Il Grido Del Cielo

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  • Words: 81,499
  • Pages: 256
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13 L’uomo e il tempo

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Jacques Doukhan

IL GRIDO DEL CIELO Studio profetico dell’Apocalisse di Giovanni

Edizioni ADV

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Titolo originale dell’opera: Le cri du ciel Traduzione dal francese: Raffaele Battista Redazione: Giuseppe Marrazzo Progetto grafico e grafica di copertina: Valeria Cesarale Impaginazione: Enza Laterza

Prima edizione: 2001 Prima ristampa: 2001 Seconda ristampa: 2004

Copyright originale: © 1996 by Editions Vie et Santé, Dammarie-lès-Lys (France)

I testi biblici citati sono tratti da La Sacra Bibbia, versione Nuova Riveduta, @1994 Società Biblica di Ginevra, CH 1211 Ginevra (Svizzera)

ISBN: 88-7659-113-3

Per l’edizione italiana: © 2004 tutti i diritti riservati alle Edizioni ADV dell’Ente Patrimoniale U.I.C.C.A. via Chiantigana 30, Falciani, 50023 Impruneta FI.

La riproduzione in qualsiasi forma, intera o parziale, è vietata in italiano e in ogni altra lingua. I diritti sono riservati in tutto il mondo.

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A Lilianne, mia moglie

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«Il SIGNORE avanzerà come un eroe, ecciterà il suo ardore come un guerriero; manderà un grido, un grido tremendo, trionferà sui suoi nemici! Per lungo tempo ho taciuto, me ne sono stato tranquillo, mi sono trattenuto; ora griderò come una che sta per partorire, respirerò affannosamente e sbufferò a un tempo» Isaia 42:13,14

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Prefazione

I folli dell’Apocalisse

«Non ho mai conosciuto una persona che, avendo intrapreso lo studio delle profezie o scritto sull’argomento, non sia in seguito diventata folle» William Ramsey «Il fatto di non essersi mai occupati dell’Apocalisse è segno di un buon equilibrio mentale» Johann G. von Herder «L’Apocalisse: o trova dei pazzi o li fa diventare» Anonimo

I pazzi che si radunano intorno al libro dell’Apocalisse sono legioni. E non sono mai stati tanti come in questi ultimi anni. Nel dopoguerra, con il ricordo pesante dell’Olocausto e di Hiroshima, e ora, assillati dal timore del disastro ecologico, dall’epidemia dell’Aids e dell’esplosione demografica, il riferimento all’Apocalisse è diventato drammaticamente comune. Non solo nell’ambito delle scienze religiose,1 ma anche nella lette-

1 Nell’ambito

degli studi biblici, si trovano, in modo particolare in lingua francese, queste opere: J. Ellul, L’Apocalypse, architecture en mouvement, Parigi, 1975; J. Duvernoy, L’Apocalypse a déjà commencé, Neuchâtel, 1980; J. Lambrecht e AA, L’Apocalypse johannique dans le NT, Louvain, 1980; D. Mollat, Une lecture pour aujourd’hui: l’Apocalypse, Parigi, 1982; E. Corsini, L’Apocalypse maintenant, Parigi, 1984; J.Marshal, L’Apocalypse de Jean, un message pour notre temps, Parigi, 1987; P. Prigent, L’Apocalypse de Saint Jean, Ginevra, 1988; J. de Pousseur, R. Montalembert, Le cri de l’Apocalypse, Parigi, 1990; J.P. Charlier, Comprendre l’Apocalypse, Parigi, 1991; J.P. Prevost, Pour lire l’Apocalypse, Parigi, 1991; C. Tresmontant, L’Apocalypse de Jean, Parigi, 1993; J. Grosjean, Lecture de l’Apocalypse, Parigi, 1994; H. Linsey, The late great planet earth, 1980. Best seller degli ultimi anni, più di quindici milioni di copie vendute, a cui farà seguito, Countdown to Armageddon, 1980.

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ratura2, nel cinema,3 nella musica4 e nella pittura,5 una vera e propria «febbre» apocalittica ha contagiato molti, a testimonianza delle angosce e delle nevrosi dei nostri contemporanei. In prossimità dell’anno 2000 e con l’entrata nel terzo millennio, la tendenza aumenta. Negli anni Ottanta si è verificata una vera esplosione dei temi apocalittici.6 E non si tratta affatto di un tema astratto, con il solo scopo di distrarci o al massimo ispirarci. In uno scenario autentico, dei veri pazzi si sono fatti avanti per diventare gli attori del dramma Apocalisse. Negli Stati Uniti, il ricordo di David Koresh è ancora molto vivo. Attraverso il ricorso ossessivo all’Apocalisse, libro di cui

