforma così in “rituale della vestizione”, la consegna delle chiavi in “rituale della consegna delle chiavi”, ecc. Anche senza arrivare agli eccessi del caso olianese, in cui ogni cosa, oltre ad essere ritualizzata, è dotata di un preciso significato simbolico, l’effetto ricercato è l’attribuzione di una certa solennità e gravità all’evento, un modo per affermare la fierezza e l’orgoglio che sembra debba caratterizzare ogni rappresentazione identitaria sarda.
Note sulla ricerca: posizione etnografica e metodologia della ricerca Ho sempre partecipato al Matrimonio Selargino, sin da piccola. Era emozionante venire svegliati la domenica presto dall’allegro frastuono dei tamburini di Oristano, in giro per le vie del paese a ricordare alla “comunità” selargina il grande evento (ora i tamburini non ci sono più: la pro loco ha scoperto che non sono “filologicamente” corretti). Quei colori, quelle forme, un costume per ogni paese, uno più bello dell’altro, il suono delle launeddas, i buoi inghirlandati, i balli improvvisati durante le pause del corteo, poi quelle anziane donne che fermavano la sfilata per rompere dei piatti mentre formulavano oscure benedizioni: tutto mi pareva così ricco di fascino, così suggestivo. Ho sempre trovato la manifestazione suggestiva e affascinante, è vero, ma anche, come per tutti quelli della mia età, così ridicola, di cattivo gusto, in qualche modo umiliante. Si era orgogliosi di non conoscere il sardo, di non aver nulla a cha fare con balli e canti sardi, ed era difficile comprendere le ragioni per le quali ci fossero sardi che insistessero nell’esaltare figure “ridicole” come quella del pastore in mastruca col viso deformato dallo sforzo di suonare sa launeddas. La sardità era qualcosa che si lasciava volentieri venisse attribuito agli abitanti di Orgosolo o ai Nuoresi, in ogni modo agli abitanti di un interno arretrato e isolato. E allora perché una tesi su questo argomento? “Un altro sardo che scrive di Sardegna” mi sono sentita ripetere più e più volte, scoprendo di far parte di una numerosa compagnia. Perché gli studiosi sardi di antropologia tendono a confinare le proprie
Introduzione ▪ 15
ricerche nell’ambito dell’Isola? Se i casi fossero in numero limitato si potrebbe parlare di coincidenza, di comodità o comunque si potrebbe cercare una risposta personalizzata per ogni caso, ma quando si ha di fronte un comportamento generalizzato la questione diventa complessa. A parte il mito persistente di una terra ancora in gran parte da scoprire, a parte la conclamata predilezione di settore per le isole, è difficile trovare una risposta. Sospetto però che abbia in qualche modo a che fare con un certo senso di inferiorità culturale che serpeggia tra i sardi, i quali, stanchi di venir derisi con le solite battute sulla dizione o sulle pecore, reagiscono rinnegando qualsiasi legame con l’isola oppure, al contrario, approfondendone la conoscenza. Nel mio caso penso sia stata fatale la combinazione di amore-odio resa affascinante dallo “sguardo antropologico” e amplificata dallo scoprirmi improvvisamente identificata come “sarda” dagli amici “continentali”, oggetto di quegli stessi pregiudizi e stereotipi con cui i cagliaritani si fanno beffe degli abitanti del nuorese. Il luogo di partenza di questa ricerca non è semplicemente situato in Sardegna, è il paese in cui sono cresciuta e ho vissuto la maggior parte del tempo. Ero informata delle difficoltà di fare ricerca sul campo, avevo letto degli svantaggi dell’essere un estraneo per il gruppo che si studia, ma non ero preparata alle difficoltà dell’essere identificata come “membro del gruppo”. Sin dall’inizio, sapendo di non poter prevedere le conseguenze, la mia idea è stata quella di evitare il più possibile ogni riferimento alla mia famiglia e al mio parentado. L’obiettivo era quello di passare inosservata, cercando di lavorare nel modo più autonomo possibile, rimanendo estranea a tutte le eventuali reti di relazioni in cui sarei stata inserita mio malgrado. Ma il tentativo di presentarmi solamente come studentessa di antropologia culturale a Modena, è caduto quasi sempre nel vuoto. Oltre una certa fascia di età, questo tipo di presentazione non è mai stato accettato come valido: la reazione era invariabilmente “Ah… E fill’e di chini sesi?” da parte degli interlocutori più anziani o l’equivalente in italiano (“Chi sono i tuoi genitori?”) da parte degli altri. Se il riferimento al nome, poi alla professione, poi al luogo di nascita dei miei genitori non era sufficiente, si passava alle stesse domande per i nonni, e se questo non bastava si passava agli zii. Solo al termine di un più o meno lungo processo di inquadramento, mi veniva chiesto quale fosse l’oggetto delle domande che intendevo rivolgere. Seppure continui a non sopportare l’idea che il giudizio sulla mia persona e la disponibilità nei miei confronti possa dipendere, almeno in una prima fase, da questioni su cui non ho il minimo controllo, quali l’essere la figlia o la nipote di, è giocoforza ammettere che in certi contesti sia stato così.
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Un aspetto interessante della mia posizione sul campo è stata quella di essere identificata come selargina, ma non al 100%. Per essere una selargina doc mio padre, mia madre e i miei nonni sarebbero dovuti nascere e vivere a Selargius, ma solo mio padre e la sua famiglia sono di Selargius, mentre mia madre e la sua famiglia di Quartucciu, per cui, nonostante abbia sempre vissuto a Selargius, non faccio parte della ristretta cerchia dei selargini a tutti gli effetti. Ma se fossi stata completamente di un altro paese, per quanto confinante, molte cose non mi sarebbero state dette perché non sarebbe sembrato opportuno rivelarle a un estraneo e comunque non avrei potuto capirle. Mi è stato riferito cosa è stato raccontato ad altre due ragazze, entrambe di Cagliari, che quest’anno si sono presentate a Selargius interessate a scrivere la tesi sul Matrimonio Selargino (anche loro!): niente, niente di più di quello che è riportato sul dépliant della manifestazione. Probabilmente, se non si fossero accontentate di quelle informazioni, col tempo avrebbero anche potuto superare l’iniziale diffidenza e raccogliere, in molto più tempo e con molta più fatica, le mie stesse informazioni. Se invece fossi stata una selargina doc molte cose non mi sarebbero state dette per due motivi: uno, perché ovvio che le sapessi già e comunque non sarebbe stato affar loro, ma della mia famiglia, mettermene al corrente, due, perché avrei potuto usarle impropriamente, e nessuno vuole essere accusato di aver messo in giro pettegolezzi e voci sul conto di qualcun altro. E in effetti molte domande sono rimaste a lungo senza risposta (molte lo sono ancora), in alcuni casi non mi è stato permesso di registrare, in altri casi qualcuno è stato zittito in mia presenza con eloquenti segni non verbali. Alcuni però, di fronte alla disarmante ingenuità delle domande e all’evidente completa ignoranza dei giochi di potere e del sistema delle alleanze selargine, si sono assunti la responsabilità di spiegarmi il non-detto di molti discorsi, giustificando la mia disinformazione col fatto che, dopotutto, mia madre è di Quartucciu. Una delle principali difficoltà della ricerca sul campo nel proprio paese è stata quella di mantenere le distanze dalle categorie del discorso locale, cercando di mantenere una posizione equidistante dalle parti. Ma è davvero possibile parlare di un evento pubblico così importante per il paese senza entrare nel gioco politico locale? In alcuni casi è stato esplicito che la franchezza con la quale si rispondeva alle mie domande era motivata dalla possibilità di convincermi a sostenere un punto di vista piuttosto che un altro, e di inserirmi, in quanto selargina, nel proprio sistema di alleanze. Ad esempio mi è stata proposta una candidatura per le prossime elezioni amministrative, ma anche un lavoro da “antropologa” in un museo etnografico di prossima (?) apertura.
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Da questo punto di vista, il risultato proposto non accontenterà nessuno dei miei informatori, ma d’altronde neppure me, a cui dispiace dover omettere una parte consistente del mio lavoro. La conoscenza pregressa della manifestazione mi ha aiutato a superare ben presto la facciata della festa per scoprirne il dietro le quinte, ma purtroppo il risultato sono aneddoti, voci, affermazioni sospese tra il detto e il non-detto il cui status di dichiarazioni appare troppo fragile per essere inserite in questo lavoro. Mi rendo conto che molte considerazioni non verrebbero mai ripetute in pubblico e che di molte altre si negherebbe la paternità, inoltre sono consapevole del fatto che alcune mi sono state riferite perché gli interlocutori non si sarebbero mai immaginati che potessero entrare a far parte di un lavoro di tesi, così come altre mi sono state riferite sulla base di un rapporto reciprocamente fiduciatario tra informatore e ricercatore, che preferisco non mettere in crisi. Per tutti questi motivi ho deciso di inserire solo le considerazioni che sono state avanzate da più parti e quelle il cui autore non è immediatamente riconoscibile. Inoltre ho cercato di bilanciare lo status incerto delle prime ricorrendo alle fonti scritte. Buona parte del tempo di ricerca è stata dedicata proprio al reperimento e all’analisi delle fonti scritte, soprattutto dei documenti contenuti nell’archivio comunale e gli articoli di giornali e riviste, sebbene debba ammettere di aver constatato più volte che le informazioni contenute negli articoli di giornale sono soggette a errori, falsità, approssimazioni, tanto quanto le fonti orali. Inoltre, nonostante si dedichi ampio spazio alla descrizione della manifestazione, il materiale utile ai fini di un’indagine approfondita è scarso. I mass media tendono a restare prigionieri dei propri stereotipi: troviamo sempre le stesse foto (solitamente i due sposi “incatenati”) e gli stessi tipi di descrizione con pochissimi cambiamenti (in alcuni casi il taglia e incolla da un anno all’altro è palese). La ricerca empirica si basa dunque su interviste e osservazioni informali (spesso a più voci), ma anche su scambi di e-mail e conversazioni telefoniche, l’esame di collezioni fotografiche e video. Per quanto riguarda il Matrimonio Selargino e il Matrimonio Mauritano si aggiunge l’osservazione diretta. In particolare, per quanto riguarda il primo, si sono rivelati preziosi i ricordi personali delle numerose angolazioni dalle quali ho partecipato alla festa negli anni passati: in alcuni come addetta al servizio d’ordine, in altri alla distribuzione dei dépliant e ancora come punto di riferimento locale per i gruppi folkloristici ospiti. La decisione di affrontare l’argomento dal punto di vista antropologico
è
del
2004,
anno
in
cui,
basandomi
sul
classico
metodo
dell’osservazione partecipante, mi sono inserita nell’attività oggetto di ricerca
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indossando l’abito tradizionale. Durante l’edizione del 2005 ho raccolto i commenti e le osservazioni del pubblico, estendendo i rilievi non solo alla giornata principale dell’evento, ma anche agli eventi collaterali organizzati nei giorni precedenti. Nel 2006 sono riuscita infine ad avere accesso a momenti più privati, tra cui il banchetto nuziale. Come hanno affermato ironicamente alcuni miei amici, ora manca solo che mi sposi anch’io in questo modo…
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1 “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari Dal che voi vedete quanto degli antichissimi riti abbiano custodito i Sardi nella solennità de' maritaggi: riti che contengono la storia non solo della divina istituzione, ma degli esordi altresì della prima civiltà delle genti occidentali. Tradizioni importantissime, che i Sardi senza punto conoscerlo, ci conservarono inviolate. [Bresciani, Dei costumi dell’Isola di Sardegna]
1.1 Premessa L’area
denominata
Campidano di Cagliari corrisponde approssimativamente ai
territori
dell’area
cagliaritana, quell’area
cioè che
di può
essere identificata “nel territorio compreso nei 1.1 Comuni del Campidano di Cagliari
limiti
di
una
circonferenza che, con centro in Cagliari, si stenda per un raggio di una ventina di chilometri” [Alziator, 1984:15]. È un’estensione che si presta facilmente ad essere delimitata come unità di ricerca, in quanto relativamente omogenea dal punto di vista geografico, storico, linguistico, economico e delle tradizioni culturali. Fin dalle origini tale estensione è stata sottoposta alle medesime influenze culturali, derivanti dalla sudditanza a uno stesso centro politico e ecclesiastico e favorite dalla presenza di una vasta area pianeggiante che ha consentito scambi relativamente facili e frequenti tra i vari paesi della zona, come pure una medesima lingua, la variante campidanese della lingua sarda. Alziator propone alcuni esempi a dimostrazione di questa uniformità:
il tipo della casa a pianta rettangolare che gravita sul cortile interno, il tipo del vestiario, sia maschile che femminile, i motivi dell’oreficeria popolare, i motivi del patrimonio leggendario tradizionale, la diffusione e la persistenza della launedda nella musica popolare, una sostanziale unità nella paremiologia, nella
religiosità popolare, nella gastronomia ed in non poche manifestazioni del ciclo dell’uomo e dell’anno [Alziator, 1984:32] Non esistono al momento studi che si occupino in modo specifico delle usanze matrimoniali nell’isola. Affrontarne lo studio significa dunque fare i conti con una documentazione scarsa e lacunosa, per di più prodotta con fini e metodologie eterogenei. Inoltre, la scelta di circoscrivere l’ambito di approfondimento a una specifica zona complica ulteriormente la ricerca. Gli studi concernenti l’area campidanese sono senza dubbio pochi, specialmente se si prendono in considerazione i lavori dedicati alla raccolta e all’analisi delle tradizioni popolari, fatto tra l’altro costantemente evidenziato dagli autori presi in esame. È opinione diffusa che la “vera” Sardegna sia altrove, la “sardità” viene presentata - nei dépliant turistici, alla televisione, nei discorsi quotidiani - come una qualità localizzata per lo più nel nuorese e specie tra i pastori (cfr. Satta 2003). Tendenza che coinvolge anche gli studiosi; basterebbe una rapida occhiata nelle biblioteche sarde per accorgersi della netta predilezione per lo studio delle zone più interne dell’isola, più “tradizionali”1. Il Campidano appare, al confronto, un’area poco conservativa, da sempre soggetta alle mode “continentali” del momento, per cui l’attenzione a esso rivolta è di natura per lo più storica e sociologica, mentre l’elemento folklorico è trascurato. Nel tentare una ricostruzione il materiale utilizzabile è essenzialmente di tre tipi differenti: i resoconti dei viaggiatori dell’Ottocento in Sardegna, il diritto ecclesiastico locale, i saggi storici e antropologici pubblicati a partire dagli anni ’70. Il primo tipo di fonti ha il vantaggio di fornire una testimonianza diretta, di prima mano, su realtà culturali ormai scomparse, la cui descrizione è spesso molto dettagliata. Tale materiale ha però tutti i limiti della tradizione della letteratura esotica e di viaggio a cui appartiene di diritto: è costituito da resoconti di politici, uomini di chiesa, esploratori, geografi, che non possiedono un’adeguata preparazione di tipo antropologico e non sono guidati da un progetto scientifico esplicito e coerente. L’attenzione tende a concentrarsi sulla diversità, sulla raccolta di curiosità folkloriche di tipo aneddotico,
1
Angioni è stato uno dei primi antropologi a riequilibrare il quadro degli studi sulla Sardegna, pubblicando diversi importanti lavori sul lavoro contadino, per di più su aree sarde sino a quel momento poco studiate, tra cui ad esempio Rapporti di produzione e culture subalterne. Contadini in Sardegna, Edes, Cagliari, 1974 e Sa Laurera. Il lavoro contadino in Sardegna, Edes, Cagliari, 1975.
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espressione di una realtà selvaggia nei cui confronti l’atteggiamento varia dalla condanna morale, alla spiegazione tramite pregiudizi, allo stupore divertito. La cautela nell’utilizzo di questo materiale è quindi d’obbligo: si rischia di attribuire ai più il comportamento di una minoranza, di estendere a tutte le classi sociali il comportamento di una sola, a tutta un’area un’usanza di paese. Da questo punto di vista tale letteratura offre un’immagine omogenea di cultura che non soddisfa la ricerca di una verosimiglianza storica: è un’impresa riuscire a determinare l’estensione di un’attività o di un’usanza in termini di spazio, di tempo, di classe sociale. Inoltre, spesso le osservazioni contenute in questi lavori non derivano da osservazione diretta, bensì dal plagio, dal riassunto spesso erroneo, e altrettanto spesso non dichiarato, di passaggi di opere di viaggiatori precedenti2. Una grande quantità di notizie sulle usanze relative al matrimonio si ricava in maniera indiretta dalle fonti ecclesiastiche: documenti di diritto ecclesiastico locale, annotazioni nei Quinque Libri3, atti matrimoniali, manuali di catechismo. I divieti, le prescrizioni e le punizioni con cui la Chiesa tendeva a regolamentare la condotta dei fedeli svelano quale fosse il reale comportamento delle persone registrando con estrema precisione le circostanze dell’evento da sanzionare e i dati delle persone coinvolte. Sempre a differenza dei resoconti di viaggio, l’analisi dei documenti della Chiesa richiede una discreta preparazione, che consenta di attivare la giusta chiave di lettura del testo, eliminare le considerazioni negative espresse da parte dei redattori, capire il significato nascosto dietro le circonlocuzioni e le formule utilizzate. Da tale documentazione possiamo ricavare ciò che si dovrebbe fare (e con quali modalità) e ciò che non si dovrebbe fare ma si fa lo stesso (con quali sanzioni), ma ben poco possiamo conoscere a proposito di quei comportamenti ritenuti talmente normali, ovvi, tali da non aver bisogno di essere prescritti esplicitamente, o al contrario di essere vietati in quanto accettati anche dalla Chiesa. È solo a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, che la ricerca storica e antropologica si mostra più attenta nei confronti di questioni quali il matrimonio e la famiglia nella
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A questo riguardo si veda Delitala, 1981 Sono così chiamati i registri parrocchiali che in seguito alle normative emanate dal Concilio di Trento ogni parroco era tenuto a compilare e aggiornare costantemente. I registri parrocchiali erano composti da cinque libri (da cui il nome): il libro dei battesimi, delle cresime, dei matrimoni, dei defunti, dei confessati e comunicati (il quale era suddiviso in stati d’anime, elenchi nominativi, dichiarazioni generiche del parroco). Fonte: Anatra, Puggioni, 1983 3
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Sardegna “tradizionale”. Rispetto ai lavori precedenti, di carattere prevalentemente descrittivo e documentario, questi cercano di stabilire il senso delle regolarità statistiche: le strategie matrimoniali, la struttura delle famiglie, il ruolo della parentela, in contesti ben delimitati in termini di spazio e di tempo. Il più utile in questo caso è sicuramente Famiglia e matrimonio nella società sarda tradizionale a cura di Anna Oppo, raccolta di saggi scaturiti da un convegno dallo stesso titolo tenutosi a Cagliari nel 1988. Purtroppo, però, per ovvie ragioni, le testimonianze degli informatori sono limitate temporalmente al XX, o, al massimo, alla seconda metà del XIX secolo. Per limitare i possibili errori di fraintendimento del testo, legati alla natura e all’eterogeneità del materiale di ricerca, si è privilegiato un approccio di tipo selettivo nella lettura dei documenti. Partendo dalle informazioni ricavate dal lavoro di ricerca sul campo, su ciò che sanno o ricordano le generazioni viventi a proposito delle consuetudini relative a nozze e fidanzamento, si è proceduto all’analisi della letteratura di viaggio, dando la precedenza al materiale che facesse esplicito riferimento a paesi del Campidano di Cagliari, ma utilizzando anche quanto riferito alla Sardegna in generale, in cui fosse possibile riconoscere elementi della tradizione campidanese. Per quanto riguarda il resto delle fonti, la cui contestualizzazione è stata meno problematica, mi sono limitata a una selezione sulla base del criterio geografico. Ciò premesso, si può ora passare ad esaminare il contenuto delle opere che si occupano di fidanzamento e matrimonio in area cagliaritana.
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1.2 Su fastigiu - Il corteggiamento Come è noto, la letteratura antropologica sul matrimonio è vastissima. A seconda della prospettiva con la quale si è affrontato il tema, l’istituzione matrimoniale risulta essere uno dei mezzi privilegiati per sanare conflitti diversamente non sanabili tra famiglie rivali, un modo per spartirsi il potere con un accordo anziché con una lotta aperta, un espediente per non frammentare il patrimonio economico familiare. La scelta del coniuge non appare mai totalmente libera, in quanto ampiamente condizionata da elementi quali la difesa di posizioni sociali, le norme morali vigenti, la salvaguardia del patrimonio economico4. Nella Sardegna tradizionale la questione coinvolgeva solitamente il parentado, impegnato al fine di conseguire il risultato più soddisfacente dal punto di vista della posizione sociale e del vantaggio economico, ma coinvolgeva anche la comunità che poteva stigmatizzare la scelta con più o meno pesanti sanzioni sociali5. Lascerei dunque da parte le questioni relative al grado di libertà individuale nella scelta dei pretendenti, poiché difficilmente le questioni relative al fidanzamento e al matrimonio erano decise unicamente dai diretti interessati. Va comunque precisato che vere e proprie forme di strategie matrimoniali erano per lo più limitate ai “ceti proprietari”. “Calidadi cun calidadi”6, come si sente ripetere ancora, ossia l’endogamia sociale prima di tutto. Anche quando si diffonde la moda del corteggiamento - una pratica sociale che si afferma in Sardegna, come nel resto d’Europa, a partire dal XVIII secolo - questo è rigidamente sottoposto al rispetto della separazione tra le classi. Gli incontri tra i giovani dei due sessi sono sottoposti a un severo controllo affinché avvengano
4
Per un approfondimento di queste tematiche si rimanda a Zonabend, 1988. Un esempio concreto di come le questioni relative alla fondazione di una nuova famiglia non riguardassero solo i diretti interessati e le loro famiglie, ma l’intera comunità, deriva dalla disamina di Gallini (1977, secondo capitolo) delle forme di charivari in Sardegna. L’infrazione della norma che prevedeva che la famiglia fosse monogamica oltre la stessa morte di uno dei partner e che la sessualità fosse finalizzata alla procreazione legittima, era oggetto di una plateale disapprovazione pubblica che prendeva il nome di sa coredda (o suo equivalente linguistico). Nei casi di seconde nozze di un vedovo o una vedova, nozze di un anziano con una giovane, cambiamento di fidanzato di una ragazza, gravidanza illegittima, cioè nei casi di famiglia “rotta” (per morte di uno dei due membri o per abbandono di uno dei due fidanzati) ricomposta su altre alleanze, e nei casi di famiglia incompleta (perchè formata solo di madre e di figlio), veniva organizzata una chiassata satirico-ingiuriosa davanti alla casa dei colpevoli di infrazione delle norme morali, della durata di alcuni giorni. 6 Nel vocabolario del Canonico Giovani Spano il termine sardo calidadi è tradotto come “qualità, stato, condizione”. 5
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nell’ambito di famiglie dello stesso ceto7. Pillai [1991:44] rileva forme di endogamia tecnica, per cui i vignaioli sposano figlie di vignaioli, i muratori figlie di muratori, mentre Alziator [1963:65], accenna a una forma di endogamia non di paese, ma di rione, diffusa a Cagliari “a tal punto da stabilizzare, anche fisiognomicamente, il tipo di ogni quartiere”. Purché sia rispettata questa condizione, si può far posto anche all’amore romantico:
Già nel XVIII secolo, similmente a quanto accadeva in altre parti d’Europa “anche tra il popolo si diffonde il linguaggio dell’amore-passione” e sempre più spazio si riserva agli slanci del cuore, alle passioni travolgenti, il tutto unito alla superstizione che i figli dell’amore nascano più belli degli altri. [Pillai, 1991:4647] La lunga dominazione spagnola in Sardegna ha fatto sì che soprattutto nell’area cagliaritana l’amore sia stato concepito alla maniera del galanteo spagnolo. Il carattere tipicamente spagnolo dell’amoreggiare in area cagliaritana sarebbe testimoniato da molteplici termini e espressioni: primo fra tutti il termine fastigiu (da cui il verbo fastigiai). Il sostantivo fastigiu deriva dallo spagnolo fasteig o dal catalano festej, che indica il “far festa, rendere omaggio, fare la corte, galanteggiare” [Alziator, 1963:65; Caredda, 1993:33]. Sino alla metà del secolo scorso, il termine fastigiu è servito a indicare le forme attraverso cui poteva esprimersi il corteggiamento cagliaritano: solitamente tra strada e balcone, poteva essere del tutto muto, fatto di soli sguardi, oppure per cenni e attraverso il linguaggio dei gesti, i più intraprendenti si servivano di un rudimentale telefono, costruito con dei barattoli uniti da spaghi tesi. Alziator sottolinea come la distanza tra i due giovani sia una discriminante di classe: a classe più elevata corrisponde una maggiore e più rigida distanza. Il fastigiu si esprime anche attraverso le serenate che il giovane, accompagnato da chitarra, mandolino o mandola, dedica alla sua bella. Alcune di queste serenate di corteggiamento sono giunte sino a noi, raccolte da scrittori italiani e stranieri. Saper gestire i propri spasimanti è una questione di abilità e intelligenza. Le donne che si espongono troppo rischiano di essere occasione di critiche e di scherzi da parte della 7
A questo proposito ci si potrebbe chiedere, con Angioni (1990:18) se l’endogamia di ceto vada intesa come una “una forma di dominanza delle esigenze della famiglia, della parentela” o invece come “una forma di dominanza, di ingerenza, dei rapporti di produzione, di proprietà, anche all’interno dei rapporti di parentela”.
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comunità, fatto che può pregiudicare l’onore di una donna e quindi ogni sua possibilità di accasarsi. In ogni modo, dal XVIII secolo, la diffusione di alcuni modi di dire mostra che le donne non sono più disposte ad accettare passivamente le imposizioni dei genitori o le pretese degli spasimanti, come nei secoli precedenti; la donna si appropria della libertà di donai crocoriga8, donai ciascus9, donai su pagliettu10, tutte espressioni per indicare che la ragazza respinge il corteggiamento. Si dice che le forbicine appese nella cintola di ogni donna, oltre alla funzione di tagliare i fili del cucito, avessero anche un significato simbolico: ai corteggiatori non graditi venivano mostrate nell’atto di tagliare11. I pretendenti respinti si vendicavano con canzoni infamatorie (cantai de malas), imbrattando le porte, sparando schioppettate in direzione della casa della donna. All’irrompere di una maggiore libertà nei rapporti tra i due sessi, una lunga serie di disposizioni normative tenta di ristabilire la sottomissione all’autorità familiare. Si rafforza la consuetudine per la quale è consentito al padre rinchiudere in convento i figli che si fossero messi a corteggiare donne di condizione sociale diversa dalla propria, oppure che volessero sposarsi senza il loro permesso. Si aggrava la condanna per le canzoni infamatorie, punite con mesi di carcere. Baci e abbracci in pubblico continuano a non essere permessi né dal costume, né dalle leggi [Pillai, 1991:47].
1.3 La figura del paralimpu Quando un giovane proprietario del Campidano vuole sposare una ragazza d’un paese vicino e di condizione pari alla sua, cerca prima di tutto di avere il consenso del proprio padre12
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Dal greco korkoros, crocoriga o corcoriga è il termine campidanese con il quale si indica la zucca; donai, pigai c. significa “dare (o prendere) un rifiuto” (in amore), calco sullo spagnolo dar calabazag. Vedi Spano, 1972:171 e Wagner, 1989:380. 9 Il termine ciàscu è tradotto sia da Spano [1972:157] sia da Wagner [1989:445] come “scherzo, burla, dispetto”. Secondo Alziator [1963:65] l’espressione donai ciascus deriva dall’espressione spagnola dar chasque, “disingannare”. 10 Wagner [1989:208] assegna un senso dispregiativo all’espressione campidanese donai su paliéttu che traduce con “mandar via, dar la gambata (specialmente in fatto di amore)”. 11 Puxeddu in Camboni (a cura di), 2000:154 12 Della Marmora 1826, ediz. 1995:105. Alberto Ferrero conte di La Marmora (Torino 1789- ivi 1863). Generale piemontese, il La Marmora trascorse lunghi periodi della sua vita in Sardegna come comandane militare. Alle sue eccelenti capacità di studioso si devono il Voyage e l’Itinéraire, e inoltre la costruzione di una carta della Sardegna (1845) che è stata per oltre mezzo secolo la più perfetta rappresentazione cartografica della Sardegna. Il nome di Alberto Ferrero conte di La Marmora si trova citato a volte come
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Questi, se ritiene che la ragazza sia degna dell’attenzione del ragazzo, chiama una persona di fiducia che si presti a saggiare il parere della famiglia di lei. Alziator [1963] sostiene che sia il padre o il tutore di lui a recarsi direttamente a casa della famiglia di lei, ma probabilmente questo avveniva solo quando si era già sicuri dell’esito positivo della richiesta; il rischio di subire un rifiuto fungeva da deterrente nei casi incerti. Un rifiuto esplicito e diretto sarebbe stato un affronto imperdonabile, cui ovviava la figura dell’intermediario (di cui si poteva disconoscere l’operato). Tutta la letteratura in materia tende a soffermarsi sulla figura degli intermediari. Alziator scrive di “comari compiacenti, vere professioniste in materia, precisa edizione cagliaritana delle casamenteras spagnole” cui si ricorreva in contesti urbani, mentre nell’area non urbana “esisteva il paralimpu, che a nozze concluse riceveva in dono un paio di scarpe” [Alziator, 1963:67]. Lai Roggero [1995:63] ne descrive le caratteristiche:
la paraninfa doveva possedere la parlantina facile ed essere dotata di una certa dose di diplomazia e di molta discrezione. Nonostante le proibizioni ecclesiastiche, su cui ci soffermeremo più avanti, questa funzione era spesso assegnata ai sacerdoti: come esempio si può citare quanto affermato nel sinodo celebrato nel 1576-77 a Cagliari in cui si impone tassativamente ai curati
sotto pena di dieci denari a non immischiarsi in nessun modo nella trattazione dei matrimoni come intermediari […], a non intromettersi in alcuna maniera e a non portare dall’una all’altra parte nessun segno d’oro o d’argento o qualunque altro dono13 Uomo o donna, si trattava comunque di una figura che doveva aver facile accesso alla casa della donna, per non destare sospetti sul vero oggetto della sua visita. Questi, ricevuto l’incarico, si recava a casa della giovane prescelta, di preferenza a sera inoltrata, per dare meno nell’occhio. Dopo i “necessari” convenevoli,
entrava subito in argomento, e con molta abilità metteva in evidenza le doti del richiedente, sottolineando in particolare i suoi pregi e le sue qualità [Lai Roggero, 1995:63] La risposta alla richiesta era solitamente differita nel tempo (Lai Ruggero precisa: non prima di “due settimane”) anche in caso di risposta affermativa, affinché il parentado
La Marmora, altre come Lamarmora oppure Della Marmora; in questo lavoro si è scelto di usare l’ultimo tipo di trascrizione. 13 Synodus Diocesana Calaritana, (D.F.Perez, 1576-77), Decretum II (De requisitis ad matrimonium certe contrahendum), cap.V, citato in Pala, 1985:67
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potesse accertare l’assenza di impedimenti di alcuna sorta all’unione dei due giovani. Una frase è rivelatrice della posizione della donna in tutta la vicenda:
alla giovane interessata non era consentito mostrare un eccessivo compiacimento [Lai Roggero, 1995:63]
1.4 Sa pregunta - La domanda della sposa Se la famiglia di lei si mostrava favorevole all’unione dei due ragazzi, il passo successivo era la visita ufficiale da parte dei genitori di lui in casa della ragazza, per regolare le questioni relative a eredità e proprietà destinate ai futuri sposi. Giunti a un accordo, si stabiliva il giorno per la richiesta ufficiale di matrimonio, chiamata sa pregunta (o precunta), dal verbo spagnolo “preguntar”, cioè chiedere. Il giorno fissato, parenti e amici dello sposo si recano in abito di festa a casa della futura sposa. Giunti sulla soglia della casa, ci si accorge che il portone è sbarrato e nessuno risponde al ripetuto bussare,
da dentro la casa s’inizia a dare una qualche risposta ai pretendenti solo quando questi, dopo aver bussato ripetutamente, fanno finta di spazientirsi. Gli si chiede che cosa vogliano e che cosa portino e la risposta è: “Onore e virtù”. A questo punto la porta viene aperta e il padrone di casa, facendo credere di non sapere di averli fatti attendere, li accoglie nella stanza degli ospiti dove è riunita tutta la famiglia in abito da festa [Della Marmora 1826, ediz. 1995:105] Nel resoconto di Smyth, questo momento è seguito da
un profondo silenzio finché uno dei più anziani, di provata onestà, invitato espressamente, chiede la ragione per la quale c’è tanta buona gente in casa dell’amico [Smyth in Boscolo (a cura di), 2003:92] La persona incaricata, che può essere il padre dello sposo, lo sposo stesso o un altro uomo, risponde affermando di avere bisogno di aiuto per ritrovare un animale perduto (o rubato? 14) che ritengono si sia nascosto nella casa. La richiesta ufficiale di matrimonio collega la tradizione popolare sarda alla tradizione di buona parte dell’Europa. Il rito della fidanzata nascosta è conosciuto in Francia come fiancée cachée o substituée, in Inghilterra come mock bride, nel mondo germanico con
14
In Animali perduti. Abigeato e scambio sociale in Barbagia (1989:129 e sgg.) Caltagirone mette in evidenza come questa fase della cerimonia del fidanzamento possa essere descritta come una vera e propria azione di abigeato. Tra le diverse similitudini si nota ad esempio che la dichiarazione riguardante l’aver perduto del bestiame è la stessa che si usa per la ricerca del bestiame rubato (“in circa ‘e perdimentu” nel dialetto barbaricino)
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la falsche braut; si tratta in sostanza di un dialogo nel quale la richiesta di matrimonio è trasfigurata nella scusa della ricerca di un animale smarrito [Alziator, 2005:41]. In alcuni casi, l’animale che simboleggia metaforicamente la donna è un’agnella, altre volte una colombella, una pecora o una giovenca; ciò che accomuna questi animali è il fatto di essere di sesso femminile e di essere solitamente bianchi, per evidenti ragioni simboliche legate all’idea di purezza, castità, ecc.. Un esempio del discorso dell’uomo è il seguente:
Siamo venuti per chiedere il vostro aiuto, affinché possiamo ritrovare la colombella smarrita che cerchiamo da lungo tempo. Essa è così bella, così modesta, così dolce ed unica, che la vita senza di lei non ha più senso. Siamo sicuri che si trova in questa casa, perciò non andremo via se prima non la consegnerete a noi [Lai Roggero, 1995:64] Il padrone di casa può far finta di non capire, e presentare uno alla volta i propri figli maschi e poi le figlie femmine dicendo “Cercate questo?” finché nella stanza viene portata la futura sposa, tenuta nascosta fino a quel momento, accolta dalle esclamazioni di gioia di amici e parenti del fidanzato.
1.5 Fidanzamento o matrimonio? Secondo i resoconti di alcuni viaggiatori dell’800, la domanda della sposa ha luogo in un giorno diverso da quello del fidanzamento ufficiale, mentre per altri ne costituirebbe parte integrante. Nel primo caso, il cerimoniale prevede che si fissi il valore dei rispettivi doni e il giorno in cui si farà lo scambio, nell’altro si procede direttamente al reciproco scambio. Tali doni sono chiamati segnali, dal latino “signa”, “senyals” in catalano. La ragazza, invitata dal padre, consegnava al futuro suocero il dono destinato al fidanzato; il suocero ricambiava con un altro dono. Il dono per la ragazza consisteva generalmente in elementi del vestiario oppure gioielli. Un tipo di anello di fidanzamento molto diffuso era il maninfide, di origine bizantina, il cui nome significherebbe “le mani (strette) in (atto di) fede”, dal fatto che sulla lamina sono incise due mani che si stringono; la stretta di mano simboleggia il patto d’amore
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suggellato15. Pare che nella Sardegna tradizionale gli uomini non usassero anelli, per cui, all’atto di ufficializzazione del fidanzamento, la promessa sposa donava non un anello, bensì oggetti quali elementi del vestiario, gioielli o anche un coltello finemente lavorato. Secondo Gometz [1995:63] la donna metteva nella mani dell’uomo il coltello, cioè un’arma di difesa (oltre che strumento di lavoro quotidiano), “quasi a pretendere dal futuro sposo protezione e difesa”. Ciò che segue è di grande interesse perché è stato frainteso dalla stragrande maggioranza degli studiosi. Viene detto che
durante il pranzo che segue, i due giovani mangiano nello stesso piatto e, da questo momento, si considerano come uniti da un vincolo indissolubile [Bottiglioni, 2001:29], mutavano di abito, mettendo alcuni capi di abbigliamento propri degli sposati [Loi S., 1988:133], il fidanzamento ha luogo generalmente in presenza del rettore o di un altro sacerdote, per conferirgli maggiore validità [Smyth in Boscolo (a cura di), 2003:92], il fidanzamento veniva festeggiato quasi al pari di un matrimonio [Lai Roggero, 1995:65], inoltre viene riferito che al fidanzamento segue
spesso una lunga convivenza dei fidanzati more uxorio avanti il matrimonio, senza che la coscienza comune trovi alcunché da riprovare […] Quello che avviene durante questo periodo non è più fatto della comunità, ma rientra negli affari personali dei due [Alziator 2005:38 e sgg.] la donna iurata era già considerata come appartenente allo sposo. Dada sa paraula, questi poteva anche possederla senza riprovazione salvo a subire le conseguenze della vendetta se fosse venuto al suo impegno: la violenza usata da altri sulla sposa fu pareggiata a quella usata sulla donna maritata.16 Detto questo, viene da chiedersi: non sarà che quello che gli studiosi chiamano fidanzamento o “sponsali” sia piuttosto da intendere come un vero e proprio matrimonio?
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Gometz, 1995:61. Nella stessa pagina aggiunge che “un tempo, in quasi tutti i paesi dell’isola, non era consentito alle donne non maritate o non fidanzate portare l’anello, che era il simbolo esteriore della donna che aveva contratto un patto di fede o il vincolo matrimoniale”. 16 Citazione di Besta, La Sardegna medievale, Palermo, Reber, 1908:171, in Murru Corriga [in Oppo (a cura di), 1990:237]
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Di Tucci [1922:13-17] si interroga sulla questione, avanzando delle ipotesi che però non lo convincono del tutto. Gli sponsali sardi sarebbero costituiti da una combinazione di elementi: su di un fondo romano si innesterebbero consuetudini germaniche con altre di incerta provenienza, nel dubbio attribuite all’inventiva dei sardi. Come gli sponsalia romani, si tratterebbe di una promessa di matrimonio, ma diversamente dalla tradizione romana, richiede una forma speciale e un tipo di contratto particolare. Il contratto stabilisce il periodo approssimativo delle nozze, ma non prevede un limite massimo di tempo, a differenza dei due anni contemplati sia dal diritto romano, sia dal diritto longobardo; fissa il regime economico dei coniugi: “la dote”, per il sistema dotale, la comunione generale per i matrimoni a ladus a pare, quella degli utili per i matrimoni assa sardisca”; impone una sanzione in caso di scioglimento della promessa, per cui, a differenza del fidanzamento romano, ma similmente alle usanze longobarde, ha carattere di obbligazione. Non è stipulato direttamente dalle parti, ma dai genitori, che assumono la posizione di fideiussori rispetto alle future nozze dei figli; la figura dei genitori è quindi equiparata a quella dei “mundualdi” del diritto germanico, piuttosto che a quella di “paterfamilias” romani, anche se poi è difficile spiegare come mai, a differenza degli sponsali “barbarici”, è completamente sconosciuto il prezzo del mundio, vero o simbolico, termine col quale, nell’antico diritto germanico, si definiva la signoria esercitata dal capofamiglia su tutte le persone e cose componenti il gruppo familiare. Alziator, nel 1957, accenna al problema, ammettendo la difficoltà di individuare le origini di tale situazione. Non trovando di meglio, si appella a quella che tradizionalmente è considerata la causa prima di ogni problema sardo, cioè l’isolamento, il quale avrebbe reso lenta e difficoltosa l’assimilazione delle istituzioni cristiane, favorendo il persistere di antiche usanze. Gli effetti determinati dagli sponsali, prima di tutto la coabitazione all’infuori del matrimonio, potrebbero essere la traccia di un periodo precristiano in cui
l’istituto del matrimonio era considerato nella coniunctio maris et foeminae e nulla più, all’infuori di ogni diritto positivo o di ogni norma morale o religiosa [Alziator, 2005:38] La realtà sembra molto diversa. Nel rituale bizantino la celebrazione del matrimonio prevede due momenti distinti: nel primo i fidanzati, interrogati dal sacerdote, esprimono il loro consenso con decisione irrevocabile, nel secondo si celebra il sacramento in chiesa in modo solenne, senza replicare il consenso [Pala, 1985:102]. A seguito della totale affermazione degli usi bizantini da parte della Chiesa sarda [Pala, 1985:61], la
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celebrazione tradizionale in casa, preceduta, come abbiamo visto, dal contratto familiare, era considerata un vero e proprio matrimonio, mentre la celebrazione in chiesa una semplice formalità. Si noti che nella lingua sarda mancano i termini “fidanzamento” e “fidanzata/o” così come li intendiamo attualmente, mentre sono presenti i termini mulleri (dallo spagnolo “mujer”) e sposa. È plausibile avanzare l’ipotesi del mutamento semantico dei termini in seguito al Concilio di Trento? La mia ipotesi (tutta da verificare) è che in seguito al Concilio il primo termine - mulleri - prese a significare che quest’ultima era riconosciuta come tale anche dalla Chiesa e dallo Stato (in quanto la cerimonia nuziale si era celebrata seguendo le prescrizioni canoniche), mentre il secondo termine - sposa cominciò ad essere utilizzato per la donna sposata agli occhi della comunità, ma che Chiesa e Stato consideravano solo come ufficialmente fidanzata.
1.5.1 La risposta della Chiesa romana La Chiesa Romana interviene in Sardegna per disciplinare le usanze matrimoniali sin dal sec. IX; ma è con il Concilio Lateranense IV del 1235 che vengono sancite nello specifico le formalità per il matrimonio: accertamento della mancanza di impedimenti, obbligo delle tre pubblicazioni, scambio del consenso di fronte al sacerdote, benedizione nuziale. Celebrare il matrimonio senza osservare tali norme comportava il rischio di sanzioni molto severe, tuttavia, sebbene la celebrazione nuziale familiare non fosse ritenuta “lecita”, era comunque considerata “valida” [vedi Loi 1988 e Pala 1985]. Le cose cambiano radicalmente con il Concilio di Trento, durante il quale, nella VII Sessione del 3 marzo 1547 e nella XXIV Sessione dell’11 novembre 1563, si riformula la dottrina sul matrimonio. Viene stabilito che il matrimonio, per essere valido (non più solo per essere lecito), deve essere celebrato di fronte al parroco o a un suo delegato, alla presenza di almeno due testimoni. Contemporaneamente si vieta ai parroci di prendere parte alle celebrazioni in famiglia. La Chiesa romana tende dunque a limitare l’ambito di partecipazione del sacerdote - prima indispensabile sia nella formulazione degli sponsali che nella celebrazione del matrimonio - soprattutto per non avallare l’equivoco che la conclusione degli sponsali, presente il parroco, dovesse ritenersi vero matrimonio. Nonostante queste prescrizioni, il basso clero continua a intervenire alla celebrazione familiare del rito nuziale, creando in tal modo una divaricazione tra base e vertice che confonde i fedeli. A Selargius, ancora nel 1849, Angius scrive nel dizionario del Casalis che “quando si contraggono gli sponsali, il prete assiste alle consuete
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cerimonie ed è testimone della parola di uno all’altra” [Angius, Casalis 1849:794, voce Selargius] Con il Concilio di Trento, il tradizionale rito familiare assume per la Chiesa il valore di promessa matrimoniale, ma tra il basso clero e la popolazione la confusione è tale che ancora nel sinodo del Cariñena - tenutosi a Cagliari circa due secoli dopo il Concilio - si ritiene necessario precisare in modo esplicito e chiaro la differenza tra sponsali e matrimonio:
Gli sponsali consistono in una promessa legittima e mutua di accasarsi, fatta tra i contraenti e anteriore al matrimonio che intendono contrarre, ma non sono il matrimonio, poiché questo si contrae solo con parole al presente e con l’immediata consegna e accettazione17 La differenza tra sponsali e matrimonio è dunque che nel primo si parla al futuro, mentre nel secondo i verbi sono al presente e il proposito espresso ha validità immediata. Da questo momento la celebrazione domestica assume valore di matrimonio solo se: 1) viene consentita dal vescovo tramite dispensa, 2) si svolge alla presenza di sacerdote e testimoni, 3) si segue scrupolosamente il rituale ecclesiastico, evitando ogni intromissione legata ai riti tradizionali. La frequenza con la quale si concede la dispensa è inizialmente molto alta, ma scema progressivamente nei secoli, sino ad arrestarsi: il matrimonio deve essere celebrato interamente in chiesa per evidenziare che è questa a detenere il potere sulla giurisdizione matrimoniale, in contrapposizione coi principi illuministici tendenti a trasferire tale giurisdizione allo Stato. La cerimonia domestica non è comunque completa senza la ricezione della benedizione nuziale, questa volta obbligatoriamente e senza eccezioni in chiesa. In caso contrario, agli sposi non è consentita la coabitazione. Non concludere tutte le formalità ecclesiastiche e vivere comunque come marito e moglie, è una pratica comune a molte parti d’Italia prima del Concilio, ed è un comportamento che persiste in Sardegna addirittura sino al XX secolo, nonostante le pesanti multe e le pubbliche pene comminate ai trasgressori. La Chiesa, come apprendiamo dai sinodi, continua per secoli a non comprendere le tradizioni locali e le
17
Constituciones Synodales del Arzobispado de Caller, Caller-S.Domingo 1715, pp. 74 -75, traduzione di Pala, 1985:68, nota 8.
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motivazioni che portano all’inosservanza delle norme, attribuendo gli abusi a lussuria e superstizione. Secondo studiosi come Turtas, Loi e Pala, la tradizione culturale sarda sul matrimonio resistette per secoli rifiutando quegli elementi imposti “per legge”, ma mancanti di un radicamento nella realtà locale.
1.5.2 Le coabitazioni In particolare, la condanna della Chiesa si rivolge contro la coabitazione - sia dei fidanzati, sia degli sposi che non abbiano ricevuto la benedizione nuziale - terminologia ecclesiastica colla quale non si indica necessariamente che i due abitino insieme, quanto il sospetto che siano colpevoli di avere rapporti carnali [Loi S., 1988:133, nota 83]. La pratica delle coabitazioni è un fenomeno diffuso che persiste non solo nelle zone più interne e isolate, ma anche nel Campidano di Cagliari, come rileva Pillai analizzando le fonti archivistiche e segnalando casi a Selargius nel 1808, a Sinnai nel 1817, a Quartu Sant’Elena nel 1844, a Settimo San Pietro nel 1851. A Maracalagonis, nel 1828, si arriva addirittura a ritenere lo “scandalo delle coabitazioni” causa di siccità, castigo inviato da Dio per punire tali peccatori [Pillai, 1992:443]. Angius annota per Selargius una media di 20 matrimoni l’anno, con punte che sorpassano i 30
quando per ordine superiore furono obbligati a contrarlo quelli che erano fidanzati da qualche anno e anche evatitavano [abitavano?!] [Angius, Casalis 1849:793, voce Selargius] Simile offesa a Dio veniva punita tramite multa e penitenza pubblica. Le multe dovevano essere pagate più o meno da tutti, perché il significato della coabitazione poteva essere esteso sino a includervi qualunque frequentazione dei due fidanzati. Così, denuncia l’arcivescovo de la Cabra nel 1647, i più ritenevano, avendo pagato la pena imposta, di aver provveduto all’espiazione della propria colpa e continuavano a coabitare. Le sanzioni erano estese a tutti quelli che sapevano, ma non denunciavano immediatamente la situazione, compreso il prete. Se la multa poteva essere evitata a causa delle misere condizioni economiche, la penitenza era d’obbligo. Il sinodo del Cariñena (1715) è estremamente chiaro al riguardo:
Quando lo stato di povertà sia tale, da costringere la nostra pietà a condonare la multa pecuniaria, in nessun caso verrà perdonata la penitenza pubblica da compiersi in un giorno di precetto nel corso della Messa Maggiore stando in piedi, tenendo ciascuno in mano una candela accesa scalzo l’uomo, e la donna unita a
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lui, scarmigliata con i capelli sciolti, e tale penitenza vogliamo sia compiuta prima di sposarsi da tutti i colpevoli di coabitazione, qualunque sia il grado e la condizione cui appartengono18 Più avanti nello stesso testo si legge che tutta la comunità parrocchiale è tenuta a vigilare sui comportamenti dei promessi sposi e a denunciarne la coabitazione al parroco, che, da parte sua, sotto pena di scomunica, è obbligato a tentare di separare i due fidanzati; se al terzo tentativo non ottiene risultati può vietarne l’ingresso in chiesa. Come è possibile spiegare questa contrapposizione tra Chiesa e popolazione? Quali sono le motivazioni che spingevano le persone a incorrere nelle pesanti sanzioni della Chiesa piuttosto che rinunciare alle pratiche tradizionali? Una prima risposta attribuisce l’inosservanza delle leggi a ignoranza e superstizione. L’ignoranza, l’abbiamo visto, è dovuta al repentino cambiamento della legislazione matrimoniale, che lo stesso clero fatica ad accettare. Per quanto riguarda la superstizione, il sinodo cagliaritano del 1651 riporta quanto già affermato nel sinodo del 1586, la credenza secondo cui gli sposi dovevano avere rapporti sessuali prima del matrimonio ecclesiastico, altrimenti sarebbero morti entro l’anno. La chiesa sarda, nello stesso sinodo, si oppone a questa superstizione accrescendo, sulla base di alcuni racconti biblici, le considerazioni negative sulla sessualità e consigliando l’astensione dai rapporti sessuali ancora per tre giorni dopo aver ricevuto la benedizione nuziale [Loi S., 1988:125]. Ma la motivazione più importante, probabilmente, è un’altra, legata alle spese necessarie per pagare le pratiche della celebrazione ecclesiastica. Loi Salvatore riporta la situazione del XVI secolo in cui la sola lletra de sposar, la licenza di matrimonio, costava 12 lire; poiché la paga di un lavoratore dipendente di basso livello era di circa 25 lire l’anno, si può ben capire la difficoltà di affrontare simili spese [Loi S., 1988:135, nota 90]. Alle spese si aggiunga il tempo necessario a ottenere le dispense, specie quelle per cui era necessario il ricorso alla Santa Sede, come nel caso dei matrimoni tra consanguinei. La dispensa poteva essere concessa gratuitamente solo se i contraenti non possedevano beni di alcun tipo, dietro richiesta della curia; diversamente, erano costretti a vendere tutti i loro beni al fine di racimolare il quantitativo richiesto.
