Nanni Orcu260608

  • Uploaded by: Alfredo Romano
  • 0
  • 0
  • December 2019
  • PDF

This document was uploaded by user and they confirmed that they have the permission to share it. If you are author or own the copyright of this book, please report to us by using this DMCA report form. Report DMCA


Overview

Download & View Nanni Orcu260608 as PDF for free.

More details

  • Words: 38,702
  • Pages: 99
Alfredo Romano

Lu Nanni Orcu e altri racconti salentini Nuova edizione riveduta e ampliata con testo a fronte Prefazione di Eugenio Imbriani Illustrazioni di Maria Berto

indice Prefazione di Eugenio Imbriani Introduzione di Alfredo Romano

9 15

Lu Nanni Orcu e altri racconti salentini

Impaginazione Loredana My Art Director Nino Perrone

© BESA Editrice Via Duca degli Abruzzi, 13/15 73048 Nardò (LE) Tel. +39 0833 871608 Fax +39 178 277 6708 [email protected] www.besaeditrice.it

Lu fattu te lu Nanni Orcu Il fatto del Nanni Orcu Quiddhu te la capra Quello della capra Lu fattu te li ṭṭre ppreti Il fatto dei tre preti Ca te cquai passava iu Che di qua passavo io La messa te le villane La messa delle villane Don Toninu Don Tonino Lu fattu te San Giorgi Il fatto di San Giorgio La meschina La meschina Cumpare mšsciu Tòturu Compare maestro Tòtutu La Chiara Funtana La Chiara Fontana Cesare e Palumbu Cesare e Palombo Lu paṭre Picozzu Il padre Picozzo Li maccarruni pišciati I maccheroni pisciati Lu fiju vulìa mmena sìrasa intru mmare Il figlio che voleva buttare il padre nel mare La puddhàšcìa sotta la cappa magna La pollastra sotto la cappa magna Lu pešce sṭracinatu Il pesce strascinato Liberanusdòmine Libera nos domine

22 23 40 41 54 55 66 67 70 71 72 73 76 77 82 83 94 95 98 99 106 107 112 113 118 119 122 123 126 127 128 129 130 131

Lu Culàu Culàu A rretu la pila Dietro il lavatoio Turu e tturài Duro e durai Lu cane te Lecce e llu cane te Bari Il cane di Lecce e il cane di Bari Lu jàggiu te nozze Il viaggio di nozze Lu cane cagniscìusu Il cane schifiltoso La fija cu lli urri La figlia con le bizze Lu pissìnchia Pissinchia

132 133 136 137 138 139 140 141 144 145 148 149 152 153 156 157

Li fatti te lu Pieru Lu bagnu a llu piccinnu Il bagno al fratellino La òccula La chioccia Tira la porta e biéni Tira la porta e vieni

164 165 166 167 170 171

Certi fatti di papa Galeazzo Premessa

175

Lu messone te papa Cajazzu Il missone di papa Galeazzo Li morti vii I morti vivi La ciuccia te papa Cajazzu La somara di papa Galeazzo La conṭramizione La contravvenzione Quistu vale pe' quiddhu ca tegnu inṭra 'lli cazuni Questo vale per quello che porto nei calzoni La chièsa pittata La chiesa dipinta Papa Cajazzu 'ncintu Papa Galeazzo incinto

176 177 178 179 182 183 184 185 186 187 188 189 192 193

Ai miei fratelli: lu Aldu, occhi te milampu l’Angiulinu, lu tatai l’Eugeniu, nasu te fischia

Prefazione di Eugenio Imbriani Chi si occupa di tradizioni popolari subisce spesso e volentieri la tentazione di cedere all’intenzione che potremmo definire “del salvataggio”. In particolare, le espressioni orali della cultura popolare sono volatili, fluide. La scrittura si configura, allora, come intervento di salvataggio dei racconti e delle notizie, delle testimonianze riferibili a un modello di vita che, nella sostanza, appartiene al passato. La scrittura risponde anche alle esigenze della comunicazione: la monografia, la restituzione della ricerca tramite il testo scritto, si muovono nella direzione di potenziali lettori per i quali scompare, di fatto, o, almeno, si appiattisce, la figura del narratore. Sicché le storie di Hansel e Grätel, di Biancaneve sono dei fratelli Grimm, che le hanno pubblicate, Il gatto con gli stivali è una fiaba di Charles Perrault molto più di quanto non appartengano, nell’accezione comune, ai narratori che gliele avevano raccontate. La narratrice di storie più famosa, Sherazade, che, per non morire, ne inventa per mille e una notte e oltre, è essa stessa il personaggio di una fiaba; ma chi raccontava questa fiaba? Delle migliaia di voci che per secoli l’hanno tramandata non ne conosciamo alcuna. Sherazade è per noi, innanzitutto, essenzialmente una parola scritta, prima di essere letta, enunciata, prima che la figura della giovane donna acquisti corpo nelle immagini cinematografiche, o televisive, o disegnate. Il pregio maggiore della presente raccolta di fiabe salentine è, a mio parere, costituito dal fatto che l’autore di essa leghi i testi alle figure dei narratori, informatori che gli sono stati molto vicini e di cui conosciamo qualche notizia biografica, e qualche altra sul loro modo di raccontare. L’anziano Pasqualino, il nonno materno, racconta le avventure di papa Galeazzo – mitico curato cialtrone di Lucugnano vissuto, pare, nel XVII secolo, protagonista di aneddoti classificabili tra lo scherzoso e il pecoreccio –; sapeva leggere e scrivere, e allora, da giovane, 

leggeva nei libri le storie che la sera raccontava alle figlie accanto al caminetto; attingeva anche alle rappresentazioni che le compagnie teatrali provenienti dalla Sicilia tenevano nel frantoio di Collemeto. La vicenda personale di Pasqualino meriterebbe di entrare nel ciclo delle narrazioni, e troverebbe degnamente posto tra i cunti del volume. Era un macellaio molto stimato a Neviano, il suo paese (siamo in provincia di Lecce); aveva sette figli di cui sei femmine e, preoccupato dalla necessità di dotarle e collocarle tutte dignitosamente, decise di investire i suoi risparmi in un affare che gli avrebbe reso moltissimo: acquistare un intero carico di asini, per venderne la carne alle macellerie di altri paesi. Si recò in Calabria, qui fece stipare in vagoni merci gli asini provenienti da diversi allevamenti. Ma quelle bestie, assiepate com’erano in uno spazio ridottissimo, si aggredirono reciprocamente a calci e morsi, tanto che, quando il treno arrivò a destinazione, ben poche erano sopravvissute, per di più malconce. Così accadde che Pasqualino, per aver voluto arricchirsi in poco tempo, perdette tutto quello che aveva, fu costretto a lasciare il paese, con la numerosa famiglia, a rimboccarsi le maniche e a ricominciare da capo. Maria Neve, la moglie di Pasqualino, aggiungeva alla abilità narrativa una peculiare verve drammatica, per cui imitava con la voce e i gesti suoni, situazioni, personaggi, che dovevano sembrare chissà quanto più veri e chissà quanto più arcani ai giovani spettatori. Altri narratori di primo piano sono i genitori stessi di Alfredo Romano, che esercitano la loro arte fino allo stremo. Giovannino, sul letto di morte, raccoglieva le forze per dare quel che restava di sé ai visitatori che entravano pietosi nella sua stanza di malato e se ne uscivano divertiti. Lucia dettava al figlio che, sul quaderno, trascriveva le parole, ma non poteva fissare la voce, il tono, le cadenze, gli sguardi, i gesti della madre. La scrittura tradisce sempre la situazione narrativa. La trascrizione salva i testi, rendendoli nel contempo fissi e sottra-

endoli, ormai, alla dinamica sempre diversa del racconto orale. La scrittura molte cose conserva, i testi, le parole, molte altre ne perde: l’esperienza del narrante e dell’ascolto seleziona alcune parti del discorso, ne esclude altre: se i dialoghi di Romano con la madre si fossero limitati solo alla narrazione di alcune fiabe, essi si ridurrebbero a una specie di monologo a puntate complessivamente breve e piuttosto arido. La scrittura, allora, qualcosa conserva, qualcosa perde, qualcosa aggiunge; per esempio, stabilisce un ordine alle storie, interviene sui testi con dei segni di interpunzione e diacritici che ne agevolino la lettura, li dota, come in questo caso, di una godibilissima traduzione in lingua italiana. Ma veniamo brevemente a un’altra questione: che cosa sono le fiabe, e che cosa ci dicono? Non entrerò nel merito di un dibattito tanto lungo e complesso su questi temi, che sfiorerò soltanto per fornirne un’idea. Forse molti sanno che la narrativa di tradizione orale è stata ampiamente analizzata, sezionata, è stata oggetto di classificazione; esistono indici e repertori che scompongono i testi in motivi, i quali rappresentano le unità narrative minime, e per tipi, vale a dire, grosso modo, in base al soggetto, all’argomento che toccano. Le migliaia di motivi che costituiscono le fiabe si mescolano variamente tra di loro, dando vita a una serie di combinazioni in teoria infinita. Poiché si tratta di testi di tradizione orale, come abbiamo già detto, nessuna fiaba narrata una seconda volta rimane perfettamente uguale alla versione precedente. I motivi viaggiano in lungo e in largo per il mondo, al seguito di mercanti, pellegrini, migranti. I motivi viaggiano anche tra la letteratura colta e la letteratura popolare, per cui non c’è da meravigliarsi di trovare nelle fiabe elementi narrativi riscontrabili, per esempio, nelle novelle di Sacchetti e di Boccaccio; per tacere di Basile che nel Pentamerone raccoglie un patrimonio di storie popolari. Le migliaia di motivi e le centinaia di tipi riscontrabili nelle fiabe danno vita in realtà a trame molto semplici che si sus-





seguono e si ripetono secondo sequenze e schemi abbastanza rigidi. Le migliaia di personaggi che le affollano svolgono tutto sommato poche funzioni; il grande folklorista russo Vladimir Propp, studiando le fiabe di magia, ha individuato una serie di azioni che, comunque, i personaggi compiono: c’è una situazione iniziale, il protagonista è chiamato a superare alcune prove, c’è un avversario, un aiutante magico, la soluzione. È come se nelle fiabe esistesse una sorta di meccanismo narrativo, che i novellatori hanno seguito tramandandolo nello spazio e nel tempo, rincorrendo e intrecciando i motivi. Non basta raccontare, bisogna saper raccontare, come con chiarezza suggeriscono gli stessi narratori delle storie raccolte da Alfredo Romano. Questo universo così articolato e multiforme sembrò semplicemente indominabile a Italo Calvino chiamato a redigere la raccolta delle Fiabe italiane, uscita, poi, nel 1956. Calvino confessava allora che quell’impresa editoriale lo esponeva a una sorta di malessere che nasceva proprio dal rapporto con un elemento non formalizzato, fluido, qual è la tradizione orale. Eppure l’iniziale diffidenza svanì nel corso del lavoro, durante il quale lo scrittore si trovò immerso nella precipua logica dell’incantamento: «Ogni poco», scriveva nell’introduzione, «mi pareva che dalla scatola magica che avevo aperto, la perduta logica che governa il mondo delle fiabe si fosse scatenata, ritornando a dominare sulla terra». E continuava, parlando di un suo intimo convincimento che giustificava il motivo per cui ciò poteva accadere: cioè, che le fiabe sono vere. Costituiscono un «catalogo dei destini», una «casistica di vicende umane», un disegno sommario della vita, rappresentano «l’infinita possibilità di metamorfosi di ciò che esiste». Possiamo immaginare la vertigine di fronte alla sterminata e prodigiosa campionatura di ciò che è narrabile, che egli aveva davanti a sé. Eppure il gioco appariva dotato di regole; come per gli scacchi i movimenti sulla scacchiera sono determinati, eppure è possibile giocare un numero infinito di partite diverse, allo stesso modo la fiaba popolare si modella su strutture fisse che consentono infinite variabili.

A tutto questo si aggiunge la peculiare abilità dei narratori, che si traduce nell’applicazione di una vera e propria tecnica della narrazione orale. Su questo concetto Calvino si soffermerà ancora nelle Lezioni americane (1988); tra i valori letterari da tramandare al nuovo millennio c’è la rapidità, e il luogo in cui meglio si esprime è proprio la narrazione orale. «La tecnica della narrazione orale nella tradizione popolare», scrive nelle Lezioni, «risponde a criteri di funzionalità: trascura i dettagli che non servono ma insiste sulle ripetizioni, per esempio quando la fiaba consiste in una serie di ostacoli da superare. Il piacere infantile di ascoltare storie sta anche nell’attesa di ciò che si ripete: situazioni, frasi, formule»; e più oltre rivelava di aver incontrato il massimo piacere quando un testo era laconico e doveva cercare di tradurlo in lingua rispettandone la concisione. Credo che Alfredo Romano, che si è cimentato nella traduzione delle sue fiabe, comprenda bene che cosa Calvino intendesse. Eugenio Imbriani





Introduzione Non ho avuto libri da bambino, non c’erano i libri. La carta era quella paglierina del pizzicagnolo che ti incartava un’aringa o cento grammi di ricotta forte, detta schianta. La pagina era quella di un vecchio giornale che trovavi dal barbiere, tagliata fino a ricavarne un mazzo di quadratini sui quali sfregare il rasoio con la schiuma da barba. Per non dire di quella scritta in latino quando si andava a servire messa a don Salvatore. A fare i bravi si guadagnava anche un Ordo missae, l’annuario delle messe che portavo a casa raggiante: era pur sempre un libro. Non c’erano libri da bambino, ma è stata una fortuna non avere libri da bambino, ci sarebbe stato tempo per i libri. Non ho avuto libri… ma ho avuto in casa dei narratori che ricordo come altrettanti libri parlanti, le cui voci mi giungono ora, nel tempo, misteriose, inafferrabili. Quei vecchi narratori che quando muoiono si portano nella tomba una biblioteca orale intera, unica, senza speranza di riedizioni. L’arte del raccontare è stata una prerogativa della mia famiglia. I miei nonni materni, come i miei genitori, erano depositari di una sconfinata tradizione orale fatta di storie vere e fantastiche, satire e lazzi tipici dell’astuzia contadina. E poi canti d’amore e di dispetto, poesie religiose e d’occasione, proverbi, modi di dire, indovinelli, filastrocche, conte ecc. Erano i tempi dell’ozio, inteso come tempo necessario da dedicare allo spirito, allo svuotamento dei pensieri, al comunicare, al tramandare. Era questo il ‘perder tempo' a raccontare. Il momento magico arrivava di sera, quando il buio scatenava le paure sopite, quando il latrare dei cani sembrava provenire dagli abissi infernali. La morte era in agguato, i morti non erano morti: tornavano invece a solleticare i vivi. C’erano strane donne vestite di nero che salivano il sagrato della chiesa per la funzione serale, poi, a rito finito, di loro nessuna traccia. C’era un cane sconosciuto, enorme, vestito di una lanugine bianca, che di notte girava il paese e scompariva all’alba: era l’uomo 

pugnalato per sbaglio davanti all’osteria in una sera di lampi e di tuoni, e la moglie, a cercarlo, era inciampata sul corpo nel buio. Al mio paese nessun morto è mai morto, i sogni erano sempre tempestati di anime, di anime in pena che invocavano i suffragi così come gli eroi greci rimasti insepolti invocavano una degna sepoltura. Le anime erano i rami degli ulivi, pronti a ghermirti, che pendevano al chiaro di luna, disegnando strane ombre sulle strade bianche e polverose. Le anime bussavano alla finestra annunciate dal lugubre verso della civetta, oppure camminavano decise sui cornicioni delle case vestite di lunghissimi camici bianchi, o battevano i talloni al di sopra delle lamie per spaventare i dormienti. A questi stessi non esitavano magari a tirare i piedi, per rimproverarli di non aver posto nella bara tutti gli oggetti dovuti, o per essere trapassate senza le dovute scarpe nuove. Perfino a tavola, nell’atto di mangiare un cocomero fresco o qualche altra delizia, bisognava augurarsi che allo stesso modo si ‘refrigerassero’ i morti: ddefriscu a lli morti (refrigerio ai morti) era l’immancabile ritornello. È in questo clima che si raccontava, trasfigurati da una lampada a petrolio, in un gioco di lampi e di ombre che si rincorrevano per la stanza con i mezzibusti degli avi, severi, alle pareti. Mio nonno Pasqualino aveva l’abitudine, d’estate, di recarsi a Rimini. Trascorreva 15 giorni da suo figlio Luigi, che si era sposato colà durante la seconda guerra. Così mia nonna Maria Neve restava sola, ed era abitudine, ogni volta, che un nipote le facesse compagnia durante la notte. Questo privilegio toccava a me, perché ero il più grande di quattro fratellini. Bene, si trattava di un’occasione unica. Prima di addormentarmi nel letto matrimoniale, mia nonna si trasformava in un’intera compagnia di teatro. Delle volte, per drammatizzare meglio i suoi racconti, si levava in piedi sul letto e gridava e gesticolava a più non posso. Io ero lì come incantato, spettatore ignaro di eventi irripetibili, catapultato in storie che prendevano corpo

nei suoi cicì-cicì dei tanti passeri, nei suoi bum-bum del Nanni Orco, nelle bucce di noci di Giovannino; oppure nelle battaglie intorno a Guerrin Meschino, a Genoveffa di Parigi con la sua capretta e al possente Fioravante. E poi lei, sempre così religiosa, a dirmi di preti e monaci che si volevano fottere le donne pie (Il fatto dei tre preti, di San Giorgio ecc.), ma che alla fine, per quante essi stessi ne subivano, risultavano più degni di commiserazione delle loro vittime. Mio padre Giovannino e mia madre Lucia, questa voglia di raccontare l’hanno esercitata fino all’ultimo, anche sul letto di morte durante la lunga malattia. Papà, a dire il vero, nella circostanza ci dava come l’illusione che stesse per migliorare. Si usava a Collemeto, quando si veniva a sapere di uno che stava per morire, fargli visita ‘per vederlo un’ultima volta’ si diceva. Generalmente l’ora era quella pomeridiana. Mio padre avvertiva, già dal brusio, la gente approssimarsi alla porta di casa. Come per incanto sgranava gli occhi, si liberava del copricapo di lana e, con un certo sforzo, riusciva a porsi seduto sul letto; chiedeva perfino un pettine per darsi una sistemata. Bene, i nuovi arrivati si mettevano seduti tutt’intorno al letto in un’atmosfera mesta, come per una veglia funebre. A mio padre invece non sembrava vero trovarsi intorno un pubblico tutto per lui, come lo aveva avuto in tante altre felici occasioni, quando aveva narrato e sedotto accompagnandosi con grandi gesti. E attaccava: il suo preferito era Don Tonino. Incredibile! La gente crepava dal ridere e se ne tornava a casa non certo con l’impressione di aver fatto visita a un morente. Ma, usciti che erano tutti, ecco che mio padre tornava a morire: forse, in cambio di un ultimo sorso di vita, aveva combinato qualche scellerato patto con sorella Morte. E noi a illuderci ogni volta. E mia madre. Alcuni dei racconti li ho scritti quasi sotto dettatura. Nel suo letto d’ospedale, in alcune pause del dolore, al fine di distrarla, le chiedevo di raccontare. Li conoscevo già quei racconti, ma avevo voglia di tornare su passi ormai caduti nell’oblio, su alcuni ritmi, su dei toni di voce, delle sfumatu-





re, perfino su dei gesti e smorfie facciali essenziali al racconto. Avevo voglia, questo sì, di far restare mia madre nelle parole, di portarmela via in un quaderno di appunti, magico, che poi avrei sfregato come la lampada di Aladino. Ma questo, lei, lo aveva capito bene. Verbum caro factum est, la parola si è fatta carne. Mai detto evangelico fu più vero. Non esiste per me fascino più grande della parola. Posso scrivere, posso bearmi con una pittura, un paesaggio, un film, una sonata di Chopin, per ricondurre poi tutto alla parola. La parola da sola è musica, è poesia. La parola non ha bisogno di supporti per essere bella. Ci sono canzoni che preferisco, proprio così, cantare senza chitarra. Lo strumento ti obbliga in qualche modo a una misura già definita, mentre l’animo ha bisogno di librarsi all’infinito senza catene, come avveniva nel canto gregoriano. Tutto questo sento di non averlo appreso soltanto a scuola, sono convinto di averlo anche ereditato. E quando a scuola è arrivato il mio primo libro di lettura, ho scoperto che era fatto di parole, parole da declamare ad alta voce, per dare anima e corpo a pagine e a segni di per sé morti. Forse è per questo che amo così tanto il libro, questo scrigno che basta scardinare per imbattersi in parole che viaggiano per mari e mondi sconosciuti, parole che concertano suoni e visioni che preludono all’unico paradiso che possiamo sognare su questa bellissima terra.

Avvertenze Il dialetto è quello salentino di Collemeto (2000 ab.), frazione di Galatina in provincia di Lecce. La trascrizione fonetica tiene conto solo dei segni diacritici per i fonemi: - cacuminale1 invertito2 sonoro ddh (beddha), ḍr (nḍrìzzate). - cacuminale invertito sordo ṭr (ṭràpule), ṭṭr (quaṭṭru), sṭr (sṭrata). - spirante sordo doppio š (nei gruppi šci e šce, come càšcia e sušcettu ).- spirante sonoro ź (àźate, caźi). Sono generalmente accentate le sdrucciole (parole con l’accento sulla terzultima sillaba) e le bisdrucciole (sulla quartultima); a volte anche le piane (sulla penultima) per venire incontro al lettore che ha poca familiarità con la lettura del dialetto salentino.

Alfredo Romano

Detto di suono nella cui articolazione la parte anteriore della lingua batte contro la sommità del palato. Dal vocabolario Zingarelli. 2 Quando la consonante si articola nel palato duro con la punta della lingua all’indietro. Dal vocabolario Zingarelli. 1





Lu Nanni Orcu e altri racconti salentini

Lu fattu te lu Nanni Orcu

Il fatto del Nanni Orco

Nc’era na fiata nu cristianu ca se chiamava Giuvanninu. Tenìa tanti fiji e lla mujère stia malata inṭra llu jettu. La fame era tanta mo’ e nnu’ ssapìa comu ia ffare cu ṭṭroa quarche ppocu te mangiare. Ma, nu giurnu ca facìa friddu e mmutu jentu, tisse: «Nà! mo’ me piju la reṭrucàrica e ba’ bìsciu ci pìju nu pocu te auceddhi1 pe’ la mujère mia e ppe’ lli fiji mii ca sta mme mòranu te fame.» Ia šcire mutu luntanu mo’, e ppe’ pruìste se mise ‘n poscia do’ ove ddelessate. Camìna e ccamìna, camìna e ccamìna, rriàu inṭru nnu fondu te ulìe, ma, àrburi cusì erti mo’, ca parìa ca rriàvanu ‘n cielu. E llu jentu li facìa te cquai e de ddhai e nc’èranu tanti te quiddhi auceddhi ca se sentìa ciciiì-ciciiì-ciciiì… «Beddhi mii!» suspiràu lu Giuvanninu, «ca li fiji mii puru hanu mmangiare!» Tittu fattu e sse mise sparare, sai? Ppim-ppumppam! ppim-ppum-ppam! E catìanu ddhi sangu te auceddhi, sai? Tira te cquai, tira te ddhai, ‘nsomma, lu Giuvanninu se nchìu la borsa te auceddhi, e stia cu sse nde torna ccasa, quandu, tuttu te paru, ntise la terra ca ne rimbumbava sotta lli pieti: bum! bum! bum! bum! E, quistu bum-bum, se mbicinava sempre te cchiùi. Cce ggh’èra? Èranu li passi te lu Nanni Orcu, ca, sentendu sparare te luntanu, era ssutu ‘n cerca te carne umana. Quandu lu pòveru Giuvanninu se ccorse ca era lu Nanni Orcu, addhu nu’ ppotte fare ca cu sse rràmpica susu ll’àrburu cchiù ertu ca nc’era. Addhai ca lu Nanni Orcu ne rriàu sotta e ffacìa cu sse rràmpica puru iddhu: cu rria sse lu mangia mo’. Ma era mutu crossu e scrufulava sempre. Lu Giuvanninu, ddha ssusu a ddhunca stia mo’, tenìa la reṭrucàrica sempre a ttirezione te lu Nanni Orcu. Ma quandu quistu tuccàu ccustàta ca nu’ llu putìa propriu zziccare lu Giuvanninu, tuttu rraggiatu pijàu ccritare: «Šcindi ca t’àggiu mmangiare! Šcindi ca t’àggiu mmangiare!» «Sì, ca era fessa mo’!» li rispundìa a ttonu lu Giuvanninu, facen-

C’era una volta un tale che si chiamava Giovannino. Teneva tanti figli e la moglie stava nel letto ammalata. La fame era tanta e lui non sapeva come fare per trovare un po’ da mangiare. Ma un giorno che faceva freddo e c’era vento, disse: «To’! mo’ mi armo di fucile e vado a vedere se piglio un po’ d’uccelli per la moglie mia e per i figli che mi muoiono di fame.» Visto che doveva recarsi lontano, si mise in tasca per provviste due uova sode. Cammina e cammina, cammina e cammina, giunse presso un fondo d’ulivi, ma ulivi così alti che pareva toccassero il cielo. E il vento li scuoteva di qua e di là e c’erano tanti di quegli uccelli che si sentiva un continuo ci-ciiì ci-ciiì ci-ciiì. «Belli miei!» sospirò Giovannino, «che1 pure i figli miei hanno diritto di mangiare!» Detto fatto. Prese subito a sparare, sai? Pim-pum-pam! pimpum-pam! E cadevano gli uccelli, sai? Insomma tira di qua, tira di là, Giovannino si riempì la borsa di uccelli, e stava per far ritorno a casa, quando, a un tratto, sentì la terra rimbombargli sotto i piedi: bum! bum! bum! bum! E questo bum-bum era sempre più vicino. Cos’era? Erano i passi del Nanni Orco che, avvertiti gli spari da lontano, si era mosso in cerca di carne umana. Quando il povero Giovannino intravide Nanni Orco, altro non potette fare che rifugiarsi in cima all’albero più alto che c’era. Lì che Nanni Orco gli si fece sotto tentando a più riprese di arrampicarsi, però, ahimè, lui era così grosso che a ogni tentativo scivolava e scivolava lungo il tronco. Ma Giovannino, appollaiato in alto lassù, non smetteva di tenergli il fucile puntato. Quando Nanni Orco si convinse di non poter acchiappare Giovannino, preso dalla rabbia, si mise a urlare: «Scendi che ti devo mangiare! Scendi che ti devo mangiare!» «Sì, che sono fesso io!» gli rispondeva Giovannino, facendoChe, nel senso di perché, ha il tono dell’uso popolare e quindi volutamente non accentato. 1

1

Auceddhi è dialetto di Neviano. A Collemeto si dice ceddhi.





du ddivedère ca nu’ llu timìa. E ntorna: «Šcindi ca t’àggiu mmangiare! Šcindi ca t’àggiu mmangiare!» «Sienti, Nanni Orcu, cerca cu tte stai quetu quetu. Ca cce tte pensi? Ca iu su’ cchiù fforte te tie!» «Comu sarebbe ddire ca sinti cchiù fforte te mie. E ffanne bìsciu comu ete ca sinti cchiù fforte te mie!» Lu Giuvanninu, ‘llora, cacciàu te poscia le ddo’ ove ddelessate e nne tisse: «Sta lle viti ‘ste ddo’ palle te fierru?» «Sta lle vìsciu! sta lle vìsciu!» «Cuarda: iu fazzu cu sse rùmpanu cu nna manu sula.» E nnu’ spicciàu te tire, ca le ddo’ ove ddelessate èranu già scrafazzate. «Sangu te cusì!» castimàu lu Nanni Orcu «allora quistu è cchiù fforte te mie!» E sse vutàu a llu Giuvanninu e nne tisse: «Sai cce ffanne? šcindi ‘llora, ca nu’ mboju tte mangiu cchiùi: facìmu pace; anzi, sciamu ccasa mia e nne facìmu na beddha mangiata.» «Parola ca nu’ mme mangi?» «Parola!» tisse lu Nanni Orcu. «Cuarda ca iu šcindu cu lla reṭrucàrica: cu stai ccortu. E poi vòju tte vvisu te n’addha cosa, e ttiènila mmente, senò su’ guai pe’ ttie: se tieni la ventura cu mme tocchi puru cu nnu tìsciatu, te nde uli ‘ll’aria e scumpari te la facce te la terra.» «None none, nu’ tte toccu, nu’ tte toccu!» tisse lu Nanni Orcu. E ppoi ṭra de iddhu: «Sangu te cusì! quistu hae béssere cchiù fforte te mie!»

gli credere di non temerlo. E di nuovo: «Scendi che ti devo mangiare! Scendi che ti devo mangiare!» «Senti, Nanni Orco,» più deciso stavolta Giovannino «stattene quieto quieto! Ma che credi: io son più forte di te!» «Come sarebbe a dire che sei più forte di me. E fammi vedere allora come sei più forte!» A questo punto Giovannino tolse dalla tasca le due uova sode, le chiuse in un pugno e gli disse: «Le vedi queste due palle di ferro?» «Le vedo, le vedo.» «Stai attento, perché io posso romperle con una mano sola.» E non finì di dire che le due uova erano già schiacciate. «Sangue di così!»2 bestemmiò Nanni Orco, «allora questo è più forte di me!» Quest’ultime parole dette sottovoce. E si voltò verso Giovannino e gli disse: «Fai una cosa: scendi pure, facciamo la pace, non ti voglio mangiare più. Andiamo a casa mia anzi: lì ci faremo una bella mangiata.» «Parola che non mi mangi?» «Parola!» disse Nanni Orco. «Attento però, che io scendo col fucile. Ti avviso di un altro fatto poi, e tienilo in mente se no saranno guai per te: se tu avessi la ventura di sfiorarmi sia pure con un dito, prenderesti il volo e scompariresti dalla faccia della terra.» «No no, non ti tocco! non ti tocco!» disse Nanni Orco. Ma poi tra sé: «Sangue di così! questo deve essere proprio più forte di me!»