2 Nell’ambito

letterario si contano alcuni romanzi di grande successo. Il nome della Rosa, di U. Eco (1980); Les bouffons de Dieu, di M. West (1982); La colère de l’agneau, di G. Hocquenghem (1985); saggi come: Années d’Apocalypse (1980-2030), di J.M. Leduc (1980); 1984, L’Apocalypse, di P.J. Moatti (1981); L’Apocalypse, un message pour notre temps, di J. Maarchal (1987); il recente, Il viendra di J. Attali (1995). 3 Nel campo cinematografico sono apparsi sugli schermi film d’ispirazione apocalittica: Apocalypse Now (1979), Le jour de la fin du monde (1980), Armagheddon, (1999), End of Days, (1999). 4 La musica è probabilmente il campo nel quale l’Apocalisse ha influito maggiormente, citiamo per esempio: O. Messiaen, Quatuor pour la fin des temps (1941), Couleurs de la cité célèste (1963), Des canyons aux étoiles (1974) D.Maxwell, Apocalypse et chute (1980); I Mareo, Apocalypse sinphonique (1982), B. Matuszczak, Apocalypse, (1985); O.S. Joachim, Apocalypse et apothèose (1989); S. Wellman, Simphonie d’Apocalypse (1980); R.M. Schafer, Apocalypse (1986); W. Josephus, Les quatre chevaux de l’Apocalypse (1980). 5 Nella pittura, gli anni ’80 hanno visto manifestazioni tra cui emerge quella tenuta al New museum of Contemporary Art, dal titolo: La fine del mondo, visioni contemporanee dell’Apocalisse (1983-1984). Tra i pittori citiamo J. Foret (1961) e i suoi collaboratori, S. Dalì, O. Zadkine, B. Buffet, A. Kiefer, M. Paladino. La pittura israeliana merita una citazione. L’esposizione della primavera 1992, dedicata alla fine dei tempi e all’Apocalisse, presso la galleria d’arte di G. Shreiber, all’università di Tel Aviv è significativa. Inoltre, le opere di D. Y’acoby (1989-1990), Y. Parbuchrai (1991), T. Geva (1991). 6 J.P. Prevost, Pour lire l’Apocalypse, 1991, p. 7; cfr. B. Mc. Ginn, Apocalyptic Spirituality, Londra, 1980, p. 141; cfr. T.K. Freiman, Postscripts, p. 157: «A mano a mano che il mondo si avvicina al terzo millennio, a partire dagli anni ottanta, i riferimenti alla fine del mondo si fanno sempre più frequenti».

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I folli dell’Apocalisse

conosceva interi brani a memoria, Vernon Howell, alias David Koresh, si fece prima riconoscere quale messia e Dio, in seguito, reclamò diritti coniugali su tutte le donne del suo gruppo (sposate o meno, giovani o meno giovani). Dopo aver accumulato un enorme arsenale, trasformò la sua casa in un fortino, nel quale attendere la fine del mondo e ingaggiò un estenuante combattimento con i reparti speciali della polizia che lo assediavano, per una durata di cinquanta giorni. I deliranti discorsi e gli atti irresponsabili del leader, resero difficili i negoziati. Alla fine, nell’inevitabile scontro finale, il 19 aprile 1993, condusse alla morte più di un centinaio di persone, tra cui numerosi bambini. Un folle martirio che sconvolse il mondo intero. Una tragedia simile colpirà, non molto tempo dopo, il Giappone. Questa volta, il messia in questione si chiama Shoko Asahara e si presenterà come un guru intriso di spiritualità buddista e induista. La setta era apparsa, sulle prime, come un’innocente scuola di yoga, ma in seguito, si rivelò come una fanatica comunità apocalittica che attendeva la fine del mondo prevista per l’anno 1997. Nel libro, Il disastro si avvicina al paese del sol levante (1995), Asahara annuncia la venuta di Harmaghedon, nella forma di un gas micidiale proveniente dagli Stati Uniti, risultato di un complotto giudaico-massonico. Come David Koresh, il guru dominava sui suoi discepoli, spingendoli, nello stesso tempo, a commettere ogni sorta di crimine. L’attentato alla metropolitana di Tokyo del 20 marzo 1995, porta la loro firma. Un gas mortale, il sarino, prodotto dai nazisti per lo sterminio di massa, venne liberato in cinque punti strategici del percorso metropolitano durante l’ora di punta. Il bilancio delle vittime salì a una decina di morti, mentre gl’intossicati si contarono a migliaia. Secondo il rapporto della polizia giapponese, nel covo della setta fu ritrovato materiale capace di sterminare cinque milioni di individui. Più vicino a noi, in Svizzera, nella zona di Friburgo e nel Valais, il 17 ottobre 1994, le cittadine di Chairy e di Grangessur-Salvan sono state ugualmente sconvolte. L’incendio nel quale sono morte più di cinquanta persone, tra cui molti bambini, testimonia di questa nuova follia, frutto malato della setta del Tempio solare. Il suo capo, il medico omeopata Luc Jouret, era ossessionato dalla fine del mondo e predicava l’Apocalisse 11