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Constitutiones Synodales del Arzobispado de Caller, Caller-S.Domingo 1715, p. 180, citazione e traduzione in Pala, 1985:69 nota 12
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Nel Campidano, a queste motivazioni, si deve aggiungere la consuetudine (talmente radicata da essere valida tutt’oggi), che vuole che il matrimonio sia celebrato solo dopo che l’uomo abbia procurato la casa e la donna il necessario per viverci: “non ci si sposa se non ci sono le condizioni dell’autonomia” [Ortu in Oppo (a cura di), 1990:39]. Nella stragrande maggioranza dei casi, la struttura familiare era ed è caratterizzata dalla mononuclearità, rafforzata dalla regola della neolocalità: questo significa che la coppia si trasferisce in una nuova casa, in cui risiede coi propri figli. A conferma di quanto affermato, riporto i risultati della ricerca condotta da Anna Oppo [in id. (a cura di), 1990:101] sulla struttura delle famiglie in alcuni paesi del Campidano di Cagliari fra Ottocento e Novecento. Soddisfare questa esigenza comportava lunghi anni di sacrifici, lunghi anni di fidanzamento che le famiglie tendevano ad alleviare concedendo ai futuri sposi la possibilità di frequentarsi senza troppi controlli.
1.2 Tabella tratta da Oppo in id. (a cura di), 1990:101
1.6 L’esame dei contraenti Il matrimonio in Chiesa era reso problematico anche dalle condizioni poste affinché fosse riconosciuto come valido. La dottrina dogmatica della Chiesa cattolica sviluppata nel Concilio di Trento, concepiva il matrimonio come sacramento e contratto indissolubile, unione di un uomo con una donna. Affinché tale contratto fosse valido, i contraenti dovevano rispettare questi presupposti [Pala, 1985:68 nota 4]: 1. aver raggiunto l’età legittima ; 2. non essere parenti entro il quarto grado; 3. non aver fatto voto solenne di castità; 4. non essere incorsi in nessuno dei 15 impedimenti;
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5. esprimere il consenso di fronte a un sacerdote e dei testimoni; 6. esprimere il consenso in modo libero e non estorto, in modo esplicito con parole o segnali equivalenti. L’età minima per convolare a nozze era di 14 anni per l’uomo e di 12 per la donna; la Chiesa, da un certo momento, stabilisce anche l’età minima perché si potesse essere coinvolti in contratti sposalizi, sette anni per entrambi [Atzori, 1997:34]. Effettivamente, l’età non è mai stata un grosso problema: per le motivazioni descritte precedentemente (preparazione del corredo, spese per la celebrazione), era molto più frequente che gli sposi si sposassero tardi, causando tassi di fecondità ridotti rispetto alla media europea. Da una ricerca condotta da Anna Oppo in alcuni paesi del Campidano di Cagliari sull’età del primo matrimonio di piccoli e medi proprietari coltivatori (nati prima del 1910), si ricava che l’età media degli uomini è di 29 anni, mentre per le donne di 24,7 [vedi sotto].
1.3 Tavola tratta da Oppo, in id. (a cura di), 1990:108 Per quanto riguarda la posizione della Chiesa nei confronti dei vincoli parentali, sembra che il comportamento fosse differente a seconda che la richiesta provenisse dall’ambiente popolare o da quello nobiliare [Atzori, 1997:25]. Nei confronti dei nobili, la dispensa veniva concessa più facilmente, mentre i ceti popolari, di fronte al rifiuto della Chiesa, erano costretti a subire l’infamia di autodenunciare la consumazione di rapporti
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carnali, anche quando questo non era vero, extrema ratio per ottenere la dispensa in questi casi. Gli impedimenti al matrimonio, così come fissati dal Concilio di Trento, si dividevano in dirimenti e impedienti: i primi (sono 15) rendevano nullo il matrimonio, i secondi (sono 4) lo rendevano illecito; mi sembra necessario, per l’importanza che ad essi veniva attribuita, riportare integralmente, almeno in nota, la spiegazione di Pala per ognuno di essi19.
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Pala, 1985:56-57 1) ERROR: l'errore di persona ha luogo quando si contrae matrimonio con persona diversa da quella con la quale si voleva contrarre; 2) CONDITIO: si verifica quando si contrae matrimonio con persona che appartenga a condizione totalmente diversa da quella dichiarata; 3) VOTUM: l'emissione del voto di castità perpetua rende nullo il successivo matrimonio sia per l'uomo che per la donna; 4) COGNATIO: la parentela, che può essere di ordine spirituale, ed è quella che ha origine dal battesimo e dalla cresima tra padrini e i figliocci; di ordine legale, che si stabilisce tra l'adottante e l'adottato; di ordine naturale ed è la vera consanguineità. Quest'ultima, in linea retta invalida qualunque matrimonio, in linea collaterale fino al quarto grado compreso; 5) CRIMEN: in quattro modi si configura questo impedimento: a) quando si uccide il coniuge con la collaborazione o consenso del coniuge dell'ucciso; b) quando l'uccisione del coniuge è stata preceduta dall'adulterio consumato con il coniuge superstite; c) quando l'adulterio è accompagnato dalla promessa di contrarre matrimonio dopo la morte del coniuge; d) quando, vivendo la legittima consorte, si contrae e si consuma il matrimonio con altra persona, consapevole dell'esistenza del vincolo precedente. 6) CULTUS DISPARITAS: quando il matrimonio viene contratto tra persone di diversa religione, p.e. tra un cristiano e un giudeo, un pagano, un maomettano; 7) VIS: è la violenza morale esercitata sulla volontà di uno dei contraenti con castighi, vessazioni o minacce, per indurlo a contrarre matrimonio senza la necessaria libertà. Deve essere esercitata in forma grave ed ingiusta. 8) ORDO: è l'impedimento derivante dall'aver ricevuto uno degli ordini maggiori; suddiaconato, diaconato o sacerdozio, che comporta l'obbligo del celibato permanente. 9) LIGAMEN: è dato dal vincolo matrimoniale validamente contratto e non sciolto legittimamente, che vieta di stringere matrimonio con altri. 10) HONESTAS: detto anche di quasi-affinità, esiste tra l'uomo e i consanguinei in linea retta della donna con la quale ha celebrato valido fidanzamento o contratto matrimonio non consumato; nel primo caso si ferma al primo grado, nel secondo caso si estende fino al quarto grado compreso. 11) AMENTIA: la pazzia nella forma che privi l'individuo della ragione e, conseguentemente, della possibilità di emettere valido senso. 12) AFFINITAS: nasce dal vincolo tra uno dei coniugi e i parenti dell’altro coniuge a seguito di matrimonio valido, anche se non consumato. Circa il grado di estensione del divieto, bisogna distinguere: se nasce da copula lecita, si estende fino al quarto grado compreso, se illecita, fino al secondo grado. I gradi dell'affinità vanno computati con quelli della consanguineità. 13) CLANDESTINITAS: si verifica quando il matrimonio viene celebrato in assenza del Parroco proprio, o di due o tre testi. 14) IMPOTENTIA: consiste nell'incapacità al compimento della copula matrimoniale, antecedente al matrimonio e perpetua, cioè inguaribile; 15) RAPTUS: ha luogo con il sequestro violento della donna per scopo di matrimonio. Può effettuarsi o in forma violenta o con lusinghe e seduzione. 1) TEMPUS: riguardava il tempo della celebrazione che restava interdetto in due periodi dell'anno
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Nulla sfuggiva alle strette maglie della Chiesa, che predisponeva nel dettaglio le modalità di esame non solo dei contraenti, ma anche dei loro testimoni. L’interrogatorio, che si svolgeva sotto giuramento, prevedeva che i testimoni rispondessero in modo convincente e preciso riguardo alla possibilità che fossero stati pagati per testimoniare il falso, le basi sulle quali si fondava la sicurezza della mancanza di impedimenti, le circostanze dell’avvenuta conoscenza dei fidanzati [Pala, 1985:58-59]. Se si superava il controllo, nella parrocchia dei due fidanzati, per tre settimane di seguito, veniva pubblicizzato il futuro matrimonio durante la messa maggiore, per dare la possibilità a quanti ne fossero a conoscenza, di rivelare eventuali impedimenti di cui non si fosse ancora accertata l’esistenza.
1.7 Su trasferimentu de is arrobas - Il trasporto del corredo Con il matrimonio si voleva costituire un nuovo nucleo familiare che fosse autonomo e autosufficiente. Perché questo fosse possibile, occorreva disporre dei beni e dei mezzi che consentissero un’attività remunerativa e le attività quotidiane da svolgersi in casa. Nel caso di famiglie contadine - la maggioranza nel Campidano - il minimo indispensabile per cominciare una vita a due, consisteva di un posto dove stare, dell’essenziale per la cucina e la camera da letto, biancheria, un minimo di provviste e di sementi, e possibilmente una coppia di buoi da giogo [Ortu e Angioni in Oppo (a cura di), 1990]. Tutti i cultori di tradizioni popolari si trovano d'accordo su quanto spetti all’uomo e alla donna nel provvedere al necessario per la casa. L’uomo deve provvedere alla casa, che deve essere nuova o almeno accuratamente ripulita e re-imbiancata, e deve inoltre provvedere a tutto ciò che attiene al proprio lavoro20; mentre alla donna spetta
liturgico: dall'avvento all'epifania; dal mercoledì delle ceneri all'ottava di Pasqua inclusa; 2) VOTUM: il voto semplice di entrare in religione o il voto di castità, di non sposarsi, il voto di accedere agli ordini sacri rendevano illecito il matrimonio anche se tale voto fosse stato emesso privatamente; 3) SPONSALIA: gli sponsali contratti validamente e non sciolti con atto legale; 4) ECCLESIAE VETITUM: il divieto apposto dalla Chiesa a contrarre matrimonio fino a che non venisse chiarita l'esistenza o meno di un impedimento di legge. 20 Per un’analisi approfondita della divisione sessuale del lavoro nella Sardegna tradizionale si veda Da Re, 1990. In generale, rispetto al resto d’Europa, per la Sardegna tradizionale gli studiosi hanno notato “una più marcata specializzazione maschile in uno dei tre grandi mestieri tradizionali: contadino, pastore, artigiano, da una parte; e dall’altra, una più marcata specializzazione genericamente femminile nell’essere e nel dover essere donna di casa, cioè addetta ai lavori domestici connessi con l’alimentazione, il vestiario
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l’incombenza del mobilio e della biancheria. Una consuetudine nota almeno dal XVIII secolo, se l’anonimo piemontese in visita in Sardegna tra il 1755 e il 1759, può annotare che
fra gli Villani di campagna, che si maritano, richiedesi che l’uomo abbia la Casa, il Carro, o Cavallo secondo è il Paese, o di pianura o di Montagna, e che la Donna porti il letto compito li utensili di Cucina, e venghi in casa proveduta di Vestimenta [Anonimo piemontese, 1985:51] La quantità e la qualità del corredo varia enormemente a seconda del ceto sociale. Questa considerazione, di per sé banale, non è più tale se si considera che il corredo viene trasportato per le vie del paese, esposto alla curiosità della comunità, che ne fa il parametro più significativo per determinare la posizione sociale e il prestigio della nuova famiglia21. Il trasporto del corredo nella nuova casa è dunque una gara a chi riesce a mostrare di avere di più e della qualità migliore, il pretesto per fare sfoggio della propria ricchezza, e nulla nell’organizzazione dell’evento viene lasciato al caso. Più la famiglia è ricca, maggiore è lo sfarzo e la solennità con cui avviene il trasferimento, e l’occasione diventa una vera e propria festa, tale che nessuno studioso resiste alla tentazione di descriverne i particolari. Nel Campidano il trasporto avveniva per mezzo di carri trainati da buoi, di due tipi: un tipo serviva per il trasporto delle masserizie, mentre l’altro, le famose traccas, erano adibite al trasporto di persone e riccamente adornati con drappi di seta e di raso, nastri colorati e fiori di carta. Della Marmora descrive le traccas come normali carri, “su cui però si mettono dei materassi e che si copre con una tenda” [Della Marmora 1826, ediz. 1995:108], mentre Joseph Fuos, nel 1779, lo descrive come un mezzo piuttosto primitivo: corti e stretti, questi carri
hanno due ruote basse, le quali sono tagliate in cerchio da parecchi assi insieme incastrati, e non girano all’asse, ma fissate con questo girano fra due cavicchi di legno attaccati al di sotto del carro. I due buoi aggiogati, sono guidati colla fune legata alle orecchie. Il contadino si mette sul carro, tiene le redini nelle mani, punge col suo stimolo i buoi, grida il suo ci ei ià, e guida colla presunzione di guidare la più ingegnosa macchina che sia possibile in quel genere [Fuos in Boscolo (a cura di), 2003:60]
e la manutenzione della casa, il riordino e la pulizia di ciò che giornalmente si consuma e si sporca” [Angioni in Oppo (a cura di), 1990:19]. 21 Sul corredo-arredo come oggetto simbolo di status e sulla sua quantità e qualità si veda Da Re, 1990:129 e sgg.
“Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari ▪ 41
1.4 Sagra di Sant’Efisio, Cagliari, 1 Maggio 2006 [foto Francesca Salis]
1.5 Antico Sposalizio Selargino, Selargius, 10/09/2006 [foto Francesca Salis]
42 ▪ “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari
Neanche i buoi sfuggivano al delirio di decorazioni, per cui si provvedeva a lucidarne le corna e a decorarle con nastri colorati, grandi mazzi di fiori o arance infilzate; al collo venivano poste grandi collane di velluto, raso o seta, e campanelle dal suono gioioso e squillante. La vistosità, la grandezza e la ricchezza degli addobbi costituiva un altro indicatore della ricchezza delle famiglie, e si faceva a gara a chi ne possedeva di più belli, tanto che, ci informa Cabiddu [1965:33], facevano essi stessi parte del corredo, e si tramandavano in eredità da madre in figlia. Della Marmora [1826, ediz. 1995:105] ci informa innanzitutto che il trasporto non avviene un giorno qualsiasi, bensì 8 giorni prima della celebrazione del matrimonio in chiesa. Giunto il giorno designato, dalla casa dello sposo parte la comitiva che si reca a casa della sposa per la consegna del corredo, seguita dai carri necessari per il trasporto. Alla cerimonia del trasporto del corredo nuziale partecipa lo sposo, i suoi parenti, gli amici, il paralimpu: chi a piedi, chi a cavallo, chi sulle traccas. Tutti sono vestiti con gli abiti più belli, quelli della festa. Aprono il corteo i suonatori di launeddas, che con la loro musica amplificano i canti allegri di tutta la comitiva e il chiasso gioioso prodotto dai cigolii dei carri e dai campanelli degli animali, richiamando l’attenzione di tutta la comunità che si affaccia alle porte per vederli passare. Fanno seguito i ragazzi e le ragazze cui è affidato il compito di portare gli oggetti che non trovano posto sui carri, perché troppo fragili e delicati: vasi, specchi, servizi in porcellana, piatti, bicchieri, bottiglie. Insieme a loro, altre ragazze trasportano guanciali ornati con nastri colorati e fiori. La profusione di nastri colorati è tale (sugli animali, sulle cose, sui carri) che il Bresciani [1850] è costretto a interrogarsi sul loro significato e la loro origine, ma una volta informatici dello stesso uso presso tanti antichi popoli, non riesce a dirci granché, poiché nessuno ne ricorda il significato. Seguono i carri, in fila uno dietro l’altro; se la sposa è ricca, ci informa Nurra [1894:4], si adoperano persino sette od otto carri. Sul primo carro c’è sempre il letto matrimoniale, o le tavole di legno che lo compongono insieme a materasso e accessori vari, segue il carro con le casse di legno intagliato, nel quale sono conservate la biancheria per la casa e quella per la sposa; su un altro sono ammucchiate le sedie, quindi altri carri contenenti sa mesa (il tavolo) con ceste coperte da tovagliette bianche ricamate, ornate di pizzi, cosparse di chicchi di grano, petali di rose e di gerani in segno di buon augurio, gli utensili da cucina, il telaio, il fuso e la rocca col lino, tutto quanto serve per fare il pane, provviste di grano, orzo e fave. L’ultimo carro è quello
“Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari ▪ 43
che porta la macina, sa mola, cui segue a breve distanza un asinello, detto molenti, perché il suo compito è quello di far girare la mola. L’asinello, per un giorno incoronato di foglie e di fiori, porta al campanello un enorme pezzo di lardo e un pane nero (detto cifraxiu) attaccato al collo [Nurra,1894:4]. Dietro al corteo vero e proprio stanno le traccas con le donne e la ragazze che si occuperanno di sistemare ogni cosa nella nuova casa. È lo sposo che ha il compito di iniziare il lavoro di arredamento, mettendosi sulle spalle il materasso del letto nuziale. Ma durante questa operazione, come raccontano Della Marmora, Cabiddu e Bresciani:
il giovane veniva spinto dagli amici, travolto e fatto cadere malamente a terra, tra materasso e materasso, e pestato – s’accraccangiu – senza misericordia, quasi con barbara furia, fino ad esser quasi stordito, fra la gioia, le allusioni, i frizzi e i lazzi di tutti i presenti e il beffardo, ironico sorriso delle fanciulle e di tutte le donne. […] Avveniva anche che lo sposo, dopo essersi avvicinato ai carri dei materassi, se la desse a gambe levate, allontanandosi di corsa. Ma gli amici lo rincorrevano, lo raggiungevano, obbligandolo a ritornare accanto ai carri e prendere in ispalle i materassi [Cabiddu, 1965:41] Per Bresciani si tratterebbe di finzione, di “lotta cortese”, per Cabiddu ammaccature e dolori sono reali, per entrambi il “gioco” preannuncia al futuro sposo il peso che graverà sulle sue spalle una volta sposato. Sempre nella stessa casa, successivamente si svolge la cerimonia della filatura della lana. Una donna, o più di una (in alcuni casi la madre dello sposo, o la donna più anziana presente al trasloco, in altri paesi alcune fanciulle), sale su un tavolo appositamente sistemato nel cortile (se il tempo lo permette) e inizia a filare la lana cantando muttetus beneauguranti per gli sposi, mentre le altre ragazze si preoccupano di adornare ogni mobilio sistemato con fiori e ramoscelli, che saranno conservati dopo averli lasciati seccare e cadere da sé.
1.8 La benedizione degli sposi e il corteo nuziale E finalmente giunge il giorno del matrimonio in chiesa, lo sposalizio vero e proprio, detto su sposoriu (dallo spagnolo desposorios ) o sa coja (dal latino coniugium). Nel Campidano, afferma Nurra [1894:5], si preferisce il sabato per la cerimonia nuziale mentre la domenica è riservata al banchetto. Lo sposo, ricevuta la benedizione dalla propria madre, si reca a casa della sposa, accompagnato dal paralimpu, parenti, amici e in qualche caso anche da un prete
44 ▪ “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari
(quando lo sposo non è dello stesso paese o quartiere della sposa? O nel caso sia stato il paralimpu?). Secondo alcuni, quando la ragazza sente giungere il corteo, si getta ai piedi della madre piangendo, invocando perdono per le colpe commesse, e chiedendone la benedizione. La madre, allora, tiene un piccolo discorso sui suoi nuovi doveri di moglie e donna di casa, la benedice e l’affida al prete che ha accompagnato lo sposo, mentre a questi è dato un altro prete della parte della sposa. Il corteo dello sposo si ferma sulla soglia della casa, ma non entra; oppure entrano tutti tranne lo sposo; il compito di chiamare la sposa sembra affidato a un’altra persona. Sarebbe interessante avere maggiori informazioni sull’organizzazione del corteo nuziale. È sicuro che questo fosse composto da due gruppi separati, quello dello sposo e quello della sposa, prima l’uno e poi l’altro, ma non è altrettanto chiaro se il percorso fosse lo stesso o facessero due tragitti diversi. Non disponiamo di dati certi per il Campidano, mentre sappiamo che nel Sarrabus si procedeva su strade diverse, probabilmente, spiega Cabiddu [1965:44], un rito scaramantico con il quale si sperava di sfuggire all’attenzione del Male. Nello stesso modo può essere spiegato l’assoluto silenzio raccomandato da altri. Sembra che le madri non accompagnassero i propri figli in chiesa, ma ne aspettassero il ritorno a casa, forse perché indaffarate con gli ultimi preparativi per il banchetto nuziale. Il corteo procedeva per coppie, con la sposa a braccetto del padre, verso la parrocchia della sposa, dove, per consuetudine, si celebrava e si celebra tutt’ora il matrimonio.
1.9 La cerimonia del matrimonio Per quanto riguarda la cerimonia del sacramento
fassi nell’Isola né più né meno che il cerimoniale cattolico della Chiesa [Bresciani 1850, ediz. 2001:377] Ma in cosa consisteva il cerimoniale cattolico? La celebrazione ecclesiastica, in ottemperanza al decreto tridentino, seguiva nella sostanza il Rituale romano, che contemplava la formula di consenso da parte degli sposi, la benedizione dell’anello, la conclusione del sacerdote che dichiarava i due uniti in matrimonio. Il Rituale Romanum del 1614 costituisce lo standard sul quale si basano tutte le successive edizioni. Ultimo fra i libri liturgici pubblicati sulla scia del Concilio di Trento,
“Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari ▪ 45
mantiene pressoché immutata la sua fisionomia originaria sino al XX secolo, nonostante le modifiche apportate nel 1752 con Benedetto XIV, nel 1872 con Pio IX, nel 1884 con Leone XIII e nel 1913 con Paolo V; solo la pubblicazione del Codex Iuris Canonici del 1917, rese necessaria una completa revisione del Rituale nel 1925 (vedi Sodi, Javier Flores Arcas, (a cura di), 2004: LVII e sgg.). Prima del 1614, i parroci, per l’attività liturgica ordinaria, dovevano basarsi su una moltitudine di sussidi di ogni dimensione e tipo, che nella forma e nella sostanza variavano considerevolmente da luogo a luogo, costituendo motivo di preoccupazione da parte della gerarchia ecclesiastica che vedeva minacciata l’ortodossia liturgica, o quantomeno il decoro e la dignità della funzione religiosa. Sulla base di queste considerazioni, riproduco parte del rituale (scambio del consenso e benedizione dell’anello) nella pagina seguente, non solo per mostrare i dettagli delle formule utilizzate, ma anche perché è molto probabile che questo testo abbia costituito la base delle successive traduzioni in lingua sarda. Il rito era in latino, ad eccezione delle domande e delle risposte dei contraenti, in lingua sarda22. Altro elemento significativo della cerimonia era il rituale di inanellamento, mediante il quale la donna acquisiva l’honor matrimonii. Nel Rituale romano citato si parla solo dell’anello che lo sposo riceve dal sacerdote e dà alla sposa - “Deinde Sacerdos aspergat annulum aqua benedicta in modum crucis, & sponsus acceptum annulum de manu Sacerdotis imponit in […] manus sponsae” - perciò non è chiaro se lo scambio fosse reciproco. Inoltre sappiamo che il dito e la mano prescelta poteva variare: a volte si inanellavano più dita, cominciando dal pollice fino all’anulare, passandolo dall’uno all’altro della mano destra. In seguito prevalse la consuetudine di inanellare il penultimo dito della mano sinistra, qualificato come “anulare” (“in digito annulari sinistrae”), per il valore simbolico che questo assunse dal momento in cui S. Isidoro di Siviglia ritenne fosse irrigato dalla vena cordialis, la vena del cuore, simbolo dell’amore.
22
Loi Salvatore, comunicazione personale.
46 ▪ “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari
1.6 Tratto da Sodi Manlio, Javier Flores Arcas Juan (a cura di), 2004:147
“Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari ▪ 47
Oltre all’anello, molti altri erano i simboli del nuovo legame, ma la Chiesa della Controriforma scelse la strada della cancellazione di qualsiasi residuo vagamente paganeggiante, imponendo dall’alto un modello uniforme valido per tutti. Della grande varietà di simboli nuziali, si è conservato sino ai nostri giorni solo l’usanza del bacio - il classico “e ora può baciare la sposa” dei film americani - che la Chiesa cattolica proibisce all’interno della chiesa, ma ammette sul sagrato. Richiesto a gran voce dalla folla in attesa fuori dalla chiesa, il bacio rappresenta simbolicamente la consumazione del matrimonio.
1.10 Il ritorno del corteo nuziale. L’usanza detta s’arazza o de sa razia All’uscita dalla chiesa la folla festante accoglie la nuova coppia:
Lungo la strada è una vera festa: le amiche attendono gli sposi con un piatto colmo di grano, sale e fiori, ed anche confetti, ed appena la coppia nuziale si avvicina, le buttano quasi addosso il contenuto, gridando: Buona Fortuna! [Nurra, 1894:6] Il ritorno del corteo nuziale (solo Lai Ruggero afferma che ciò avvenisse anche
all’andata)
è
caratterizzato
dall’usanza di s’arazza o de sa razia (la grazia). Con questo termine si indica il contenuto di un piatto colmo di grano, sale grosso, fiori, o anche di pezzettini di carta colorata, confetti, monetine. 1.7 Il piatto de s’arazza esposto nel 2006 alla Mostra Fotografico - Documentaria sullo Sposalizio [foto Francesca Salis]
L’usanza - che mi sembra di capire coinvolga solo le donne - prevede che s’arazza
venga
gettata
in
forma
propiziatoria sopra gli sposi e che, esauritone il contenuto, il piatto venga rotto ai loro piedi. Questo viene scagliato con forza, perché è necessario che si rompa, affinché il tutto sia di buon auspicio per gli sposi. Dando credito alle affermazioni di Nurra, il piatto si deve rompere per un altro motivo: la rottura del piatto potrebbe essere un’allusione alla verginità della donna; intuizione plausibile, se si considera che
difatti non si fracassano punto allorché la sposa passa a seconde nozze o si dubiti della sua verginità [Nurra, 1894:6] Per Cabiddu, un’usanza pansarda vuole che il corteo nuziale proceda con lo sposo alla destra, per ricordare che l’uomo è l’essere umano preferito da Dio, che lo ha creato per
48 ▪ “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari
primo a sua immagine e somiglianza. Usanza smentita dal Bresciani e da Della Marmora, che affermano che il corteo nuziale sia composto da uomini e donne in fila, le donne a destra, gli uomini a sinistra, e dall’incisione di Cominotti, di cui si discuterà in seguito. Giunti a destinazione, alla madre dello sposo spettano i cerimoniali per l’accoglienza dei due nella loro casa. La suocera, sentendo avvicinarsi il chiassoso corteo preceduto dal suono delle launeddas, li attende sulla soglia di casa, tenendo in una mano il piatto con s’arazza e nell’altra un bicchiere d’acqua. Il rituale con l’acqua prevede che i novelli sposi ne bevano un po’, mentre la restante parte, dopo aver asperso gli sposi, viene versata davanti alla sposa nel momento in cui questa attraversa la soglia della camera nuziale, chiamata sa dom’e lettu.
1.11 Su cumbidu - Il banchetto nuziale Dove si tiene il banchetto nuziale? Prima a casa della sposa e poi nella loro nuova casa oppure direttamente nella residenza dei neo sposi? Chi partecipa? La divergenza delle fonti non permette di risalire a informazioni certe per l’area campidanese, diversamente da altre zone dell’isola in cui un resoconto dettagliato ha permesso di mettere in evidenza un cerimoniale dalle regole rigide e complesse23. In ogni caso, giunto il momento del ricevimento (su cumbidu), gli sposi si siedono vicini e
v’ha luogo la singolar cerimonia di mangiare non solo la minestra ad una scodella, ma prestandosi il cucchiaio a vicenda; così mangiano il restante allo stesso piattello, e beono allo stesso nappo, come se l’un fosse nella persona dell’altro [Bresciani 1850, ediz. 2001:378]24 Le portate del banchetto di nozze sono regolate da consuetudini che variano a seconda della zona geografica. Nel Campidano, ci informa Nurra, si
usa della carne di montone (pezza de mascu), maccheroni in gran quantità ed una minestra cucinata col brodo del montone e condita con zafferano e formaggio fresco; dolci poi, specialmente bianco mangiare (papai biancu) [Nurra 1894:6]
23
Per quanto riguarda la Barbagia si veda ad esempio Murru Corriga in Oppo (a cura di), 1990 Si veda anche Della Marmora 1826, ediz. 1995:108
24
“Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari ▪ 49
mentre per Lai Roggero
era in uso presentare is mallureddos (gli gnocchi). Facevano seguito le varie pietanze a base di porcetto e di agnello arrosto, accompagnati da un’infinità di verdure [Lai Roggero, 1995:73] La
sola
pane
preparazione
per
il
del
banchetto
meriterebbe una trattazione a parte per la cura e l’abilità richiesta25. Il pane degli sposi doveva essere confezionato esclusivamente semola:
con
la
la pasta,
bianchissima, veniva lavorata a 1.8 Pani nuziali presenti alla Mostra Fotografico Documentaria sullo Sposalizio, Selargius 2006 [foto F. Salis]
lungo,
creavano
e
da
piccole
essa
si
sculture
dalla forma di colombe, cuori, ghirlande,
con
l’aiuto
di
coltello e forbici. Per l’occasione venivano poi preparati con cura i dolci26, soprattutto biscotti e amaretti, e i liquori, primo fra tutti il rosolio, liquore dal sapore dolce, preparato in casa almeno tre giorni prima con alcool, zucchero e un’essenza in polvere che dà il caratteristico colore. La “torta” nuziale era costituita da un altro tipo di dolce chiamato gattou, un croccante confezionato con mandorle tostate e zucchero, di varie forme (castelli, chiese, case, ecc.). 25
Sull’arte della panificazione nella società tradizionale sarda esiste una vastissima bibliografia, per maggiori informazioni si rimanda ai seguenti testi e alle relative bibliografie: Cirese (a cura di) Pani tradizionali. Arte effimera in Sardegna, Edes, Cagliari, 1977 (in particolare Schirru, “La preparazione tradizionale del pane nel Campidano di Cagliari”, pp. 41-44), AA. VV., In nome del pane. Forme, tecniche, occasioni della panificazione tradizionale in Sardegna, Carlo Delfino, Roma, 1991, (in particolare “I pani nuziali”, pp. 73-77), e AA. VV., Pani: tradizione e prospettive della panificazione in Sardegna, Nuoro, Ilisso, 2005 (il volume è corredato da un vastissimo repertorio di foto relative a ogni tipologia di pane presente in Sardegna). 26 A differenza di quelli sul pane, gli studi sui dolci sardi tradizionali sono scarsi e non altrettanto approfonditi. Per un primo inquadramento di carattere generale si rimanda a : Atzori M., Dal grano al miele: la tradizione dei dolci in Sardegna in “S'ischiglia: rivista mensile di poesia e letteratura sarda”, Vol. 15, A. 1994 , N. 1; Pinna “Panificazione e pasticceria in Sardegna alla metà dell’Ottocento: saggio di repertorio”, Cossu - Calvia - Deledda “I pani e i dolci sardi nella Rivista delle Tradizioni popolari italiane”, Bottiglioni “Pani e dolci tradizionali in Sardegna da Vita Sarda” (tutti e tre in: Cirese (a cura di) Pani tradizionali. Arte effimera in Sardegna, Edes, Cagliari, 1977)
50 ▪ “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari
La lunga giornata aveva termine, ma non è certo una caratteristica solo campidanese, con grandi festeggiamenti, canti e balli27 che proseguivano sino a notte inoltrata.
1.9 Torta gattou per il banchetto nuziale dell’edizione 2006 del Matrimonio Selargino [foto F. Salis]
27
Canti e balli suona come un’espressione piuttosto generica, ma la mancanza di informazioni dettagliate impedisce di precisare ulteriormente l’argomento.
“Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari ▪ 51
2 La tradizione nella rappresentazione dei matrimoni alla sarda Prima a Selargius nel 1962, poi a Santadi1 nel 1968, ad Assemini2 nel 1973. Negli anni ’60 si afferma in Sardegna una moda che nei decenni si propaga per tutta l’isola: la moda dei matrimoni tradizionali, manifestazioni folkloristiche che si propongono di rappresentare fedelmente la tradizione sarda relativa al matrimonio. Il successo spinge altri paesi a imitare l’iniziativa. A Cagliari, nel 1979, si propone sa coja casteddaia, col matrimonio in costume del presidente del gruppo folk del quartiere di Villanova Antonio Piras. Alcuni ricordano un tentativo simile nel Sarrabus, in cui vennero coinvolti i militari di stanza a Muravera. Nel 1983 è la volta di Monastir [Caredda, 1983:41]. Negli anni ’80 si arrivò al punto che la Regione dovette intervenire per frenarne la proliferazione, rifiutandosi di finanziare altre manifestazioni che avessero per tema il matrimonio tradizionale. Nonostante ciò, la tendenza non accenna ad arrestarsi e nel 1994 si celebra per la prima volta Sa coja antiga di Ussassai3. Nuovi casi, recentissimi, si registrano con il “Matrimonio Tradizionale a sa ittiresa”, celebrato nell’omonimo centro sassarese il 18 giugno 20054 e infine, tra le iniziative per la manifestazione “Autunno in Barbagia – Cortes Apertas”5, l’”Antico Matrimonio Olianese - Su Hujviu Ulianesu”, nel 2006 alla seconda edizione.
1
Su internet si trovano informazioni interessanti su Santadi e il matrimonio mauritano in: Comune di Santadi, www.comune.santadi.ca.it/web_pages/turismo/matrimonio_mauritano.htm, Matrimonio mauritano (ultima visita 22-04-06) e www.prolocosantadi.altervista.org, Associazione ProLoco di Santadi, Programma manifestazioni estate 2005 (ultima visita 22-04-06). Devo molte informazioni sulla manifestazione alla cortesia della presidente della pro-loco Denise Usai. 2 Sul sito internet www.assemini.net/Manifestazioni/Matrimonio/Video_01_02 è possibile accedere a un breve filmato nel quale viene mostrato il momento centrale della messa di matrimonio della coppia in costume. Il sito è curato da Salvatore Amisani, giornalista e presidente della pro-loco di Assemini, che qui ringrazio per le informazioni sulla rassegna e per avermi messo a disposizione tutti gli articoli da lui scritti in proposito su quotidiani e riviste. Per le informazioni generali su Assemini: www.isolasarda.com/assemini.htm, Isola Sarda. Sito dedicato alla cultura, alla natura ed alla gente di Sardegna, Assemini. Sintesi storica del paese dell’hinterland cagliaritano, di Atzori Emanuele; www.comuni-italiani.it/092/003/index.html, Informazioni e dati statistici sui comuni in Italia, Comune di Assemini (CA). 3 Le informazioni in merito sono tratte dall’intervista alla presidente della pro-loco Maria Serrau. 4 www.bogheseammentos.org/appuntamenti.shtml, Associazione culturale “Boghes e Ammentos” di Ittiri (SS), Appuntamenti (ultima visita 22-04-06). Ringrazio il presidente dell’associazione Salvatore Scanu per gli approfondimenti al riguardo. 5 www.nu.camcom.it/agenda/0157/index.asp, Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Nuoro, Agenda manifestazione Autunno in Barbagia – Oliena “Cortes Apertas” (ultima visita 22-10-
Ittiri
Oliena
Ussassai
Muravera Monastir Assemini Selargius
Santadi
2.1 Collocazione geografica di alcuni dei paesi in cui si registrano (o si sono registrati) esempi di “matrimonio alla sarda” 06). Le informazioni sul Matrimonio Olianese sono ricavate dall’intervista ad alcuni membri del “Gruppo 53” : Cenceddu, Catte Nina, Mastroni Ignazia, Palimodde Antioca, che qui ringrazio. Ringrazio inoltre la prof. Turchi Dolores per gli utili riferimenti bibliografici.
54 ▪ La tradizione nella rappresentazione dei matrimoni alla sarda
Nonostante il successo di queste iniziative, la produzione di materiale informativo specifico è praticamente inesistente e quanto già è stato scritto è di difficile individuazione o di scarsa reperibilità: qualche pagina all’interno di monografie ormai fuori catalogo su specifici paesi, un articolo all’interno di una rivista turistica, poche righe di descrizione in qualche guida alle feste, pubblicità a pagamento sui quotidiani. A complicarne ulteriormente lo studio, il problema dell’inadeguatezza della descrizione etnografica nello studio della festa. Nel saggio Il tramonto del totem, Apolito [1993], analizzando il problema della descrivibilità di una festa contemporanea, si sofferma sull’inadeguatezza delle teorie tradizionali, mettendo in dubbio la possibilità stessa di una teoria che riesca a fornire strumenti per una lettura che non sia solo parziale. Se si affronta la festa sul piano degli eventi - cercando un ordine di successione delle azioni festive che permetta di raccontarla - quello che si è scelto di indicare come inizio, svolgimento e fine, potrebbe non essere tale per gli attori della festa. Se si decide di identificare un senso unitario della festa, si dovrà escludere tutto ciò che non combacia con l’identificazione operata. Se si osserva la festa dal punto di vista degli attori, si scopriranno una moltitudine di narrazioni che in qualche modo si discostano dalla narrazione “ufficiale” della festa, significati diversi piuttosto che uno specifico e differenziale. In questo capitolo, messa da parte ogni pretesa di esaustività, la selezione operata sulla realtà oggetto di indagine è in qualche modo ancora più mutilante, in quanto si selezionano i tratti della festa riconducibili alla tradizione nuziale che si intende riproporre, mentre non viene analizzato il contenitore festivo e le caratteristiche del paese che le comprende. Si può giusto notare come non sembri presente una qualche forma di correlazione tra le caratteristiche del paese e la proposta di iniziative di questo genere. Santadi, ad esempio, è un piccolo centro del basso Sulcis, a sud-ovest del capoluogo sardo (dal quale dista circa 54 km) abitato da meno di 4000 persone (3758 per l’esattezza, secondo i dati forniti dall’Istat nel 20016), che attualmente basa la propria economia sull’agricoltura, sulla pastorizia e su una produzione vinicola di tutto rispetto (il cui prodotto più rinomato è sicuramente il Carignano), mentre in passato ha conosciuto anche l’attività estrattiva del carbone vegetale prodotto in loco. Assemini, invece, è un 6
www.comuni-italiani.it/092/060/index.html, Informazioni e dati statistici sui comuni in Italia ,Comune di Santadi, ultima visita 22-04-06.
La tradizione nella rappresentazione dei matrimoni alla sarda ▪ 55
grosso centro industriale del Campidano di Cagliari (da cui dista circa 12 Km), con 23.251 abitanti all’indagine Istat del 2001, cresciuto rapidamente negli ultimi trenta anni per l’afflusso degli immigrati provenienti da altri comuni dell’isola, attirati dalla prospettiva di lavoro nella vicina zona industriale di Macchiareddu, la cui crisi, negli ultimi anni, ha provocato la crisi della cittadina, la quale tenta di risollevarsi cercando nuove prospettive di sviluppo nel turismo. Ussassai è un piccolissimo (circa 700 abitanti) paese di montagna nel cuore dell’Ogliastra, colpito profondamente dal calo demografico con una perdita di quasi 400 abitanti negli ultimi vent'anni. Ciò che questi paesi condividono tra loro sono i discorsi attorno a queste feste, i quali, da un capo all’altro della Sardegna, hanno in comune un’incrollabile certezza: si tratta sempre di “riproposizioni vere e genuine delle antiche tradizioni”. Tra gli innumerevoli esempi che si potrebbero citare: sui quotidiani,
Rievocheranno per S.Lussorio l’antico Matrimonio Selargino. Saranno seguite le regole di un cerimoniale che affonda le sue radici nella più remota tradizione [“L’unione Sarda”, 25/10/1962, p. 6] All’altare come cento anni fa […] una delle più antiche e suggestive cerimonie del suo millenario folklore [“L’Informatore del Lunedì”, 29/10/1962, p. 9] Un antico rito ripropone i segni magici di secoli fa [“L’Unione Sarda”, 13/09/1997]; nelle guide alle feste sarde,
È una festa comunitaria, vera e autentica […] Rappresenta il matrimonio secondo il rito degli antenati […] [Spanu, 1987:120] Il matrimonio sardo viene riproposto nel pieno rispetto della tradizione a Assemini, a Santadi e a Selargius […] L’origine della tradizione è antichissima […] [Caredda, 1981:60] Una festa di matrimonio, come ogni festa, è formata da un insieme di elementi che significano, cioè si struttura secondo un proprio codice comunicativo. Gli elementi costitutivi sono relativamente fissi e standardizzati, fanno parte delle cose che per tradizione, “si devono fare” per quella determinata festa. O meglio, in questo caso, delle cose che si crede si dovessero fare in quelle circostanze. Perciò è interessante esaminare la scelta operata: nelle rappresentazioni di “matrimonio alla sarda” quali elementi sono stati scelti come rappresentativi e degni di essere messi in scena? sulla base di quali fonti etnografiche? Perché, nella presentazione di queste manifestazioni, si mette sempre ben in evidenza la fedeltà della riproposizione, ma non si spiega mai in cosa esattamente consista questa
56 ▪ La tradizione nella rappresentazione dei matrimoni alla sarda
fedeltà? In che misura il fenomeno culturale della riproposta del folklore nuziale può essere legittimamente messo in relazione col suo tradizionale prototipo?
2.2 Immagine tratta dal dépliant Antico Sposalizio Selargino del 25 ottobre 1964
La tradizione nella rappresentazione dei matrimoni alla sarda ▪ 57
58 ▪ La tradizione nella rappresentazione dei matrimoni alla sarda
2.1 Le componenti tradizionali della festa 2.1.1 Il rituale della vestizione La condizione minima realmente indispensabile perché si possa parlare di “matrimonio alla sarda” è che un certo numero di persone indossino il costume tradizionale, quantomeno gli sposi, i loro genitori e i testimoni. Più è alto il numero dei partecipanti in costume,
più
è
grande
il
successo
della
manifestazione. Per questo motivo molto spesso le rassegne di questo tipo vengono dette del “matrimonio in costume”: in questi casi è l’abito che fa il monaco, è l’abito indossato dai partecipanti a fare la differenza, specie in alcuni casi, in cui, se non fosse per questo particolare, pochi noterebbero la differenza con un “normale” matrimonio. Giudici e detentori dell’ortodossia vestimentaria sono 2.3 Cabras Cesare, La sposa, 1923, olio su tela
solitamente i membri delle associazioni folkloristiche locali, che si pongono come fine il recupero e la conservazione del patrimonio tradizionale, soprattutto
costumi e balli. Per queste associazioni costituisce motivo di grande vanto il saper vestire “correttamente” (beni cuncodrausu) sulla base delle norme vestimentarie del posto, specie quando per la loro ricostruzione sono stati necessari lunghi studi su fonti iconografiche e documentarie scarse e lacunose. Le differenze tra paese e paese possono essere minime, ma sono queste a fare la differenza. Ne ho avvertito tutta l’importanza per la prima volta nel 2004 quando, applicando il metodo dell’osservazione partecipante, mi sono presentata a un’edizione del Matrimonio Selargino vestita in costume. Per essere sicura di non sbagliare, mi ero prima rivolta alla Pro - Loco, dove mi avevano raccomandato due cose: calze bianche e niente trucco, poiché “prima” non ci si truccava, per il resto era facile, avrei capito da sola come assemblare i vari pezzi. Ma appena arrivata, le ragazze del gruppo folkloristico mi hanno fatto subito capire che ai loro occhi rasentavo il ridicolo: il numero di spille con cui avevo fermato il velo era sbagliato, come pure il modo in cui l’avevo sistemato (avrei dovuto lasciar intravedere una parte della capigliatura), la camicia
La tradizione nella rappresentazione dei matrimoni alla sarda ▪ 59
troppo inamidata (si usa a Quartucciu, non a Selargius), il panno che sta davanti alla camicia non era stato fermato nel modo canonico. Questi i difetti più evidenti, per il resto non c’era abbastanza tempo per porvi rimedio! Si capirà ora perché gli organizzatori parlino di “rito della vestizione”. Vestirsi correttamente non è un’impresa semplice, specie per una persona che non ha mai indossato il costume sardo in precedenza. La parola rito non deve ingannare: significa semplicemente che qualche esperto/a si assume il compito di aiutare gli sposi a vestirsi, soprattutto la sposa che deve affrontare l’ulteriore problema di come sistemare i numerosi gioielli. Nel Matrimonio Selargino la vestizione ha luogo in due case campidanesi7 messe a disposizione (dietro compenso) dai legittimi residenti per ambientarvi alcuni momenti della sagra. Gli spettatori che di buon mattino decidono di assistere alla vestizione dello sposo, si raccolgono nel cortile di quella che dovrebbe essere la casa di quest’ultimo. Qui lo sposo, in calzoni bianchi e camicia, sotto lo sguardo attento dei curiosi, completa la vestizione, pezzo per pezzo. Molti più visitatori si affollano solitamente nella “casa della sposa”, dove questa si presenta nel cortile quasi completamente vestita. Le manca solo il velo, il giubbetto e il panno sopra la camicia, che due ragazze del gruppo folkloristico si apprestano a sistemarle, insieme ai gioielli sotto lo sguardo di spettatori e fotografi - mentre i suonatori di launeddas segnalano ai distratti l’importanza del momento iniziando a suonare. A Santadi l’abito tradizionale indossato dagli sposi è il dono di nozze della Pro Loco, che organizza la manifestazione; mentre negli altri paesi il costume degli sposi è in genere preso in prestito per la durata della manifestazione. A Ittiri, nel 2005, il matrimonio della figlia di Salvatore Scanu - presidente dell’associazione culturale “Boghes e Ammentos” - è stato l’occasione per mostrare una nuova tipologia di abito femminile, riesumata sulla base degli studi dell’associazione.
