Marco Biaz: Il Giorno In Cui I Kraftwerk Caddero Dal Cielo

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Il giorno in cui i Kraftwerk caddero dal cielo

Marco Biaz www.biaz.it

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Sarebbe arrivata. Lo sapevano tutti. I venti tiravano al punto giusto, le previsioni erano azzeccate. Sabato 3 maggio. Giorno, ora, senza formalizzarsi su minuto in più e minuto in meno, la nube radioattiva di Chernobyl ci sarebbe caduta sulla testa in forma di goccioline di iodio e cesio. Come dire, tutto calcolato. A parte tutto. Se ne parlava da giorni, come della fine del mondo, da quando Gorbaciov aveva inaugurato la Glasnost, confidando al mondo l’obsolescenza del sistema basato sul Patto di Varsavia, la ruggine che divorava la tecnologia sovietica, la sfida con gli yankee perduta, seppellita con Stalin in un cimitero moscovita. Come una nevicata estiva, era difficile credere a quel tizio con la voglia sulla fronte, come a qualcuno che ti racconta la fine del mondo. Chi s’aggirava tra le stanze del Cremlino, il nuovo Rasputin? E non gli avevamo creduto. Zamberletti rassicurava urbi et orbi che non c’era pericolo, la gente non doveva aver paura e poteva stare tranquilla. I muri del pianeta erano dilaniati da crepe profonde, ma se a Ovest fare o disfare sembra una mera questione d’affari, ad Est non si abbattevano e rifacevano dal tramonto all’alba. Non che ci fosse un particolare rispetto per la fatica altrui, ma ci mancava poco: un lupo spietato stava arrivando a soffiare sulle case dei tre porcellini. Venerdì 2 maggio la nube radioattiva avrebbe toccato il Nordest. Era in giro dal 26 aprile, dopo l’esplosione del reattore nucleare numero 4 della centrale nucleare di Chernobyl. Volava in cielo, tranquilla, ma per il fatidico incontro, i piemontesi dovevano aspettare il giorno successivo. Come dire, i “bogianèn” arrivano sempre dopo. Le previsioni meteorologiche erano pessime. Ci fosse stato un bel sole e il cielo terso, la scia tossica ci sarebbe passata sulla testa invisibile. I soliti pseudo-impegnati si sarebbero spolmonati a indicarla al popolo dopo essersi fatti due occhi così con il cannocchiale, il segretario di Vota Pensionati l’avrebbe percepita con l’olfatto, i Verdi avrebbero organizzato una manifestazione antinucleare a Trino Vercellese nel momento esatto in cui Chernobyl adombrava le risaie, Rubbia si sarebbe fatto vedere in TV per l’ennesima volta, il ministro della sanità Degan avrebbe invitato tutti a girare l’orto, il Santo Padre avrebbe scomodato il terzo segreto di Fatima per rubare le prime pagine dei