L’espressione nei racconti sostituiva una bestemmia. Quel “così” poteva essere Dio, la Madonna o qualche santo. Era generalmente usata dal narratore timorato di Dio che, alle prese con un discorso diretto, non se la sentiva di ripetere di pari passo una bestemmia pronunciata da un personaggio del racconto. Gli sarebbe parso di bestemmiare a sua volta. C’è da dire che se era un uomo a narrare non si faceva tanti scrupoli a volte. Se poi c’erano bambini ad ascoltare quel “così” era d’obbligo. Altre finte bestemmie che io ricordi, che della bestemmia conservavano il suono e l’espressione (quindi non sostanziali, inefficaci ai fini del peccato) erano: Sangu te la culonna o Sangu te la matombula (invece di Madonna); oppure Mannaggia lu spiritu canfuratu (al posto dello Spirito Santo); ancora Sangu te santu nuddhu (sangue di nessun santo). 2

E tutti toi te paru pijàra la sṭrata ca scia a ccasa te lu Nanni Orcu, e quistu caminava e sse tenìa luntanu te lu Giuvanninu. Ca va’ ssacci… cu nnu’ ssia ia bulare ‘ll’aria! Ma lu Giuvanninu lu tenìa sempre t’occhiu lu Nanni Orcu. Ca va’ sacci... quiddhu a llu meju se putìa menare sse lu mangia. Quandu ca èranu ‘ppena rriati a lla casa te lu Nanni Orcu, la mujere, la Nanni Orca mo’, stia inṭru ccasa ffazza servizie, quandu ntise la ndore te carne umana. Essìu te pressa e quandu vitte lu forastieru cu mmarìtusa, tisse sbabata: «Bongiornu, bon omu.» «Bongiornu, bongiornu» rispuse lu Giuvanninu cu nn’aria te omu benforte. Ma la Nanni Orca, ccustànduse a nna ricchia te lu Nanni Orcu, ne tisse cittu cittu: «Beh, iu sta mmoru te fame, maritu miu: quandu ete ca ne lu mangiamu ‘stu cristianu?» «Nu’ ccangi mai! Pe’ mmoi statte queta, àggi nu pocu te canza: ca quistu è cchiù fforte te mie, tocca llu pijámu a ll’ampruìsa. Tie ‘ntantu cconza tàula, ca facìmu prima cu mmangia e ccu bia, e ppoi, quandu ca s’hae binchiatu bonu bonu, lu mandamu sse curca. E quandu ca sta dorme ‘n chinu ‘n chinu, ne preparamu nu beddhu carizzu.» E lla Nanni Orca giustàu tàula e tutti ṭṭre se mìsera mmangiare. Li Nanni Orchi però mangiàra picca, ca sapìanu ca a llu cramatina s’ìanu binchiare te carne umana. Ca mo’ nu’ bitìanu l’ora, no? La Nanni Orca preparàu la stanza cu ddorma lu Giuvanninu e quistu, paṭrefijoluspiritusantu, sciu sse curca. Quandu ca se fice notte funda, lu Nanni Orcu ddišcitàu la Nanni Orca e nne tisse: «Tie va prepàra lu furnu, ca iu mo’ vau, lu fazzu a stozze e ccramatina ne lu mangiamu beddhu beddhu.» E lla Nanni Orca te pressa sciu cu dduma lu furnu. Cce ffice lu Nanni Orcu? Pijàu na sorta te ‘ccetta crossa quantu osci-ccrai e šciu cu apre chianu chianu senza ffazza rumore la por-

Ed entrambi s’incamminarono per la via che portava alla casa del Nanni Orco. Costui però, a rischio di volare in aria, si teneva ben distante da Giovannino. Erano appena arrivati nei pressi della casa, che la moglie Nanni Orca, intenta alle faccende domestiche, fiutò già l’odore di carne umana. Per questo uscì di fretta e, alla vista del forestiero, fece sorpresa: «Buongiorno, buon uomo.» «Buongiorno!» rispose Giovannino con una faccia spavalda. Ma Nanni Orca, accostandosi all’orecchio del Nanni Orco, gli disse zitta zitta: «Quando ce lo mangiamo? Che io sto morendo di fame!» «Ma tu non cambi mai!» le sussurrò stizzito, «mo’ te ne stai quieta quieta. Un po’ di pazienza diamine! Sai, questo è più forte di me, e bisogna prenderlo di sorpresa! Ma tu aggiusta tavola intanto: prima lo facciamo mangiare e bere e, una volta sazio, lo manderemo a dormire. E mentre lui dorme io gli preparo… una bella carezza!»3 E Nanni Orca approntò subito tavola e si misero tutti a mangiare. In verità i due Nanni Orchi mangiarono poco, pregustando più in là un piatto più sostanzioso a base di carne umana. Giovannino invece ne approfittò perché aveva fame e, una volta sazio, si avviò a dormire nella camera approntatagli da Nanni Orca. Padrefigliolospiritosanto e finì a letto. Ma appena si fece notte fonda, Nanni Orco svegliò Nanni Orca e le ordinò: «Tu vai ad accendere il forno, io intanto vado e faccio a pezzi quel cristiano. Ah ah!, domattina che bella mangiata!» Che ti fece Nanni Orco? Afferrò un’accetta grossa quanto oggi e domani, entrò piano piano nel buio della camera di Giovannino e s’accostò al letto. Qui si mise a menare colpi





In dialetto carizzu (carezza) ha un significato ironico e tragico nello stesso tempo. Lu Signore m’ha ffattu ‘nu beddhu carizzu (Il Signore ci ha fatto una bella carezza) a volte lo si dice in occasione di un evento tragico. 3

ta te la cambara a ddhunca sta’ ddurmìa lu Giuvanninu. ṭrasìu a llu scuru, sciu a ttirezione te lu jettu e nne zziccàu mmenare susu corpi te ‘ccetta: tiritìnghi e tiritànghi! tiritìnghi e tiritànghi! E lle stozze se nde vulàvanu ‘ll’aria a ddhunca t’ete, ca ne catìanu puru ‘n facce. «Ah, comu sta tte lu cumbinu,» facìa tuttu cuntentu lu Nanni Orcu «sta mme ddefriscu propriu. Cramatina vegnu mme ccoju tutte ‘ste beddhe stozze: acchiàtu comu n’imu binchiare!» E llassàu tuttu comu se troa e scìu sse curca. Ma se critìa, iddhu mo’, ca lu facìa fessa lu Giovanninu! Lu fattu foe ca quistu l’ia pensata ca lu Nanni Orcu s’ia misu quarche ppianu ‘n capu cu llu ccite. Sicché cc’ia fattu? Ia pijàtu tante beddhe cucuzze ca ia ṭruvatu inṭra nnu canišcione e ll’ia giustate susu lu jettu: cu ffazza ccritìre mo’ ca iddhu stia intra li jettu. Poi s’ia misu cu spetta a nn angulu te la càmbara. Quandu se fice matina, lu Nanni Orcu ṭrasìu inṭru lla stanza cu nna canìšcia cu sse ccòja le stozze, e… nnu’ ba tte vite lu Giuvanninu, tuttu beddhu mpizzatu, ca sta sse la passaggiava? «Bongiornu,» tisse lu Nanni Orcu, ca nu’ ccritìa a ll’occhi soi, «hai turmùtu bonu stanotte?» «Sì, sì, eccòmu! Àggiu turmùtu propriu bonu; sulamente ca a nnu beddhu mumentu m’àggiu sentutu rriare ‘n capu scorze te nuci.» «Sangu te cusì!» castimàu lu Nanni Orcu inṭra te iddhu. «Comu, l’àggiu fattu a stozze, l’àggiu fattu, e quistu tice scorze te nuci? Sangu! ma quistu ‘llora è cchiù fforte te mie!» Passàu tuttu lu giurnu. Alla sera, ntorna, mangiàra e llu Giuvanninu scìu sse curca. Ma a llu vutare te la men´zanotte, lu Nanni Orcu tisse n’addha fiata a lla Nanni Orca cu bàscia prepàra lu furnu pe’ llu cramatina. Tenìa n addhu pianu ‘sta fiata. Cce ffice? Sciu cu ppìja na rota te ṭrappitu, ca pisava quarche quintale, e sse mise cu lla spinge susu lle scale ca purtàvanu susu lla làmmia te la càmbara a ddhunca turmìa lu Giuvanninu. Susu ‘sta làmmia nc’era nu ṭrabuccu ca tia luce e cca stia propriu terittu terittu su llu jettu. Sette camise sutàu lu Nanni Orcu cu lla pozza spingìre, la rota, ddha ssusu. Aprìu ddhu sangu te ṭrabuccu e scurumbulàu la rota susu lu jettu te lu Giuvanninu. «Ah, mo’ sì ca l’àggiu ccisu! Cce mmangiata ca m’àggiu ffare cramatina!»

d’accetta: tiritinghi e tiritanghi! tiritanghi e tiritanghi! I pezzi volavano dappertutto e gli ricadevano pure in faccia. «Ah, come te lo sto combinando!» ripeteva soddisfatto Nanni Orco. Quando credette d’averlo fatto in mille pezzi, lasciò la camera col proposito di tornarci non appena fatto giorno. Giovannino invece non s’era fatto fregare, perché aveva intuito che Nanni Orco stesse architettando un piano per ucciderlo. Così aveva raccolto un bel po’ di grosse zucche e le aveva adagiate sul letto a comporre una sagoma. Poi s’era posto al riparo in un angolo della camera. E all’alba Nanni Orco varcò la stanza munito di un canestro con l’intento di riempirlo dei pezzi di carne umana. Ma quale sorpresa quando vide Giovannino tutto bello in piedi. «Buongiorno!» disse Nanni Orco che non credeva ai suoi occhi. «Ma… hai dormito bene stanotte?» «Sì, sì, eccome!, ho dormito proprio bene! Solo che a una certa ora della notte mi sono sentito cadere addosso delle bucce di noci.» «Sangue di così! Come…» imprecò Nanni Orco tra sé «l’ho ridotto in pezzi e mi parla di bucce di noci. Sangue! questo allora è più forte di me!» Trascorse il giorno. A sera, dopo la cena consueta, Giovannino si ritirò nuovamente in camera. Ma, a mezzanotte, ecco Nanni Orca pronta di nuovo ad accendere il forno. Nanni Orco stavolta però aveva escogitato un altro piano. Che ti fece? Raccolse una macina in pietra di frantoio, pesantissima, e prese a spingerla sulla scala esterna che portava su al terrazzo, dove un lucernario si apriva proprio sul letto di Giovannino. Sette camicie sudò Nanni Orco per spingervi quella macina, per aprire il lucernario e scaraventarla sul letto di Giovannino. «Stavolta sì che l’ho ammazzato!» fece sicuro tra sé Nanni Orco. Giovannino invece… se ne stava ancora tranquillo, rifugiato nel solito angolo.





Iddhu mo’ se critìa… Lu Giuvanninu ia sciutu, sine, sse curca, ma, cu nn occhiu ia turmùtu e ccu ll’addhu ia statu ddišcitatu. Sicché, quandu ia ntisu lu rumore te quiddha sangu te rota, s’ia misu ntorna a nn angulu te la stanza. Quandu a llu cramatina lu Nanni Orcu scìu sse ccòje ddha beddha carne umana, lu vitte ntorna tuttu mpizzatu, ca nu’ ccritìa a ll’occhi soi: «Bongiornu» ne tisse. «Bongiornu, bongiornu» rispundìu lu Giuvanninu. «Beh, comu si’ statu stanotte?» «Ah, bonu bonu! sulamente ca a nnu beddhu mumentu àggiu sentùtu ‘n capu do’ scorze te nuci.» «Do’ scorze te nuci!» tisse inṭra te iddhu lu Nanni Orcu «Sangu! n’àggiu menatu susu na rota te ṭrappitu e sta mme cunta te scorze te nuci? Quistu ‘llora hae béssere cchiù fforte te mie!» Mo’ lu Nanni Orcu nu’ ssapìa cchiùi comu ia ffare cu sse mangia lu Giuvanninu. Pensa e pensa: «Mo’ sa’ cce ffazzu?» tisse «Lu portu inṭra llu boscu e bitìmu a cci è capace cu mmena n àrburu ‘n terra cu lle mane sulamente. Ca... bonu bonu, pìju n àrburu, ne lu menu susu e ffazzu cu mmora!» «Vo’ tte mmisuri cu mmie?» tisse lu Nanni Orcu a llu Giuvanninu «Vitìmu ci è ccapace crai cu mmena n àrburu ‘n terra te inṭra llu boscu.» «Ca percé:» rispuse lu Giuvanninu «nu’ mme tiru rretu iu.» Ma appena se fice notte, lu Giuvanninu scìu cu nnu serrettu inṭra llu boscu e ccuminciàu sserrare n àrburu, quiddhu ttantu però cu rresta ‘ppena ‘ppena tisu. Poi fice do’ busci a llu ṭroncu quantu nu tìsciatu e lli inchìu te ricotta. A llu crai se a´zara prestu tutti toi cu banu inṭra llu boscu, e llu Giuvanninu ne rripetìu ntorna a llu Nanni Orcu cu stèscia ttentu e ccu ccamina luntanu te iddhu: se no acchiàtu a ddhu se nde vulava. Rriati ca fora a llu boscu, lu Giuvanninu se mise nnanzi ll’àrburu ca ia serratu, e nne tisse a llu Nanni Orcu: «Vo’ tte fazzu biti ca ‘st’àrburu fazzu ccàscia ‘n terra cu do’ tìsciate?» «Vane! vane! Cce sta’ mme tici? Mo’ sta’ bindi ṭràpule!» «Statte 'ttentu ‘llora.»

Quando, fattosi giorno, Nanni Orco tornò in camera per portarsi via la sospirata carne umana, non credette ai suoi occhi quando vide di nuovo Giovannino tutto bello in piedi. «Buongiorno!» gli disse. «Buongiorno, buongiorno!» ebbe per tutta risposta. «Ma… come hai dormito stanotte?» «Bene, bene: giusto a una certa ora della notte mi sono sentito cadere in testa delle bucce di noci.» «Bucce di noci!» fece tra sé Nanni Orco «Sangue!… una macina di frantoio... e quello mi parla di bucce di noci! Questo allora è più forte di me!» Mo’ Nanni Orco non sapeva più che piano inventarsi. Pensa e ripensa… «Sai che faccio?» si disse «lo porto nel bosco e lo sfido ad abbattere un albero con le sole mani. Così, sul più bello, gli scaravento l’albero addosso e lo faccio morire!» «Vuoi misurarti con me?» propose Nanni Orco a Giovannino. «Vediamo chi è più bravo domani ad abbattere un albero del bosco con le sole mani.» «Non mi tiro indietro!» pronto Giovannino. Ma appena si fece notte, Giovannino si munì di una sega e si recò nel bosco. Qui scelse un tronco d’albero e lo segò in basso, ma quel tanto da consentirgli di tenersi ancora in piedi. Poi praticò due buchi profondi sul tronco, giusto per infilarci due dita, e li riempì di ricotta. S’alzarono presto il giorno dopo e, sulla via per il bosco, Giovannino non si stancò di ripetere a Nanni Orco di tenersi sempre distante da lui, a rischio di spiccare il volo e perdersi in aria. Giunti che furono nel bosco, Giovannino prese posto davanti all’albero già segato e disse a Nanni Orco: «Vuoi vedere che quest’albero lo faccio cadere a terra spingendolo con due sole dita?» «Va’ va’! ma che dici: tu mi vendi frottole!» «E guarda allora.» Detto fatto. Giovannino ficcò le dita nei buchi pieni di ricotta, una leggera spinta e l’albero cadde.





E llu Giuvanninu nfilàu do’ tisciate inṭra lli busci chini te ricotta e, quantu pare ca ne tese na spinta, e ll’àrburu catìu. «Sangu te cusì!» tisse lu Nanni Orcu «Ca quistu è cchiù fforte te mie!» E ccusì se nde turnàra ccasa. Lu bellu ca la Nanni Orca, lu stessu ca piace, ia preparatu lu furnu cu sse rrùstanu lu Giuvanninu e quandu li vitte rriare tutti toi rimase cu ttantu te cannarozzu. «Acquai nu’ sse pote fare gnenzi,» ne tisse cittu cittu lu Nanni Orcu a lla Nanni Orca «quistu è cchiù fforte te mie!» E passàvane li giurni e llu Giuvanninu pensava sempre a lli fiji soi ca sta’ mmurìane te fame e a lla mujère soa ca stia inṭra nnu fundu te jettu. Mo’ nu’ ssapìa comu ia ffare cu sse la squàja te lu Nanni Orcu. Pensa e pensa, alla fine ne vinne ‘n capu nu pianu. Nc’era nnanzi ccasa te lu Nanni Orcu na palla te fierru ca pisava ci sape quanti quintali. Cce ffice? Se piazzàu nnanzi ddha palla e ccuminciàu a critare menandu le razze ‘ll’aria: «Cristiani te quistu mundu e de quiddhaaàddhu... scansaaàtive... rriparàtive a nn angulu te caaàsa... stàu cu ttoccu cu nnu tìsciatu ‘sta palla te fieeèrru... stàtive tteeènti... mo’ se nde vula ‘ll’aaària... e ba ccate a quarche paaàrte!» Lu Nanni Orcu ntise. «Ma cce sta ccrita?» tisse «Vo’ tte fazzu biti ca sta mme cumbina n’addha te le soe? Assa cu ba bìsciu, cu nnu’ ssia me mena quarche addhu cazzunculu.» Quandu scìu e llu vitte nnanzi ddha sangu te palla: «‘Nsomma se po’ capire percé sta’ ccriti?» ne tisse. E llu Giuvanninu ntorna: «Cristiani te quistu mundu e de quiddhaaàddhu... scansaaàtive... rriparàtive a nn angulu te caaàsa... stau cu toccu cu nu tìsciatu ‘sta palla te fieeèrru... stàtive tteeènti... mo’ se nde vula ‘ll’aaària... e ba ccate a quarche paaàrte!» «None none! statte quetu! pe’ ll’amore te Ddiu!» Ma nu’ nc’era gnenzi te fare: lu Giuvanninu nu’ lla spicciava te critare cristiani te cquai e cristiani te ddhai. «Pe’ ll’amore te Ddiu! pe’ ll’amore te Ddiu!» nsistìa lu Nanni Orcu «Nu’ mme tuccare quiddha palla te fierru! làssala stare! fermu, fermu! cu nnu’ ssia va nne cate ‘n capu!» Ma lu Giuvanninu nu’ lla spicciava te critare.

«Sangue di così! questo è più forte di me!» tra sé Nanni Orco. E così se ne tornarono a casa. Il bello fu che Nanni Orca anche stavolta non aveva mancato di accendere il forno per arrostire Giovannino. Per questo, vedendoli tutti e due di ritorno, rimase con tanto di naso. «Qui non c’è niente da fare!» le disse Nanni Orco in un orecchio, «Questo è più forte di me!» Passavano i giorni e Giovannino pensava sempre ai figli suoi che morivano di fame e alla povera moglie che stava ammalata in un fondo di letto. Voleva fuggire da Nanni Orco, ma per il momento doveva essere prudente, aveva bisogno di un piano. Pensa e ripensa alla fine ebbe un’idea. V’era nei pressi della casa del Nanni Orco una grossa palla di ferro. Che ti fece? Si piazzò davanti alla palla e si mise a gridare facendo grandi gesti: «Uomini di questo mondo e di quell’aaàltro... scansaaàtevi... riparatevi a un angolo di caaàsa... sto per toccare con un dito questa palla di feeèrro... state atteeènti... adesso prende il vooòlo... va a cadere da qualche paaàrte!» Nanni Orco intese. «Ma che grida!» disse. «Stai a vedere che vuol combinarmi un’altra delle sue? Fammi andare a vedere, ché quello mi vuol mettere qualche altro cavolo in culo.» Così si avvicinò a Giovannino, ma questi continuava imperterrito a gridare. «Si può capire perché gridi?» disse Nanni Orco. Ma Giovannino non smetteva: «Uomini di questo mondo e di quell’aaàltro... scansaaàtevi... riparatevi a un angolo di caaàsa... sto per toccare con un dito questa palla di feeèrro... state atteeènti... adesso prende il vooòlo... va a cadere da qualche paaàrte!» «No no, cristiano mio, per l’amore di Dio, non toccarmi quella palla di ferro! lascia stare! fermo! fermo! che può cadere in testa a noi.» Ma Giovannino non sentiva ragioni. Alla fine Nanni Orco:





«Sièntime cquai, sièntime cquai» risulvìu allora lu Nanni Orcu. «Vòju tte tau nu caricu te sordi: basta ca te nde vai. Te tau nu ciucciu e ddo’ visazze chine chine te tucati t’oru. Vane e nnu’ ffatte cchiùi bitìre: ca tie quantu cchiùi stai cquai, cchiùi me minti inṭru lli perìculi.» E llu Giuvanninu ippe lu ciucciu cu le do’ visazze chine te oru, ma, prima cu pparta, tisse a llu Nanni Orcu: «Iu sta mme nde vau, ma nu’ ppozzu salire susu llu ciucciu, senò se nde vula. Vole tire ca iu caminu ‘ll’ampete e llu ciucciu te coste.» Salutàu lu Nanni Orcu e lla Nanni Orca e partìu. Quantu ca fice nu pocu te sṭrata, poi, sicuru ca nu’ llu vitìa cchiui nišciunu, pijàu e mmuntàu susu lu ciucciu. E ffuci ccasa mo’! Lu Nanni Orcu però già s’ia fattu pentutu te tutti quiddhi sordi ca n’ia tatu. Nu ss’ia datu pe’ vintu ‘ncora. «Cilaccriatu! tocca llu zzaccu!» tisse, e sse mise mmarciare cu llu rria. Addhai ca lu Giuvanninu menṭre sta ṭruttava cu llu ciucciu sciu ba ssente: bum! bum! bum! bum! «Sangu te ddhu porcu!» tisse «Lu Nanni Orcu sta mme sècuta!» Cusì šcise te lu ciucciu, lu pijàu, lu scuse a rretu a nnu cozzu e se mise ccuardare ‘ll’aria pe’ ffinta. Rriàu lu Nanni Orcu e vitte lu Giuvanninu senza ciucciu e cca sta ccuardava ‘ll’aria. «Ma se po’ ccapire cce gh’ete ca sta’ ccuardi?» ne tisse lu Nanni Orcu. «Na! è successu ca senza mmancu cu mme ddunu, àggiu tuccatu lu ciucciu cu nnu tìsciatu e quiddhu se nd’è bulatu ‘ll’aria cu ttutte le visazze. Sta ccuardu ci pe’ ccasu lu vìsciu šcindire a quarche parte.» «Sangu te cusì!» tisse ṭra de iddhu lu Nanni Orcu. «Acquai è mmeju cu mme nde vau, cu nnu’ ssia quiddhu ci va mme tocca cu nnu tìsciatu me face cu mme nde ulu ll’aria comu lu ciucciu!» E ‘sta fiata, lu Nanni Orcu se nde turnàu rretu senza nuddha speranza cchiùi cu sse mangia lu Giuvanninu. E llu Giuvanninu, angrazieteddiu, putìu turnare ccasa soa, ma, a llu ṭrasire ca fice ccasa, ṭruvàu la mujère e lli fiji cchiù mmorti ca bii. Ma quandu aprìu le visazze e ffice cu bìscianu tutti quiddhi tucati t’oru, frate miu! l’ii bitire cumu sartàvanu pe’ lla

«Stammi a sentire:» gli disse «ti darò un asino con due basti carichi di ducati d’oro, ma voglio che te ne vai! E non farti vedere mai più, perché tu, se continui a star qui, non farai che mettermi nei pericoli.» E Giovannino ebbe l’asino e i due basti carichi di ducati d’oro, ma, prima di mettersi in viaggio, disse al Nanni Orco: «Io me ne vado, ma non monterò sull’asino perché tu sai che, se malauguratamente lo toccassi sia pure con un dito, quello prenderebbe il volo. Farò la strada a piedi quindi, a distanza dall’asino.» Poi salutò i due Nanni Orchi e se ne partì. Ma, fatta un po’ di strada, sicuro di non essere più visto, montò sull’asino e... trotta e trotta verso casa mo’!» Nanni Orco però, nel frattempo, s’era pentito della sua generosità e decise di mettersi in marcia per raggiungere Giovannino. Lì che questi, trottando sull’asino, ti andò a sentire di nuovo bum! bum! bum! bum! «Sangue di quel porco!» imprecò «È Nanni Orco!» Scese subito dall’asino allora, lo nascose dietro a un grosso masso e poi prese a far finta di guardare in aria. Qui che sopraggiunse Nanni Orco: «Si può capire cosa stai guardando?» chiese a Giovannino. «Purtroppo senza avvedermi ho toccato l’asino con un dito ed è sparito in aria con tutte le bisacce. Guardo nella speranza di vederlo cadere da qualche parte.» «Sangue di così!» disse tra sé Nanni Orco «se questo mi tocca con un dito, mi fa fare la fine dell’asino!» E si allontanò, e questa volta per sempre. E, ingraziadiddio, Giovannino fece finalmente ritorno a casa dove trovò la moglie e i figli più morti che vivi. Ma quando vuotò le bisacce cariche di ducati d’oro, dovevi vederli tutti saltare di gioia. Così Giovannino chiamò i figli suoi e, a ognuno dando dei soldi, ordinò: «Tu to’! vai a comprare il pane; tu to’! vai a comprare la mortadella; tu to’! compra un’aringa; tu to’! le noccioline; tu





cuntentezza. E llu Giuvanninu chiamàu li fiji, e a unu a unu li cumandàu: «Tieni ‘sti sordi tie! vane e ccatta lu pane; tie na! vane e ccatta la murtatella, tie ccatta na ringa, tie pija to’ nuceddhe, tie li portacalli, tie la ggiocculata, tie nu beddhu liṭru te vinu, tie l’òju. E sbricàtive: ca te osci nnanzi inṭru ‘sta casa la fame nu’ ss’hae mancu nnominare! E iddhi vìssera felici e ccuntienti e nnui nu’ ìppime gnenzi. Ci voi tte cuntu n addhu, me tai nu taraddhu.

to’! le arance; tu to’! la cioccolata; tu to’! un bel litro di vino; tu to’! l’olio; tu to’! questo e tu to’! quest’altro. E sbrigatevi, che d’ora innanzi in questa casa la fame non si deve neppure nominare!» E loro vissero felici e contenti e noi non avemmo nienti. Se volete un altro fatto, datemi un tarallo.4

4



In dialetto ‘altro’ e ‘tarallo’ (addhu e taraddhu) fanno rima.



Quiddhu te la crapa

Quello della capra

Nc’era una ca se chiamava Maria e ia pparturìre. Allora ne tisse lu maritu: «Nu’ è bonu cu nne ccattamu na crapa ca face latte pe’ quandu našce lu vagnone?» «Mmm… e scia’ ccattàmune la crapa!» tisse la mujère. E ccusì ccattàra la crapa. La crapa criscìu e rriàu lu latte: beddha, cu lli crapetti soi, no? Nc’era nu mònicu picozzu ca passava sempre te casa te la Maria pe’ la limòsina, quandu ca vitte ddha sangu te crapa. «Ah!» tisse ṭra de iddhu, «ddha capra è bona propriu pe’ llu paṭre cuardianu.» «Nu’ mme faci la limòsina?» ne tisse ‘ntàntu a lla Maria. «Sine na!» tisse la Maria. E nne tese do’ beddhe frise, frische nfurnate, e nnu pocu te pummitori. Allora, quandu ca se fice notte, lu picozzu sciu e rrubàu la crapa, sai? Lu maritu, la matina, se nd’ia sciutu prestu fore cu ffatica, e nnu’ ssia ccortu ca nu’ nc’era cchiùi la crapa. Ca va’ ssacci! Bah…quandu è tturnatu: «Ah!» tisse la Maria «maritu miu, n’hanu pijatu la crapa!» «Ci è ppassatu ieri te cquai?» «Na! lu picozzu sulamente è ppassatu, e nn’àggiu fattu la limòsina.» «Eh,» tisse lu maritu «viddhu se l’hae pijata!» «Nooòne,» tisse iddha «nu’ pput’èssere. «Siiìne, lu picozzu se l’ha ppijata: tanne retta a mmie! Vo’ tte fazzu biti ca se l’hae pijata pe’ llu paṭre cuardianu? Ca quiddhu ete unu ca vole stae spurdacchiatu. Mo’ te fazzu biti mo’!» Allora, a llu cramatina, se mise ‘n viàggiu pe’ llu cumentu. Rriàu, pijàu te lu sciardinu te la manu te retu, no? se nfacciàu te inṭru e bitte la pelle te la crapa soa mpisa ‘llu sole cu ssicca… Ca la pelle poi se l’ìanu buta bindìre puru!

Era una che si chiamava Maria ed era in attesa di un bambino. Allora il marito le disse: «Non sarà bene procurarci una capra per il bambino? Ci sarà bisogno di latte.» «Ùmh, e compriamoci pure la capra!» rispose la moglie. E così si comprarono la capra. Capra che diventò bella grossa, bella con i suoi capretti, no? e che faceva tanto bel latte. Successe che un monaco cercantino,5 che passava da casa della Maria per la questua, notò quella caspita di capra. «Ah!» disse tra sé «questa capra è proprio buona per il padre guardiano.» «Non mi fai l’elemosina?» chiese intanto alla Maria. «Sì, to’!» disse la Maria. E gli porse due belle frise6 infornate da poco insieme con una manciata di pomodori. Ma venne la notte e il frate cercantino andò a rubare la capra della Maria, sai? Il marito mo’ s’era levato presto per andare in campagna e non s’era avveduto del furto. Ma quando a sera rientrò dalla fatica, la Maria gli corse subito incontro e: «Ah!» gridò «marito mio, la capra ci hanno rubato!» «Chi è passato ieri di qua?» «Il frate cercantino è passato: gli ho fatto un po’ d’elemosina.» «Eh,» disse il marito «il frate se l’è presa!» «Nooò,» disse lei «non può essere!» «Siiì, se l’è presa, il frate se l’è presa, dài retta a me! L’ha rubata sicuramente per il padre guardiano, che è uno che se ne sta sempre a pancia piena. Mo’ gli faccio vedere io!» L’indomani, il marito corse al convento e, giunto sotto il muro di cinta, vi s’arrampicò per affacciarsi sul giardino. E che ti vide? La pelle della capra sua stesa nel bel mezzo al sole ad asciugare. Capì che i monaci, una volta mangiata la capra, si sarebbero venduti pure la pelle. Un frate incaricato di fare la questua per il convento. È un pane tostato a forma di ciambella, ma senza buco, caratteristico del Salento. 5 6





«Aaah! be l’iti scurciata e be l’iti mangiata, ah? Àggiu ffare cu be saccia beddha sapurita! Bah, mo’ be ggiustu iu!» Quistu era cristianu ca nde sapìa cchiù iddhu te lu tiàvulu. Cce fice ‘llora? Se vestìu te signurina e, quandu ca scurìu, sciu e sse presentàu a llu cumentu. Tuzzàu e nne aprìu nu monicu, ca… quandu vitte ddha signurina, rimase cu ttanta te ucca perta… Ca quandu mai s’ia vista na femmana cu ttuzza te notte a llu cumentu? «Sta begnu te luntanu, s’hae fatta notte e mm’àggiu persa inṭra ‘ste ripe» tisse la signurina. «Tàtime nu jettu cu ppozzu turmire.» Addhai ca rriàu paṭre cuardianu, e, bitèndu la signurina, fiju miu, sùbitu ne ‘ssira l’occhi te fore, sai? «Suntu lu paṭre cuardianu, quale ientu te porta?» tisse tuttu presciàtu quandu rriàu nnanzi ‘lla signurina. «Paṭre cuardianu miu, hae tuttu lu giurnu ca sta ccamìnu, m’hae pijàta notte e mm’àggiu persa. Vau sṭracca te morte. Vulìa nu jettu cu mme stendu, a ‘st’ora nu’ ssacciu propriu a ddhu àggiu sbattire la capu. Fanne cu ṭṭrasu, pe’ ll’anima te li morti toi!» Li mònici, però, senza mancu spéttanu la risposta te lu paṭre cuardianu, se fìcera nnanzi e ddìssera: «None, signurina, nu’ ppoti turmire inṭra ‘llu cumentu: nu’ ss’hae mai vista na fèmmana cu ddorma cquai.» Ma lu paṭre cuardianu (furbu iddhu!) te pressa ne tisse a lli mònici: «Ma cce imu ttenire paura mo’ te na signurina? Cu ttante càmbere ca tenìmu, lampu! Cce nn’hanu ddire: ca cacciàmu li cristiani te lu cumentu quandu tènanu bisognu? Sia, facìmula pe’ ll’amore te lu Signore.» Ti motu ca la signurina ippe na càmbera cu ppozza turmire. Ma lu paṭre cuardianu tenìa malote ‘n capu. Chiamàu li mònici e nne tisse: «Frati mii, iu stanotte àggiu šcire ba ṭṭrou la signurina, ca m’hae tittu ca nu’ stae bona e ca tene bisognu te mie. Ma me raccumandu, na cosa be ticu: ci sentiti critàre, o ca sentiti fèra o ca sentiti

«Ah, l’avete scuoiata per mangiarla la mia capra eh? Farò in modo che vi sappia proprio saporita! Bah, ora v’aggiusto io!» disse tra sé. Questo era un uomo che ne sapeva più lui del diavolo. Che cosa fece quindi? Si travestì da donna e si presentò al convento. Bussò e aprì un monaco che, alla vista della forestiera, rimase con la faccia di fesso: che quando mai s’era vista una donna bussare di notte al convento? «Vengo da lontano,» prese a dire la nuova arrivata «s’è fatta notte e mi sono perduta da queste parti. Datemi un letto che possa dormire.» Lì che giunse il padre guardiano che, alla vista della donna, sgranò gli occhi, sai? «Sono il padre guardiano, qual buon vento ti porta?» disse con aria sorridente. «Padre guardiano mio, tutto il giorno che cammino, m’ha preso notte e mi sono persa. Sono stracca da morire e vorrei un letto per dormire. A quest’ora non so proprio dove sbattere la testa. Fammi entrare, te lo chiedo per le anime di tutti i morti.» «No, signorina, non puoi proprio dormire nel convento: non s’è mai vista una donna dormire qui» si affrettarono a rispondere i monaci precedendo il padre guardiano. Ma questi, furbo, disse ai monaci: «Macché, dobbiamo aver paura di una donna? Diamine, con tante stanze! Che ci devono dire, che non diamo ospitalità alla gente che chiede aiuto? Facciamola entrare per l’amore di Dio!» Fu così che la forestiera ebbe una camera per la notte. Ma il padre guardiano aveva piattole per la testa, chiamò i monaci e disse loro: «Fratelli miei, io stanotte andrò a trovare la signorina, mi ha confidato di non star bene e che ha bisogno di me. Mi raccomando, però, una cosa vi dico: se sentite gridare, fossero grida o





rimòri, nu’ be vegna ‘mmente cu be nfacciati. ‘Nsomma nu’ biti pproccupare propriu: faciti finta te gnenzi.» E llu paṭre cuardianu scìu ba ṭṭroa la signurina. Tuzzàu, ṭrasìu e sse ccumatàu inṭra ‘lla càmbera. E ccunta te cquai e ccunta te ddhai, alla fine lu paṭre cuardianu (ca nu’ resistìa cchiùi mo’), a llu cchiù bellu, cce fice? Na! se ‘zzàu la tonaca e nne mmušciàu ‘lla signurina tutti li quarnamienti. Acquai te voju… Ca la signurina sciu sse caccia la barrucca… Addhai mo’ t’eri ṭṭruare: tiritinghi e tiritanghe, tiritinghi e tiritanghe. E tte lu sṭruncunisciàu bonu bonu te mazzate, sai? Mazzate e mmazzate, fiju miu: ddhu poveru paṭre cuardianu te lu fice a ṭṭre ore te notte. E cca se mi mise ccritare puru, ca sia ca sta’ ccitìanu lu porcu! Li mònici sentìanu tuttu, ma addhu nu’ nn’ia tittu lu paṭre cuardianu: cu sse stèscianu ‘llu postu loru. ‘Nsomma, lu maritu te la Maria, dopu ca te ncofinàu bonu bonu lu paṭre cuardianu, lu zziccàu te na ricchia e nne tisse: «T’hae saputa sapurita la crapa, ah?» «Ma ci sinti, frate miu, ci sinti?» «Ci suntu? Suntu quiddhu te la crapa!» «Uuùh, quiddhu te la crapa! quiddhu te la crapa!» A llu vutare te la matina, però, lu paṭre cuardianu tardava sse fazza bitìre. Li mònici ‘llora se rratunàra e ddìssera: «Quarche càulu hae butu rricapitare lu paṭre cuardianu: sciàmu te pressa bitìmu.» E di fatti lu ṭruàra tuttu sṭruncunisciàtu te mazzate. E nne tìssera: «Ma se po’ ccapire ci ete ca t’hae rritottu te quista manera?» «Quiddhu te la craaàpa!» tisse lu paṭre cuardianu cu nna stizza te voce. Lu paṭre cuardianu mo’ nu’ stia mai bonu, stia sempre curcatu. E lli mònici scìanu sempre ‘n cerca te nu tuttore. Allora iddhu, lu maritu te la Maria, cce ffice? Se vestìu beddhu beddhu comu nu signuru, se pijàu nu bastone, nu cappieddhu ‘n capu, na beddha borsa te tuttore, e sse mise ppasseggiare nnanti llu cumentu facendu la mmossa cu llu bastone: nu’ ssai comu fannu li signuri?