7
La scelta di ambientare alcune fasi del Matrimonio Selargino in case “tipiche” verrà discussa più avanti (cap. 5.3)
60 ▪ La tradizione nella rappresentazione dei matrimoni alla sarda
2.1.2 Il commiato dai genitori A Selargius, dopo la vestizione nelle rispettive case, la sposa attende che lo sposo giunga a prenderla. Intanto lo
sposo,
prima
definitivamente
la
di
lasciare
casa
paterna,
riceve nella sua casa la benedizione dei genitori8. Successivamente lo sposo, insieme al corteo preceduto dai suonatori di launeddas, si reca a casa della sposa, dove, inginocchiati su 2.4 Benedizione della sposa, Antico Sposalizio Selargino, 1963
due
cuscini
sistemati
appositamente al centro del cortile9, entrambe
gli
sposi
ricevono
la
benedizione dei genitori di lei. La rievocazione di Ittiri è stata molto simile: anche lì lo sposo è arrivato a casa della ragazza a piedi scortato da parenti ed amici, e ha ricevuto insieme a lei la benedizione nuziale inginocchiato sui cuscini sistemati nel soggiorno. Non occorre ricorrere ai libri o ai ricordi di tanti anni fa per attestare la presenza e la diffusione capillare della cerimonia di benedizione a Selargius. Le interviste ne confermano l’esistenza almeno sino agli anni ’80 del secolo scorso, ma probabilmente se ne potrebbero documentare casi in tempi ancora più recenti. Viene raccontato come un momento molto intimo - presenti solo i parenti più stretti, genitori e figli - che vede come protagonisti assoluti la madre e il figlio/a pronto a uscire per andare a sposarsi. La madre può limitarsi a benedire il proprio figlio/a o tenere anche un piccolo discorso. Le parole di benedizione sono accompagnate dall’aspersione di grano, sale, carta colorata, sul capo del figlio inginocchiato; è il rito di s’aratza, di cui ho parlato precedentemente, che si conclude con la rottura del piatto. La riproposizione in chiave folkloristica delle usanze matrimoniali, non ha dunque riportato in vita un’usanza ormai scomparsa, ma ha trasformato un evento privato - ancora presente nei primi decenni 8
Per un esempio di benedizione si veda il discorso tenuto dalla madre dello sposo nell’edizione 2005 del Matrimonio Selargino riportata nelle pagine successive. 9 La cerimonia si celebra nel cortile, invece che in casa, affinché un numero maggiore di spettatori possa assistervi.
La tradizione nella rappresentazione dei matrimoni alla sarda ▪ 61
della manifestazione - in un momento di spettacolo. Nel Matrimonio Selargino, inoltre, si ha la trasformazione del ruolo del padre: da spettatore passivo, come raccontano gli informatori, diventa attore co-protagonista, spargendo sa gratzia sul capo del proprio figlio/a. _____________________________________
Benedizione dello sposo Efisio Secci da parte della madre Leonzia Ida Pibiri, Selargius, 10 settembre 200510 Sa beneditzioni po Efisiu Secci sa dì chi s'est cojau [La benedizione per Efisio Secci nel giorno del matrimonio] In nomini de su Babu, de su Fillu e de su Spiritu Santu [In nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.] A tui, fillu amau e caru, deu ghetu cust'àratzia. [A te, figlio amato e caro, aspergo con questa "aratzia"] Impàri a babu Tuu, torraus gratzias a Deus e a sa Madonna [Assieme a tuo padre rendiamo grazie a Dio e alla Madonna ] de s'essi fatu custa grandu gratzia. [per averci fatto questa grazia.] Gratzia de t'essi donau sa vida, [Grazia per averti donato la vita,] de t'essi imparau s'educatzioni e su rispètu [d'averti insegnato l'educazione e il rispetto] po chini t'hat connòtu e t'hat donau tanti afétu. [verso chi t'ha conosciuto e t'ha donato tanto affetto] T'heus crèsciu onèstu, bellu e traballànti [Ti abbiamo cresciuto onesto, bello e lavoratore] e auguraus a tui e a sa sposa tua, [e auguriamo a te e alla tua sposa,] po is fillus chi hant arribai, chi fatzàis atèretanti. [per i figli che metterete al mondo, che facciate altrettanto.] Sa domu e sa famillia chi t'hant biu [La casa e la famiglia che t'hanno visto] pipiu, piciochéddu e bagadiu,[bimbo, fanciullo e celibe,] tui hoi dd' has làssas [oggi hai lasciato] po andai un' àtera a 'ndi formai cun sa sposa tua stimàda. [per andare a costituirne un'altra con la tua sposa onorata.] Efisiu, custu coru 'e mama milli augurius imoi ti fàit. Est stètiu bellu candu t'hapu santziau, [È stato bello quando t'ho cullato,] ma medas bortas t'hapu puru stratallau. [tante volte t'ho anche redarguito.] Una mama pònit a su mundu unu fillu, [Una madre mette al mondo un figlio] dd'anninnìat, dd'incùrat, ddu crèscit, dd'ampàrat [lo vezzeggia, lo cura, lo cresce, lo protegge]
10
Trascrizione e traduzione a cura del poeta sardo Raffaele Piras, che ringrazio per la collaborazione
62 ▪ La tradizione nella rappresentazione dei matrimoni alla sarda
m'apoi su tempus 'nei pàssat e arrìbat s'ora, [ma poi il tempo passa e giunge l'ora,] cument' i a tui hoi, [come per te oggi,] de ddu lassai andai po su caminu suu. [di lasciarlo andare per la propria strada.] Ma in totu custa bella storia [Ma in tutta questa bella storia] una cosa solu gei ti dda potzu assigurai: [una cosa posso assicurartela:] po cantu hap'a bivi "Fillu miu" [per quanto vivrò "Figlio mio"] s'afétu miu po tui no hat a teni fini mai. [il mio affetto per te non avrà fine.] Tengu meda cuntentesa e cumotzioni, [Sono molto contenta e commossa,] e cun sa manu tremi tremi, in nomini de Deus [e con mano tremante, in nome di Dio,] ti 'ongu benedizioni [ti do la benedizione] e t'intregu a sa Madonna Divina cun fervori [e ti affido alla Madonna Divina con fervore] po chi ti 'onghit saludi, bundàdi [affinché ti dia salute, bontà] e tanti e tanti amori. [e tanto tanto amore.] In nomini de su Babu, de su Fillu e de su Spitu Santu [In nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo]
2.5 Benedizione degli sposi, Antico Sposalizio Selargino, 10/09/2006 [foto Francesca Salis]. Tra il pubblico, il presidente della Pro Loco Gianni Frau e il sindaco di Selargius Mario Sau. Si noti l’assembramento di fotografi e telecamere di tv locali e nazionali pronte a immortalare l’aspersione del contenuto di s’aratzia.
La tradizione nella rappresentazione dei matrimoni alla sarda ▪ 63
2.1.3 Il corteo nuziale
2.6 Un momento della sfilata del corteo a Selargius, fine anni ’60. Foto tratta dalla brochure illustrativa Antico Sposalizio Selargino del 1970 La manifestazione folkloristica santadese ha inizio con l’avanzare di due gruppi di traccas e gruppi folkloristici provenienti da tutta l’isola dalla periferia della città, che prelevano i due sposi dalle rispettive case e li accompagnano, per percorsi diversi, fino alla piazza centrale del paese; la tracca più bella è destinata alla sposa, insieme col padre, la madre e i testimoni. Ad Assemini un corteo di giovani donne in costume raggiunge la casa della sposa, mentre un corteo di uomini andrà presso la casa dello sposo, accompagnandolo in chiesa; i due si incontreranno solamente di fronte all’altare. Nei primi anni della kermesse selargina, si formavano due scorte nuziali che, partite rispettivamente dalla casa dello sposo e da quella della sposa, avanzavano separatamente, da due direzioni diverse, per incontrarsi in Chiesa.
64 ▪ La tradizione nella rappresentazione dei matrimoni alla sarda
In tutti e tre i casi si potrebbe motivare la scelta ricollegandosi alla tradizione che vuole che gli sposi procedano da due direzioni diverse per scaramanzia (a Oliena, per questo motivo, il tragitto nuziale non deve mai passare due volte nella stessa via), ma potrebbe anche essere un segno della scarsa importanza attribuita al percorso dalla casa alla chiesa, esattamente come avviene nei matrimoni di oggi. Da un certo punto in poi, per i motivi esposti di seguito, a Selargius si decide che lo sposo vada a prendere la sposa nella casa di lei e si rechino in chiesa in un unico corteo. Così come avviene a Ittiri, ma anche a Ussassai e Oliena. In quest’ultimo paese i parenti della sposa vanno a prendere lo sposo, il quale attende circondato dai parenti più stretti e da due bambini che tengono in mano le candele adornate con nastri bianchi e su giarminu (piccoli fiori gialli di elicriso); insieme vanno a prendere la sposa e tutti insieme si recano in chiesa. Il fatto che a Selargius si sia potuto giustificare come tradizionali entrambi le varianti, mi pare un’ulteriore conferma che almeno in questo paese il tragitto casa-chiesa non fosse sottoposto al rispetto di regole fisse. Si racconta che per la prima edizione del Matrimonio Selargino il comitato organizzativo avesse deciso che i due cortei dovessero procedere più o meno silenziosamente verso la chiesa, e comunque separatamente, come descrive il Serra11, e sia stato l’entusiasmo degli spettatori a far cambiare idea agli organizzatori. Durante la prima edizione una folla di gente si è riversata lungo il percorso dei due sposi, benedicendo gli sposi, lanciando sale e grano, gridando ad medas annos cun saludi e cun trigu, ossia “per molti anni con salute e con grano”, rompendo il piatto beneaugurante contenente s’arazza. In seguito alle manifestazioni di partecipazione entusiasta del pubblico, la sagra settembrina ha dedicato una sempre maggiore attenzione al percorso dei due cortei, anno dopo anno sempre più lungo e tortuoso, con sempre più partecipanti. Dopo vari tentativi - in cui i due cortei procedono separatamente ma si incontrano nell’ultima parte del percorso - si rinuncia definitivamente all’idea dei due cortei, che vengono fusi in uno solo. La sfilata del corteo nuziale, che comprende la partecipazione di gruppi in costume provenienti da tutta l’isola, passa progressivamente dalla mezz’oretta del 1962 alle due ore e mezzo di oggi. Quello che in teoria sarebbe dovuto essere il momento meno
11
Serra M., all’interno del pieghevole Antico Sposalizio Selargino del 1962 e anni successivi
La tradizione nella rappresentazione dei matrimoni alla sarda ▪ 65
importante, il tragitto casa-chiesa, si trasforma imprevedibilmente in uno dei maggiori motivi di attrazione turistica12. Nel Matrimonio Selargino la disposizione nel corteo prevede in testa il gruppo di suonatori, tra cui i suonatori di launeddas, che, scrive Serra, “con la melopea assillante del loro strumento arcaico imprimono alla schiera una cadenza grave e solenne” [Serra M., dépliant Antico Sposalizio Selargino 1962]. Altri elementi fissi del corteo - la cui disposizione e quantità è piuttosto variabile - sono le traccas, i gruppi in costume di altre parti dell’isola e del mondo, il gruppo con i cestini contenenti pane, dolci, ecc. che costituiscono i doni offerti per il banchetto nuziale. Giunti di fronte alla chiesa da ogni gruppo si stacca una coppia, scelta precedentemente, che va a seguire la messa nuziale, mentre il resto del loro gruppo si disperde. Per ultimo avanza il gruppo folk selargino con gli sposi. Seguendo la tradizione, sposa e sposo procedono a braccetto dei rispettivi padri, mentre le madri non accompagnano il corteo e non vanno a sentire la messa, ma attendono a casa il rientro dei loro figli. Così anche a Oliena, dove solo il padre accompagna gli sposi in tutte le varie fasi della cerimonia. Almeno in teoria, perché intervistando le madri si scopre che ritengono ormai inspiegabili i motivi per cui non dovrebbero partecipare a un momento così importante nella vita dei loro figli, cosicché non sempre accettano questa imposizione e si recano ugualmente in chiesa, ma si siedono in posizione defilata (non per rispetto della tradizione, quanto degli organizzatori).
12
La questione sarà approfondita nel cap. 5
66 ▪ La tradizione nella rappresentazione dei matrimoni alla sarda
2.1.4 Dopo il rito ecclesiastico
2.7 Brochure illustrativa Comune di Santadi, sezione Tradizione e cultura Per quanto riguarda il rito ecclesiastico, la questione dell’uso del sardo nella liturgia e l’incatenamento dei due sposi, rimando ai capitoli successivi, dove verranno trattati estensivamente per l’importanza assunta in alcune di queste manifestazioni. A proposito della catena con la quale vengono legati marito e moglie al termine della celebrazione religiosa, vorrei qui rimarcare che la presenza dello stesso atto in due distinte manifestazioni, quella asseminese e quella selargina, non è da considerarsi come una prova del recupero di una tradizione preesistente nel Campidano, come si vedrà più avanti. All’uscita dalla chiesa, marito e moglie ricevono gli applausi della folla. Gli asseminesi aspettano questo momento per rompere il piatto di s’arazza, lo stesso gli olianesi che lo chiamano su prattu de sos granos e lo scagliano a terra dopo aver lanciato il grano in esso contenuto e aver augurato agli sposi ogni bene con la frase hin bona sorte e in bona fortuna. Secondo uno degli asseminesi intervistati, è solo alla fine del rito ecclesiastico che qualcuno, che non sia la madre degli sposi, può rompere legittimamente il piatto, per questo motivo ritiene che l’uso selargino di rompere piatti dall’inizio alla fine della festa, deve essere considerato un errore nella ripresa delle tradizioni.
La tradizione nella rappresentazione dei matrimoni alla sarda ▪ 67
Gli sposi selargini, ora incatenati, oltre agli applausi, ricevono una coppia di colombe bianche che dopo aver tenuto un poco in mano, lasciano volare libere in cielo. Sospetto che questa usanza, presente solo in questo paese, non sia realmente tradizionale, bensì la conseguenza della passione degli organizzatori per il resoconto di padre Bresciani. Molto probabilmente è stato il seguente passo a suggerire l’idea per l’introduzione di un altro momento di spettacolo nel Matrimonio Selargino:
In alcune provincie però innanzi che la sposa monti a cavallo, due garzonetti le presentano una corbella piena di colombe, che essa accetta amorevolmente; e presele ad una ad una, e careggiatele con molti vezzi, apre la mano e dà loro il volo e la libertà; plaudendo gli spettatori, mentre le amorose colombe con larghissimi cerchi e velocissime penne s’aggiran per l’aere […] [Bresciani 1850, ediz. 2001:379 ]
2.8 Santadi 06.08.2006, 38°edizione del Matrimonio Mauritano [foto Francesca Salis] A Santadi, la cerimonia religiosa si celebra nella piazza antistante la chiesa parrocchiale, su un palco allestito per l’occasione. Subito dopo ha luogo il rito propriamente tradizionale dell’intera festa: la benedizione materna. La benedizione, in dialetto sulcitano, vede protagonista la madre della sposa, poi la madre dello sposo, prima al proprio figlio, poi all’altro, in una sorta di incrocio. Così Maria Paola Pinna, che si occupa del Matrimonio Mauritano da molti anni, descrive il “rito dell’acqua”:
[…] gli sposi si inginocchiano su un cuscino bianco e la madre della sposa, quasi con dignità sacerdotale, fa il segno della croce con un bicchiere d’acqua (acqua
68 ▪ La tradizione nella rappresentazione dei matrimoni alla sarda
che contiene in sé gli arcani elementi della vita stessa, sacra ai nuragici, che la custodivano nei pozzi e costruivano i templi al Dio Padre e alla dea Madre presso le sorgenti: sono gli auguri più belli, più commoventi e più puri che le madri esternano con gesti semplici ai propri figli), benedice prima la figlia alla quale dà poi l’acqua da bere quindi impartisce la benedizione al genero e gli offre l’acqua da bere; ripete la stessa cerimonia la madre dello sposo: col bicchiere colmo d’acqua fa il segno della croce prima al figlio, e gli dà l’acqua da bere, benedice poi la nuora e le offre l’acqua da bere; la madre della sposa prima, la madre dello sposo poi, cospargono il capo dei figli con “sa Gratzia”, chicchi di grano, petali di rose, granellini di sale, alcune monetine: sinonimi rispettivamente di abbondanza, felicità, saggezza, ricchezza, dopo di che rompono il piatto che ha contenuto la grazia, quasi per scaramanzia, per augurare lunga vita, serenità, prosperità, felicità alla nuova famiglia. [Pinna, 2002:13] Nella descrizione è di particolare interesse l’accostamento tra il rito e il culto dell’acqua delle popolazioni nuragiche. A questo proposito è interessante notare che il rito è presentato in continuità con una tradizione millenaria che si tramanda addirittura dai tempi delle popolazioni nuragiche (come a dire da sempre). Il fatto in sé non sarebbe sorprendente - l’antichità delle tradizioni è una strategia retorica piuttosto inflazionata se non fosse che le stesse persone, contemporaneamente, spieghino questi riti come residui delle usanze introdotte dalle popolazioni della Mauritania, insediatesi nel Sulcis attorno al 455 d.C. Da qui il nome di is maurredus attribuito tuttora alla popolazione, nonché la denominazione di Matrimonio Mauritano. Una contraddizione così evidente non ha mancato di scatenare polemiche tra quanti sostengono che le cerimonie in questione non possono essere considerate di importazione, perché presenti in tutta la Sardegna con caratteristiche simili, e quanti invece continuano a vedere in Santadi un’isola nell’isola. Nel dubbio, anziché far prevalere l’una o l’altra tesi, si è scelto di presentarle in contemporanea, insistendo sulla continuità di una tradizione comunque molto antica. In tutti i matrimoni in cui si tenta una qualche ripresa delle tradizioni è presente la benedizione materna dopo il rito ecclesiastico. A Selargius e a Assemini gli sposi aspettano questo momento per sciogliere la catena che li unisce nel tragitto dalla chiesa alla casa in cui li aspettano le madri. Peculiarità della sagra asseminese, la coppia è preceduta dai gruppi in costume e dal consueto suonatore di launeddas, il quale però porta appeso al fianco un pane lavorato, su coccoi de sa sposa, che si dice verrà conservato dalla coppia per tutta la vita.
La tradizione nella rappresentazione dei matrimoni alla sarda ▪ 69
A questo punto del Matrimonio Selargino turisti e curiosi si sono ormai dileguati (sono circa le 14, è ora di pranzo), ma anche se fossero voluti restare a seguire la sorte degli sposi, non avrebbero potuto. Tutto ciò che avviene all’interno della “casa degli sposi” (consegna delle chiavi, benedizione materna, rituale dell’acqua) è visibile unicamente agli sposi, ai loro parenti, ai fotografi e agli organizzatori. Non si tratta cioè di momenti accessibili a chiunque, ma solo a quanti in possesso dell’invito a partecipare al banchetto, dono di nozze della Pro Loco agli sposi. Ma prima che il personale addetto riesca a verificare gli inviti di tutti, all’interno della casa le cerimonie sono concluse da un bel pezzo. Al banchetto sono invitati, oltre ai parenti degli sposi, gli organizzatori dell’evento, sindaco, assessori, consiglieri comunali, ecc. L’invito è bilingue, sardo e italiano. Appena varcata la soglia di casa, gli sposi vengono raggiunti da una donna sposata (mi è stato detto che una nubile o una vedova non può essere scelta per questa cerimonia), la quale versa in terra una coppa piena d’acqua, simbolo di purezza. Anche in questo caso, sospetto 2.9 Rituale dell’acqua [foto Pino Piras]
si sia adattato un passaggio del Bresciani, più specificatamente
quello in cui racconta della suocera che conduce la nuora nella camera da letto degli sposi e nel momento in cui la sposa varca la soglia, le versa davanti, per terra, una coppa d’acqua [Bresciani 1850, ediz. 2001:380]. Nella ripresa la sposa non viene condotta nella camera da letto - ma d’altronde non vi è una camera da letto in quella che nella finzione funge da “casa degli sposi” - e il compito della cerimonia non è affidato alla suocera. A quest’ultima spetta però il compito di consegnare la chiave di casa alla nuora, un gesto col quale la suocera comunicherebbe il suo “mettersi da parte”, la delega alla nuora della cura del proprio figlio. Subito dopo, le due madri benedicono nuovamente i propri figli:
Sul limitare di questa casa, destinata ad ospitare gli sposi, questi ricevono l'ultima benedizione: la più fervida, la più commossa: perché è quella materna. Le due madri la impartiscono con voce trepida, aspergendo ancora di sale e di grano, con un gesto pio ed antico, il capo dei propri figli genuflessi, affinché da quei frutti
70 ▪ La tradizione nella rappresentazione dei matrimoni alla sarda
della natura germogli un avvenire propizio per la nuova famiglia, che crescerà sotto questo tetto [Serra M., dépliant Antico Matrimonio Selargino, 1962]
2.1.5 La classificazione di Pirisinu Nella guida alle feste e alle sagre della Sardegna di Pirisinu [1999], Matrimonio Selargino, Matrimonio Asseminese e Matrimonio Mauritano, sono classificate in modo identico. Tutte e tre durerebbero un giorno, tutte e tre condividono gli stessi quattro simboli, che stanno a significare la presenza dei seguenti elementi: Sfilata di costumi tradizionali sardi e/o di cavalieri Traccas, cioè i carri addobbati e i gioghi di buoi inghirlandati Canti sacri in sardo Musica tradizionale sarda e spettacoli folkloristici in genere: balli in costume, canti a tenore, canti a chitarra, ecc. Evidenziando più nel dettaglio quanto indicato da Pirisinu si potrebbe aggiungere che la sfilata è un elemento costante, presente in tutte le sagre indicate, sempre inserito nel contesto del tragitto casa-chiesa del corteo nuziale in cui i gruppi folkloristici assumono il ruolo - un po’ forzatamente - degli invitati dei due sposi. I gruppi procedono compatti, a una distanza di circa dieci metri l’uno dall’altro, evidenziando in questo modo l’inizio di un nuovo gruppo, segnalato in genere anche dalla scritta del nome del paese e del gruppo folkloristico su un arazzo (a Selargius questo compito è affidato a un bambino del locale gruppo scout che tiene in mano un cartello con il nome del paese). Questo modo di procedere non dà certo l’impressione di un insieme di persone in festa che accompagna gli sposi in chiesa, come ha notato anche Salvatore Scanu, padre della sposa di Ittiri. Quest’ultimo, per il matrimonio della figlia, ha voluto che gli invitati (circa 200-250), ognuno nel costume del proprio paese, accompagnassero il corteo senza restrizioni, liberi di mescolarsi tra loro, “proprio come nei matrimoni di una volta”. Sempre presenti a Santadi, negli altri paesi la partecipazione delle traccas è subordinata a tre condizioni: disponibilità finanziaria degli organizzatori (per l’affitto dei carri, degli animali e per il lavoro di addobbo), presenza di persone che ricordino come allestire in modo tradizionale i carri, reperibilità degli animali. La difficoltà di reperimento dei buoi e di persone in grado di abbellirli per la festa, è un indice significativo della scomparsa di un mondo contadino tradizionale che queste feste tentano di ricordare.
La tradizione nella rappresentazione dei matrimoni alla sarda ▪ 71
I canti sacri in sardo sono quelli cantati durante la messa nuziale. A Selargius, per esempio, sono proposte sotto forma di canti alcune preghiere scritte nel diciottesimo secolo da monsignor Giovanni Maria e musicate dal maestro Marco Pibiri, direttore del coro polifonico della pro-loco. Quanto al quarto punto, gli spettacoli folkloristici sono un altro degli elementi sempre presenti in queste feste. Sono collocati generalmente in tarda serata e costituiscono una sorta di collegamento con i festeggiamenti del passato che prevedevano canti e balli. La grandissima differenza con il passato, come molti studiosi hanno rilevato, è nella trasformazione dei festeggiamenti da momenti di partecipazione collettiva, di tutti per tutti, a momenti spettacolari, di pochi per le masse.13 Nel contesto di intrattenimenti di tipo tradizionale sono inseribili anche le gare poetiche, che Gallini definisce “tenzoni a più voci su un argomento proposto dal Comitato, la [cui] origine non va forse oltre il secolo passato, in una forma che peraltro recupera e riplasma antichissimi certami poetici”14. Questo tipo di gara è presente a Selargius, dove viene organizzata come momento a sé stante alcuni giorni prima della domenica del Matrimonio Selargino; il suo rapporto con la tradizione viene giustificato affermando che sempre, in passato, le famiglie più ricche ingaggiavano dei poeti esperti perché intrattenessero il pubblico degli invitati alle nozze.
2.1.6 Il trasporto del corredo e Sa coja antiga ussassesa Se è vero per Santadi e Assemini, quanto scrive Pirisinu sulla durata della festa è quantomeno riduttivo per Selargius: ben prima del 1999 (data di pubblicazione della guida), la sagra selargina si era estesa temporalmente, collocando nei giorni precedenti il matrimonio alcuni elementi che - per l’importanza a essi attribuita dagli organizzatori e per la loro presenza pluriannuale (se non quando pluridecennale) ritengo debbano essere considerati come elementi fissi: il “trasporto del corredo” e la “gara poetica dialettale”.
13
Su questo punto rimando al lavoro (e alla bibliografia in esso indicata) di Alessandro Deiana, che analizza la trasformazione del ballo tradizionale sardo e il ruolo dei gruppi folkloristici in tale cambiamento. 14 Prefazione di Gallini in Pirisinu 1999:6. In alcuni casi gli interventi dei vari improvvisatori sono stati trascritti e pubblicati: nella “Biblioteca Interdipartimentale Area Umanistica” dell’Università di Cagliari è possibile consultare i testi di alcune gare poetiche tenutasi in vari paesi del campidano, tra cui il testo di una Gara poetica tenutasi a Selargius la sera del 22.10.1949 per la festività di San Lussorio.
72 ▪ La tradizione nella rappresentazione dei matrimoni alla sarda
Nel 1968 per la prima volta, gli organizzatori del Matrimonio Selargino decidono di abbinare al corteo nuziale una sfilata di carri che trasportano il corredo nuziale:
“montati sui carri, sfileranno il telaio, la macina con l’asinello, il torchio, il letto, la biancheria della casa, il corredo personale, i preziosi gioielli d’oro, antico artigianato sardo, il corredo personale dello sposo, gli arredi della cucina, i famosi e variopinti cestini sardi, le cassapanche e tanti altri mobili” [“L’Unione Sarda”, 06/10/72, Domani a Selargius lo sposalizio sardo]
2.10 Trasporto del corredo, Antico Sposalizio Selargino, 10.09.2006 [Foto F. Salis]
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Niente a che vedere con la ricchezza, lo sfarzo e la quantità di oggetti elencati dal Bresciani, ma comunque un ulteriore elemento di attrattiva turistica, un modo nuovo e spettacolare per suscitare interesse mostrando oggetti che diversamente potrebbero essere visti solo in qualche museo etnografico. L’iniziativa fu immediatamente criticata da quanti non volevano permettere che le tradizioni fossero subordinate e addirittura modificate “per esigenze di spettacolo”, motivazione riconosciuta anche dall’articolo precedentemente citato. Per tradizione il trasporto del corredo era un momento di festa a sé stante, che aveva luogo almeno una settimana prima del matrimonio a cura di amici e parenti degli sposi, i quali aiutavano sia nel trasporto della mobilia, sia nel preparare la nuova casa. La polemica sul rispetto della tradizione non cessò nonostante il grandissimo successo ottenuto. La soluzione fu allora un compromesso: negli anni successivi (ancora adesso) il trasporto del corredo acquistò uno spazio proprio, non un settimana prima, ma il sabato precedente la cerimonia nuziale, attirando però ben pochi spettatori, al contrario di quanto si scrive nel maggiore quotidiano sardo. Da elemento secondario a elemento di primaria importanza: a Ussassai il trasporto del corredo costituisce il momento centrale nella riproposizione del matrimonio tradizionale. In un paese così piccolo, in cui tutti erano parenti - racconta Maria Serrau, presidente della pro-loco - tutti si riversavano nelle strade per "currere sa pandela" dietro il corteo guidato dalla madrina della sposa, che ha il compito di offrire, in un simbolico baratto, il corredo della sposa in cambio dello sposo.
"De annue 'eneis?" chiede per tre volte una voce seminascosta nella penombra dietro l'uscio della casa in pietra. "De su mari prenu" è la risposta che la madrina, giunta insieme alla folla, dà per altrettante volte. Segue l'invito ad entrare: "Incui nc'intreis". La formula di rito non è ancora completa perché la madrina esponendo dote e corredo chiede: " 'Os i bastat?". La risposta è laconica: "Custu est nudda, su meglius nei mancat", riferendosi alla donna che di lì a poco diverrà sua moglie. La voce prende forma, il "ratto" si compie. Prelevato lo sposo, la comitiva si reca verso la casa della futura moglie [Loi A. 2004:17] Nel frattempo la sposa riceve la benedizione della madre che lancia il riso (e non il grano, il sale e quanto detto in precedenza) e rompe il piatto. Giunto lo sposo, la donna prende il bouquet di spighe di grano e fiori di campo, e scortata da una bambina col ruolo di damigella (s'anguria 'e sposa) si pone alla testa del corteo, dirigendosi verso la chiesa. Lo sposo segue a distanza, anch'egli accompagnato da s'angurios. Solo una volta giunti a destinazione, i due sposi possono prendersi a braccetto e entrare insieme
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in chiesa. Dopo la messa, la “rappresentazione per i turisti” si conclude con la benedizione dei due da parte dei genitori di lui.
2.1.7 Le particolarità di Su Hujviu Ulianesu - L'Antico Matrimonio Olianese La riproposta della tradizione nuziale a Oliena richiede una trattazione a parte in quanto presenta delle peculiarità che mal si prestano a essere evidenziate in un approccio comparativo. Si tratta di una manifestazione recente (tuttavia l’idea non è nuova in paese, già in passato erano state messe in scena rappresentazioni del matrimonio tradizionale), organizzata per il secondo anno consecutivo nel 2006 da parte del gruppo “53 Amici per Oliena”, con il patrocinio dell'amministrazione comunale e della cantina sociale Nepente, all’interno di quel grande contenitore di eventi finalizzati alla valorizzazione e alla riscoperta delle tradizioni nel nuorese che è “Cortes Apertas”. Oliena si inserisce in questo contesto proponendo diverse iniziative, tra cui appunto la rappresentazione dell' Antico Matrimonio Olianese. È forse il contesto di riscoperta delle tradizioni in cui si inserisce l’iniziativa a renderla diversa da tutte le manifestazioni folkloristiche che abbiamo visto precedentemente. Al contrario di queste, si caratterizza infatti non tanto come festa, quanto come una dimostrazione didattica delle tradizioni popolari. Il matrimonio è finto, i protagonisti sono attori, l’accento è posto sulla comprensione dei rituali come quello del porgere il miele e della filatura della lana caduti in disuso da circa un secolo, di cui si svela il significato nascosto. Tutto nella cerimonia tradizionale, si dice, era simbolico, perciò lo spettatore deve essere guidato nella comprensione di quanto gli viene mostrato spiegando la corretta interpretazione di ogni gesto. Tengo a precisare che l’enfasi sul simbolismo della tradizione non è la conseguenza di una qualche speciale peculiarità del folklore olianese, ma dell’approccio col quale è stato studiato in questo paese, in particolare dall’antropologa Dolores Turchi, residente a Oliena, notissima studiosa di tradizioni popolari sarde. La corretta interpretazione del rituale è dunque quella fornita nei lavori della studiosa, la quale è tutt’ora la massima auctorictas nella ratificazione di una certa associazione semantica come legittima. La rappresentazione olianese è una sintesi di tutta la cerimonia tradizionale del passato, la quale si svolgeva nell’arco di due giorni con feste separate, un giorno nella casa della famiglia della sposa, il giorno successivo in quella dello sposo. Riepilogando quanto accennato in precedenza, i parenti della sposa vanno a prendere lo sposo che
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attende circondato dai parenti più stretti e da due bambini che tengono in mano le candele adornate con nastri bianchi e su giarminu, contro il malocchio. Le madri, abbiamo detto, sono assenti dal corteo, mentre sono presenti i padri. All’uscita dalla chiesa, gli sposi percorrono la strada che li porta a casa della sposa, investiti continuamente dal lancio di manciate di grano augurali da parte di amici e parenti che attendono lungo il tragitto. Sulla soglia di casa li attende la madre della sposa, che li benedice e scaglia a terra il piatto. Il momento centrale della rappresentazione si ha nel momento in cui la madre dello sposo sale su un tavolino o su una sedia (l’importante è che i piedi non tocchino per terra) e da questa posizione porge alla nuora un po’ di miele pronunciando la frase rituale:
"Nen tottu mele.. .Nen tottu ele. . ." [che tu sia “né tutta miele, né tutta fiele”] Le presentava poi il fuso e la conocchia perché la nuora dimostrasse di saper filare tre capi di lino senza spezzarli. Il filo sarebbe servito per legare l'ombelico dei primi figli. La rappresentazione termina con il corteo nuziale che torna a casa della sposa portando i doni della suocera: un anello d'oro, per lo più fra quelli posseduti dalla suocera stessa, sos pilos e granos, un misto di lana rigorosamente bianca, grano e mandorle raccolti in un fazzoletto bianco di stoffa pregiata, un cesto nuziale contenente 2 piatti fondi, 2 piani, 2 forchette, 2 cucchiai, lo zucchero, il caffè, la lana, il grano e una forma di formaggio (da notare l'assenza del coltello), una torta di mandorle e miele con la quale la madre dello sposo ricambia alla famiglia della sposa il regalo omologo donatole il giorno precedente unico regalo vivente, una bella gallina bianca infiocchettata con un nastro di broccato e adornata con pezzi di panno rosso, sa pudda hin sa vetta Tutti i doni sono portati da bambine e ragazze mentre uno speaker spiega il significato simbolico di ognuno, che è sempre a livello generale un augurio di fertilità, abbondanza e lunga vita.
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2.2 Le fonti etnografiche Il matrimonio degli sposi incatenati non è solo foklore ma è anche l’espressione di una cultura storica che anno dopo anno si riavvicina sempre più alle origini grazie anche ad una paziente ricostruzione dei riti e delle simbologie fatta sulle testimonianze degli anziani e dei documenti. Così scrive un ex presidente della pro-loco selargina su “L’Unione Sarda” [13.09.92, p. 17, Selargius, un sì in catene, di Franco Camba]. Il Matrimonio Selargino, spiegano gli organizzatori, è la “semplice” riproposta di quello che, negli anni ’60, i più anziani ricordavano di quanto avevano visto o sentito raccontare; descrizioni con le quali si riuscirebbe a risalire sino agli inizi del XIX secolo. A queste, è ammesso aggiungere solo quanto scritto da Marcello Serra e le molte pagine dedicate da padre Bresciani alle usanze matrimoniali “de’ Sardi” in Dei costumi dell’isola di Sardegna. L’opera del Bresciani è sicuramente una tra le meglio conosciute tra le opere dei viaggiatori dell’800 in Sardegna. Pubblicata nel 1850 a Napoli, ebbe grande fortuna, tanto da venire successivamente pubblicata anche a Roma nel 1861, a Torino nel 1867, a Milano nel 1864, 1872 e 1890. Padre Antonio Bresciani (1798 -1862), ordinato sacerdote nel 1821, entrò a far parte della Compagnia di Gesù e diventò rettore di vari collegi (Genova, Torino, Modena), per poi essere trasferito in Sardegna come Provinciale15. Sappiamo dall’autore stesso che arrivò per la prima volta nell’isola nel 1843, visitando la Trexenta e l’Ogliastra nel 1844, la Barbagia nel 1845 e la zona occidentale nel 1846, e che si dedicò alla stesura della sua opera tra il 1846 e il 1849, in seguito all’espulsione dei Gesuiti dai vari Stati Italiani. Del Bresciani, redattore della rivista “Civiltà Cattolica” e autore di numerosi romanzi e saggi, l’opera ritenuta più importante e valida è senz’altro Dei Costumi dell’Isola di Sardegna. Nel secondo dei due volumi, quello in cui tratta anche delle “usanze maritali de’ Sardi”, il Bresciani immagina di conversare su quanto ha visto in Sardegna con quattro confratelli nel castello di Montalto, nel quale erano soliti villeggiare gli alunni del collegio dei nobili di Torino. Tralasciando le comparazioni dei costumi sardi con quelli degli antichi popoli orientali, riconosciute successivamente come prive di ogni valore scientifico, l’opera è molto utile alla conoscenza dell’Isola poiché la descrizione delle consuetudini e delle usanze isolane si basa sull’osservazione diretta.
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Tali informazioni sulla vita e le opere di Antonio Bresciani sono tratte da Boscolo, 2003:18 e sgg.
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L’opera del Bresciani ci interessa poiché a Selargius si vocifera che lo sposalizio da lui descritto sarebbe tale e quale al resoconto dell’attuale cerimonia di Selargius: non sarebbero dunque gli organizzatori del Matrimonio Selargino a basarsi sul Bresciani, ma il Bresciani a prendere ispirazione da quanto osservato nel Campidano di Cagliari. Non sono riuscita a sapere su quali prove si basino queste affermazioni, anche perché nella parte dell’opera in questione non si fa mai esplicito riferimento né al Campidano né tantomeno a Selargius, al contrario di quanto avviene per altre zone quali Gallura e Logudoro. Marcello Serra è una figura di spicco nel panorama culturale sardo. Dando un’occhiata alla sua biografia, si comprende immediatamente il motivo della sua grande notorietà: sin da giovanissimo pubblica liriche e saggi critici; fonda, dirige e/o collabora con diverse riviste; nel 1946 gli viene assegnato il Premio Poesia G. Deledda, nel 1947 inizia la collaborazione con la Rai; dal 1954 insegna Letteratura Italiana all’Università di Cagliari e Letteratura Poetica e Drammatica nel Conservatorio di Musica; nel 1959 pubblica Sardegna quasi un continente, dal quale trae un documentario di quattro puntate per la TV; nel 1961 e nel 1972 la Presidenza del Consiglio dei Ministri gli assegna il Premio Cultura. Tra le altre opere, tutte inerenti la Sardegna: nel 1960 la guida Vacanze in Sardegna (tradotta in cinque lingue), nel 1964 Il mondo dei Sardi, nel 1968 Sardegna favolosa, nel 1970 L’aurora sui graniti è rossoblu, nel 1978, L’enciclopedia della Sardegna, ecc. ecc.16 Tra le altre cose, Marcello Serra ha scritto anche un breve brano sulle usanze nuziali selargine. Quello che sorprende è il modo in cui tale brano sia attualmente utilizzato come fonte di legittimazione del Matrimonio Selargino. Viene infatti detto che questi avrebbe avuto modo di osservare le antiche usanze durante alcune visite giovanili a Selargius, trovandole così significative da descriverne i tratti salienti nella sua opera Mal di Sardegna (alla voce Selargius). Facendo riferimento all’anno di pubblicazione di Mal di Sardegna, il 1955, si lascia intendere implicitamente che il Serra racconti di tradizioni nuziali tipicamente selargine prima della loro riproposta in chiave folkloristica, fungendo così in qualche modo da ispiratore nella riproposta delle antiche usanze. Si vorrebbe far credere, cioè, a una precedenza temporale dello scritto di Serra rispetto alla prima edizione del Matrimonio Selargino. In realtà, per quel che ho potuto
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Queste, e molte altre informazioni, sono contenute nel risvolto di copertina dell’edizione del 1989 di Sardegna quasi un continente
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verificare confrontando le edizioni del 1955, 1963 e 1977 per quanto riguarda la voce Selargius, nell’edizione del 1955 non vi è alcun accenno a tradizioni nuziali selargine, mentre le ultime due sono identiche e comprendono tali riferimenti. Si dirà di più: lo scrittore non descrive le usanze selargine spontaneamente, ma su richiesta dell’Enal provinciale17, che inserirà il testo nel primo dépliant del Matrimonio Selargino [1962]18. Se il Matrimonio Selargino è la semplice riproposta di quanto osservato direttamente dai più anziani, da Marcello Serra e dal Bresciani, lo spazio per la critica, la contestazione o le semplici osservazioni è piuttosto ridotto. Ci si potrebbe chiedere, ad esempio, perché non si faccia uso della descrizione riportata dal Della Marmora nell’opera Viaggio in Sardegna, che avrebbe il merito di essere precedente a quella del Bresciani (la prima edizione è del 1826) e di contenere riferimenti espliciti al Campidano. Dallo stesso Bresciani apprendiamo che conosceva di persona il generale e la sua opera, che apprezzava moltissimo19, lasciando il dubbio che alcuni parti (mi riferisco alle parti riguardanti le usanze nuziali) le abbia copiate20, tanto si assomigliano i due testi messi a confronto21. Ci si potrebbe anche chiedere: perché, se il Bresciani descrive un matrimonio nel Campidano, si utilizzano solo certe parti e non altre del suo resoconto? La risposta degli organizzatori a qualsiasi osservazione è più o meno sempre la stessa: si utilizza solo quanto concorde con le testimonianze degli anziani. Risposta che mette fine a qualsiasi obiezione, poiché a Selargius non sono più presenti persone che possano smentire o approvare, sulla base dei propri ricordi, quanto proposto dagli
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Del ruolo dell’Enal nel Matrimonio Selargino si discuterà successivamente La descrizione dello scrittore delle principali fasi del Matrimonio Selargino sarà inserita in quasi tutti i dépliant stampati annualmente in occasione della festa 19 “Conciossiacché Egli abbia già pubblicato la storia naturale dell’Isola, e fattone lo stato e descrittine i costumi, le arti, i monumenti antichi e moderni con tale una diligenza e un amore, con tanta sapienza ed erudizione che vince ogni desiderio e toglie altrui la speranza di vantaggiarlo”, Bresciani in Boscolo (a cura di) 2003:213 20 Non sarebbe l’unico caso: nella prefazione al testo (2001:19, nota 8) il prof. Caltagirone cita altri esempi “in cui il plagio è più che rasentato”. Il plagio di interi brani di opere altrui era d’altra parte una pratica corrente nella letteratura di viaggio, molto diffusa ancora per tutto l’Ottocento. 21 La scelta di utilizzare il resoconto del Bresciani piuttosto che quello di Della Marmora è probabilmente legata alla ricchezza dei particolari del primo. Ciò che ad alcuni è parso un difetto definibile come “delirio da descrizione”, “esasperato descrittivismo” (per questi giudizi sullo stile del Bresciani rimando alla prefazione di Caltagirone al testo, p. 14 e sgg.), è al contrario un pregio inestimabile per quanti abbiano in mente di mettere in scena un evento come il Matrimonio Selargino: maggiore è l’attenzione al dettaglio, minore il rischio di commettere errori legati all’ignoranza di quello che “realmente” avveniva in passato. Inoltre, l’ampio uso della figura retorica dell’ipotiposi è una strategia discorsiva che consente a Bresciani di rappresentare in modo vivido, non noioso, ciò che descrive, quasi da offrirne l’immagine visiva: un’ulteriore possibile spiegazione della predilezione verso questo testo. 18
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organizzatori. Questi, da parte loro, affermano di poter ricostruire l’evento tradizionale per aver fatto tesoro dei racconti dei propri ascendenti. Dietro questa posizione si intuisce chiaramente il tentativo, neanche troppo velato, di legittimare la propria posizione di unici depositari del sapere sulla tradizione a Selargius, posizione che molti selargini sono invece ben lungi dal riconoscere. E se in generale la testimonianza degli anziani non è più verificabile - e quindi indiscutibile - esiste almeno un documento scritto che riporta il parere sul Matrimonio Selargino di uno di questi anziani, sul quale mi soffermerò alla fine di questo capitolo. Il problema delle fonti non riguarda solo Selargius, ma in questo paese la situazione è più difficile poiché l’abbandono del costume e delle “antiche” usanze è iniziata piuttosto presto, agli inizi del XX secolo. A Ittiri, per esempio, Salvatore Scanu rileva la quasi totale assenza di fonti attendibili, nonché l’ignoranza degli studiosi interpellati per quanto riguarda la materia in esame, che non gli ha permesso di organizzare un matrimonio in cui fossero presenti elementi tradizionali oltre il costume e poco altro. In altri paesi, specialmente quelli più piccoli e isolati, il folklore locale è durato più a lungo, cosicché il tempo intercorso dall’abbandono come “vecchiume di altri tempi” al recupero in quanto “bene” è stato talmente breve da non aver permesso l’oblio. Nel piccolo centro ogliastrino di Ussassai l’arco temporale di questo passaggio è stato inferiore a quello di una generazione: la presidente della Pro Loco Maria Serrau può così curare la riproposizione del matrimonio tradizionale sulla base della propria esperienza personale, essendo stata lei l’ultima, nel 1956, a sposarsi in questo modo. Gli organizzatori della rassegna asseminese hanno risolto subito, e in maniera originale, il problema delle fonti. Su “L’Unione Sarda” del 26 ottobre 1973, compare la notizia del “ritrovamento di un vecchio manoscritto di un anonimo asseminese scoperto da alcuni studiosi di storia sarda” contenente la descrizione delle fasi degli antichi riti nuziali. In poche parole si mette a tacere ogni possibile obiezione sulla manifestazione folkloristica che si sta per riproporre; il significato del messaggio sembra suonare più o meno: quello che vi stiamo proponendo non è il frutto di una nostra invenzione, ma della descrizione riportata in un testo scritto da uno di noi (asseminese), che dunque conosce le nostre tradizioni e ci rappresenta tutti (è anonimo, quindi non riconducibile a una famiglia, un ceto sociale, una fazione riconoscibile), in un passato non meglio precisabile (vecchio), ma comunque abbastanza indietro nel tempo poiché il testo è scritto a mano (manoscritto), la cui importanza
è stata riconosciuta da persone
competenti in materia (studiosi di storia sarda). Il fatto poi che il ritrovamento sia stato
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casuale (scoperto) e che la fonte sia scritta e quindi non più modificabile, allontana ulteriormente ogni sospetto sugli scopi della pro-loco, che si limiterà a rappresentare quanto si trova descritto nel testo. Spanu Luigi, nel suo libro sulle sagre e le feste popolari dell’87, tiene a precisare che la veridicità della fonte non è stata ancora verificata, mentre un articolo promozionale, pubblicato sempre su “L’Unione Sarda” (01-09-90, p. 15, Un amore legato con catene d’oro), svela i dettagli della leggenda riportata nell’antico testo. Racconto di
antiche invasioni, di armate crudeli che insanguinavano i villaggi, disperdendo la gente. Racconto di morti orrende, di crudeltà, di violenze, di tesori nascosti nella fuga, di olle piene di oro, sotterrate in grotte profonde per essere poi ritrovate, passata la furia dei predoni venuti dal mare. Ed ecco le “janas” le fate profetiche, guizzare dai ceppi ardenti del focolare ed indicare i luoghi in cui le olle zeppe di oro erano nascoste. Due giovani fidanzati, fra i tanti ricercatori di fantasiosi tesori, inseguendo la suggestione delle fate finirono in un antro profondo nel quale pensavano di trovare la pentola ricolma di monete d’oro. Languirono a lungo nel freddo della voragine, si ferirono con i rovi e con i sassi, furono legati in catene dagli spiriti maligni che custodivano il tesoro. Li salvò una fata, riportandoli alla luce e dicendo loro che l’unico vero tesoro sarebbero stati una vita in comune, l’amore reciproco, l’affetto dei figli Il resto della storia si può immaginare e infatti, sfortunatamente, l’articolo ci lascia solo presumere il matrimonio che segue e la descrizione delle sue fasi, rassicurandoci, però, sulla fedeltà della loro riproduzione nella rappresentazione asseminese.