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quotidiani al relativismo post atomico. Il 3 maggio muscoli di pioggia erano pronti a duellare con la sorella bastarda, illegittima e invisibile, proveniente dall’URSS. A sentire il colonnello Bernacca, che dopo un’onorata carriera di abbagli madornali si presentava a notte fonda bisbigliando le sue previsioni, sabato sarebbe venuto giù il finimondo. Era un po’ così, Bernacca, te la piazzava lì con il suo sorriso serafico, la catastrofe del giorno dopo. C’era da quando avevano diffuso la televisione in Italia, e nonostante la sfilza infinita di topiche quotidiane, milioni d’italiani non smettevano di dire cagate dopo averlo seguito in Tv. L’unica verità di Bernacca era che lui stava al meteo, come la DC stava al Parlamento della Repubblica. Comunque. A parte i Sopravissuti del 2022, di film americani sulle catastrofi climatiche non ce n’erano molti in giro, e Bernacca doveva aver deciso di scrivere una sceneggiatura per Hollywood (gli toccava, dopo un’onorata carriera di gaffe colossali) intitolata 3 maggio 1986: il terrore invisibile viene dall’Est. “Ridda di valutazioni difformi e spesso del tutto opposte” titolava un quotidiano. Ma intanto cresceva l’allarme nucleare in Europa e sull’Italia. Il 3 maggio il ministro della sanità vietava la vendita di ortaggi e la somministrazione di latte ai bambini, divieto di mangiare erbivori, formaggi; il Centro Studi Radiochimica dell’Università di Bologna consigliava di astenersi dal consumo di tutti i prodotti dell’orticoltura, fra questi i pomodori. Ci fu l’assalto ai supermercati per accaparrarsi ogni cosa e, tra un prodotto e l’altro, finirono anche le scorte di superalcolici e lucido da scarpe. Quel giorno, al Nordovest, avremmo dovuto ritirarci nei rifugi antiatomici (chi li aveva), o far compagnia ai topi nelle cantine. Nonni e genitori presero spunto per rivangare il passato, e via con i bombardamenti alleati su Torino contro i nazifascisti che avevano fatto migliaia di vittime innocenti! Ci voleva l’allarme rosso per disseppellire la memoria. Il sospetto che fossimo veramente in pericolo, fu però alimentato dal solito Zamberletti. Gli scienziati che aveva riunito per una valutazione dell’impatto prodotto dalla nube nucleare, si astennero dal segnalare le zone in cui il tasso di radioattività era maggiore. Apriti cielo! Se non stava arrivando la RAF, poco ci mancava.

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Il 3 maggio, sabato, alle due del pomeriggio, avevamo la nostra solita partita settimanale. Il venerdì notte magari ci avremmo dato dentro con alcol e fumo, ma il giorno dopo saremmo stati lì, pronti a farne uno in più degli avversari. Ci preoccupava più Rubbia su tutti gli schermi, che il cielo atomico e i suoi effetti a medio e lungo termine sulle nostre zanzare. E poi Rubbia, in diretta, aveva rassicurato gli italiani attraverso l’imminente pubblicazione del Dilemma Nucleare, che s’era messo a scrivere mentre stava esplodendo il reattore numero 4 di Chenobyl. Premio Nobel just in time. Comunque, pioggia radioattiva o atomica, noi saremo scesi in campo. C’era una grana da risolvere con la squadra di un bar che ci aveva rifilato una legnata incredibile due mesi prima. Una cosa così non era mai capitata, prenderle 5 a 2 e via muti a testa bassa, senza stringere la mano all’arbitro e fare la doccia. Nemmeno un saluto. Sono situazioni insopportabili, in cui la vergogna ti strangola, se non giuri di farla pagare a quei fetenti. Altrimenti, che ci stai a fare al mondo? E allora, il 3 maggio sarebbe anche potuta piovere merda, che noi saremmo stati lì a giocarcela. Tzk, che ci faceva la nube comunista! La mattina ci fu un giro di telefonate. Qualche battuta giusto buttata lì sul rischio pioggia nel pomeriggio, o chiamala scoria di pensiero legata alle cagate di Zamberletti: uno che concorreva con Andreotti, Gava e Fanfani (e mettici anche Forlani se no s’incazza) per il premio “permafrost democristiano”, ma il leit motiv della giornata era uno e uno soltanto: facciamoli a pezzi. Avremo dato il massimo, di tutto e di più, se poi passava Chernobyl e ci dava una mano, gli altri avrebbero dovuto chiamare Reagan e montare lo scudo spaziale in quattro e quattrotto. Non avevano scampo: quello, Ronnie, se ne fotteva dell’Italia. Uscii di casa all’una, mezz’ora dopo aver divorato un piatto di penne all’arrabbiata che mi avevano incendiato la trachea. Maledette. Per strada, cinque chilometri dal campo di calcio, dovetti fermarmi due volte per pisciare contro i muri i litri di acqua ingollata per spegnere il fuoco in gola. E continuai a pisciare prima, durante e dopo l’incontro angustiato dal dubbio atroce che fosse tutta colpa del nucleare. Fuori non pioveva, ma il cielo era soffocato da nubi grigie e nere, minacciose da far schifo. Promettevano pioggia a secchi. Dove stava la radioattività, dentro, in mezzo, sopra o sotto? Di che colore era, rossa, no? Ma di rosso non c’era ombra.