rumori, statevene al vostro posto, fate finta di non sentire.» E il padre guardiano fu ben presto nella camera della forestiera. E parla di questo e parla di quell’altro, alla fine non seppe più resistere. E sul più bello, sai che ti fece? To’! si sollevò la tonaca e le mostrò tutti gli attributi. Qui ti voglio, perché la donna si tolse la parrucca e il padre guardiano scoprì di trovarsi di fronte a un uomo. «Ma chi sei?» gli fece tutto spaventato. «Chi sono? Sono quello della capra!» disse l’uomo. Qui ti dovevi trovare mo’: tiritìnghi e tiritànghe, tiritìnghi e tiritànghe. E te lo conciò ben bene di mazzate, mazzate e mazzate, tanto che quel povero padre guardiano fu ridotto a tre ore di notte. E che si mise a gridare pure, come se stessero scannando il maiale. I monaci mo’ sentivano tutto, ma gli ordini erano ordini. E, finite le mazzate, l’uomo sollevò per un orecchio il padre guardiano e gli disse: «Ti è saputa saporita la capra ah?» «Ma chi sei fratello mio, chi sei?» «Chi sono? Sono quello della capra!» «Uuùh, quello della capra! quello della capra!» E l’uomo se la filò. Al volgere del mattino, però, il padre guardiano tardava a farsi vedere. Sicché i monaci si radunarono e dissero: «Qualche diavolo deve essere successo al padre guardiano: corriamo a vedere.» E infatti lo trovarono tutto stramazzato. E gli dissero: «Ma si può capire chi è che ti ha ridotto a questo modo?» «Quello della caaàpra!» rispose il padre guardiano con un fil di voce. Il padre guardiano mo’ stava così male che fu messo a letto. Lui allora, il marito della Maria, che ti combinò? Si vestì bello bello da gran signore, si munì di un bastone di gran classe, un cappello in testa, la borsa da dottore e si mise a passeggiare davanti al convento, facendo mosse col bastone come fanno i signori no? Non passò molto che vide i monaci uscire in tutta fretta dal convento. Lui allora li fermò e disse loro:





Nu’ ppassàu mutu ca s’acchiàra šcindìre li mònici ‘n fretta ‘n furia. Allora li fermàu e nne tisse: «Vehi, a ddhu sta’ šciàti? Cce b’hae rricapitatu ca sciati tantu te pressa?» «Eh,» fìcera li mònici «lu paṭre cuardianu stae mutu fiaccu e sta scia’ cchiamamu lu tuttore.» «Vehi,» tisse «e peccé: iu cce ssuntu? Nu’ ssuntu tuttore iu?» «Uh! tuttore nòšciu,» te pressa li mònici «ca ci te mandàu! Sciamu sciamu!» Fuci iddhu! Nchianàu te susu bàscia bìscia lu paṭre cuardianu mo’. E cquai se mise cu llu visita cu tutte le mmosse te lu tuttore, no? Poi aprìu la borsa e ppijàu le liźette. «Eh,» tisse «quistu hae bisognu te tante meticine. Ma quanti mònici siti?» «Eh, tuttore, simu undici a ‘stu cumentu.» «Ma cu ttuttu lu paṭre cuardianu?» «Sì, cu ttuttu lu paṭre cuardianu.» Allora pijàu tece liźette e sse mise ssegna meticine. «Le meticine ca sta be òrdinu,» ne tisse ‘lli mònici «nu’ stanu inṭra llu paese: iti šcire luntanu, cchiù lluntanu te zzimpogna.» Iddhu, prima sse lluntànanu li mònici, cu llu paṭre cuardianu facìa ca lu vegliava, ca lu ncarizzava. Quandu se reculàu bonu bonu ca li mònici s’ìanu lluntanati, fiju miiìu… se mbicinàu nnanzi ‘llu paṭre cuardianu e nne tisse cittu cittu: «Ma sai ci suntu iu?» «Ci sinti, cristianu miu?» «Suntu quiddhu te la crapa!» «Uuùh, frate miu, nu’ ssacciu gnenti te la crapa toa,» tisse lu paṭre cuardianu cu ll’anima cchiù ffore ca te inṭra. «Moi m’ha’ ddire li sordi àddhu stanu, se no te cciu te mazzate!»

«Ehi, dove state andando? È successo qualcosa? Come mai correte così di fretta?» «Eh,» fecero i monaci «sta molto male il padre guardiano e corriamo a cercare un dottore.» «Ehi,» disse «e perché… io che cosa sono? Non sono un dottore?» «Uuùh, dottore nostro,» presto i monaci «quale Angelo ti mandò? Andiamo subito dal padre guardiano.» Detto fatto, il dottore era già in camera del malato. E qui si mise a tastarlo con tutte quelle mosse che fanno i dottori, no? Dopo aprì la borsa ed estrasse il ricettario. «Eh,» disse ai monaci presenti «costui ha bisogno di molte medicine. Ma quanti monaci siete?» «Eh, dottore, siamo undici in questo convento.» «Ma con tutto il padre guardiano?» «Sì, con tutto il padre guardiano.» Allora prese dieci ricette e si mise a segnare strane medicine. Quindi si rivolse loro e disse: «Le medicine che ho segnato non si trovano al paese. Dovete andare lontano: più lontano di una zampogna.7 Per il padre guardiano però state tranquilli: ci penserò io a vegliare su di lui.» E infatti cominciò a lisciarlo e ad avere per lui tante premure, ma, quando si assicurò che i monaci erano andati via tutti, figlio mio… si avvicinò all’orecchio del padre guardiano e gli disse zitto zitto: «Ma lo sai chi sono io?» «Chi sei, cristiano mio?» «Sono quello della capra!» «Uuùh, non so niente della capra tua» disse il padre guardiano con l’anima più fuori che dentro. «Mo’ mi devi dire dove nascondi i soldi, se no t’ammazzo di botte!» Un’espressione che usava mia madre per dire il più lontano possibile. La zampogna, che per noi veniva da chissà quali montagne (che da noi non c’erano), dava certamente un’idea di lontananza. 7





«Uuùh, frate miu, a ddhai stanu li sordi, vane e ppijatèli.» Ntorna: «Moi m’hai ddire la tale cosa àddhu stae: ca àggiu šcire mme la piju!» Nsomma lu rrubàu bonu bonu, lu ddefriscàu bonu bonu te mazzate e sse nde scappàu. Mo’, quandu s’acchiàra ccuijre li mònici, lu paṭre cuardianu lu ṭruara cchiù mmortu ca biu, no? «Uh! paṭre cuardianu, comu stai, paṭre cuardianu? Ci t’hae ccunzatu a ttale motu?» «Ah! fiji mii» tisse. «Ma ci è statu?» «Quiddhu te la craaàpa!» suspiràu cu ll’ànima te fore. «Acquai tocca sse pruvvèta» tìssera li mònici. «Acquai lu paṭre cuardianu nu’ llu putìmu lassare cchiùi te sulu. Puru quandu sciàmu ‘lla cerca ne l’ìmu ppurtare cu nnui.» E di fatti, quandu a llu crai li mònici se ‘źara cu banu ‘lla cerca, cce ffìcera? Se caricàra an coddhu lu paṭre cuardianu, tuttu sṭruncunisciàtu, e ppartìra. Ma lu maritu te la Maria ncora nu’ ss’ia filu binchiatu te tuttu quiddhu ca n’ia fattu a ‘llu paṭre cuardianu. Iddhu mo’ era unu ca sapìa cu sse cangia e cu sse scangia, e spettava sempre lu bonu mumentu cu nde cumbìna n’addha te le soe. E cusì ffoe. Di fatti vinne cu ssàccia ca li mònici passàvanu te na carrara fore fore, cu paṭre cuardianu ‘n coddhu, sai? Cce ffice? Se mise n addhu custume, se pittàu tuttu te facce, se fice addhe subracìje e sse vestìu te vecchiu. Ca nu’ sse canuscìa mancu ca era iddhu ‘nsomma, no? Poi se pijàu na zzappa e sse mise zzappare nnanzi ‘llu campu, a ‘ddhune ìanu ppassare li mònici. Quandu li vitte cu ppaṭre cuardianu an coddhu, ne tisse: «A ddhu ete ca sta šciàti cu ddhu cristianu an coddhu tuttu sṭruncunisciàtu? nu’ bitìti ca sta be ccitìti te fatìa? Lassatimèlu cquai ci vulìti, ca a iddhu nci pensu iu: ca quandu be ccujti te la cerca, be lu pijati ntorna.» Furbu iddhu mo’, vestutu te vecchiu cu lla barba, facìa ca zzappa no? Ca quiddhi, cce llu putìanu canušcire a quiddhu motu ca scia?

«Uuùh, là si trovano i soldi: prenditeli pure.» E di nuovo: «Mo’ mi devi dire dove sta la tal cosa, e quella e quell’altra, che mi devo prendere tutto!» Insomma te lo rubò bene bene, lo prese a mazzate e se ne scappò. Mo’, quando si trovarono a tornare i monaci, il padre guardiano fu trovato più morto che vivo, no?» «Oh, padre guardiano, come stai, padre guardiano? Chi ti ha conciato in questa maniera?» «Ah, figli miei!» disse. «Chi è stato?» «Quello della caaàpra!» sospirò con l’anima di fuori. «Qui bisogna provvedere,» dissero i monaci «non possiamo lasciare da solo il padre guardiano. Anche quando si parte per la questua occorre tirarcelo dietro.» All’indomani infatti, quando i monaci si levarono per recarsi alla questua, che ti fecero? Si caricarono il padre guardiano tutto fracassato sulle spalle e partirono. Ma il marito della Maria non era ancora soddisfatto delle continue vendette ai danni del padre guardiano. Certo lui era uno che sapeva vestirsi e travestirsi e aspettava sempre il momento opportuno per combinarne una delle sue. Momento che arrivò. Venne a sapere infatti che i monaci, durante la questua, attraversavano un viottolo di campagna a lui conosciuto, sai? Che ti combinò? Si travestì da vecchio, truccandosi la faccia e i sopracciglia, si munì di una zappa e si mise ad aspettare i monaci facendo finta di zappare nei pressi di quel viottolo. Poco dopo infatti passarono i monaci con sulle spalle il padre guardiano. Allora si rivolse loro e disse: «Dove andate con quel cristiano così malridotto? Non v’accorgete che vi state ammazzando di fatica? Lasciatelo qui se volete, che ci penserò io a lui. Potrete riprendervelo al vostro ritorno.» Furbo lui, no? camuffato da vecchio con la barba, che faceva finta di zappare no? Che quelli l’avrebbero mai scoperto travestito a quel modo?





«Ca quale santu t’hae mandatu, cristianu nòšciu» ne tìssera li mònici. «Ca te lu lassamu cquai e venìmu nne llu pijamu stasera quandu n’acchiàmu tturnare. Allora, fiju miu, iddhu, quandu s’hanu lluntanati, cce hae fattu? Hae fattu na foggia, hae precàtu sotta terra lu paṭre cuardianu e nn’hae lassatu te fore sulamente menźa ucca, na ricchia e nnu pocu te capiddhi. E llu paṭre cuardianu perdìa te respiru e ffacìa: «Fiji mii! frati mii! fiji mii!» E iddhu, lu maritu te la Maria, poi se la squajàu, no? Quandu a llu scurìre li mònici se cchiara tturnare, scira a llu postu a ddhunca ìanu lassatu lu paṭre cuardianu, ma nu’ bitìanu né llu vecchiu e mmancu lu paṭre cuardianu. E dicìane: «Ma... cce sse l’hae purtatu ‘ccasa?» E giràvanu te cquai e giràvanu te ddhai. E gh’èra scurùtu ormai. Ma tuttu te paru, cerca cerca, nnutàra ‘n terra na cosa ca, ddhai pe’ ddhai, nu’ ssapìanu cce ggh’era. «Na! acquai fungi hae. Ha’ bèssere na beddha munìtula» tisse nu monicu. E stise la manu cu ttira la munìtula. Ma tira e ttira, ddha munìtula nu’ sse nde venìa. Sicché, chiamàu puru l’addhi mònici cu llu iùtanu. E ttira te cquai e ttira te ddhai, alla fine essìu la capu te lu paṭre cuardianu. Addhai mo’ t’ii ṭṭruàre. «Paṭre cuardianu, ci è statu? ci è statu?» «Quiddhu te la craaàpa!» «Quiddhu te la crapa!» tìssera li mònici cuardànduse unu cu ll’addhu. E sse lu caricàra ntorna an coddhu e tturnara a llu cumentu. Nsomma, fine te li cunti, lu maritu te la Maria, ogni ttantu se cangiava e sse scangiava, e ddhu pòuru paṭre cuardianu nu’ llu lassava an pace, sai? Quandu se ccorse ca li mònici nu’ nde putìanu cchiùi, scìu a llu cumentu e nne tisse a tutti: «M’iti nducìre tuttu, m’iti ffare paṭrunu te lu cumentu, vui iti scappare te cquai, ci no nu’ be fazzu tteniti bene: rria ca be cciu a ttutti.»

«Quale santo ti ha mandato, cristiano nostro,» gli dissero i monaci «te lo lasciamo volentieri il padre guardiano. Ce lo prenderemo al nostro ritorno.» Allora, figlio mio, lui, quando i monaci si allontanarono… che gli venne in mente? Fece una fossa e seppellì il padre guardiano, lasciandogli allo scoperto soltanto mezza bocca, un orecchio e un po’ di capelli. E il padre guardiano perdeva di respiro e chiamava: «Figli miei! fratelli miei!» Lui poi se la squagliò, no? Quando i monaci all’imbrunire tornarono a riprendersi il padre guardiano, sul posto non trovarono anima viva. E dicevano tra sé: «Ma che per caso quel vecchio se l’è portato a casa?» E giravano di qua e giravano di là e ormai s’era fatto buio. Ma d’un tratto, continuando a cercare, uno di loro notò per terra qualcosa che lì per lì non riusciva a riconoscere. «To’! ci sono funghi qui: deve essere una bella munìtula»8 disse. E stese la mano per raccoglierla. Ma tira e tira, la munìtula non se ne veniva e perciò chiese aiuto agli altri monaci. E tira di qua e tira di là tutti insieme, alla fine venne fuori la testa del padre guardiano. Lì mo’ ti dovevi trovare! «Padre guardiano, chi è stato? chi è stato?» «Quello della caaàpra!» «Quello della capra!» dissero i monaci guardandosi atterriti. E non restò loro che caricarsi di nuovo in collo il padre guardiano e tornarsene al convento mosci mosci. Insomma, per farla breve, il marito della Maria ogni tanto si travestiva dando filo da torcere a quel povero padre guardiano. Quando capì che i monaci non ne potevano proprio più, si recò al convento e disse loro minaccioso: «Dovete farmi padrone del convento! dovete scapparvene via di qua! v’ammazzo tutti se no!» 8



È un tipo di fungo porcino della macchia salentina.



E ffoe te cusì ca rrimanìu paṭrunu te tuttu lu cumentu. E iddhu e lla Maria vìssera beddhi e ccuntiènti, e nnui nu’ ìppime nienti. Ci voi tte cuntu n addhu, me tai nu taraddhu.

E fu così che rimase padrone del convento. E lui e la Maria vissero felici e contenti e noi non avemmo nienti. Se vuoi che te ne racconti un altro, mi dai un tarallo.





Lu fattu te li ṭṭre ppreti

Il fatto dei tre preti

A nnu paese, na fiata, ia na beddha fèmmana mmaritàta ca se chiamava Maria. Vista era mutu tevota, e šcia sempre ‘lla chèsia. Addhai ca lu prete ne zziccàu mmenare l’occhiu a lla Maria, tantu ca nu bellu giurnu, spicciàtu ca ia te messa, la chiamàu te scusu e nne tisse: «Maria mia, te tau centu tucati, basta ca faci begnu na notte cu tte ṭrou sula sula ‘ccasa toa.» La Maria pe’ llu scornu se nde scappàu senza ddice nu’ isti, nu’ asti e nnu’ bonasera2. E ccu nnu’ sse senta maisiasignòre3 tire tequistupassa4, pijàu bàscia a mmessa a nn’addha chèsia. Ma puru cquai lu prete ne zziccàu mmenare l’occhiu a lla Maria, tantu ca nu bellu giurnu, spicciatu ca ia te messa, la chiamàu te scusu e nne tisse: «Maria mia, te tau tocentu tucati, basta ca faci begnu na notte cu tte ṭrou sula sula ‘ccasa toa.» «Cce mmalesorte àggiu rricapitàtu,» tisse la Maria, «mo’ mancu messa me pozzu vitire cchiùi.» E ttuccàu ntorna ccàngia chèsia la Maria. Ma foe lustessucapiace5, ca cquai lu prete, anzi, ne prumise ṭrecentu tucati, e a rretu llu prete se ṭruau puru lu sacristanu. Ca ne tisse: «Iu suntu cchiù ppoerieddhu, Maria mia, apposta te pozzu tare sulamente quaranta tucati.» Mo’ la Maria a llu paese nu’ ttenìa addhe chèsie cu bàscia: ca se l’ia passate tutte. Allora ne vinne la stizza e šciu e spumpàu tuttu a llu maritu. Quistu, a pprimu mumentu, se mise ccastimare scuddhàndu Gesucristu, la Vergine e ttutti li santi te lu paratisu, tantu ca la Maria cchiùi se dispiacìu, ma poi pensàu bonu cu pprufitta te l’occasione cu sse busca quarche ssordu. E nne tisse a lla Maria:

C’era una volta in un paese una bella donna di nome Maria. Questa era molto devota e si recava sempre in chiesa. Accadde però che il prete della chiesa prese a guardare la Maria con una certa attenzione, tanto che un bel giorno, finito che ebbe di dir messa, la chiamò in disparte e le disse: «Maria mia, ti darò cento ducati, se mi farai entrare una notte a casa tua: è un sogno poterti trovare sola soletta.» La Maria, per la vergogna, se ne scappò senza dire una parola. E per il motivo che in paese non nascessero maldicenze, decise di cambiare chiesa. Ma anche qui il prete cominciò a guardare la Maria in un certo modo, e così un bel giorno, finito anch’egli di dir messa, la chiamò in disparte e le disse: «Maria mia, ti darò duecento ducati se mi farai entrare una notte a casa tua: è un sogno poterti trovare sola soletta.» «Che malasorte mi è capitata,» disse la Maria «mo’ neanche a messa posso più andare!» E alla Maria toccò trovarsi ancora un’altra chiesa. Ma nulla cambiò, anzi il nuovo prete le promise addirittura trecento ducati, e dietro di lui si fece avanti pure il sacrestano. Che le disse: «Io sono più povero, Maria mia, perciò ti posso dare solamente quaranta ducati.» Adesso però non c’erano altre chiese al paese per la Maria, e questo le fece talmente dispiacere che decise di spiattellare tutto al marito. Costui in un primo momento diede in escandescenze, bestemmiando Gesucristo, la Vergine e tutti i santi del paradiso, tanto da provocare un doppio dispiacere alla Maria, che era così devota, poi, però, pensò bene di approfittare dell’occasione e fece alla Maria una proposta.

Per dire nulla. Mai sia Signore è un intercalare, sta per ‘non sia mai’ con l’aggiunta del vocativo ‘Signore’ che lo sottolinea. 4 Altro intercalare: tire te quistu passa, nel senso di ‘dire maldicenze’. 5 Lu stessu ca piace nel senso di ‘come prima’. 2 3





«Mujère mia, sai cce ffanne? Vane e ddinne a lli preti, e ppuru a llu sacristanu, cu pprepàranu li tucati e ccu bègnanu pe’ stasera. A quiddhu te centu tucati, tinne begna alle nove; a quiddhu te tocentu, alle dece; a quiddhu te ṭrecentu, alle undici; lu sacristanu, a menźanotte. Tie ne apri la porta e nne tici cu sse spójanu e cu spéttanu, ca poi a llu restu ci pensu iu.» E ffoe cusì ca la mujère scìu e sse mise t’accordu cu lli ṭṭre ppreti e ccu llu sacristanu, cu bègnanu a quiddh’ore ca n’ia tittu lu maritu. Alle nove te la sera, sai? tuzzàu ‘lla porta lu primu prete: «Ci ete?» tisse la Maria. «Maria, iu suntu, àprime.» «ṭrasi, ṭrasi» tisse iddha. «Me l’hai ndutti li centu tucati?» «Sine, comu nu’ tte l’àggiu ndutti: ècculi, beddha mia! beddha mia!» ne fice lu prete. «Chianu… chianu!» se parau la Maria «cu nnu’ nne senta ciujèddhi. ‘Ntantu vane e sténdite susu llu canapé. E spòjate ca mo’ vegnu.» E llu prete se spujàu e sse stise susu lu canapé, spettandu la Maria: ca quiddhu mo’, fiju miu… nu’ bitìa l’ora no? A ddhai, però, e nnu’ mboi ca se sentìu tuzzare ‘lla porta? «Ci ete?» ntorna la Maria. «Iu suntu, Maria, marìtuta suntu.» «Uuùh, sorta mia, marìtuma ete!» tisse la Maria critandu cu lla senta lu prete. «Marìtuma, sorta mia!» «Cce-àggiu ffare, cce-àggiu ffare!» zziccàu ddire lu prete, ‘źànduse te lu canapé tuttu culinutu comu stia. «Sa’ cce fanne, cristianu miu? Vane e scùndite ‘rretu a quiddhu patu te tàccari sotta lu jettu. Ca ci marìtuma va tte vite cquai… su’ dduluri!» E llu prete scìu e sse scuse ‘rretu lu patu te tàccari. ‘Ntantu lu maritu nsistìa: ttu-ttú! ttu-ttú! «‘Nsomma, Maria, vo’ mme apri, sì o no? Àggiu mmenare la porta ‘n terra?» «None, sta begnu, maritu miu, sta begnu tte apru, na!» E nne aprìu.

«Sai che hai da fare, moglie mia? Rècati dai preti e dal sacrestano e fai capire loro che tu ci stai. Quello dei cento ducati, lo farai venire alle nove; quello dei duecento, alle dieci; quello dei trecento, alle undici; il sacrestano a mezzanotte. Li farai accomodare in camera, li farai spogliare e dirai loro di aspettare. Che al resto ci penso io.» E fu così che la Maria andò a mettersi d’accordo con i tre preti e col sacrestano, proprio come aveva disposto suo marito. Alle nove in punto della sera, sai? bussò alla porta il primo prete. «Chi è?» « Sono io, Maria, aprimi.» «Entra, entra» disse la Maria aprendogli la porta. «Me li hai portati i cento ducati?» «Sì, certo che te li ho portati: eccoli, bella mia, bella mia!» fece il prete con una certa impazienza. «Piano… piano!» raccomandò la Maria «che potrebbero sentirci! Intanto vai in camera, spogliati e aspettami sul canapé.» E il prete andò in camera, si spogliò e si accomodò sul canapé aspettando la Maria. Che mo’ quello, figlio mio… non vedeva l’ora no? A quel punto non vuoi che si sentì di nuovo bussare alla porta? «Chi è?» «Io sono, Maria, il marito tuo.» «Ooòh, sorte mia, è mio marito!» disse la Maria ad alta voce perché il prete la sentisse «Mio marito! sorte mia!» «E mo’ che ho da fare? che ho da fare?» prese a raccomandarsi il prete, levandosi dal canapé tutto nudo come si trovava. «Sai che puoi fare, cristiano mio? Vai a nasconderti dietro quei ciocchi di legna ammucchiati sotto il letto, che se mio marito ti sorprende qui… sono dolori per te!» E il prete corse a nascondersi sotto il letto dietro quel mucchio di legna. Intanto il marito insisteva: «Insomma, Maria, vuoi aprirmi sì o no? Devo scardinare la porta devo?» «No no, vengo subito, marito mio, ti apro, ecco.»





«Nci vulìa tantu cu mme apri?» «Maritu miu, ma cce ssi’ benutu ffaci a st’ora? Nu’ mm’eri tittu» critandu mo’ cu lla sente lu prete «ca ìi butu šcire fore tuttu stanotte?» «Sine, ma àggiu ddumare lu furnu cramatina mprima, e mm’àggiu šcerratu mme pìju na frazzata te legna te inṭra ccasa.» «Maritu miu, ma propriu moi eri benire?» «E quandu se no? T’àggiu tittu ca àggiu ddumare lu furnu e cca me sérvanu li táccari.» Ddhu pòuru prete, scusu sotta lu jettu, ‘ntantu, sentendu lu maritu, s’ia fattu comu na coculeddha. E quandu lu maritu mise la capu sotta lu jettu cu sse pija na frazzata te legna, e šciu bitte ddha ssotta ddhu sangu te prete… a ddhai mo’ t’ìi ṭruare! «Beh? e cce ggh’ete ca faci qua ssotta a ‘st’ora a casa mia bruttu porcu!» E cusì tte lu defriscàu bonu bonu te mazzate, e, ccu nna cagge ‘n culu, lu mbarcàu ddha ffore. Lu prete, ca stia culinutu, pe’ llu scornu scìu e sse nfilàu sotta a nnu ṭraìnu, cu nnu’ ssia lu vite ciujèddhi. Quandu se fìcera le tece, ‘rriàu lu secondu prete. “Ttu-ttú!” «Ci ete?». «Maria, iu suntu.» «L’hai purtati li tocentu tucati?» «Sine, l’àggiu purtati.» E ffice cu ṭṭrasa, se nferràu li tocentu tucati e nne tisse cu bàscia inṭru ‘ll’addha stanza cu sse spòja e cu lla spetta susu llu canapé. E llu prete, ca nu’ bitìa l’ora puru iddhu, fucendu sciu sse spòja. Addhai ca tuzzàu ntorna lu maritu. «Ci ete?» «Marìtuta suntu, Maria, àprime.» «Uuùh, sorta mia: marìtuma ete! Sai cce ffanne?» ne tisse a ‘llu prete «Scùndite inṭra llu canišcione ca stae sotta lu jettu, ca ci te vite marìtuma… su’ dduluri pe’ ttie!» E llu prete, culinutu, scìu e sse scuse sotta lu jettu inṭra ‘llu canišcione. E a llu maritu, ca nu’ sse la binchiava te tuzzare:

«Ci voleva tanto per aprirmi?» «Marito mio, come mai sei tornato così presto? Non mi avevi detto che per tutta stanotte avresti avuto da fare in campagna?» «Sì, ma domattina sul presto mi tocca accendere il forno per il pane e mi occorre una bracciata di legna, quella stipata sotto il letto.» «Marito mio, ma proprio adesso dovevi tornare?» «E quando?» rispose adirato il marito. Quel povero prete intanto, che sentiva tutto, s’era fatto piccolo piccolo dalla paura. Così il marito ficcò la testa sotto il letto per prendere la legna… e non ti andò a scoprire quel cavolo di prete? Mo’ là ti dovevi trovare, figlio mio! «Beh? cosa fai là sotto brutto porco a quest’ora a casa mia?» E te lo suonò ben bene di botte, e con un calcio in culo lo fece volare fuori di casa. Il prete, tutto malconcio, andò a ripararsi sotto un carretto nei pressi della casa. Alle dieci in punto bussò il secondo prete. «Chi è?» «Sono io, Maria, aprimi.» «Li hai portati i duecento ducati?» «Sì che li ho portati.» E lo fece entrare, afferrò i duecento ducati e propose anche a lui di andare in camera a spogliarsi e aspettarlo sul canapé. E il prete, anche lui con una certa impazienza, corse subito in camera a spogliarsi. Lì che bussò di nuovo il marito. «Chi è?» «Sono il marito tuo, Maria, aprimi.» «Ooòh, sorte mia, è mio marito! Sai cosa puoi fare?» disse al prete «Nasconditi nel canestro grande che si trova sotto il letto, che se ti vede qui mio marito… sono dolori per te!» E il prete, senza un vestito addosso, andò a nascondersi nel canestro grande. E al marito che non la smetteva di bussare:





«Maritu miu, pròpriu moi ìi benire? Nu’ mm’eri tittu» forte mo’ cu lla senta lu prete «ca tuttu stanotte ìi butu stare fore?» «Sine, ma m’àggiu šcerratu lu canišcione pe’ ccramatina mprima: ca àggiu ccujìre le ulìe.» ‘Nsomma lu maritu ṭrasìu, aźàu le cuperte te lu jettu, ṭruvàu lu prete, te lu ncofinàu bonu bonu te mazzate, ne tese na cagge ‘n culu e llu mbarcàu ddha ffore. E ppuru quistu sciu fucendu sse scunde sotta ‘llu ṭraìnu ffazza cumpagnìa a llu primu prete. Alle ùndici tuzzàu lu terzu prete. «Ci ete?» «Iu suntu.» «L’hai purtati li ṭṭrecentu tucati?» «Sine, l’àggiu purtati.» Ntorna lu fice ṭṭrasa e se nferràu li ṭṭrecentu tucati. E nne tisse cu ba sse spòja inṭru ll’addha stanza, e ccu lla spetta susu llu canapé. E ttuzzàu lu maritu. «Ci ete?» «Marìtuta suntu, Maria, àprime.» «Uuùh sorta mia, marìtuma ete! Sai cce ffanne?» ne tisse a llu prete «Mìntite ‘sta veste e ‘stu fazzulettu te la nonna mia, ssèttate susu ‘sta séggia e ffanne finta ca sinti na vecchia poereddha ca tice rusari e cca si’ benuta cquai pe’ lla limòsina. Ca ci va ssape gnenzi marìtuma ne ccite!» E llu prete fice comu ne tisse la Maria. Addhai ca ṭrasìu lu maritu e sse ccorse te ddha vecchia. Ma pe’ llu fattu ca ‘stu prete ia purtatu cchiù ssordi te l’addhi, ‘sta fiata voźe nne risparmia le mazzate. «E quista ci ete?» ne tisse ṭrasendu a lla mujère. «Nà! maritu miu, è nna pòera vecchia ca cercava la limòsina: sta mmurìa te fame. Ddha cristiana l’àggiu fatta ṭṭrase e sta nne tice tante recumaterne.» «Va be’, tanne nu pocu te frise e ffanne cu sse nde vae: ca cce boju ssentu recumaterne!» E lla vecchia se nde ssìu te casa e šciu ffazza cumpagnìa a ll’addhi ddo’ preti ca stíanu sotta llu ṭraìnu.