2.3 Matrimonio tradizionale? Quale è dunque il tradizionale prototipo di cui la manifestazione di folklore sarebbe la copia fedele? Dico sarebbe, perché ritengo che il rapporto tra la tradizione e il fenomeno folkloristico attuale non debba essere inteso in termini di continuità: non si tratta di una stessa cosa che sparisce per poi tornare, ma di due cose diverse che hanno tra loro un rapporto problematico, un rapporto indiretto e mediato. Non si tratta tanto di ritrovare, ricordare, riportare in vita, come appare dai discorsi degli informatori, ma di reinventare e risemantizzare. Da questo punto di vista non mi pare condivisibile la prospettiva emica, tuttavia mi pare interessante precisare che cosa effettivamente abbiano in mente gli interlocutori quando parlano di tradizione (nuziale) e come questo concetto venga usato per collegare passato e presente in un rapporto di continuità. La tradizione è sempre e solo l’unico fattore invocato a giustificazione di tutte le pratiche sociali riproposte nei matrimoni “in costume”. Nei discorsi degli informatori i
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termini tradizione, tradizionale sono di gran lunga i più ricorrenti, ed appaiono per spiegare ciò che “si dice” “si faceva” o “doveva” esser fatto in determinate circostanze, secondo quanto raccontato dalle generazioni passate. Nella prospettiva emica il significato del termine “tradizione” è sinonimo di “folklore” (un altro termine molto usato) inteso nella concezione essenzialista e pre-gramsciana di “usi e costumi dei vecchi tempi”, qualcosa la cui datità non è oggetto di discussione. Nessuna colombella smarrita da cercare, nessun paralimpu, nessun accenno a una forma di matrimonio che non prevedeva necessariamente il coinvolgimento della Chiesa. Di quanto abbiamo visto nel capitolo precedente, la manifestazione selargina, così come quella asseminese, mauritana, ecc., tralascia completamente le consuetudini relative agli sponsali. La riproposizione dei matrimoni prevede la rievocazione dei soli riti legati al giorno del matrimonio in Chiesa; qualche eccezione a Selargius, come si è visto descrivendo i tratti “tradizionali” della rassegna. Mi sembra una considerazione su cui riflettere: la totale assenza di riferimenti alla tematica degli sponsali dovrebbe insospettire. Quella che potrebbe essere spiegata come la scelta consapevole di privarsi di una fonte preziosa di materia “teatrabile”, pare in realtà la conseguenza di una limitatissima profondità storica. “Tradizionale” e “antico” sono termini che nei discorsi emici vanno a braccetto, sono cioè usati in maniera interscambiabile (per cui tutto ciò che è tradizionale è anche antico) ma anche in questi casi, come in altri studi sulle “feste tradizionali”, le pratiche sociali riproposte sembrano piuttosto appartenere a un periodo ben definito e recente. Un periodo situabile a grandi linee tra l’oblio della memoria storica legata alla celebrazione degli sponsali e l’abbandono del costume tradizionale, dunque nei primi decenni del XX secolo. È lo stesso risultato dell’inchiesta sulle fonti, che rivela come la riproposta si basi sul resoconto di ascendenti o comunque di anziani presenti in paese, se non quando addirittura sulla propria esperienza personale. Situato il periodo storico di riferimento e limitando il discorso a Selargius, si noterà anche che il termine tradizionale non è usato per indicare elementi che segnalano una netta cesura tra Tradizione e Modernità, tra ciò che si faceva in passato e ciò che nel momento in cui nasce la manifestazione folkloristica non si fa più da tempo. Un esempio potrebbe essere la benedizione materna: la riproposizione in chiave folkloristica non ha riportato in vita un’usanza ormai scomparsa: a una donna sposatasi nel contesto del “matrimonio in costume” negli anni ‘80, a cui avevo chiesto perché nel suo album fotografico ci fossero così tante foto della benedizione, mi ha spiegato che le prime riguardavano la benedizione “vera”, mentre le altre quella pronunciata per il
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pubblico. Anche il rito ecclesiastico viene sempre indicato come tradizionale, eppure non lo è né per una sua qualche peculiarità - in quanto uguale in tutto il mondo cattolico - né per la sua antichità, poiché è piuttosto recente, se si considerano le modifiche apportate negli anni ’60 con le riforme approvate dal Concilio Vaticano II. È sorprendente il gran parlare di ripresa di tratti tradizionali, che sicuramente non può essere riferito alle azioni: di per sé non c’è nulla di particolarmente tradizionale o rituale nella vestizione, così come neppure nel recarsi in chiesa, o festeggiare con banchetto, balli e canti. Non sono presenti neppure gesti o simboli il cui significato è andato perduto per cui qualcuno debba intervenire a darne l’interpretazione corretta. Ciò che emerge da un’analisi delle dichiarazioni degli informatori che vada oltre l’indicazione superficiale di questo o quell’altro elemento come specificatamente tradizionale, è piuttosto il riferimento a una partecipazione comunitaria ora assente. Le consuetudini relative alle nozze non subiscono negli anni modifiche radicali mentre ciò che si ritiene andato perduto è il coinvolgimento del vicinato, del paese nelle vicende dei singoli, l’identità stessa del paese. È un discorso che vale a Selargius, ma che può essere esteso con le dovute cautele anche agli altri paesi, anche se per opposte o differenti ragioni: ad esempio a Selargius viene chiamata in causa l’espansione demografica eccezionale dal secondo dopoguerra a oggi, mentre a Ussassai al contrario la massiccia emigrazione. Non sono dunque tradizionali le azioni di per sé, quanto invece la forma in cui sono presentate (l’abito tradizionale al posto dell’abito bianco, le traccas al posto delle macchine, ecc.), che rimanda a un passato idealizzato nel quale l’insieme degli abitanti costituiva “ancora” una comunità. La riproposizione delle “antiche usanze” è allora un’autorappresentazione del tipo “come eravamo” in forma di spettacolo, di festa per tutto il paese, chiamato, come un tempo, a una partecipazione collettiva. Tuttavia, anche questa idea della comunità, dovrebbe essere oggetto di un’indagine critica. Davvero si tratta di un “recupero”, come affermano gli informatori o piuttosto si tratta di una creazione? E se la “comunità mitizzata” fosse la proiezione di ciò che gli informatori vorrebbero che fosse stata, piuttosto che ciò che è stata realmente? L’unica vera differenza tra la manifestazione folkloristica e il suo tradizionale prototipo, secondo un’opinione ampiamente diffusa sia tra gli organizzatori sia tra il pubblico, è che la fedele riproposta della tradizione relativa al matrimonio è inserita all’interno di un’altra festa, più ampia, pensata per coinvolgere tutto il paese e attrarre visitatori e turisti (per questo motivo, ogni anno vengono inclusi elementi attinti dal mondo dello
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spettacolo e dello sport che ampliano l’offerta di divertimento e di attrattiva). In altre parole, un qualcosa pensato per essere sia una dimostrazione pratica di storia delle tradizioni popolari sia una festa turistica e commerciale. Il problema (per le esigenze dello studioso, non per il pubblico e gli organizzatori) consiste nel fatto che è entrambe le cose nello stesso momento, una festa dentro la festa, talmente ben amalgamate tra loro che nessuno sa dire con certezza dove finisca l’una e inizi l’altra, un’inestricabile commistione di pseudoantico e moderno. La tradizione è assunta come una sorta di canovaccio, una traccia schematica i cui elementi vengono ampiamente manipolati da parte degli organizzatori al fine di creare un momento di partecipazione collettiva. Questi possono dunque subire un dilatamento o un restringimento temporale, possono acquistare una visibilità che precedentemente non avevano, possono essere prelevati dal loro contesto e spostati in un altro. La riproposizione della tradizione sembra allora il mezzo piuttosto che il fine dell’intera manifestazione. Di questo si era reso conto con sorprendente chiarezza anche Efisio Salis, l’ex delegato podestarile di Selargius, principale promotore e uomo-chiave del Matrimonio Selargino, che in una lettera spedita al sindaco di Selargius, esprimeva tutta la sua delusione per una iniziativa che sente sua, ma la cui organizzazione gli era completamente sfuggita di mano:
Io che ho riportato in vita lo Sposazio [sic] in questione, desidero prima di morire, vedere sistemato questo Antico ricordo, e non lasciarlo in mano di gente incompetente che ne fanno investimenti e spese inutili di quanto offre ogni anno la Reggione [sic], non posso precisare sia 4 o 5 milioni per formare il carnevalone [sic] e non le precise consuetudini antiche da me dettate da quanto vidi 80/85 anni fa. Efisio Salis si mostra consapevole del fatto che - nonostante si affermi sempre il contrario - non sono le “consuetudini antiche” il centro della manifestazione, non è su queste che si concentra l’attenzione degli organizzatori e del pubblico.
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3 Tra fascismo e valorizzazione turistica regionale Per capire un fenomeno come il Matrimonio Selargino, è necessario precisare i contorni del contesto storico e culturale in cui ha avuto origine. Un’indagine che renda conto della mera messa in scena, della fenomenologia della festa, non appare sufficiente a una realistica interpretazione della stessa. Scrive Faeta:
senza contesto locale, senza radicamento spaziale e sociale […] la festa è realmente inconoscibile e la sua lettura oscilla tra esercizio classificatorio, astrazione filosofica, metafisica dei sentimenti per poi approdare sul solido terreno della rimasticazione neofunzionalista [Faeta, 2005:160] Una storicizzazione, o almeno un tentativo in tal senso, è necessaria, non fosse altro che per sottrarre l’oggetto in questione a quell’astrattezza e a quella naturalità cui va incontro qualunque fenomeno umano che venga dato per scontato o per inevitabile, e quindi considerato acriticamente. Non si tratta di un’operazione semplice, perché una delle strategie retoriche della promozione del prodotto “matrimonio tipico” è quella di insistere sulla continuità della manifestazione con una tradizione che si vuole antichissima. L’antico sposalizio selargino si celebra per la prima volta a Selargius il 28 ottobre 1962, domenica conclusiva della festa patronale di S. Lussorio. Sembrerebbe un punto di partenza, e invece è già un punto di arrivo: il Matrimonio Selargino non nasce, “esiste da sempre”. La reazione alle mie domande sull’origine della manifestazione è stata nella maggioranza dei casi la sorpresa, poi l’insofferenza e infine la noia1. Quando anni, anzi decenni di promozione turistica, riescono nell’intento di trasmettere l’idea che la manifestazione sia il fedele proseguimento di antichissime usanze, che sempre si sono svolte nel modo che ancora oggi possiamo ammirare, il problema di chi l’abbia organizzata e per quali motivi, semplicemente, non si pone. È una questione di poca importanza, dal momento che ci si è limitati a riprendere qualcosa di già bell’e pronto.
1
Si noti l’analogia tra le reazioni emerse nella ricerca sul campo e le osservazioni di D’Eramo (nella presentazione al testo di Anderson Comunità immaginate, 1996:7) a proposito del rapporto patriotanazione: “Già la domanda sul quando suona blasfema a un patriota. Per lui la nazione è qualcosa di originario, un retaggio primordiale che forse era stato dimenticato, sepolto nella memoria e solo di recente è affiorato, identità ritrovata. Siamo di fronte a una duplicità: la nazione è stata pensata, creata di recente, ma essa pensa se stessa come antichissima”.
Se la maggioranza degli intervistati non si è mai interessata al problema, la restante parte sembra voler mantenere lo status quo, rispondendo evasivamente o non rispondendo affatto; tuttavia, insistendo, è stato possibile raccogliere alcune teorie in proposito.
3.1 Il racconto degli informatori Una di queste teorie sostiene che l’idea del Matrimonio Selargino sia maturata a Quartucciu, paese confinante con Selargius, per iniziativa personale di un giovane organizzatore di manifestazioni culturali paesane, che voleva tradurre in qualcosa di concreto quanto andava ricostruendo dai racconti degli anziani. Il protagonista della vicenda, quartuccese [“Mi raccomando, si dice quartuccese, quartucciai è il termine dispregiativo che usano a Selargius”] è L.S.2, giornalista, direttore responsabile della tv locale Videolina dal 1975 al 1983, realizzatore di una serie di documentari sulle sagre sarde. Oramai in pensione, sebbene continui ogni anno a prestarsi come commentatore televisivo della sagra selargina, tale giornalista non riesce ancora a capacitarsi della scarsa lungimiranza dei politici di allora, che accolsero con freddezza la sua proposta, rifiutandosi di finanziare nel paese una di quelle - secondo tali politici “pagliacciate in costume” che andavano diffondendosi in tutta l’isola. L’idea giunse a Selargius per un puro caso: vi abitava la fidanzata e attuale moglie, a pochi passi dalla sede dell’Enal locale, e così un giorno si decise a riproporre il suo progetto, sperando che fosse accolto in modo più favorevole; l’idea piacque molto ai selargini, che la accolsero con entusiasmo e si organizzarono immediatamente per metterla in pratica. Il passo successivo fu il coinvolgimento di Marcello Serra, di cui a quei tempi Spiga era un giovane allievo, a cui si richiese di dare autorevolezza scientifica a quella che doveva essere una rievocazione storica, concedendo la firma per il primo dépliant, che scrissero insieme.
2
Dalla biografia sul retro di copertina dell’edizione del 1996 del suo libro Il mio paese: “Opera da anni nel mondo della comunicazione e della telecomunicazioni. Tra i pionieri della radio e della televisione privata in Sardegna, è stato dal 1975 al 1983 direttore responsabile di videolina. Ha realizzato una serie di documentari sulle sagre sarde ed ha raccolto una vasta documentazione in Italia e all’estero sui temi dell’emigrazione. Esperto di storia e problemi sardi, è laureato in Materie letterarie e pedagogia. Nel 1982 una commissione composta da Indro Montanelli, Luca Goldoni e Ruggero Orlando gli ha assegnato il Premio di giornalismo televisivo per i documentari realizzati in Germania, Svizzera e Belgio per il Natale con gli emigrati sardi. Vincitore del Premio internazionale di giornalismo televisivo Città di Castelsardo. Scrive per “L’Unione Sarda” dal 1962. È stato dirigente dell’Associazione della stampa sarda. Esperto in relazioni istituzionali. Docente di comunicazione e immagine a Roma”.
86 ▪ Tra fascismo e valorizzazione turistica regionale
Sempre secondo il giornalista, questa sarebbe la vera versione dei fatti, quindi la ragione per cui a Selargius si tende a divagare sull’origine del Matrimonio Selargino. A rinforzare tale versione mi mostra una medaglia d’oro regalatagli dal comune di Selargius per i suoi contributi alla festa:
Come possono ammettere che sia stato un quartuccese a dar loro l’idea per la festa selargina più importante? Un’altra versione la fornisce una signora responsabile di uno dei tanti gruppi folk presenti a Quartu Sant’Elena, un altro paese nelle immediate vicinanze di Selargius. La signora I. sostiene che l’idea del matrimonio “tipico” è un’idea partita dall’alto, dai vertici turistici regionali, che si erano proposti di finanziare un’iniziativa del genere in uno dei paesi del Campidano di Cagliari. Ricorda di aver sentito parlare di una specie di bando, una richiesta da parte di qualche ente regionale per la formazione di una graduatoria dei paesi più adatti a ospitare un evento simile, ma Quartu Sant’Elena, il paese che sarebbe stato di gran lunga il più favorito (a suo giudizio), si era lasciato sfuggire l’occasione sottovalutandone l’importanza, cosicché se lo aggiudicò Selargius. La terza versione è raccontata dalla prima coppia che partecipò al Matrimonio Selargino. A quell’epoca erano solo due giovani fidanzati, entrambi facenti parte del locale gruppo folk “San Lussorio”, che il fidanzato stesso aveva provveduto a fondare nel 1954:
Prima si sfilava con il gruppo di Quartu Sant’Elena, ma poi, visto che nel gruppo c’erano molti selargini abbiamo pensato di sfilare per conto nostro, anche per una sorta di campanilismo…. Il Matrimonio Selargino sarebbe nato quasi per caso, durante l’organizzazione dei festeggiamenti per San Lussorio:
[…] Il comitato di san Lussorio in quegli anni era costituito dagli amministratori comunali in cui erano presenti persone appassionate di queste cose tradizionali. Una sera uno di questi, Efisio Salis, dice: “Ma perché non riproponiamo il matrimonio come si faceva una volta?”, hanno proposto questa cosa in giunta e il sindaco ha accolto l’idea. […] Questo matrimonio si è potuto fare, ha facilitato un po’ tutto che a Selargius c’era il gruppo folkloristico e io ne ero capoccino. Quelli che hanno organizzato il tutto era il dopolavoro provinciale e siccome a Selargius esisteva il gruppo folkloristico e esisteva frequentatissimo anche il dopo lavoro… il gruppo dopolavoro provinciale è riuscito ad avere i finanziamenti dalla regione e si è fatto tutto. Di sicuro c’è stato un collegamento tra il comitato dei festeggiamenti di San Lussorio e… poi questo Efisio Salis era anche socio dell’Enal. È nato così, per uno scherzo, noi eravamo solo fidanzati in quel periodo; l’abbiamo fatto per riempire una serata…
Tra fascismo e valorizzazione turistica regionale ▪ 87
E poi c’è la versione ufficiale. Raccontata nel libro Cent’anni, scritto da Gianni Orrù e Carlo Desogus, e nella relazione presentata dal primo a un convegno organizzato nel 2003, nell’ambito delle attività promosse per il Matrimonio Selargino. Tale versione fornisce nome e cognome dei personaggi coinvolti, ma non ne chiarisce le dinamiche. È presente il Comune di Selargius, l’Assessorato Regionale al Turismo, l’Enal provinciale e quello locale, Efisio Salis e Marcello Serra. Allo spettacolo in questione non “si arrivò certo sulle ali dell’improvvisazione”, ci vollero “decenni” perché si arrivasse a tradurre in realtà un “desiderio vivo tra il popolo”:
Una triade patrocinatrice, composta dal Comune, dall'Assessorato Regionale al Turismo e dall’Enal Provinciale riuscì finalmente a far tradurre un sogno cullato da alcuni decenni, un desiderio vivo tra il popolo di far rinascere in forma di spettacolo lo sfarzo delle inobliate usanze nuziali di Selargius e del Campidano. Un gruppo folkloristico locale, il “San Lussorio”, primo del dopoguerra, guidato da Olinda Melis che continuava una passione, assai viva soprattutto nel periodo fascista, […] si mise a disposizione dell’organizzazione per individuare i necessari supporti logistici […]. A quella storica data di nascita dello sposalizio non si arrivò certo sulle ali dell’improvvisazione. Ci furono validi presupposti culturali ed una seria messa a punto delle conoscenze della ritualità matrimoniale del passato. Ma due persone soprattutto furono le principali ispiratrici della grande manifestazione culturale: il cav. Efisino Salis, gia vice podestà di Selargius, facoltoso commerciante di pellami, personaggio assai noto nel paese per il suo passato di animatore culturale e inimitabile promotore d’iniziative di svago popolare, e del poeta e scrittore Marcello Serra, letterato di spicco nella fervida stagione culturale del dopoguerra cagliaritano. […] Lo scrittore, assieme al Salis, partecipò alle sedute organizzative della cerimonia del 1962, concesse la sua firma per raccontare le magie dello sposalizio nel dépliant illustrativo. Il Salis fu in pratica il primo cerimoniere, poiché offri i necessari consigli pratici sui rituali e sulle movenze dei principali “attori”, a colui che doveva guidare la fase realizzativa del tutto: il dottor Gavino Manca, direttore dell’Enal provinciale di Cagliari3
3.1.1 Tasselli diversi di un unico mosaico? I diversi resoconti, confrontati tra loro, presentano numerose incongruenze e sembrano escludersi a vicenda. Il Matrimonio Selargino è un’iniziativa partita dall’alto o dal basso? Nasce così per caso o è il risultato di un “sogno cullato da alcuni decenni”?
3
Orrù, 2003. Relazione presentata al convegno sulle tradizioni nuziali, organizzata a Selargius nel contesto delle iniziative per l’edizione del 2003 del Matrimonio Selargino. Ringrazio il signor Orrù per avermi fornito una copia del suo intervento.
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L’idea è di Quartucciu, Selargius o di Cagliari? Impossibile deciderlo sulla base di queste testimonianze. Ma forse il problema è la distanza da cui si affronta l’analisi del fenomeno, una visione così ravvicinata potrebbe non consentire di studiare il fenomeno nella giusta prospettiva. Forse i singoli resoconti non vanno analizzate in sé stesse o nel confronto con le altre, ma sulla base degli elementi deittici presenti nel discorso, cioè di quegli elementi che costituiscono degli indizi per capire il contesto culturale di riferimento. I diversi riferimenti a un rinnovato interesse nei confronti delle proprie tradizioni, l’interesse a livello regionale al finanziamento di manifestazioni folkloristiche, i riferimenti al fascismo, la scelta di un tema quale il matrimonio, potrebbero essere tasselli diversi di un unico mosaico. Prendiamo, per esempio, la costante del riferimento al diffuso interesse a valorizzare le tradizioni locali, sia da parte dei singoli, sia da parte di enti regionali e provinciali. Si può partire da queste considerazioni per chiedersi quando nasce questo interesse, la sua storia, le motivazioni.
3.2 Lo studio del folklore Perché si organizzi uno spettacolo folkloristico, prima ancora dell’interesse delle persone a partecipare a manifestazioni di questo genere, è necessario disporre di dati folklorici, veri o presunti tali. Il dato folklorico è la conseguenza di un’operazione di oggettivazione, che seleziona una parte del reale sulla base di criteri definiti dalla comunità scientifica e lo trasforma in dato. Le domande in questa direzione saranno pertanto: quando si comincia a disporre di dati folklorici in Sardegna? quali sono i criteri che guidano la ricerca? quali gruppi sociali coinvolge? Non è il caso qui di ricordare il clima culturale che spinse studiosi di tutto il continente a interessarsi allo studio delle tradizioni popolari, fatto sta che l’interesse crescente in questa direzione portò a definirne in modo sempre più specifico l’oggetto di studio e il campo intellettuale. Tra fine Ottocento e inizio Novecento, forse per recuperare il ritardo accumulato nei confronti degli altri paesi europei, si assiste a un rapido sviluppo della disciplina anche in Italia: nel 1893 nasce la “Società per le tradizioni popolari”, nel 1910 la “Società di Etnografia Italiana”, dal 1911 al 1914 si pubblica la prima serie della rivista “Lares”. Nel 1911, nel cinquantenario dell’unità, la consacrazione ufficiale con il “I Congresso di Etnografia Italiana” e l’allestimento della mostra etnografica. L’interesse per la lingua e la cultura della Sardegna inizia alla fine del XVIII secolo, quando l’isola è meta di sempre più studiosi attratti dal miraggio di un’isola ancora
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sconosciuta. Ma a parte rare eccezioni (ad esempio i lavori del Della Marmora) è solo nei primi decenni del ‘900 che il lavoro degli studiosi produce i primi risultati “scientifici” anche in Sardegna, come nel caso delle ricerche sul campo condotte da Wagner e Bottiglioni. La tradizione disciplinare italiana, scrive Cirese [1974:62], recepisce il termine folklore come l’equivalente di tradizioni popolari,
che è a sua volta l’espressione con cui si designa il complesso dei fatti culturali che appaiono “popolarmente connotati”, e cioè propri dei volghi o degli strati subalterni dei popoli civili senza fare distinzioni, come invece avviene in altre parti d’Europa, tra fatti materiali e fatti spirituali, trasmessi oralmente o in altri modi. Oggetto di studio è il modo di vivere e di pensare del popolo, cioè dei ceti inferiori. Nella ricostruzione di Dei [2002], tale oggetto di studio conosce nel Novecento due principali tipi di lettura. Da una parte, il discorso sulla cultura popolare tradizionale continua l’impostazione ottocentesca, che concepisce il folklore come lo studio delle usanze e delle abitudini dei vecchi tempi, “manners, custom, observances, superstitions, ballads, proverbs etc of the olden time”, nella definizione classica del 1846 di William John Thoms. Il folklore è l’espressione di una “differenza culturale di tipo verticale”, in senso contemporaneamente sociale e cronologico, perché distanza di classe e di velocità evolutiva. L’attività del folklorista consiste nel ricercare le testimonianze del passato che ancora sopravvivono nella cultura popolare:
il suo sogno è imbattersi, in qualche sperduta campagna, in un’isola culturale in cui si parla ancora così e così, in cui si fanno ancora certi riti – in cui, cioè, si è fermato il tempo [Dei, 2002, pp. 21-22] L’altro tipo di discorso che si afferma nel Novecento deriva dalla trasformazione del concetto di cultura da processo unitario universale a concetto pluralistico e relativistico che descrive entità sostantive. Il folklore è lo studio di una differenza culturale di tipo “orizzontale” presente all’interno della società occidentale. Prendiamo ad esempio le “Osservazioni sul folclore” scritte dal sardo Gramsci negli anni ’30: rifiutando esplicitamente l’impostazione di quegli studi che si occupano del folclore come elemento “pittoresco”, spiega che
occorrerebbe studiarlo invece come “concezione del mondo e della vita”, implicita in grande misura, di determinati strati (determinati nel tempo e nello spazio) della società, in contrapposizione (anch’essa per lo più implicita, meccanica, oggettiva) con le concezioni del mondo “ufficiale” (o in senso più largo delle parti colte della società storicamente determinate) che si sono successe nello sviluppo storico [Gramsci, 2000: 261-262]
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Il folclore, dunque, come concezione del mondo e della vita del popolo, “l’insieme delle classi subalterne e strumentali di ogni forma di società sinora esistita” [Gramsci, 2000: 261-262], Vale a dire, nella spiegazione che fornisce Dei, di quei gruppi che “non hanno accesso al potere politico ed economico e di conseguenza sono escluse dai meccanismi di elaborazione e trasmissione dell’alta cultura” [Dei, 2002:66]. Il folklore equivale, in entrambi i casi, allo studio di una cultura “altra”, poiché la distanza sociale rimane invariata: sono sempre gli appartenenti a quelle che Gramsci definirebbe classi egemoniche a studiare le classi subalterne. E ciò che per gli uni si configurava come qualcosa da studiare, salvare dall’oblio, per gli altri spesso era il distintivo di uno status di subalternità, di una condizione esistenziale negativa, che si tentava
piuttosto
di
abbandonare.
Basti
pensare
all’abbigliamento
popolare,
abbandonato in tutta fretta nei primi decenni di questo secolo da quanti potevano permettersi gli abiti “moderni”. Ancora oggi, nonostante un abito tradizionale originale abbia assunto un valore inestimabile, le signore più anziane - almeno nei dintorni di Cagliari - possono offendersi se chiedi loro se da giovani lo indossassero:
Non eravamo certo a quel livello [di povertà]. Lo mettevo a Carnevale, così, per ridere…4 L’interesse per il folklore rimane a lungo una caratteristica esclusiva di una certa classe dominante, che si occupava del popolo come oggetto di studio, senza condividerne la condizione. Oppure ne riprendeva dei tratti, come si racconta a Selargius di una certa Maria Zucca Coj, figlia dell’alta società, che agli inizi del secolo scorso,
sfidando le mode italianizzanti […], si presentava alle feste danzanti nel tradizionale costume sardo [Orrù, 2003:1, nota 2], la sua posizione sociale le consentiva queste stravaganze, ponendola al di sopra del senso del ridicolo che avrebbe colpito una donna di ceto inferiore.
3.3 Il foklorismo fascista Devono passare ancora alcuni decenni affinché il patrimonio culturale regionale diventi tale, cioè si affermi quale bene collettivamente connotato da una valutazione estetica
4
Intervista a E. C. (nata a Selargius nel 1911), marzo 2006. Stesse considerazioni per Maria Laura Corona (nata a Quartucciu nel 1921), la quale indicava il non aver mai indossato (né lei, né la propria madre) l’abito tradizionale quale segno evidente dell’agiatezza della propria famiglia.
Tra fascismo e valorizzazione turistica regionale ▪ 91
positiva, spendibile sul piano dell’attrazione turistica e dell’orgoglio identitario. A questo contribuì indubbiamente la svolta ruralista del regime fascista. Nell’ambito di una concezione economica che si basava soprattutto sull’autarchia e sul protezionismo della produzione nazionale, il fascismo dimostrò un grande interesse per le realtà culturali popolari e per le tradizioni e le usanze folkloriche delle regioni italiane. In connessione con le manifestazioni del regime, dovevano essere coltivate le tradizioni popolari come sagre, feste e mostre di prodotti dell’artigianato domestico e delle piccole industrie locali. L’obiettivo era quello di giungere alla perfetta unità nazionale attraverso la fusione delle singole realtà regionali, accomunate dalla prospettiva fascista di riconquistare la comune matrice latina ed italica.
3.1 1929, Visita di Vittorio Emanuele III a Cagliari [collezione Olinda Melis]. Nella foto alcuni selargini “in costume” accorsi a rendere omaggio al re. Si noti l’abbigliamento differente delle tre donne: nel secondo dopoguerra solo il secondo modello diventerà identificativo del costume di gala “tipicamente” selargino. Dettata dalle scelte autartiche del regime, antidoto contro la degenerazione culturale prodotta dalla civiltà moderna, la politica ruralista comportò l’esaltazione ideologica delle virtù rurali e della provincia, spinse all’idealizzazione del mondo contadino preindustriale, dipinto come la sintesi delle migliori virtù umane, depositario di valori sani e morali. Per rendere verosimile questa rappresentazione, il regime fascista si affidò alla vasta e capillare opera che poteva essere condotta tramite l’OND. L’Opera Nazionale Dopolavoro, fondata con regio decreto legge il 1 maggio 1925, rientrava
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nella strategia di controllo politico-sociale dei ceti popolari: era un ente voluto dal regime fascista per tenere sotto controllo il tempo libero dei lavoratori, la cui diminuzione degli orari di lavoro concedeva maggiori occasioni di svago. All’interno dell’Ond, nella sezione cultura popolare (il C.N.I.A.P., Comitato Nazionale Italiano per le Arti Popolari), venne istituito nel 1928 un apposito ufficio per sviluppare l’azione folkloristica, avente come obiettivo la realizzazione di iniziative che valorizzassero le tradizioni popolari in generale, quindi sagre, cerimonie, usanze locali, canti e danze folkloristiche, il costume tradizionale. Fu all’epoca e nell’ambito dell’Ond che sorsero i primi gruppi folkloristici; in Sardegna il primo si formò a Quartu S. Elena lo stesso anno in cui furono istituite le sezioni di folklore, è il “Città di Quarto” [vedi Deiana, 2003/2004]. Il saggio di Cavazza [2003] sulle feste popolari durante il fascismo, si rivela particolarmente utile per ricavare un’idea precisa delle caratteristiche del folklorismo fascista. Lo storico ne evidenzia tre funzioni principali: ludica, ideologica, turistica. Poiché il folklorismo era inserito tra le attività ricreative proprie della sfera del tempo libero, quindi non obbligatorie, la prima funzione, essenziale, era quella di fornire un mezzo di svago che attirasse la maggior quantità possibile di popolazione. Al contrario di quanto sostengono i nostalgici delle tradizioni, il lavoro di Cavazza afferma attraverso diversi esempi che la domanda di svago non si traduceva di per sé nella richiesta di folklore, per cui le attività dovevano essere programmate con molta attenzione, cercando quanto potesse andare incontro ai gusti del pubblico. Col tempo, le iniziative del Dopolavoro si concentrarono intorno ad alcune tipologie principali, che configurarono precisi modelli festivi: a) feste progettate dall’alto e diffuse poi a livello locale, in cui il ruolo della propaganda era più evidente; b) feste caratterizzate dall’appropriazione di passatempi e forme di socialità di ambito locale; c) sempre a livello locale, l’invenzione o la riesumazione di feste collegate alla cultura municipale o regionale. L’obiettivo era quello di rievocare tradizioni che mettessero in rilievo le caratteristiche popolari di una città o di un’intera regione. Non potendo contrastare le trasformazioni in atto, si cercava di proporre un’alternativa ideologica, assegnando al foklore la funzione di antitesi del mondo reale, di negazione transitoria del presente, esaltando modelli
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antichi o pseudoantichi. Il fascismo vide nel folklorismo il modo per coniugare il soddisfacimento dei bisogni ludici con l’esigenza di comunicare ed educare i ceti inferiori. La tradizione popolare, opportunamente edulcorata, poteva trasmettere valori interclassisti e di pacificazione sociale, nonché esprimere la coesione sociale di gruppi e comunità. Per riuscire a trasmettere questo messaggio, era necessario che quanto veniva rappresentato fosse credibile, le feste dovevano essere “documenti di vita”, “piccole manifestazioni d’arte fondate sul ricordo di una realtà precisa”. Questo richiese l’utilizzo degli studi di demologia italiana, di cui il folklorismo fascista enfatizzò le componenti populiste: si auspicava il ritorno alla cultura tradizionale del popolo, termine col quale si faceva riferimento esclusivamente alle componenti contadine, in cui si intravedeva il modello societario perfetto. Molti folkloristi italiani furono attivamente coinvolti, sia a livello di studio e di ricerca, sia nella concreta programmazione degli eventi festivi; sfruttando le competenze esistenti non solo a livello accademico, ma anche a livello locale, tra notabilato e ceti medi. Il connubio tra sapere centrale e sapere locale si rivelò vincente: assegnando, nel 1933, ai demologi il ruolo di unici esperti nel campo della riesumazione di tradizioni popolari si riusciva a tenere sotto controllo il contenuto trasmesso nelle feste, e nello stesso tempo, servendosi della conoscenza degli intellettuali locali, si creavano delle manifestazioni profondamente radicate nel territorio, assicurando la riuscita delle iniziative. Un’altra funzione del folklorismo fascista era la promozione del turismo, motivata da ragioni di tipo economico e di immagine. La prima e più importante ragione economica, la mancanza di materie prime e di ricchezze coloniali, convinse il regime fascista a cogliere l’opportunità economica offerta dal turismo straniero, che cercò di incentivare mediante una più efficiente e valida organizzazione dei comitati turistici locali, il miglioramento della rete alberghiera e di quella ferroviaria. L’Enit, Ente Nazionale Industrie Turistiche, aveva, tra gli altri, il compito di valorizzare l’immagine turistica dell’Italia, attraverso l’acquisto di pagine di pubblicità sui giornali stranieri. Ma il turismo diventava sempre più un settore economico rilevante grazie anche allo sviluppo del turismo interno che coinvolgeva ceti medio e piccolo borghesi nella ricerca di vacanze ed evasione. L’organizzazione di festeggiamenti era lo strumento attraverso il quale pubblicizzare le piccole località e i centri periferici, che attirando spettatori dai paesi vicini riuscivano a stimolare i piccoli commerci. Di ogni centro, si cercava di esaltare la tipicità, le caratteristiche che lo rendevano diverso dai centri vicini; una strategia pubblicitaria che esaltava l’identificazione locale, l’amore per il proprio paese.
94 ▪ Tra fascismo e valorizzazione turistica regionale
3.3.1 Analogie tra Matrimonio Selargino e foklorismo fascista La comparazione tra l’Antico Sposalizio Selargino e le caratteristiche del folklorismo fascista delineate da Cavazza, sembra evidenziare analogie consistenti. Innanzitutto, quale migliore occasione di un matrimonio per mettere in scena l’esaltazione ideologica dei valori del mondo rurale tradizionale? Si sfila sulle traccas, si presentano come in trofeo gli attrezzi del mestiere e i prodotti della terra, ci si veste con l’abito dei propri avi. Un mondo contraddistinto dalla continuità con la tradizione, in cui ognuno conosce il suo ruolo e lo accetta: i figli sono subordinati ai genitori, ai quali si devono inchinare per ricevere la benedizione, il lasciapassare che li autorizza ad allontanarsi dalla casa paterna per fondare una nuova famiglia; la nuora è subordinata alla suocera, dalla quale deve aspettare di ricevere le chiavi della nuova casa; la donna sposata è padrona assoluta della propria casa, come dimostrano le chiavi sempre ben in evidenza appese all’altezza della cintola; l’unione matrimoniale è indissolubile, lo simboleggia la catena con la quale vengono uniti marito e moglie, ma la moglie è subordinata al marito, per la disparità nel modo di tenere la catena: lui ne infila un anello nel mignolo della mano destra, lei è cinta dalla catena all’altezza della vita. Altra
caratteristica condivisa
col
modello festivo
dopolavoristico fascista, la
strumentalizzazione della componente religiosa. Il folklorismo fascista prevedeva che i popolani fossero dipinti come spiccatamente religiosi e che si mettessero in secondo piano gli elementi paganeggianti delle tradizioni popolari. L’evento folkloristico sembra raggiungere
il
suo
culmine
nella
celebrazione
ecclesiastica,
posta
anche
temporalmente al centro della manifestazione. Difficilmente comprensibile, se si tiene conto del carattere di pura formalità attribuito allo sposarsi in chiesa - evidenziato dagli studi sulle coabitazioni nel Campidano e sulle usanze matrimoniali - ma ancor più incomprensibile a Selargius, “forse il paese più laico del campidano cagliaritano”, come si evince anche dalla scarsa presenza di preti selargini per tutto il Novecento [Orrù, Desogus, 2001:30]. Il Matrimonio Selargino permette inoltre di venire incontro alle esigenze di istituire una festa che rafforzasse l’identificazione locale, ma senza eccessi. Il matrimonio è selargino in quanto si celebra a Selargius e perché sono presenti alcuni elementi che vengono presentati come tipicamente selargini, ma è giocoforza ammettere che le usanze nuziali selargine sono le stesse di tutto il Campidano e quindi lo stesso evento poteva essere rappresentativo del matrimonio tipico di tanti altri paesi.
Tra fascismo e valorizzazione turistica regionale ▪ 95
Nelle feste fasciste viene concesso uno spazio limitato alla spontaneità dei soggetti perché si temono problemi sul piano dell’ordine pubblico e su quello dell’immagine che si cerca di offrire ai turisti. La celebrazione di un matrimonio vero, che ha validità sacramentale e giuridica, permette di non preoccuparsi del comportamento degli attori principali della rappresentazione, appunto perché non dovranno recitare ma esprimere i loro “veri” sentimenti. Le madri si mostreranno commosse senza che nessuno chieda loro di esserlo, gli sposi saranno seri e composti, più o meno preoccupati del passo che stanno per compiere, gli amici tra la folla grideranno auguri sinceri; insomma, ognuno saprà cosa fare, senza bisogno di tante raccomandazioni. Si pensi a quanto costerebbe ingaggiare degli attori professionisti, impedire di ironizzare sulle lacrime delle finte madri e dei finti figli, tenere a freno l’ilarità della folla su un evento come il matrimonio che di per sé è facile fonte di doppi sensi e battute oscene. Con un matrimonio vero, in ottemperanza delle disposizioni fasciste, si minimizza il senso del gioco
insito
nella
possibilità
di
giudicare
della
correttezza
filologica
della
rappresentazione, mentre si enfatizza il senso di immedesimazione nel ruolo di padre, madre, sposa. Si elimina in questo modo buona parte dell’artificiosità della rappresentazione e a bassissimo costo, a tutto vantaggio della credibilità dell’evento, anche per i turisti, che intuendo la veridicità delle emozioni manifestate, potranno godersi la sensazione di assistere a un vero matrimonio del tempo che fu, e non a una manifestazione creata ad hoc anche per loro. Non appare un caso che il Matrimonio Selargino presenti parte dei requisiti richiesti dal modello festivo fascista. Efisio Salis era un’autorità fascista, che tra il 1928 e il 1929 ricopre il delicato incarico di delegato podestarile a Selargius, ma era anche un appassionato organizzatore di eventi di svago e di spettacolo, ricordato ancora oggi per una famosissima gara di ostentazione di ricchezza a base di fuochi artificiali, in occasione di una festa paesana negli anni Cinquanta. È perciò ragionevole supporre che avesse in mente di accrescere il prestigio del suo paese per mezzo di una festa capace di richiamare curiosi da tutto il circondario, ed è altrettanto ragionevole supporre che conoscesse le direttive inviate ai dopolavoro locali sui modi e gli obiettivi delle iniziative festive: un’iniziativa come il Matrimonio Selargino può benissimo essere stata incubata per anni, in attesa dell’occasione più propizia per venire alla luce. Si ricordi tra l’altro che Selargius durante il fascismo e poco oltre, più esattamente dal 1928 al 1947, aveva perso la possibilità di decidere autonomamente della propria politica culturale, poiché subordinata alle decisioni del comune di Cagliari.
96 ▪ Tra fascismo e valorizzazione turistica regionale
Un altro argomento che rende plausibile ricondurre la manifestazione nel solco della continuità con l’opera di valorizzazione folkloristica di epoca fascista è il fatto che sia stata inizialmente gestita e finanziata dall’Enal, l’ente che nel 1945 prende il posto dell’Ond5, soprattutto se si considera lo scarso ricambio nei vertici dell’organizzazione (segnalato in Deiana, 2003-2004).
3.3.2 La festa dell’Uva D’altronde il racconto degli informatori conferma l’impressione che la passione per il folklore nasca a Selargius proprio nel periodo fascista. Alcune iniziative contribuirono senz’altro a catalizzare l’entusiasmo in questa direzione, ad esempio la “Festa dell’Uva”. L’iniziativa non era la conseguenza di una scelta paesana, al contrario rientrava nella tipologia di feste progettate al centro del sistema e diffuse poi capillarmente in periferia. Fu ideata agli inizi degli anni ’30, non tanto per rispondere a esigenze di svago dopolavoristico, quanto per fornire pubblicità e sostegno al settore vitivinicolo, allora in crisi. Con una produzione ai massimi vertici sardi sia per quanto riguarda il vino comune sia per il vino fino, il settore vitivinicolo rimase per tutto l’Ottocento il settore trainante dell’economia selargina. Nel 1865 raggiunse addirittura il primato sardo assoluto con 25000 hl, primato detenuto sino alla fine del 1800. Ma nel 1881 e 1889 le alluvioni distrussero gli orti, nel 1898 una disastrosa grandinata annientò l’intera produzione agricola (tanto che “fu sospesa la riscossione delle imposte e delle tasse per un giusto riguardo ai contribuenti colpiti dal grave infortunio [Camboni, 1997:125]), agli inizi del 1900 arrivò la filossera, una malattia causata da un afide infestante che distrusse i vigneti; il 23 settembre 1921 una terribile grandinata distrusse tutti i vigneti di Selargius. L’economia selargina, in gran parte dipendente da questo prodotto, crolla; molti sono costretti a emigrare, altri a dipendere dai sussidi comunali.
5
L’Ond si trasforma in Enal, Ente Nazionale Assistenza Lavoratori, col decreto legge n. 604 del 22 settembre 1945. I compiti rimangono sostanzialmente gli stessi. “L’ente si proponeva di promuovere il sano e proficuo impiego delle ore libere dei lavoratori intellettuali e manuali, con istituzioni ed iniziative dirette a sviluppare le loro capacità morali, fisiche, intellettuali. In particolare l’E.N.A.L. si distinse nell’organizzare mense, spacci di generi alimentari, soggiorni per lavoratori e colonie per i loro figli, facilitazioni commerciali, sanitarie, termali, cinematografiche, assicurazioni extra lavoro, buoni acquisto. Vanno inoltre ricordate le iniziative culturali, come la promozione di feste folkloristiche, campionati sportivi, concorsi canori e musicali. L’ente è stato soppresso con la legge 23 dicembre 1978, n. 833 […]” Informazioni tratte dal sito internet: http://xoomer.virgilio.it/miovac/Istituti_beneficenza/enal.html, (ultima visita 22/04/06)
Tra fascismo e valorizzazione turistica regionale ▪ 97
La propaganda fascista a favore della produzione e del consumo del vino non poteva che attirare l’attenzione e dare forza alle aspettative di quanti non avevano ancora perduto il ricordo della ricchezza ricavabile dalla produzione vinicola. La festa dell’Uva, ripetuta più volte, fu un grandissimo successo. Il successo di questa iniziativa ci interessa non tanto per le implicazioni politiche ed economiche di un evento di questo genere a Selargius, quanto per il ruolo assunto dal folklore. Per l’edizione del 1936, Selargius, forse per la prima volta, vide sfilare lungo le sue strade “un lungo corteo folkloristico con le traccas vendemmiali, a guisa della spettacolare sfilata dall’Antico Sposalizio di oggi” [Orrù, Desogus, 2001:83]. Il folklore era parte integrante della promozione, assumendo la funzione di vetrina della ruralità e di garanzia di tipicità. La componente folkloristica della festa dell’Uva era costituita prima di tutto dai costumi tradizionali e poi dai carri vendemmiali, che questa occasione contribuì a mostrare come potessero essere visti in chiave diversa da quella di indicatori di subalternità. Si noti nella citazione il parallelo tra il Matrimonio Selargino e la festa dell’Uva, come pure il ravviso in quest’ultima della “anteprima di una lunga 6
stagione di passione per il folklore” .
3.4 La valorizzazione turistica dell’isola Tra le conseguenze delle scelte autartiche del regime fascista, l’ampliamento dell’interesse per il patrimonio etnografico della Sardegna dette il via alla valorizzazione delle risorse locali. Ma è con l’avvio del turismo, agli inizi degli anni ’50, dopo la ricostruzione e in stretta connessione con l’istituzione della Sardegna come regione autonoma a statuto speciale, che il processo acquista consistenza [Atzori 1997]. Con il primo Piano di Rinascita, varato in questi anni, viene predisposta la costituzione di appositi enti di sviluppo, stimoli e incentivi sia sul piano promozionale che su quello gestionale per la crescita in campo turistico. La prima Azienda Autonoma di Soggiorno e Turismo (AAST) sorge nel 1957 ad Alghero; esempi successivi sono Olbia nel 1968, Santa Teresa di Gallura nel 1972, Sassari nel 1974, Arzachena nel 19757. L’Esit, Ente Sardo Industrie Turistiche (soppresso nel 2006), finanzia la
6
Orrù, Desogus, 2001:83. Dopo quanto detto, appare una coincidenza da approfondire trovare il nome del commerciante di vini Benedetto Meloni tra i dirigenti dell’Enal di Selargius nei primi anni del secondo dopoguerra. 7 Paolinelli, Salierno, La carcassa del tempo. Inchiesta sul turismo in Sardegna, Roma, Antonio Pellicani Editore, 1988 citato in Deiana, 2003/2004
98 ▪ Tra fascismo e valorizzazione turistica regionale
costruzione dei servizi turistici essenziali, quali alberghi e ristoranti8. Prima degli anni ’60, Alghero era l’unica meta turistica della Sardegna, ma nel giro di una decina di anni sorgono poli turistici praticamente dal nulla, grazie anche all’intervento di finanziatori stranieri, come l’Aga Kan Karim in Costa Smeralda9.
3.2 Primi anni ’60, Hotel Capo Sant’Elia, località Calamosca (Ca) [collezione Olinda Melis]. Il direttore dell’Esit Loi Giuseppe spiega all’Aga Khan in visita a Cagliari la funzione della catena. La donna in costume selargino è Licia, sorella di Fedora.