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Passai a prendere Mario Caffi, detto Caffiamari, un compagno di squadra che giocava in attacco. Era un centravanti classico e di gran stazza, non superava mai la linea di centrocampo se non per battere il calcio d’inizio; bastava lanciarlo e pensava lui al resto. La porta la inquadrava sempre, ma non aveva un gran dribbling e spesso si scartava da solo vanificando la nostra azione offensiva. Io gli stavo alle spalle e andavo su e giù per il campo, perché, pensavo, finché hai fiato è meglio spenderlo. Fin da bambino, Caffiamari era un appassionato di pesciolini tropicali e acquari, se ne sbatteva della nube radioattiva. E poi aveva il vizio di bere prima della partita per allentare la tensione. Sistemò il pallone di cuoio e la borsa sul sedile posteriore e salì sulla mia R4 blu con la sigaretta in bocca e una bottiglietta di Coca Cola in mano. Blaterò qualcosa e mi offrì un goccio. Cuba Libre. “Lascia stare” gli dissi. “Magari dopo la partita.” Un po’ se la versò addosso, il resto lo finì prima di arrivare al campo.

Gli altri, avversari e compagni, erano già tutti là. Alcuni stavano facendo riscaldamento, altri si passavano la palla con scarso impegno; c’era chi guardava il cielo e scuoteva la testa, o chi s’aggirava con l’ombrello sottobraccio. L’arbitro stava discutendo con un tizio che seguiva le linee bianche con un tosaerba. Quando entrammo sul terreno di gioco, poco dopo esserci cambiati, scoprimmo che si trattava di un vecchio contatore Geiger, rilevatore di particelle radioattive.

Non esistevano tattiche, zone, pressing o moduli particolari: c’eravamo noi che dovevamo fare a pezzi della gente che ci aveva umiliato sonoramente e deriso nel dopopartita. Una batosta di quelle che rimangono in circolo finché campi. Ce lo ripetemmo radunandoci attorno a una delle due porte, dopodiché il direttore di gara ci chiamò a raccolta in mezzo al campo. L’arbitro tesserato era un nostro sfizio, una sorta d’imprimatur “federale” alla sfida: gli davamo mille lire a testa e lui fischiava in modo imparziale. Almeno, così ci aveva sempre fatto credere.

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Invece delle solite quattro frasi di prammatica, con piglio serissimo c’informò sull’uomo che s’aggirava per il campo con quello strano aggeggio, e che per il servizio avremmo dovuto scucire duemila a testa. Le altre mille erano per l’esperto, Scienza, come lo definì lui. “E chi l’ha richiesto?” lo interrogò uno dell’altra squadra. “Io” rispose il fischietto, un uomo alto, cantilena veneta, magro come un grissino e con i canini aguzzi, agitando un ombrello nero. “Meglio non correre rischi. Se viene giù l’atomica, voglio avere il culo parato.” “Potevi dircelo prima” osservò il nostro portiere, battendosi i guantoni. “Non sarebbe cambiato nulla. E’ così e basta. Prendere o lasciare.” Solo un miracolo avrebbe potuto evitare il rovescio nucleare. Le nubi erano nere e gonfie di pioggia come non le avevamo mai viste; facevano presagire una sorta di diluvio universale. Vendetta, rivincita, riconquista, riscatto: chiamala come ti pare, ma ci sono momenti in cui non puoi rimandare nulla, nemmeno se qualcuno ipotizza che sta per piombarti sulla testa una pioggia atomica. Chi non era della partita, amici, parenti e fidanzate, aveva già il paracqua aperto e se ne stava stretto e accucciato ai bordi del campo, salmodiando uno sterile invito a rimandare la sfida.