«Marito mio, proprio adesso dovevi venire? Non mi avevi detto che saresti stato occupato tutta la notte in campagna?» «Sì, ma ho dimenticato il canestro grande per domattina, quando sul presto mi toccherà raccogliere le ulive.» Insomma il marito entrò, ficcò la testa sotto il letto, tirò a sé il canestro grande e vi scovò il prete. E te lo suonò di santa ragione. Quindi gli diede un calcio in culo e lo fece volare fuori di casa. E pure questo, così conciato, corse a darsi riparo sotto lo stesso carretto a far compagnia al primo prete. Alle undici bussò il terzo prete. «Chi è?» «Sono io, Maria, aprimi» «Li hai portati i trecento ducati?» «Sì che li ho portati.» Lo fece entrare, s’afferrò i trecento ducati e gli disse di andare a spogliarsi sul canapé. E bussò il marito. «Chi è?» «Sono il marito tuo, Maria, aprimi.» «Ooòh sorte mia, è mio marito! Fai come ti dico:» disse al prete «indossa questa veste e copriti il capo con un fazzoletto, siediti e fai finta di essere una povera vecchierella che dice il rosario e che sei venuta qui per l’elemosina. Che, se s’accorge mio marito... sono dolori per tutti!» E il prete fece quanto gli raccomandò la Maria. Lì che fece ingresso il marito e si accorse della vecchia. «Ma chi è questa?» disse. «To’! marito mio, è una povera vecchia che cercava l’elemosina, stava morendo di fame, le ho dato da mangiare e ora, in compenso, dice il rosario a suffragio dei morti nostri.» «Va bene, dagli pure un po’ di frise, ma che se ne vada! Che non ho voglia di sentire suffragi!» Stavolta al terzo prete furono risparmiate le botte, per via che in quanto a ducati era stato il più generoso. E la ‘vecchia’ se ne uscì di casa e andò a fare compagnia agli altri due preti sotto il carretto.





E sse fice menźanotte, e ddhai ca tuzzàu lu sacristanu. La Maria ne aprìu, se nferràu li quaranta tucati e nne tisse puru a iddhu bàscia sse spòja susu lu canapé. Acquai ca tuzzàu lu maritu. «Sai cce ffanne?» ne tisse la Maria a llu sacristanu, ca s’ia misu già culinutu «Cu nnu’ tte canusca marìtuma, vane e ttaccate susu a quiddha scala ca stae a ll’addha càmbara e ffanne finta ca faci lu Crucifissu. E ccusì fice lu sacristanu. ṭrasìu lu maritu ‘ntantu e ddisse ‘lla Maria ca ne servìa la scala pe’ lla matina, ca ia šcire spruca ulìe. Ntorna: «Propriu moi, maritu miu!» forte mo’ cu senta lu sacristanu. Nsomma ne aprìu, ma cu lli picca tucati ca ia nduttu, lu sacristanu ‘sta fiata se mmeritava nu bellu serviziu. Quandu lu maritu scìu ba ppija la scala, se ddunàu ca era mutu pisante. Nu’ bitìa però, ca era scuru, e sse fice tare na candela te la Maria. La dumàu e la aźàu scendu lla minte propriu sotta lu culu te lu sacristanu. Acquai t’ìi ṭruàre, fiju miu… ca quantu cchiùi critava lu sacristanu, tantu cchiùi quiddhu ne mbicinava la candela ‘n culu. Nsomma puru lu sacristanu scìu ffazza la fine te l’addhi preti sotta ‘llu ṭraìnu. Allu crai mo’, era tuménica, la Maria voźe bàscia a mmessa a lla chèsia te lu primu prete. Quistu, tuttu nfassatu te capu pe’ lle mazzate ca ia pijatu, quandu se vutàu dica dominuvubiscu, comu vitte la Maria ssettata propriu te nanzi, ne fice cantandu: «E ttie si’ benuta ‘mposta, centu tucati me costa!» «Bah, è mmeju mme nde vau te ‘sta chèsia,» tisse la Maria «ca ci no quistu sempre mmaleparole me canta. E šciu a lla chèsia te lu secondu prete. Ntorna quistu quandu la vitte, a llu dominuvubiscu ne fice cantandu: «E ttie si’ benuta ‘mposta, tocentu tucati me costa!» «Bah, mancu cquai pozzu venire cchiùi» tisse la Maria. E ppruàu bàscia a lla chèsia te lu terzu prete, a ddhunca nc’era puru lu sacristanu.

E giunse mezzanotte e bussò il sacrestano. La Maria gli aprì, s’afferrò i quaranta ducati e disse pure a lui di spogliarsi di là sul canapé. Al solito bussò il marito e la Maria questa volta raccomandò al sacrestano, che era già senza vestiti addosso: «Vai nella stanza accanto, attàccati sulla scala in alto e fai finta di essere un crocefisso: così mio marito non ti riconoscerà.» E così fece il sacrestano. Entrò il marito e disse alla Maria che l’indomani gli serviva giusto la scala per le ulive da abbacchiare. Di nuovo: «Marito mio, marito mio, perché sei venuto a quest’ora?» Ma il marito, per il sacrestano che di ducati ne aveva portati pochi, aveva riserbato un trattamento particolare. Quando andò a sollevare la scala alla quale era attaccato il sacrestano, trovò che era troppo pesante. Era quasi buio nella stanza, ci vedeva poco, perciò si fece portare una candela accesa dalla Maria per vedere il da farsi. E che ti fece? To’! sollevò in aria la candela accesa e avvicinò la fiamma al culo del sacrestano. Qui mo’ ti dovevi trovare, figlio mio, che quanto più urlava il sacrestano, tanto più il marito gli ficcava la candela sotto il culo. E anche il sacrestano andò a finire sotto il carretto con gli altri preti. L’indomani era domenica mo’ e la Maria volle recarsi a messa nella chiesa del primo prete. Costui, tutto fasciato in testa per le botte, voltandosi, nel dire messa, con le braccia aperte per dire Dominus vobiscum9, ti andò a scorgere la Maria seduta proprio in prima fila. Al che recitò invece: «E tu sei venuta apposta, cento ducati mi costa!» «Beh, è meglio andar via da questa chiesa,» disse la Maria «se no questo mi canterà sempre malparole. E si recò alla chiesa del secondo prete. Ma anche questi al Dominus vobiscum le recitò: «E tu sei venuta apposta, duecento ducati mi costa!» «Beh, mi tocca andar via!» disse la Maria. E provò a recarsi alla chiesa del terzo prete dove c’era pure il sacrestano.





Significa ‘Il Signore sia con voi’. Fino agli anni sessanta, il prete celebrava la messa voltando le spalle al pubblico, sicché al Dominus vobiscum usava girarsi verso il pubblico allargando le braccia. 9

Ma puru cquai, quandu lu prete se la vitte ssettata te nanzi, a llu dominuvubiscu ne fice cantandu: «E ttie si’ benuta ‘mposta, ṭṭrecentu tucati me costa!» Ma nu’ ffice ttiempu cu spiccia, ca lu sacristanu, cu llu campanièddhu ‘mmanu, se mise ccantare puru iddhu: «E mmie puru e mmie puru, quaranta tucati e nna brusciata te culu!» E ffoe cusì ca la Maria nu’ ppotte scire cchiùi sse vite messa a nnuddha chèsia. E llu fattu nu’ ffoe cchiùi, mòrsera iddhi e ccampamme nui.

Ma anche qui, quando il prete se la vide seduta in prima fila, nel voltarsi al Dominus vobiscum: «E tu sei venuta apposta, trecento ducati mi costa!» Ma non fece in tempo a finire, che il sacrestano, sbatacchiando il campanello in mano, si mise a salmodiare più forte: «E io puru e io puru10, quaranta ducati e una bruciata di culu!» E fu così che la Maria, da quel giorno, non potette frequentare più alcuna chiesa. E il racconto finisce qui, morirono loro e campammo noi.

10



Pure in dialetto è puru.



Ca te cquai passava iu

Che di qua passavo io

Na fiata, nu furese scìu fore ‘n cavaddhu lla ciùccia cu ffazza la munda te le ulìe. Topu ca ttaccàu la ciùccia sotta nn àrburu, salìu susu nna ulìa e sse mise ssettatu propriu susu lla cima ca ia ttajàre. Addhai ca se ṭruàu ppassare nu cristianu ca se ddunàu te ddhu furese ssettatu propriu susu lla cima ca sta tajàva. E nne tisse: «Bon omu, essi te ddhai, se no cati te ddha ssusu paru cu ttutta la cima!» Nu’ ffice ttiempu cu spiccia la parola, ca la cima se spezzàu e llu furese catìu cu tutta la cima. Ma nu’ nd’ìppe ṭroppu male, anzi, se ‘źàu te pressa e nne tisse a llu cristianu ca l’ia ‘vvertutu: «Vistu ca m’hai nduvinatu ca ia ccatire, sai ‘llora nduvini puru quandu moru? Moi me l’hai ddire, sangu te cusì!» «Ddha ciuccia toa ete?» ne dumandàu lu cristianu. «Sine» tisse lu furese. «E ‘llora quandu face ṭṭre ppìrate la ciùccia, tandu mori.» Lu furese ‘llora, tuttu scustulisciatu (ca mo’ ia catutu te susu nn àrberu!), restaccàu la ciùccia e ppijàu cu mmonta susu cu sse nde vae ‘ccasa. Ma nu’ ffice ttiempu cu ssale, ca la ciùccia ccuminciàu ttirare caggi. E cquai ca ne scappàu lu primu pìratu. Se zzaccàu ppijare pena ‘llora lu frese. E ddisse: «Do’ addhe pìrate su’ rrimaste: allora è bicina la morte mia!» E ccusì nu’ bitìa l’ora cu ‘rria ‘ccasa. Dopu nu pocu, la ciùccia fice n addhu pìratu. Tisse ‘llora lu furese: «N addhu nde tegnu, sorta mia!» E sse mise ttirare caggi a lla ciùccia ‘llora, e nne tia puru cu lu scurisciatu, ‘mmotu cu ‘rria prestu ccasa soa. La ciùccia, cu ttuttu ddhu scumbussulamèntu, sùbitu fice lu terzu pìratu. Lu furese, a ‘stu puntu, tuttu nu corpu, zziccàu e sse lassàu ccatìre te susu lla ciùccia pe’ mmortu ‘n terra. E menṭre ca stia menatu ‘n terra critava: «Pòvera mmie! pòvera mmie! su’ mmortu! a ccasa mia nu’ ‘rriai

Una volta, un contadino si recò al suo podere in groppa all’asina. Era tempo di monda degli ulivi. Legata che ebbe l’asina a un tronco, diede inizio alla monda arrampicandosi sul primo albero. Il caso volle che andò a porsi cavalcioni proprio sulla cima dell’albero che si accingeva a segare. Lì che si trovò a passare un cristiano, il quale, avendo notato che il contadino stava in quell’assurda posizione, pensò bene di avvisarlo del pericolo: «Buon uomo,» rivolgendosi al contadino «levati di lì, se no rischi di cadere con tutta la mondatura!» Ma non finì di dire che la cima cadde trascinandosi dietro anche il contadino. Questi fortunatamente non si fece tanto male, tanto che ben presto si rimise in piedi. Solo che non riusciva a spiegarsi come quel cristiano avesse potuto indovinare la sua caduta. E gli disse: «Cristiano mio, visto che hai predetto la mia caduta, saprai pure quando mi toccherà morire allora. Mo’ tocca che me lo dici, sangue di quel porco!» «È tua quell’asina?» chiese il cristiano. «Sì» rispose il contadino. «Quando l’asina tua avrà fatto tre scoregge, a quel punto morirai» sentenziò. A queste parole il contadino rimase tutto frastornato e così decise di slegare l’asina e di tornarsene subito a casa. Ma non fece in tempo a montarci sopra che l’asina prese a sferrare calci. E qui le scappò la prima scoreggia. Il contadino cominciò a prendersi pena allora. «Altre due scoregge sono rimaste:» disse «la morte mia è vicina allora.» Così non vedeva l’ora di arrivare a casa. Ma, appena a metà strada, all’asina scappò una seconda scoreggia. Disse allora il contadino: «Ne è rimasta una sola, sorte mia!» E per arrivare a casa più in fretta si mise a menare calci all’asina e a darle pure di scudiscio. Fu così che all’asina, per via di questo scombussolamento, scappò la terza scoreggia. A questo punto il contadino si lasciò cadere a terra per morto. E stando disteso al suolo gridava:





cchiui!» A ‘stu puntu nu’ ccuntàu cchiui: ca se critìa ca era mortu mo’. Mo’ nc’era ggente ca passava, e llu primu ca lu vitte an terra se fermàu e ddisse all’addhi cristiani ca rriàvanu: «A cquai nc’ete nu mortu: purtàmulu a llu paese e bitìmu ci ete.» L’hanu zziccatu e ll’hanu misu pe’ ccurtu, tuttu mortu ca era, susu la ciùccia, e poi s’hanu misi ttirare la ciùccia a ttirezione te lu paese. Ma, rriati ca fora te nanzi a do’ sṭrate, quando sta šcìanu cu ppìjanu quiddha sbaijata, lu furese ca stia pe’ mmortu susu la ciùccia se vutàu e ddisse a quiddhi cristiani: «Ca quandu era viu iu, te cquai passava!» mmušciàndune l’addha sṭrata ca ìanu ppijàre.

«Povero me! povero me! sono morto! a casa non ci arrivo più!» E si mise in testa di essere morto. Sopraggiunse della gente intanto e guardava l’uomo per terra. Uno disse agli altri: «C’è un morto qui, portiamolo al paese, vediamo di chi si tratta.» Quindi lo rimossero e lo sistemarono di traverso, faccia sotto, in groppa all’asina, poi tirarono in direzione del paese. Ma, giunti che furono di fronte a un bivio, stavano per imboccare la strada sbagliata, quando il contadino alzò la testa e: «Attenti! che quand’io ero vivo di qua passavo» disse indicando a tutti la strada da imboccare.





La messa te le villane

La messa delle villane

Nònnuma lu Pascalinu, quandu abitava a Nevianu, a ddhunca facìa l’uccièri, tenìa casa propriu te frunte a nnu palazzu te signuri, a via Roma. Addhai ca na tuménica mmatina, nfacciata a llu balcone te sti signuri, nc’era tonna Rusina, ca, vitendu nònnuma ca sta’ ‘ssia te casa, aźàu voce e llu chiamau: «Pascalinu? Pascalinu?» «Cumandi!6 tonna Rusina,» prontu nònnuma. «Sai gnenzi ci è bessuta la messa te le villane?» «Sine,» ne rispuse nònnuma «ca mo’ ccumìncia quiddha te le bbuttane!» 7

Mio nonno Pasqualino, quando abitava a Neviano, dove di mestiere faceva il macellaio, aveva casa proprio di fronte a un palazzo di ricchi signori, in via Roma. Lì che una domenica mattina, affacciata al balcone di questi signori, c’era una certa donna Rosina, che, notando mio nonno uscire di casa, lo chiamò a gran voce: «Pasqualino? Pasqualino?» «Comandi! donna Rosina,» pronto mio nonno. «Sai niente se è finita la messa delle villane?» «Sì,» rispose mio nonno «e mo’ comincia quella delle puttane!»

Il cumandi, che sta per ‘sì’, era una forma di riverenza che si usava non soltanto verso i ‘signori’, ma anche verso i genitori e le persone più grandi d’età. Nella mia infanzia era ancora d’uso. 7 Mio nonno materno Pasqualino, come pure mia nonna Maria Neve, era di Neviano, in provincia di Lecce. Era nato nel 1887 ed era emigrato a Collemeto intorno al 1935 con tutta la famiglia per la coltivazione del tabacco. Aveva sette figli, di cui sei femmine. Altri quattro bambini gli erano morti di spagnola durante la prima guerra mondiale, mentre lui stava al fronte. A Collemeto tuttavia non smise di esercitare il mestiere di macellaio, lasciando le incombenze del tabacco alle tante figlie femmine. Fu proprio una disavventura economica a portarlo via da Neviano, dove pare fosse stato un macellaio affermato e stimato. Si gloriava spesso di un suo antenato, un Giustizieri, che era stato il costruttore della chiesa della Madonna della Neve di Neviano. Andò tutto bene fino a quando un giorno pensò di investire tutti i suoi risparmi in un treno carico di asini. Si recò personalmente in Calabria per trattare l’affare, e, dopo essersi assicurato una serie di vagoni merci stracolmi di asini, quanto bastava per riempire le macellerie dell’intero Salento, affrontò il viaggio di ritorno. Gli asini però non venivano tutti da uno stesso allevamento, perciò non avevano familiarità tra di loro. Fu così che durante il tragitto, questi asini, assiepati insieme per forza, presero a darsela di santa ragione, sferrandosi calci e morsicandosi a sangue a più non posso. Quando alla stazione d’arrivo furono aperti i vagoni, lo spettacolo fu impressionante: la maggior parte degli asini era morta, i pochi rimasti avevano ferite in tutto il corpo. Così, l’affare, per così dire, andò in fumo e mio nonno, che si era indebitato nell’investimento, si ridusse sul lastrico. Ma aveva sette figli e non si perse d’animo: si trasferì con tutta la famiglia a Monteparano, nei pressi di Taranto, per la coltivazione del 6



tabacco. Ma furono quattro anni di infruttuoso lavoro e si convinse a tornare a coltivarlo in provincia di Lecce. Non a Neviano, però, ma a Collemeto, distante 15 chilometri. Lo assicurarono che qui c’era della terra buona e andò a rifugiarsi in una masseria in località Molinari. Il tabacco a quei tempi era pur sempre una risorsa. Mia madre mi raccontava che, quando partirono da Neviano per Monteparano, era il 13 dicembre, Santa Lucia, proprio il giorno del suo onomastico. Aveva frequentato appena tre mesi della prima elementare. Da quel giorno mia madre non andò più a scuola, tragedia che sarebbe ritornata spesso nel suo raccontare. Molto più tardi, però, imparò a leggere e a scrivere da sola. Lo fece per amore di mio padre che stava in guerra a Ventimiglia. Non sopportava che altri le leggessero le lettere che lui spediva dal fronte. Così si armò di sillabario e, da sola, piano piano, cominciò a scrivere a mio padre. Di lettere poi ne avrebbe scritte tante. A me, sempre lontano da casa, tantissime. Leggeva molto anche, specie i libri sacri e quelli popolari.



Don Tuninu

Don Tonino

Nc’era nu prete ca se chiamava don Tuninu. Tenìa na beddha cantina china te vinu, te oju e dde sardizze. Ogni giurnu ca passava, però, vitìa ca tuttu ‘stu beneteddìu chianu chianu se ssuttijàva. A ddire la verità, don Tuninu nu suspettu su cci lu rrubava lu tenìa: lu Tore, lu sacristanu sou. Tante fiate n’ia fattu la fila, ma nu’ ss’era mai fitatu cu llu scopre e nnu’ ssapìa comu ia ffare cu lu spompa. E ccomu ia ffare e ccomu nu’ nn’ia ffare, alla fine pensàu ca l’unicu motu era ffazza sse cunfessa: acquai lu Tore tuccava pe’ fforza cu ddica li peccati soi. Sicché alla prima occasione, don Toninu pruvàu nne dice a llu Tore: «Tore, ma comu ete ca nu’ tte cunfessi mai? Pussibile ca nu’ ttieni mancu nu peccatu? Ca simu tutti peccatori!» «Iu nu’ ttegnu propriu bisognu,» tisse lu Tore. «Cce mm’àggiu ccunfessare se stau sempre inṭra la chiesa, servu messa, sonu le campane, ticu rusari... Peccati nu’ nde tegnu propriu!» «Nu’ è ppussibile!» nsistia don Tuninu «Sciàmu tte cunfessi! Cce tte custa? Sciamu, ca poi te tau na beddha ‘ssoluzione.» ‘Nsomma don Tuninu, quantu fice quantu nu’ ffice, riuscìu ccunvince lu Tore cu sse cunfessa. E ‘ppena lu Tore se nginucchiàu nnanzi ‘llu cunfessiunile, don Tuninu zzaccàu: «Beh, Tore, timme cce ppeccati hai fattu.» «Nuddhu, don Tuninu, te l’àggiu titta ca nu’ ttegnu nuddhu peccatu: quante fiate te l’àggiu ddire?» «Ma pussibile, Tore? E ddimme ‘llora: ci ete ca se rruba lu vinu, ci ete ca se rruba l’oju, ci ete ca se rruba le sardizze te inṭra la cantina mia?» «Don Tuninu, nu’ sse sente!» «Comu nu’ sse sente, Tore, ca iu sta tte sentu! Tornu cu dicu: ci ete ca se rruba lu vinu, ci ete ca se rruba l’oju, ci ete ca se rruba le sardizze te inṭra la cantina mia?» «Don Tuninu, te l’aggiu titta: nu’ sse sente!»

C’era un prete che si chiamava don Tonino. Teneva una bella cantina piena di vino, di olio e di salsicce. Col passare del tempo, però, s’avvide che tutto questo bendiddio andava man mano assottigliandosi. A dire il vero un sospetto don Tonino ce l’aveva su chi lo rubava: Tore, il sacrestano suo. Tante volte gli aveva fatto la fila, ma non era mai riuscito a trovarlo con le mani nel sacco. E come fare e come non fare per scoprirlo, alla fine gli venne in mente che l’unico modo era quello di portarlo in confessionale: solo così infatti avrebbe potuto ammettere le sue malefatte. Sicché alla prima occasione, don Tonino provò a dire al sacrestano: «Tore, ma com’è che tu non ti confessi mai? Possibile che tu sia senza peccato? Che tutti abbiamo qualche peccatuccio.» «Io non tengo bisogno, don Tonino:» rispose Tore «come faccio a commettere peccati se non faccio che stare in chiesa, servire messa, dire rosari, accendere candele, suonare campane?» «Non è possibile,» insisteva don Tonino «dài, vieni al confessionale! In fondo che ti costa? Vedrai che dopo ti darò una bella assoluzione.» Insomma don Tonino, quanto fece e quanto non fece, convinse finalmente il sacrestano a confessarsi. E non appena Tore si inginocchiò davanti alla grata del confessionale, don Tonino cominciò: «Beh, Tore, dimmi che peccati hai fatto.» «Nessuno, don Tonino, te l’ho già detto che io non tengo peccati. Ma quante volte te lo devo dire?» «Possibile, Tore? E dimmi allora: chi è che si ruba il vino, chi è che si ruba l’olio, chi è che si ruba le salsicce della cantina mia?» «Don Tonino, non si sente!»





«Nu’ è pussibile, Tore, cu nnu’ sse senta. Sai cce ffacimu ‘llora? Passa ‘llu postu miu e bitimu ci se sente!» E ccusì lu Tore e don Tuninu se cangiàra te postu. «Cunta tie moi e bitimu ci se sente,» tisse don Tuninu a llu sacristanu. E llu sacristanu zzaccàu: «Don Tuninu, timme na cosa: ma ci ete ca se futte mujèrama?» «Na! Tore, tieni ragione sai? Tici bonu ca nu’ sse sente.» E llu fattu nu’ ffoe cchiùi, mòrsera iddhi e ccampamme nui.

«Come non si sente, Tore! Io ti sento benissimo invece. Torno a dirti: chi è che si ruba il vino, chi è che si ruba l’olio, chi è che si ruba le salsicce della cantina mia?» «Don Tonino, te l’ho già detto: non si sente!» «Mi sembra impossibile, Tore! Facciamo una cosa allora: passa al posto mio e vediamo se si sente o no.» E così il sacrestano e don Tonino si scambiarono il posto. «Parla tu adesso» disse don Tonino al sacrestano. «Don Tonino, dimmi una cosa:» cominciò il sacrestano «ma… chi è che si fotte la moglie mia?» «Già, Tore, tieni ragione sai? Dici bene che non si sente.» E il racconto non fu più, morirono loro e campammo noi.





Lu fattu te san Giorgi

Il fatto di san Giorgio

Nc’era na fiata na piarella ca era mutu beddha. E abitava a ccasa paru cu fràtusa. Scia sempre ‘lla chèsia ddha cristiana, e ccusì, lu prete, chianu chianu, ne ccuminciàu mmenare l’occhiu, sai? E nnu beddhu giurnu, tittu ca ia messa, la chiamàu te sparte e nne tisse: «Tonna pia8, ti devo dire na cosa, na cosa che t’ha ppiàcere di sicuro. È benuto a ṭrovarmi san Giorgi e mm’ha dditto ca ‘ole farti visita allo catìre della menźanotte. A nna condizione però: che devi stare sola, non ci-ha bèssere nišciuno alṭro, manco il frate tuo.» «Uuùh, san Giorgi ccasa mia! Cce onore! Cce ffurtuna! Nu’ ppozzu critìre: san Giorgi ca šcinde te lu cielu e bene ṭṭroa na tonna cumu mmie, ca nu’ ssu ddegna mancu llu mantunu.» Foe cusì ca la piarella, turnata a ccasa, ne cuntàu a llu frate sou te ‘sta visita te san Giorgi. E nne tisse puru ca, pe’ lla notte ca venìa, se nd’ia ‘ssire te casa, ca ia šcire se ṭroa cu ddorma a nn’addha parte, percé cusì vulìa san Giorgi. E llu frate tisse a lla soru: «Nu’ tte nde ncaricare! Tici, lampu! ca pe’ llu tesitèriu te nu santu, nu’ mme lluntanu na notte te casa?» E lla piarella se tese te fare cu ppuliźa tutta la casa mo’. Mise puru te cquai e de ddhai quarche mazzu te fiuri e se ggiustàu beddha beddha puru iddha pe’ la venuta te lu santu. Quandu ca se fice menźanotte, ntise tuzzare ‘lla porta. «Ci ete?» tisse tutta ṭremulandu. «San Giorgi sono! Apri, donna pia.» «Uuùh, san Giorgi ccasa mia! Cce onore! Cce ffurtuna! ṭrasi, ṭrasi, san Giorgi miu!» E san Giorgi ṭrasìu tuttu vestutu te curone e de tutti li paramenti ca pòrtanu li santi. E lla piarella se nginucchiàu cu nne vasa le mane e lli pieti. E sse raccumandava: «San Giorgi miu, sàlvame tie, salva l’anima mia!»

C’era una volta una che, essendo una donna molto pia, non mancava di recarsi in chiesa per assistere a tutte le funzioni. Era anche molto bella e abitava in una casa che divideva col fratello. Il prete della chiesa, tuttavia, pian piano se ne innamorò, fino a che un giorno, finito che ebbe di dire messa, la chiamò in disparte e le disse: «O cara donna pia, devo svelarti un segreto che credo ti farà felice. È venuto a trovarmi san Giorgio per dirmi che desidera scendere apposta dal paradiso per venire a farti visita. Potrà farlo però solo al cadere della mezzanotte e alla condizione che in casa tua non ha da esserci nessuno, neppure tuo fratello.» «San Giorgio a casa mia! Ma che onore! Ma che fortuna! Non posso credere che san Giorgio scenda dal cielo per una donna povera come me, io che non sono degna neppure di nominarlo.» Fu così che la bella donna pia se ne tornò a casa e raccontò tutta entusiasta al fratello di questa visita. Lo pregò pure, per la notte che veniva, di andare a dormire altrove, perché così voleva san Giorgio.» E il fratello disse alla sorella: «Non preoccupartene! Dici mo’ che per il desiderio di un santo non m’allontano una notte da casa?» E la donna pia, per l’occasione, s’affrettò a pulire tutta la casa, non mancando di porre qua e là anche dei mazzi di fiori. Lei stessa si fece ancora più bella per la venuta del santo. Lì che si fece mezzanotte e sentì bussare alla porta. «Chi è?» disse tutta tremante. «San Giorgio sono. Aprimi, donna pia.» «Oh, san Giorgio a casa mia! Ma che onore! Ma che fortuna! Avanti, avanti, san Giorgio mio.» E san Giorgio entrò tutto vestito delle corone e dei paramenti che usano indossare i santi. E la donna pia si inginocchiò per baciargli le mani e i piedi. E gli si raccomandava: «San Giorgio mio, salvami tu, salva l’anima mia.»

Nel dare voce al prete, che è persona colta, il narratore si sforza (invano) di farlo parlare in lingua italiana. 8





«Ca io apposta so’ venuto: cu tte sarvo l’anima. Anzi ti dico che ṭra poco te porto an paradiso co’ mme.» «Uuùh, san Giorgi miu, a ddevèru sta’ ddici?» Ma propriu a ddhu frattiempu, se ntise tuzzare ‘lla porta. E quistu mo’ era lu frate sou, ca, pe’ ll’occasione, s’ia vestutu te san Pieṭru e ttenìa ‘mmanu puru nu beddhu paru te chiài. «Ci ete ca tuzza?» tisse la piarella tutta frasturnata. «San Pietro sono! Aprite!9» «Uuùh, tutti li santi ccasa mia! Ca iu nu’ ssu’ ddegna!» Mo’, a san Giorgi, ca s’ia ‘ppena ssettatu susu llu canapé, ne zziccàra ṭṭremulare l’anche. San Pieṭru, ‘llora, ne se mbicinàu e nne tisse a ttonu: «Giorgi, come hai potuto fare per uscire dallo paratiso senza le chiavi mie?» 10 E nne aźava ‘ll’aria ddhe sangu te chiài puru cu lle vìscia. Iddhu mo’, san Giorgi, nu’ rrefiatava. E ntorna san Pieṭru: «Giorgi, me vuoi dire ‘nsomma come hai potuto fare per uscire dallo paratiso senza le chiavi mie?» Ma san Giorgi nu’ rrespundìa, sai? Allora, fiju miu, san Pieṭru se nde sciu te capu e nne ccuminciàu mmenare corpi ‘n capu cu ddhe sangu te chiài, ritucendulu a ṭṭre ore te notte. E lla piarella: «Uuùh, sorte miiìa, puru li santi se vaaàttanu! Purieddhu lu san Giorgi miu quante mazzate s'ae buscatu!» E san Pieṭru ntorna a san Giorgi: «Mo’ ti pigli la via e te nde vieni co’ me: che mo’ che sciàmo an paratiso, dobbiamo fare ancora li conti!» E lli santi se nde scira te casa, cu ddha povera piarella ca nu’ ffacìa addhu ca cu ddica: «Uuùh, sorte miiìa, puru li santi se vaaàttanu! Purieddhu lu san Giorgi miu quante mazzate sta sse buuùsca!»! Purieddhu lu san Giorgi miiìu!» Il fratello qui deve parlare da santo: anche lui quindi azzarda la lingua italiana. I santi stanno in paradiso e farli parlare in dialetto sarebbe stato come smitizzarli. Anche qui allora ne viene fuori una lingua pasticciata. 9

«Io sono venuto apposta per salvarti l’anima. Voglio dirti anzi che tra poco ti porterò con me in paradiso.» «Oh, san Giorgio mio, stai dicendo sul serio?» Ma proprio in quel frattempo, figlio mio, si udì bussare alla porta, sai? Era il fratello mo’ che bussava, e si era vestito da san Pietro con un bel paio di chiavi in mano. «Chi è che bussa?» disse la donna pia tutta frastornata. «San Pietro sono. Aprimi!» «Oh, san Pietro! Tutti i santi a casa mia! Che io non sono neppure degna.» Mo’, a san Giorgio, che s’era appena seduto sul canapé, gli presero a tremare le gambe. San Pietro allora gli si avvicinò e gli disse in tono di rimprovero: «Giorgio, come ti è stato possibile uscire dal paradiso senza le chiavi mie?» E gli brandiva in alto quelle caspita di chiavi perché le vedesse meglio. Lui mo’, san Giorgio, non fiatava. E di nuovo san Pietro: «Giorgio, mi vuoi dire insomma come sei potuto uscire dal paradiso senza le chiavi mie?» San Giorgio, però, non rispondeva e san Pietro allora se ne uscì di testa e, figlio mio, prese a dargli colpi in capo con quelle caspita di chiavi, riducendolo a tre ore di notte.11 E la donna pia: «Oh, sorte mia, pure i santi si danno le botte! Povero san Giorgio mio quante mazzate si sta buscando!» E san Pietro a san Giorgio in tono più deciso: «E adesso sloggia! Andiamo via! Che faremo i conti in paradiso!» E i santi uscirono di casa, e lasciarono la donna pia in una grande costernazione. «Oh, sorte mia!» non faceva che dire la poveretta «pure i santi si danno le botte! pure i santi si danno le botte!» E diceva pure: «Povero san Giorgio mio quante mazzate si è buscato! Povero san Giorgio mio!»

10



11

Per dire che lo fece nero come la notte.



A llu crai, iddha mo’ sciu te pressa ‘lla chèsia cu bàscia sse cunfessa, ma nu’ ṭṭruàu lu prete cu nne tica lu fattu, lu ṭruàu sulamente a lli ṭre giurni, cu lla capu tutta nfassata. E nne lu cuntàu lu fattu. E menṭre ca cuntava chiangìa pe’ san Giorgi. E llu prete cittu, sai? Sulamente ca ogni tantu bàšciava la capu cu ddica sine. E quandu iddha spicciàu lu cuntu, lu prete tisse a lla beddha piarella: «Pe’ ‘stu fattu mo’ san Giorgi nu’ bene cchiui ccasa toa!» E llu fattu nu’ ffoe cchiùi, mòrsera iddhi e ccampamme nui.

L’indomani mo’ lei non vedeva l’ora di recarsi in chiesa per raccontare tutto al prete. Ma non c’era il prete alla messa: lo trovò solo il terzo giorno e notò che aveva la testa tutta fasciata. Si mise allora a raccontargli del brutto episodio, e mentre raccontava non faceva che piangere per san Giorgio. E il prete zitto, sai? Solo che ogni tanto annuiva con la testa. E quando lei finì di dire, il prete finalmente parlò: «O donna pia, per questo fatto mo’ san Giorgio non verrà più a casa tua.» E il fatto non fu più, morirono loro e campammo noi.