8
Nel giro di pochissimi anni furono costruiti “Alberghi Esit” un po’ in tutta la Sardegna; tra quelli già presenti nei primi anni ’60: San Leonardo (Santu Lussurgiu), Grande Hotel (Alghero), La Spendula (Villacidro), Il Gabbiano (La Maddalena), Miramonti (Tempio), Miramare (Santa Teresa di Gallura), “Albergo Esit” a Nuoro (sul Monte Ortobene). Fonte: L’Italia in automobile, Sardegna, Touring Club Italiano, 1963 9 Riporto a questo proposito uno stralcio dell’articolo sulla visita del presidente della Sardegna Corrias e dell’Aga Kan Karim in Costa Smeralda, apparso su “L’Informatore del Lunedì” del 29/10/62 a p. 9, esattamente sopra l’articolo sulla prima edizione del Matrimonio Selargino: “Si può dire che il nobile rampollo ismailita vive di speranza nell’orrido dominante alle spalle del primo albergo che va sorgendo […]. La Costa Smeralda, per il momento, è lui: si identifica in lui e nei suoi coraggiosi progetti. Per il resto, è mare aperto e vergine, lentischio, roccia che pare fatta come l’involucro dei canoli: a strati, a fasce”
Tra fascismo e valorizzazione turistica regionale ▪ 99
La legge più importante in materia, cui ancora oggi si fa riferimento, è del 1955: “Provvedimenti per manifestazioni, propaganda e opere turistiche”. All’articolo 3 si legge che
L’Amministrazione regionale è autorizzata ad eseguire opere anche non permanenti atte a valorizzare le località di particolare interesse turistico della Sardegna, promuovendo, incrementando ed attuando tutte le iniziative che a tale scopo possono concorrere, come strade di accesso e panoramiche, scavi, sistemazioni speleologiche, alberature e rimboschimenti, servizi igienici, impianti elettrici di trasporto e di distribuzione, autostazioni, impianti sportivi e per pubblici spettacoli, piazzali belvedere, posti ristoro, rifugi, ostelli per la gioventù, campeggi, villaggi turistici ed altri stabilimenti ricettivi [...]. Tali opere sono dichiarate urgenti e indifferibili a tutti gli effetti della legge sulle espropriazioni per cause di pubblica utilità. […]10 Per quanto riguarda la politica culturale inerente il patrimonio etnografico - che qui interessa maggiormente - il merito della classe politica regionale, sollecitata dagli intellettuali locali, fu quello di intervenire concretamente per arginare la crisi delle tradizioni folkloriche. In quest’ottica si registra nel 1957 l’istituzione dell’I.S.O.L.A., Istituto Sardo Organizzazione Lavoro Artigiano, con la quale la Sardegna tutela e valorizza i propri prodotti artigianali inserendoli nel quadro del mercato turistico; ma anche l’attivazione di fondi destinati agli studi demoetnoantropologici. All’articolo 2 della legge citata in precedenza si afferma che:
L’amministrazione regionale è autorizzata ad effettuare le spese necessarie, per promuovere con pubblicazioni, documentari cinematografici e radiofonici, riproduzioni fotografiche, manifesti, indicatori stradali, o con altri mezzi di propaganda, la conoscenza delle bellezze naturali ed artistiche della Sardegna. Tra gli eventi più importanti, sostenuti da questi contributi: nel 1956 la Sardegna ospita il VI “Congresso nazionale delle arti e tradizioni popolari”, nel 1957 viene istituito a Nuoro il “Museo del Costume e delle arti popolari” che nel 1961 ospiterà la “1° Mostra etnografica sarda”, nel 1972 si crea l’Isre, Istituto Superiore Regionale Etnografico, tutt’ora
in
prima
linea
nell’organizzazione
di
eventi
attinenti
alla
sfera
demoetnoantropologica sarda. Per quanto riguarda le feste e le antiche sagre, che venivano rapidamente abbandonate nei centri urbani più grossi, in favore di attività ricreative più “moderne”, si
10
Legge Regionale n. 7 del 21 aprile 1955 tratta dal sito internet www.regionesardegna.it
100 ▪ Tra fascismo e valorizzazione turistica regionale
cercò, dove possibile, di intervenire per adattarle al mercato turistico, finanziando le iniziative più interessanti in questa direzione (articolo 1 della legge del 1955):
Allo scopo di incrementare lo sviluppo del turismo nel territorio della Regione, l’Amministrazione regionale è autorizzata ad erogare contributi e sussidi per: a) turismo scolastico, […]; b) turismo sociale […]; c) manifestazioni pubbliche di grande interesse turistico, che determinano particolare afflusso di turisti nelle località ove la manifestazione ha luogo. L’ammontare della concessione può estendersi all’intera spesa. [corsivo mio] Si puntò alla spettacolarizzazione, ad esempio invitando a partecipare rappresentanze in abito tradizionale del maggior numero possibile di località isolane. È in qualche misura il caso tutte le feste sarde, e in particolare della “Cavalcata Sarda” (a Sassari), che non è sorretta da motivazioni di carattere religioso, devozionale, o di rappresentazione di modi di vita tradizionali: è “semplicemente” la sfilata di un numero ragguardevole di persone in costume tradizionale. È durante il fascismo, fa notare Deiana [2003/04], che si consolida e si perfeziona l’uso di impiegare gruppi in costume per cerimonie in onore di alte cariche dello Stato, come pure di personaggi illustri e importanti, che aveva avuto inizio nel 1899, in occasione della visita in Sardegna di Umberto I e di Margherita di Savoia. La “Cavalcata Sarda” appare in questo senso un modo per non mettere fine a una prassi consolidata e sfruttare al meglio le potenzialità turistiche offerte dalla competizione artistica e estetica tra i gruppi. Proposta per la prima volta nel 1951, in concomitanza con l’organizzazione del XV Congresso Nazionale Rotariano, passerà alla storia come l’evento che segna il lancio turistico dell’isola. Un altro esempio: la sagra di Sant’Efisio a Cagliari. La festa, che si celebra dal 1657, è la perpetuazione del voto fatto dai cagliaritani al santo come ringraziamento per aver liberato la città dalla peste. Prendendo a prestito le parole di Gallini per sintetizzare il nucleo della festa:
centro di ogni interesse è la processione del santo, che si svolge secondo un itinerario ben preciso, dalla sua chiesa a quella di Pula, un paesetto a una trentina di chilometri da Cagliari, sul mare. Qui il santo, che si è trasferito su una portantina dorata e in una sosta intermedia si era messo un abito da viaggio, si cambia vestito, fa tre giorni di vacanza, per poi tornare indietro al suo domicilio abituale e rimettersi, alle porte di Cagliari, l'abito cittadino [Gallini, 2003:47] Dagli anni ’60, la promozione turistica trasforma la processione in sfilata, un’altra grande occasione per mostrarsi ai turisti in abito tradizionale, cavallo e traccas:
Tra fascismo e valorizzazione turistica regionale ▪ 101
S. Efisio è diventato uno dei più grossi richiami turistici, per sardi e stranieri, su cui puntano città e regione, che lo reclamizzano su tutti i dépliant invitanti a visitare la Sardegna. Un tempo, alla processione partecipavano i diversi gruppi di paese, ciascuno contraddistinto secondo i propri costumi da festa: e questo costituiva un solenne momento di riconoscimento, mediato dalla città, delle diverse comunità di paese. Ora, la processione è uno spettacolo organizzato dall'ESIT (Ente Sardo Industrie Turistiche), che sovvenziona i vari gruppi folklorici di paese, perché vengano a sfilare come gli elefanti dell'Aida. Qui, è l'orgia del "pittoresco". Costumi sgargianti, ori, belle donne, maschi a cavallo, la guardia del santo in rossi moreschi costumi, un illividito consiglio comunale costretto a mettersi in frac e tubino […] [Gallini, 2003:48] Le possibilità di ritorno economico e di immagine spinge ogni paese a organizzare un proprio gruppo folkloristico, che rappresenti il paese e le sue tradizioni (di canto e ballo) nelle maggiori feste sarde, ma anche in quelle nazionali e internazionali. Si assiste a un vero e proprio boom dei gruppi folk ovunque in Sardegna11. Le grandi città sono le prime che avviano un discorso di turisticizzazione delle feste: Cagliari con Sant’Efisio, Oristano con la Sartiglia (“una specie di palio che si vince quando il cavaliere infilza con l'asta un anello” [Gallini, 2003:48]) tradizione carnevalesca di cui l’Esit finanzia il recupero a metà degli anni ’50, Sassari con la Cavalcata Sarda, Nuoro con la Sagra del Redentore. Dai centri più grandi a quelli più piccoli: ogni paese aveva almeno una festa che attendeva di essere revitalizzata e/o potenziata. “È raro che un comune, o un centro dell’isola non abbia, nel suo ricordo, un grande santo, o per lo meno, qualche santo medio e piccolo, del quale parlare e fare festa” conferma Spanu [1987:6], ricordando come tra il 1965 e il 1973, molte feste religiose andavano perdendosi “per mancanza di persone che si interessassero alla loro organizzazione”. Certo, la motivazione espressa da Spanu appare piuttosto semplicistica: le feste tradizionali venivano trascurate perché, grazie al “periodo di benessere” di quegli anni, “non si aveva il bisogno dell’aiuto del cielo”. E infatti, spiega, non appena giunta la crisi economica della metà degli anni ’70, “resuscitano le sagre, riportando i fedeli attorno ai templi, che si rianimano, perché sono crollati lo star bene e il mangiar meglio” [Spanu, ibidem]. Di parere contrapposto molti altri studiosi, tra cui Gallini e Atzori, che riconoscono nella
11
Nell’Archivio Storico Comunale di Selargius sono conservate diverse lettere di presentazione di gruppi folk di nuova formazione che chiedono, per farsi conoscere, di poter partecipare al Matrimonio Selargino anche a titolo gratuito.
102 ▪ Tra fascismo e valorizzazione turistica regionale
scomparsa delle feste un segno della crisi delle campagne: mancano sì le persone che si occupino della loro organizzazione, ma non per il troppo benessere, bensì perché costrette a emigrare verso le città industrializzate in cerca di lavoro. Dai paesi è emigrata la generazione di mezzo, cui era affidato il compito di tener viva una tradizione produttiva e culturale, nei paesi rimangono vecchi e bambini, le vecchie feste vengono abbandonate. Secondo questi studiosi, i vari enti turistici e culturali si inseriscono nel vuoto organizzativo creato dalla mancanza di persone e di fondi. Quando le feste vengono riprese, almeno un decennio di silenzio separa la festa come risultato di una cultura contadina 'viva' dal suo recupero. Il folk-revival non si caratterizza quindi come un fenomeno di continuità: le feste attuali sono altro da quello che erano in passato. È cambiata la condizione sociale dei partecipanti, sono cambiate le finalità per cui si opera la festa, sono cambiati i finanziatori. La festa si trasforma in folk-revival, in spettacolo per il divertimento dei turisti. Come direbbe Angioni, “lo spettacolo ha costruito il suo impero sulle rovine della festa”12. Tornando al Matrimonio Selargino, negli anni ’60 l’Enal provinciale di Cagliari decide di puntare (di sua iniziativa o su suggerimento) sulla suggestione che può nascere dalla riproposizione di un ricco matrimonio tradizionale. In questo contesto di rilancio turistico delle tradizioni, non è fuori luogo immaginare che, come mi raccontava la signora di Quartu, l’ente decidesse di indire un bando di finanziamento per la proposta festiva che meglio aderiva ai propri obiettivi in materia di turismo. A questo punto si può anche ipotizzare che un giovane quartuccese risvegliasse in Efisio Salis l’idea di riproporre sotto forma di spettacolo il ricordo dei ricchi matrimoni da cui era rimasto impressionato nei tempi della sua infanzia. Ma appunto, si tratta di supposizioni: per avere delle risposte certe bisognerebbe trovare informatori più “informati" oppure rovistare tra le carte dell’Enal, se non fosse che neppure l’Assessorato Regionale al Turismo e l’Ente Provinciale per il Turismo di Cagliari sappiano dove si trovano13. Nell’archivio comunale di Selargius si trovano diverse lettere dell’Enal indirizzate al Comune, e relativamente
12
Introduzione di Angioni in Deidda, Della Maria, 1987 Le persone interpellate al numero verde non hanno saputo fornirmi indicazioni riguardanti se e dove sia conservata la documentazione prodotta dall’ente. In effetti, però, non avevano idea neppure di cosa fosse l’Enal.
13
Tra fascismo e valorizzazione turistica regionale ▪ 103
al 1962 la segnalazione di una lettera con data 25 ottobre, il cui oggetto è indicato come “Festeggiamenti patronali San Lussorio”, ma della lettera non c’è traccia14.
3.3 Il gruppo folk selargino a Roma, primi anni ‘60 [collezione Olinda Melis]. Tra gli altri la capogruppo Olinda Melis (terza in piedi da sinistra) con alla sua destra Gianni Orrù (primo in piedi a sinistra) e alla sua sinistra il direttore dell’Enal di Cagliari dottor Gavino Manca, Mariolina Cannuli (quarta in piedi da destra) e Renato Tagliani (sesto in piedi da destra), presentatori Rai.
14
Della lettera è stata reperita data e numero di protocollo, per cui non dispero possa essere rintracciata una volta completato il riordino dell’archivio.
104 ▪ Tra fascismo e valorizzazione turistica regionale
4 La messa in scena della “selarginità”1 L’Antico Matrimonio Selargino:“una giornata speciale per tutti i Selargini chiamati a diventare protagonisti di una così importante ricostruzione storica. E Selargius, divenuta ormai centro residenziale per i cagliaritani, torna ad essere la Selargius dei Selargini autentici, con i loro riti e i loro costumi carichi di oro e di ricami.” [commento di Salvatore Sardu nel documentario “Antico Matrimonio Selargino”]
4.1 Da borgo del contado a città dell’hinterland 4.1.1 L’economia selargina nell’Ottocento Poco prima della metà del XIX sec., quando l’Angius visita Selargius, 2658 persone, distribuite in 644 gruppi familiari, si occupavano prevalentemente di orticoltura, agricoltura e commercio:
la massima parte dei selargini sono dediti all’agricoltura, gli altri, che saranno una cinquantina al più, sono applicati a vari mestieri. I pastori sono non sono più di dieci o quindici che pascolano pochi branchi di pecore2 È sempre l’Angius a rilevare che i terreni “sono molto idonei alla coltura de’ cereali”, “le specie ortensi sono coltivate con cura, perché producono assai vendute nella città [Cagliari], si seminano soprattutto grano, ma anche orzo, fave, legumi e, in minore quantità, lino”. Un’altra fonte di reddito è data dalla coltura “estesa e fatta con diligenza” degli alberi da frutto, mandorli, peri, albicocchi, susini, peschi, da cui si guadagna molto “o affittando il prodotto ai rigattieri cagliaritani, o vendendolo essi stessi nella città”. “La vigna è prosperissima e le vendemmie sono abbondantissime”: si contavano circa “40.000 filari di viti” che arrivavano a produrre circa “4.500.000 litri di mosto”; la quantità dei “vini gentili, moscato, cannonau, malvasia, ecc.” era stimata intorno ai 40.000 litri. I campi e i poderi erano circondati dalle siepi di fichi d’india, la cui abbondante produzione spontanea costituiva “parte del vitto ai poveri per due o tre mesi”, un’altra entrata “per quella parte che si può vendere nella città, dove trasportasi in grandi cestoni sul basto de’ cavalli”, cibo destinato all’ingrasso dei maiali, tenuti nei
1
“Selarginità” è un termine che compare più volte nei discorsi degli informatori per indicare l’insieme delle qualità, l’essenza dell’essere selargini. 2 Angius, Casalis 1849: 793. Le citazioni immediatamente successive, quando non specificato altrimenti, sono sempre tratte dalla stessa voce (Selargius) del dizionario.
cortili e poi venduti. La quantità di formaggio prodotta dalle poche pecore era minima e consumata in loco, così come la produzione di miele. La ricchezza del paese era dovuta alla fertilità dei campi, che tuttavia necessitavano di una cura continua a causa dell’aridità del suolo. Di passaggio a Selargius negli anni ’30 del XIX sec., Valery [1837, ediz. 1996:165] definisce i selargini “ortolani intelligenti” poiché riescono a ottenere frutta e ortaggi tanto “saporiti” e “apprezzati” quanto quelli che si ottengono da terreni migliori. I prodotti della terra venivano rivenduti a Cagliari, con alti margini di profitto, cosicché “sono moltissimi quelli che vivono in qualche agiatezza”. I paesi del Campidano rappresentavano per Cagliari le principali fonti di rifornimento agricolo: Quartu Sant’Elena era specializzata nelle colture viticole, così come Monserrato e Pirri (dalla seconda metà dell’800 anche Selargius), Sinnai nella produzione del mandorlo, Settimo nella coltura del grano. Alcuni anni più tardi, nel 1858, Della Marmora conferma Selargius come il centro orticolo più importante del Campidano: “gli abitanti si dedicano in particolar modo all’orticoltura; sono loro che forniscono al mercato di Cagliari la maggiore quantità di legumi e di verdura” [Della Marmora 1860, ediz. 1995:187].
4.1.2 Boom demografico e abbandono dei campi Agli inizi del Novecento la popolazione di Selargius era stimata sui 3000 abitanti, che raddoppiano negli anni ’40, triplicano alla fine degli anni ‘60, quadruplicano nei ‘70, quintuplicano pochi anni più tardi. L’aumento della popolazione tra il 1971 e il 1981 è, in termini percentuali, un record in Sardegna e uno dei valori più alti in Italia. Nel 2006 si è giunti alla soglia dei 30000 abitanti, il che significa che la popolazione è decuplicata nel giro di soli cento anni. Analizzando i dati si nota che la crescita della popolazione non è stata costante durante il secolo: nei primi 50 anni la popolazione “semplicemente” raddoppia, passando dalle 3393 unità del 1901 alle 6916 del 1951, nella seconda metà del secolo cresce a ritmi esponenziali. La causa della abnorme crescita sono i flussi migratori convergenti verso Cagliari. Negli anni del boom economico gli abitanti dei paesi limitrofi presero ad abbandonare le loro terre per andare a trovar fortuna nelle città, soprattutto Cagliari, in forte sviluppo. Il forte aumento della popolazione di Cagliari cominciò ad interessare anche i centri del suo circondario, Quartu, Assemini, Capoterra.
106 ▪ La messa in scena della “selarginità”
Selargius, in particolare, come detto in precedenza, era dotata di ampie superfici di campagna fertile, abbandonate da contadini e ortolani, che diventarono presto grandi spazi edificabili.
4.1 Elaborazione grafica dell’autrice sulla base della “Carta del territorio” in Camboni (a cura di), 2000:6
Nero Verde Giallo Blu Rosso
- Delimitazione estensione comune di Selargius - Delimitazione estensione abitato agli inizi del Novecento “ “ “ negli anni ‘30 “ “ “ agli inizi anni ‘60 “ “ “ attuale
La messa in scena della “selarginità” ▪ 107
0
5000
1575
982
1580
986
1590
994
1600
1003
1605
1005
1606
998
1610
1011
1620
1020
1630
1028
1640
1037
1650
1046
1660
1063
1670
1072
1680
1094
1688
1080
1700
1163
1710
1195
1720
1228
1728
1256
1730
1264
1740
1305
1750
1347
1751
1352
1760
1436
1770
1536
1775
10000
Popolazione 15000
20000
25000
30000
1849
1780
1643
1790
1758
4.2 Elaborazione dell’autrice sulla base dei dati contenuti in: Camboni (a cura di) 2000; Orrù, Desogus, 2001; Cordeddu, 2002
108 ▪ La messa in scena della “selarginità”
Popolazione 0 1845
5000
3215
1863
3125
1870
2834
1871
2900
3393
1903
3370
1908
3782
1911
3780
1921
3856
1931 1936 1951 1961 1963 1965 1971 1982 1985 1989 1991 1995 1996 2001
20000
25000
30000
3099
1901
1929
15000
2658
1861
1881
10000
4000 4351 4668 6916 8768 8074 8768 12110 18950 20429 22000 23356 26000 27000 28100
2005
4.3 Elaborazione dell’autrice sulla base dei dati contenuti in: Camboni (a cura di) 2000; Orrù, Desogus, 2001; Cordeddu, 2002
La messa in scena della “selarginità” ▪ 109
Dati del 1961 sulle famiglie residenti, divise per ramo di attività economica del capofamiglia
Numero famiglie
Totale persone
Costruzioni
563
3187
Industrie estrattive e manifatturiere
211
1129
Agricoltura, foreste, caccia, pesca
183
789
Commercio
133
618
Trasporti e comunicazioni
108
575
Pubblica amministrazione
107
499
Servizi
73
324
Altro
25
105
4.4 Dati tratti da Orrù, Desogus, 2001:162 Nel 1961, un secolo dopo le osservazioni dell’Angius e un anno prima della nascita del Matrimonio Selargino, i dati sulle famiglie residenti, divise per ramo di attività economica del capofamiglia, mostrano come l’agricoltura avesse perso il suo primato storico nell’economia selargina. Il settore economico principale è ora quello edilizio. Le motivazioni: le opere di ricostruzione postbellica, la fuga dalle campagne, l’inurbamento di massa che coinvolgevano Cagliari e il suo hinterland, richiedendo manodopera continua. Nel giro di quarant’anni, tutto il Campidano di Cagliari è sconvolto dalla crescita demografica e dalla cementificazione selvaggia. Sinnai, Maracalagonis, Settimo San Pietro, Quartu, Quartucciu, avevano negli anni ’60 una popolazione che oscillava dai duemilacinquecento abitanti ai seimila, con l’eccezione di Quartu Sant’Elena che ne censiva venticinquemila. A distanza di soli venticinque anni, il censimento del 1985 mostra un divario che cresce in modo non fisiologico perché si passa dai 5.192 abitanti di Settimo San Pietro ai 60.185 di Quartu Sant’Elena. I fattori economici e demografici modificano profondamente il tessuto originario, l’antropizzazione massiccia stravolge il litorale di Quartu così come le aree marittime di Maracalagonis e di Sinnai. Sin dall’immediato
dopoguerra
si
scorge
un’evoluzione
che
subisce
gli
influssi
dell’accentramento degli agglomerati urbani, seguendo un processo massificatorio ed espansivo che gravita attorno al capoluogo senza un progetto unitario ed organico.
110 ▪ La messa in scena della “selarginità”
Recentemente lo scrittore cagliaritano Giorgio Todde [2006:30] ha così scritto su questo fenomeno:
Il fenomeno dell’inurbamento feroce diventa, dopo la guerra, una causa decisiva nelle scelte quasi involontarie degli amministratori di allora. Occorreva accogliere e, per conseguenza, occorreva costruire. E per costruire si sono distrutti e consumati i luoghi. Occorreva collegare, non importa che ci fosse uno stagno immenso di mezzo. Occorreva costruire, non c’era il tempo di formulare un disegno, un’idea. […] Ed ecco, un po’ più in là, l’hinterland che ha sfigurato un piccolo mondo di paeselli. Quartu paga la violenza della necessità più di ogni altro borgo del contado e crea le premesse per un deterioramento oggi irrimediabile. Pirri e Monserrato perdono in poche decine d’anni ogni traccia dell’origine rurale e si trasformano in un alterato e nuovo tessuto urbano e sociale. I paesi vicini vengono coinvolti in questo processo espansivo ed incontrollato. E una metastatica bruttezza ricopre ogni cosa. In poche diecine d’anni si crea un brodo urbanistico di depressivo degrado. Lentamente, in sordina, si abbandonano gli antichi mestieri del fabbro (su ferreri), il costruttore di carri (su maist’e garru), il sarto (su maist’e pannu), il ciabattino (su sabatteri), il pellaio (su peddaiu). Spariscono o non vengono valorizzate in modo adeguato le attività produttive legate alla tradizione della tessitura e alla produzione delle salsicce. Dal 1971 al 1991, raddoppiano i lavoratori nei settori industriali, rimanendo però quasi stabili in termini percentuali perché anche la popolazione era raddoppiata. Diminuisce, all’interno della categoria, la percentuale degli operatori edili: 1005 nel ’71, 1228 nel ’91, poiché “il vigore costruttivo si andava indebolendo in relazione alla esaurita fase di costruzione post-bellica di Cagliari” [Orrù, Desogus, 2001:216]. Ma il dato più notevole è l’esplosione, nel giro di vent’anni, delle attività della pubblica amministrazione, del commercio e dei servizi, che trasformano Selargius in una piccola città a prevalente economia terziaria.
Data del censimento
Num. addetti agricoltura
Num. addetti industria
Num. addetti commercio
Num. addetti pubblica amministrazione
1971
137
1633
599
326
1981
134
1943
1115
1907
1991
97
3700
1445
3177
4.5 Dati contenuti in Orrù, Desogus, 2001:217
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Della Selargius ortofrutticola non rimane più niente. La funzione di rifornimento agricolo è ora assolta dai paesi dell’entroterra campidanese: Monastir, San Sperate, Decimo, Villasor. Gli ultimi orti a nord-est del paese, nelle zone di Santu Nigola e Bi’e Settimu, sono spariti per la scelta di attuare un piano industriale nella zona agricola più specializzata del paese o perché diventati aree edificabili. Il forte exploit della popolazione è anche il risultato dell’estendersi dell’abitato alle borgate di Paluna-San Lussorio, Cannelles, Su Coddu, Santa Lucia, che perdono del tutto la loro precedente funzione di porzioni di fertile agro. I campi rimasti sono per lo più incolti oppure seguiti nel tempo lasciato libero dalle altre attività lavorative.
4.1.3 L’abbandono delle feste tradizionali3 Un altro segno importante del mutamento dei tempi è il graduale ma inesorabile abbandono delle feste comunitarie, feste per lo più di natura religiosa. Oltre alle feste per le ricorrenze liturgiche tradizionali, come il Natale, la Pasqua e Pentecoste, c’erano le feste dei santi patroni, l’Assunta, la Madonna d’Itria, San Lussorio, S. Antonio e S. Giuliano. Con il passare del tempo le processioni si fanno sempre più corte, la partecipazione di folla minore, si eliminano elementi prima indispensabili quali palii, canti, balli, gare poetiche. La prima in ordine temporale era la festa di S. Antonio Abate, Sant’Antoni de su fogu, il prometeo cristiano che scese all’inferno per rubare il fuoco nascondendolo nel bastone di ferula. La sera del 16 gennaio ci si raccoglieva intorno a un grande falò purificatore nel sagrato prospiciente la chiesetta dedicata al santo, e si distribuivano le arance benedette. I fogaronis, i falò, venivano preparati anche per la festa di San Giovanni (23 giugno), per quella di San Pietro e quella di San Giuliano. I falò prima di essere accesi dovevano essere benedetti da un sacerdote. Per i falò di Santuànni, il combustile selargino era composto da ramadùra, cioè un composto di fieno, foglie di vite e fiori secchi, soprattutto rose e garofani. I falò potevano essere saltati, diversamente dagli altri paesi del circondario, da uomini, donne (coi capelli sciolti) e bambini, sollevati da quest’ultime, allo scopo di allontanare le malattie. Sempre a scopo protettivo veniva
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Testi consultati a cui si rimanda per maggiori approfondimenti sulle feste selargine del passato: Agus, 1994; Camboni V. in Camboni G. (a cura di), 2000; Orrù, 1984; s.a. Guida illustrata turistica commerciale di Selargius, 2002
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esposto di fronte al fuoco il corredo. I falò erano presenti anche alla vigilia di San Giuliano, Sanctu Iulianu conti, cavaliere e cacciatore. La festa era organizzata da due obrieri, eletti annualmente, che avevano il compito di accompagnare la processione, organizzare i divertimenti e il rinfresco. La festa per San Antonio Abate dava inizio al Carnevale. La sera del martedì grasso, martis de agoa, si celebrava il funerale del Carnevale, un fantoccio che veniva portato su un carretto funebre trainato da un asinello e che a differenza di altri paesi, non veniva bruciato o distrutto. La particolarità di Selargius era costituita dal corteo composto da una folla di uomini tutti vestiti di bianco e col capo incappucciato, recanti in mano candele adornate con carta variopinta. Il carnevale terminava con la Quaresima, rappresentata da un fantoccio dalle sembianze di donna vestito di viola, trasportata per il paese il mercoledì delle ceneri, merculis de cinixu, in assoluto silenzio. Venti giorni prima della Pasqua si preparava su nenniri, semi di grano fatti crescere nel cotone imbevuto d’acqua e lasciati al buio per mantenere il colore bianco dorato, che venivano benedetti in chiesa il giorno della Resurrezione. Legata in modo particolare al mondo contadino la festa del 2 febbraio per sa Candelora, che consisteva essenzialmente in una processione e in una benedizione in chiesa. La cerimonia era uno dei tanti esempi di sincretismi cristiani: l’elemento pagano, legato alla previsioni circa la fertilità della terra, era stato incorporato nel richiamo cristiano all’ingresso nel tempio della Madonna dopo il parto. La cerimonia ricordava questo avvenimento con una processione in cui sfilava il simulacro del bambin Gesù e nel quale erano presenti due donne preposte al compito di recare una in mano una coppia di tortorelle e l’altra una candela bianca. La candela, offerta alla Madonna, indicava la futura buona o cattiva annata a seconda che rimanesse o meno accesa. La festa per S. Lussorio, Santu Lusciori, era in passato una delle sagre più importanti del Campidano perché richiamava un gran numero di fedeli attirati dall’indulgenza concessa nel 1619 da Paolo V a chiunque nel 21 agosto (anniversario del martirio del santo) si fosse recato presso questa chiesa a pregare. Era una festa di campagna, perché sino a pochi anni fa la chiesa si trovava in periferia, lontana dal centro abitato, mentre adesso ne è stata quasi inglobata: i fedeli vi si recavano sulle traccas, si cucinava all’aperto, si dormiva nel porticato davanti alla chiesa. Dopo un periodo di abbandono e il restauro dell’antica chiesetta, la festa è stata recuperata negli anni ’90 con l’organizzazione del gremio di San Lussorio, che l’ha spostata dall’ultima domenica
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di ottobre al 21 settembre. Nel giorno della festa il simulacro del santo, insieme a quelli dei santi Cesello e Camerino, vengono portati in processione dalla chiesa dell’Assunta su un ottocentesco cocchio dorato, seguito da un gran numero di cavalieri su cavalli bardati a festa e di affiliati delle confraternite paesane, vestiti con tonache bianche e mantelline nere. Un’altra festa che ha perduto la ricchezza di un tempo, ma che è diventata la festa religiosa più importante, è la celebrazione del 15 agosto per Maria Vergine Assunta. La statua della vergine dormiente, reminescenza degli influssi della chiesa bizantina sulla religiosità sarda, viene adagiata sul suo lettino su un carro a buoi oppure portata a spalla dagli obreri, avvolta da un velo bianco ornato di pizzi, che una volta veniva impreziosito coi gioielli offerti dai più ricchi. Durante la processione si recitava il rosario in sardo e si cantavano i canti sacri. Per la festa si correva il palio. La festa di S. Isidoro celebrata da is messaius, i contadini, il lunedì dopo Pentecoste, è ridotta ormai a semplice rito religioso. Il giorno seguente, il martedì dopo Pentecoste, si festeggiava la Madonna d’Itria nella chiesa dell’Assunta dove si conserva un’icona del 1768 a lei dedicata. Valery [ediz. 1996:165-166], partecipando alla festa nella prima metà dell’Ottocento, così la descrive:
Al posto del solito orpello delle chiese italiane, la chiesa, tutta addobbata, mandava il profumo dei grandi rami di mirto oltreché delle foglie di menta e delle erbe aromatiche di cui era rivestita. […] Nella piazza della chiesa i buoi adorni di immaginette, di canne, di nastri e con arance e mazzolini di fiori piantati sulle corna in gran parte dorate, formavano una pesante fila che doveva precedere la processione. Quest’ultima fu straordinaria: al seguito dei buoi scortati dai bambini che portavano fronde c’erano, davanti alla croce, due cavalieri che tenevano la bandiera e camminavano con molta abilità a ritroso, allo scopo di non dare le spalle alla croce. Le donne, che seguivano, cantavano alternandosi con gli uomini i pater e le ave in dialetto sardo al suono della nazionale launedda. […] Subito dopo l’uscita dalla messa, come si usa nelle feste sarde, sulla piazza cominciò un gioioso e immenso ballo tondo. Di questa festa resta solo la celebrazione sacra voluta dalla famiglia Putzu, a cui partecipa una ristretta cerchia di fedeli, anche se negli ultimi anni la Confraternita della Madonna d’Itria si sta impegnando per il suo ripristino.
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4.1.4 Appendici di Cagliari? È nel pieno di questi stravolgimenti che emerge, prima silenziosamente, poi sempre più prepotentemente, il dubbio: se i paesi del Campidano esistano ancora come realtà sociali a sé stanti o siano diventate tante appendici di Cagliari. Da una parte, per indicare i paesi limitrofi alla capitale si diffonde l’espressione hinterland, circondario di Cagliari, dall’altra si comincia a parlare di identità, di difesa delle tradizioni, di resistenza all’omologazione. Uccia Agus, pubblicando negli anni ’90 i risultati della ricerca sul campo da lei condotta negli anni ’60, per documentare le tradizioni popolari campidanesi, si rammarica della scomparsa quasi completa di tutto ciò che era riuscita a registrare:
il processo di massificazione e dell’irrazionale antropizzazione ha prodotto, come fenomeno indotto, la omologazione del costume. Un fattore comune a tutte le aree urbane, ma che si sottolinea perché le usanze dei nostri centri sono oramai scomparse o, se pur qualche traccia sopravvive, è frutto non più di un vissuto etnico, ma di sopravissuto per scopi folkloristici e turistici [Agus, 1994:9-10] Dello stesso parere Antonio Romagnino, che presenta la ristampa del libro di Lucio Spiga sulla storia e le tradizioni di Quartucciu come “il racconto di una resistenza”, un invito a non dimenticare:
non basta fermarci agli aspetti esteriori, a fermarsi lì, alla constatazione che le lolle sono sparite o quasi. E che gli orti e i giardini che pausavano l’abitato hanno ceduto al cemento o al mattone. Importa di più, superare il cancelletto […] ed entrare risoluti nelle case. […] Che cosa avverrà di Quartucciu, ma anche di Pirri, Monserrato, Selargius? […] è in agguato un’omologazione di Fatto. È come se il Campidano ricevesse il colpo di grazia, rimanesse ancora solo come una pianura fra i monti e il mare, ma senza la gente specifica che l’ha abitata nei secoli ed ancora la abita4 L’analogia più appropriata per descrivere Cagliari nella mente degli intellettuali locali - o perlomeno di quelli identificati come tali - è paragonarla a una piovra che allunga i suoi tentacoli per inglobare i paesi circostanti, alla ricerca soprattutto di spazi per la sua popolazione. Riappare lo spettro della perdita dell’autonomia. Nel 1928, un decreto legge voluto da Mussolini al fine di creare la grande Cagliari, stabiliva la fine dell’autonomia del comune di Selargius, così come dei comuni di Pirri, Monserrato e Quartucciu, tutti
4
Presentazione di Romagnino in Spiga, 1996:7-8
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aggregati a Cagliari, che aggiunse alla propria popolazione circa 20000 abitanti, diventando così artificiosamente una città di 100.000 persone [vedi Dentoni, Serreli, 2005]. Già nel 1934 e nel 1935 vennero presentati degli esposti che richiedevano la ricostituzione del Comune e immediatamente dopo la caduta del fascismo, nel 1945, Selargius fu il primo centro del gruppo di comuni aggregati a Cagliari a riproporre la sua richiesta di autonomia, che venne approvata solo nel 1947. Selargius recupera la sua autonomia amministrativa, ma nel giro di pochi anni rischia di perdere quella culturale. Orrù [1984] identifica nella scomparsa del gioco di sa reinedda, gioco di squadra soprattutto selargino, “il netto trapasso di una civiltà, verificatosi a cavallo tra gli anni ’50 e ’60”; sa reinedda è il simbolo della vita vissuta all’interno del paese, la sua scomparsa trasforma gli ultimi giocatori in testimoni della fine di un’epoca:
Quella che io chiamo la cultura della Reinedda fu l’ultimo colpo d’ali di una comunità morente, comunità che, intesa come entità particolare, celebra, oggi anni ‘80, la sua quasi totale estinzione Selargius è minacciata anche della perdita dei propri confini, si teme che il capoluogo finisca per incorporare nella sua giurisdizione il quartiere di Su Planu, a causa della presenza di una serie di condizioni, tra cui la continuità territoriale e la tipologia costruttiva, che indirizzerebbero in questa direzione. Uno degli aspetti che più colpisce in questa rivoluzione nelle forme di lavoro e nella popolazione, è infatti la continuità territoriale creatasi tra Cagliari e Selargius. Ciò è dovuto da una parte alla strana forma dell’area
comunale,
il
cui
incunearsi
nell’area
cagliaritana
è
l’esito
storico
dell’appartenenza alla baronia di San Michele, dall’altra alla decisione del coniglio comunale, nel 1974, di trasformare una zona agricola dell’estrema periferia del paese in area edificabile. Il quartiere di Su Planu, nato a ridosso del colle di San Michele e dell’ospedale Brotzu di Cagliari, è oggi una borgata di oltre 6000 abitanti.
4.1.5 La reazione selargina Probabilmente senza questa coscienza del nostro essere selargini […] la nostra comunità morirà in quel suburbio cagliaritano, che sta disanimando le antiche e nobili popolazioni del Campidano [Orrù, Desogus, 2001:197] È difficile comprendere se i discorsi sull’identità locale in ambito selargino vadano analizzati criticamente in quanto discorsi che legittimano delle pratiche sociali ricorrendo a una retorica abbastanza stereotipa oppure, al contrario, se siano state le pratiche sociali a produrre tale discorsi. In altre parole, è difficile comprendere se i
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discorsi sull’identità locale siano il movente oppure il risultato delle iniziative in campo politico e culturale. Attualmente è certamente indubbio che il linguaggio e gli argomenti dell’identità hanno assunto la forza di Verità, ovvie e incontrovertibili, un insieme di luoghi comuni talmente abusato da essersi trasformato in discorso standard buono per tutti gli usi, dalla presentazione di una mostra alla legittimazione della gestione della spesa pubblica. Ma era così anche negli anni ’70? Quanti parlavano di interessi selargini, quanti sostenevano l’importanza di tramandare le tradizioni locali, non erano piuttosto accusati di voler soffocare lo sviluppo del paese? Mi sembra che l’uso come arma politica del tema della salvaguardia dell’identità locale sia una scoperta piuttosto recente, la cui forza deriva, da una parte, dall’essere un tema “alla moda” a livello mondiale (per cui il sindaco può citare “Bauman” e “difesa della selarginità” nello stesso discorso), dall’altra dalle passate scelte politiche e culturali del paese, una solida base d’appoggio per le rivendicazioni identitarie attuali. Se Selargius può ancora considerarsi un’unità politica e culturale autonoma - al contrario per esempio di Pirri, diventata a tutti gli effetti frazione di Cagliari - è perché ha alle sue spalle iniziative che l’hanno immessa (quanto consapevolmente?) nella direzione, che in seguito si è rivelata vincente, della valorizzazione del locale. Sin dagli anni ’70 tale politica, è portata avanti da un preciso gruppo di selargini, costantemente attivi in tutte le più importanti associazioni culturali del paese. Dai riferimenti indiretti raccolti sul campo, mi sembra di poter interpretare la storia selargina come se - di fronte all’inarrestabile numero di immigrati sardi che si stanziavano in cerchi concentrici intorno al paese, occupando tutte le aree a mano a mano che venivano dichiarate edificabili - i selargini residenti in quello che prima era l’intero paese (e improvvisamente si svelava essere diventato il centro storico), scoprissero la necessità di riunirsi tra loro, impegnandosi attivamente, sia direttamente in politica, sia indirettamente tramite le associazioni culturali, per cercare di limitare le possibili conseguenze negative delle trasformazioni vissute dal paese. Rispetto ad altre distinzioni, come quella di condizione sociale e grado di istruzione, la tradizionale distinzione tra selargini e non-selargini, è andata rafforzandosi sempre più, diventando uno dei criteri imprescindibili di selezione per le cariche più importanti. Durante la ricerca è capitato spesso che mi fosse suggerito di non “perdere tempo inutilmente” andando a parlare con delle persone che, nonostante risiedano a Selargius da oltre vent’anni e abbiano dimostrato concretamente il loro attaccamento al
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paese, “non possono capirne la realtà in quanto non selargine”. È particolarmente sconcertante sentire queste osservazioni a proposito della persona che meglio dovrebbe conoscere il paese, il sindaco, ma lo è altrettanto scoprire che i destinatari di queste osservazioni non mettano in discussione la validità della distinzione, anzi la accettino, dichiarando esplicitamente la loro (presunta) inadeguatezza nel parlare di cose selargine. Mi sembra dunque verosimile parlare di reazione selargina riferendomi a un ristretto gruppo di selargini, che dagli anni ’70 in poi, hanno più o meno consapevolmente cercato di mantenere vivo quel sentimento di selarginità messo in crisi dalla prossimità con Cagliari. Si reagisce, in primo luogo, cercando di attenuare la ineliminabile dipendenza dal capoluogo, creando i presupposti per attività economiche in loco e strutture protettive e di difesa come i piani urbanistici in grado di prevenire gli scempi della costruzione disorganizzata. A metà degli anni ’80 viene varato un piano di valorizzazione agraria e di sistemazione urbanistica, per utilizzare al meglio le restanti aree di campagna5. Qualche anno più tardi si realizza un polo industriale per investimenti produttivi (P.I.P.), di circa 70 ettari, destinati in maggioranza alla piccola industria e il restante ai laboratori artigiani, in cui sorgono aziende che producono mobili e infissi, marmi e mattonelle, lavorano l’alluminio e il ferro, carne e latticini, lavorano nel settore dei trasporti. Dal punto di vista culturale, un’ottima giustificazione per esaltare le proprie peculiarità deriva dall’importante scoperta, nel 1981, di un insediamento prenuragico risalente alla fine del IV millennio a.C. nell’area di Su Coddu. L’occasione per inserire il paese nel circuito dell’interesse internazionale viene sapientemente sfruttata, organizzando, tra il 1985 e il 1987, diversi convegni in cui parteciparono prestigiosi nomi della cultura sarda, tra cui l’Accademico dei Lincei prof. Lilliu e ospiti internazionali. Viene fondato il Gruppo Archeologico Selargino. Tra le altre forme di associazionismo culturale il Circolo Culturale Selargius, il Centro culturale Sa Domu. Nel 1984
la dottoressa Olga Deiana fonda la Luc, la Libera
5
Per quanto riguarda la prima, l’iniziativa non ottiene però il successo sperato a causa dell’eccessivo frazionamento della proprietà, mai risolto. Si è parlato a lungo della nascita dell’impresa agricola in forma associativa, in grado di accorpare le aree per unità aziendali economicamente gestibili, ma non si è mai andati molto oltre le parole. La decisione di svendere all’Enel 11 ettari di ottima campagna per la costruzione di una centrale elettrica è stato un altro segnale della debole volontà politica di investire seriamente nel ritorno a una produzione agricola di forte rilevanza economica.
118 ▪ La messa in scena della “selarginità”
università del Campidano. Si portarono avanti diversi tentativi di creare una rivista mensile di paese (ad esempio, “Il Selargino” nel 1985). Negli anni ’90 viene fondata l’associazione la Sel&Sar (Selargius & Sardegna) che fu promotrice di incontri su temi riguardanti la storia, la lingua e la cultura sarda e organizza il concorso di poesia in lingua sarda “Campidanu”. Si moltiplicano gli studiosi locali, si comincia a pubblicare testi dedicati esclusivamente alle peculiarità del paese; prima piccole ricerche, portate avanti dalle scuole o da studiosi sovvenzionati dalle associazioni locali, poi ricerche sempre più vaste e approfondite che sfociano nella pubblicazione del 1997 del volume collettaneo Selargius, l’antica Kellarious, seguito nel 2001 da Cent’anni, storia di Selargius nel ‘900, nel 2002 da Ceraxus (Selargius).Identità,memoria,progetto, nel 2005 Selargius nella storia. Proteste amministrative e sociali della prima metà del XX secolo. Dalla metà degli anni ’70 (con la fondazione della Pro Loco) a oggi è tutto un pullulare di mostre, convegni, concerti, il cui obbiettivo dichiarato è “recuperare i valori perduti, riscoprire la propria identità come popolo e come paese, conoscere la propria storia” [Orrù, Desogus, 2001:146]. Come gli ultimi studi antropologici relativi al patrimonio culturale (vedi Palumbo 2003) hanno messo in evidenza, la storia locale, il folklore, la tradizione, costituiscono una delle risorse più importanti ai fini della definizione di una identità collettiva. Il patrimonio culturale starebbe alla definizione di una identità collettiva nazionale, di paese, regionale, ecc., così come il possesso inalienabile di sé sta alla definizione del soggetto occidentale. La tradizione costituirebbe la risorsa meno sospetta per garantire la complicità sociale, in quanto “insieme di beni e di pratiche” la cui “apparente” perennità lo fa immaginare dotato di un valore indiscutibile, e quindi fonte di consenso collettivo, al di là delle divisioni. La scelta di cosa sia tradizionale in un luogo o in una comunità dipende dal contesto, in quanto la scelta dei referenti per la rappresentazione di sé è frequentemente di natura oppositiva o reattiva; l’idea di una comunità non può esistere in assenza di una qualche differenza, identità e tradizioni non sono semplicemente diverse, ma costruite in opposizione alle altre. Nel caso di Selargius, in cui il fine è quello di distinguersi come unità a sé stante, mantenere un’identità culturale distinta (sia nei confronti sia di Cagliari, sia dei paesi del circondario) per conservare la propria autonomia politica e amministrativa, questo significa puntare su quelle risorse che consentano di riconoscere una località come comunità. Un luogo, cioè, in cui le persone non siano accomunate solamente dal fatto
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di abitare nella stessa area, ma in cui la realtà culturale e sociale, sia in qualche modo compresa all’interno dei limiti della partecipazione a un processo di costruzione collettiva di norme comuni, edificazione e mantenimento dei confini [Barth 2004].
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4.2 Una tradizione “tipicamente selargina” In questo contesto, si può comprendere senza difficoltà il valore assunto dal Matrimonio Selargino, una festa in cui “Selargius, divenuta ormai centro residenziale per i cagliaritani, torna ad essere la Selargius dei Selargini autentici, con i loro riti e i loro costumi carichi di oro e di ricami”, come intuisce Salvatore Sardu mettendo a nudo il problema centrale attorno a cui ruota la manifestazione. Tuttavia, non voglio affermare un relazione univoca A->B, per cui la crisi di identità avvertita dagli intellettuali locali dovesse per forza di cose sfociare nel Matrimonio Selargino. Ci sono voluti anni e anni perchè si intuissero le potenzialità della festa e altrettanti prima che si iniziasse a valorizzarla in senso identitario. Inoltre, tale mutamento di prospettiva non è imputabile unicamente a un mutamento nella politica culturale selargina, un peso notevole deve senz’altro essere attribuito alla concorrenza delle manifestazioni simili. Il Matrimonio Selargino era inizialmente una festa tra le altre, gestita quasi interamente dall’Enal che chiedeva al Comune il solo sforzo di trovare una coppia di sposi selargini. Eppure, come si evince dalla corrispondenza Enal-Comune reperita in archivio, spesso l’Enal si è vista costretta a posticipare la data della festa per la mancanza di collaborazione del Comune. Il tono delle missive dell’ente è molto chiaro a proposito, e si intuisce un certo rammarico per l’indifferenza del Comune nei confronti della manifestazione folkloristica. È solo col tempo, dopo la creazione della Pro Loco scomparse le altre feste o non adatte a esprimere una unicità locale - che si decide di puntare sul Matrimonio Selargino, il quale, da prodotto “tipicamente sardo” o, al limite, campidanese, si trasforma in prodotto “tipicamente” selargino. Come mostra chiaramente anche l’analisi diacronica degli articoli di giornale, è solo dalla metà degli anni ’80 che si comincia a valorizzare il Matrimonio Selargino in chiave identitaria. Nei primi due decenni della manifestazione, l’attenzione degli articoli di giornale è focalizzata sulla “bontà” della decisione di riproporre, a Selargius, la tradizione sarda; il matrimonio è selargino in quanto si tiene a Selargius, non in quanto abbia in sé delle caratteristiche che lo differenzino in modo specifico dalla tradizione sarda in generale. A metà degli anni ’80 aumenta considerevolmente lo spazio dedicato all’avvenimento, che non si limita più alle indicazioni dei giorni prima sugli orari e i luoghi delle attività in programma e a qualche riflessione più generale sul valore della rassegna folkloristica, bensì - anche con l’aiuto di pagine a pagamento - si sofferma sui singoli elementi che rendono “unica” la sagra, per almeno tutta la settimana antecedente l’evento.
La messa in scena della “selarginità” ▪ 121
4.2.1 Lo spessore temporale della festa Perché, in un contesto locale come quello selargino (ma lo stesso discorso vale anche per Santadi e Assemini), si gioca così insistentemente la carta della tradizionalità della festa? “Perché l'allargamento dello spessore temporale della festa”, risponde Faeta, “significa ampliamento della sua densità e stratificazione simbolica, e questo consente maggiori possibilità di gioco e un più ampio numero di giocatori” [Faeta, 2005:163]. Tradizionale non significa necessariamente antico; tuttavia, parlando del Matrimonio Selargino, si tende spesso ad allargare oltre misura l’arco temporale in cui possono essere collocati gli elementi che lo caratterizzano. Il costume tradizionale diventa l’abbigliamento con il quale ci si veste in Sardegna “da sempre”, così come “da sempre” la cerimonia del matrimonio ripete quei gesti e quei riti che caratterizzano il Matrimonio Selargino. Tra i numerosi esempi che si possono citare, il commento di Salvatore Sardu al documentario sulla festa, che stabilisce una correlazione tra antichità del paese e antichità dei rituali messi in scena: i cambiamenti stagionali e dei periodi della vita (nascita, morte, matrimonio)
sono sempre stati occasione per solenni celebrazioni che interessavano l’intero villaggio. Innestati in seguito con la liturgia cattolica questi riti hanno finito col produrre manifestazioni originali in cui il sacro e il profano si mescolano in continuazione. […] L’antico sposalizio selargino […] in quanto frutto di una millenaria società agricolo-pastorale non può non racchiudere in sé tutto il fascino e la suggestione delle antiche consuetudini tramandate fino ai nostri giorni. Correlazione ancora più arbitraria in un articolo del ’90 [“L’Unione Sarda”, Un “sì” con le catene, 15-09-90, p. 16]:
Per l’assessore alla cultura Carlo Desogus, il Matrimonio Selargino rappresenta uno dei momenti più importanti delle tradizioni locali. “Non vi sono dubbi” ha detto Desogus “Selargius ha una storia che affonda le radici nei millenni. Ricerche archeologiche hanno dimostrato una forte presenza umana a partire dal terzo millennio avanti Cristo”.
4.2.2 Bistiri a sa sarda a Selargius Un elemento che caratterizza fortemente la selarginità e di cui si fa sfoggio in modo particolare nel Matrimonio Selargino, è l’insieme vestimentario sardo declinato nella variante selargina. Perché, se a livello nazionale e internazionale il “costume” qualifica i portatori come “sardi”, a livello regionale è simbolo immediatamente riconoscibile dell’appartenenza locale. Ogni paese ha il suo costume, riferimento immediato ad una
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“piccola patria”, che come tale è percepito sia da chi lo indossa sia da chi lo osserva, sulla base della presenza di alcuni elementi definibili come “individuanti”. L’abbigliamento tradizionale permetteva di riconoscere immediatamente non solo l’appartenenza ad una comunità, ma anche ad uno stato civile, a una fascia di età e a una classe sociale. Il processo di recupero di un costume identificabile come tipico di una determinata località ha determinato una iper semplificazione dei diversi tipi di abbigliamento tradizionale, artificiosamente ricondotti a due modelli fondamentali. Semplificazione sostenuta ampiamente a livello di senso comune, ma anche in testi come quello di Colomo e Speziale [1983], dove viene esaminato il vestiario tradizionale di 108 comuni dell’isola, distinguendo, nella maggior parte dei casi, due varianti per quello femminile (della “sposa” e di “tutti i giorni”) e una per quello maschile. Anche l’abito selargino tradizionale, così come è stato recepito dal locale gruppo folk, è costituito da due varianti per il costume femminile e una per quello maschile. Non intendo qui descrivere ognuno di essi, ma concentrarmi sul cosiddetto “abito femminile da sposa”, per far emergere la rappresentazione trasmessa attraverso la costruzione di un modo selargino di “vestire alla sarda” e le idee che circolano al riguardo.