L’estrema convinzione, la fissa, di dovercela giocare a tutti i costi, si affievolì subito dopo il fischio d’inizio. L’aria s’era fatta improvvisamente pesante, come in un giorno estivo di cappa infernale, e una corsa da porta a porta richiedeva uno sforzo triplo rispetto al normale. I più allenati ostentavano una capacità di ripresa superiore, ma alla fine non ne potevano più nemmeno loro, mentre gli altri s’aggiravano per il campo come zombie. Dopo una sgroppata coast to coast con la palla tra i piedi, crollai davanti al portiere. Da lontano, i miei compagni s’informarono sulle mie condizioni di salute: ero schiattato per infarto fulminante, o l’estremo difensore avversario mi aveva abbattuto con una fucilata a bruciapelo? Sollevai un braccio per rassicurarli, poi promisi a me stesso di non ripetere certe cazzate. Ci sono momenti in cui non te lo puoi permettere, che ti metti buono a cuccia e vedi come butta la situazione. Il problema era che, nonostante l’ottima propensione alla

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saggezza, qualcosa non quadrava. Sabato 3 maggio non era un giorno come gli altri. Era un “non giorno”, uno di quei pezzi di storia patafisici che, come tali, avrebbero fatto la differenza soltanto tra i nostri ricordi. La rarefazione dell’aria e gli effetti del Cuba Libre soffocarono le velleità belliche del nostro bomber Caffiamari. Nonostante la marcia ridotta impressa all’incontro, lui vagabondava sull’erba come un ubriacone in cerca del primo angolo per cacciar fuori il ribollio di succhi gastrici che lo tormentava. S’era già beccato con Scienza, rischiando di finire alle mani per aver vomitato lungo i punti perimetrali di valutazione dell’impatto radioattivo. La cosa più bizzarra era che, nei pressi dei rigurgiti di Caffiamari, il contatore Geiger starnazzava sinistramente. Anche a Scienza certi conti non tornavano. L’arbitro era pallido come un vampiro. I canini facevano capolino tra le sue labbra. La differenza tra lui e il vecchio Christopher Lee era una mera questione di set: avrebbe fatto un figurone anche a Hollywood, nel film apocalittico di Bernacca. Gli avversari, furbi, dopo aver fiutato che non c’era verso di spolmonarsi, s’erano rintanati nella loro area e ci aspettavano dalle loro parti per poi spazzare via il pallone verso la nostra metà campo. Se avessimo fatto come loro, che ci avevano concesso la rivincita solo per dimostrare che erano bravi, buoni e tutto sommato migliori di noi, sarebbe finita a tamburello. Ci avevano già rifilato un bel bollito e questo bastava. Toccava a noi dimostrare qualcosa a noi stessi.

Dopo alcuni inutili tentativi di sfondare il fortino avversario, iniziò il tamburello. Sembrava una dozzinale combine di fine campionato, per chiuderla senza morti né feriti e restare tutti in serie A. Ma alla fine del primo tempo, la luce del giorno diminuì improvvisamente, divenne quasi buio, s’alzò un leggero venticello, dal cielo caddero le prime gocce di pioggia e tutto cambiò. Adesso sembrava buona, l’aria. Cominciammo a riempire i polmoni, a riprendere colore in viso, a sgambettare, a tirar calci, a digrignare i denti. Caffiamari smise di vomitare ai bordi del campo e l’arbitro di cercare sangue su ogni collo che gli passava davanti. Non ci accorgemmo della diversità, di che schifezza gravitava attorno a noi. Iodio, cesio, radio: lo sballo che veniva dall’Ucraina, come il colonnello Lobanovski e i