La meschina

La meschina

Nu carusu, te nome Ntoni, ia menatu l’occhiu a nna vagnone te fore paese. Maria se chiamava. E sse tecìse bàscia ‘ccasa soa cu nne manda. Sciu ccunta prima cu lla mamma, però, pe’ ducazione. E nne tisse: «Fìjata vòju! M’àggiu ncapunutu te la fija toa e vvòju mme la sposu!» Ma la mamma te la Maria ne rispuse: «Beddhu giòvine, nu’ tte cunviene tte la sposi la fija mia: ca ete meschina11.» «Cce bene ddire?» tumandàu lu carusu. «Ca nu’ ssape ffazza gnenzi, fiju miu12. Cuarda ca te ṭroi pentutu ci te la sposi.» «Nu’ tte pijàre pena, ca iu ne voju bene lu stessu: chianu chianu se mpara no?» «Cuarda ca è mmutu meschina» tisse ntorna la mamma. «E iu ne voju bene lu stessu!» turnàu rripetere lu Ntoni. ‘Nsomma, alla fine te li cunti, lu Ntoni s’era propriu ncapunutu te la Maria. E sse la pijàu. Se spusàra ngrazieteddiu, la sera se curcàra e lla matina lucišcìu. Iddha se fice li capiddhi, se llavàu la facce e sse ssettàu a rretu la porta cu ccuarda ddha ffore la gente ca scia benìa. Ma nu’ giustava jettu, nu’ scupava ‘n terra, nu’ lavava: nu’ facìa gnenzi ‘nsomma. Lu Ntoni ‘ntantu ia bardatu lu ciucciu, ia muntatu susu e ia pijatu la sṭrata cu bàscia fore ffatìa. A llu cchiù tardu, la mamma te lu Ntoni sciu bìscia cce sta ffacìa la nora e bitte ca stia ddhai ssettata innanzi la porta e nnu’ sta sse proccupava mancu cu ccucina pe’ llu maritu. «Ddhu fiju miu» ticia mo’ «quandu vene te fore, comu face se nu’ ṭṭroa quarche ccone te cucinatu?» Quandu vitte ca la nora nu’ sse risulvìa propriu cu ccucina, cce Nel senso di indolente, priva di idee. Non si tratta di suo figlio, ma è d’uso l’appellativo di figlio rivolto a uno molto più giovane, specie quando si vuol dare qualche consiglio.

Un giovane di nome Antonio aveva gettato lo sguardo su una ragazza di fuori paese: Maria si chiamava. Un bel giorno si decise a dichiarare finalmente le sue intenzioni e si recò a casa della Maria. Dovette, però, per educazione, presentarsi dapprima alla madre di lei e chiederle il consenso. «Mi sono proprio incaponito della figlia tua» le disse «e me la voglio sposare.» Ma la mamma della Maria rispose all’Antonio: «Bel giovane, non ti conviene sposare la figlia mia: è meschina.» «Che significa?» domandò l’Antonio. «Che non sa fare niente, figlio mio. Stai attento, anzi, che ti troveresti pentito.» «Non prenderti pena, che io le voglio bene lo stesso. Pian piano imparerà no?» «Guarda che è proprio meschina!» gli ripeté la mamma. «A me non importa, la voglio sposare lo stesso» fece l’Antonio alzando un po’ la voce stavolta. Insomma la Maria e l’Antonio si sposarono e la sera delle nozze andarono a letto ingraziadiddio. L’indomani, quando si levò il sole, lei si pulì la faccia, si pettinò i capelli e poi si sedette presso la soglia a mirare dai vetri della portafinestra la gente che passava per la via. Ma non rifece il letto, non scopò per terra, non lavò, non fece nessuna faccenda insomma. L’Antonio intanto aveva bardato l’asino, vi era montato sopra e si era diretto in campagna a faticare. Sul tardi la mamma dell’Antonio si recò a far visita alla nuora e la trovò che non solo se ne stava lì seduta, ma non si dava neppure pensiero di preparare qualcosa di cucinato per il marito. E pensò: «Povero figlio mio, come farà quando, di ritorno dalla campagna, non troverà manco un boccone?» E quando capì che la nuora non si risolveva, che ti fece? Tornò a casa sua e impastò della farina per un po’ di lasagne; quindi le fece bollire, le





11 12

fice? Na! scìu ccasa e fice le sagne, le cucinàu, le ccunzàu cu llu sucu bone bone, na crattata te casu, le mise inṭra nnu piattu, le mbucciàu e lle purtàu a lla Maria. Rriàu, puggiàu lu piattu susu ‘lla banca e poi pijàu la via cu sse nde torna ccasa. A mmenźatìa rriàu lu Ntoni te la fatìa e, nnanzi ṭṭrasa ccasa, scaricàu lu ciucciu comu te sòlitu. La Maria, però, stia sempre ssettata nnanzi lla porta e nnu’ sse cotulàu mancu quandu vitte nu cane ṭrasire inṭru ccasa ca ssartàu susu lla banca e sse ncafuddhàu le sagne cu tuttu lu core. Iddha mo’ vitìa lu cane ca se mangiava le sagne, ma nu’ sse resulvìa propriu cu sse aźa. A llu cane, però, ne facìa: «Zza! zza! Ca su’ ssignura e nnu’ mme pozzu ‘źà’!» Ma lu cane mancu pe’ lla capu. «Zza! zza! Ca la mbesti ca sta ffazzu la signora. Zza! zza! Ca su’ ssignura e nnu’ mme pozzu ‘źà!» Ma lu cane ormai s’era lliccatu puru lu piattu. Addhai ca ṭrasìu lu Ntoni e šciu bitte ddhu piattu susu la banca beddhu puliźatu te lu cane e la Maria ssettata ca chiangìa. «Beh,» tisse «e cce ccosa ete cquai?» «Na! la mamma toa n’ia purtatu nu piattu te sagne, ma è ṭṭrasutu lu cane e sse l’hae mangiate. Iu però n’àggiu fattu: “Zza, zza! Ca su’ ssignura e nnu’ mme pozzu ‘źà!” Ma iddhu se l’hae mangiate lu stessu.» «Va bene,» tisse iddhu «nu’ tte pijare pena.» Ddu cristianu mo’ lu tenìa fame. Mah, se racimulàu nu stozzu te pane e šciu sse lu mangia rretu ccasa sulu sulu ngrazieteddiu. E lla Maria? Puru iddha mo’ la tenìa fame, ma nu’ nc’era gnenzi cu mmangia. E ddicìa inṭru te iddha: «Acquai nu’ sse mangia! Ah sorta mia!» Ma nu’ ete mancu ca se źava: spettava mo’ ca lu maritu n’ia ppurtare cu mmangia! [Quest’ultimo, un commento di mia madre, fuori campo, nel raccontare]. A llu crai, la Maria se ‘źau, se llavàu la facce, se fice li capiddhi e šciu sse ssetta ntorna rretu lla porta: sempre mo’ cu ccuarda la gente ca scia benìa. La socra, puru ‘sta fiata, quando vitte la nora ca stia sempre ssettata senza ffazza gnenzi, ne portàu ntorna nu piattu te sagne

scodellò in un piatto e le condì con un bel sugo di pomodori freschi, cospargendole di formaggio. E col piatto coperto, avvolto nel grembiule, si avviò dalla Maria. Qui poggiò il piatto in tavola e se ne ripartì. All’ora di pranzo giunse l’Antonio dalla campagna e, prima di fare ingresso in casa, scaricò come al solito il basto dell’asino. La Maria, intanto, continuava a star seduta presso la soglia, ma, proprio in quel mentre, non ti andò a infilarsi un cane dentro casa, che saltò sulla tavola e prese a divorare il piatto di lasagne? La Maria non si smuoveva d’un dito, tuttavia lanciava qualche strillo in direzione del cane. E faceva: «Zza! zza! Che io sono signora e non mi posso alzà!» Ma il cane, tranquillo, continuava a mangiarsi le buone lasagne. «Zza! zza! Buon per te che io faccio la signora. Zza! zza! Che io sono signora e non mi posso alzà!» Il cane, ormai, aveva finito di leccarsi pure il piatto. Entrò l’Antonio e trovò la Maria seduta che piangeva. «Beh!» disse «che è questa cosa? Perché piangi?» «To’! la mamma tua ci aveva portato un piatto di lasagne, è entrato un cane e se l’è mangiate tutte. Io gli ho fatto pure zza zza, ma lui se l’è mangiate lo stesso.» «Va bene,» disse lui «non prenderti pena.» Quel cristiano mo’ aveva fame. Mah, s’è racimolato un pezzo di pane, si è ritirato dietro casa e se l’è mangiato solo solo. E la Maria? Pure lei aveva fame, ma non c’era niente da mangiare. E diceva tra sé: «Qui non si mangia, ah sventura mia!» All’indomani, la Maria si pulì, si pettinò e andò a sedersi di nuovo a rimirare la gente che passava. La suocera, andandola sul tardi a trovare, notò che la nuora ancora una volta non si dava pensiero di cucinare per il figlio suo. Tornò a casa, cucinò nuovamente le lasagne, ritornò col piatto dalla Maria e lo adagiò sul tavolo. Ma, all’ora di pranzo, non s’infilò di nuovo quel caspita di





e sse nde turnàu ccasa. Ma, a llu cchiù tardu, eccu ca va ṭṭrase te nou lu cane, sale susu ‘lla banca e, menṭre ca se nghiuttìa le sagne, la Maria ne facìa: «Zza! zza! Ca su’ ssignura e nnu’ mme pozzu ‘źà!» Ma lu cane mancu pe’ lla capu. «Zza! zza! La mbesti ca sta ffazzu la signora. Zza! zza! Ca su’ ssignura e nnu’ mme pozzu ‘źà!» A ddhu frattiempu, rriàu lu maritu. Lustessucapiace: ddhu cristianu se giustàu nu pocu te pane e sse lu mangiàu sulu sulu ngrazieteddiu. E iddha china te chianti mo’ e morta te fame. A llu terzu giurnu, la socra, sapendo comu scìane le cose, le purtàu le sagne, ma spettàu cu ttorna lu fiju sou te la fatìa e ccu sse ssetta ‘n tàula: ca se no a parere? se se l’ia mmangiare ntorna lu cane? ṭrasutu lu maritu, la Maria, quandu vitte lu piattu susu lla banca, se ssettàu ‘n tàula e sse menàu cu mmàngia pe’ lla fame. Ma ia ppena ssaggiatu lu primu ccone, ca lu maritu ne tisse: «Altu!» «Percene?» tisse iddha «Ca iu sta mmoru te fame!» «Quante servizie hai fattu osce?» «Na! m’àggiu llavata la facce e mm’àggiu fatti li capiddhi.» «E ppe’ cquiddhu ca hai fattu te basta nu ccone sulamente» tisse iddhu. «Uuùh, sorta mia!» fice la Maria inṭru te iddha. Ma, a llu quartu giurnu, la Maria se ‘źau te pressa, se llavàu, se fice li capiddhi e poi scupàu ccasa e giustàu lu jettu. Vitendu quistu, la socra ne ssiu nnanzi ‘llu fiju e nne tisse: «Cuarda ca osci mujèrata sta sse cumporta bona: prima hae scupatu ccasa, poi hae ggiustatu lu jettu e ss’hae ssettata rretu lla porta sulamente quandu hae spicciatu.» Quandu lu Ntoni ṭrasìu ccasa, ṭruàu susu lla banca lu piattu te la mamma soa e sse mise mmangiare paru cu mujèrasa. La Maria ia ‘ppena pruatu ṭre ccuni, quandu ntorna marìtusa: «Altu!» «Percene? Ca sta mmoru te fame!»

cane? Si mangiava le lasagne e la Maria faceva: «Zza! zza! Che io sono signora e non mi posso alzà.» Ma il cane mangiava, altro che contento. «Zza! zza! Buon per te che io faccio la signora. Zza! zza! Che io sono signora e non mi posso alzà.» A quel frattempo arrivò il marito. Stessa canzone: quel cristiano si condì un po’ di pane e se lo mangiò solo solo. Lei piena di pianti e morta di fame. Terzo giorno. La suocera stavolta, per via di quel maledetto cane, pensò bene di far trovare il piatto di lasagne sul tavolo solo all’arrivo del figlio. Quando finalmente le lasagne furono in tavola, la Maria, morsa dalla fame, s’accostò al piatto in un baleno, ma, stava per assaggiare il secondo boccone, quando il marito l’interruppe: «Alt!» le disse. «Perché?» disse lei «Io sto morendo di fame!» «Quante faccende hai sbrigato oggi?» «To’! mi sono lavata la faccia e pettinata.» «E per ciò che hai sbrigato, un boccone ti basta» disse lui. «Oh, sventura mia!» fece lei tra sé. Ma il quarto giorno, la Maria si levò in fretta, si lavò, si pettinò, poi rifece il letto e scopò pure per casa. La suocera notò stavolta la buona volontà della Maria, tanto che uscì incontro al figlio che tornava per dirgli della novità: «Guarda che oggi la moglie tua si porta bene, sai? Dopo essersi pulita e pettinata, ha scopato tutte le stanze e ha rifatto il letto.» Entrato in casa, l’Antonio trovò sulla tavola il piatto della mamma sua e si mise a mangiare insieme con la Maria. Ma quando la Maria stava per mettere in bocca il quarto boccone: «Alt!» le disse. «Perché? Io sto morendo di fame!»





«Quante servìzie hai fattu osce?» «M’àggiu fattu li capiddhi, àggiu scupatu ‘n terra e àggiu giustatu lu jettu.» «E ‘llora te bàstane ṭre ccuni. E, de osce nnanzi, quante servìzie faci, tanti ccuni te mangi. Pe’ ttenire lu cuntu, pe’ ogne servìzia ca faci, minti na pajuzza susu la seggia ca stae rretu la porta, cusì, quandu tornu, mmesùru le servìzie.» A llu quintu giurnu, la Maria ormai nu’ bitìa cchiùi pe’ lla fame. Se ‘źau prestu ‘sta fiata, senza mmancu sse fazza li capiddhi, e zziccàu ffare terramotu inṭru ccasa. Poi mise la pignata nnanzi llu focu e, comu scia scia, fiatava cu nnu’ sse stuta: na beddha pignata te pasuli cu sse bìnchianu! E lla socra ntorna ne ssiu nnanzi a llu fiju sou cu nne tica: «Ah, osce sta sse tae te fare la Maria! La fame l’hae rriata sai?» A menźatìa, eccu lu Ntoni cu llu ciucciu. E nnu’ mboi ca lu ciucciu sciu ba mminte la capu inṭru ccasa e sse mangiàu le pajuzze ca la Maria ia raccoddu susu la seggia? E lla Maria chianti? chianti? Nu’ spicciava cchiùi te chiangire. Lu Ntoni ne tisse ‘llora: «Maria, comu ete ca sta cchiangi?» «Uuùh, sorta mia! Mancu osce mangiu! Sta mmoru te fame! Ca iu m’ia misa de parte le pajuzze e mo’ lu ciucciu se l’hae mangiate.» «Va bene, va bene: osce mangi» tisse lu Ntoni. Allora mmenešciàra li pasuli ‘n tàula, se ssettàra e mmangiàra ngrazieteddiu. Iddhu mo’ rritìa sottamusi. Chianu chianu ‘nsomma la Maria mparàu ccucina. La mamma de la Maria, mo’, nu’ bitìa l’ora cu bae fore paese cu’ ba ṭṭroa la fija spusata. E šciu te tuménica, alli quindici giurni, e lla ṭruàu ca sta temperava farina cu ffazza sagne. Cumu stai comu nu’ stai, poi la mamma se ssettàu ‘lla seggia. A cquai ca la Maria, a nnu certu mumentu ca nu’ lla vitìa nišciunu, menṭre facìa sagne, zziccàu ffare segnu cu ll’occhi a lla mamma soa: «Psss psss!» ne facìa. Ma la mamma nu’ ccapìa. La fija ntorna ne facìa segnu e: «Psss psss!»

«Quante faccende hai sbrigato oggi?» «Mi sono pulita e pettinata, ho scopato per terra e ho rifatto il letto.» «E allora ti bastano tre bocconi. E, d’ora in avanti, quante faccende sbrigherai, tanti bocconi mangerai. Per avere il conto, per ogni faccenda metti una pagliuzza sulla sedia che sta dietro la porta d’ingresso, così, quando torno, misuro le pagliuzze.» Al quinto giorno, la Maria, che ormai non ci vedeva più dalla fame, si alzò presto e, senza perdere tempo a pettinarsi, cominciò a far terremoto dentro casa, pulendo di qua e sbrigando di là. Preparò perfino una pignatta di fagioli che pose accanto al fuoco del focolare, e stava talmente attenta che, fiamma o non fiamma, soffiava sempre sul fuoco per alimentarlo. Stavolta la suocera andò incontro al figlio per dirgli: «Ah, oggi la Maria si dà proprio da fare: la fotte la fame ormai.» All’ora di pranzo, ecco l’Antonio di ritorno con l’asino. E non vuoi che l’asino mette la testa dentro casa e va a mangiarsi le pagliuzze che la Maria aveva adagiato in ordine sulla sedia? E la Maria, pianti? pianti? Non finiva più di piangere. L’Antonio le disse allora: «Maria, com’è che piangi?» «Oh, sventura mia! Neppure oggi mangio: avevo messo da parte le pagliuzze e l’asino se l’è mangiate!» «Va bene, va bene: oggi mangi» disse l’Antonio. Allora la Maria scodellò in fretta i fagioli nei piatti e prese posto a tavola col marito. E mangiarono ingraziadiddio, mentre lui se la rideva sotto il muso. E così pian piano la Maria imparò a sbrigare faccende e a cucinare. La mamma della Maria, mo’, non vedeva l’ora di andare a trovare la figlia sposata. E, passati i quindici giorni, le fece visita una domenica. Trovò la figlia che impastava la farina per fare i maccheroni col ferro. Come stai e come non stai, la mamma poi si mise a sedere. Ma, a un certo momento, senza farsi vedere da nessuno, la Maria, nell’atto di cavare i maccheroni, prese a strizzare l’occhio alla mamma e, nello stesso tempo: «Psss!





A ‘stu puntu la mmamma se ‘źau, se ncucchiàu nnanzi lla fija e nne tisse cittu cittu: «Ma cce ggh’ete ca voi, fija mia, se po’ ccapire?» E lla fija scusu scusu: «Mamma, nu’ stare ssettata, sai? Cerca cu tte aźi e ccu mme juti ffazzu sagne: ca cquai ete lu paese a ddhunca ci fatìa mangia.» «Ah,» tisse la mamma «te l’hanu ṭruata l’acqua ‘llora!» E iddhi vìssera felici e ccuntienti e nnui nu’ ìppime nienti. Ci voi tte cuntu n addhu me tai nu taraddhu.

psss!» le bisbigliava a distanza. La mamma però non capiva. Di nuovo la figlia le strizzava l’occhio e: «Psss psss!» insisteva. A questo punto la mamma si levò dalla sedia, si accostò alla figlia e le chiese zitta zitta: «Ma che cosa vuoi, figlia mia, si può capire?» E la figlia misteriosa: «Mamma, non startene lì seduta, sai? Vedi di alzarti e di aiutarmi a fare la pasta, perché questo è il paese dove chi lavora mangia!» «Ah,» disse la mamma «te l’hanno trovata l’acqua12 allora!» E loro vissero felici e contenti e noi non avemmo nienti. Se vuoi che te ne racconto un altro, portami un tarallo.

12



Nel senso di rimedio.



Cumpare mèšciu Tòturu

Compare maestro Tòturu

Na banda te laṭri sonaturi, pprufittandu ca li mmassari èranu ssuti te casa, scira a lla mmasserìa cu rrùbanu l’àuni. Mo’, cu ppòzzanu rrubare, tuccàa cu sbàrianu le mmassare, e, ppe’ cquistu, lu pianu era ca unu ia ssunare, l’addhu ia ccantare e llu tièrzu (ca se chiamava mèšciu Tòturu) a llu frattiempu ia rrubare. Addhai ca li primi toi, menṭre ca sbariàvanu le mmassare cu ccanti e ssoni, se ddunàra ca mešciu Tòturu, menṭre ca sta rrubava, ne se vitìa la coppula. Rroba ca se se ccurgìanu le mmassare èrane cuai. Cu llu vvèrtanu te lu perìculu, ‘llora, se nventàra ‘sta canzone: Cumpare mèšciu Tòturu, la coppula te pare li janchi janchi pìjali li nìuri làssali stare13.

Una banda di ladri suonatori, approfittando del fatto che i massari erano partiti, si recarono alla masseria per rubare gli agnelli. Mo’, per poterli rubare, toccava distrarre le massare, e, per questo, avevano elaborato un piano: uno suonava, l’altro cantava e il terzo, che si chiamava maestro Tòturu, nel frattempo rubava. Lì che i primi due, mentre distraevano le massare con suoni e canti, notarono che a maestro Tòturu, mentre rubava, gli si intravedeva la coppola. Roba che, se se ne fossero accorte le massare, sarebbero stati guai. Per avvertirlo del pericolo, allora, s’inventarono questa canzone: Compare mastro Tòturu la coppola ti pare i bianchi bianchi pigliali i neri lasciali stare. I neri son capretti soggetti al belare io suono un altro poco distraggo le massare io suono un altro poco distraggo le massare.

Li niuri su’ capretti suggetti a llu schiamare iu sonu n addhu picca cu sbàriu ‘ste mmassare iu sonu n addhu picca cu sbàriu ‘ste mmassare.

Conveniva rubare gli agnelli bianchi, piuttosto che i neri capretti, perché quest’ultimi, si sa, essendo meno mansueti, e potendo belare, avrebbero dato l’allarme. 13





La Chiara Funtana

La Chiara Fontana

Nc’era na fiata na fèmmana ca se chiamava Maria. Era mutu beddha e ttenia lu nnamuratu. Cu llu maritu mo’ se mmušciava sempre bona, ma quandu ia ṭṭrasire ccasa lu nnamuratu, cu nna scusa nde lu mandava a quarche banda. Rrivàu, però, ca lu maritu nu’ ippe cchiùi vòja cu sse nd’esse te casa, puru ca la mujere lu cumandava. Sicché lu nnamuratu, cu llu fattu ca nu’ sse putìa vitire cu lla Maria, sciu perdendo te pacienza. E ffruntàndula a mmienzu lla sṭrata, ne tisse: «Ma quistu maritu tou, quandu ete ca se nd’esse te inṭru ccasa? Ca iu nun ci resistu cchiùi. Acquai tocca ffacìmu cu scumpare pe’ sempre, ca quista nu’ è ccosa ca se pote secutare» E iddha: «E iu cce ppozzu fare? Tici mo’ ca lu cacciu te casa?» «Tie fanne ca te zzìccane tulori, ca iu te mandu lu tale tuttore. Tie tici ca voi lu tale tuttore, cusì vene e tte ordina la meticina ca ticu iu.» Nsomma, cce ffice ‘llora la Maria? Zziccàu e sse stise susu llu jettu pe’ mmalata. «Ahi! ahi! ahi! Mamma mia mooòru! mooòru! va’ cchiama lu tale tuttooòre! lu tale tuttooòre!» A ddhai ca lu maritu scìu ba’ cchiama lu tale tuttore. E binne ‘stu tuttore, visitàu la mujère e ddisse a llu maritu: «Beh, a cquái, bon omu, nci vole l’acqua te la Chiara Funtana.» «Sì? E a ddhu ete ca stae ‘st’acqua te la Chiara Funtana?» «Eh, bon omu… Te tocca bai luntanu… luntanu!» «Vau puru ‘n capu a llu mundu, basta ca la mujère mia stae bona» tisse lu maritu. Lu tuttore allora ne spiecàu comu ia rrivare a lla Chiara Funtana:

C’era una volta una donna che si chiamava Maria. Era molto bella e aveva l’innamorato. A dire il vero si mostrava sempre affettuosa col marito, ma, quando doveva entrare in casa l’innamorato, con qualche scusa gli trovava sempre qualche commissione da fare. Capitò che il marito, un certo giorno, non ebbe più voglia di uscire di casa a piacimento della moglie, e così ebbero fine gli appuntamenti con l’innamorato, che, non potendo più vedere la Maria, cominciò a dare segni di impazienza, e, incontrandola per strada, le disse: «Maria mia, ma questo marito tuo quand’è che esce di casa? Lo sai che non ci resisto più! Bisogna che lo facciamo scomparire bisogna, non è cosa che possa seguitare!» E lei: «Ma che ci posso fare? Che, lo caccio di casa?» E l’innamorato: «Ho un piano: tu fai finta di avere un attacco di dolori, così io ti mando il tale dottore che ti ordinerà una certa medicina.» Insomma, che ti fece lei? Prese e si stese sul letto morta di dolori: «Ahi! ahi! ahi! mamma mia muooòio… muooòio!» strillava. «Chiamatemi il tale dottooòre… il tale dottooòre!» Lì che il marito andò a chiamare il tale dottore. E il dottore arrivò e fece una bella visita alla Maria. Poi si rivolse al marito e disse: «Beh… qui, buon uomo, ci vuole l’acqua della Chiara Fontana, un’acqua miracolosa, la sola che possa guarire tua moglie.» «E dove si trova quest’acqua della Chiara Fontana?» «Eh… ti tocca andare lontano… tanto lontano!» «Vado pure in capo al mondo, purché stia bene la moglie mia» rispose il marito. Il dottore allora spiegò al marito come poteva raggiungere la Chiara Fontana:





«Pìja ‘sta šṭrata, poi quist’addha, vane prima te cquái, poi te ddhai e de cquái e de ddhai…» ‘Nsomma ddhu cristianu se mise camina e ccamina e, topu giurni e giurni te sṭrata, a nnu certu puntu ne se presentàu te nanzi san Giseppu vestutu te mònicu. Ca tisse: «Bon omu, a ddhu vai?» «Eh, la mujère mia nu’ stae bona e llu tuttore hae tittu ca ci nu’ nne portu l’acqua te la Chiara Funtana, nu’ sse cuarišce mai.» «Ah, bon omu,» fice san Giseppu «cu lle fatiche toe mujèrata sta banchetta e sta sse tiverte cu llu nnamuratu propriu inṭra ccasa toa.» «Vane! camina! nu’ ppote èssere!» tisse iddhu. «Nu’ ddai retta? Allora pòrtame ‘ccasa toa. Cu nnu pattu però: ci è beru quiddhu ca te ticu, me tai ṭṭre ttùmani te cranu, ci nu’ nn’è beru, iu li tau a ttie.» «T’accordu.» Sicché turnàra ‘ccasa te paru, e quandu ca èranu quasi rriati, già se sentìa la baldoria ca venia te casa. Lu mònicu allora tisse a llu maritu: «Tie mìntite inṭra llu saccu. Iu mo’ tuzzu a ccasa toa cu llu saccu ‘n coddhu e ccercu la limòsina.» Allora: ttú-ttú-ttù. Addhai ca la Maria ne aprìu la porta mmušciànduse tutta llecra mo’. «Nu pocu te limòsina, an grazia te lu Signore» tisse lu mònicu. «Cce bai cercandu, mònicu, vane ca nui nu’ ttenimu tiempu te pèrdere!» «Eh, sta begnu te tantu luntanu e ttegnu muta fame. Armenu tàtime quarche cosa te quiddhu ca sta mmangiati vui.» «Vabè, ṭrasi, mònicu, ṭrasi. A nnu pattu, però, ca ne canti na canzone.» «Ca comu nu’ lla cantu! La cantu, la cantu!» tisse lu mònicu. E ṭṭrasìu inṭra ‘ccasa cu ttuttu lu saccu ‘n coddhu. E lli nnamurati

«Prendi questa strada, poi quest’altra, vai prima di qua, poi di là e di qua e di là…» Insomma il marito, quel cristiano, si mise in cammino. Ma cammina e cammina, dopo giorni e giorni di strada, ecco che a un certo punto s’imbatté in un uomo di passaggio. Questi era san Giuseppe travestito da monaco. Che disse: «Buon uomo, dove vai?» «Eh, la moglie mia non sta bene e il dottore mi ha ordinato di trovarle l’acqua della Chiara Fontana, un’acqua miracolosa, che però sta tanto lontana. Solo che è l’unica che possa guarirla.» «Ah, buon uomo,» fece san Giuseppe «con le fatiche tue, la moglie tua se ne sta a casa che banchetta, canta e fa baldoria con l’innamorato.» «Vai! cammina! non può essere! » fece lui. «Non dai retta? Allora portami a casa tua. A un patto però: se sarà vero quel che dico, mi darai la raccolta di tre tùmani13. di grano; diversamente, sarò io a darli a te.» «D’accordo.» Sicché presero la strada del ritorno e, quando giunsero nei pressi della casa, già si sentiva cantare e fare baldoria dalla casa. E il monaco disse al marito: «Tu chiuditi nel sacco, io busso col sacco in spalla e chiedo l’elemosina.» E il monaco bussò: ttú-ttú-ttú. Fu la Maria ad aprire, ed era tutta allegra mo’. «Un po’ di elemosina, per grazia del Signore» fece il monaco. «Stiamo a tavola e non abbiamo nulla da darti! E poi qui non c’è tempo da perdere!» rispose la Maria. «Eh, vengo da lontano, sorella mia, ho tanta fame. Datemi almeno qualcosa di quello che mangiate voi.» «E va bene, monaco, entra pure, ma a un patto: che ci canti una canzone!» «Ve la canto, ve la canto!» disse il monaco entrando col sac-





13 .

Tùmanu: misura di superficie che corrisponde a 85 are.

fìcera cu sse ssetta an tàula. «Iu be la cantu na canzone, ma nu’ è mmeju cu zziccati prima vui ca siti paṭruni te casa?» «E va bene,» tisse la Maria «Zzicca tie!» tisse rivulgénduse a llu nnamuratu. E llu nnamuratu zziccàu: «Sonu a casa te riccu villanu mangiu e bevu te cavalieri mangiu pane te lu cistaru bevu vino te cantinaru.» E iddha appriessu: «Tengu un marito totorotó14 comu vogliu lu mbarderò l’hu mmandatu ‘lla Chiara Funtana longa la sṭrada nu’ ttorna pe’ mmo’.» Lu mònicu cotulava la capu mo’, e sta šcìa cu ccanta, ma lu maritu ne fervìa lu sangu mo’ e, tuttu chiusu inṭra llu saccu, zziccàu ccantare iddhu: «E ṭre ttùmani fora lu pattu e iu quaṭṭru te nde tò càcciame mònicu t’inṭra llu saccu quantu nne sonu lu totorotó.» A cquái ca lu mònicu te pressa restaccàu lu saccu e llu maritu essìu e tte sṭruncunisciàu la mujère bona bona te mazzate, e lla sunàu puru pe’ llongu e ppe’ ccurtu. E llu nnamuratu se ccoźe lu restu.

co in spalla, che depositò in un angolo di casa. Dopodiché gli innamorati gli fecero prendere posto a tavola. «Io ve la canto una canzone,» prese a dire il monaco «ma non è meglio che cominciate voi a cantare, visto che siete i padroni di casa?» «E va bene!» disse lei, e rivolto all’innamorato: «Comincia tu a cantare.» E l’innamorato: «Sono a casa di ricco villano mangio e bevo da cavaliere mangio il pane del cestaro bevo il vino del cantinaro.» E la Maria dappresso: «Tengo un marito totorotò come voglio lo imbroglierò l’ho mandato alla Chiara Fontana lunga la strada non torna per mo’.» Il monaco scuoteva la testa e stava per mettersi a cantare, ma il marito, col sangue che gli bolliva, tutto chiuso nel sacco, sbottò lui a cantare: «E tre tùmani furono il patto e io quattro te ne darò tirami monaco da questo sacco per suonar loro il totorotò.» A questo punto al monaco non restò che slegare il sacco in tutta fretta. Il marito venne fuori e prese a suonarle di santa ragione alla Maria, che le prese per lungo e per corto. E l’innamorato raccolse il resto.