4.2.2.1 Folklore d’elite L’ortodossia vestimentaria selargina prevede su bistiri de abodrau e is pannus arrubius. Se una donna decide di vestire l’abito tradizionale, magari per sfilare insieme al “gruppo spontaneo”6 durante il Matrimonio Selargino, le viene chiesto di scegliere tra l’indossare il “costume femminile di tutti i giorni” o il “costume di gala (o della sposa)”, trasmettendo così artificiosamente l’idea che ogni donna, nel passato, vestisse su bistiri de abodrau nella quotidianità e is pannus arrubius nei giorni di festa. In realtà ed è il primo equivoco da chiarire - la stragrande maggioranza delle donne non possedeva in modo completo né l’uno né tantomeno l’altro. La tipicità del costume è stata costruita sulla base delle regole vestimentarie delle vesti festive e di gala delle classi più abbienti. Solo sa meri, la moglie del ricco proprietario agricolo, indossava in occasioni meno importanti e nei giorni feriali su bistiri de abodrau, caratterizzato dalla gonna di bordato a strisce rosse e blu, di cotone, raramente di seta. Quello che viene presentato come abito “giornaliero” era tale solo 6
È chiamato “gruppo spontaneo” l’insieme delle persone non facenti parte del locale gruppo folk che si presentano in costume per sfilare nel corteo nuziale la domenica del Matrimonio Selargino.
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per le più ricche, mentre costituiva l’abito da sposa e festivo del ceto medio e un sogno per tutte le altre. Non esiste nella tradizione sarda l’abito da sposa come abito a sé stante: con questa espressione si deve intendere piuttosto l’insieme più ricercato possibile di elementi - per qualità della stoffa, per la ricchezza di decorazioni, ecc. - che una donna riusciva a mettere insieme, indossato la prima volta per il matrimonio e successivamente in tutte le occasioni di festa. Di conseguenza il cosiddetto “abito da sposa” è in realtà la ricostruzione dell’esemplare in assoluto più lussuoso ricordato o conservato in paese. La scelta di indossare o meno su bistiri de abodrau o su bistiri de pannus arrubius non era una questione puramente economica. Si è detto in precedenza che l’abito indossato consentiva di identificare la località di residenza, lo stato civile ma anche lo stato sociale. Spesso nei resoconti dei viaggiatori si descrive la bellezza dell’abito delle donne usando per tutte il termine “contadine” (come sinonimico di paesane) non rilevando l’ampia variabilità interna determinata dalla piramide sociale. William Henry Smyth nel suo Sketch of the present state of the island of Sardinia pubblicato a Londra nel 1828, fornisce una panoramica della divisione in ceti sociali riscontrabile anche nei paesi:
dama – gentildonna di primo rango; signora – gentildonna di secondo rango; nostrana – moglie di uomo di legge o medico; contadina principale – moglie di un agricoltore; arteggiana – moglie di un artigiano; contadina rustica – moglie di un contadino [Smyth in Boscolo (a cura di), 2003:66-68] Alcuni particolari del vestiario erano esclusivi di una certa classe sociale e assolutamente proibiti a tutte le altre. Ad esempio Valery [1837, ediz. 1996:165-166], in visita a Selargius, scrive che:
Le contadine più distinte, dette principali, vestite più riccamente e alcune con le dita cariche di anelli, quelle che, sole, hanno il privilegio di portare certi ricami proibiti alle loro compagne, queste duchesse di paese, chiudevano la processione di cui formavano come il fior fiore. A Oliena mi è stato raccontato che sino a pochi anni fa le donne più anziane si recavano in chiesa con le forbici per ristabilire il giusto ordine nella gerarchia sociale, e tagliando un particolare tipo di frange dagli scialli delle donne che “osavano” una decorazione non corrispondente alla loro posizione sociale. Gli abiti utilizzati dai gruppi folk sono nella maggior parte dei casi produzioni industriali di bassa qualità, in altri copie accurate nella forma ma nondimeno scadenti a causa delle stoffe utilizzate. Non è dunque possibile condurre un’indagine sull’abito tradizionale basandosi sulla riproduzioni usate dai gruppi folk. A questo proposito
124 ▪ La messa in scena della “selarginità”
risulta prezioso l’ampio lavoro comparativo sull’intero patrimonio vestimentario sardo condotto da Contu [2003] su esemplari originali, da cui si possono trarre le informazioni inerenti le sole parti che compongono il costume selargino. Il tipo di abito in esame è costituito da: copricapo, camicia, corpetto, casacchino, cintura, gonna, grembiule, scarpe. Ciò che caratterizza questo modello è la tipologia di gonna e grembiule, di casacchino e di cintura, il cui uso pare attestato solo nel Campidano di Cagliari. La gonna è in damasco di seta broccato e laminato [fig. 4.6], tanto più lussuosa quanto più è alta la balza della gonna, cioè con quanto più tessuto prezioso è confezionato il bordo inferiore ornamentale. Il grembiule [foto 4.10] abbinato è detto a ventaglio, perché caratterizzato “da un gruppo centrale di pieghe in cui si raccoglie l’ampiezza del tessuto che si allarga verso il basso appunto come un ventaglio” [Contu, 2003:214]. La parte centrale è in velluto di seta o panno in varie gradazioni di rosso. Le parti laterali sono confezionate “in panno o altro tessuto di media qualità dato che vengono ricoperte con un alto bordo in lampasso broccato e laminato o broccatello a motivi floreali policromi su fondo color avorio o giallo” [Contu, 2003:216]. A impreziosire ulteriormente il capo contribuiscono le bordure in gallone d’oro e le trine lavorate a fuselli con filati d’oro caratterizzate dal motivo a ventaglietti. Insieme a questo tipo di gonna e grembiule si utilizza sa velada [nella foto 4.7], una giacchetta corta indossata sopra camicia e corpetto. Non oltrepassa i fianchi, è resa rigida da inserti all’interno della fodera, è piuttosto aderente e lascia scoperto il petto. Il casacchino è confezionato in velluto di seta nero, interamente profilato con galloni d’oro. Se ne distinguono due tipi a seconda che le maniche, sempre a tre quarti, terminino con volant arricciato o risvolto “a scure”. La versione con maniche a scure si indossa lasciando in vista le maniche della camicia. La cintura, fasc’ ‘e cintroxu, [foto 4.9] non ha scopo pratico, ma solo ornamentale, copre l’area del punto vita compresa tra l’orlo inferiore del corpetto e la gonna. È confezionata con un “nastro di gallone in filato metallico, dorato o argentato, largo cm 5-10, lungo fino a cm350, con le estremità in lampasso di seta o altri tessuti a righe o ricamati”, e viene indossato avvolgendolo “attorno al punto vita, falsando i giri per aumentare la parte coperta, il lembo in lampasso viene rimboccato per tenere fermo l’indumento” [Contu, 2003:185]. Broccato, seta, damasco, inserti d’oro: la documentazione raccolta sinora [Piquereddu 2003] smentisce la convinzione, molto diffusa anche in ambito etnografico, della
La messa in scena della “selarginità” ▪ 125
produzione di abiti come parte dell’ordinario lavoro domestico, limitata, invece, almeno nell’800, ai ceti più poveri, impossibilitati ad acquistare anche gli indumenti più modesti. Tuttavia è sufficiente verificare il tipo di tessuti utilizzati per metterne in dubbio la fondatezza. A sostegno della tesi per cui solo un’esigua minoranza di donne possedeva un abito simile a questo, mi è stato riferito che tutt’ora sarebbe costosissimo riprodurne un esemplare mantenendo la stessa qualità dell’originale: sia per l’alto costo delle stoffe pregiate da utilizzare, sia per la retribuzione di un sarto specializzato nei complicati lavori di rifinitura manuale. Un insieme vestimentario di massima gala, dunque, riservato al ceto dei grandi possidenti del circondario di Cagliari, i soli che potevano affrontare le spese relative all’importazione dei tessuti pregiati dall’estero e la confezione dell’abito da parte di sarti specializzati. Lo conferma anche la storia dell’abito utilizzato dalla sposa durante il Matrimonio Selargino, uno degli esemplari originali più ricchi e fastosi di su bistiri de pannus arrubius presenti in Campidano. L’abito appartiene ora ai nipoti di Fedora, conosciutissima in paese e rinomata per la sua abilità nel confezionare costumi tradizionali, di cui ha rifornito tutto il circondario7; l’abito le era stato venduto dalla “moglie del generale Porcu”, che a sua volta l’aveva acquistato da una nipote di “signorina Elisa Cara, ufficialessa di posta”, la quale l’aveva acquistato da una della figlie di un ricco proprietario terriero, Marini Antonio Biaggio. Sono informazioni contenute nella lettera, già citata, di Efisio Salis, che invita il Comune ad acquistare l’abito, indubbiamente uno dei pochi elementi di continuità tra passato e presente della rievocazione folkloristica, in quanto la figlia di Marini Antonio Biaggio aveva indossato quell’abito il giorno del suo matrimonio, lo stesso matrimonio il cui ricordo costituì il punto di riferimento del Salis nell’organizzazione del Matrimonio Selargino.
7
Ad esempio buona parte dei costumi del gruppo folk di Quartucciu.
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4.6 Litografia a colori, 1898, in Costa E., Costumi Sardi
4.8 Scùffia, Museo della vita e delle tradizioni popolari sarde, fig. 79 in Contu 2003
4.10 Deventali, fig. 323 in Contu, 2003
4.7 Museo della vita e delle tradizioni sarde, fig. 10 in Contu, 2003
4.9 Cossu, fasc’e cintrosciu, busciacca, froccu de velludu, velu ‘e sposa [foto Pino Piras] La messa in scena della “selarginità” ▪ 127
128 ▪ La messa in scena della “selarginità”
4.2.2.2 Antichità e immutabilità del vestiario tradizionale Un presupposto implicito nella maggior parte della letteratura sull’abbigliamento tradizionale in Sardegna vuole che le donne in passato si vestissero o “alla continentale”
o
“alla
sarda”,
considerando del secondo tipo tutto quello che sembrava distante dalle mode europee e italiane del periodo. Risultato di un certo modo di intendere il folklore, era accettata a priori l’idea che le donne dei paesi, “in ritardo sui tempi”, conservassero inalterata nei secoli la foggia di vestiario autoctona. Così anche a Selargius, dove l’abito tradizionale è il simbolo di una cultura autonoma tramandata da generazioni. Innanzitutto, si può confutare facilmente la convinzione che l’attuale costume 4.11 Anonimo, Ritratto di Maria Piras, ante 1725, olio su tela, Quartu Sant’Elena [foto Francesca Salis]
tradizionale
femminile
selargino
sia
tratto da un esemplare settecentesco8, come
può
capitare
di
leggere.
L’indicazione “tratto da un esemplare settecentesco”, appare come un’altra forma di manipolazione strategica del tempo, utile a rafforzare l’idea dell’antichità di Selargius e delle proprie tradizioni, che però non regge alla prova dei fatti. Il fatto principale, in questo caso, è il ritratto di Maria Piras, personalmente esaminato, risalente alla prima metà del 1700, che tutti gli studiosi occupatesi di storia del costume in Sardegna, concordano nel ritenere l’attestazione iconografica più antica del costume femminile di gala dell’area campidanese. La completa estraneità - i due costumi sono simili nel numero degli elementi che lo compongono, nello stesso modo in cui il costume femminile selargino è simile a tutti gli altri costumi femminili sardi – dell’abito indossato 8
Esemplare che si dice appartenne a Peppina Deiana, moglie di Giuseppe Putzu, sindaco di Selargius tra il 1914 e il 1916.
La messa in scena della “selarginità” ▪ 129
da Maria Piras confrontato con la foggia vestimentaria che oggi appare normativa, mostra chiaramente come non sia seriamente sostenibile l’idea della continuità temporale espressa a Selargius. L’abito di Maria Piras potrebbe tutt’al più essere visto come un prototipo delle forme vestimentarie adottate successivamente, con cui ha in comune il numero e la forma degli elementi che lo compongono. Se l’origine dell’abito di gala selargino si situa in un periodo successivo al XVIII secolo, il numero degli elementi che lo compongono e il modo attuale di vestire su bistiri de pannus arrubius si situa in un periodo ancora più recente. La descrizione dell’abito tramandata dalle fonti iconografiche e dai resoconti dei viaggiatori dell’800 rappresenta una sorta di istantanea fotografica, la sintesi temporanea delle regole vestimentarie di un preciso momento storico. La comparazione della descrizione del costume in periodi diversi permette di datare l’insieme vestimentario, smentendo l’antichità e l’immutabilità del vestiario tradizionale. La prima e più importante base di confronto è la tavola VI dell’Atlante del Della Marmora (riportata nelle pagine successive) dipinta da Cominotti, architetto piemontese giunto in Sardegna negli anni Venti dell’Ottocento come funzionario dell’amministrazione sabauda. Prima perché è uno delle prime testimonianze pittoriche, insieme all’acquerello di Tiole Nouveaux Mariés (1819-1824), della diffusione in area campidanese dell’abito di gala di cui ci stiamo occupando, importante (oltre al precedente motivo) perché è ormai da più di un decennio il logo ufficiale del Matrimonio Selargino. Se si confronta l’insieme che è stato tramandato come tradizionale con la tavola del Cominotti, si nota immediatamente che l’attuale modo di portare il vestito non prevede l’uso della cuffia, così come del cappello. Le fonti iconografiche più antiche mostrano come la capigliatura rimanesse sempre celata, coperta da una sovrapposizione di elementi che poteva comprendere cuffia, velo o scialle, cappello. La cuffia (scòffia) [foto 4.8], confezionata in materiali diversi a seconda dell’uso per cui era destinata, è costituita da una parte a sacco che contiene al suo interno l’intera massa dei capelli; l’estremità aperta, calzata sulla fronte, veniva fermata con un nastro di velluto o taffettà di seta nero [foto 4.9], che negli esemplari più ricchi è guarnito con canutiglia d’oro. A Selargius il gruppo folkloristico ha tralasciato l’uso della cuffia, ma persiste la fascia a testimonianza della sua presenza; sulla fascia viene appuntato il velo, a diretto contatto con la capigliatura.
130 ▪ La messa in scena della “selarginità”
Tutte le donne raffigurate nella tavola del Cominotti indossano una cuffia rosso scarlatto, il che indica che l’abbandono di tale elemento è successivo al 1825, mentre l’assenza de su muccadori ‘e peturra, presente nell’insieme vestimentario utilizzato attualmente, situa la datazione di quest’ultimo in un periodo ancora più recente. Il fazzoletto copriseno (lo si vede nella litografia di Costa, fig. 4.6), che non pare attestato prima della seconda metà del 1800, è un panno appuntato al corsetto col quale si copre l’ampia scollatura lasciata in vista dalle camicie dei paesi del sud della Sardegna. Tutte le persone “esperti di costume sardo” con le quali ho parlato, hanno sentito il bisogno di giustificare l’uso di questo indumento, in qualche modo avvertito ancora come “estraneo”. L’introduzione è dovuta per alcuni alla volontà di un vescovo, per altri del Papa in persona, che non tollerava la “sconcezza” dell’abbigliamento femminile sardo. Caredda [1993:70] scrive che furono i Gesuiti, nel 1825, a imporne l’uso, e Bresciani, due decenni più tardi, ne testimonia la diffusione e l’utilizzo, sebbene limitato al tempo di permanenza delle paesane nel capoluogo cagliaritano:
[…] così i missionari entrarono in pensiero di provvedere all’infermità degli occhi stranieri . […] Le donne in prima rimasero stupefatte che altri potessero recarsi a fare niuno caso di ciò ch’elleno, e gli uomini del paese non avevano mai posto mente […] vollero porgersi obbedienti a’ sacerdoti nel coprirsi quando vanno in città […] Uscite poscia dalla città per tornare alla villa, non sono ite oltre un mezzo miglio, che la maggior parte si tolgono dinanzi il pendone, e vanno in petto secondo la loro usanza [Bresciani 1850, ediz. 2001:161-162] Nella tavola del Cominotti la sposa e le sue accompagnatrici indossano un cappello, riconducibile alla tipologia “a cilindro, rotondo, probabilmente di feltro nero, che viene indossato sovrapposto all’insieme velo e cuffia” [Contu, 2003:110]. Della Marmora, commentando la tavola del Cominotti, scrive che “se il matrimonio avviene in una stagione calda con il sole che batte forte, le donne aggiungono al loro costume un capello rotondo di feltro, che mettono solo in occasioni come questa e che ornano di piume, frange, nastri e fiori” [Della Marmora 1826, 1995:108]. Del copricapo abbiamo altre testimonianze per la prima metà del 1800, ma non ne è rimasta traccia nel modo attuale di portare il costume. I risultati ottenuti dagli studiosi del costume tradizionale, comparati con le informazioni ricavate dalla ricerca sul campo e le fonti iconografiche, mi spingono a collocare le regole vestimentarie secondo le quali si vestono le donne del gruppo folk selargino e la sposa nel giorno del Matrimonio Selargino, in un periodo di poco precedente l’abbandono del vestiario tradizionale. L’assenza della cuffia, l’oblio totale sulla possibile presenza di un cappello, lo stabilizzarsi della presenza del fazzoletto copri-
La messa in scena della “selarginità” ▪ 131
seno anche in paese, la dimenticanza della regola che voleva il grembiule “allacciato così lento intorno alla vita da lasciar vedere sul davanti, sopra di esso, due dita di gonnella” [Smyth in Boscolo (a cura di), 2003:66-68], sono tutte prove evidenti di un mutamento nel modo di portare l’abito di gala. Le regole vestimentarie attuali, lungi dall’essersi conservate inalterate nei secoli, sono il ricordo del modo di vestire all’inizio del secolo come dimostra la perfetta congruenza con la foto-ricordo del fidanzamento (o nozze?) della selargina Speranza Putzu Loddo, di cui avremo modo di parlare ancora [vedi foto 4.16]
4.2.2.3 Il logo del Matrimonio Selargino: la tipicità selargina La tavola del Cominotti riprodotta qualche pagina più avanti, rappresenta, come riporta la didascalia del Viaggio in Sardegna di Della Marmora, “l’arrivo della sposa da un villaggio vicino”. È stata scelta come logo ufficiale del Matrimonio Selargino. Diverse persone ritengono che riproduca esattamente un matrimonio celebrato a Selargius, per diversi motivi: l’abito indossato dalle donne, l’acconciatura dell’uomo, l’edificio presente sullo sfondo della scena. Ora, se l’abito indossato dalle donne potrebbe essere effettivamente riconducibile all’abito di gala selargino, l’argomento addotto per provare la selarginità dello sposo non risulta convincente. Si dice che i capelli raccolti in una treccia unica avvolta a spirale intorno al copricapo fosse una peculiarità dei selargini, ma provando a verificare l’informazione esaminando l’iconografia disponibile, il risultato è che non solo questo tipo di acconciatura non era una prerogativa selargina, ma era diffusa uniformemente in tutta la Sardegna, da Nord a Sud9. Non ho verificato l’informazione relativa all’edificio sullo sfondo, che si dice identificabile con un rudere presente nella campagna selargina, perché a questo punto della ricerca ho trovato il dato che respinge del tutto le pretese sulla selarginità della scena, cioè il titolo della tavola (raramente indicato):
Noce. Arrivée d’une jeune fille de Sinai mariée à un riche cultivateur de Quartu.
9
Si veda La collezione Luzzietti (composta di 48 tavole di datazione incerta, compresa tra il 1790 e il 1800) e La raccolta Cominotti (tavole acquerellate dipinte dal vero tra il giugno 1824 e maggio 1826), entrambe curate da Alziator Francesco, nonché le considerazioni sulle acconciature degli uomini sardi di Contu, 2003:230
132 ▪ La messa in scena della “selarginità”
4.12 Cominotti, Noce. Arrivée d’une jeune fille de Sinai mariée à un riche cultivateur de Quartu, 1825, Tavola VI dell’Atlante allegato alla prima parte del Viaggio in Sardegna di Della Marmora.
Didascalia del Della Marmora per l’immagine nella pagina precedente (1995:109): “La tavola rappresenta l’arrivo della sposa da un villaggio vicino; cavalca a destra dello sposo un cavallo riccamente bardato, tenuto da uno staffiere. Gli sposi sono preceduti da due suonatori di launeddas, e seguiti da parenti e amici, le donne a destra e gli uomini a sinistra. Il corteo è chiuso dal curato, seguito da un carro (tracca) che trasporta le donne più anziane e i bambini. Sulla sommità della collina si vede un nuraghe. I genitori dello sposo accolgono la sposa; la madre le getta la grazia; nel vestibolo della casa, ornato di fiori e rami, il padre tende le braccia, dandole il benvenuto; tutta la famiglia si accalca per entrare in casa. Si vedono a destra la tavola e lo sgabello coperti da un tappeto che, secondo l’usanza, serviranno alla sposa per scendere di cavallo. Nell’angolo una palma, e ai suoi piedi un cane di razza sarda”.
In cosa consiste dunque la tipicità selargina del costume se quello di Sinnai può essere confuso con il selargino e quello maschile con il costume di Quartu Sant’Elena? Si dovrà ammettere che almeno in area campidanese non è applicabile la formula “un paese, un costume”. Ciò significa che anche da questo punto di vista, non è possibile considerare Selargius come un’unità autonoma, portatrice di peculiarità esclusive che la distinguono dai paesi del circondario. Quartucciu, Quartu, Monserrato, Pirri, Sinnai, Settimo, Selargius: in tutti questi paesi l’abito di gala non differiva se non per dei particolari minimi riconoscibili solo da un occhio esperto. Maria Rosa Contu [2003] scrive che ciò che caratterizzava lo stile vestimentario dell’una o dell’altra località era ad esempio il modo di stirare e posare sul capo il velo, per il resto identico tra un paese e l’altro [Contu 2003]. Un’altra interlocutrice è certa che sa velada con le maniche a volant fosse tipica di Quartucciu, mentre il modello con le maniche “a scure” fosse più diffuso a Selargius e il colore marron scuro dell’indumento fosse caratteristico dell’abito di Monserrato. Per Colomo e Speziale ciò che costituirebbe il carattere distintivo del costume di Selargius sarebbe la grande quantità di gioielli che lo adornano [Colomo, Speziale, 1983:279], caratteristica che oggi è piuttosto attribuita ai costumi delle donne di Quartu. La caratteristica del costume femminile di Quartucciu consisterebbe nel modo di portare la camicia, con l’ampio scollo di pizzo sempre più voluminoso, nonché sempre più evidente a causa dell’inamidatura che lo rende rigido. Ma quanti di questi tratti distintivi erano tali anche per le donne dell’800 e quanti di questi sono stati introdotti recentemente? Sospetto che l’esasperazione dei tratti distintivi per lo stesso abito di gala presente in tutta l’area campidanese sia la conseguenza di una politica culturale mirante a promuovere l’idea di una sostanziale autonomia culturale paesana. L’adozione di un abito-divisa, uguale per tutti i componenti del gruppo, rende immediatamente riconoscibile il paese di appartenenza, esprimendo una unicità che si estende al paese nel suo complesso.
135 ▪ La messa in scena della “selarginità”
4.2.3 Sa cadena de anca, la catena rituale del Matrimonio Selargino Tra
i
motivi
utilizzati
tradizionalmente per decorare gli anelli, la catena, simbolo del laccio indissolubile che unisce due cuori, compare spesso in quelli di fidanzamento o nuziali [Gometz, 1995:117]. A Selargius la catena non ci si limita a raffigurarla; sa cadena de anca la catena rituale del Matrimonio Selargino è un oggetto composto da
[…] grosse maglie circolari, realizzata in argento e della lunghezza di circa un metro. Le due estremità recano, da 4.13 “Cadena de anca, catena rituale del Matrimonio una parte, un gancio lavorato a Selargino” in Gometz, 1995 forma di cuore e dall’altro un anello [Gometz 1995:36]. Dopo la cerimonia del matrimonio, per esprimere l’indissolubilità del matrimonio, secondo la descrizione datene da Gometz [Gometz 1995:36], lo sposo
allaccia alla vita della sposa il gancio terminale della catena, quasi ad affermare un suo diritto di… proprietà; mentre la sposa infila al dito dello sposo l’anello dell’ultima maglia della catena, significando così lo stretto patto che tra i due si è stabilito Come il matrimonio santadese è il matrimonio delle genti “maurreddine”, così il Matrimonio Selargino è il matrimonio “in catene”. Ciò che contraddistingue il matrimonio tradizionale selargino dal matrimonio tradizionale proposto in altri paesi, è la catena con la quale vengono uniti marito e moglie al termine della celebrazione religiosa. Interpellato su quanto conosca del Matrimonio Selargino, anche il selargino meno interessato al folklore, sa rispondere che i due sposi vengono uniti con una catena. Che poi creda sia un rito inventato o no, questo è tutto un altro discorso. Da una parte abbiamo quelli che chiamerei i sostenitori acritici, che accettano la consuetudine senza porsi tante domande, quelli critici, che forniscono argomentazioni
136 ▪ La messa in scena della “selarginità”
a sostegno dell’autenticità del rito, e dall’altra gli oppositori che rifiutano il rito (e la manifestazione) perché inventato. I sostenitori acritici - la stragrande maggioranza degli spettatori - conoscono il Matrimonio Selargino a livello superficiale e seguono la festa motivati principalmente dallo spettacolo della sfilata dei costumi da ogni parte della Sardegna. Rientrano in questa categoria coloro che accettano e ripropongono come “vere”, per sentito dire, le seguenti affermazioni: la catena è un’usanza tipicamente selargina, prevista in un passato non tanto lontano (all’incirca sino agli inizi del 1900) per tutti gli sposi, i quali, al termine della cerimonia, venivano legati dal prete che aveva celebrato la messa, l’usanza è scomparsa con l’abbandono dell’abito tradizionale. Ho provato a insinuare che la catena potesse essere intesa come una trovata per attirare più spettatori piuttosto che come un’antica consuetudine, per capire se ci fossero sospetti a tal proposito, ma ho smesso quasi subito quando ho capito di non ottenere nient’altro che reazioni di sconcerto e delusione. Interrogati sulla simbologia della catena, tutti concordano nel ritenere che la catena rappresenti il vincolo indissolubile del matrimonio, ma non solo. Tra le donne in modo particolare, circola anche un altro significato relativo alla disparità nel modo di essere legati dell’uomo e della donna. Come ho sentito spiegare da una signora presente tra la folla all’edizione del 2005:
la catena li lega in quel modo perché in passato la donna era sottomessa all’uomo. Ora la donna non permetterebbe più di essere legata così, come un cagnolino che si porta a passeggio… È lo stesso significato attribuito da Gometz, citato inizialmente, quando scrive che il gesto sembra voler affermare il diritto di proprietà dell’uomo sulla donna. Questa idea sembrerebbe rafforzare l’impressione del rispetto della tradizione, perchè l’idea della donna “al guinzaglio” appare coerente con le idee di senso comune su una società tradizionale in cui la donna era considerata una specie di proprietà, del padre prima e del marito poi. Si legga ad esempio cosa scrive “L’Unione Sarda” sulla donna sarda:
è un rito antico giustificato dalla dolcezza della donna sarda che si lascia “legare” dall’incanto dell’amore [“L’Unione Sarda”, Una magia di colori e di suoni, 11.09.93, p. 14] Dubito fortemente che la persona che ha riproposto il rito intendesse trasmettere questo messaggio, e bisogna ammettere che la cosa è piuttosto ironica in un paese in cui gli studiosi locali tendono al contrario a esaltare il ruolo della donna nella società, sconfinando in esagerazioni su improbabili forme di matriarcato selargino.
La messa in scena della “selarginità” ▪ 137
I sostenitori critici sono coloro che sono a conoscenza della polemica sull’introduzione di pratiche inventate all’interno di un copione tradizionale e tentano di difenderne la legittimità. Di questa fazione fanno parte tutte le persone che ruotano intorno alla Pro Loco per l’organizzazione della festa. In verità, la difesa è piuttosto scarsa e si limita a invocare le solite inverificabili testimonianze degli anziani. Mi è stato in particolare riferito che la riproposta deriva dal ritrovamento di un abito tradizionale completo di catena, della quale qualcuno - nessuno sembra però ricordare chi - ha spiegato la funzione come elemento indispensabile alla cerimonia nuziale. Ma se si insiste con le domande, si ottiene come risposta che la catena deve essere presa in considerazione soprattutto per il suo valore di simbolo del legame matrimoniale. 4.14 Sa cadena e su craugheri [foto Pino Piras] tratta da: Selargius, Quartucciu, Monserrato. Guida illustrata, 2002: 86
Si è anche cercato di attribuire altri significati importanti alla catena, come la valenza religiosa attribuita all’essere composta da 66 maglie, numero importante per la simbologia cattolica in quanto rappresenta il doppio dell’età di Cristo, una maglia per ogni anno che si augura alla coppia di vivere insieme. In uno degli ultimi articoli de “L’Unione Sarda” sul Matrimonio Selargino, si legge ad esempio che la catena
è composta da 66 maglie più l’anello perché rappresenta la maturità spirituale degli anni di Gesù Cristo: 33 per la sposa e 33 per lo sposo [“L’Unione Sarda”, Sposi in catene davanti all’altare, 11-09-06, p. 14] Tale interpretazione, che circola ormai da parecchi anni, sembra piuttosto un tentativo per giustificare a posteriori un rito di cui non si conoscono altre informazioni. Per quanto si tenti di imporla dubito comunque che possa prendere piede, per un motivo molto semplice: il numero della maglie presente in catene di questo tipo è variabile, come ho verificato personalmente su foto e abiti tradizionali. Anche negli articoli su “L’Unione” la catena risulta composta a volte da 64 maglie, altre da 66 [si veda per esempio l’articolo del 14-09-98, Nozze d’altri tempi, p. 14].
138 ▪ La messa in scena della “selarginità”
Gli oppositori sono solitamente amanti delle tradizioni popolari che vorrebbero purificare la manifestazione da tutte le contaminazioni spettacolari e turistiche per riproporre un rito realmente fedele alla tradizione. Il bersaglio preferito della critica è il rito della catena, che appare come inequivocabilmente inventato. Perché, se così non fosse, nessuno studioso di tradizioni popolari ne ha segnalato l’uso? Come spiegare in altro modo che nessun viaggiatore descrive tale usanza? Ed effettivamente neanche il Bresciani, in tutta la sua preziosissima logorrea su ogni dettaglio delle feste nuziali, ne fa minimamente cenno. Così neppure Marcello Serra, che non degna di una parola “l’antica usanza”. Un’altra obiezione all’uso rituale della catena fa riferimento all’ignoranza degli organizzatori, che avrebbero frainteso la funzione svolta dalla catena nell’abito tradizionale. Come mi spiega un’appassionata di abbigliamento sardo tradizionale:
la catena non è altro che la cinta del grembiule, serviva ad allacciare il grembiule. Da una parte c’è il maschio, dall’altra c’è la femmina e si aggancia dopo aver fatto il giro-vita. A volte nei vestiti si trova il filo di stoffa, ma normalmente nell’abito di broccato c’era la catena. Nell’abito di abodrau c’era il giunchiglio che si chiama craugheri, dalla parola crai, chiave. Vi si metteva l’amuleto regalato alla nascita, da cui non ci si separava mai, le chiavi, lo stuzzicadenti, le forbici. Era agganciato alla tasca con un gancio. È molto diverso dalla catena dell’abito di broccato, non c’era catena nel grembiule di seta semplice dell’abito di abodrau, non aveva quel tipo di chiusura. Solo nel vestito di broccato c’è quel tipo di catena. La presenza della catena era dunque limitata a un preciso tipo di abbigliamento tradizionale in cui svolgeva una funzione indispensabile, non di semplice accessorio. Escludere a priori che un elemento pratico possa svolgere anche una funzione di tipo rituale è chiaramente un’idea piuttosto discutibile, la quale non costituisce una valida argomentazione a favore della falsità del rito della catena; tuttavia, ipotizzando che la catena avesse tradizionalmente anche il significato rituale che le viene attribuito nel Matrimonio Selargino, il problema che si pone è quello della rappresentatività. Se si prende in considerazione la foto alla fine del capitolo, si noterà come neppure Speranza Putzu Loddo, una delle donne più ricche della Selargius del secolo scorso, usi una catena d’argento come sistema di chiusura del grembiule. Nell’abito sembra invece presente il tipo di catena descrittomi per l’abito giornaliero delle ricche possidenti, su craugheri (letteralmente il portachiavi), pendente dal grembiule sul lato destro della donna. Detta anche catena de s’onestadi (catena dell’onestà) “era usata
La messa in scena della “selarginità” ▪ 139
esclusivamente dalle signore di condizione abbiente di alcuni paesi del Campidano di Cagliari”11. Se un abito di broccato completo poteva arrivare a valere quanto una casa12, quante donne, nella Selargius dell’800, potevano permettersene uno? E quante di queste avrebbero utilizzato la catena nel modo descritto trasgredendo i dettami della Chiesa, che proibiva ogni rito di natura vagamente profana? Infatti, l’unico riferimento, indiretto, che sono riuscita a trovare che possa far pensare all’uso della catena, è tra le proibizioni espresse nel sinodo provinciale turritano del 1606:
I contraenti usino semplicemente le parole “io ti prendo come sposo o sposa”, lasciando da parte altre parole poco oneste che il parroco non permetterà assolutamente che vengono pronunciate; non permetterà neppure che si compiano altre cose simili quali il legarsi vicendevolmente, giurando di essere fedeli e onesti nel matrimonio e di conservare l’amore reciproco in 13 eterno (corsivo mio) Come
si
è
notato
in
precedenza, ancora nell’800
4.15 Gli sposi del 2001 [foto Piras Pino] in Selargius, Quartucciu, Monserrato. Guida illustrata, 2002
persistevano
comportamenti
contrari
direttive
alle
della
Chiesa, anche da parte dello stesso clero, ma è molto
11
Gometz (1995:36) che aggiunge: “È costituita da diverse piastre in argento riprodotte a fusione con figure di uccelli, mazzi di spighe e elementi floreali legati fra loro da doppi o tripli spezzoni di giunchiglia, catenella a maglie circolari. […] La parte terminale della catena è fornita di più ganci ai quali si appendevano le chiavi e le forbici.” 12 Secondo quanto riferitomi dall’organizzatrice della mostra “Is pannus de is bisaius”, tenutasi a Quartu Sant’Elena nell’aprile 2006, per cui ci sarebbero atti notarili della fine dell’800 che testimoniano la scelta di ricevere dai genitori come dono, al momento delle nozze, l’abito di broccato piuttosto che la proprietà di una casa. 13 Sinodo Provinciale Turritano 1606, Bacallar, Cap.XV, De Matrimonio, 9, cc.47r- 47v, citato in Loi S., pp. 132 – 133
140 ▪ La messa in scena della “selarginità”
difficile che queste trasgressioni persistessero all’interno delle chiese, dove per le cerimonie ufficiali i preti erano vincolati al rispetto della prassi prescritta nel Rituale Romanum. Da queste considerazioni emerge che nel contesto di una rappresentazione che intende mettere in scena un matrimonio tradizionale tipico, quindi rappresentativo del comportamento della maggioranza, appare quantomeno incauto mostrare all’interno di una chiesa un prete che incatena tra loro marito e moglie. Allo stato attuale della ricerca è difficile stabilire se dare ragione a quanti difendono l’autenticità del rito o a coloro che la rifiutano. In ogni caso, la polemica riguardante l’aderenza alla tradizione del rito della catena è solo a livello superficiale un problema di “invenzione della tradizione”, alla maniera di Hobsbawm e Ranger. Presentare in questo momento prove evidenti e certe a favore dell’una o dell’altra tesi, significherebbe schierarsi automaticamente a favore o contro il lavoro della pro-loco. Dietro la facciata della polemica sul rituale della catena, infatti, si intravede chiaramente il gioco di potere per la gestione della festa e dei soldi dei contributi regionali e degli enti turistici. Quello che è più interessante in questo gioco è la strategia mediante cui si tenta di delegittimare il lavoro della pro-loco, al fine di toglierle ogni potere decisionale di una qualche rilevanza:
si punta sull’inautenticità delle
tradizioni messe in scena. O meglio, il gioco è più sottile, se ne distrugge il simbolo facendo intendere che è solo uno degli elementi che potrebbero essere messi alla berlina, ma si tace su quali sarebbero gli altri. Il rituale della catena è diventato negli anni l’elemento-chiave pro o contro una certa gestione del Matrimonio Selargino, rifiutarne l’autenticità significa estendere l’idea dell’invenzione e della falsità alla manifestazione tout court. Tuttavia, non si va mai oltre l’argomento catena o considerazioni annuali su scelte contingenti, nessuno si sogna di mettere in discussione il nucleo centrale di “vera e autentica antichissima tradizione sarda” consolidatosi negli anni. A nessuno viene in mente di fare riferimento alle strategie di manipolazione del tempo riguardanti l’antichità della tradizione oppure la pertinenza di questo o quell’altro elemento tradizionale nella riproposta delle consuetudini passate. Se crolla il nucleo centrale crolla il senso del far festa: l’elemento catena, per quanto centrale, può essere eliminato, rimpiazzato, modificato, la reputazione di “la più vera delle manifestazioni folkloristiche sarde” [Spanu, 1987:120] costruita nei decenni, una volta messa in crisi è irrimediabilmente persa. E questo non è nell’interesse di nessuno.
La messa in scena della “selarginità” ▪ 141
4.16 Speranza Putzu Loddo e Saverio Cabras, 1905 circa [collezione Efisia Cordeddu]
142 ▪ La messa in scena della “selarginità”
5 Il folklore come richiamo turistico e identitario “[…] il matrimonio d'altri tempi era caratterizzato da grande semplicità, mentre la spettacolarità di quelli che oggi vengono riproposti […] è un tipico effetto della strumentalizzazione del folclore come mezzo di richiamo turistico. Accade così che nel Matrimonio Selargino (giusto per fare un esempio) la tradizione venga falsata dall'eccessiva presenza di spettatori perfino durante la vestizione degli sposi, dalla immotivata partecipazione di gruppi in costume provenienti da altri centri, da una fattispecie di gemellaggio con coppie convenute dai più disparati paesi del mondo… [Caredda, 1993:41] Riesumare un’antica usanza non significa ripristinare i significati ad essa correlati, il contesto differente di fruizione dell’evento innesca un processo di rifunzionalizzazione e riplasmazione di questi, adeguandoli alle esigenze contingenti delle nuove circostanze. Era prevedibile che concepire il folklore come risorsa per la valorizzazione del turismo isolano avrebbe significato trasformare costumi, oggetti, gesti della tradizione, in segni di una etnicità offerta allo sguardo del visitatore, con buona pace di filologi come Efisio Salis che mai accettò l’idea che il “suo” matrimonio si fosse trasformato in un “carnevalone”. Per una simile forma di turismo, in cui “l’attrazione è una particolare diversità culturale, con le sue stereotipiche manifestazioni” [Satta, 2001:62], si parla di “turismo etnico”; una forma di turismo “che si presenta in stretta connessione con i temi dell’identità, e che si indirizza verso i luoghi, gli oggetti, le figure che si ritiene la possano meglio rappresentare” [Satta, ibidem]. Rendere le tradizioni visibili ai turisti può comportare numerose e diverse operazioni, abbiamo visto, tra cui inventare, mescolare e confondere valori identitari e valori di mercato, selezionando solo quei tratti tradizionali che si pensa possano attirare l’attenzione del turista, oppure, ancora, prendere un momento, sganciarlo dal suo contesto e spettacolarizzarlo, come per esempio avviene a Santadi con la messa in scena della benedizione materna su un palco allestito per l’occasione nella piazza principale. Il confronto tra le tradizioni nuziali sarde e la rassegna folkloristica, stimolato dall’idea, ampiamente diffusa, che il Matrimonio Selargino
sia “la semplice ripresa di tratti
tradizionali antichissimi”, ha già chiarito che non è questo il campo più fruttuoso di indagine. Ma al contrario di quanto avveniva in passato, in cui lo stigma di “turistico” o “folkloristico” poneva l’aut-aut sullo studio del fenomeno in quanto non degno di seria
143
attenzione, lo studio di un esempio di turismo etnico appare come un campo di studi privilegiato per studiare i processi di oggettivazione della cultura e le strategie di elaborazione di una identità locale. Se la maggioranza delle feste e delle sagre tradizionali sono organizzate dagli enti di promozione turistica (Esit, Ept, Aziende di soggiorno, Pro Loco), se i tempi e la collocazione delle feste vengono modificati per trasformarli in eventi fruibili da parte di un pubblico, non è più possibile analizzare le feste escludendone la finalità turistica, senza cioè chiedersi in che modo il processo di turisticizzazione del dato folklorico abbia inciso sulle modalità di rappresentazione della tradizione.
144 ▪ Il folklore come richiamo turistico e identitario
5.1 Finanziamenti e spese Il Matrimonio Selargino è un evento promosso e finanziato dagli enti di promozione turistica sin dalla sua nascita. Inizialmente è l’Enal a occuparsi in maniera quasi esclusiva dell’organizzazione della manifestazione folkloristica, curandone l’organizzazione all’interno dei festeggiamenti suddetti. L’Enal teneva i contatti con i gruppi folkloristici, curava la realizzazione della rassegna serale di balli e cori, chiedeva i permessi alla questura, pagava i costi della Siae, regalava 100.000 lire agli sposi come dono di nozze. L’amministrazione comunale, almeno nei primi anni, non sembra dare molta importanza alla rievocazione folkloristica, aspetto evidentemente ritenuto secondario all’interno dei festeggiamenti in onore di S.Lussorio. “Per antica e consolidata consuetudine” doveva “presiedere e provvedere all’organizzazione dei festeggiamenti in onore di S.Lussorio Martire” erogando a tal proposito anche una somma di £60,0001; in pratica, per quanto riguarda il Matrimonio Selargino, aveva solo il compito di individuare la coppia di sposi, cosa che regolarmente veniva rimandata sino all’ultimo momento. Da questo punto di vista la corrispondenza tra Enal e Comune è piuttosto divertente, soprattutto per il tono esasperato delle lettere dell’Enal, che ha il suo bel da fare nel riuscire a farsi ascoltare dal Comune. Nel 1970 i manifesti stampati dal comune per pubblicizzare la manifestazione fanno riferimento alla “costituenda Pro Loco Selargius”2. Si comincia a sentire l’esigenza di una istituzione locale, l’Enal non sembra più in grado di far fronte all’intero ammontare dei finanziamenti. Nel 1971 l’Enal chiederà l’intervento del Comune per mettere a disposizione le 100.000 lire di dono agli sposi, “contributo che per difficoltà burocratiche, questo Ufficio non potrà mettere a disposizione”, senza delle quali si teme che nessuna coppia voglia partecipare alla manifestazione3. Sempre del 1971 è conservata la richiesta di contributi all’Assessorato al Turismo della Regione e la richiesta all’Esit per “mettere a disposizione un gruppo folcloristico e […] coppe e medaglie da offrire agli atleti”4. Nel 1973 sparisce ogni riferimento all’Enal. Nel 1974 e nel 1975 la manifestazione viene sospesa per mancanza di finanziamenti, nonostante si sia provveduto per tempo a trovare la coppia di sposi e l’Ept di Cagliari (direttore
1
Verbale di deliberazione della Giunta Comunale n. 98, 29 dicembre 1962 Giunta Municipale a cittadinanza, Selargius, 1970 3 ENAL a Comune di Selargius, oggetto: “Antico Sposalizio Selargino”, Cagliari, 08.09.1971 4 Assessore al Turismo di Selargius a ESIT, n°6511 protocollo, Selargius, 18.10.1971 2
Il folklore come richiamo turistico e identitario ▪ 145
Ragni Nicola) abbia stanziato un contributo di 3.000.000 di lire5. La celebrazione dell’Antico
Sposalizio
Selargino
riprende
nel
1976,
in
seguito
alla
nascita
dell’associazione locale Pro Loco6, il cui apparato organizzativo riesce, da quel momento in poi, a risolvere per tempo il problema degli stanziamenti finanziari. Come abbiamo visto precedentemente, in base alla L.R. 21.4.1955 n. 7, art. 1, lett. c) “l’amministrazione
regionale
può
erogare
contributi
per
la
realizzazione
di
manifestazioni turistiche che siano in grado di promuovere l’immagine della Sardegna attirando nuovi flussi di visitatori e interagendo fortemente con le altre iniziative pubbliche e private di promozione turistica del territorio”. La delibera del 5 agosto 2005, n. 39/57, che stabilisce l’entità di questi contributi sulla base del bilancio regionale 2005, permette di capire il grado di rilevanza attributo dalla Regione al Matrimonio Selargino. Sagre, feste ed eventi sono divise in 5 categorie: tabella A – sagre e feste storiche di valenza regionale consolidata e di particolare rilievo storico-culturale, tabella B – eventi a circuito a valenza regionale, tabella C – eventi a circuito a valenza territoriale, tabella D – singoli eventi e manifestazioni a valenza internazionale e nazionale, tabella E – eventi e manifestazioni a sostegno del turismo congressuale, sportivo, culturale, religioso, scolastico. Dal punto di vista delle attenzioni riservate dalla Regione, gli eventi più importanti sono quelli compresi nella tabella A, che ricevono il 100% dei finanziamenti richiesti. Tra le “sagre e feste storiche di valenza regionale consolidata e di particolare rilievo storicoculturale”, la Giunta Regionale ha individuato nove manifestazioni, che sono dunque considerate come quelle maggiormente rispondenti agli scopi della legge, promozione della Sardegna e attrazione di visitatori: S. Efisio (Cagliari), la Cavalcata Sarda (Sassari), la Discesa dei Candelieri (Sassari), la Sagra del Redentore (Nuoro), la
5
EPT Cagliari a Comune di Selargius, Cagliari, 23.07.1974 Presidente della Pro Loco fu inizialmente il sindaco Adriano Secci (DC). In seguito ricoprirono la carica Gino Salis e Franco Camba, che dovette dimettersi nel 1988 per incompatibilità dell’incarico con la carica di assessore comunale. Da quell’anno è tuttora presidente il geometra Frau Gianni, che è stato anche presidente delle Pro Loco provinciali e componente di quella regionale. 7 La delibera in questione e l’allegato sono consultabili all’indirizzo internet http://www.regione.sardegna.it/documenti/1_45_20050809120054.pdf e http://www.regione.sardegna.it/documenti/1_45_20050909133612.pdf 6
146 ▪ Il folklore come richiamo turistico e identitario
Sartiglia (Oristano), l’Ardia (Sedilo), S. Simplicio (Olbia), la Settimana Santa (Iglesias); S. Francesco di Lula. L’Antico Sposalizio Selargino, così come il Matrimonio Mauritano, non è incluso in questa categoria. È stato invece inserito dalla giunta regionale nella tabella E, tra gli “eventi e manifestazioni a sostegno del turismo congressuale, sportivo, culturale, religioso, scolastico”, che ricevono un finanziamento compreso (per il 2005) tra un massimo di euro 35.000 e un minimo di 5.000. Per questo motivo, per una spesa complessiva prevista, nella 45° edizione, di 209.900,00 euro, richiesto un contributo di 115.000 euro, ne sono stati concessi 35.000, pochi rispetto alla richiesta, ma comunque il massimo del contributo della categoria. A Santadi è andata peggio: per una spesa complessiva prevista di 51.645,69 euro (1/4 della spesa selargina), richiesto un contributo di 38.734,27 euro, ne sono stati concessi 9.683,57. La collocazione regionale è palesemente in contrasto con l’immaginaria classifica spontaneamente stilata da alcuni informatori, concordi nel situare il Matrimonio Selargino al quinto o al quarto posto della rilevanza regionale, dopo S. Efisio, la Cavalcata Sarda, il Redentore e la Sartiglia di Oristano. Benché il Matrimonio Selargino non dipenda finanziariamente dai soli fondi stanziati dalla Regione, questi hanno assunto un’importanza decisiva a causa dei disguidi provocati dalla recente riorganizzazione degli enti turistici8 da parte dell’amministrazione regionale Soru. La situazione è incerta e ancora confusa, tuttavia l’ampio dibattito sulla stampa locale ha messo in evidenza il malcontento di Pro Loco e comitati di festeggiamento locali, scettici all’idea dell’assorbimento degli enti turistici tradizionali da parte di amministrazioni comunali e città capoluogo. È meno rischioso perdere il finanziamento da un singolo ente quando questi sono molti, piuttosto che perdere quello di uno solo di due o tre grandi enti, che potrebbe compromettere irrimediabilmente la realizzazione dell’evento festivo. L’accento posto sulla collocazione regionale dell’Antico Sposalizio Selargino mi pare indicativo del mutamento in atto: l’incertezza sul futuro delle fonti tradizionali di finanziamento spinge ad esaltare il prestigio culturale del Matrimonio Selargino al fine di ricavare una nicchia sicura tra i finanziamenti regionali. L’inserimento formale del Matrimonio Selargino tra le grandi manifestazioni del folclore
8
L’art. 26 della L. R. 7/2005 ha stabilito la soppressione dell’Ente Sardo Industrie Turistiche, con conseguente attribuzione delle funzioni e competenze all’Assessorato del Turismo. Le Ept (enti provinciali per il turismo) dovrebbero essere assorbite dalle città capoluogo, mentre le 8 Aziende di Soggiorno dalle amministrazioni dei comuni in cui hanno sede.