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in modo distorto. All’interno della sua proprietà furono rinvenuti numerosi cadaveri vestiti con tuniche bianche, rosse e nere, disposti in cerchio e giustiziati con un colpo di pistola alla nuca. Non è certo se si può parlare di suicidio collettivo o di strage. Forse si trattò di tutti e due. La polizia scoprì, anche in questo caso, un arsenale assai nutrito, messo insieme in vista di una fantomatica battaglia finale. L’anno seguente, il 23 dicembre 1995, lo stesso orrore colpì la Francia. Nei dintorni di Grenoble, nelle vicinanze del paesino di Pierre-de-Chérennes, una quindicina di adepti della setta del Tempio solare, tra cui alcuni bambini, furono trovati uccisi nelle stesse drammatiche circostanze. Questi tre eventi7 sono sintomatici del disagio che pervade la nostra civiltà. L’analisi del fenomeno rivela un certo numero di fattori comuni: 1. Presenza di un profeta-messia-Dio carismatico che pretende di avere il monopolio della verità fino ad attuare una forma di plagio su tutti i suoi discepoli, disposti a tutto pur di piacere al maestro. 2. Rigetto del sistema politico-sociale e diffidenza verso tutto ciò che non rientra nello schema ideologico del gruppo. Questo ha come conseguenza una vita comunitaria chiusa a ogni influenza esterna, percepita come malvagia. Contro una realtà mondana radicalmente negativa, in casi estremi si ricorre al crimine, gesto punitivo anticipatore del giudizio finale. 3. Focalizzazione del messaggio su temi apocalittici che annullano ogni riflessione sull’uomo, la ragione, l’etica e l’amore cristiano. 4. Ansia di vedere compiute le profezie apocalittiche, subito, qui e ora. Urgenza che spinge gli adepti delle sette dell’Apocalisse,8 a diventare gli attori del dramma, tanto da eseguirne le sentenze.

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Tornano alla memoria gli avvenimenti della Guyane del 1978, quando oltre novecento persone si avvelenarono per ordine del loro guru, Jim Jones. 8 L’espressione appartiene al sociologo americano J.R. Hall (in: «The Apocalypse at Jonestown», tratto da: Violence and Religious Commitment, Ken Levi ed., The Pennsylvania State University Press, 1982, p. 37). L’autore osserva il paradosso seguente: diventando attori degli avvenimenti apocalittici, gli adepti delle sette stabiliscono il regno dei cieli sulla terra, superando e trascendendo l’Apocalisse stessa.

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I folli dell’Apocalisse

Talvolta questi caratteri sono presenti nello stesso individuo che vive completamente chiuso in se stesso, ma nello stesso tempo è profeta e setta. Notiamo, quindi, come il fenomeno appare trasversalmente in tutte le tradizioni religiose. Lo si può rilevare in ambienti cristiani, ma anche in misura variabile, in quelli giudaici,9 musulmani,10 nelle religioni orientali11 e nel New Age;12 infine, paradossalmente, anche in gruppi politici estremisti neonazisti.13 Da McVeigh, autore dell’attentato di Oklahoma City fino a Ygal Amir, assassino di Yitzhak Rabin, passando da Koresh e Luc Jouret, corre un filo rosso apocalittico, distorto dall’umana follia. Nonostante alcune eccezioni presenti nella storia del cristianesimo,14 possiamo dire di trovarci davanti a un fenomeno

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Negli ambienti ebraici si osserva in modo particolare l’ascesa del movimento Chabad Loubavitch, con il suo maestro Rebbe, considerato il messia. L’accento apocalittico di questo movimento (che si trova in alcuni slogan del tipo «Vogliamo il messia ora!» e nell’appello rivolto ai fedeli di prepararsi alla sua venuta), il suo proselitismo acceso all’interno del giudaesimo (come la presenza negli aeroporti), le sue attività pedagogiche (la scuola elementare Kerem Menahem a Nizza e il liceo Haya Mouchka a Parigi) ne fanno il gruppo ebraico contemporaneo più dinamico. Sull’altro versante, vi sono gruppi d’estrema destra (Kahane Hay) che ispirano atti criminali e formulano appelli alla lotta a oltranza (il massacro di Hebron, le minacce alla moschea di Omar, l’omicidio di Yizhak Rabin). 10 Nel mondo islamico, ai margini di movimenti estremisti più noti e consistenti come i «Fratelli Musulmani» di Hamas e la Jihad, si muovono gruppi di estrema destra fascista come quello che fa capo al nero americano Farakhan, sedicente profeta di Dio, che sostiene di aver ricevuto delle visioni apocalittiche annunciatrici del prossimo sterminio dei bianchi e, soprattutto, degli ebrei. 11 Nell’ex Urss, a Kiev e a Mosca, notiamo le sette di Maria Devi Khristos, in Giappone, quella di Shoko Asahara. 12 Tra gli altri è il caso di Luc Jouret. 13 Confronta alcuni gruppi paramilitari americani (Arkansas Patriots, Aryan Nation, Michigan Militia, ecc.) partigiani votati a una Armagheddon razziale. Il fenomeno non è solo americano. Si riscontrano gruppi analoghi in Francia, Germania, Italia, Russia, tutti di estrazione neofascista e neonazista. 14 Pensiamo, per esempio, ai Taboriti di Boemia del XV secolo, o agli «esaltati» di Muntzer del XVI secolo.