Sostantivo inesistente, ma è un suono onomatopeico che rende l’idea di scemo e che soprattutto fa rima col verso successivo. 14





Cesare e Palumbu

Cesare e Palombo

La Orpe e llu Lupu na fiata èranu cumpari. La cummare Orpe tenìa do’ àuni, Cesare e Palumbu, ca ne servìanu cu ttìranu lu carrettu. Nu beddhu giurnu, la cummare Orpe e llu cumpare Lupu pensàra bonu cu bàscianu intra llu boscu cu sse fàzzanu le pruiste te legna. Ttaccara Cesare e Palumbu a lle do’ stanghe te lu carrettu, nu corpu te scurisciatu e partira. A llu scire, però, e nnu’ mboi ca sciu sse spezza na stanga te lu carrettu? Sicché la cummare Orpe tisse a llu cumpare Lupu: «Cumpare Lupu, sai cce ffanne? Fuci inṭra llu boscu, tàjame la stanga cchiù dderitta ca nc’ete e portamèla.» Lu cumpare Lupu nu sse la fice ripetere do’ fiate: fucìu inṭra llu boscu e tturnàu cu lla stanga, ma cu lla stanga cchiù storta ca nc’era. «Lu sapìa già ca nu’ nde cumbìni mai una bona,» ne tisse la cummare Orpe «ma va’ ssacci ca nu’ ssai mancu a ddhu stae te casa lu terittu! Fanne na cosa: spettame cquai tie, ca vau iu lla ṭrou na stanga teritta. Tie cerca cu mme stai ‘ttentu a Cesare e Palumbu.» E la cummare Orpe scìu a llu boscu cu ṭṭroa la stanga cchiù deritta ca nc’era. Lu cumpare Lupu mo’ sta’ spettava propriu ‘st’occasione. Appena la cummare Orpe se lluntanàu inṭra llu boscu, cce tte fice? Scannàu li do’ àuni e sse li mangiàu… ca restàra sulamente le pelli. Cu ffazza lu furbu poi, cusìu le pelli e lle inchìu cu na frazzata te paja. Cu ppòzzanu restare tisi l’àuni, poi, rinfurzàu l’anche cu lli zzippi e se la squajàu. Cesare e Palumbu, mpizzati ‘n terra comu stíanu, parìanu comu vii. Nu ppassàu mutu ca turnàu la cummare Orpe cu lla stanga la cchiù deritta ca nc’era. Vitte l’àuni belli tisi, ma, nu bitendu lu cumpare Lupu se mise cu llu chiama. E ccritava: «Cumpare Luuùpu, cumpare Luuùpu!» Ma lu cumpare Lupu nu’ rrispundìa. «Addhu ete ca s’hae cacciatu? Ne tissi cu mme cuarda l’àuni, ma quiddhu addhu ntise. Eh, spalisciatu comu ete, quiddhu ci sape a ddhu è šciutu mminta nsurti!»

La Volpe e il Lupo una volta erano compari. Comare Volpe possedeva due agnelli, Cesare e Palombo, buoni a trainare il carretto. Un bel giorno, comare Volpe e compare Lupo pensarono bene di recarsi col carretto nel bel mezzo di un bosco per farsi le provviste di legna. Legarono Cesare e Palombo alle due stanghe, diedero di scudiscio e partirono. All’andare, però, e non vuoi che venne a rompersi una stanga del carretto? Sicché comare Volpe disse a compare Lupo: «Sai che hai da fare? Corri nel bosco, tagliami il ramo più dritto che c’è e portamelo.» Compare Lupo non se lo fece ripetere due volte: corse nel bosco e tornò col ramo, ma col ramo più storto che c’era. «Lo sapevo già che non ne combini mai una buona,» gli disse comare Volpe «ma vai a immaginare che non sai neanche dove sta di casa il dritto! Fai na cosa: aspettami qui, che vado io a trovare il ramo più dritto che c’è. E stammi attento a Cesare e Palombo.» Così comare Volpe si recò nel bosco a cercare il ramo più dritto che c’era. Compare Lupo, mo’, non aspettava che questa l’occasione. Appena comare Volpe si allontanò per il bosco, che ti fece? Scannò i due agnelli e se li mangiò… che restarono solamente le pelli. Per mascherare il fatto poi, cucì le pelli e le riempì con una manciata di paglia. Perché restassero in piedi gli agnelli, poi, rinforzò le zampe con dei bastoni e se la squagliò. Cesare e Palombo, tenuti così in piedi, sembravano come vivi. Di lì a non molto, comare Volpe fu di ritorno col ramo il più dritto che c’era. Vide gli agnelli in piedi e il carretto, ma, stranamente, non c’era compare Lupo. Così prese a chiamarlo a gran voce: «Compare Luuùpo, compare Luuùpo!» Ma compare Lupo non rispondeva. «Ma dove si è cacciato? Gli raccomandai di guardarmi gli agnelli, ma quello intese altro. Eh, tonto com’è, quello chissà dove è andato a far danno!»





A ‘stu puntu, la cummare Orpe, senza ssuspetta te gnenzi, se mise ccangia la stanga te lu carrettu. Quandu ca spicciàu, muntàu te susu e ddese nu fischiu all’àuni cu sse mòvanu. Ma Cesare e Palumbu stíanu ddhai mpizzati e nnu’ sse risulvìanu. Pijàu ‘llora lu scurisciatu e nne menàu do’ corpi. «Sciàmu!» critàu, ma quiddhi mancu pe’ lla capu. «Acquai cosa passa» tisse la cummare Orpe. Šcise te lu carrettu, se mbicinàu a Cesare e Palumbu e macari ca li cotulava e lli critava, quiddhi sempre mpizzati stíanu. Addhai ca se ddunàu ca Cesare e Palumbu l’ia ccisi e mmangiati lu cumpare Lupu. E ccritàu: «Cumpare Luuùpu, a ddhunca stai me l’hai ppacare tie e cci sinti!» Passàu bonu tiempu. Nu giurnu, caminandu a mmienźu nna via, la cummare Orpe vitte passare nu ṭraìnu caricu te pešce beddhu friscu. Cce ffice? Furba iddha mo’, zziccàu ffucire, rrivàu cchiù nnanzi te lu ṭraìnu e sse stise an terra pe’ mmorta mmienźu la sṭrata. Lu ṭrainieri, quandu rriàu nnanzi lla orpe morta, fermàu te pressa lu cavaddhu e ddisse: «Beddha mia ‘sta orpe, ca me vindu la pelle e mme cuatagnu quarche ssordu.» Šcise, la pijàu e lla mbarcàu susu llu ṭraìnu. «Aaah! aaah! Sciamu, ca osci la sciurnata è bona!» critàu a llu cavaddhu. E partìu cu nna botta te scurisciatu. Ma la cummare Orpe, mbarcata su ttuttu ddhu beddhu pešce, aprìu l’occhi e cce ffice? Na! menṭre lu ṭrainieri tia corpi te scurisciatu a llu cavaddhu, iddha brancava pešce e mmenava mmienźu ‘lla via. Quandu ca lu menàu tuttu, sartàu puru iddha, se raccoźe lu pešce inṭra lle visazze e ffuci ccasa mo’. Rriàta a ccasa te pressa se mise ffricìre a lla perduta, ca la ndore rriava puru an cielu. E lla ntise puru lu cumpare Lupu la ndore te pešce, e ndurandu te cquai e ndurandu te ddhai, rriàu propriu a ccasa te la cummare Orpe. Quista mo’, a mmienźu a llu fumu te pešce, facia fricendu mangiandu. «Cummare Orpe,» tisse lu cumpare Lupu «e nnu’ mme tai nu pocu te pešce, ca sta faci cu mmoru? Armenu cu llu prou. Ca tuttu tie te l’hai mmangiare?»

Comare Volpe, non sospettando di nulla, si mise a sostituire la stanga del carretto. Finito che ebbe, montò sul sedile e, con un fischio, ordinò ai due agnelli di muoversi, ma Cesare e Palombo se ne stavano lì immobili e non si muovevano. Prese allora lo scudiscio e li frustò: «Andiamo!» gridò, ma niente da fare. «Qui cosa passa» disse comare Volpe. Scese dal carretto, s’avvicinò a Cesare e Palombo e prese a sgridarli e a scuoterli. Niente, quelli erano come piantati per terra. Fu lì che dovette constatare che Cesare e Palombo erano stati uccisi e mangiati da compare Lupo. E urlò: «Compare Luuùpo, dovunque tu sia me la pagherai tu e chi sei!» Trascorse un bel po’ di tempo. Un giorno, camminando per una strada, comare Volpe vide passare un traino carico di pesce bello fresco. Furba lei mo’, che ti fece? Si mise a correre, superò di un buon tratto il traino e si stese sulla strada fingendosi morta. Il carrettiere, non appena sopraggiunse davanti alla volpe morta, s’arrestò fulmineo col cavallo. «Bella mia questa volpe,» disse «che mi vendo la pelle e mi guadagno un po’ di soldi.» Così scese, raccolse la volpe e la lanciò tra le sponde del traino. «Aaàh! aaàh! Andiamo, che oggi è giornata buona!» urlò al cavallo. E lo spronò con un colpo di scudiscio. Ma comare Volpe, allungata in mezzo a tutto quel pesce, aprì gli occhi e, mentre il carrettiere dava al cavallo di scudiscio, abbrancava pesce e man mano lo lanciava sulla strada. Svuotato che ebbe interamente il traino, saltò giù, raccolse il pesce e si riempì le bisacce. Dopo di che, corri a casa! Giunta che fu a casa si mise a friggere pesce a iosa, sì che l’odore arrivava fino in cielo e lo avvertì perfino compare Lupo. Questi, seppur lontano, fiutando di qua e fiutando di là, giunse, con sua sorpresa, proprio davanti alla casa di comare Volpe, la quale mo’, in un alone di fumo, faceva friggendo mangiando. «Comare Volpe,» disse compare Lupo «e non mi dai un po’ di pesce, che mi stai facendo morire? Almeno per provarlo. Che tutto tu te lo devi mangiare?»





«Cumpare Lupu, na! ca nc’ete lu mare ca è cchinu te pešce: cu gnenzi lu pischi.» «E ttimme tie comu àggiu ffare, cummare Orpe.» «T’àggiu tittu ca nu’ nci vole gnenzi: basta tte piji do’ capase e tte le ttacchi an coddhu, una te nanzi e una te retu. Poi te cali inṭra mmare e a na-nná se ìnchianu te pešce.» «E šciamu, cummare Orpe, sciamu! Vieni puru tie, armenu cu mme mmošci a ddhu ete ca m’àggiu ccalare, ca voju cu mme fazzu puru iu na beddha mangiata!» E llu cumpare Lupu ṭruàu le capase e šciu ‘mmare paru cu lla cummare Orpe. Rriara nnanzi nnu scòju te mare beddhu fundu e lla cummare Orpe tisse a llu cumpare Lupu: «Cumpare Lupu, acquai… acquai t’hai mmenare. Propriu acquai àggiu piscatu tantu beddhu pešce.» Lu cumpare Lupu nu’ sse la fice rripetere do’ fiate: se mpise le capase ‘n coddhu, una te nanzi e ll’addha te retu, e sse menàu ‘mmienźu mmare. A ddhai ca le capase chianu chianu se ccuminciara nchire t’acqua mo’, e llu cumpare Lupu se sentìa tirare sottafundu. E ccritava: «Cummare Orpe, cummare Orpe, sta mme nfucu!» «None, none, nu’ sta tte nfuchi: hai šcire cchiù ssotta cu ṭṭroi lu pešce» ne facìa la cummare Orpe. «Cummare Orpe, sta mme nfucu, sta mme nfucu, cummare Orpe, sta mme nfu... mme nf... mm...» «Cumpare Lupu, quantu cchiù sotta vai cchiù ppecure e pporci ṭroi. Comu te sippe Cesare e Palumbu? Cusì tte saccia l’acqua te lu fundu!»

«Compare Lupo, to’! sappi che il mare è pieno di pesce: con niente lo peschi.» «E dimmi tu come devo fare, comare Volpe.» «Te l’ho già detto che non ci vuol niente: sono sufficienti due capase,14 che ti appenderai al collo, una davanti e l’altra dietro. Poi ti butterai in mare e quelle presto presto si riempiranno di pesce.» «E andiamo, comare Volpe, andiamo! Vieni pure tu, così almeno mi mostri il punto dove mi devo buttare: che pure io mi voglio fare una bella mangiata!» E compare Lupo trovò le capase e si recò a mare insieme con comare Volpe. Giunsero così davanti a uno scoglio dove il mare era bello profondo. Comare Volpe si fermò e disse: «Compare Lupo, è qui che ti devi buttare, proprio qui ho pescato tanto bel pesce.» Compare Lupo non se lo fece ripetere due volte: s’appese le capase al collo, una davanti, l’altra dietro, e si buttò in mare. Qui che le capase pian piano presero a riempirsi d’acqua mo’, e compare Lupo si sentiva tirare giù nel fondo. E gridava: «Comare Volpe, comare Volpe, sto affogando!» «Ma no che non affoghi: devi scendere sempre più giù, ché lì si trova tanto pesce,» gli faceva comare Volpe. «Comare Volpe, affogo, affogo comare Volpe, affog... affo... af...» «Compare Lupo, quanto più sotto vai, più pecore e porci trovi. Come ti seppero Cesare e Palombo? Così ti sappia l’acqua del mare fondo!»

14

Grandi vasi di creta per serbarvi olio e ulive.

Lu patṚe picozzu

Il padre picozzo

Nc’era a llu cumentu te Calàtune nu paṭre picozzu, unu ca scia tutti li giurni a lla cerca. E dde cquai e dde ddhai, nu giurnu ne menàu l’òcchiu a nna beddha fèmmana: Maria se chiamava e gh’era spusata, lu maritu tenìa nu ṭrappitu propriu te coste ccasa. Sicché lu paṭre picozzu na fiata scìu ttuzza pe’ lla limosina propriu a ccasa te la Maria. E appena la Maria ne aprìu, iddhu te pressa: «Maria mia, cce ssi’ beddha! Cce ssi’ beddha, Maria mia!» La Maria sculurìu tutta quanta. Se tisse: «Na! propriu a mmie m’hanu rrecapitare certe cose: mo’ s’hae misu puru nu mònicu; nu’ bastanu tutti l’addhi cristiani: ca cquai tocca tte penti puru ca si’ beddha!» E šciu a llu maritu cu nne tica te quistu passa. Tisse lu maritu: «E brau lu paṭre picozzu, brau: se mmurtala propriu!» Poi a lla Maria: «Beh, quandu torna te nou e tte tice te quistu passa, tie tinne cu tte nduca prima centu tucati, se vole cu llu faci cuntentu. A llu restu ci pensu iu.» A llu crai, lu paṭre picozzu scìu cu ttuzza ntorna a lla porta te la Maria. La Maria aprìu e iddhu ne tisse: «Maria mia, cce ssi’ beddha! Cce ssi’ beddha, Maria mia!» «Tie pòrtame centu tucati,» tisse la Maria «ca poi te ccuntentu iu.» Mo’ ìi bitire lu paṭre picozzu comu se mise ffucire, sai? Fuci a llu cumentu cu ppìja li centu tucati. A ffùrmine turnàu a ddha lla Maria: «Na! t’àggiu purtatu li centu tucati.» La Maria se gguantàu li tucati e nne tisse bàscia sse spòja inṭru ll’addha stanza e cu lla spetta susu lu canapé. A ddhu frattiempu però se ntise tuzzare.

C’era nel convento di Galàtone un padre picozzo15, di quelli che andavano in giro di casa in casa per la questua. E fu proprio in uno di questi giri che cominciò a prestare attenzione a una bella donna: Maria si chiamava, era sposata, il marito teneva un frantoio proprio nei pressi dell’abitazione. Un bel giorno, il padre picozzo bussò alla sua porta, e quando la Maria gli aprì: «Maria mia, quanto sei bella! Quanto sei bella, Maria mia!» Scolorì tutta quanta la Maria. Si disse: «To’! proprio a me dovevano capitare certe cose! Mo’ ci s’è messo pure un monaco; non bastano gli altri cristiani: qui tocca pentirti pure che sei bella!» E andò a spifferare tutto al marito. Che disse: «E bravo il padre picozzo, proprio bravo: s’immortala proprio!» Poi rivolto alla Maria: «La prossima volta che bussa il padre picozzo e ti dice maleparole, digli che sei disposta a farlo contento se prima ti porta cento ducati. Al resto ci penso io.» E il giorno dopo, il padre picozzo bussò di nuovo alla porta della Maria e: «Maria mia, quanto sei bella! Quanto sei bella, Maria mia!» «Tu portami cento ducati, » s’apprestò a dirgli la Maria «che poi ti farò contento.» Bisognava vederlo il padre picozzo come correva al convento per raccattare i cento ducati. Tornò dalla Maria come un fulmine: «Maria mia, eccoti i cento ducati.» La Maria agguantò i ducati e poi consigliò al padre picozzo di andarsi a spogliare nella stanza attigua e aspettare sul divano. Ma in quel frattempo si udì bussare alla porta. Padre picozzu: frate del convento che non aveva preso gli ordini, quindi non celebrava messa. Era addetto alla questua e ai lavori manuali. 15





«Ci ete?» fice la Maria. «Maria, marìtuta suntu: àprime ca tocca ppìju la canìšcia te le ulìe, ca me serve inṭru llu ṭrappitu.» «Maritu miu, cce mme scorci a ‘st’ora!» tisse forte, puru cu ssenta lu paṭre picozzu, cu ffazza divetère mo’ ca nu’ stia t’accordu cu llu maritu. «Maria, àprime ca li ṭrappitari sta’ mme spèttanu: la canìšcia me serve, nu’ mme fare cu pperdu tiempu!» La Maria ne aprìu e llu paṭre picozzu, ca s’ia già spujatu, scìu sse scunde tuttu culinutu propriu sotta llu jettu a ddhunca nc’era la canìšcia. ṭrasìu lu maritu e šcìu terittu sotta lu jettu. Quandu te scuprìu lu paṭre picozzu, a ddhai t’ìi ṭṭruàre, fiju miu. Mazzate, sai? Mazzate a lla perduta: ddhu pòveru paṭre picozzu lu sṭruncunisciàu bonu bonu pe’ lle feste e ppe’ lle uttisciàne. Poi lu pijàu e llu purtàu, nutu comu l’ia fattu la mamma soa, inṭra lu ṭrappitu. Acquai restaccàu lu cavaddhu ca tirava giru giru le màcine te le ulìe, e, allu postu sou, ttaccàu lu paṭre picozzu. E nne tia corpi te scurisciatu cu ttira, mancu sia ca era cavaddhu. E llu nsurtava e ddicìa: «Tira, bruttu malecarne! Mujèrama vulìi tte futti ah? E mmo’ butta lu sangu puru tie e ttira: ca fincu a ccramatina nc’è ttiempu.» Ddhu pòveru paṭre picozzu squjàu tutta la notte e quandu ca se fice matina, lu maritu ne tese la tònaca cu sse veste e llu sbattìu ddha ffore. «E nnu’ tte fare vitire cchiui!» ne critàu te retu. Acquai ca lu paṭre picozzu, ritottu a ṭre ore te notte, ‘ssendu te lu ṭrappitu, sciu ppassa propriu sotta la finešcia te la Maria, ca stia nfacciata. La Maria, vitendulu passare, aprìu la ucca e nne fice nu pocu ngrugnata: «Uh-uh-uh!» Acquai ca lu paṭre picozzu aźàu la capu e: «Uh-uh-uh lu cazzu!» ne tisse «Ca, ci voi tte mmàcini le ulìe cu ba tte ccatti la mula!» 

Ttu-ttú! «Chi è?» fece la Maria. «Tuo marito sono, Maria: nel frantoio c’è bisogno del canestro delle ulive.» «Marito mio, proprio a quest’ora mi devi scocciare?» disse a voce alta per farsi sentire dal padre picozzo e fargli credere che non s’era accordata col marito. Ma il marito insisteva: «Apri, Maria, mi serve il canestro, al frantoio mi aspettano, non farmi perdere tempo.» La Maria gli aprì e il padre picozzo, che era già nudo come l’aveva fatto mamma sua, andò a nascondersi proprio sotto il letto dove era situato il canestro. Il marito entrò e si recò dritto dritto sotto il letto, dove scoprì il monaco. Qui mo’ ti dovevi trovare, figlio mio. Mazzate, sai? Mazzate senza misura. Quel povero padre picozzo, insomma, te lo conciò bene bene per le feste e per le uttisciàne.16 Dopodiché lo spinse, tutto nudo com’era, dentro il frantoio. Qui slegò il cavallo che trainava a giro le pesanti macine delle ulive e, al suo posto, legò il padre picozzo. E come per il cavallo, gli assestava pure colpi di scudiscio. E lo insultava: «Tira, brutto maligno: volevi fotterti mia moglie ah? E mo’ butta il sangue pure tu! che fino a domattina c’è tempo.» Quel povero padre picozzo fu crepato di sudore e di fatica tutta la notte. Quando si fece giorno, il marito gli restituì la tonaca e lo sbatté fuori del frantoio. «E non farti più vedere!» gli gridò dietro. Qui che il padre picozzo, nero di botte, uscendo dal frantoio si trovò a passare proprio sotto la finestra della Maria, che stava affacciata. La Maria, vedendolo passare, aprì la bocca e gli fece un po’ ingrugnita: «Uh-uh-úh.» Al che il monaco alzò la testa e: «Uh-uh-úh un cazzo!» le disse «che, se vuoi macinarti le ulive, vai a comprarti la mula!» 16

Giorni feriali.



Li maccarruni pišciati

I maccheroni pisciati

C’era na fiata nu frate ca scia ‘lla limòsina, e šciu ba ttuzza a nna casa addhune ne aprìu na vagnone nu’ ttantu giustata te capu. Ca tisse a llu frate: «Spetta, ca vau pìju na cosa.» E šciu ba nne pìja lu tiestu cu nnu picca te maccarruni ca èranu rimasti te la sera prima. Ddhu frate, ca tenìa fame, se zziccàu lu tiestu cu lla cucchiara e sse menàu sse li mangia. Ma topu lu primu nghiuttu, tuccàu lli lassa li maccarruni, ca gh’èranu tutti nnacituti. Addhai ca la vagnone ne tisse: «None, ca te li poti mangiare, sai? Tantu nui l’imu mbarcare, ca l’hanu pišciati li surgi.» «Ah sì?» tisse lu frate «E nna!» E nne rumpìu lu tiestu an capu. La vagnone mo’ zziccàu cchiangire. E ffacìa: «Povera mmie! povera mmie! Ca m’hai ruttu lu tiestu a ddhu cacava sìrama te notte. Povera mmie! povera mmie! Ca m’hai ruttu lu tiestu a ddhu cacava sìrama te notte.» Sentendu te cusine, a llu frate addhu nu’ nne restàu ca cu zzacca ddha vagnone e ccu tte la binchia bona bona te mazzate.

C’era una volta un frate che girava per la questua e andò a bussare alla porta di una casa dove gli aprì una bambina che non ci stava molto con la testa. Che disse al frate: «Aspetta, che vado a prenderti una cosa.» E tornò con un tegame di coccio con dentro un po’ di maccheroni avanzati della sera prima. Il frate, che era affamato, agguantò cucchiaio e tegame e si buttò a mangiare i maccheroni. Ma, dopo il primo boccone, dovette lasciar perdere per via che erano tutti inaciditi. Qui che la bambina disse al frate: «Guarda che te li puoi mangiare i maccheroni, tanto noi li buttiamo perché i sorci ci hanno pisciato sopra.» «Ah, è così?» esclamò il frate «E ttié!» E le ruppe il tegame di coccio in testa. La bambina mo’ si mise a piangere. E faceva: «Povera me! povera me! Che m’hai rotto il tegame dove mio padre cacava di notte. Povera me! povera me! Che mi hai rotto il tegame dove mio padre cacava di notte.» Ascoltando la tal cosa, al frate non restò che afferrare la bambina e riempirla buona buona di mazzate.





Lu fiju ca vulìa mmena sìrasa intru mmare

Il figlio che voleva buttare il padre nel mare

A nnu cristianu vecchiu n’ia morta la mujère, e ccusì era sciutu cu stae a ccasa te lu fiju spusatu. Vecchiu comu era ormai nu’ era bonu ffazza gnenzi cchiùi. Tandu la fame era tanta mo’ e nna ucca te cchiùi ticìa mutu, ca nu’ era comu moi, fiju miu, ca addhunca màngianu quaṭṭru màngianu cinque. La nora mo’ ticìa sempre ca nu’ sse putía scire innanzi cu ddha situazione, ca lu pane ca se mangiava lu vecchiu tuccàa sse caccia te ucca a lli fiji. Cusì, tinne osci e dinne crai, a lla fine cunvinse lu maritu cu bàscia mmena sìrasa a mmare. Lu maritu, allora, se caricàu sìrasa an coddhu e sse mise ccaminare a ttirezione te lu mare. Camina e ccamina, camina e ccamina, prima cu rria a lla ripa te lu mare, se fermàu sotta a nn alberu bellu frunźutu cu tanta beddha umbra. Era mutu sṭraccu e ccusì pensau bonu cu lassa sìrasa ‘n terra cu sse riposa nu pocu. «M’àggiu sṭraccatu, sire miu, ripusàmune nu pocu» tisse. «Eh! fiju miu, puru iu cquai lassài lu sire miu!» fice lu sire oramai rassegnatu. A ‘ste parole lu fiju nu’ lla pensàu do’ fiate, te pressa se mise ntorna sìrasa ‘n coddhu e ppijàu la sṭrata te casa. «Ca ci nu’ ssi’ bonu ffaci gnenzi,» tisse «si’ bonu armenu pe’ ccunsìji!»

A un vecchio cristiano era morta la moglie, e così era andato a vivere in casa del figlio sposato. Vecchio com’era, non era più in grado di fare niente di buono. A quei tempi la fame era tanta mo’ e una bocca in più da sfamare non era cosa da poco; non era come adesso, figlio mio, che dove mangiano quattro mangiano cinque. La nuora mo’ diceva sempre che la situazione era insopportabile, perché il pane che si mangiava il vecchio toccava levarlo di bocca ai figli. Così, dici oggi e dici domani, alla fine convinse il marito a buttare il padre nel mare. Il marito, allora, si caricò il padre sulle spalle e si avviò in direzione del mare. Cammina e cammina, cammina e cammina, prima di arrivare alla riva del mare, si fermò sotto un albero bello frondoso che faceva tanta ombra. Era proprio stracco e così decise di posare a terra suo padre per una breve sosta. «Mi sono stancato, padre mio, riposiamoci un po’» disse. «Eh! figlio mio, pure io qui posai il padre mio!» fece il padre ormai rassegnato. A queste parole il figlio non ci pensò due volte: sollevò il padre in tutta fretta, lo rimise sulle spalle e ripigliò la strada di casa. «Che, se non sei buono a nulla,» gli disse «sarai buono almeno per consigli!»





La puddhàšcia sotta la cappa magna

La pollastra sotto la cappa magna

A nnu paese, na fiata, nc’era la prucissione. A llu cchiù bellu, na puddhašcia ca ‘ṭṭraversava la sṭrata sciu sse nfila propriu sotta la cappa magna te lu prete. Cce tte ffice lu prete? Na! se la sṭrinse prima ṭra lli pieti, poi se ngucciàu, la zziccàu, ne torse lu coddhu e se la nfilàu sotta lu razzu. E šcìa cantandu: «Sotta la cappa magna, Sdòmine, portu na pinna gènova.15» Lu sacristanu, ca li stía te coste e ss’ia ccortu te la puddhašcia, ne rispuse a llu stessu tonu: «Sciamu inṭru la sacristia, Sdòmine, e facimu tivisione.» E tutti l’addhi ‘n coru: «Amen!»

In un paese, una volta, c’era la processione. Sul più bello, una pollastrella che traversava la strada andò a infilarsi proprio sotto la cappa magna del prete. Che ti fece il prete? To’! se la strinse prima tra i piedi, poi si abbassò, l’agguantò, le torse il collo e se la nascose sotto il braccio. E andava salmodiando: «Sotto la cappa magna, Domine, porto una penna giovine.» Il sacrestano, che gli stava a fianco e s’era accorto della pollastrella, gli rispose nello stesso tono: «Andiamo nella sacrestia, Domine, e facciamo divisione.» E tutti gli altri in coro: «Amen!»

15

A mo’ di salmo.





Lu pešce sṭrascinatu

Il pesce strascinato

Na fiata, na mujère ddumandàu a llu maritu: «Lu pešce voi tte lu mangi?» «Sine,» tisse lu maritu. «E ccomu te l’àggiu ffare?» «Ma’, fammélu sṭrascinatu.» Addhai ca la mujère pijàu lu pešce, lu ttaccàu a nnu filu te spacu e llu sṭrascinàu pe’ ttutta la sṭrata. Quandu sṭrascina sṭrascina lu pešce s’era ormai ritottu a nna spina, tisse: «Ma’, pensu ca moi s’hae cottu.»

Una volta, una moglie chiese al marito: «Il pesce te lo vuoi mangiare?» «Sì,» disse il marito. «E come te lo devo cucinare?» «Ma’, fammelo strascinatu.17» Lì che la moglie prese il pesce, lo legò a un filo di spago e lo strascinò per tutta la strada. Quando strascina strascina il pesce s’era ormai ridotto a una lisca, disse: «Ma’, penso che mo’ s’è cotto.»

Strascinati, specie di maccheroni fatti in casa simili a degli gnocchetti schiacciati con la punta del coltello. Dopo lessati si condiscono con un soffritto di pancetta e con pecorino. In questo caso naturalmente col pesce non c’entrano niente: il termine strascinatu qui viene preso in prestito per un effetto comico. 17





Liberanusdòmine

Libera nos domine

Alla mmasserìa te San Giuvanni, na fiata, se ṭruàu mmurire lu mmassaru. Addhai ca la mmassara voźe ffazza li funerali a ppompa magna e cchiamàu li mònici te lu cumentu te la Matonna te le Grazie te Calàtune. Rriàra li mònici e sse mìsera tornu tornu a llu catàfaru. Acquai ca zzaccàra ddìcianu prechiere pe’ llu mortu, orazioni e ccanti. La mujère mo’, ssettata te coste ‘llu mortu, ddha cristiana se lu chiangìa beddhu beddhu lu maritu sou. E nne facìa a mmo’ te lamentazione: «Maritu miu, e mmo’ tuttu lu cranu ci se lu mangia?» «Ne lu mangiamu nui» rispundìanu li mònici, comu sia ca sta ddicìanu sarmi. «Maritu miu, e ttuttu l’òju ci lu cunsuma?» «Lu cunsumamu nui.» «E ttuttu lu vinu ci se lu bie?» «Ne lu bivimu nui.» E ccritandu ‘ncora cchiù fforte ‘sta fiata: «Maritu miu, e ttuttu lu tèbitu ci lu paca?» «Liberanusdòmine!» cantàra te pressa li mònici.

Alla masseria di San Giovanni, una volta, si trovò a morire il massaio. Lì che la massaia volle fare i funerali in pompa magna e chiamò i monaci del convento della Madonna delle Grazie di Galàtone. Arrivarono i monaci e si misero torno torno alla salma. Qui che cominciarono a dire preghiere per il morto, orazioni e cantare i salmi di circostanza. La moglie mo’, seduta di fianco al morto, quella povera donna se lo piangeva bello bello il marito suo. E faceva a mo’ di lamentazione: «Marito mio, e mo’ tutto il grano chi se lo mangia?» «Ce lo mangiamo noi» salmodiavano i monaci. «Marito mio, e tutto l’olio chi lo consuma?» «Lo consumiamo noi.» «E tutto il vino chi se lo beve?» «Ce lo beviamo noi.» E alzando il tono stavolta: «Marito mio, e tutto il debito chi lo paga?» «Libera nos, domine!» si sbrigarono a cantare i monaci.





Lu Culàu

Culàu

Nc’era nu sire vecchiu ca stia fiaccu. Tenìa tanti fiji: unu se chiamava Culàu. ’Stu Culàu mo’, cu llu fattu ca lu sire stia fiaccu, lu pensieru ne scìa a lla rroba: ca nu’ mbulìa cu lla sparta cu ll’addhi frati soi. E cce tte combinava? Nu’ ssulamente pijava lu sire sempre pe’ šcemu ma, quandu stia sulu cu cu iddhu ca nu’ llu vitìa nišciunu, lu ddefriscava bonu bonu te mazzate. Lu sire mo’, cu tutte ‘ste mazzate, rriau cu stèscia propriu a ppuntu te morte, tantu ca li fiji chiamàra lu nutaru pe’ llu testamentu. Lu nutaru mo’ ne facìa domande te ogne manera a llu sire cu pozza scrivìre le vuluntà soe, ma dhu pòveru cristianu, struncunisciatu comu era, nu’ sse fitava mancu ccunta cchiùi. E rispundìa sulamente: «Lu Culàu… lu Culàu…» quasi vulìa ddica: lu Culàu è statu, iddhu m’hae rritottu te ‘sta manera, pe’ iddhu sta mmoru. E llu nutaru, sentendo tire Culàu, scrivìa Culàu. Ne ddumandava: «E lla mmasserìa a cci vo’ lla lassi?» Ma quiddhu dicìa sempre: «Lu Culàu… lu Culàu…» pe’ ddire mo’ ca le curpa lu Culàu. E llu nutaru scrivìa Culàu. Ntorna: «E lla tale cosa a cci la lassi? e quiddha? e quiddh’addhna?» Ma ddhu cristianu ticìa sulamente lu Culàu e llu Culàu. E llu nutaru scrivìa Culàu e Culàu. E ffoe cusì ca lu Culàu se fice patrunu te tutta la rroba e ll’addhi frati nu’ ìppera nu cazzu te nienti. E iddhi vìssera felici e ccuntienti e nnui nu’ ìppime gnenti.