Il folklore come richiamo turistico e identitario ▪ 147
sardo (tabella A) permetterebbe di mettersi al riparo dai capricci del rinnovamento dei contributi. Ma quali sono le voci che giustificano una previsione di spesa attualmente stimata sui 200.000 euro? La reticenza in merito è massima, nonostante il criterio della trasparenza che dovrebbe caratterizzare il rendiconto delle spese effettuate coi soldi pubblici. Nell’archivio comunale è stato tuttavia possibile rintracciare il rendiconto dei pagamenti effettuati dal comune di Selargius per l’edizione del 1973 [vedi documento 5.1]. È una lettura interessante: permette di andare oltre il preventivo di spesa per conoscere le spese effettivamente effettuate (minuziosamente dettagliate), consente di valutare il peso del contributo comunale (circa il 30%, 3.160.000 lire per una spesa complessiva intorno a 10.000.000 di vecchie lire), dichiara nomi e cognomi delle persone coinvolte nell’organizzazione dell’evento (si ritrovano nomi di persone ancora oggi attive, come Gianni Orrù, o che lo sono state per moltissimo tempo, come Fedora Putzu). Sempre nell’archivio comunale è stato possibile visionare un preventivo di spesa per l’anno 19749, che riporta più o meno le stesse voci di spesa previste attualmente: 1. Partecipazione dei gruppi folkloristici (rimborso spese) 2. Sfilata carri e cavalli (rimborso spese allestimento carri e partecipazione cavalli) 3. Allestimento tribune e transennatura lungo la sfilata 4. Pubblicità e propaganda (dépliant, manifesti a colori, inviti, affissioni manifesti, servizio fotografico) 5. Celebrazione rito nuziale (addobbo floreale chiesa, rimborso spese parroco) 6. Impianto di amplificazione e presentazione della sfilata (allestimento impianto microfoni e altoparlanti, compenso al presentatore della sfilata) 7. Utilizzazione locali vari (casa dello sposo, casa della sposa, casa degli sposi, rimborso per pulizie locali scuole elementari) 8. Confezionamento cestini, dolci sardi, torta nuziale, dolci ricevimento, vini 9. Dono agli sposi 10. Spese postali, telefoniche 11. Imprevisti e varie
9
Comune di Selargius, Rievocazione Antico matrimonio Selargino - anno 1974, preventivo di spesa (3 pagine)
148 ▪ Il folklore come richiamo turistico e identitario
5.1(a) Rendiconto dei pagamenti effettuati di cui a deliberazione della Giunta Municipale n°496 del 23 ottobre 1973, ratificata dal Consiglio comunale con atto n. 184 del 24 ottobre 1973 per la manifestazione folkloristica della “Rievocazione dell’Antico Matrimonio Selargino”, in data 28 ottobre 1973.
Il folklore come richiamo turistico e identitario ▪ 149
5.1(b) Rendiconto dei pagamenti effettuati di cui a deliberazione della Giunta Municipale n°496 del 23 ottobre 1973, ratificata dal Consiglio comunale con atto n. 184 del 24 ottobre 1973 per la manifestazione folkloristica della “Rievocazione dell’Antico Matrimonio Selargino”, in data 28 ottobre 1973.
150 ▪ Il folklore come richiamo turistico e identitario
5.2 Il tempo della festa Settembre, il mese in cui si tiene il Matrimonio Selargino, è detto in sardo campidanese Capudanni. Il termine indica l’inizio dell’annata agraria e della ripresa dei lavori agricoli, il capodanno, appunto, del calendario del mondo agro-pastorale. Per tutta la sua durata si festeggia(va)no i santi patroni allo scopo di ringraziarli per il raccolto concesso e propiziarne l’abbondanza nella successiva annata. Durante tali feste si stipulavano i contratti agrari, si combinavano affari e avevano luogo gli scambi tipici dell’economia agro-pastorale. Questo potrebbe indurre a pensare che settembre fosse un mese privilegiato per gli scambi matrimoniali. Si potrebbe provare ad analizzare il complesso delle pratiche cerimoniali matrimoniali in funzione dello scorrere del tempo, il lavoro d’archivio potrebbe indicare che certi mesi dell’anno erano privilegiati per la scelta della data delle nozze. L’iniziatore della letteratura di viaggio sulla Sardegna, il cappellano militare Fuos, in servizio nella città di Cagliari per tre anni sino al 1777, scrive nel suo Notizie dalla Sardegna di aver osservato che nei mesi caldi dell’estate “i Sardi […] non lasciano maritare le loro figlie” poiché la temperatura è così alta che “la miglior cosa a fare si è affaticare il corpo meno che è possibile” [Fuos, 2000:228]. Caredda ricorda la superstizione, condannata dal sinodo di Cagliari del 1695, che “sposarsi nei mesi di maggio ed agosto potesse far morire uno dei coniugi entro l’anno” [Caredda, 1993:38] mentre da altre parti erano invece considerati “infausti il periodo di Quaresima o il mese di settembre o quello di luglio, quest’ultimo perché coincideva con la trebbiatura e, così come il grano veniva lanciato in aria perché il vento lo separasse dalla paglia, altrettanto avrebbe potuto involarsi la felicità coniugale” [Caredda, 1993:38]. Limitandosi a ciò che in proposito sanno o ricordano le generazioni viventi, tuttavia, sembrano non sussistere divieti o preferenze particolari. In ogni caso, la storia del Matrimonio Selargino esclude la possibilità che il periodo della rievocazione folkloristica sia stato scelto in base a considerazioni riguardanti una qualche aderenza alla tradizione. Nei primi anni, come si è visto, il Matrimonio Selargino è un evento collaterale associato ai festeggiamenti in onore del Santo Lussorio, nell’ultima domenica di ottobre. Ma dopo solo 4 anni, l’Enal di Cagliari decide che la manifestazione è in grado di reggersi autonomamente e sgancia l’evento dalla festa tradizionale. La rievocazione folkloristica può finalmente rispondere alle esigenze turistiche per cui è stata creata. La data viene anticipata all’inizio di settembre:
Il folklore come richiamo turistico e identitario ▪ 151
sia per le condizioni metereologiche che negli anni scorsi hanno messo in forse la riuscita della manifestazione, sia per dar modo ai numerosi turisti, che in settembre ancora soggiornano nell’Isola, di assistere alla originale manifestazione10 [corsivo mio] L’esperimento ottenne un grande successo, un numero record di visitatori, probabilmente dovuto non solo allo spostamento di data, ma anche alla presenza della presentatrice della Rai Mariolina Lami Cannulli, vecchia conoscenza del gruppo folk selargino [foto 3.3], invitata a presentare l’esibizione dei gruppi folcloristici. Da quell’anno, il Matrimonio Selargino guadagnò il diritto a mantenersi indipendente dalla festa di San Lussorio; tuttavia ancora per diversi anni, gli organizzatori si vedranno costretti a posticipare la festa a causa dei ritardi nell’organizzazione per la scarsa collaborazione del comune. In Sardegna, fa notare Atzori, “si verifica una certa coincidenza tra proposte culturali di tipo etnografico e relativa domanda del mercato turistico” [Atzori, 1997:406]. Non è un caso che l’apertura e la chiusura della stagione turistica coincida con l’inizio e la fine delle grandi manifestazioni folkloristiche: S. Efisio il primo maggio a Cagliari e le grandi feste patronali in autunno. La turisticizzazione dell’evento folkloristico è un elemento che il Matrimonio Selargino condivide con molte altre manifestazioni folkloristiche sarde, particolarmente evidente nella scelta del periodo in cui queste sono collocate. Sino alla metà del Novecento, il tempo della festa era subordinato ai ritmi costitutivi del calendario delle campagne, strettamente vincolato al calendario del lavoro agricolo. Successivamente, ci sono stati casi in cui sa festa manna de sa bidda, la festa principale del paese, è stata spostata per venire incontro alle esigenze turistiche. Nei casi in cui il tempo della festa si sia mantenuto rigido, per inerzia della tradizione o perché assunto come un'eredità, questo non esclude che sia stato allungato, ridotto o modificato per adattarlo alle richieste dei visitatori. D’altronde, fa notare Angioni [1982:244 e 2000], la più importante festa paesana anche in passato si collocava generalmente in un periodo compreso tra la fine della primavera e l’inizio dell’autunno, cioè dopo i grandi lavori agricoli estivi o prima di essi, per cui nella maggior parte dei casi non si è fatto nient’altro che adattare dal punto di vista turistico la tradizionale festa paesana.
10
ENAL a Comune di Selargius, n°3164 protocollo, oggetto: “Antico Sposalizio Selargino”, Cagliari, 12.08.1966
152 ▪ Il folklore come richiamo turistico e identitario
Se prima il tempo della festa era scandito dal ciclo lavorativo contadino, ora il tempo della festa è scandito dall’andamento dei flussi turistici. Si prenda per esempio quanto scritto da Arca e Ligios [1992:73] sulla scelta della data in cui situare la Cavalcata Sarda:
All'inizio la Cavalcata fu fissata al giorno dell' Ascensione: l'idea era che, siccome il turismo si muove in coincidenza con la Pasqua e molte agenzie di viaggio assumono quella data come momento di partenza della stagione turistica, tanto valeva aggregare ad una festa «mobile» anche la Cavalcata. Di lì a qualche anno si sarebbe visto però che talvolta la Pasqua era troppo «bassa», soprattutto in una terra, come la Sardegna, dove ancora si fa fatica a spostare indietro le lancette dell'orologio turistico: e allora la data fu definitivamente fissata alla penultima domenica di maggio, com'è adesso. Perché settembre? Perché non un altro qualsiasi mese compreso all’interno della stagione turistica sarda? La decisione, mi spiega il presidente della Pro Loco selargina, è dipesa da due fattori principali strettamente correlati: primo, la necessità di accedere ai finanziamenti dell’Esit, secondo, la tipologia di turista che arriva in Sardegna. L’Esit era disposto a sponsorizzare l’evento solo nel caso si accettasse di non situare la festa nel periodo di alta stagione, luglio e agosto. Il turista che arriva in Sardegna in alta stagione, venne spiegato, è un turista interessato esclusivamente alla balneazione; è un turista che non si sposta dalle coste, non è incuriosito da quanto avviene più all’interno. Il Matrimonio Selargino doveva essere organizzato immediatamente a ridosso della bassa stagione. In questo modo si riusciva ad attirare il tipo di turista attratto dalle manifestazioni culturali, che visita la Sardegna non solo per il suo mare. Poiché a maggio e giugno il tempo è ancora instabile, si decise di puntare su settembre. A questi due fattori se ne potrebbe sicuramente aggiungere un terzo: il contesto delle manifestazioni folkloristiche nel circondario. È evidente che il numero di turisti si riduce all’aumentare delle proposte simili, soprattutto se in un lasso di tempo troppo ravvicinato. La certezza di una data stabile, in questo caso la seconda domenica di settembre, assicura il non ripetersi di situazioni spiacevoli come quella dell’87 e dell’88, in cui Assemini e Selargius scelsero la stessa domenica per il matrimonio, e dovettero contendersi pubblico e gruppi folk.
Il folklore come richiamo turistico e identitario ▪ 153
5.3 Lo spazio della tradizione Dove ha luogo la messa in scena del Matrimonio Selargino? Nelle strade o nelle piazze, al chiuso o all’aperto, in spazi specializzati (musei, teatri, stadi) o in spazi periferici, esterni al centro abitato? Lo spazio costituisce un fattore rilevante nella comprensione del fenomeno Matrimonio Selargino. Le modalità secondo cui lo si utilizza non sembrano il risultato di decisioni contingenti, slegate tra loro, in quanto mostrano una certa coerenza interna. Lo spazio appare trasformato, modificato o rifunzionalizzato al fine di adattarlo alla esigenze della festa.
5.3.1 Percorrendo il passato Si prenda in esame il percorso
del
nuziale
nel
corteo
dello
partito
corteo 1962.
Il
sposo,
dall’incrocio
di
via S. Martino con via Crimea, percorreva via Roma dove, all’altezza di
via
Dante,
congiungeva corteo
della
con
si il
sposa,
partito da piazza Don Orione, per proseguire insieme in via Dante alla volta
della
chiesa
dell’Assunta. La scelta di questi spazi, solo in 5.2 Percorso corteo nuziale 1962 [elaborazione F. Salis]
apparenza casuale, si rivela se ci sofferma
sull’organizzazione dell’abitato nella prima metà del secolo, così come la ricordano i più anziani. L’abitato di Selargius, nel passato, era concentrato tutto intorno alla via Roma, che costituiva la via principale del paese. L’attuale via Roma nel passato era denominata
154 ▪ Il folklore come richiamo turistico e identitario
s’arriu (il torrente), poiché nella stagione delle piogge vi ci scorreva un torrente che periodicamente distruggeva l’abitato. S’arriu divideva la parte antica del paese in due parti: su bixinau de pitzus, il rione di sopra (tratteggiato in rosso nella pianta soprastante) e su bixinau de baxu, il rione di sotto (tratteggiato in celeste), così denominati perché componevano rispettivamente la zona alta e quella bassa del paese. All’esterno del perimetro disegnato dai confini dei due rioni, si ripartivano le numerose strade che collegavano Selargius direttamente con tutti i centri vicini: bi’e Sestu, (via S.Martino) verso Sestu; bia beccia (via istria), così chiamata perché era la vecchia strada per Cagliari prima che venisse aperta anche bi'e Casteddu; bi’e Paoli, via Trieste, verso Monserrato; bi’e Settimo, il tratto di via Roma esterno al centro abitato, verso Settimo San Pietro. Il centro abitato era costituito da case addossate le une alle altre. Le strade erano generalmente poco più che viottoli (utturrus e utturreddus): irregolare,
di
larghezza
erano
solitamente
strettissime
e
seguivano
un
tracciato tortuoso. Poche erano selciate
per
cui
risultavano
fangose d’inverno e polverose d’estate, con i numerosi fossi ricoperti di paglia o altri materiali. L’acqua piovana ristagnava a lungo nel solco delle cunette, ricavate ai lati delle strade o al centro della carreggiata. Quando poi le piogge erano abbondanti, le vie si trasformavano in enormi rivoli che straripavano a causa 5.3 Una vecchia immagine di via Dritta, l’attuale via Roma
dell’assenza di arginature delle cunette.
Il folklore come richiamo turistico e identitario ▪ 155
Si racconta che la divisione tra i due rioni non fosse una questione meramente geografica, ma fosse connessa anche ad altri fattori di tipo sociale ed economico. Quel che è certo è che ogni rione aveva i propri punti di riferimento e di incontro: s’ie Piredda per su bixinau de pitzus (all’incirca all’incrocio tra via crimea e via San Martino) e Pratz’e Cresia (piazza di chiesa) per su bixinau de baxu. Erano punti di incontro inevitabili, in cui si sostava per lunghe ore, poiché vi erano situate le fontanelle pubbliche, unica fonte di acqua potabile (molte case erano dotate di pozzo, ma l’acqua raccolta era salmastra e quindi non potabile). Su bixinau de pitzus ruotava dunque attorno a sa ia manna (la via grande, via Crimea) e si estendeva sino a via Roma, delimitata da una parte da via S.Martino (bi’e Sestu, la strada per Sestu) e dall’altra da via S.Salvatore (s’arruga ‘e Coiana). Al suo interno, gli edifici più importanti erano in s’atziada de Beccheria o de Biccu (la salita della beccheria), così chiamata perché vi era il mercato pubblico delle carni, poco distante si trovava anche la scuola femminile. Ancora più importante, in via S.Olimpia, la casa Rattu-Tasca, nel passato sede del municipio e, ancor più anticamente, sede della giudicatura del Mandamento. Su bixinau de baxu, dall’altra parte della via Roma, si estendeva all’incirca sin poco dopo il piazzale della parrocchiale. Comprendeva, oltre la chiesa di Maria Vergine Assunta, le chiesette di S’Antonio e di San Giuliano, l’ex carcere aragonese, l’area di San Nicolò, regno degli ortolani, lo stabilimento vinicolo S.Boi, nonché la stazione tranviaria. Il collegamento tra i due vicinati avveniva tramite le salite, ai due lati della via Roma, il cui nome era legato a quello delle famiglie che ci abitavano; un altro punto di incontro comune ai due vicinati, al limite del centro abitato era sa ruxixedda (all’incrocio tra bi’e Settimo, come era chiamato il tratto immediatamente fuori dall’abitato della via Roma, diretto verso Settimo S.Pietro, dopo via San Salvatore e via Rosselli), così chiamato per la presenza di una piccola croce ora scomparsa. Ma il vero punto d’incontro, il più importante, era quello situato tra via S.Olimpia, via Roma e via Dante, s’atziada ‘e caserma (la salita della caserma, per la presenza dei carabinieri nell’edificio dell’ex carcere aragonese). Era il punto di incontro dei vivi e dei morti, della Madonna e dei Santi: qui era il fulcro della vita politica del paese, con la sede del municipio e il carcere-stazione dei carabinieri, qui si attendeva il passaggio dei cortei funebri diretti al cimitero, qui la domenica di Pasqua, nel rito de s’incontru, si incontravano le due distinte processioni, una col simulacro della Madonna, l’altra con quello del Cristo risorto, per procedere insieme sino alla chiesa dell’Assunta. Qui, infine, nel 1962, si decise di far incontrare il corteo dello sposo e il corteo della sposa per la sagra del Matrimonio Selargino.
156 ▪ Il folklore come richiamo turistico e identitario
Il quadro è ora chiaramente delineato: ponendo in relazione lo spazio percorso dal corteo
nuziale
con
le
considerazioni
precedenti
sull’organizzazione
spaziale
dell’abitato, si ottiene un risultato che si presenta troppo preciso perché esso possa essere di natura semplicemente casuale. Le strade e le piazze scelte per il passaggio del corteo circoscrivono il perimetro del centro abitato nei primi decenni del Novecento, toccandone i punti nevralgici e dirigendosi verso la chiesa principale. La festa scorre lungo un percorso concepito come un itinerario, alla scoperta di quello che una volta costituiva l’intero abitato e ora, con la crescita smisurata del secondo dopoguerra, è diventato il centro storico. Come è stato scritto in un articolo de “L’Unione Sarda” [11-09-95, p. 6], il corteo della festa scorre lungo i “rioni storici, baluardi ancora inespugnati della selarginità più genuina”: lo spazio della festa è lo spazio della tradizione. Il riferimento semantico proposto dagli organizzatori della festa si riferisce allo spazio come luogo di riappropriazione di una identità “autentica”, di un senso di comunità quale quello vissuto dai selargini delle generazioni precedenti. La proposta degli organizzatori è dunque un salto nel passato, salto facilitato dal fatto che, per l’occasione, si cerca concretamente di ricreare un’atmosfera di paese di cento anni fa, come rileva anche Sardu:
le strade in cui sfilerà il corteo nuziale sono almeno per un giorno linde e completamente sgombre da ogni tipo di veicolo, cosa che produce, per chi non è più tanto giovane, un piacevole ritorno all’infanzia quando la strada era il regno incontrastato del viandante e il salotto buono delle comari.11 Oltre che a sgombrare le vie da tutte le macchine, i cittadini sono invitati a mettere in mostra tutto ciò che in qualche modo possa ricondurre all’atmosfera che si tenta di ricreare:
È un’occasione straordinaria per spargere le strade di essenza di fiori profumati, di foglie fresche, stendere drappi, arazzi e lenzuola finemente ricamati sulle finestre, per aprire i portoni delle case con cortili pieni di fiori e di piante e con le lolle tipiche per gli affreschi murali e per le cassapanche antiche. Ognuno potrà, nella settimana di festa, esporre e vendere liberamente i prodotti della campagna alla propria porta o mettere in mostra le opere che spiccano per l’ispirazione e per l’arte.12
11
Sardu, VHS Antico Matrimonio Selargino Comune di Selargius e Pro-Loco a cittadinanza, Selargius, 1993, manifesto affisso sui muri e volantino distribuito nelle case.
12
Il folklore come richiamo turistico e identitario ▪ 157
In alcuni anni è stato pure indetto un concorso per premiare pecuniariamente la casa meglio addobbata. Tra gli inviti rivolti alla popolazione, uno spicca in particolar modo per il suo significato simbolico: quello spargere nelle strade fiori profumati e foglie fresche ha un nome specifico nella tradizione sarda, dove è conosciuto come sa ramadura. L’ornamento delle strade è una tradizione di origine bizantina, utilizzata per onorare il cammino dell’imperatore e di altre personalità molto importanti, “il cui percorso era decorato con ghirlande, piante profumate e vari addobbi di pregio” [Pillai, 1997:20]. In Sardegna l’usanza è stata trasferita alle processioni religiose, quale segno di devozione e rispetto per la statua del santo, che sfila per le strade cittadine accolta dal profumo delle foglie di menta e di basilico, dai festoni di mirto e da addobbi vari. Qual è allora il legame tra sa ramadura e il rito del matrimonio? A detta di diversi informatori, si tratta della rifunzionalizzazione attuale di un’usanza legata tradizionalmente alla venerazione del sovrannaturale. È indubbio, in ogni modo, che si tratti di un’operazione che coglie nel segno l’effetto ricercato. La decorazione delle strade è un espediente attraverso
il
quale
un’architettura
effimera
risemantizza
quella
permanente,
trasformandola in scenario festivo. Da una parte, nascondendo asfalto e cemento, si trasmette l’immagine di un vecchio borgo agricolo, dall’altra, attraverso i profumi, i fiori, le bandierine colorate si ricrea l’atmosfera di un paese in festa. La strada è il luogo principale di una festa che vuole essere “di tutti”. Spazio aperto di incontro, aggregazione ed esibizione, lascia libera scelta sulle modalità di partecipazione: da quale punto, per quanto tempo. La strada è concepito come un luogo di spettacolo in cui si distinguono due settori: uno per gli attori, l’altro per gli spettatori. È qui la principale difficoltà incontrata dagli organizzatori: conciliare le esigenze dello spettacolo con quelle del pubblico. Perché se da una parte è indubbio che l’illusione del “salto nel passato” riuscirebbe al meglio con un corteo in costume che si snoda per le viuzze del centro storico, è altrettanto chiaro che lo spazio troppo angusto e la visuale limitata non soddisfa gli spettatori, i quali preferiscono concentrarsi nei punti che consentono una maggiore libertà di movimento. Non soddisfa neppure le esigenze dei partecipanti in costume, costretti a sfilare per ore sotto un sole impietoso per vie in cui gli spettatori si possono contare sulle dita di una mano.
158 ▪ Il folklore come richiamo turistico e identitario
Negli anni, i tentativi di conciliare
le
diverse
richieste
sono
stati
innumerevoli, ogni pochi anni
è
stata
sperimentata una nuova soluzione
di compromesso.
Particolarmente elegante
la
scelta
dell’88. Il corteo dello sposo, partito dalla casa campidanese Ligas, si ferma sulla soglia di quella che idealmente è la casa della sposa, in via Roma. I due cortei 5.4 Percorso corteo nuziale 1988 [elaborazione F. Salis]
procedono poi insieme per
strade
ampie
e
spaziose, con larghi marciapiedi per il pubblico: via Crimea, via San Martino, via Istria e Manin. Ma tale soluzione non poteva essere definitiva. Selargius era ormai cresciuta a dismisura e il perimetro percorso dal corteo copriva un’area eccessivamente ridotta rispetto all’area dell’intero abitato: bisognava necessariamente ampliarlo altrimenti non sarebbe più stato possibile immaginare il Matrimonio Selargino come una “festa di paese”. Non è necessario soffermarsi sulle infinite variazioni del percorso negli anni successivi. En passant, si può giusto far notare come uno dei risultati duraturi delle sperimentazioni successive sia stato l’utilizzo della via San Martino in tutta la sua lunghezza. In questa via, nel momento in cui è occupata dall’inizio alla fine, si ferma l’avanzare del corteo per una decina di minuti cosicché i vari gruppi folcloristici che lo compongono possono esibirsi in canti e balli più o meno improvvisati, per la gioia del pubblico.
Il folklore come richiamo turistico e identitario ▪ 159
5.5 Percorso corteo nuziale 1998 [elaborazione F. Salis] Negli ultimi anni il percorso si presenta più o meno invariato, segno che si è giunti a una soluzione che sembra soddisfare le diverse esigenze. Ciò nondimeno, gli organizzatori la ritengono una soluzione temporanea e sono ancora alla ricerca della giusta via di mezzo che possa conciliare la richiesta di spettacolo da parte del pubblico e l’atmosfera di intimità e raccoglimento richiesta dal rito che sta per essere celebrato. Strade e piazze, centrali e situate nel centro storico, sono nel Matrimonio Selargino gli spazi privilegiati della festa. Tuttavia, il discorso non potrebbe dirsi completo se non si facesse cenno al ruolo giocato dalle case campidanesi in questo contesto.
160 ▪ Il folklore come richiamo turistico e identitario
5.6 Percorso corteo nuziale 2006 [elaborazione F. Salis]
5.3.2 Sa domu cerexina – La casa selargina A Selargius, come nelle altre zone di pianura e collina dove l’attività economica prevalente era quella agricola, la tipologia abitativa più diffusa era quella della “casa a corte”. Ne è elemento distintivo sa lolla, il loggiato, che alcuni trovano molto simile al patio spagnolo, un lungo porticato sul quale si affacciano e prendono luce le stanze (aposentus), posto come filtro tra queste e il cortile (pratza). Le lolle erano realizzate in vari stili, ma sempre con una struttura ad archi (a tutto sesto o a sesto ribassato) e con materiali quali il ginepro (zinnibiri) e mattoni di terracotta. La casa campidanese si sviluppa su un solo piano, sul lato nord, ma senza finestre in questa direzione; con questo accorgimento si riusciva ad evitare i fastidi provocati dal soffiare continuo del maestrale, il vento che in Sardegna piega tutto il piegabile in direzione sud-est. Le stanze erano perciò buie e la poca luce era quella che filtrava
Il folklore come richiamo turistico e identitario ▪ 161
dalla lolla, orientata in direzione sud-est, che se da un lato riduceva la luce nelle stanza, dall’altro le proteggeva dal calore estivo e dal freddo invernale. La tipica casa selargina è una costruzione in ladiri (mattoni crudi). Tutti i muri venivano realizzati con questo materiale e la ragione è presto detta: la pietra è un elemento quasi assente nel territorio selargino. Per procurarsi il blocco squadrato di pietra arenaria col quale proteggere le parti più sollecitate e abbellire la costruzione, era necessario recarsi nella zona “is seddas” a Selargius o direttamente alle cave di Cagliari. Per proteggere le fondamenta dalle piogge e dall’umidità veniva realizzato uno zoccolo con pietrame raccolto sul greto dei torrenti misto a malta di fango; sottovalutare il problema della solidità delle fondamenta ha significato, nelle periodiche annate delle alluvioni, vedersi portare via la casa dall’impeto delle acque, soprattutto in zone come la via Roma. Alte mura, senza finestre, separavano una proprietà dall’altra. Anonimo e dimesso, l’esterno di una casa campidanese non rivela nulla di quello che si trova all’interno. L’unica via di comunicazione con l’esterno era costituito dal portale che immetteva nel cortile. Unico segno esteriore di distinzione tra le case, al portale erano riservate attenzioni estetiche particolari, tanto da farne il specifico oggetto di trattazione in pubblicazioni apposite e materia di studio per gli studenti delle scuole medie, periodicamente inviati in perlustrazione a fotografare gli ultimi portali che nascondono le vecchie domus. Per quanto concerne le caratteristiche architettoniche e funzionali delle abitazioni, ha scritto Angioni [1985:237-284], c’è più varietà all’interno di uno stesso paese che tra zone diverse della provincia di Cagliari. La distinzione sociologica tra le varie categorie di abitanti è insomma più rilevante della distinzione architettonica e urbanistica tra le varie zone della provincia. E infatti, uno volta all’interno, al di là della tipologia (la presenza della lolla, i muri in ladiri e la disposizione a sud-est), pochi altri erano gli elementi condivisi: sa domu ‘e lettu e su muntronaxiu. La prima era una stanza destinata, in modo esclusivo, al solo pernottamento della coppia marito e moglie; spesso era l’unica stanza dotata di letto, mentre i figli dormivano in un’altra stanza, per terra, su giacigli realizzati con materiali vari. Indistintamente, in tutte le abitazioni, mancavano le latrine; al loro posto su muntronaxiu, uno spazio per i bisogni fisiologici utilizzato anche l’accumulo di tutti i rifiuti domestici, in cui rovistavano tutti gli animali.
162 ▪ Il folklore come richiamo turistico e identitario
Le differenze tra proprietari (grandi, propietariu mannu; medi, propietariu; piccoli, propietarieddu) e tra questi e quanti non possedevano nulla, erano considerevoli. Il criterio della proprietà distingueva gli uni dagli altri: la quantità dei mezzi di produzione posseduti tra attrezzi da lavoro, bestie e terra. Ognuno aveva case proporzionate alle dimensioni dei propri possedimenti. La casa dei proprietari non si distingueva solo per una maggiore ampiezza e qualità degli ambienti, ma anche e soprattutto per la presenza, ai lati del cortile, lungo il perimetro del muro di recinzione, dei locali per il deposito degli attrezzi agricoli e pastorali e delle derrate alimentari. Vi era lo spazio per il forno, la stanza con l’asinello che azionava sa mola per la lavorazione dei cereali, il pozzo e gli abbeveratoi per gli animali, il deposito per la legna, il pagliaio, i ricoveri per gli animali. Le case dei braccianti e degli artigiani, al contrario, svolgevano la sola funzione di abitazione, senza annessi agricoli o con solo un abbozzo di essi, mentre quelle dei piccoli e medi proprietari avevano almeno la stalla per una coppia di buoi e un magazzino per gli attrezzi o per il deposito del raccolto. Selargius conserva ben poche delle sue domus. Qualcuno afferma, malignamente, che il Matrimonio Selargino ne abbia accelerato il processo di abbattimento: si racconta che ogni qual volta una vecchia casa è stata scelta come sede per la rievocazione folkloristica, dopo poco tempo è stata abbattuta per far posto a un moderno villino. Quale che sia il motivo, è indubbio che nella sua storia il Matrimonio Selargino abbia dovuto modificare più volte la sede della messa in scena di alcuni momenti fondamentali della rievocazione folkloristica: la vestizione degli sposi, la loro benedizione e il banchetto nuziale. Attualmente la Pro Loco si avvale della casa Ligas in via Rosselli, la casa Putzu in via Roma 115 e la casa del canonico Putzu in via Roma 63. Le prime due, utilizzate quotidianamente dai proprietari come normali abitazioni, per alcuni giorni diventano rispettivamente “la casa della sposo” e la “casa della sposa”, mentre la terza casa, di proprietà del Comune, rappresenta la nuova abitazione della coppia unita in matrimonio, in cui si consuma il banchetto nuziale. Quale migliore scenario di un tipico prodotto della cultura campidanese, un’antica domu cerexina, per collocare un altro prodotto, il Matrimonio Selargino, che si vuole riproduttore della stessa cultura? Il legame, reale, tra contesto scenico e tradizione campidanese, rende altrettanto reale il legame tra le azioni rituali messe in scena e la stessa tradizione; la domu esprime visivamente ciò che le parole lascerebbero all’immaginazione.
Il folklore come richiamo turistico e identitario ▪ 163
Certo, bisognerà ammettere che le case scelte non rispecchiano quella che doveva essere l’abitazione del selargino medio di cent’anni fa. Sono case estremamente ricche, appartenute a grandi proprietari terrieri, l’elite del passato. Basteranno due nomi: Speranza Putzu Loddo e Saverio Cabras Pisu [foto 4.16], ex inquilini della casa situata in via Roma 115. Saverio Cabras Pisu era nipote di Efisio Cabras, ex sindaco e notaio, e figlio di Filomena Pisu, di Settimo; nel 1894 la madre ottenne dal giudice l’autorizzazione ad attingere dal fondo di 20000 lire (lasciate come donazione al figlio minorenne) per ristrutturare la casa di via Roma, danneggiata dalle alluvioni degli anni prima. Speranzina Putzu Loddo (già nominata in precedenza per l’abito indossato nella foto 4.16, prototipo di quello che sarebbe diventato l’abito di parata selargino) era l’unica figlia femmina di Anna Rosa Loddo e Efisio Luigi Putzu, più volte sindaco di Selargius. Ebbe come fratelli Giuseppe (sindaco di Selargius tra il 1914 e il 1916), Pietro, Antonio, Don Francesco Onorio e il Canonico Felice Putzu, proprietario, in vita, dell’altra casa situata in via Roma e utilizzata per il Matrimonio Selargino. La ricchezza della famiglia Putzu è evidente nel fatto che Efisio si preoccupò, alla fine del 1800, di far erigere la chiesa di S.Salvatore sopra le fondamenta della chiesa secentesca crollata nel 1864; in seguito la stessa famiglia ne fece dono all’opera Don Orione. Quando Speranzina e Saverio si sposarono, intorno al 1905, andarono a vivere nella casa di via Roma. Morto il marito senza eredi (ebbero un solo figlio che morì in giovane età), la casa, come previsto dal contratto di matrimonio, rimase di proprietà della donna, la quale continuò a viverci sino alla morte (la casa passò poi al nipote Francesco, figlio del fratello Pietro, e di qui all’attuale proprietario Felice, figlio di Francesco) mentre fece dono al paese, nel 1939, della casa dei genitori affinché venisse utilizzata come asilo. Esteriormente, un indice inequivocabile dell’agiatezza dei proprietari di queste abitazioni è la struttura su due piani e la bellezza dei portoni. Ma è una volta all’interno che lo sguardo del visitatore realizza l’entità di questa ricchezza: decine e decine di attrezzi agricoli di ogni tipo, magazzini per le botti, pozzi, mobili di fattura pregiata. È scomparso su muntronaxiu, è bene dirlo. Si potrebbe scambiarle per musei della civiltà contadina sarda, come se ne vedono un po’ dappertutto in Sardegna, se non fosse che, a differenza di questi musei, gli oggetti che le compongono non sono necessariamente tutti riconducibili a una qualche specificità autoctona. Piuttosto rispecchiano il gusto della ricca borghesia selargina di inizio secolo, per cui elementi riconosciuti come sardi (sa lolla, per esempio) si mescolano armonicamente ad altri (l’arredamento, per citarne uno) che si rifanno alle mode continentali del momento.
164 ▪ Il folklore come richiamo turistico e identitario
5.3.3 E se si trasferisse tutto a San Lussorio?
5.7 Marghinotti Giovanni, Festa campestre in Sardegna, 1861, olio su tela Nel 1861 il maggiore pittore dell’800 sardo, Giovanni Marghinotti, nato a Cagliari nel 1798, dipinge uno dei suoi quadri più noti, Festa campestre in Sardegna, in cui descrive un momento di una festa campestre sarda. La rappresentazione è ricca di particolari che sembrano osservati dal vero: il gruppo di ballerini impegnato nel tradizionale ballu tundu, la figura in primo piano che forse li accompagna suonando contemporaneamente sulittu e tamburinu, i particolari dei costumi delle altre figure, appartenenti a diverse località della Sardegna, la tracca “parcheggiata” di fronte alla chiesa, la chiesa sullo sfondo. L’edificio, dalla “fisionomia tipica dei santuari campestri del Meridione sardo, con portichetto antistante funzionale allo svolgimento della sagra” [Serra R., 1993:177] è descritto con una tale fedeltà che Serra Renata lo identifica con certezza come il santuario dedicato a S. Lussorio, da secoli nel bel mezzo dell’agro selargino. Se la chiesa è quella di S. Lussorio, la festa non può che essere quella in onore del santo, una volta fra le più frequentate e celebri feste campidanesi. Immagino che non esista esempio migliore del quadro di Marghinotti, per illustrare una proposta che potrebbe modificare radicalmente il senso della manifestazione nella direzione di una sempre più marcata forma di turismo etnico. Si riosservi il quadro come se fosse un’istantanea recente di una festa, non più quella per S. Lussorio, bensì
Il folklore come richiamo turistico e identitario ▪ 165
quella del Matrimonio Selargino, e si otterrà “la novità del futuro, tesa a una manifestazione sempre più originale e suggestiva”13. L’idea, di cui si sente discutere per la prima volta nel 1991, è di Tonino Melis. Importante uomo politico selargino, impegnato sin dai primi anni Settanta nel ruolo di consigliere comunale, in quello di assessore e di sindaco (1985-1990 e 1994-1998), Melis non è certo nuovo alle innovazioni nell’ambito del Matrimonio Selargino, con l’introduzione nell’86 della partecipazione della coppia straniera e l’anno successivo del “Palio della sposa”. Per un certo periodo è anche un’importante funzionario dell’Esit ed è in questa veste che lancia una nuova proposta, riportata in un articolo dell’Unione:
Già dalla prossima edizione – dice Melis – sarebbe più bello celebrare lo sposalizio nella chiesetta di san Lussorio. Non solo, ma utilizzerei il palco circostante per un altro progetto: creare uno spazio attorno all’antico tempio dove tutti devono muoversi indossando il costume sardo. Tutti, dal venditore di noccioline all’artigiano che presenta i suoi elaborati, al pescatore che vende i pesci. E all’interno di questo spazio – ha aggiunto ancora Melis – sarebbe opportuno anche organizzare il banchetto nuziale, con tutti gli ospiti vestiti ugualmente con i costumi tradizionali. In questo modo, si tornerebbe davvero al passato di una coreografia irripetibile. Un matrimonio così conquisterebbe davvero spazi imprevedibili e lancerebbe Selargius verso nuovi orizzonti turistici, ben oltre i confini dell’area metropolitana14. Una sorta di presepio dell’identità sarda, un museo vivente di boasiana memoria? Uno studioso di antropologia non può fare a meno di accostare l’iniziativa a quella di Franz Boas, il quale nel 1892 si accordò con alcuni indiani Kwakiutl perché andassero ad abitare in un finto villaggio Kwakiutl, ricostruito appositamente, dove potersi dedicare alle loro attività abituali sotto lo sguardo dei curiosi che visitavano la mostra15. È lo stesso accostamento che probabilmente verrebbe in mente a Buttitta, che più volte ha lamentato la politica di valorizzazione delle tradizioni in senso turistico - consumistico, la quale condannerebbe alla reiterazione degli stereotipi etnici, alla
13
“L’unione Sarda”, Due coppie all’altare: una sarda l’altra austriaca, 14-09-91, p. 10. Ibidem. L’idea venne rilanciata anche in altri articoli delle successive edizioni del Matrimonio Selargino. La mancata attuazione del progetto, mi ha spiegato Melis, è legata per lo più alla lentezza dei lavori di restauro della chiesetta di S. Lussorio e a divergenze ancora irrisolte con i proprietari dei terreni dell’area circostante. Tuttavia, se venisse rieletto alla carica di sindaco nel prossimo anno … 15 Ma, senza spingersi troppo lontano, si potrebbe ricordare la famiglia fonnese scelta a rappresentare la Barbagia alla Mostra Etnografica svoltasi a Roma nel 1911, che dimorò per mesi nell’abitazione “fonnese” tradizionale ricostruita negli spazi espositivi (Muru Corriga, 1990a:99). 14
166 ▪ Il folklore come richiamo turistico e identitario
creazione di “riserve indiane”, dove stanchi attori dovrebbero trovarsi a recitare la parte dei commossi fedeli, degli operosi artigiani, dei pii contadini e quant’altro, a profitto del turista di passaggio felice di “stupirsi” di usi e costumi “antichi” e “selvaggi” [Buttita, 2000:7] Nonostante questo, anzi proprio per questo, l’attuazione del progetto si rivelerebbe accattivante dal punto di vista di un’indagine antropologica interessata a studiare gli inevitabili mutamenti apportati ai significati della festa.
Il folklore come richiamo turistico e identitario ▪ 167
5.4 La partecipazione di gruppi in costume Come abbiamo appena visto, uno dei fattori principali che influenza l’uso dello spazio è la gestione della sfilata dei gruppi folkloristici. Ogni anno una fetta consistente del budget del Matrimonio Selargino è utilizzato per invitare a sfilare un numero piuttosto alto (circa una quarantina) di gruppi folk provenienti da tutta la Sardegna, per un numero complessivo di circa un migliaio di partecipanti (senza contare le persone a cavallo, sulle traccas e il gruppo spontaneo). Nessuno sembra mai essersi posto il problema della coerenza della loro partecipazione con la riproposizione di una matrimonio tradizionale di paese. A dire il vero, quale che sia il motivo della festa, quella che Ariño [1997: 15] chiama “esibizione vestimentaria di grandi masse organizzate in associazioni volontarie”, è una caratteristica presente in qualsiasi manifestazione folkloristica (ma non solo) sarda, il cui successo pare direttamente proporzionale al numero di gruppi folkloristici che può permettersi di ospitare. In realtà, non è neppure necessario inventarsi un pretesto per sfilare: si pensi per esempio alla Cavalcata Sarda, la cui unica ragion d’essere è propriamente lo sfoggio del costume tradizionale paesano. L’“immotivata partecipazione di gruppi in costume”, evidenziata dal passo in epigrafe in apertura del capitolo, costituisce un buon oggetto di indagine antropologica. Perché la loro partecipazione non è oggetto di discussione, anzi è considerata ovvia e imprescindibile? Quali sono i motivi per cui l’abito tradizionale costituisce un richiamo forte per migliaia di spettatori? La prima considerazione che si può fare al riguardo è che il costume è bello. Questo perché la storia dell’abito sardo si ferma al culmine, proprio nel momento in cui le innovazioni tecnologiche, le competizioni estetiche messe in moto da esposizioni come quella del 1881 a Milano e del 1896 a Sassari, nonché dalle manifestazioni in onore dei Reali, fanno raggiungere agli abiti “il più alto livello economico e il massimo splendore estetico e cromatico” [Piquereddu, 2003:53]. È l’ultima istantanea, il momento successivo gli abiti perdono sostanzialmente la funzione d’uso, avviandosi a diventare
materia museale e scenografica, costumi, elementi connotati da atemporalità, non modificabili, non partecipi della costante mutevolezza della moda, entrando a pieno diritto nella grande Esposizione Internazionale romana del 1911 all’interno della mostra di Etnografia italiana curata da Giovanni Loria […] [Piquereddu, 2003:53]
168 ▪ Il folklore come richiamo turistico e identitario
La combinazione degli eventi ha permesso di tramandare come tradizionali le versioni più belle e più ricche del sistema vestimentario sardo. Nonostante molti studiosi, nonché molti viaggiatori, si siano ostinati a presentarli come il frutto di una tradizione immutata nei secoli (se non millenni), a causa del poco progresso e delle comunicazioni limitate, ora sappiamo che in realtà la foggia in cui ci sono pervenuti, è il risultato di un processo di rifunzionalizzazione indumentaria iniziato nel XVII secolo e conclusosi alla fine del XIX [Piquereddu, 2003:15]. Lo splendore e la ricchezza degli abiti registrata da molti autori del XIX secolo, non è il segno di una persistenza secolare, bensì l’effetto dell’immissione a buon mercato dei tessuti industriali alla fine dell’800. La varietà di prodotti dell’industria tessile europea resa accessibile anche alle élite di paese determina una rivoluzione nelle stoffe, nei colori e negli ornamenti dei vestiti dei ceti rurali e delle classi popolari. La possibilità di fruire di un catalogo di colori tradizionalmente precluso, per esempio. È irragionevole pensare che, prima della scoperta dei coloranti chimici, le classi popolari potessero permettersi toni intensi, brillanti, saturi e colori come il rosso degli abiti tradizionali del Campidano; non si andava oltre la “gamma dei bruni e dei mezzi toni, l’opacità della ruvida lana, il colore sporco delle fibre grezze”16. La diffusione della produzione tessile industriale, rendendo desueto il sistema produttivo della tessitura tradizionale, causò l’abbandono generalizzato dei telai e la riconversione del lavoro femminile nella produzione di pizzi e ricami. Questo permise di effettuare quegli interventi innovativi in direzione del vistoso arricchimento ornamentale che caratterizza camicie, polsi e polsini, veli e fazzoletti; un tipo di lavoro fino ad allora tradizionalmente riservato agli abiti dei ceti elitari. L’ampia diffusione di veli, grembiuli, fazzoletti di tulle ricamati in bianco su bianco, sono un altro esempio di come ciò che oggi appare come un elemento imprescindibile dell’abito autoctono, sia un’introduzione recente seguita all’affermazione della moda dell’abito bianco nuziale in molte città europee. Il sistema base dell’insieme vestimentario sardo è dappertutto lo stesso: copricapo, camicia, corpetto, giubbetto, gonna e grembiule per le donne; copricapo, camicia, corpetto, giubbetto, calzoni, gonnellino, brache per gli uomini. Le regole vestimentarie presentano sostanziali convergenze, variano i dettagli, i colori e le ornamentazioni. Su
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386 comuni in Sardegna, più di un centinaio hanno ricostruito o reinventato i propri abiti tradizionali. Se si tiene conto che molti di questi hanno ristabilito 3-4 varianti da usare a seconda che l’uso fosse quotidiano o festivo, a seconda dello stato civile di chi lo indossava, ecc., un rapido calcolo dà idea dell’eterogeneità scaturita dal sistema base comune17. Ciò che identifica un paese rispetto all’altro è la variante nel colore, nella forma, nella decorazione, nel modo di portare un elemento del vestiario, che produce una sorprendente varietà finale e dà luogo a una sorta di “estetismo competitivo”. Per la folla di spettatori, è uno dei motivi principali per cui assistere alla sfilata dei gruppi folkloristici. Spesso sono immediatamente riconoscibili i turisti alla loro “prima sfilata”, paralizzati dallo stupore o al contrario come impazziti nel tentativo di fotografare tutto, che non resistono alla tentazione di chiedere come sia possibile portare la mastruca18 in piena estate, mentre gli habitué, sardi o turisti “svezzati”, si divertono a stilare classifiche sui paesi con il costume più bello, commentando la bellezza di ogni particolare o criticando il modo in cui è indossato. Un altro divertimento regionale consiste nell’indovinare la provenienza del gruppo folk, riconoscendo i tratti distintivi del costume prima che si riesca a leggere la scritta del paese al quale appartiene. I costumi tradizionali costituiscono motivo di attrazione anche per un altro motivo fondamentale, di natura identitaria. In senso antropologico, come è noto, l’identità può avere aspetti diversi a seconda che si intenda considerarne la nozione soggettiva o quella collettiva. Per quest’ultima, che esprime ciò che sente di sé un popolo, un gruppo, una comunità, lingua e abbigliamento rappresentano nella maggior parte dei casi due delle forme più significative attraverso cui si elabora l’appartenenza. I costumi, ha scritto Marcello Serra, “sono soltanto i simboli, non l’essenza” della sardità. Tuttavia è attraverso il costume, indossandolo, che si riscopre la propria identità di sardi:
Anche quei sardi che a contatto col progresso e per l’influenza livellatrice della civiltà odierna hanno stemperato necessariamente la loro sardità nel costume anonimo e generico, indossando in quel giorno il costume tradizionale, ritemprano al contatto corale la loro natura illanguidita [Serra, 1989:67]
16
Orsi Landini, “La seta”, in Annali 2003, p. 366 citata in Piquereddu 2003, p. 43 Colomo, Speziale 1983; Arca, Ligios 1992 18 Mastruca è il termine italiano col quale si usa indicare sa bist’ ‘e peddi, tipico indumento utilizzato dai pastori: è un ampio soprabito di pelle di pecora col vello in fuori, senza maniche. 17
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L’interesse per l’abito tradizionale sconcerta quanti non riescono a capirne il prolungamento sino a Novecento inoltrato, ben oltre i limiti di durata del clima culturale che in epoca romantica ne aveva stimolato il sorgere in tutta Europa. Ma appunto, l’interesse non è tanto per il costume in sé, quanto per gli ideali di riscatto politico, sociale, culturale di cui diventa l’emblema per gli intellettuali dell’Isola tra Ottocento e Novecento. Da marchio di subalternità, razzismo e derisione, l’abito tradizionale si trasforma in primario simbolo etnico, vessillo dell’identità sarda, per effetto dell’adozione da parte della borghesia intellettuale sarda, impegnata nell’opera di costruzione di un sentimento di appartenenza sarda. Anche l’aristocrazia isolana, che solitamente seguiva i canoni della moda continentale, cominciò a indossare, in atto di omaggio al re in visita nell’Isola, i panni tradizionali dei vari paesi. Ma con il consolidarsi del regime fascista, che non vedeva di buon occhio il fervore identitario regionalista, vengono relegati in secondo piano:
secondo i giovani intellettuali fascisti raccolti a Cagliari intorno alla redazione del Lunedì dell’Unione, i costumi sporchi e maleodoranti case popolari per le pulci, devono sparire; possono sopravvivere tutt’al più come strumento di attrazione turistica, entro villaggi appositamente ricostruiti, e come documenti del passato, in un museo etnografico di cui si auspica l’istituzione […] [Altea, 2003:362] In seguito alla valorizzazione turistica regionale del secondo dopoguerra e al conseguente boom dei gruppi folkloristici, attualmente gli abiti tradizionali (insieme alla lingua), continuano a costituire il più importante simbolo dell’identità sarda. Anzi delle identità sarde. L’analogia tra costume e identità è immediata: nello stesso modo in cui non esiste un unico costume riconoscibile genericamente come “sardo”, ma tanti costumi “sardi” quanti sono i paesi che la compongono, esiste un’unica identità sarda costituita dalla somma delle singole parti? Le grandi manifestazioni di folklore sono un momento molto sfruttato politicamente per rispondere che sì, effettivamente, si può parlare di “popolo sardo”: se ogni gruppo folk è paragonabile a una delegazione di paese, le grandi manifestazioni folkloristiche sono allora “adunanze nazional regionali”, “assemblee solenni” di tutti i sardi, che dimostrano che al di là delle divisioni è possibile muoversi insieme per uno scopo comune:
Perché i sardi, quando convengono a una sagra, a un pellegrinaggio, o ad una festa religiosa, indossando gli antichi costumi, ritrovano miracolosamente il loro accento primitivo e genuino. Senza alcuna regia, ma per una suggestione che nasce dall’incontro corale e dalle fibre più riposte di ciascuno, essi ripetono gesti, cadenze, movimenti d’arcaico ritmo, riallacciandosi spontaneamente al filo della
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tradizione, che l’urgenza del progresso e le consuetudini della vita quotidiana hanno solo allentato, ma non reciso. […] Perciò ogni sagra isolana ha il sapore mitico di un ritorno alle origini. […] i Sardi ormai convengono ogni anno a Cagliari, a Nuoro e a Sassari non per una semplice sagra, ma per una assemblea solenne, che ha assunto il valore di un rito, in cui si esprime senza limitazioni e senza artifizi una razza che non vuole livellarsi e perire, nel quale si svela col plastico rigore e con ineguagliabile ricchezza la fertilità del folklore sardo [Serra 1989:68] Stesse considerazioni per il sindaco di Selargius che in apertura al documentario di Salvatore Sardu, invita i selargini e in generale tutti i sardi, a indossare il “costume de nostri padri”, per partecipare da protagonisti al Matrimonio Selargino:
Io oggi ho voluto mettere come si usava fare nelle feste, nelle grandi occasioni, l’abito più bello; e nel mio armadio l’abito più bello è questo, il costume dei nostri padri. E vorrei che in questa occasione i concittadini selargini e anche tutti gli altri sardi capissero quanto sia importante riappropriarsi delle proprie tradizioni, della propria cultura e andarne orgogliosi. […] un modo certo per affermare la nostra dignità di popolo, la nostra identità di cittadini, e la nostra sardità che deve comunque essere sempre presente. Io invito tutti quanti per le prossime occasioni affinché aprano i loro armadi, portino i loro costumi più belli che sono quelli che ci appartengono da sempre, così come ci appartiene la nostra cultura e la nostra terra.