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nuovo, tipico della nostra civiltà, che si sta ammalando di apocalittica. Si parla talvolta di paranoia.15 I casi si sono talmente moltiplicati da spingere alcuni ospedali psichiatrici a creare dei reparti specializzati in pazienti affetti dal «complesso del messia».16 Bisogna riconoscere che questo strano libro di cui San Gerolamo ha potuto dire che: «contiene tanti misteri quante parole»,17 sembra fare di tutto per portare il lettore alla confusione e al delirio. Con la sua sovrabbondanza d’immagini, di simboli, di tempeste e di violenza, l’Apocalisse si presta all’intensità dell’emozione e all’irrazionalità del pensiero. L’Apocalisse, quindi, non ha niente a che vedere con tutte quelle letture folli e allucinate di cui abbiamo parlato fin qui. I tragici malintesi sulle Scritture non sono un fatto nuovo. Galileo Galilei stesso, condannato a morte dai suoi contemporanei, i quali non avevano letto correttamente la Bibbia, ha predicato sulle Scritture, nonostante i pericoli e i fraintendimenti. Sì, nonostante tutto, l’Apocalisse è un’altra cosa!

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Cfr. J.G. Gager, «The Attainment of Millennial Bliss Through Myth: The Book of Revelation», in Visionaries and Their Apocalypses, P.D. Hansons ed., Fortress Press, 1983, p. 149. 16 Vedi, per esempio il centro di Kfar Shaulalla, periferia di Gerusalemme, diretto dal dottor Carlos Bar-El. In questi ultimi anni sono stati diagnosticati più di 470 casi, conosciuti come «sindrome di Gerusalemme». 17 «Tot verba, tot misteria», citato in P. Schaff, History of the Christian Church, Eerdmans, 1910, vol. 1, p. 826; cfr. M. Lutero: «Nessuno sa cosa c’è dentro» (ibidem).

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Introduzione

Il Dio che viene

L’Apocalisse e il libro di Daniele Il primo incontro con il nostro libro determina già una sfida che suscita la curiosità e stimola l’intelligenza. Il termine «apocalisse»18 ci avverte immediatamente che ci troveremo di fronte a un segreto da svelare. Nella lingua greca, apocalypto, significa proprio svelare un segreto. Nel libro di Daniele il verbo in questione, svolge un ruolo chiave tanto da apparire all’inizio della rivelazione profetica.19

18 La

parola «apocalisse» ha dato il nome a una vasta corrente letteraria all’interno della tradizione ebraica e cristiana e si applica a testi biblici e non. Per l’Antico Testamento, cfr. Daniele, Ezechia, Aggeo, Zaccaria e alcuni testi di Isaia. Per il Nuovo Testamento, Matteo 24, Marco 13; 1 Tessalonicesi 4:13-18; 2 Tessalonicesi 2:1-12; 1 Corinti 15:20-26,51-53. Al di fuori della Bibbia (apocrifi e pseudo epigrafici), notiamo tra gli scritti giudaici: 1 Enoch, 2 Enoch, 4 Esdra, 2 Baruch, l’Ascensione di Mosè, l’Apocalisse di Abramo, l’Apocalisse di Adamo, l’Apocalisse di Elia, il libro dei Giubilei, i Testamenti dei dodici patriachi, alcuni testi dei manoscritti del mar Morto. Tra gli scritti cristiani, ricordiamo l’Apocalisse di Pietro, l’Apocalisse di Paolo, l’Apocalisse d’Isaia, ecc. Per una lista completa delle opere denominate «apocalissi», cfr. J.P. Prevost, Pour lire l’Apocalypse, pp. 67,68. Per i testi dell’Apocalisse cfr. La Bible. Ecrits intertestamentaires, Bibliothèque de la Pléiade, A. Dupont-Sommer e M. Philonenko éditeurs, Paris, 1987. Bisogna notare che questa classificazione sulla base dell’Apocalisse, rimane spesso artificiale e arbitraria; in più, l’Apocalisse, presenta un certo numero di caratteri che la differenziano dagli altri scritti apocalittici (le sue caratteristiche profetiche, le sue valutazioni etiche, il suo ottimismo, il suo autore, identificabile e non uno pseudonimo preso in prestito a un illustre predecessore, ecc.). 19 Delle sette citazioni, sei si trovano all’inizio del libro (Daniele 2:19,22,28, 29,30,47; 10:1).

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Introduzione

L’eco di quel libro dell’Antico Testamento è udibile nell’Apocalisse, fin dall’inizio, così che, per comprenderla, il lettore dovrà tenere conto dei richiami che, a più riprese, verranno fatti al libro di Daniele. Per esempio, l’Apocalisse esordisce con una benedizione che si riferisce chiaramente a quella posta in chiusura del libro di Daniele: «Beato chi legge e beati quelli che ascoltano le parole di questa profezia e fanno tesoro delle cose che vi sono scritte, perché il tempo è vicino!» (Ap 1:3). Come nell’Apocalisse, l’espressione «beato chi...», del libro di Daniele, si riferisce alla prospettiva della speranza: «Beato chi aspetta e giunge a milletrecentotrentacinque giorni! Tu avviati verso la fine; tu ti riposerai e poi ti rialzerai per ricevere la tua parte di eredità alla fine dei tempi» (Dn 12:12,13).20 L’autore dell’Apocalisse, dunque, si colloca sulla linea e nel proseguimento della profezia di Daniele. Non soltanto a causa del titolo scelto, Apocalisse, ma anche per quel riferimento alla formula benedicente, alla beatitudine che accomuna i due libri e orienta la lettura della profezia di Giovanni. Il libro di Daniele è, dunque, il testo veterotestamentario più citato dall’Apocalisse.21 Molti sono i vocaboli in comune. Vi si trovano le stesse visioni, gli stessi temi e le stesse lezioni tipologiche, le quali si svolgono lungo il medesimo itinerario, gli stessi dati cronologici espressi, talvolta con parole esattamente utilizzate da Daniele. La prospettiva profetica copre lo stesso periodo storico, impartendo lezioni etiche analoghe. Infine, i due libri sono organizzati, da un punto di vista letterario, su uno schema che si definisce «chiastico».22