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suoi miracolati della Dinamo Kiev, che ci piovve sulla testa in forma di acquerugiola. Lì per lì un qualcosa di molto rinfrescante, tonificante inebriante: la maggior parte di noi non rientrò negli spogliatoi per godersela fino in fondo. Ma che al fischio del secondo tempo si trasformò in un bagno atomico rabbioso. Il dispositivo Geiger iniziò ad emettere frequenze isteriche, come quando gli insetti finiscono arrostiti tra i tubi blu delle zanzariere dei dehors estivi. Scienza, scosso da scariche elettriche inesistenti, sembrava stesse canticchiando i Kraftwerk mentre portava a spasso il suo aggeggio lungo il perimetro del campo. “Radio… activity, du dum dum, du dum dum dum Is in the air for you and me, du dum dum, du dum dum dum…” Gli avversari smisero di difendere il loro fortino e avanzarono ad ondate sempre più frequenti e veloci. Dalla letargia del primo tempo s’erano trasformati in macchine da guerra. Arrivavano tutti insieme, talvolta anche con il portiere, e li affrontammo masticando la rabbia amara di chi non ci sta a prendersi l’ennesima batosta. Per affrontare i nuovi attacchi ci disponemmo a falange, una cinquina in linea a metà campo, tra cui io e Caffiamari, e l’altra cinquina davanti alla nostra area. Personalmente ero uno che tirava via la gamba nei tackle più duri, che ci teneva a stinchi e caviglie, ma nel secondo tempo divenni improvvisamente falloso. Fu anche abbastanza semplice inaugurare ciò che Arrigo Sacchi avrebbe battezzato poco tempo dopo come “fallo scientifico”. Con la sola differenza che il nostro compito non si limitava a una spallata di disturbo o a un’ostruzione più o meno plateale, noi andavamo giù di brutto falciando tutto quello che si muoveva sull’erba. Gli avversari saltavano per aria, ma grazie al turbo di Chernobyl non si lamentavano per le botte subite. Quell’acqua strana, li inzuppava da capo a piedi proteggendoli da contusioni e dolori. E allora andammo giù ancora più duro. Dopo i calcioni, volarono anche cazzotti e testate. L’arbitro, la cui maglia nera stinta si confondeva con quella grigia degli avversari, s’era già preso la sua buona razione di legnate e si teneva a debita distanza, dove, adducendo alla scarsità di luce e alla pioggia, fingeva di non vedere il macello che stavamo combinando. Quando lo invocavano per l’ennesimo fallo, lui si chinava per legarsi le scarpe, e dopo un po’, stremati dalla sua inefficacia, gli affibbiarono il marchio DOC di grandissimo cornuto. Parente stretto di Concetto Lo Bello

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Erano strani gli avversari, ma le mazzate sedarono presto la foga bellicosa che li spingeva contro di noi. Quindi, come nel primo tempo, si dimostrarono ancora una volta dei volponi. Si schierarono anche loro a falange, sugli stessi punti del campo, e ci attesero ripristinando il “sistema tamburello”. Il contatore Geiger gracchiava lungo i bordi del campo, spinto da uno Scienza sempre più gasato. Non era lì per avvertirci del pericolo che stavamo correndo, come accennato dall’arbitro, ma per godere delle radiazioni che il suo aggeggio rilevava passo dopo passo. La pioggerellina scendeva fine e inesorabile, l’energia scoppiava da tutti i pori. Trenta dosi di cocaina in una sola sniffata. Sentivo i muscoli esplodere e un furore incredibile percorrermi da capo a piedi. Dopo qualche minuto trascorso a lanciarci la palla senza il minimo accenno di attacco, Caffiamari agganciò un rinvio al limite del cerchio di centrocampo, si guardò intorno, notò che tutti erano immobili, gli caddero le braccia e con un calcetto di punta la passò al compagno più vicino: io. Che me ne facevo del pallone? I miei se ne stavano dietro ad aspettare le mosse del nemico, che sostava dalla parte opposta del campo pronto a renderci pan per focaccia. Già, che fare di ‘sto coso rotolante? Guardai avanti. Non avevo mai sopportato i passaggi arretrati, feci quattro passi, superai la linea di metà campo al piccolo trotto. Un avversario si staccò dalla prima falange e procedette dritto verso di me. Era uno che avevo pestato per bene fino a qualche minuto prima. Con l’esterno del piede sinistro spostai la palla e la indirizzai dalla parte opposta rispetto alle sue intenzioni. Mi collocai sul lato sinistro del loro centrocampo. Lui mi affiancò e io accelerai. Non ero ancora uscito dalla mezzaluna, quando fui assalito da un tremore insolito e scaricai sul pallone tutto l’effetto atomico che mi pervadeva. Sganciai una sberla fenomenale. La sfera si sollevò da terra e, come un missile, superò la prima falange, passò sulle teste della seconda e andò infilarsi sotto l’incrocio destro della porta avversaria. Uno a zero. Il portiere, l’arbitro, gli avversari e i miei compagni di squadra, rimasero a bocca aperta. Impossibile fornire una spiegazione dell’accaduto. Un tiro da quaranta metri, di sinistro, io che calciavo soprattutto di destro.