____________________________________________________________ Pagina seguente: 5.8 Elenco gruppi folk che hanno partecipato al Matrimonio Selargino in otto diverse edizioni della manifestazione. Fonti: articoli de “L’Unione Sarda” e dépliant “Programma della manifestazione”.
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1962 Busachi Maracalagonis Oliena Orgosolo Osilo Ploaghe Quartu Sant’Elena Samugheo Sinnai
1963 Assemini Bitti Maracalagonis Monserrato Oliena Orgosolo Osilo Quartu Sant’Elena Samugheo Seneghe
1968 Assemini Busachi Cabras Dolianova Maracalagonis Monserrato Muravera Oristano Pula Quartu Sant’Elena Samugheo Santadi San Vero Milis Seneghe Sestu Settimo San Pietro Siurgus Donigala Solarussa
1990 Cagliari Dolianova Elmas Maracalagonis tamburini di Oristano Quartucciu Sant’Antioco Seneghe Silanus Sinnai Tissi (?) Villasor Villaspeciosa
1992 Assemini Cagliari Dolianova Elmas Florinas Ghilarza Iglesias Monserrato Nugheddu Orgosolo tamburini di Oristano Pirri Quartu Sant’Elena Sestu S. Nicolo Arcidano Solarussa S. Nicolò Siurgus Donigala Suelli Tempio Teulada Villanova Villasimius
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1997 Arzana Assemini Bauladu Baunei Carloforte Ceremule Elmas Ghilarza Iglesias Irgoli Meana Sardo Monserrato Nughedu S.Nicolò Nuraxi Figus Orgosolo Tamburini di Oristano Orroli Osilo Ozieri Pula Quartu Sant’Elena Quartucciu Teulada Villacidro Villamar Villanovatulo Villasor Samugheo San Vito Sennori Senorbì Sestu Settimo San Pietro Siurgus donigala
2005 Alà dei Sardi Atzara Bitti Burcei Busachi Cabras Cagliari Domusnovas Elmas Florinas Gavoi Iglesias Laconi Lula Nuoro Nurallao Ovodda Quartu Sant’Elena Quartucciu Ploaghe Samugheo San Vito Santu Lussurgiu Sanluri Sassari Sedilo Sennori Siniscola Siurgus Donigala Sorgono Terralba Tonara Tortolì Uta Villagrande Strisaili Villamar Villasor
2006 Assemini Benetutti Busachi Cagliari (Villanova) Codrongianus Domusnovas Gavoi Gergei Ghilarza Lanusei Macomer Milis Monserrato Nuoro Olbia Orosei Ovodda Pirri Quartu Sant’Elena Quartucciu Samassi Samugheo Sanluri Santu Lussurgiu Sassari Selegas Sennori Serramanna Sestu Sinnai Siniscola Siurgus Donigala Terralba Tonara Villamassargia Villanovaforru Villasor
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5.5 Quale lingua? “Solo il nostro, e non gli altri diffusi nell’Isola, ha il permesso per celebrare la liturgia e il consenso matrimoniale in lingua sarda”: un’affermazione costante quando i selargini parlano del “loro” matrimonio. Costituisce motivo d’orgoglio identitario, nonché un punto di forza speso sul mercato dell’attrattiva turistica. Racconta Gianni Orrù [2003]:
Tutto ebbe inizio nel 1970, quando il parroco dell’Assunta, don Carmine Fais, invitò il vescovo di Cagliari, il cardinale Sebastiano Baggio, ad assistere alla cerimonia nuziale del Matrimonio Selargino. In quell’occasione venne fatta esplicita richiesta, dietro presentazione di alcuni antichi documenti, di poter celebrare la messa del giorno del Matrimonio in lingua sarda campidanese. Furono esibite alcune disposizioni dei vescovi cagliaritani De Esquivel, De la Cabra e Cariñena riguardo alla necessità di usare la lingua volgare nelle celebrazioni liturgiche. Il cardinale promise di far approfondire il discorso da alcuni canonici, i quali, fatti passare alcuni anni, richiesero al poeta e linguista selargino Faustino Onnis una traduzione in sardo del Messale e della liturgia del Matrimonio. Nel 1976, finalmente, il vescovo ausiliario di Cagliari Pierluigi Tiddia poté celebrare la messa in lingua sarda campidanese, come si fa tutt’ora. Se a Selargius la cerimonia si celebra in campidanese - induce a pensare il racconto è dunque perché i selargini furono in grado di presentare documenti convincenti per la realizzazione del proposito. Ma nello specifico quali furono i documenti sottoposti all’attenzione del cardinale? Uno di questi risale alla visita pastorale dell’arcivescovo di Cagliari Bernardo de la Cabra nel territorio selargino, ed è contenuto nel terzo volume dei Quinque Libri, risalente al periodo compreso tra gli anni 1643 e1655. La lettura del documento, la cui traduzione devo alla cortesia del prof. Salvatore Loi (vedi 5.9 e 5.10), provoca sorpresa, ma non per i motivi che ci si aspetterebbe, bensì per la sua irrilevanza: il testo non tratta dell’uso della lingua sarda durante la celebrazione del matrimonio. Tratta invece dell’ordine di spiegare il vangelo e altre “cose spirituali” in sardo affinché “tutti la capiscano” (“enseñen la doctrina christiana en lengua vulgar para que todos la entiendan”). Nel testo si fa riferimento al matrimonio unicamente per proibire che i curati lo celebrino e diano la benedizione nuziale a quanti non conoscano adeguatamente la dottrina cristiana (“mandamos a dichos curas que de aquí adelante no desposen ni den benedición a los que no supieren la doctrina christiana”).
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5.9 Archivio Arcivescovile di Cagliari, Quinque Libri Selargius, vol. 3 (1643-1655), foglio 491
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Nos Don Bernardo de la Cabra, por la gracia de Dios y de la Santa Sede Apostólica Arçobispo de Cáller, obispo de las Uniones, Primado de Sardeña y Córsega etc, y del Consejo de Su Magestad, otrosí Juez apostólico delegado en las causas de visita por el Santo concilio de Trento, visitando la yglesia parroquial de Santa María de la presente villa de Selarjus, havemos mandado decretar los mandatos siguientes. Primeramente, confirmamos todos los editos que de nuestro orden se han despachado y mandado publicar en dicha yglesia, y de nuebo y por auto de visita mandamos que aquellos se observen, exequuten y cumplan en la forma so las penas que en ellos se contienen. Ittem, por quanto estamos informados que en algunas villas hay gran falta en enseñar la doctrina christiana que no solamente los muchachos pero aun perçonas maiores no la saven, de lo que redunda gran daño a sus conciencias, por tanto mandamos a los curas que hoy son y por el tiempo serán en esta presente villa que cada día de Domingo en la Missa conventual declaren al pueblo con brevedad el Santo Evangelio de aquel día y les digan cosas espirituales y sin mesclar pláticas profanas; y que los dichos días de Domingo, después de comer, manden sonar una campanilla por toda la villa para que todos acudan a la parroquia en la qual dichos curas enseñen la doctrina christiana en lengua vulgar para que todos la entiendan; y el cura que lo dexare de haçer caiga por cada vez en la pena de tres libras aplicaderas a obras pías a nuestro arbitrio. Y mandamos al nuncio de dicha villa que tenga quenta de dichas cosas en lo que a él tocare haçer en pena de veynte sueldos por cada vez aplicaderas como los de arriba. Y assimismo mandamos a los padres que embien sus hijos y hijas para que les enseñen dicha doctrina christiana en pena de dies sueldos por cada vez que faltaren, los quales desde agora applicamos para hazeyte de la lámpara del Santíssimo desta dicha villa, y para maior cumplimiento de todo lo sobredicho mandamos a dichos curas que de aquí adelante no desposen ni den benedición a los que no supieren la doctrina christiana so la pena de quatro ducados por cada vez aplicaderos a nuestro arbitrio.
Noi don Bernardo de la Cabra, per grazia di Dio e della santa sede Apostolica arcivescovo di Cagliari, vescovo delle diocesi unite, primate di Sardegna e Corsica etc., e del Consiglio di Sua Maestà, giudice apostolico delegato nelle cause di visita (pastorale) dal santo concilio di Trento, visitando la chiesa parrocchiale di Santa Maria del presente villaggio di Selargius, abbiamo ordinato decretare i mandati seguenti. Per prima cosa, confermiamo tutti gli editti che per nostro ordine sono stati emanati e fatti pubblicare in detta chiesa e di nuovo e con decreto della visita ordiniamo che si osservino, eseguano e compiano sotto le pene in essi contenute. Inoltre, siccome siamo informati che in alcuni villaggi c’é grande mancanza nell’insegnare la dottrina cristiana tanto che non solo i ragazzi ma anche gli adulti non la sanno, cosa da cui risulta gran danno alle loro coscienze, pertanto ordiniamo ai curati di oggi e che saranno in seguito nel presente villaggio che ogni domenica, durante la messa conventuale, espongano al popolo brevemente il Santo Vangelo del giorno e cose spirituali, senza mescolare alcunché di profano; e che nelle dette domeniche, dopo pranzo, comandino che venga suonata una campanella per tutto il villaggio affinché tutti vadano in parrocchia dove i detti curati insegnino la dottrina cristiana in lingua volgare perché tutti la capiscano. Il curato che omettesse di farlo incorra per ogni volta nella pena di tre lire da applicare ad opere pie a nostra discrezione. Ordiniamo al nunzio del villaggio che vigili su dette cose per quanto é di sua competenza sotto pena di pagare 20 soldi (se non lo facesse) da applicare come si é detto prima. Allo stesso modo ordiniamo ai genitori che mandino i figli e le figlie perché sia loro insegnata la dottrina cristiana sotto pena di pagare 10 soldi per ogni volta che mancassero, i quali 10 soldi fin da ora applichiamo ad acquistare l’olio per la lampada del Santissimo di questo detto villaggio. Per una maggior messa in atto di quanto detto, ordiniamo a detti curati che d’ora in avanti non sposino né diano la benedizione (nuziale) a quanti non sapessero la dottrina cristiana sotto pena di pagare 4 ducati per ogni volta da applicare a nostra discrezione. […]
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Se questo è il documento più importante, in quanto espressamente indirizzato al clero selargino, immagino che gli altri, di cui non sono riuscita ad ottenere maggiori informazioni, siano altrettanti esempi delle raccomandazioni degli arcivescovi cagliaritani ai rettori delle parrocchie della propria diocesi. Ad esempio, il riferimento al Cariñena, arcivescovo di Cagliari negli anni tra il 1699 e il 1722 [Turtas, 1999:823], è sicuramente da mettere in relazione al sinodo da lui presieduto nel 1715, circa mezzo secolo dopo De La Cabra, in cui chiude la trattazione dogmatica richiamando pievani, rettori e parroci sul dovere di istruire alla dottrina cristiana i fedeli affidati alle loro cure, sottolineando l’assoluta necessità di spiegare il messaggio cristiano nella lingua parlata dai fedeli (“expliquen en Sardo") [Pala, 1985:35]1. La lingua sarda ha sempre costituito un grosso ostacolo nella storia della Chiesa in Sardegna. Se da un lato i vescovi esortavano il clero a utilizzare la lingua locale, infatti, dall’altra erano loro stessi a ignorare la parlata dominante nella loro diocesi. A Cagliari tra il 1500 e il 1720, quindi sino alla fine della dominazione spagnola, su 19 arcivescovi solo 1 è di origine sarda, il Machin, ma comunque “straniero” in quanto catalano di Alghero e di sicura formazione spagnola [Pala, 1985:43, nota 4]. Degli altri 18 ben 17 sono di origine spagnola, e di questi “quasi tutti”, scrive Turtas, ignoravano la lingua locale, “al punto che dovevano servirsi di un interprete quando volevano entrare in contatto con la parte non alfabetizzata del loro gregge, soprattutto durante la visita pastorale” [Turtas, 1999:414] (inutile dire che questi erano la stragrande maggioranza). Nel periodo sabaudo la situazione si presenta invariata, i vescovi costretti a imparare la lingua locale o, nella stragrande maggioranza dei casi, a servirsi di un interprete: “non tardarono ad accorgersi che, pur essendo ancora quella spagnola la lingua ufficiale del regno, la stragrande maggioranza dei loro fedeli capiva soltanto il sardo o, meglio, la variante di quella lingua che dominava nel territorio nel quale era ubicata la loro diocesi“ [Turtas, 1999:490]. Consci del problema, sin dalla metà del 1500, per aiutare i curati nella loro opera di evangelizzazione in sardo, venivano fatti stampare catechismi elementari e brevi opuscoli in lingua volgare [Turtas, 1999:451 e nota 478]. 1
Nella nota 50 a p. 48 viene riportata la trascrizione del brano in questione, tratto dalla Constituciones Synodales del Arzobispado de Caller, Caller-S.Domingo 1715, p. 91: “…Porque hemos reconocido con gran dolor de nostro coraçon el olvido culpable, que ay en los Parrocos de ensenarla, y en las personas de todas edades, y sesos de acudir a a aprehederla, coformandonos con lo decretado en el Santo Concil de Trento ordenamos, y mandamos, que todos los Plebanos, Rectores, y Curas de almas en cada uno de los Domingos, y de mas fiestas del ano, en que no huviere sermon, ò festiuidad, que lo impida, en la Missa conventual, al tiempo de Ofertorio, expliquen en Sardo uno de los misterios de nuestra Fè, instruyendo los fieles con amor, y caridad, acomodandose con la capacidad de los oyentes.” (grassetto mio)
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Ora, quello che vorrei qui mettere bene in evidenza è che, a parte le situazioni di comunicazione pastorale quali sermoni, catechismo, editti di visite pastorali e ordini vari, la lingua utilizzata era esclusivamente il latino. Non faceva eccezione la liturgia del matrimonio, che seguiva scrupolosamente il Rituale Romanum nel quale le formule sono in latino; unica eccezione le domande e le risposte, espresse nella lingua parlata dai contraenti, per avere la certezza della consapevolezza degli sposi verso il significato delle loro parole. Il Concilio Vaticano II ha modificato, innanzitutto, le formule utilizzate nella liturgia matrimoniale, ma anche la lingua da utilizzare per esprimerle: non dal latino al sardo, bensì dal latino all’italiano. Il sardo non è tra gli idiomi contemplati tra quelli permessi nelle liturgie sacramentali della chiesa italiana. Ma allora perché voler celebrare a tutti i costi la messa in sardo, esigenza avvertita anche negli altri paesi in cui si rievocano matrimoni tradizionali? La questione può essere affrontata come una forma di ipercorrettismo, cioè come sostituzione di una forma ritenuta corretta, la lingua sarda, a un’altra, l’italiano, che si ritiene scorretta. L’italiano suona totalmente fuori contesto in occasioni pensate per essere feste delle sardità in tutte le sue forme. La festa è - dovrebbe essere - un ritorno al passato, alle “origini”, in tutte le sue forme, dal costume indossato ai dolci, passando per i gioielli, le launeddas, le traccas, ecc. Tutto dovrebbe essere rigorosamente sardo, dall’inizio alla fine, esattamente come nel passato: in un contesto del genere sarebbe controintuitivo ammettere che il primo degli elementi costituivi dell’identità sarda, la lingua, nel passato era (quasi) assente nella liturgia. Se si volesse realmente realizzare, come si ripete in continuazione, una ricostruzione verosimile di un matrimonio di due secoli fa, si dovrebbe allora riprendere il rituale latino utilizzato in quel periodo, ma probabilmente in questo modo si inficerebbe la validità del rito officiato. L’unico motivo per cui il rito in sardo del Matrimonio Selargino ha validità legale è perché è la traduzione pedissequa, parola per parola, della versione italiana. Gli sposi tra l’altro rispondono affermativamente alle domande del prete con il “sì” italiano, non con il sardo “eia”. La traduzione, eseguita dal poeta selargino Faustino Onnis, non soddisfa del tutto Monsignor Zuncheddu, che se ne occupa ormai da dieci anni, avendo celebrato la messa nuziale nell’edizione del 1996, del 1998 e dal 2002 ininterrottamente sino a oggi:
Non è solo una questione di maestria è necessario sopra ogni cosa lo studio della teologia, perché non si possono tradurre con leggerezza le parole. Nella traduzione ci sono parecchie imperfezioni che bisognerebbe correggere ma il
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problema è che neanche io so bene come. Ad esempio la traduzione “deu pigu a tui” (“io prendo te”) non mi è mai piaciuta. Ora, con le modifiche apportate dalla Conferenza Episcopale Italiana nel 2004, l’espressione da usare e quindi da tradurre in campidanese sarebbe “Io accolgo te”, ma sembra che nessuno sia in grado di aiutarmi a fare questo piccolo aggiornamento traducendo il verbo accogliere in sardo. Alcuni mi dicono di usare “dèu arricciu a tui” altri “dèu accuddu a tui”, oppure altre espressioni che in chiesa è meglio non pensare e dunque neanche pronunciare. Monsignor Zuncheddu, giudice istruttore nel tribunale E.R. della Sardegna, avvocato della Rota Romana, è uno strenuo difensore dell’uso della lingua sarda in tutti i momenti della liturgia. Il sogno è quello di poter celebrare, un giorno, una messa interamente in sardo,
perché la gente comune ha diritto di avere la parola di Dio nella sua lingua Il problema è quello di riuscire a ottenere l’autorizzazione della Chiesa, “che non dovrebbe avere paura dei termini sardi”. Intanto ha già tradotto, insieme al gesuita padre Cuccu, i vangeli in sardo nell’opera intitolata Is Evangelius de Gesù Cristu, passàus de s’aregu antigu in sardu campidanesu, pubblicata a Cagliari nel 1996. “Io stampo tutto quello che scrivo e traduco in sardo, nonostante le critiche”. E ogni volta aggiunge un tassello in più:
nel libretto della messa per la scorsa edizione del Matrimonio Selargino, ho aggiunto due preghiere eucaristiche (pregadorìas) tradotte dal sacerdote orionino di Selargius don Raffaele Boi. È una sorta di provocazione, perché i vescovi permettano finalmente queste cose, ovviamente se fatte bene, con estrema attenzione per le parole scelte. Un’attenzione che non ha nulla a che vedere con le infiammate discussioni accademiche attuali sulla lingua sarda:
il mio sardo non è quello dell’università, è quello che parla la gente comune per la strada. Non dipendo dalle grammatiche dei cattedratici universitari, che insegnano nelle aule o nelle scuole di specializzazione: sono alunno, come Gesù lo era, della strada. È lì che mi fermo a parlare con la gente e come Lui faceva con l’aramaico, io ricorro al sardo per capire e farmi capire. Gesù Cristo d’altronde quando è venuto non ha parlato l’ebraico dei dottori del tempio, ha parlato in aramaico. Portare la parola di Dio attraverso la nostra lingua diventa veramente bello, grande ed emozionante. È con la loro lingua che i sardi esprimono la loro fede, non in altro modo. Ma la lingua dei sardi non è forse l’italiano? Non siamo ai tempi del Cariñena, oggi è molto più facile che un sardo non sappia parlare la lingua sarda, piuttosto che la lingua italiana. Il bilinguismo, o la sua forma detta diglossia, è di gran lunga il caso più
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comune nell’isola. E anche Monsignor Zuncheddu, in palese contrasto con le affermazioni precedenti, ammette la difficoltà di conservare l’uso della lingua: “oggi non lo si parla più, spesso il dialetto è italianizzato, e questo è un problema. Certi termini rischiano di andare perduti, conservati come sono solo dai più anziani”. Se Santadi e Assemini, per citare i più importanti, non celebrano il proprio matrimonio tradizionale in limba non è infatti tanto per problemi di autorizzazione, quanto perché è difficile trovare sacerdoti che conoscano il sardo locale a un livello tale da poter celebrare la messa. Al contrario di quanto si dice e si scrive a Selargius, Santadi e Assemini celebrano o hanno celebrato la liturgia in lingua. Nella scorsa edizione (2006) del matrimonio mauritano, per esempio, è stato chiamato a celebrare Monsignor Zuncheddu, che sembra l’unico in Sardegna in grado di svolgere degnamente questo compito. Se così stanno le cose, allora parlare il sardo non è una necessità, bensì il risultato del processo, storicamente recente, di costruzione e valorizzazione di una identità regionale sarda. Come si sia passati nella considerazione della lingua sarda dal “pressoché barbarico vernacolo”, disprezzato come non degno di essere appreso né tantomeno studiato, a elemento oggetto di specifica tutela - così come deciso dalla legge regionale n°26, del 15 ottobre 1997 (“Promozione e valorizzazione della cultura e della lingua della Sardegna”) - è oggetto di una vasta letteratura. Fatto sta che oggi la lingua è uno degli elementi più importanti nella costruzione di un sentimento di appartenenza comunitaria, come dimostrano il coinvolgimento e la passione dei numerosi circoli di emigrati sardi nel resto d’Italia e nel mondo, che guardano sul satellite il Matrimonio Selargino trasmesso in diretta da una delle maggiori emittenti televisive sarde, Videolina, e poi chiamano monsignor Zuncheddu perché spedisca loro il testo della messa. Il fatto che Videolina trasmetta in diretta la messa mi pare un’osservazione importante su cui soffermarci un altro momento. Al pubblico presente alla festa è necessario sommare i soggetti celebranti creati dai media, cioè “quei segmenti di audience che selezionano volontariamente la ricezione di programmi di feste – e che lo fanno per provare una commozione sostituiva sperimentando una comunione immaginaria con feste che acquisiscono così significato universale o almeno divengono rappresentative di una etnia” [Ariño, 1997:17].
Il folklore come richiamo turistico e identitario ▪ 181
Tornando alla questione della lingua, quello che qui vorrei mettere in evidenza è come i vari matrimoni folkloristici
concorrano a mettere in
evidenza,
nell’uso
del
sardo,
il
carattere costruito, fittizio, di una pretesa
comune
identità
sarda.
Esempio: Santadi, 2006, monsignor Zuncheddu,
presentandosi con il
libretto della messa del Matrimonio Selargino del 2005, celebra la messa nuziale
nella
variante
sarda
campidanese, in un’area in cui si parla la variante sulcitana, di fronte a uno sposo sassarese! Il re è messo a nudo: come si può parlare di un’identità sarda, si dice, se non esiste neppure una variante linguistica
comune
con
il
quale
esprimerla? Molto diffuso a livello di 5.10 Varianti locali della lingua sarda. Tratto da: www.mondosardegna.net/linguasarda/linguasarda. htm
senso comune, il vecchio paradigma un territorio, una lingua, un popolo, si scontra in questi casi con la realtà della mancanza di un’unica lingua
sarda. “Il concetto europeo di nazion-ità legata al possesso privato di una lingua” che, scrive Anderson [1996:79], “ebbe grande influenza nell’Europa dell’800 e, più vicino a noi, sulle teorizzazioni successive della natura del nazionalismo”, è un argomento molto sentito in Sardegna. Da più di trent’anni la questione della lingua coinvolge comuni cittadini, storici e intellettuali di varia estrazione. Una soluzione di compromesso è stata proposta recentemente, con una decisione dell’amministrazione regionale che ha avuto ampia eco sui giornali locali: si è deciso di adottare sperimentalmente la limba sarda comuna, una mediazione tra le parlate più diffuse e comuni in Sardegna, da utilizzare negli uffici pubblici e per gli atti in uscita dell’amministrazione regionale.
182 ▪ Il folklore come richiamo turistico e identitario
Anche perchè, anche a livello politico, la presenza di una lingua comune sembra essere la condizione senza della quale le rivendicazioni sarde non hanno ragione di esistere; come ha spiegato il presidente della Sardegna Soru:
siamo la minoranza linguistica più ampia d’Italia, però siamo l’unica regione che non aveva ancora scelto una sua lingua ufficiale. Con meno forza abbiamo così potuto reclamare quella possibilità offerta dalla legge regionale per il Parlamento europeo, cioè quella di avere un rappresentante per ogni minoranza [“L’Unione Sarda”, 19-04-06, p. 7, Sa limba nei documenti della Regione, di Zuccheddu Francesca]
Liturgia de su Matrimoniu2 DOMANDAS Acabada s' omelìa e pustis calincunu momentu de silenziu, is sposus e totus is aterus s'indi strantaxant, e su sacerdotu (si furriat facci a is sposus), cun custus fueddus o aterus chi s'assimbilint nàrada:
Carissimus (nome dello sposo) i (nome della sposa) seis benìus impari a sa domu de Deus po chi sa stima bosta riciat su segliu suu e sa cunsagrazioni sua ananti de su ministru de sa Cresia e ananti de sa comunidadi. Bosaterus seis giai cunsagraus medianti su Battisimu: immòi Cristus si benedixit e s' affortiat cun su sacramentu nuziali, po chi si stimeis a pari cun amori fideli e chen'e fini e s'attueis cunscienziosamenti is doveris de su matrimoniu. Po custu si domandu di esprimìri ananti de sa Cresia is intenzionis bostas. (nome dello sposo) i (nome della sposa), seis benìus a si cojai liberamenti, chen'e perunu costringimentu, cun conoscenzia prena de su sensu de sa decisioni bosta?
Is sposus respundit:
Sì Seis dispostus, in sa bia noa de su matrimoniu, a si stimai e a s'onorai a pari po totu sa vida?
Is sposus respundit:
Sì.
2
Estratto dal libretto della messa, a cura di Monsignor Zuncheddu, utilizzato nell’edizione 2005 del Matrimonio Selargino
Il folklore come richiamo turistico e identitario ▪ 183
Su sacerdotu ponit is Seis dispostus a riciri cunscienziosamenti e cun amori is domandas, e a dogna filius chi Deus s'hat a bolli donai; e a ddus imparai domanda is sposus donanta segundu sa lei de Cristus e de sa Cresia sua? sa risposta insoru: Is sposus respundint: Sì. ______________________________________________________________________ CUNSENSU Po custu su sacerdotu sforzat Si duncas est intenzioni bosta de si cojai, donai sì sa is sposus a espressai su manu deretta i espressai ananti de Deus e de sa Cresia sua su consensu bostu. cunsensu: Is sposus si donant sa manu deretta Su sposu narat:
Deu, (nome sposo), pigu a tui, (nome della sposa), comente sposa mia, e promittu de t'essiri fideli sempiri, in s'allirghìa e in su dolori, in sa saludi e in sa maladìa, e de ti stimai e ti onorai totus is dis de sa vida mia.
Sa sposa narat:
Deu, (nome della sposa), pigu a tui, (nome dello sposo), comente sposu miu e promittu de t'essiri fideli sempiri, in s' allirghìa e in su dolori, in sa saludi e in sa maladìa, e de ti stimai e ti onorai totus is dis de sa vida mia.
Su sacerdotu ricendu su Su Signori onnipotenti e misericodriòsu cunfirmit su cunsensu narat : cunsensu chi heis manifestau ananti de sa Cresia e si dignit de si preni mellus de sa benedizioni sua. No atrivat s' omini a separai su chi Deus unit. Totus respundint :
Amen i Aici siat!
_______________________________________________________________________ BENEDIZIONI E DONU DE IS ANEDDUS Su sacerdotu narat : Su sposu, ponendu s'aneddu in su didu de sa sposa, podit nai : Pustis, sa sposa, ponendu s'aneddu in su didu de su sposu, podit nai
Su Signori benedixat custus aneddus chi si donais pari pari in signali de stima e de fidelidadi. (nome della sposa) arrìci cust' aneddu, signali de sa stima mia e de sa fidelidadi mia. In nomini de su Babbu e de su Fillu e de su Spiridu Santu. (nome dello sposo) arrìci cust'aneddu, signali de sa stima mia e de sa fidelidadi mia. In nomini de su Babbu e de su Fillu e de su Spiridu Santu.
184 ▪ Il folklore come richiamo turistico e identitario
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Bibliografia ▪ 193
1978 09.09 Domani il tradizionale matrimonio selargino, p. 6 1980 13.09 Le sagre in Sardegna. Matrimonio Selargino, “L’Unione Sarda”, p. 6 1983 03.09 Selargius si veste d’antico: domani matrimonio in costume, “L’Unione sarda”, p.6 1984 02.09 Una catena per gli sposi, “L’Unione Sarda”, p. 7 1985 01.09 Due sposi e una catena, “L’Unione Sarda”, p. 7 1986 28.09 Incontro a Selargius per gli sposi “in catena”, “L’Unione Sarda” 1987 12.09 Assemini rinnova domani l’antico rito del matrimonio in “limba”, “L’Unione Sarda”, p. 14 (Amisani Salvatore) 12.09 E gli sposi “incatenati” a Selargius avranno al loro fianco anche due francesi con il costume sardo, “L’Unione Sarda”, p. 14 (Camboni Gino) 13.09 Selargius in festa rievoca oggi le nozze in costume, “L’Unione Sarda”, p. 14, di (Camboni Gino) 13.09 Assemini. Canti e balli in chiesa per gli sposi “incatenati”, “L’Unione Sarda”, p. 14 (Amisani Salvatore) 14.09 Un po’ di Francia tra i due sposi incatenati, “L’Unione Sarda”, p. 14 (Camboni) 14.09 L’acqua e il grano per benedire gli sposini, “L’Unione Sarda”, p. 17 (Amisani) 1988 11.09 Oggi sposi in catene tra fede, poesia e folclore, “L’Unione Sarda”, p. 16 (Camboni Gino) 11.09 Oggi sposi in catene tra fede, poesia e folclore, “L’Unione Sarda”, p. 16 (Amisani Salvatore) 1989 06.09 Selargius, parte il carro per annunciare lo sposalizio con le catene, “L’Unione Sarda”, p. 15 (Secci Roberta) 07.09 Il fascino dell’antico Palio, “L’Unione Sarda”, p. 16 09.09 Si rinnova “Sa coja antiga”, “L’Unione Sarda”, p. 16; La catena pegno d’amore, “L’Unione Sarda”, p. 17 10.09 Selargius, folla e polemiche al Palio, “L’Unione Sarda”, p. 17 (Casu Roberto) 11.09 Oggi sposi sul filo della tradizione, “L’Unione Sarda”, p. 21 (Secci Roberta) 1990 01.09 Un amore legato con catene d’oro, “L’Unione Sarda”, p. 15 07.09 Tra due domeniche al via l’antico rito degli sposi “incatenati”, “L’Unione Sarda”, p. 13 (Camboni Gino) 13.09 Il palio della sposa, “L’Unione Sarda”, p. 16; Inviti al matrimonio in lingua sarda. Attesa per gli scozzesi, “L’Unione Sarda”, p. 17 (Camboni Gino) 15.09 La catena pegno d’amore, “L’Unione Sarda”, p. 6; Un “sì” con le catene, “L’Unione Sarda”, p. 16 16.09 Selargius ripete la festa. Nozze in catene e il fazzoletto in palio, “L’Unione Sarda”, (Camboni Gino)
194 ▪ Bibliografia
1991 12.09 È il fascino del palio, “L’Unione Sarda”, p. 14 13.09 La magia d’amore, “L’Unione Sarda”, p. 16 14.09 Due coppie all’altare: una sarda l’altra austriaca, “L’Unione Sarda”, p. 10; I colori della felicità, “L’Unione Sarda”, p. 11; Un dolce “si” con le catene, “L’Unione Sarda” 15.09 Si ripete stamattina (e siamo a quota 31) l’attesa cerimonia del matrimonio con gli sposi in catene, “L’Unione Sarda”, p. 14 (Verde Alessandra) 1992 11.09 Le catene dell’amore, “L’Unione Sarda”, p. 16 12.09 Un “si” con le catene, “L’Unione Sarda”, p. 6; È lo sposalizio selargino, “L’Unione Sarda”, p. 18 13.09 Selargius, un sì in catene. Oggi rivive l’antico matrimonio, “L’Unione Sarda”, p. 17 (Camba Franco); I colori della felicità, “L’Unione Sarda”, p. 18 1993 10.09 Il grande Palio della sposa, “L’Unione Sarda”, p. 16 11.09 Uniti per la vita con le catene, “L’Unione Sarda”, p. 13 (Verde Alessandra); Una magia di colori e di suoni, “L’Unione Sarda”, p. 14; Gli anelli magici d’una lunga catena, “L’Unione Sarda”, p. 15 12.09 Le catene dell’amore, “L’Unione Sarda”; Festa dell’amore, “L’Unione Sarda”; Le catene, un pegno d’amore, “L’Unione Sarda” 13.09 Un tuffo nel passato fra launeddas e profumo d’alloro, “L’Unione Sarda”, p. 9 (Verde Alessandra) 1995 08.09 Rito pieno di fascino, “L’Unione Sarda”; Le catene dell’amore, “L’Unione Sarda” 10.09 Un sì in catene, “L’Unione Sarda”, p. 21 (Piras Lorenzo) 11.09 Le nozze della memoria, “L’Unione Sarda” (Piras Lorenzo) 1997 13.09 Sono anche i turisti i protagonisti della festa, “L’Unione Sarda”; Un antico rito ripropone i segni magici di secoli fa, “L’Unione Sarda” 14.09 Gli sposi in catene, “L’Unione Sarda”, p. 23 (Piras Lorenzo);Uniti dalla catena dell’amore, “L’Unione Sarda” 15.09 “Liberate Silvia Melis”, “L’Unione Sarda”, p. 10 (Piras Lorenzo) 1998 11.09 Ritorna per la 38°volta a Selargius il matrimonio degli sposi incatenati, “L’Unione Sarda” 13.09 Sposi incatenati dall’amore, “L’Unione Sarda”, p. 19 (Piras Lorenzo) 14.09 Nozze d’altri tempi, “L’Unione Sarda”, p. 14 (Pinna Francesco) 1999 12.09 Anche due coppie straniere all’antico matrimonio, “L’Unione Sarda”, p. 16 13.09 Nozze in catene senza turisti, “L’Unione Sarda”, p. 13 (Piras Lorenzo)
Bibliografia ▪ 195
Archivio Storico Comunale, Selargius1 Verbale di deliberazione della Giunta Municipale n°98, oggetto: “Contributo per l’organizzazione della festività S.Lussorio anno 1962”, Selargius, 29.12.62 Verbale di deliberazione della Giunta Municipale, oggetto: “Erogazione contributo per la festività in onore di S.Lussorio”, Selargius, 17.10.63 Costituzione comitato per la celebrazione della festa religiosa e civile di S.Lussorio, Cagliari, 21/10/1965 ENAL a Comune di Selargius (n°3164 protocollo), oggetto: “Antico Sposalizio Selargino”, Cagliari, 12.08.1966 ENAL a Comune di Selargius (n°2630 protocollo), oggetto: “Antico Sposalizio Selargino”, Cagliari, 15.09.1967 Don Carmine Fois a Sindaco di Selargius, Selargius, 14.09.1970 Giunta Municipale a cittadinanza, Selargius, 1970 ENAL a Comune di Selargius, oggetto: “Antico Sposalizio Selargino”, Cagliari, 23.08.1971 ENAL a Comune di Selargius, oggetto: “Antico Sposalizio Selargino”, Cagliari, 08.09.1971 Giunta Municipale a cittadinanza, Selargius, 12.10.1971 Assessore al Turismo di Selargius a ESIT (n°6511 protocollo), Selargius, 18.10.1971 ENAL a Comune di Selargius (n°1584 protocollo), oggetto: “Antico Sposalizio Selargino”, Cagliari, 28.08.1972 ENAL a Comune di Selargius, oggetto: “Antico Sposalizio Selargino”, Cagliari, 13.09.1972 Comune di Selargius, RENDICONTO dei pagamenti effettuati di cui a deliberazione della Giunta Municipale n°496 del 23 ottobre 1973, ratificata dal Consiglio comunale con atto n. 184 del 24 ottobre 1973 per la manifestazione folkloristica della “Rievocazione dell’Antico Matrimonio Selargino” in data 28 ottobre 1973 (2 pagine) Comune di Selargius, Candidati al Matrimonio Selargino, annotazioni a penna, 1974 Comune di Selargius, Rievocazione Antico matrimonio Selargino - anno 1974, preventivo di spesa (3 pagine) EPT Cagliari a Comune di Selargius, Cagliari, 23.07.1974 Comune di Selargius a Assessorato al Turismo Regione Autonoma della Sardegna (n°4222 protocollo), oggetto: Rievocazione antico matrimonio selargino – Richiesta contributo, Selargius, 19.08.1975 Camba Franco a Comune di Selargius, Selargius, 06.09.1988
1
Ringrazio la direttrice dell’Archivio Comunale dott.ssa Patrizia Lanero per avermi dato la possibilità di condurre la ricerca su materiale ancora non accessibile all’utenza pubblica in quanto in via di riordino. Desidero inoltre ringraziare il dott. Daniele Vacca per avermi assistito durante tutta questa fase della ricerca e per l’aiuto prestatomi nel reperimento dei materiali utili ai fini di questo lavoro.
196 ▪ Bibliografia
Comune di Selargius, Programma attività per il Matrimonio Selargino, 3-’11 settembre 1988 Telegramma Ufficio Stampa Comune di Selargius a “L’Unione Sarda”, “La nuova Sardegna”, Videolina, Odeon Tv, Sardegna 1, Rai Tre, Tele Setar, (n°16071protocollo), Selargius, 1988 Programma Antico Sposalizio Selargino, 32°edizione, 13 settembre 1992 Comune di Selargius e Pro-Loco a cittadinanza, Selargius, 1993 “Predica de su sacerdotu e ministru de Deus dottori GIUANNI FRANCISCU ZUNCHEDDU laureau in sa Lei canonica e giùgi istruttori de su Tribunali de sa Cresia de tottu sa Regioni conciliari de sa Sardigna po sa celebrazioni de su matrimonio cristianu de STEVINI RIVA e GIOVANNA PUGGIONI in su ritu de s’antigu sposaliziu selarginu, Ceràxiux (prov. de Casteddu), su 15 de cabud’anni, de su 1996, in dominigu, a mesu dì, custu ritu po sa 36° borta”, 1996 (16 pagine)
Fonti orali2 Associazione folk Su Idanu: Quartu Sant’Elena, 05.04.2006 Associazione folk Kellarious, Selargius, 09.2006 “Gruppo 53” Oliena : Cenceddu, Catte Nina, Mastroni Ignazia, Palimodde Antioca, Oliena, 09.2006 Amisani Salvatore, Assemini, 23.09.2006 Cordeddu Efisia, Selargius, 24.03.2006, 04.04.2006 Corona Fausto, Selargius, 23.03.2006 Corona Maria Laura, Quartucciu, 12.2005 Frau Cinzia, Selargius, 04.2006 Frau Gianni, Selargius, 13.04.2006 Loi Salvatore, 27.04.2006; 01.05.2006 Melis Olinda, Selargius, 16.03.2006; 04.2006, 10.2006 Melis Tonino, Selargius, 15.09.2006 Mereu Fausto, Etzi Luisanna, Selargius, 02.05.2006 Orrù Gianni, Selargius, 03.2006; 09.2006 Pibiri Ida, Selargius, 08.03.2006 Putzu Felice, Selargius, 10.2006 Gigi e Rosanna Ragatzu, Selargius, 09.2006 Sardu Salvatore, Quartu Sant’Elena, 10.2006
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Nell’elenco compaiono solo i nomi delle persone il cui contributo è stato maggiormente rilevante per la ricerca.
Bibliografia ▪ 197
Scanu Salvatore, 04.2006 Secci Albino, Selargius, 08.03.2006 Secci Rachele, Selargius, 23.03.2006, 04.2006, 09.2006 Serrau Maria, 10.2006 Sitzia Simonetta, Selargius, 24.03.2006 Spiga Lucio, Cagliari, 13.03.2006 Turchi Dolores, 09.2006 Usai Denise, 04.2006; Santadi, 08.2006 Zuncheddu Gianfranco, Cagliari, 04.04.2006
Altri materiali sul Matrimonio Selargino Articoli quotidiani 2005 07.09 Le serenate per Sa Coja antiga, “L’Unione Sarda”, (Atzeni Sergio) 11.09 Sa Coja Antiga: oggi si rinnova il “sì” degli sposi in catene, “L’Unione Sarda”, (Atzeni Sergio) 12.09 Efisio e Simona sposi in catene, “L’Unione Sarda”(Atzeni Sergio); Una storia che si ripete da 44 anni, “L’unione Sarda” (Atzeni Sergio) 12.09 Un “sì” in costume e catene, “La Nuova Sardegna” 12.09 L’antico sposalizio selargino si gemella con la Slovacchia, “Il Giornale di Sardegna”, p. 22 (Antinori Giulia) Articoli quotidiani 2006 22.03 Coppie per Sa coja, “L’Unione Sarda”, p. 25 ? La maestra e il geologo: ecco gli sposi de Sa Coja, “L’Unione Sarda”, p. 25 (Atzeni Sergio) 11.09 Sposi in catene davanti all’altare, “L’Unione Sarda”, p. 14 (Pinna Francesco) Dépliant: Enal Cagliari, Comune di Selargius, Comitato festeggiamenti San Lussorio, Antico Sposalizio Selargino. Rassegna folkloristica. Balli e cori di Sardegna, Selargius (Cagliari), domenica 28 ottobre 1962 Enal Cagliari, Comune di Selargius, Antico Sposalizio Selargino. Rassegna folkloristica. Balli e cori di Sardegna, Selargius 25 ottobre 1964 Antico Sposalizio Selargino, 1970 Selargius, Ottobre 1971, Antico Sposalizio Selargino Pro Loco, Amministrazione Comunale, Antico Sposalizio Selargino, 28° edizione, 11 settembre 1988
198 ▪ Bibliografia
Pro Loco, Amministrazione Comunale, Antico Sposalizio Selargino, 29° edizione, 10 settembre 1989 Pro Loco e Comune di Selargius, Antico Sposalizio Selargino, 34° edizione, domenica 11 settembre 1994 Associazione Turistica Pro Loco Selargius, Comune di Selargius, L’Antico Sposalizio Selargino, 42° edizione, domenica 15 settembre 2002 Associazione Turistica Pro Loco Selargius, Comune di Selargius, L’Antico Sposalizio Selargino, 43° edizione, domenica 14 settembre 2003 Associazione Turistica Pro Loco Selargius, Comune di Selargius, L’Antico Sposalizio Selargino, 44° edizione, domenica 12 settembre 2004 Associazione Turistica Pro Loco Selargius, Comune di Selargius, L’Antico Sposalizio Selargino, 45° edizione, domenica 11 settembre 2005 Associazione Turistica Pro Loco Selargius, Comune di Selargius, L’Antico Sposalizio Selargino, 46° edizione, domenica 10 settembre 2006 Mascia Rossana, a.s. 1998/99, 5°D, Antico Sposalizio Selargino, tesina per il diploma di scuola superiore dell’istituto “Domenico Alberto Azuni” Orrù Gianni, 1984 Aspetti di vita e cultura selargina, dattiloscritto, Biblioteca comunale di Selargius; 2003 Antico Sposalizio Selargino, relazione presentata al convegno sulle tradizioni nuziali, organizzata a Selargius nel contesto delle iniziative per l’edizione 2003 del Matrimonio Selargino Salis Efisio, lettera indirizzata “All’egregio Signor Sindaco del Comune di Selargius”, riportante la data 02.07.1981, manoscritto Sardu Salvatore, s.a. Antico Matrimonio Selargino, Sarfilm, Selargius (CA), VHS
Bibliografia ▪ 199
This work is intended to propose an ethnographic reading of the modes of production and construction of a local tradition and identity in the frame of historical and social processes of wider significance put into effect in a hinterland area of the chief town, i.e. regional capital, of Sardinia through the organization of a folkloric display concerning the local wedding customs. Folkloric
marriages
are
a
still
unexplored
Sardinian
cultural
phenomenon of which a first general contextualization is provided. The revival of the Sardinian tradition connected with wedding customs staged in folkloric display such as “L’Antico Sposalizio Selargino – Sa coja antiga cerexina”, as well as in some other similar shows present in other villages of the island seems to be a particularly interesting subject-matter of studies in order to verify on the spot the prevailing themes of the anthropological research on contemporaneousness: tradition, identity, tourism. Field research dwells in a prevailing way upon just one of these “weddings in the Sardinian style”, through which are shown the production modes of tradition connected with the construction of a local sense of belonging, which are in turn linked with intellectual, political, social and economical processes of wider significance. This study aims at analyzing on the one hand the ways of construction of a community sense of belonging and, on the other hand, the sequence of events and effects that such construction puts into effect.
201