20

L’Apocalisse contiene sette beatitudini (1:3; 14:13; 16:15; 19:9; 20:6; 22:7,14) tutte ispirate dall’idea della venuta di Dio. 21 Cfr. H.B. Swete, The Apocalypse of St. John: The Greek Text whith introduction, Notes and Indices, 2 ed. Londres, 1907, p. clii. 22 Sui rapporti tra il libro di Daniele e l’Apocalisse, cfr. R. Lehmann, «Relationships Between Daniel and Revelation», in Symposium on Revelation - Book I, F.B. Holbrook ed., Biblical Research Institute, Silver Spring, MD, 1992, pp. 131-144. Cfr. J.P. Ruiz, Ezekiel in the Apocalypse: The transformation of Prophetic Language in Revelation 15,17-19,10, Frankfurt am Main, 1089; cfr. G.K. Beale, The Use of Daniel in Jewish Apocalyptic Literature and in Revelation of St. John, Lanham, MD, 1964.

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Il Dio che viene

Per il nostro studio è essenziale riconoscere, fin dall’inizio, lo stretto legame che unisce i due libri. Solo così potremo capire in che modo dobbiamo leggere l’Apocalisse e coglierne il senso profondo e oggettivo. Nella lettura del libro di Daniele sarà di sicuro aiuto il commentario Le soupir de la terre23 opera che raccomandiamo vivamente per seguire e apprezzare meglio gli echi che troverete in questo libro. È significativo come la beatitudine che introduce l’Apocalisse, analogamente a quella che conclude Daniele, venga trasportata dallo stesso vento di speranza e di attesa della venuta di Dio. L’apostolo Giovanni non si limita, comunque, a parlare di una beata attesa; egli descriverà il contenuto e la natura stessa di questa attesa. Essa è composta da tre esperienze: leggere, ascoltare e osservare. Innanzitutto troviamo un appello alla lettura. «Beato chi legge». Certo, potremo sbagliare e cucinare la nostra felicità con ingredienti diversi da quelli proposti da Dio. La scoperta della felicità implica una rivelazione. «Un segreto svelato», un’Apocalisse, appunto. Bisogna cominciare da questa convinzione. Senza questa fede non potremmo andare avanti nello studio e il nostro libro verrebbe ridotto a un’amalgama di suoni inutili. Il carattere della nostra lettura è eminentemente religioso. Da notare come il verbo «leggere» è il solo a essere coniugato al singolare: «Beato chi legge»; mentre gli altri due sono al plurale: «quelli che ascoltano... e fanno tesoro...». La lettura non è, tuttavia, di tipo soggettivo e privato. Letta da una sola persona, la profezia deve essere ascoltata e ricevuta da molti, secondo la pratica liturgica della sinagoga. Equivale a una immersione immediata nell’atmosfera sacra dell’assemblea, assorta nell’atto comunitario dell’adorazione. Il testo va letto, prima di tutto, come una liturgia; con tutto quello che ciò implica in termini d’esperienza emotiva e mistica, di poesia, ritmo, ma anche di simboli e lezioni spirituali. Questo carattere liturgico non ci deve, però, potare fuori strada. Queste parole sono chiaramente definite come una profezia. Il materiale, per quanto liturgico, non mira alla sola emozione religiosa. La verità di cui si occupa il libro è essenzial-

23 J.

Doukhan, Le soupir de la terre, Éditions Vie et Santé, Dammarie-lès-Lys, 1993.

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Introduzione

mente di ordine storico. Si parla di avvenimenti che dovranno accadere. L’Apocalisse non parla soltanto ai mistici o ai sentimentali della religione. Del resto, il suo messaggio valica i limiti stessi delle mura ecclesiastiche. La profezia non deve essere solo letta, ma anche ascoltata. Non si tratta di un puro esercizio cultuale. La parola profetica deve diventare l’oggetto di studio di chi la riceve. Dietro la parola «ascoltare» s’intravvede la concezione ebraica dello sforzo e della responsabilità di un intelletto che fatica a comprendere e che, nondimeno, ha il dovere di tradurre in atti concreti e vita vissuta, ciò che si è capito. Lo Shema Israel («Ascolta Israele» cfr. Dt 6:4-9) non deve essere inteso come una dolce melodia che culla e propizia emozioni sublimi. In ebraico, la parola ascoltare significa anche «osservare», «obbedire». In fondo, è quello che dice il seguito del versetto: «quelli che fanno tesoro delle cose che vi sono scritte». All’orizzonte di una lettura che risuona alle orecchie come una melodia, avendo presente le esigenze dell’intelligenza razionale, il lettore si accinge a vivere una vita nuova guidata da Dio. Perché ciò che determina la scelta e l’orientamento morale, non è un’opinione o una verità soggettiva, ma le «cose che vi sono scritte». È quella parola, proveniente dall’esterno, che deve dirigere il mio cammino. L’Apocalisse si definisce, altresì, come portatrice di verità assolute, di verità che esistono, mettendoci in guardia dalle interpretazioni personali e fantasiose; essa ci obbliga a cercare. Metodologia Nell’esordio del libro vengono immediatamente denunciati i possibili errori d’interpretazione. Come se l’autore, profeta anche a questo livello, avesse previsto i deliri e le deviazioni di alcuni futuri lettori. Egli sembra voler gettare, già nelle prime righe, le basi per una metodologia sana, una lettura corretta, intonata alle parole ispirate della rivelazione. Fin dal primo impatto con questo «strano» libro, l’Apocalisse indica l’atteggiamento con il quale dobbiamo avvicinarci al testo. Occorre, prima di tutto, un tipo di ascolto attento che riceve la parola e la sonda con rispetto. L’intelletto ricercherà, esigente, il senso del testo, collocato nel suo contesto storico e letterario, con attenzione particolare per il vocabolario tipico del 18