C’era un padre vecchio che stava molto male. Teneva tanti figli: uno si chiamava Culàu. Questo Culàu mo’, col fatto che il padre stava male, pensava soprattutto all’eredità, che la voleva tutta per sé e non dividerla coi fratelli. E che ti combinava? Non solo se ne stava sempre accanto al letto del padre per raggirarlo, ma, quando non visto, gli dava pure un sacco di mazzate. Il padre mo’, con tutte queste mazzate, arrivò proprio in punto di morte, tanto che i figli chiamarono un notaio per il testamento. Il notaio faceva domande di ogni maniera al genitore per poter stendere le sue volontà, ma quel cristiano, vessato come era, che faticava pure a parlare, diceva sempre: «Culàu… Culàu…» quasi a dire: Culàu è stato, è per lui che sono ridotto così, è per causa sua che sto morendo. E il notaio registrava Culàu. E gli domandava: «Ma la masseria a chi la lasci?» E quello rispondeva sempre: «Culàu… Culàu…» quasi a dire che era lui il colpevole. E il notaio scriveva Culàu. Di nuovo: «E la tal cosa a chi la lasci? e quella? e quell’altra?» Ma quel cristiano diceva solamente Culàu e Culàu e il notaio scriveva sempre Culàu e Culàu. Fu così che Culàu s’impadronì di tutta la roba e gli altri fratelli ebbero un cavolo di niente. E loro vissero felici e contenti e noi non avemmo nienti.





A rretu la pila

Dietro il lavatoio

Na fiata, la Nzina, na beddha vagnone te Nardò, tardava cu sse raccòje ‘ccasa e la mamma stia cu llu pensieri. Quandu finalmente turnàu ngraziateddiu, la mamma ne tisse nu pocu stizzata: « Ma addhu ete ca si’ stata, figghia mia? Me faci cu stau sempre cu llu pensieri.» «Na! mamma, a rretu lla pila su’ stata!» rispuse la Nzina. «A rretu la pila! E cce gg’ete ca facìi rretu la pila, figghia mia? «Na! mamma, sta šciucava cu Ccricòriu mia!» «Ah sì, figghia mia? E a cce sta šciucàvi cu Ccricòriu tua?» «Na! mamma, cu nna cosa rossa e pponta sta šciucava!» «Figghia mia, statte ttenta, sai? ca cu queddha te vene lu fuèmmicu!»16

Una volta, l’Enzina, una bella ragazza di Nardò, tardava a rincasare e la mamma si prendeva pensiero. Quando finalmente rincasò ingraziadidio, la mamma le disse un po’ stizzita: «Ma dove sei stata mia, figlia mia? Mi fai stare sempre in pensiero.» «To’! mamma, sono stata dietro il lavatoio!» rispose l’Enzina. «Dietro il lavatoio! E che cosa ci facevi dietro il lavatoio, figlia mia?» «To’! mamma, giocavo con Gregorio mio!» «Ah sì, figlia mia? E a che giocavi con Gregorio tuo?» «To’! mamma, giocavo con una cosa rossa a punta!» «Figlia mia, statti attenta, sai? che con quella ti viene il vomito!»

Questa storiella papà ce la raccontava imitando il dialetto di Nardò. Per noi ragazzi l’effetto comico era l’imitazione che gli cambiava la forma facciale con l’uso di suoni ed espressioni per noi inusuali. Ma per questa storia, come per le tante altre in questo libro, solo da grandi avremmo capito che alludevano a situazioni in cui c’entrava il sesso. Gli adulti si divertivano quasi a raccontarle proprio in virtù del nostro candore di bambini. In effetti eravamo presi più dai modi e dai toni del raccontare, dalla gestualità, piuttosto che dal significato delle parole. A proposito del nome Gregorio, a Nardò era il nome più diffuso per via del Santo Patrono. 16





Turu e tturài

Duro e durai

Nc’èranu ṭre sureddhe ca nu’ ṭṭruàvanu cu sse nzùranu. Una ticìa sempre: «Turu, turu, lu maritu e iu puru.» Ntorna: «Turu, turu, lu maritu e iu puru.» Alla fine tisse: «Turu e tturài e llu maritu nu’ llu pruài!»

C’erano tre sorelle che non trovavano a maritarsi. Una diceva sempre: «Duro, duro, il marito e io puro.» Di nuovo: «Duro, duro, il marito e io puro.» Alla fine disse: «Duro e durai e il marito non lo provai!»





Lu cane te Lecce e llu cane te Bari

Il cane di Lecce e il cane di Bari

Na fiata, nu cane te Lecce se ffruntàu cu nnu cane te Bari. Quistu stringìa n’ossu am bucca. Lu cane te Lecce ‘llora tisse a quiddhu te Bari: «Si’ bonu cu ddici Bari?» «Baaàri,» e a llu cane te Bari ne catìu l’ossu te ucca. Te pressa quiddhu te Lecce se lu nferràu. Mo’, lu cane te Bari, se sentìu pijàre pe’ ffessa. «Mo’ fazzu cu ddica Lecce,» pensàu ṭra de iddhu «e ccusì l’ossu me lu nferru ntorna iu.» «E ttie si’ bonu cu ddici Lecce?» «Leeécce!» ma l’ossu allu cane te Lecce ne rrimase sṭrittu sṭrittu inṭru lli tienti e quiddhu te Bari rimase cu nnu parmu te nasu.

Una volta, un cane di Lecce si incontrò con un cane di Bari. Questo stringeva un osso in bocca. Il cane di Lecce allora disse a quello di Bari: «Sei buono a dire Bari?» «Baaàri,»18 e al cane di Bari cadde l’osso dalla bocca. Pronto quello di Lecce l’agguantò. Mo’, il cane di Bari si sentì fottere. «Ora gli faccio dire Lecce,» pensò tra sé «così mi riprendo l’osso.» «E tu sei buono a dire Lecce?» «Leeécce!» Ma l’osso, al cane di Lecce, rimase stretto stretto tra i denti e quello di Bari rimase con un palmo di naso.19

Un barese in verità avrebbe detto Beeèri, ma da ragazzi, raccontandoci la storiella, pronunciavamo Baaàri, anche perché nessuno di noi aveva ancora sentito parlare un barese. 19 È un classico del campanilismo tra Lecce e Bari. Qui entra in gioco un fatto linguistico e si prende in giro il parlare dei baresi a bocca aperta, al contrario dei Leccesi che parlano a denti stretti. 18





Lu jàggiu te nozze

Il viaggio di nozze

Na fiata, doi se spusàra e šcira an viàggiu te nozze cu llu ṭrenu. La mujère mo’ nu’ ssapìa ccunta lu talianu. Lu maritu, prima cu ppàrtanu, addhu nu’ ss’ia raccumandatu cu nnu’ ccunta filu inṭra llu ṭrenu, cu nnu’ ffàzzanu brutte ficure. Addhai ca inṭra llu scumpartimentu nc’era addha ggente paru cu iddhi; facia mutu caddu e llu finesṭrinu era puru chiusu. Sicché lu maritu se aźàu e ddisse: «Sta nne nfucàmu cquai! È mmeju cu apru lu finesṭrinu.» A llu aprire ca fice, ṭrasìu nu jentu beddhu friscu, e a lla mujère ne scappàu cu ddica: «Oh che bel ventotto!» E llu maritu prontamente: «Vintinove e ṭrenta àźate e tturnamu a ccasa!»

Una volta, due si sposarono e partirono col treno in viaggio di nozze. La moglie mo’ non sapeva parlare in italiano. Il marito, prima di partire, altro non s’era raccomandato che non facesse parola in treno, a scanso di brutte figure. Nello scompartimento c’era gente oltre a loro; faceva un gran caldo e i finestrini erano pure chiusi. «Si soffoca qua dentro!» disse il marito «Conviene che apro il finestrino.» All’aprire che fece, spirò nello scompartimento un bel vento fresco, tanto che la moglie le scappò di dire: «Oh che bel ventotto!» E il marito prontamente: «Ventinove e trenta alzati e torniamo a casa!»





Lu cane cagnisciùsu

Il cane schifiltoso

Na fiata, nu paṭrunu tenìa nu’ cane ca nu’ mmangiava gnenzi. Non c’era versu: tuttu quiddhu ca ne tia se lu cagnisciava. Ia ttenire quarche mmalatìa, pensava iddhu mo’, e nnu’ ssapìa mo’ comu ia ffare cu ffazza nne passa. Capitàu nu giurnu, menṭre ca passeggiava cu llu cane inṭru lli puteri soi, ca ncunṭràu nu culonu e nne cuntàu te ‘stu cane ca nu’ ttenìa piacere cu mmangia. «Lassamélu cquai,» tisse lu culonu «puru iu tenìa nu cane te cusìne, ma an capu a nna semana fici mpara cu mmangia tuttu.» «Uh! lu Signore cu ddici lu giustu! ca nu’ ssacciu cchiùi cce nn’àggiu ddare, culonu miu. Te lu lassu e ttornu mme lu piju ṭra na settimana: ca ci ete te rrecalu puru.» «Vane ngrazieteddiu, paṭrunu miu. Quandu torni, statte ṭranquillu ca ‘sta mmalatìa lu cane tou nu’ lla tene cchiùi.» E llu paṭrunu lassàu lu cane a llu culonu, e sse nde sciu. Ma lu culonu, ‘ppena se vitte sulu cu llu cane, lu zziccàu e llu ttaccàu a nnu palu. E cquai lu lassàu senza cu mmangia. Ddhu sangu te cane, dopu qualche giurnu mo’, lu futtìa la fame, ma lu culonu nu’ sse nde curava. Giustu quandu vitte propriu ca se tisperava, zziccàu na cipuddha e nne la menàu. A ddhai ìi bitire lu cane, fiju miu, comu se nferràu ddha cipuddha e sse la mangiàu cu ttuttu lu core! A llu scatire te la semana, lu culonu lu restaccàu lu cane, ca mo’ nu’ era cosa bona lu paṭrunu cu llu vìscia ttaccatu. E ‘n capu a nna semana lu paṭrunu vinne sse pìja lu cane. «Beh, comu vae lu cane miu?» tisse a llu culonu. «Ah, vae propriu bonu!» ne rispuse lu culonu «Mo’ s’hae mparatu cu mmangia puru le cipuddhe.» Se mbicinara tutti ddoi a llu cane e llu culonu ne lanciàu na cipuddha. Lu cane te pressa se la nferràu e sse la mangiàu a nn’apricchiusa t’occhi.

Una volta, un padrone di terre teneva un cane che non mangiava niente. Non c’era verso: tutto quello che gli dava, il cane se lo schifava. Doveva essere una malattia, pensava lui mo’, e non sapeva come fargliela passare. Accadde che un giorno, passeggiando col cane nei suoi poderi, incontrò un colono e gli parlò di questo cane che non aveva piacere a mangiare. «Lasciamelo qui,» disse il colono «anch’io avevo un cane simile, ma in capo a una settimana imparò a mangiare tutto.» «Oh, che tu dica il giusto come è vero il Signore! perché non so più cosa dargli, colono mio. Te lo lascio e torno a riprendermelo tra una settimana: che, se sarà come dici, ti darò una ricompensa.» «Vai ingraziadiddio, padrone mio, al tuo ritorno stai pur tranquillo che il cane sarà guarito.» E il padrone lasciò il cane al colono e se ne partì. Ma il colono, appena si vide solo col cane, l’acchiappò e lo legò al palo. E qui lo lasciò senza mangiare. Quel caspita di cane mo’, dopo qualche giorno lo fotteva la fame, ma il colono non se ne curava, giusto quando vide che il cane si disperava, prese una cipolla e gliela buttò. Qui dovevi vedere, figlio mio, come il cane s’agguantò la cipolla e se la mangiò con tutto il cuore! Allo scadere della settimana, il colono slegò il cane: beh, non stava bene farlo vedere al padrone legato al palo. In capo alla settimana il padrone tornò a riprendersi il cane. «Beh, come va il cane mio?» domandò al colono. «Ah, proprio bene!» rispose il colono «Adesso ha imparato a mangiare perfino le cipolle.» Si avvicinarono entrambi al cane e il colono gli lanciò una cipolla. Il cane l’afferrò al volo e la divorò in un baleno.





«Ha’ vistu? Te osce nnanzi, paṭrunu miu, ne poti tare cu mmangia tuttu quiddhu ca voi.» «Mah! nu’ lla critìa mai e ppoi mai!» fice lu paṭrunu «Si’ statu propriu brau cu llu cane miu, e ppe’ cquistu voju tte rrecalu nu quintale te cranu.» E iddhi vìssera felici e ccuntienti e nnui nu’ ìppime gnenti.

«Hai visto? D’ora in avanti, padrone mio, gli puoi dare da mangiare tutto quello che vuoi.» «Mah! non avrei creduto mai e poi mai!» fece il padrone «Sei stato proprio bravo col cane mio, e per questo ti ricompenserò con un quintale di grano.» E vissero felici e contenti e noi non avemmo nienti.





La fija cu lli urri

La figlia con le bizze

Nc’era na fiata na beddha fija ca era rriata all’età cu sse nzura, ma la mamma, a ogni bagnone ca ne se mbicinava, ne ticìa sempre: «Beddhu miu, te cunsìju cu nnu’ tte la pìji filu la fija mia, sai? Ca quiddha tene li urri.» «Ma cce ssuntu ‘sti urri?» ne rispundìa ogne bagnone. «Li urri… li urri… Nu’ ssai cce ssuntu li urri?» rispundìa sempre la mamma. «Mah! li urri! Ma va’ ssacci cce ssuntu li urri!» E ogni bagnone se nde scia scunsulatu. Nci foe nu giovanottu però ca sia propriu ncapunitu te ‘sta beddha fija e šciu a lla mamma cu sse tichiara. Ma puru a quistu la mamma ne tisse: «Iu te la tia puru la fija mia, beddhu carusu, ma nu’ è pput’èssere percé tene li urri!» «Ma cce ssuntu li urri?» «Li urri, no? Nu ssai cce ssuntu li urri?». «Vabbè, ma iu la fija toa la vòju lu stessu, cu lli urri e senza urri!» «None, carusu miu, te cunsìju cu nnu’ tte la pìji, cuarda ca topu te ṭroi pentutu!» «Ma ammenu se po’ ssapire quandu ete ca li tene ‘sti sangu te urri?» «Na! ogne tantu ne vènane ‘sti urri, ma vistu ca voi propriu tte la piji, sacci ca quandu ne pìjanu iddha se zzacca lu mantile e sse lu gira nnanzi rretu. Tandu è mmeju cu lla lassi stare e ccu nnu’ nne cunti: quiddha senò acchiàtu ffazza sṭrèpiti!» «E quistu ete tuttu? Ma iu me la sposu, addhu ca nu’ mme la sposu!» E sse spusara. Lu maritu, però, a llu primu giurnu tisse a lla mujère: «Voju tte ticu na cosa, mujère mia: sacciu ca quandu te vènanu li urri, usi cu tte giri lu mantile nnanzi rretu, e cca pe’ quistu tocca tte lassu stare. Statti ccorta però ca puru iu tegnu li urri e quandu

C’era una volta una bella figlia in età da marito, ma la mamma, ad ogni ragazzo che le si avvicinava, non faceva che dirgli: «Bello mio, non ti consiglio di prenderti la figlia mia, sai? Che quella tiene le bizze.» E ogni ragazzo a dirle: «Ma che sono queste bizze?» «Le bizze… le bizze… Non sai cosa sono le bizze?» diceva sempre la mamma. «Mah le bizze! Vai a sapere che cosa sono le bizze!» E ogni ragazzo se ne partiva sconsolato. Ci fu un ragazzo, però, che della figlia s’era innamorato assai, proprio cotto, e quando si recò dalla mamma per dichiararsi, anche a lui: «Io ti darei pure la figlia mia, bel giovanotto, ma non può essere perché tiene le bizze.» «Ma che sono queste bizze?» «Le bizze, no? Non sai cosa sono le bizze?» «Vabbene, ma io la figlia tua la voglio lo stesso, con le bizze e senza bizze!» «No, ragazzo mio, non te lo consiglio, guarda che dopo ti troverai pentito!» «Ma almeno si può sapere quand’è che le tiene queste bizze?» «To’! le vengono ogni tanto queste bizze, ma, visto che te la vuoi proprio sposare, devi sapere che, quando le succede, prende e si mette il grembiule a rovescio. È segno questo che la devi lasciar perdere, guai se le rivolgi la parola: quella se no hai voglia a fare strepiti!» «E questo è tutto? Ma io me la sposo, altroché se non me la sposo!» E si sposarono. Ma il marito già il primo giorno disse alla moglie: «Voglio dirti una cosa, moglie mia: so che quando ti vengono le bizze tieni l’usanza di metterti il grembiule a rovescio, segno questo che devo lasciarti stare. Stai attenta, però, che anche a me





me viti ca ṭrasu ccasa cu lla còppula a lla mbersa, è mmeju mme lassi stare ca su’ dduluri.» Allora nu giurnu lu maritu sta tturnava te la fatìa e, prima ṭṭrasa ccasa, cuardàu te la finešcia e bitte ca la mujère s’ia giratu lu mantile nnanzi rretu; te pressa iddhu se mise la coppula a lla mbersa e ṭṭrasìu ccasa. Quandu la mujère vitte lu maritu ṭrasire cu lla còppula ‘lla mbersa, zziccàu e sse nderizzàu lu mantile, e addhuttantu fice lu maritu cu lla còppula. E, de tandu, la mujère nu’ ttinne cchiui li urri… E mmancu lu maritu li tinne! E vissera felici e ccuntenti e nnui nu’ ìppime gnenti.

vengono le bizze di tanto in tanto e, quando mi vedi entrare in casa con la coppola a rovescio, è meglio che mi lasci perdere che son dolori!» Capitò un giorno che il marito, tornando dal lavoro, notò, spiando dalla finestra, che la moglie portava il grembiule a rovescio; prese e si mise la coppola a rovescio pure lui ed entrò in casa. Quando però la moglie vide il marito sulla soglia con la coppola a rovescio, presto si raddrizzò il grembiule: altrettanto fece il marito con la coppola. E da allora la moglie non ebbe più le bizze. E neppure il marito le tenne. E vissero felici e contenti e noi non avemmo nienti.





Lu pissìnchia

Pissinchia

Nc’era na mamma cu nnu fiju ca lu chiamàvanu Pissìnchia. La mmamma nu giurnu tisse a llu fiju: «Fiju miu, ca nu’ mme sentu bona: vane tie e ccatta nu picca te ṭrippa.» E quiddhu sciu a llu uccièri e ddisse: «Ha tittu la mmamma cu mme tai nu picca te ṭrippa.» «None, nu’ tte la pozzu vindìre ca nu’ ll’àggiu ‘ncora puliźata» tisse l’uccièri.» «Na! ca tamméla lu stessu» tisse lu Pissìnchia. E ll’ucciéri ne la ncartàu e nne la tese. E lu Pissìnchia purtàu ‘ccasa la ṭrippa e, così comu era, senza puliźata, la mise inṭru nu caddarottu chinu t’acqua cu lla cucina. E ca menṭre la ṭrippa bullìa scìu lla punge puru cu nna furcina e quiddha mandàu spritte te mmerda a ddhunca tete spurcandu e mpuzzunandu tuttu. Allora scìu a ddha lla mamma e nne tisse: «Na! mamma, viti cquai cc’è mm’hae rricapitatu!» «Ma vattende tie e tutta la ṭrippa e ba’ mménala a mmare spundatu!17 Nu’ biti ca nu’ ll’hai mancu llavata? nu’ biti ca è ncora china? M’hai fattu la casa a ṭre ore te notte.» E llu Pissìnchia scìu a mmare spundatu e sse mise llava e llava. Ma topu ca la llavàu tisse: «Mo’ comu fazzu cu ssàcciu ci ete puliźata?» Ma propriu a ddhu frattiempu vitte luntanu inṭru mmare nu bastimentu. Allora pijàu na canna, mpizzàu la ṭrippa susu la punta e sse mise ientulisciare de quai e dde ddhai. Li marinai te susu lu bastimentu mo’ se pensàvanu ca gh’era na specie te segnale. E ddìssera: «Oh Madonna noscia! quista è rrichiesta te jutu! Fucìmu! fucìmu!» Quandu ca rriàra nnanzi a llu Pissìnchia ne tìssera: «Vagnone, cce ggh’ete ca hai rricapitatu?» «Na! voju ssàcciu ci sta ṭrippa l’àggiu bona lavata» tisse lu Pissìnchia. «Na ‘stu sangu te vagnone! E cca n’hae fatti rriare fincu quai

C’era una mamma con un figlio che chiamavano Pissinchia. Un giorno la mamma disse al figlio: «Figlio mio, non sto affatto bene, rècati tu dal macellaio e compra un po’ di trippa.» E Pissinchia si recò dal macellaio e disse: «Ha detto la mamma che mi dài un po’ di trippa.» «Non posso vendertela, che non l’ho ancora pulita» fece il macellaio. «Ma sì, dammela lo stesso» disse Pissinchia. E il macellaio la incartò e gliela diede. Fu così che Pissinchia portò a casa la trippa e, così com’era, senza neppure pulirla, la versò nell’acqua di una pentola messa sul fuoco. E quando l’acqua prese a bollire, Pissinchia che fece? Andò a pungerla con una forchetta, la qual cosa causò schizzi dappertutto, sporcando e ammorbando tutta la casa. Dopodiché, preoccupato, si recò dalla mamma per dirle: «Mamma, guarda cosa mi è capitato!» «Ma vattene via con tutta la trippa e buttala nel mare più profondo! Ma non ti sei accorto che era tutta piena di robaccia, sporca, ancora da lavare? Mi hai ridotto la casa a tre ore di notte!» Fu così che Pissinchia si recò alla riva del mare più profondo e si mise lava e lava la trippa. Lì che gli venne un dubbio. Disse: «Mo’ come faccio a sapere se è pulita?» In quel mentre avvistò sul mare, in lontananza, un bastimento e pensò bene di issare la trippa sulla punta di una canna e sventolarla di qua e di là. I marinai del bastimento, a quella vista, credettero a un segnale di aiuto. «Oh Madonna nostra! Andiamo, andiamo di corsa!» dissero. E, volta la prua in direzione di Pissinchia, quando gli furono vicini, gli chiesero a gran voce: «Ehi ragazzo! cosa mai ti è capitato?» E Pissinchia mettendo bene in vista la trippa, disse: «Volevo sapere da voi se questa trippa è ben lavata.»

17

Spundatu, nel senso di quanto più profondo.





pe’ nnienti: quistu è propriu šcemu e spergugnatu!» E lli marinai šcìsera te la nave e nne tèsera quaṭṭru schiaffi inṭra lla facce. E nne tìssera: «Nui ne nde sciamu, ma tie mo’ vattènde caminandu, e de ora nnanzi sai comu hai ddire?» «Comu àggiu ddire?» «Jèntu in fiore! jèntu in fiore!» Allora lu Pissìnchia, sempre cu lla ṭrippa mmanu, se mise ccaminare e šcìa ticendu sempre jèntu ‘n fiore, jèntu ‘n fiore.18 Addhai ca nu cacciatore ca passava vicinu, sentèndulu tire te cusìne, scìu e nne tese nu scarafone. E nne tisse: «Ma cce sta’ ddici jèntu in fiore! Ca iu nu’ mbòju jèntu, ca cu llu jèntu nu’ mme faci ppìju mancu nu ceddhu!» «E ccomu àggiu ddire ‘llora?» tisse lu Pissìnchia. «Carne e ssangu! carne e ssangu!» Allora lu Pissìnchia scìa caminandu e ddicìa sempre carne e ssangu, carne e ssangu. Addhai ca rriàu inṭra nnu paese e nc’èranu do’ cristiani ca sta sse vattìanu e la gente cercàva cu lli scùcchia. Lu Pissìnchia se mbicinàu a quisti toi e ddicìa sempre carne e ssangu, carne e ssangu. Mo’ la gente ticìa: «Na ‘stu šcemu! Sta ffacìmu tantu cu lli scucchiamu e quistu tice carne e ssangu, carne e ssangu.» E nne fìcera na ncofinata te mazzate. «E ccomu àggiu ddire ‘llora?» «Cristu scùcchiali! Cristu scùcchiali!» E llu Pissìnchia zzaccàu ntorna ‘st’addha canzone te Cristu scùcchiali, Cristu scùcchiali. Addhai ca rriàu inṭra nnu paese a ddhunca nc’era nu sposalìźiu. Iddhu mo’ era curiositusu, vulìa bìscia tuttu. Cusì se mbicinàu a lli sposi e ddicìa sempre Cristu scùcchiali, Cristu scùcchiali. La gente allora ne critava: «Ma tie si’ ppròpriu šcemu cu ddici te cusìne!» E nne tèsera na beddha scòppula. «E ccomu àggiu ddire allora?» «Sette-ottu te quisti llu giurnu! sette-ottu te quisti llu giurnu!» 18

«Ma guarda ‘sto ragazzo disgraziato e scemo!» dissero stizziti i marinai «E dire che per quella caspita di trippa ci ha fatti venire fin qui con tutto il bastimento!» Fu così che scesero dal bastimento e andarono a dargli quattro schiaffi sulla faccia. E gli dissero: «Adesso noi ci rimettiamo in viaggio, ma tu d’ora in poi, camminando, devi sempre dire vento in fiore! vento in fiore!» E Pissinchia, con la sua trippa ben stretta tra le mani, andava camminando e diceva sempre vento in fiore, vento in fiore. Fu lì che gli passò vicino un cacciatore, il quale, a quel sentire, non mancò di dargli un manrovescio. «Ma che dici vento in fiore! Io non voglio vento, perché col vento non becco neppure un uccello.» «E come devo dire allora?» «Carne e sangue! carne e sangue!» E Pissinchia camminava e ripeteva sempre carne e sangue, carne e sangue. E così dicendo si trovò in un paese dove c’erano due che se le davano di santa ragione, mentre taluni ce la mettevano tutta per separarli. Pissinchia si avvicinò ai due e continuava a dire carne e sangue, carne e sangue. «To’! ‘sto scemo!» fecero indignati quei taluni «Noi ci diamo da fare per separarli e questo li aissa.» E non si risparmiarono dal dargli quei quattro ceffoni. «E come devo dire allora?» «Cristo separali! Cristo separali!» E Pissinchia, che non si staccava mai dalla sua trippa, cominciò quest’altra canzone del Cristo separali, Cristo separali. E giunse in un paese dove si celebrava un matrimonio e lui, anche quando fu vicino agli sposi, proseguiva a dire Cristo separali, Cristo separali. «Ma sei proprio scemo a dire così!» lo redarguirono alcuni. E gli diedero uno scappellotto come si conveniva. «E come devo dire?» «Sette-otto di questi al giorno! sette otto di questi al giorno!»

Qui Ventu in fiore non significa vento a favore, ma vento forte.





E lu Pissìnchia zzaccàu ntorna ‘st’addha canzone te sette-ottu te quisti llu giurnu, sette-ottu te quisti llu giurnu. Caminandu caminandu, cu lla ṭrippa ca nu’ llassava mai, rriàu a nnanzi nna chiesa a ddhunca nc’era lu mortu e iddu ticìa sempre sette-ottu te quisti llu giurnu, sette-ottu te quisti llu giurnu. «Na! ‘stu šcemu, ma cce ddice mo’!» tisse la gente «Ca sette-ottu te quisti lu giurnu, alla fine ci ete ca rrimane susu la terra? Tie lu fessa?» E dàlli mazzate ntorna. «E ccomu àggiu ddire ‘llora?» «Cce hai ddire… ca è mmeju cu ba' tte perdi tie e tutta quiddha ṭrippa ca tieni mmanu china te iermi!» E ccusì lu Pissìnchia nu' ssapìa cchiùi cc’ia ffare e se nde turnàu ccasa. Ma quandu la mamma lu vitte, ne tisse: «Ancora cu ddha ṭrippa mpuzzunata mmanu vai caminandu, fiju miu? Ah poveru fiju miu!» Ci vo’ tte cuntu n addu me tai nu taraddhu.

E andava così dicendo Pissinchia, quando si trovò in un paese dove si svolgeva un funerale e lui non smetteva di dire sette-otto di questi al giorno, sette-otto di questi al giorno. «Senti questo scemo! Ma che dice mo’!» gli si rivoltarono alcuni «Che con sette-otto di questi al giorno, alla fine chi ci rimane sulla terra? Tu e il fessacchiotto che sei?» E dàgli botte di nuovo a Pissinchia. «E come devo dire?» «Ma che devi dire… Che è bene che ti vai a perdere tu e tutta la trippa puzzolente che tieni in mano!» E Pissinchia non sapeva più che cosa fare e se ne tornò a casa. Ma quando lo vide la mamma gli disse: «Ancora con quella trippa impuzzonita te ne vai in giro? Ah povero figlio mio!» Se vuoi che ti racconti un altro, mi dai un tarallo.





LI FATTI TE LU PIERU Lu bagnu a llu piccinnu

Il bagno al fratellino

Nc’era na mamma ca tenìa do’ fiji. Unu era crandiceddhu: Pieru se chiamava; l’addhu, picciccu picciccu. Nu giurnu, prima bàscia fore, tisse a llu Pieru: «Pieru, viti ca sta bau fore, tie ntantu minti la fersura susu llu focu, pìja to’ legne e scarfa nu pocu t’acqua cu nne faci lu bagnu a llu piccinnu.» Addhai ca lu Pieru mise la fersura cu ll’acqua susu llu focu, e dduma e dduma ca l’acqua se fice bullente. Poi cce tte ffice? Menàu l’acqua inṭru la bagnarola, zziccàu lu piccinnu e llu calàu ddhinṭru. A quai ca a lu vagnone ne se rrizzàu tutta la pelle e se mise ffare sṭrépiti. Lu Pieru allora cuardava lu frate picciccu e ddicìa: «Na! comu sta sse prèscia lu frate miu! cuarda comu sta sse prèscia!» Poi lu zziccàu e llu mise susu llu jettu cu ddorme. Quandu ca la mamma turnàu, ṭruàu lu vagnone stisu pe’ mmortu susu llu jettu. «Pieru! ma cce nn’hai fattu a llu vagnone! cce nn’hai fattu!» «Na! mamma, ca sta dorme tantu beddhu! N’àggiu fattu nu bagnu caddu caddu, comu m’ìi tittu ssignurìa, ma cusì caddu ca ìi bitìre comu se presciava inṭru ll’acqua, e comu la facce ne se rrizzava tutta beddha!» «Eeh, pòvera mmie! pòvera mmie! Ma ci foe ca me tese ‘stu fiju!» tisse dha cristiana.

C’era una mamma che aveva due figli. Uno era grandicello: Piero si chiamava; l’altro, piccino piccino. Un giorno, prima di recarsi in campagna, disse a Piero: «Piero, io vado in campagna. Tu, nel frattempo, raccatta un po’ di legna, accendi il fuoco e scalda l’acqua in un calderotto per fare il bagno al tuo fratellino.» Lì che Piero si mise a scaldare l’acqua sul fuoco e, accendi accendi, l’acqua alla fine divenne bollente. Poi che ti fece? versò l’acqua nella tinozza, afferrò il fratellino e ce lo immerse dentro. Qui che al fratellino subito la faccia gli si arricciò tutta quanta, e dovevi sentire le urla e gli strepiti, di tale maniera che a Piero sembrava che si rallegrasse. E lo osservava divertito e gli faceva: «Guarda come si rallegra il fratellino mio! guarda come si rallegra!» Dopo di che lo prese e lo adagiò sul letto per farlo dormire. Quando la mamma tornò, trovò sul letto il figlioletto che non dava segni di vita. «Piero! ma che hai fatto al fratellino tuo! che gli hai fatto!» «To’! mamma, non vedi che dorme tanto bello? Gli ho fatto un bel bagno caldo caldo, come m’avevi detto tu, ma così caldo che dovevi vedere come si rallegrava dentro l’acqua, e come la faccia gli si arricciava tutta bella!» «Eeh, povera me! Ma chi fu a darmi questo figlio!» disse quella cristiana.