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Se ci fosse stato Reagan nei paraggi, dopo un evento del genere, avrebbe cancellato il trattato SALT con l’Urss e costruito lo scudo spaziale nel giro di due mesi. Fucking reds! I sovietici avevano inventato un’arma micidiale che viaggiava con le nuvole! Se ne buttavano una sul Messico, bye bye $$$$: Washington sarebbe diventata come Chihuahua, invasa da milioni di Pancho Villa invincibili. Ma se ci fosse stato Ronnie, avrebbe assistito alla reazione degli avversari per realizzare che due mesi erano troppi: Gorbaciov lo aveva preso per i fondelli e lo scudo spaziale andava messo su immediatamente! “Tutto ben?” mi fece l’arbitro, calcando la cadenza veneta. Poi si rivolse agli avversari e chiese loro se la rete era valida. In un gol fantastico, non c’è mai nulla di regolare. Il mio lo era ancora meno, ma gli altri giocatori, dopati da Chernobyl, convennero che tutto s’era svolto sotto la luce del sole, e poi andarono a recuperare il pallone nella loro porta.

La sovreccitazione mi caricò come una molla, pieno di boria iniziai a sfottere i rivali. Annunciai che avremmo lanciato missili a raffica e che li avremmo fatti a pezzi. La rivincita si stava consumando. I dieci minuti finali del match sarebbero stati fatali per loro. Non avevamo calcolato una variabile. Una sola, ma fondamentale: sotto quel cielo eravamo in ventidue. Gli altri undici erano schizzati quanto noi. Il capolavoro che avevo appena realizzato, era alla loro portata. Io m’ero mosso prima, ma ciò che accadde poco dopo il fischio di ripresa del gioco, fu ugualmente eccezionale. Prima di avviarsi verso il centro del campo, l’arbitro si avvicinò al suo amico Scienza e, assodando, lo strepitio del geiger, s’informò se c’erano segnali di contaminazione in giro. “Adesso me lo chiedi?” fece l’altro, continuando a seguire le linee di demarcazione del campo. L’arbitro annuì, scrutò l’orologio e fece spallucce: “Be’, tanto mancano solo dieci minuti alla fine.” Poi raggiunse metà campo e batté le mani. “Sveglia, ragazzi, che forse ci evitiamo questa schifezza sulla testa.”

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In qualche modo, s’era preso anche lui la sua buona razione di Chernobyl.

Ci sentivamo forti, ci sentivamo belli e invincibili. Se la palla avesse girato dalle mie parti, non ci avrei pensato due volte a spedire un’altra bomba contro la porta nemica. Non sarebbe rimasto su un brandello di rete. E alla fine, in zona Cesarini, bum, giù anche i pali. La pioggia diminuì. L’arbitro dette un’occhiata al cielo e poi, con un sorrisetto bernacchiano, annunciò che da lì a poco sarebbe uscito il sole. Si strofinò le mani e, prima di mettersi il fischietto in bocca, ripeté di fare in fretta. Come per il mio supergol, nessuno dei giocatori in campo si rese conto di quello che accadde nei successivi dieci secondi. Un lampo nucleare si scaricò su quel prato di provincia e ci lasciò a bocca aperta, attoniti e frastornati. Il fischio arbitrale autorizzò la ripresa del gioco, due giocatori si scambiarono la palla dopodiché, uno di questi, Tonino, un biondino sempre incazzato che correva tutto sbilenco ed era soprannominato Cerezo, s’incollò la sfera tra i piedi e ci fissò stringendo gli occhi. Uno sguardo a centottanta gradi. Duello a Chernobyl. Poi partì come un fulmine. Entrai a gamba tesa e lui mi saltò lasciandomi con la faccia nell’erba fradicia, si liberò di Caffiamari con un tunnel e poi di tutta la prima falange infilandosi in mezzo ai miei compagni con la sfera sempre incollata al piede. Il secondo schieramento, che presidiava l’area di porta, si disunì e gli andò incontro alla rinfusa. Cerezo caracollò sulla destra e ne fece fuori un paio, si liberò di un altro giocatore con una veronica e poi si buttò sulla sinistra e dribblò ciò che restava della nostra difesa a una velocità sbalorditiva. Gli restava soltanto il portiere davanti. Improvvisamente si bloccò nell’area piccola. Noi potevamo solo assistere a quell’impresa anormale. Cerezo avrebbe potuto scartarlo, aggirarlo, umiliarlo, farsi promettere di non sostare mai più sotto una traversa, e invece si bloccò e, battendosi un pugno sul petto, gli ordinò di levarsi dai piedi. Il nostro portiere era un ragazzo tranquillo, non si drogava, non beveva, prendeva tutti trenta all’università. Sollevò i guantoni in segno di resa e si spostò di lato, invitando Cerezo a fare nella sua porta il bello e il cattivo tempo. E Cerezo non sorrise nemmeno