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Il Dio che viene

libro, la sua sintassi, la sua struttura, le fluttuazioni poetiche. In definitiva, la ricerca del pensiero dell’autore che si muove in una precisa epoca e società (approccio esegetico). Non dimentichiamo che siamo comunque di fronte a una lettura sacra che chiama i credenti a vibrare nell’adorazione, al ritmo dei simboli e delle lezioni spirituali che trascendono e orientano il tempo (approccio liturgico). Infine, il libro rappresenta un impegno a «ricordare», a vivere nella nostra carne ciò che abbiamo scoperto all’ascolto della parola (approccio esistenziale). Ma, l’ascolto della profezia non si limita all’esperienza religiosa del presente. La ragione fondamentale della «beatitudine» risiede nell’attesa di un avvenimento futuro: «perché il tempo è vicino». Struttura dell’Apocalisse Questa molteplicità di piani di lettura emerge dalla struttura stessa del libro che possiamo definire «a candelabro» (occorre pensare al candelabro ebraico a sette bracci; cfr. grafico p. 30). Questa struttura presenta le caratteristiche seguenti: 1. Essa si sviluppa in sette cicli simultanei e paralleli di sette visioni.24 In questo è simile alla struttura di Daniele,25 descrivendo anche qui, una curva di tipo chiastico (dalla lettera greca c «Chi», a forma di X). Schema in cui la seconda parte è in parallelo inverso con la prima (ABC/C’B’A’). 2. Con regolarità, nell’esordio di ciascuno dei sette cicli, la visione ritorna sull’atmosfera del tempio e volge sui toni liturgici segnati dal calendario delle feste religiose d’Israele, sulla base delle indicazioni presenti in Levitico 23. Ogni tappa profetica è posta nella prospettiva di una festa israelitica, rievocata anche all’interno del ciclo stesso.26 L’autore ci invita a una lettura che prende le mosse dalle feste d’Israele, i cui rituali sono

24A

partire da Beda il Venerabile, questa divisione dell’Apocalisse in sette visioni, è stata sostenuta da un gran numero di commentatori (cfr. R.J. Loenertzop, The Apocalypse of St. John, H.J. Carpenter trad., Sheed & Wand, London, 1947). 25 Cfr. Le soupir de la terre, op. cit., pp. 15,16. 26 Le feste giudaiche saranno indicate con il nome ebraico tradizionale: Shabbat (sabato), Pessah (Pasqua), Shavuoth (Pentecoste), Rosh hashanah (giorno dell’anno, festa delle trombe), Kippur (festa delle espiazioni), Succot (festa delle capanne/tabernacoli).

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utilizzati come una luce simbolica, capace di far emergere il senso profondo della storia umana. 3. Oltre a questo, come il libro di Daniele, anche l’Apocalisse si divide in due fasi (storico/terrestre ed escatologico/celeste) dove la parte centrale è rappresentata dal giudizio di Dio alla fine dei tempi e dalla venuta del «Figlio dell’uomo» (cfr. Dn 7:14).27 L’Apocalisse si presenta essenzialmente come una visione profetica che attraversa la storia, a partire dall’epoca dell’apostolo Giovanni fino alla venuta di Dio (prima parte). Piuttosto che decodificare l’Apocalisse come una semplice rappresentazione di fatti contemporanei all’autore (interpretazione preterista),28 è più corretto cercare d’interpretarla a partire dalla sua stessa prospettiva, cioè come una visione che predice avvenimenti storici che arrivano fino all’ultimo dei giorni (interpretazione della storia continua), con tutto ciò che questo implica in termini d’impegno e di fede (lettura esistenziale). Questa linea interpretativa «storico-profetica», non ha solo il merito di tener conto dell’intenzione dell’autore, ma anche quello di essere la più antica.29 Si può paragonare al «Bolero» di Ravel; gli stessi temi sono ripresi e intensificati in un crescendo inesorabile.30

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Cfr. Le soupir del la terre, op. cit., pp. 15,141.