La òccula

La chioccia

N’addha fiata, ntorna, la mamma te lu Pieru, prima bàscia fore, ne tisse a llu fiju: «Pieru, viti ca iu sta bau fore. Cuarda ca nc’ete la òccula ca sta ccova l’oe e cerca cu nne stai ttentu. Viti ca ogne ttantu se aźa e bae ‘n giru cu mmangia, ma tie, dopu nu pocu, la pìji e lla ssetti ntorna susu ll’oe: se no se ddefrìddanu.» La mamma essìu te nanzi e la òccula se aźàu te retu bàscia ‘n giru e ccu mmangia. Lu Pieru, topu nu pucu, la zziccàu e lla ssettàu susu ll’oe, ma quiddha nun ci stia, e sse nde scappava sempre. Allora lu Pieru cce ffice? scìu e sse ssettàu iddhu susu ll’oe e lle scrafazzàu tutte bone bone. Quandu ca la mamma turnàu vitte lu Pieru ssettatu susu ll’oe a ppostu te la òccula. «Pieru, na! ma cce sta ffaci ssettatu susu ll’oe!» «Na! mamma, ca la òccula nu’ mbulìa stèscia e mm’àggiu ssettatu iu susu ll’oe cu nnu’ ssia se ddefrìddanu.» «E mmo’ cce àggiu ffaaàre!» tisse dha cristiana cuardandu an cielu «Tegnu nu fiju cchiù ffessa iddhu te l’acqua salata!»

Un’altra volta, la mamma di Piero, prima di andarsene in campagna, disse al figlio: «Piero, vedi che io sto uscendo. Ricordati che c’è la chioccia che sta covando le uova, e stacci attento perché quella tra un po’ lascia la cova e se ne va in giro a mangiare. Tu però, se vedi che ci sta troppo tempo, l’acchiappi e la rimetti sulle uova prima che si freddino.» La mamma uscì davanti e la chioccia s’alzò di dietro per beccare in giro. Ma dopo un po’, Piero l’acchiappò e la rimise sulla cova. La chioccia, però, non ci voleva stare e se ne scappava sempre. Piero, preoccupato che le uova si freddassero, che ti fece? andò a sedersi lui sulle uova, col risultato che s’acciaccarono tutte bene bene. Quando la mamma tornò, ti andò a vedere Piero che se ne stava seduto sulla cova al posto della chioccia. «Piero, na! ma che ci fai seduto sulle uova! E la chioccia dov’è?» «Na, mamma, quella non voleva saperne di chiocciare e così mi ci sono seduto io, se no le uova si freddavano.» «E mo’ che devo faaàre!» disse quella cristiana guardando in cielo «Tengo un figlio più fesso lui dell’acqua salata!»





Tira la porta e biéni

Tira la porta e vieni

Una volta, la mamma te lu Pieru, scendu fore te matina prestu, ddišcitàu lu fiju e nne tisse: «Pieru, sai cce ffanne? Quandu a llu cchiù ttardu te aźi, topu c’hai mangiatu, tira la porta e biéni fore, sai? Ca iu sta bau.» «Sine, mamma, nu’ tte nde ncaricare.» E quandu a llu cchiù tardu lu Pieru se aźàu te lu jettu, cce fice? na! schiuàu la porta te casa, se la caricàu ‘n coddhu e chianu chianu pijau la sṭrata te fore. Quandu ca la mamma, menṭre ca sta ffaticava, a´zàu la capu e bitte te luntanu unu ca sta sse mbicinava cu nnu talornu crossu crossu an coddhu: «Na! dhu cristianu!» tisse «Addhu caspita vae caminandu cu quiddhu pisu an coddhu!» Ma quandu lu Pieru se mbicinàu a nnanzi màmmasa, quista spalancàu l’occhi e ddisse: «Pieru, ma tie eri? Na! ma ci t’hae tittu cu biéni cu tutta la porta! Cce ggh’ete ca m’hai cumbinatu!» «Na! mamma, ca nu’ mm’ha’ tittu ssignurìa cu ttiru la porta e ccu begnu?» «Ah ‘stu fiju miu!» fice la mamma scunsulata «E mmo’ cce àggiu ffare? Lu Signore nu’ mme tese furtuna cu lli fiji!»

Una volta, la mamma di Piero, recandosi in campagna sul presto, svegliò il figlio e gli disse. «Piero, sai che fai? Quando più tardi ti alzi dal letto, dopo aver fatto colazione, tira20 la porta e vieni.» «Sì, mamma, va’ pure, non ti preoccupare.» E quando sul tardi Piero s’alzò dal letto, che ti fece? to’! schiodò la porta di casa, se la caricò sulle spalle e prese la strada per avviarsi in campagna. La mamma, mentre stava curva a lavorare, alzò la testa e s’avvide di uno in lontananza che s’avvicinava reggendo sulle spalle qualcosa d’ingombrante. «To’! quel cristiano!» disse «dove caspita va camminando con quel peso sulle spalle?» Ma quando Piero fu più vicino, la madre non credette ai suoi occhi: «Piero, ma eri tu? Oh, ma chi t’ha detto di venire con tutta la porta? Guarda cosa m’hai combinato!» «Na! mamma, che non sei stata tu a dirmi tira la porta e vieni?» «Ah, questo figlio mio!» fece la mamma sconsolata «E mo’ che devo fare? Il Signore non mi rese fortunata con i figli!»

20



‘Tira’ qui sta per rinserrare, chiudere.



CERTI FATTI DI PAPA GALEAZZO

PREMESSA I fatti di papa21 Galeazzo ce li raccontava mio nonno materno Pasqualino. Lui sapeva leggere, scrivere e far di conto. Era un novellatore. Quand’era più giovane leggeva apposta libri di racconti per poi la sera raccontarli alle figlie davanti al caminetto. Raccontava anche storie popolari come Guerrin Meschino, Genoveffa, Fioravante. Erano le storie che a Collemeto rappresentavano di tanto in tanto le compagnie popolari di teatro che arrivavano per lo più dalla Sicilia. Le recitavano nel frantoio, quando non c’era la raccolta delle olive. Chi è papa Galeazzo? È un prete che ne combina di tutti i colori, un ribelle, un buffone, un finto tonto, un goffo. Un Bertoldo salentino con la tonaca, se vogliamo azzardare un paragone. Pare che papa Galeazzo sia realmente esistito. Don Domenico Galeazzo era arciprete di Lucugnano (nei pressi di Santa Maria di Leuca), vissuto nel XVI secolo. Ma non tutti i racconti si riferiscono a quell’epoca. In ogni tempo, anche recente, sono nate delle storie con papa Galeazzo protagonista.

21

‘Papa’, nel Salento, precede sempre il nome di un prete. Equivale a ‘don’.



Lu messone te papa Cajazzu

Il messone di papa Galeazzo

Na fiata, papa Cajazzu, siccomu nde cumbinava tante te le soe, foe casticatu te lu Vescuvu cu bàscia ffazza lu prete a nn addhu paese. Acquai ca li cristiani, vitendu lu prete nou, ci cchiùi scia nne ddumanda quantu se facìa pacare iddhu pe’ nna messa a ssuffràgiu te li morti. Quandu se sparse la voce a llu paese ca papa Cajazzu se pijava sulamente centu lire, mbece te mille, quantu se pijàvanu l’addhi preti, mo’ ìi bitire comu tutti fucìanu a ddha ppapa Cajazzu cu ordinànu messe. Papa Cajazzu, te la matina ‘lla sera, nu’ ffacìa addhu ca cu ssegna nomi te morti sulla ližetta te le messe, puru vinti a llu stessu giurnu, e ppe’ ogni mmessa se facìa tare le centu lire nticipate. Mo’ a ll’addhi preti ne uschiava lu culu: ca nišciunu scia cchiùi a ddha iddhi cu ssègnanu messe pe’ ssuffragiu. E sse ddumandàvanu cumu cazza19 putìa fare papa Cajazzu cu ṭṭroa lu tiempu cu ddice tutte quiddhe messe. Sicché nu giurnu se rratunàra e šcira tutti te paru a ddha ppapa Cajazzu e nne ddumandàra: «Papa Cajazzu, sapìmu ca li paesani vènanu tutti ddha ttie cu ssègnanu messe: ma se po’ ccapire cumu sangu faci poi cu ddici tutte ‘ste messe?» «Na!» tisse papa Cajazzu «ca sta’ be proccupati tantu? Ca ticu nu messone e bale pe’ ttutte.»

Una volta, papa Galeazzo, siccome ne combinava tante delle sue, per castigo fu mandato dal Vescovo a dire messa in un altro paese. Qui che la gente, visto il prete nuovo, chi più andava a domandargli quanto si faceva pagare lui per una messa a suffragio dei defunti. Quando al paese si sparse la voce che papa Galeazzo si faceva pagare solo cento lire, invece di mille, quanto si facevano pagare gli altri preti, mo’! dovevi vedere: tutti da papa Galeazzo a ordinare messe! Papa Galeazzo, dalla mattina alla sera, non faceva altro che segnare nomi di defunti sull’agenda per le messe, anche venti nello stesso giorno, e per ogni ordine si faceva dare le cento lire anticipate. A questo punto agli altri preti bruciava il culo, perché nessuno al paese si recava più da loro per ordinare le messe di suffragio. E si chiedevano i preti come caspita papa Galeazzo potesse trovare il tempo per celebrare tutte quelle messe. Così un bel giorno i preti decisero di recarsi tutti insieme da papa Galeazzo. E gli dissero: «Papa Galeazzo, sappiamo che i paesani vengono tutti da te a ordinare messe. Ma ci vuoi spiegare come caspita farai a celebrare tutte queste messe?» «To’!» rispose papa Galeazzo «vi state a preoccupare così tanto? Che dirò un messone e varrà bene per tutte.»

La cazza è la schiumarola, ma qui, per assonanza, vuol dire ‘cazzo’ e serve al narratore per attenuare la volgarità del termine. Per lo stesso motivo a volte si ricorre a cazzarola, che sarebbe la casseruola. 19





Li morti vii

I morti vivi

Na fiata, li preti te nu paese nu’ nde putìanu cchiui te tuttu quiddhu ca ne cumbinava papa Cajazzu, e nnu’ ssapìanu comu ìanu ffare cu nde lu càccianu. E ccomu imu ffare e ccomu nu’ imu ffare, alla fine ìppera na pensata. Tandu mo’ nc’era l’usanza ca lu prete ia vvegliare li morti te notte inṭru lla chèsia. «Unu te nui» tisse nu prete «se finge mortu, e lla notte facìmu cu llu vèja papa Cajazzu. A llu meju, menṭre sta fface lu mortu, aźa la capu e fface cu sse schianta papa Cajazzu: armenu cusì se nde scappa e nnu’ ttorna cchiùi!» E ccusì ffoe. Nu prete se finse mortu e sse fìcera li funerali, poi rriàu la notte e papa Cajazzu ippe lu còmpitu cu vveja lu mortu inṭru lla chèsia. Menṭre ca papa Cajazzu era tuttu ‘ntentu cu ddica prechiere te coste a llu mortu, tuttu te paru va sse dduna ca la capu se aźava e sse bašciàva? Aźa e ccala, aźa e ccala. «Na sangu!» tisse «acquai li morti vii me pòrtanu! Mo’ fazzu cu bìscia iu!» Cce ffice? Sciu a rretu lla sacristia e ppijàu una te quiddhe stanghe ca se ùsanu cu pporti ‘n coddhu la Matonna ‘n prucissione. Se mise te coste ‘llu mortu e, quandu quistu sciu cu aźa la capu, aźàu la stanga e… ppumh! ne ssettàu nu corpu ‘n fronte e llu stise na fiata pe’ ssempre: «Cusì ‘mpàranu cu mme pòrtanu li morti vii!» tisse papa Cajazzu. A llu crai poi cce ffice? Sciu a llu vescuvu cu pprutesta. «‘Ccellenza, acquai li morti vii me pòrtanu! Su ccose quiste? E ccu ppozzu ccitìre unu ha tuccatu cu buttu lu sangu te cusìne!» tisse stizzatu papa Cajazzu passànduse lu tiscitòne te la manu ‘n fronte e šcettàndulu ‘n terra comu cu ddica ca ia sutatu sangu.

Una volta, i preti di un paese non ne potevano più di tutto quello che combinava papa Galeazzo, e non sapevano come fare per cacciarlo via. Pensa e ripensa, alla fine ebbero una trovata. C’era allora l’usanza di vegliare di notte i morti in chiesa e la veglia toccava a un prete. «Uno di noi» disse un prete «si finge morto, e la notte facciamo fare la veglia a papa Galeazzo. Sul più bello, mentre fa il morto, alza la testa e fa prendere uno spavento a papa Galeazzo, così se ne scappa e non torna più.» E così fu. Un prete si finse morto, si fecero i funerali, giunse la notte e a papa Galeazzo fu assegnato il compito di vegliare la salma in chiesa. Era tutto intento mo’ a dire preghiere accanto al morto, quando, tutto ad un tratto, notò che la testa del morto s’alzava e s’abbassava: su e giù, su e giù. «To’! sangue!» imprecò «qui i morti vivi mi portano! Mo’ gli faccio vedere io!» Che fece? Si recò nel retro della sacrestia e prese una di quelle stanghe che si usano per portare in spalla la Madonna in processione. S’accostò al morto e, quando questo provò a sollevare la testa, alzò la stanga e… pumh! gli assestò un colpo in fronte tale che lo stese una volta per tutte. «Così imparano a portarmi i morti vivi» disse papa Galeazzo. E l’indomani che fece? Andò a protestare pure dal vescovo. «Eccellenza, qui i morti vivi mi portano! Sono cose queste? E per poterne ammazzare uno ho dovuto buttare il sangue così!» disse alterato papa Galeazzo, facendo il gesto di scrollarsi dalla fronte col pollice della mano destra il sangue presunto.





La ciuccia te papa Cajazzu

La somara di papa Galeazzo

Na fiata, papa Cajazzu se ccattàu na ciuccia e llu vinne ‘ssapire tuttu lu paese. Ma nu’ ppassava giurnu ca quarchetunu nu’ nne ddumandava: «Papa Cajazzu, ma quantu te custa la ciuccia ca t’hai ccattata?» E nnu giurnu e ddoi e ṭṭre… ‘nsomma sempre la stessa canzone, era propriu nu scurciamentu te cujùni e papa Cajazzu nu’ nde putìa cchiui. Allora cce ffice? Tisse a llu sacristanu cu ssona le campane a mmotu cu cchiama inṭru ‘lla chesia tutta la gente te lu paese. Quandu però se ṭruara tutti inṭru ‘lla chesia, tutti se ddumandàvanu pe’ cce ccàulu l’ia chiamati papa Cajazzu. «Siti propriu tutti? manca quarchetunu?» dumandàu papa Cajazzu tisu susu llu pùrpitu. «Beh, tutti propriu none: màncanu li sṭroppi e lli malati» ne rispùsera. «E allora nducíti puru quiddhi!» ne ordinàu papa Cajazzu. E šcìra e tturnàra cu lli sṭroppi e ccu lli malati. Quandu ca se ssicuràu ca èranu propriu tutti, papa Cajazzu tisse critandu, a mmodu cu llu sèntanu: «Ci vuliti ssapiti quantu me custa la ciuccia ca m’àggiu ccattatu, àggiu spisu cinque lire e nnu sordu… basta ca nu’ mme scurciati cchiùi li pampasciuni!»

Una volta, papa Galeazzo si comprò una somara e tutto il paese lo venne a sapere. Ma non passava giorno che qualcuno non gli chiedesse: «Papa Galeazzo, ma quanto costa la somara che ti sei comprato?» Un giorno, due, tre… insomma sempre la stessa canzone: era proprio una scocciatura e papa Galeazzo non ne poteva più. Che ti fece allora? Ordinò al sacrestano di suonare le campane e chiamare in chiesa tutta la gente del paese. Quando si ritrovarono in chiesa, tutti a chiedersi per che cavolo li avesse chiamati papa Galeazzo. «Ci siete proprio tutti? manca qualcuno?» domandò dal pulpito papa Galeazzo. «Beh, tutti proprio no: mancano stroppi e malati» gli risposero. «E allora portate pure quelli!» ordinò papa Galeazzo. E andarono e tornarono con gli stroppi e con i malati. Assicuratosi che fossero proprio tutti, papa Galeazzo disse ad alta voce, per farsi meglio sentire: «Se volete sapere quanto costa la somara che mi sono comprato, presto detto: ho speso cinque lire e un soldo… basta che ora non mi rompete più li pampasciuni!»22

Pampasciuni in gergo è una metafora che sta per ‘coglioni’. Il lampaggione (termine maldestramente italianizzato) è in realtà una cipolletta selvatica di sapore amaro che costituisce una sciccheria gastronomica per le genti del Sud. 22





La conṭramizione

La contravvenzione

Se cunta ca a Galàtune, na fiata, papa Cajazzu, topu ca spicciàu te tire messa a ssuffràgiu te nu mortu e buscatuse mille lire, essìu te chiesa20 cu ttorna ccasa, comu a llu sòlitu. Ma, ṭruàndusi a ppassare te coste ‘lla villa comunale, ne vinne cu schiatta te pišciare. Cce ffice ‘llora? Na! ṭrasìu inṭru ‘lla villa, se aźàu la tonaca e sse mise ppišciare conṭru nn àrberu cu tutti li sani sentimenti. Addhai ca na cuàrdia te la Comune se ddunàu ca papa Cajazzu sta ppisciava. E se vvicinàu e nne tisse: «Papa Cajazzu, sei in conṭramizione! Nu’ sse pote pišciare inṭru lli sciardini comunali! «E quantu àggiu ppacare?» tisse papa Cajazzu. «Mille lire.» ne rispuse la cuàrdia. «Na! àggiu tittu messa pe’ llu cazzu!» tisse papa Cajazzu tuttu giratu te capu.

Si racconta che a Galàtone, una volta, papa Galeazzo, dopo aver celebrato una messa a suffragio di un morto, intascò le mille lire dovutegli e uscì di chiesa per dirigersi come al solito verso casa. Ma, trovandosi a passare nei pressi della villa comunale, ebbe un bisogno impellente di pisciare. Che ti fece allora? To’! entrò nella villa, s’alzò la tonaca e si mise a pisciare contro un albero con tutti i sani sentimenti. Lì che una guardia comunale si accorse di papa Galeazzo che pisciava. E si avvicinò e gli disse: «Papa Galeazzo, sei in contravvenzione! È vietato pisciare nei giardini pubblici!» «E quanto devo pagare?» disse papa Galeazzo. «Mille lire.» rispose la guardia. «To’! ho detto messa per il cazzo!» disse papa Galeazzo tutto girato di testa.

20

A Collemeto si dice chesia oppure chiesa, ma quest’ultimo termine è più usato.





Quistu vale pe’ quiddhu ca tegnu inṭra ‘lli caźuni

Questo vale per quello che porto nei calzoni

Na fiata, papa Cajazzu, ticendu messa, rriatu a llu puntu ca ia ddare la comunione, se šcerràu le parole ca ia ddire: nu’ sse mmentuava e nnu’ sse mmentuava. E nnu’ lla tese la comunione e le cristiane se nde turnara a ccasa senza. Sicché scìu a llu vescuvu cu nne cunta te ‘stu fattu. «Na! ca si’ ffessa!» ne tisse lu vescuvu. «Ca te scrìi quiddhu ca hai ddire e tte lu minti inṭra ‘lli caźuni e cusì nu’ tte scerri.» E papa Cajazzu cusì ffice: se scrisse quiddhu ca ia ddire e se lu mise inṭra ‘lli caźuni. A llu crai, quandu ca se ṭruàu cu ddèscia la comunione, però, se šcerràu ntorna. Ma pensàu cu lla tescia lu stessu la comunione, a lli masculi sulamente però, ca a lle femmane se scurnava: a quiste ne passava nnanzi. E alli msaculi ne mintìa l’ostia 'm bucca e nne ticìa: «Quistu vale pe’ quiddhu ca tegnu inṭra lli caźuni; quistu vale pe’ quiddhu ca tegnu inṭra ‘lli caźuni.» Scìu ntorna a llu vescuvu cu nne cunta comu era sciuta. E llu vescuvu ne tisse: «Ciucciu bestia, ca comu suntu li masculi nu’ ssuntu le fèmmane?» A llu crai tisse messa ntorna, ma quandu scìu cu ddescia la comunione, gnenzi, nu’ sse ricurdava cu ddica. Ma ‘sta fiata, tandu retta a llu vescuvu, tese la comunione a tutti: a masculi e femmane. E a ognunu ne ticìa: «Ciucciu bestia, ca comu suntu li masculi nu’ ssuntu le fèmmane? Ciucciu bestia, ca comu suntu li masculi, nu’ ssuntu le fèmmane?»

Una volta, papa Galeazzo, nel dire messa, all’atto della comunione dimenticò le parole della formula:23 non si ricordava e non si ricordava. E non diede la comunione a nessuno e le cristiane tornarono a casa senza. Sicché si recò dal vescovo per raccontargli del fatto. «To’! perché sei fesso!» gli disse il vescovo. «Che ti scrivi le parole e le metti nei calzoni e così non le dimentichi.» E papa Galeazzo così fece: scrisse la formula e se la mise in tasca. L’indomani, però, all’atto della comunione, dimenticò di nuovo le parole, ma pensò bene di dare la comunione ai maschi soltanto stavolta: alle femmine no, che si vergognava: a queste passava innanzi. E ai maschi metteva l’ostia in bocca e diceva: «Questo vale per quello che porto nei calzoni; questo vale per quello che porto nei calzoni.» Andò di nuovo dal vescovo a raccontargli l’accaduto. E il vescovo gli disse: «Ciuccio bestia, che come sono i maschi non sono le femmine?» E il giorno dopo, nel dire messa, all’atto della comunione, dimenticò ancora la formula: non c’era verso che si ricordasse. Stavolta però diede retta al vescovo e comunicò maschi e femmine. E a tutti indistintamente porgeva la comunione e diceva: «Ciuccio bestia, che come sono i maschi non sono le femmine? Ciuccio bestia, che come sono i maschi non sono le femmine?»24

Corpus domini nostri Jesu Christi custodiat animam tuam in vitam aeternam. Amen. 24 Il racconto gioca in modo allusivo quando papa Galeazzo pronuncia la formula “… per quello che porto nei calzoni”. 23





La chèsia pittata

La chiesa dipinta

Na fiata, papa Cajazzu se mise ‘n capu cu ppitta te santi tutta la chèsia e chiamàu nu pittore ca ticìanu mo’ ca era mutu brau. Quistu però, prima sse minta ffatica, ne tisse a papa Cajazzu: «Papa Cajazzu, iu me mintu ppittare la chèsia, ma voju tte vvertu te na cosa: ci unu è fiju te bbuttana nu’ ppote mai vitìre le ficure ca pittu iu: pe’ ccasticu te Diu.» «Anime sante mie!» fice papa Cajazzu «Quista è l’urtima cosa ca ia ssentire. Ccumìncia ‘ntantu, fiju miu, ca pe’ quiddhu ca hai tittu, acquai nun c’ète cu ttieni pensieri.» E llu pittore se ggiustàu prima le ‘mparcature e poi zzaccàu cu ppitta li muri te la chèsia (ma iddhu mo’ facìa ddivetere: finta facìa!). Passati ca fora nu pocu te giurni, papa Cajazzu ṭrasìu inṭru lla chèsia pe’ ccuriosità, ma… cuarda te cquai e ccuarda te ddhai, sine… lu vitìa lu pittore ca passava lu pinnieddhu, ma ficure nu’ nde vitìa propriu! Quandu lu pittore se ddunàu ca era ṭrasutu papa Cajazzu, ne tisse: «Papa Cajazzu, cuarda cce beddhi santi ca t’àggiu pittatu: acquai nc’ete santu Paulu, acquai nc’ète santu Tomasi, acquai santu Vitu; a sta parte nvece t’àggiu fattu la Matonna cu llu Bumbinieddhu, cchiù ddhai san Giseppu cu llu bastone fiuritu. Me resta cu ffazzu l’anime sante te lu Purgatoriu, li santi Cosimu e Ttamianu, la Vergine Ndolurata, la Vergine te lu Càrminu, quiddha te lu Rusariu e tanti angeli e angilieddhi te lu paratisu.» Papa Cajazzu, a ddire lu veru, nu’ bitìa gnenzi, ma facìa lu stessu ca cuarda cu ll’occhi te maravìja. Anzi ne tisse a llu pittore: «Brau, brau, sta’ tte mmurtali propriu: ‘sta chèsia sta bene propriu beddha!» E rriàu finarmente lu giurnu ca lu pittore tisse ca ia spicciatu. Così smuntàu tutte le mparcature, se pijàu li sordi ca ia mpattatu e sse nde sciu ‘ngrazieteddìu.

Una volta, papa Galeazzo si mise in testa di affrescare la chiesa. Così chiamò un pittore che aveva fama di essere molto bravo. Costui però, prima di mettersi al lavoro, disse a papa Galeazzo: «Papa Galeazzo, io m’appresto ad affrescare la chiesa, ma ti avverto di una cosa: se uno è figlio di puttana, per castigo di Dio non vedrà mai le figure che dipingo io.» «Anime sante mie!» fece papa Galeazzo «Questa è proprio l’ultima cosa che dovevo sentire! Intanto comincia pure, figlio mio, perché, per quello che hai detto, qui non c’è da stare in pensiero.» E il pittore innalzò dapprima le impalcature e poi prese ad affrescare la chiesa. Ma tanto per far vedere mo’, perché in realtà lui faceva finta di dipingere. Passati che furono un po’ di giorni, papa Galeazzo entrò in chiesa per curiosità, ma… guarda qui e guarda là, sì… notava il pittore che tirava di pennello, ma non vedeva proprio nessuna figura! Quando il pittore si accorse che era entrato papa Galeazzo, gli disse: «Papa Galeazzo, guarda che bei santi ti ho dipinto: qui c’è san Paolo, qui c’è san Tommaso, qui san Vito; da questa parte invece t’ho fatto la Madonna col Bambinello, più in là san Giuseppe Patriarca col bastone fiorito. Mi restano da fare le anime sante del Purgatorio, i santi Cosimo e Damiano, la Vergine Addolorata, la Vergine del Carmine, quella del Rosario e tanti angeli e angioletti del paradiso.» Papa Galeazzo a dire il vero non vedeva un accidente, ma guardava ugualmente con occhi di meraviglia. Anzi disse al pittore: «Bravo, bravo, ti stai proprio immortalando! Questa chiesa sta venendo proprio bella!» Giunse finalmente il giorno in cui il pittore disse di aver finito il lavoro. Così smontò tutte le impalcature, intascò i soldi





Papa Cajazzu cce fice? Chiamàu lu sacristanu e nne ordinàu cu ssona le campane a mmotu cu lle sènta tutta la gente te lu paese: a mmotu cu begna inṭru lla chèsia e ccu la vìscia tutta pittata.» E a llu sonu te le campane tutti li cristiani essìra te casa e šcira inṭru lla chèsia. Quandu ca se nchiu beddha beddha, papa Cajazzu salìu susu lu purpitu e ttaccàu la spieca: «Cristiani mii, b’àggiu chiamati cu ffazzu cu mmirati le ficure ca àggiu fattu pittare inṭru lla chèsia. Comu pututi vitire: acquai nc’ete santu Paulu, acquai nc’è santu Tomasi, acquai santu Vitu; a sta parte nvece la Matonna cu llu Bumbinieddhu, a ddhai san Giseppu cu llu bastone fiuritu, cchiù ssotta hae l’anime sante te lu Purgatoriu e lli santi Cosimu e Ttamianu, cchiù ssusu la Vergine Ndolurata, la Vergine te lu Càrminu, quiddha te lu Rusariu e tanti angeli e angilieddhi te lu paratisu.» «Papa Cajazzu, ma nui nu’ sta bitìmu gnenzi!» ne ccuminciàra ddire tutti li cristiani. «Sapiti cce be ticu ‘llora? Ca siti tutti fiji te bbuttana!» critàu forte papa Cajazzu cu llu sèntanu tutti.

che aveva pattuito e se ne andò ingraziadiddio. Che ti fece papa Galeazzo? Chiamò il sacrestano e gli ordinò di suonare le campane per la gente del paese, perché tutti venissero in chiesa ad ammirare la bellezza degli affreschi.» E al suono delle campane tutti i paesani uscirono di casa e si recarono in chiesa. Quando la chiesa si riempì bella bella, papa Galeazzo salì sul pulpito e cominciò il discorso: «Cristiani miei, vi ho chiamati per farvi ammirare le figure che ho fatto dipingere in chiesa. Come potete vedere: qui c’è san Paolo, qui c’è san Tommaso, qui san Vito; da questa parte invece la Madonna col Bambinello, più in là san Giuseppe Patriarca col bastone fiorito, là sotto le anime sante del Purgatorio e i santi Cosimo e Damiano, là sopra la Vergine Addolorata, la Vergine del Carmine, quella del Rosario e tanti angeli e angioletti del paradiso.» «Papa Galeazzo, ma noi non vediamo niente!» presero a borbottare i parrocchiani. «Sapete che vi dico allora? Che siete tutti figli di puttana!» disse forte papa Galeazzo in modo che tutti l’avessero a sentire.





Papa Cajazzu ‘ncintu

Papa Galeazzo incinto

Foe ca papa Cajazzu nu' stia bonu e llu tuttore ne ordinàu cu sse fazza l’analisi te le urine. Nu’ pputendu scire personalmente, però, papa Cajazzu ncaricàu sòrusa cu lle porta iddha a llu spitale. E nne tese la buttijeddha china te urine. Addhai ca sòrusa, ca mo’ era nu pocu fessa, sṭrata facendu, mbersàu la buttijeddha e sse devacàu tuttu lu pišciaturu. «Na!» tisse «e mmo’ cce àggiu tturnare rretu? Ca la ìnchiu iu la buttijeddha e gh’ete lu stessu.» Quandu ca a papa Cajazzu ne rriàra li risurtati te l’analisi, cce šciu tte legge? Na! ca era ssutu‘ncintu. Sciu ‘llora te pressa a llu tuttore tuttu chinu te pensieri «Ca mo’ ‘sta cosa nu’ pputìa essere» ticìa. Addhai ca lu tuttore la vutàu a llu scherzu e nne tisse: «Papa Cajazzu, nu’ tte sta’ pproccupare. Vene ddire ca ‘ppena te sienti li primi tuluri, sali susu nn arberu e tte meni te ddha ssusu: cusì ccatti lu vagnone.» Quandu ca passàra nu poccu te misi, a papa Cajazzu ne vìnnera certi tuluri te pansa ca nu’ nde putìa cchiùi. Se ricurdàu ‘llora te quiddhu ca n’ia tittu lu tuttore. Sciu e sse rrampicàu susu nn arberu e sse menàu te ddha ssusu. Addhai ca nu cunìju ca stia scusu inṭru l’erba se nde scappàu propriu te sotta ‘ll’anche: «Sangu!» fice papa Cajazzu «Sta tte nde fuci, fiju miu? Ca armenu spetta cu tte battezzu!»

Fu che papa Galeazzo non stava bene e il dottore gli ordinò di farsi le analisi delle urine. Non potendo portarle di persona, però, papa Galeazzo incaricò sua sorella di portarle all’ospedale. E le consegnò la bottiglietta con le urine. Lì che la sorella, che mo’ era un po’ fessacchiotta, strada facendo, inclinò inavvertitamente la bottiglietta e le urine si svuotarono. To’!» disse «e mo’ mi tocca tornare a casa? Ci verso dentro la mia di urina e fa lo stesso.» Quando papa Galeazzo ebbe i risultati delle analisi, che ti andò a leggere? Che era incinto. Si recò in tutta fretta dal dottore, allora, pieno di tanti pensieri, chiedendosi come poteva darsi questa cosa. Lì che il dottore, dopo aver dato uno sguardo alle analisi, gli disse sullo scherzo: «Papa Galeazzo, non starti a preoccupare. Vuol dire che appena ti vengono i primi dolori, sali su di un albero e ti lanci per terra: così ti nascerà il bambino.» Quando trascorsero un po’ di mesi, a papa Galeazzo vennero certi dolori di pancia da non poterne più. Ricordandosi delle parole del dottore, andò a cercare un albero, vi si arrampicò sulla cima e si lanciò. Ma, nel toccare terra, un coniglio, che se ne stava nascosto nell’erba, gli scappò da sotto le gambe: «Sangue!» fece papa Galeazzo «te ne scappi, figlio mio? Aspetta almeno che ti battezzi!»





Quelli che m’hanno raccontato quand’ero bambino Nonno materno Pasquale Giustizieri (Neviano 1887 – Collemeto 1974) Nonna materna Maria Neve De Blasi (Neviano 1889 – Collemeto 1983) Mio padre Giovanni Romano (Collemeto 1914 – Collemeto 1986) Mia madre Lucia Giustizieri (Neviano 1919 – Collemeto 1994) Zia suor Luigina Giustizieri, al secolo Rosina (Neviano 1931 -) Zia suor Teresina Giustizieri, al secolo Cosimina (Neviano 1933 -) I miei fratelli Aldo, Angelo ed Eugenio mi hanno arricchito i racconti con alcune espressioni, dei particolari e qualche variante. Eugenio, in particolare, mi ha ricordato il racconto La fija cu lli urri.



Stampato presso le grafiche panico Galatina (Le)

il volume privo del simbolo dell'editore sull'aletta è da ritenersi fuori commercio

Related Documents

Nanni Orcu260608
December 2019 6

More Documents from "Alfredo Romano"