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quella volta. Sparò una bordata a porta vuota e bucò la rete. Poi, senza degnare nessuno di uno sguardo, percorse tutta la nostra parte di campo a ritroso e fece ritorno tra i suoi. Uno a uno. Un paio di mesi dopo, al Mundial del Messico, Diego Maradona avrebbe cercato di emularlo.

Eravamo sbalorditi e non ci accorgemmo del raggio di sole che s’era aperto un varco tra le nubi radioattive. Ce lo fece notare l’arbitro, evidentemente stufo di assistere a fenomeni, miracoli, stravaganze, e di vedere il suo amichetto masturbarsi per un contatore geyger. Invece di fischiare la nostra battuta a metà campo, rimase a fissare il cielo grattandosi i capelli ricci. Uno alla volta, sollevammo il capo e, incantati, cercammo di seguire il suo sguardo. Dove andava a finire? Oltre il pozzo di Chernobyl, c’era uno spiraglio blu. Gli animi si placarono e l’effetto radio svanì come d’incanto. Quando riposò gli occhi sul suo cronografo, ebbe come uno spasmo, chiamò a gran voce Scienza ai bordi del campo e gli chiese un aggiornamento sulle radiazioni. “Adesso me lo chiedi?” ripeté l’altro. L’arbitro lo mandò a quel paese, quindi si portò il fischietto alla bocca e dichiarò chiuso l’incontro con qualche minuto d’anticipo. Uno a uno. Fine di una vendetta malriuscita. Alcuni rimasero in campo ad analizzare le diverse fasi di una partita fuori dal comune, altri andarono a cambiarsi negli spogliatoi. Sdraiato nel cerchio di metà campo, Caffiamari s’era acceso una sigaretta e creava anelli di fumo inspirando a bocca aperta. Poco più avanti, all’incirca nello stesso punto da cui avevo scoccato quella rasoiata micidiale, sostava il suo pallone. Mi avvicinai a Caffiamari, lo oltrepassai con un salto e mi diressi verso la palla. Lei stava lì, ferma come la porta laggiù in fondo. Tirai il fiato e caricai il sinistro belluino. Carne, ossa, muscoli e nervi, tutto dentro, veloce e potente. Me lo vedevo già, un missile terra-aria dall’impatto tremendo. Sfracelli. L’avrei fatta a pezzettini, quella rete

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maledetta. La presi bene, di collo pieno e poi mi bloccai per assistere alla ripetizione di un capolavoro. Il pallone s’impennò, come un cross qualunque, una parabola precisa che rimbalzò fuori dall’area e poi scivolò lentamente fin sul dischetto del rigore, dove si arrestò e lì rimase, come incollata al terreno. “Che noia!” sbadigliò Caffiamari, issandosi sui gomiti. “Ci vorrebbe qualcosa da bere.” Mentre stavamo per uscire, affiancammo Scienza che con il suo attrezzo continuava a seguire il perimetro del campo. Stava canticchiando una vecchia canzone elettronica. Caffiamari mi toccò il fianco con il gomito. Immaginavo quello che stava per dirmi: il tizio è suonato forte. Invece, con il pollice fece segno dietro le spalle. “Il mio pallone è ancora laggiù, fenomeno.” Radioactivity, is in the air for you and me. Radioactivity, discovered by Madame Curie…

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