28 Questa interpretazione viene esposta per la prima volta negli scritti del gesuita spa-

gnolo Luis de Alcazar (1554-1614). In reazione ai riformatori che applicavano la profezia al papato, il teologo gesuita l’applicò al giudaismo e alla Roma pagana dell’epoca di Giovanni. Queste vedute, che trovarono un terreno propizio nel razionalismo tedesco del XIX secolo, arrivarono fino a noi nelle interpretazioni storico-critiche. 29 Essa è già attestata presso Ireneo di Lione (130-202). Nato dopo alcuni anni dall’apparizione dell’Apocalisse, questo padre della chiesa sarebbe stato discepolo di Policarpo, un martire che avrebbe conosciuto Giovanni personalmente (cfr. Eusebio, Historia Ecclesiastica, 5.20.6, NPF 1.238,239). Caduta in disuso nel corso del medioevo, dove prevalevano le interpretazioni allegoriche, spiritualeggianti e morali, grazie all’opera di Ippolito ed Origene, essa sarebbe riapparsa nel sedicesimo secolo, a opera dei riformatori, fedeli alla lettera delle Scritture. 30 Cfr. J. Lambrecht, secondo il quale «ricapitolazione e progressione» sono le caratteristiche essenziali della struttura dell’Apocalisse: «A Structuration of Revelation 4,1-22,5», in L’Apocalypse johannique et l’Apocalyptique dans le Nouveau Testament, Gembloux, 1980, p. 103.

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Giovanni segue il modello degli antichi autori ebrei che scrivevano le loro profezie secondo le regole del parallelismo proprio alla poesia ebraica (cfr. Dn capp. 2,7,8). L’interpretazione delle visioni deve tener conto di questo tipo particolare di scrittura poetica che ripete e intensifica lo stesso tema (interpretazione ricapitolista). Va da sé che questa interpretazione esclude la lettura lineare e cronologica che pone gli avvenimenti dei suggelli dopo quelli delle lettere, quelli delle trombe dopo quelli dei suggelli, e così via (interpretazione futurista e dispensazionalista).31 Giovanni Contrariamente a tutti gli altri scritti apocalittici, il libro in questione, non è uno pseudoepigrafico che cerca credibilità attribuendosi la paternità di un antico eroe. L’autore è vivo e vegeto, ben inserito nelle vicende della sua epoca. Si tratta di qualcuno che «ha visto» (Ap 1:2), un uomo come noi, «vostro fratello», (v. 9), che condivide le stesse sofferenze. Questo Giovanni, dall’ebraico yohanan (la grazia di YHWH), è probabilmente lo stesso Giovanni autore del vangelo,32 figlio di Zebedeo e fratello di Giacomo,33 il discepolo che Gesù amava.34 Le tradizioni più antiche sono unanimi al riguardo.35

31

Questa interpretazione, difesa per la prima volta dal gesuita spagnolo Francisco Ribera (1537-1591) sarà sviluppata nel sistema cosiddetto «dispensazionalista» rappresentato, soprattutto, dalla Bibbia di Scofield. Secondo queste vedute, l’Apocalisse si applica, per la maggior parte (capp. 4-22) al lontano avvenire della fine dei tempi. 32 L’Apocalisse e il vangelo di Giovanni mostrano un gran numero di assonanze. Sono i soli due libri neotestamentari a parlare del Logos (Gv 1:1; Ap 19:13). Entrambi impiegano l’immagine dell’agnello e dell’acqua della vita. Alcune espressioni sono comuni: certo, vero, vincere, osservare i comandamenti, testimonianza, ecc. La stessa maniera di pensare (contrasto tra il bene e il male, assoluti), il medesimo interesse liturgico. 33 Matteo 4:21. 34 Giovanni 20:2; 21:7,20. 35 Cfr. Giustino Martire (110-165) in Dial. Triph. 81:4 e Ireneo (120-202) in Adv. Haereses IV, 17,6. Clemente d’Alessandria (153-217), Tertulliano (145-220), Origene (185-254), Ippolito (170-236) hanno conservato la stessa tradizione.

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Policarpo, vescovo di Smirne (martire nel 155 o nel 177), attesta che Giovanni dell’omonimo vangelo, passò molti anni a Efeso, la qual cosa spiega l’attenzione particolare dell’autore per le chiese d’Efeso e dell’Asia.36 Un Giovanni reale di cui si conosce la storia e le storie. Giovanni si trovava, in quell’epoca, in un luogo preciso, una piccola isola lunga 84 chilometri e larga tre. Intorno, il mar Egeo come unica vista possibile (la parola thalassa, mare, è utilizzata 25 volte nell’Apocalisse). Secondo la tradizione, Giovanni vi sarebbe stato esiliato da Domiziano, il primo imperatore (81-96) ad aver preso veramente sul serio la propria divinità, tanto da esigere l’adorazione di Cesare. Questo imperatore ce l’aveva a morte con gli ebrei e con i cristiani, cioè con quelli che lui chiamava «razza di atei». Secondo Girolamo,37 Giovanni sarebbe stato deportato quattordici anni dopo la persecuzione di Nerone, cioè nel 94 della nostra era, e riacquistò la libertà nel 96, alla morte di Domiziano. Questo genere di pena veniva inflitta dai romani a quelle personalità politiche di cui si voleva neutralizzare l’influenza. Il deportato perdeva i diritti civili e le proprietà, diventando un apolide. Lo scrittore dell’Apocalisse è, dunque, uno sradicato, tagliato fuori da tutto, dal suo passato, dalla sua famiglia, dai suoi amici, dalla sua terra. Questo tipo di uomo testimonierà della sua attesa di Dio, scriverà l’Apocalisse verso l’anno 96. La nostalgia per la patria e il confronto quotidiano con lo straniero oppressore fa di Giovanni un giudeo ancora più tale di quelli rimasti nella propria terra. In modo significativo, il suo libro è quello del Nuovo Testamento che cita maggiormente l’Antico e che pulsa al ritmo della feste ebraiche e delle sue istituzioni.38 Le allusioni alle Scritture sono circa duemila, di cui quattrocento sono implicite, mentre una novantina sono assolutamente letterali e riguardano il Pentateuco e i profeti.

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Policarpo, Epistle to Victor and the Roman Church Concerning the Day of Keeping the Passover, ANF, vol. 8, p. 773. 37 Girolamo, De vir. illus. IX. 38 A. Feuillet vede nell’Apocalisse «una rilettura dell’Antico Testamento alla luce dell’avvenimento cristiano» (L’Apocalypse, p. 65).

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Un dato interessante è costituito dalla maggiore fedeltà dell’Apocalisse all’originale ebraico, maggiore addirittura della versione dei Settanta39. Lo studioso Renan osserva che: «la lingua dell’Apocalisse ricalca l’ebraico, è pensata in ebraico e non può essere compresa che da coloro che conoscono l’ebraico»40. Questo carattere particolare dell’Apocalisse aggiunge, agli altri già menzionati, il dovere di tener conto delle radici e della sua prospettiva, entrambe, profondamente ebraiche. Per comprederla, bisogna leggerla alla luce dell’Antico Testamento. E, questa sarà una delle preoccupazioni maggiori dello studio presente. Per cercare di scoprire l’intenzione dell’autore, i testi dell’Antico Testamento ai quali l’Apocalisse si riferisce o fa allusione, devono essere decodificati e analizzati a partire dal loro contesto. In altre parole, l’esegesi dell’Apocalisse passa spesso da quella veterotestamentaria. Dio Dalle prime righe scritte, nel suo stesso saluto, l’autore radica la sua parola profetica nella persona di Dio, così come è rivelata nell’Antico Testamento: «da colui che è, che era e che viene» (Ap 1:4). La frase ricorda la definizione che il Dio dell’esodo aveva dato di se stesso, nel rivelarsi a Mosè (Es 3:14): «Io sono colui che sono». Il Dio d’Israele si presenta come colui che non può essere racchiuso in nessuna definizione teologica, il vero Dio, il Dio che esiste veramente già qui, ora, nella nostra vita. Il Dio presente che si sperimenta nella nostra vita quotidiana è lo stesso che ha parlato in passato. Questa è la lezione contenuta nel secondo verbo, «colui che era». Il Dio del ricordo, il Dio delle nostre radici, è il Dio d’Abramo, d’Isacco e di Giacobbe. Giovanni, a questo punto ci dice che, Dio che «è» presente, che «era» nel passato, «sarà» ben più che un Dio «futuro». Curiosamente, Giovanni, invece di usare il verbo essere, quan-

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P. Prigent, L’Apocalypse de saint Jean, Lausanne, Paris, 1981, p. 19. Renan, L’Antéchrist, Paris, 1873, p. xxxi. Questo fatto spiega il carattere particolare del greco dell’Apocalisse, che comporta un gran numero d’irregolarità grammaticali e sintattiche, tanto più che l’esiliato di Patmos non disponeva, in quel momento, di un segretario, al contrario della stesura del suo vangelo. 40 E.

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do parla del Dio del futuro, egli cambia espressione verbale. Dal verbo essere (coniugato al presente e al passato) passa al verbo «venire». Certo, Dio esiste in sé, esiste ed è esistito con noi e per noi, ma alla fine, resta confinato lassù. A discapito di quello che sappiamo di lui e di quello che ha compiuto nella storia umana, egli resta, comunque, «altrove», non è ancora venuto. Il futuro è più ricco del presente e del passato. Solo l’avvenire, contiene la promessa della venuta di Dio. Più che il Dio delle radici, della tradizione, del ricordo, dell’esistenza, del quotidiano, dell’esperienza spirituale, Dio è il Dio che viene. Inoltre, affinché il messaggio della speranza porti con sé una convinzione profonda, l’esordio del libro si arricchisce del riferimento allo Spirito che dimora «davanti al suo trono» (Ap 1:4). La parola profetica non è l’opera di un cartomante nebuloso o di un futurologo ambiguo. Essa è certa perché proviene direttamente dal trono di Dio, cioè dal giudice sovrano di tutto l’universo che conosce ogni cosa. Quando il profeta Isaia menziona i sette Spiriti che sarebbero scesi sul Messia, evidenzia la giustizia e la lucidità del giudizio che conduce al Regno dei cieli: «Respirerà come profumo il timore del SIGNORE, non giudicherà dall’apparenza, non darà sentenze stando al sentito dire, ma giudicherà i poveri con giustizia, pronuncerà sentenze eque per gli umili del paese. Colpirà il paese con la verga della sua bocca, e con il soffio delle sue labbra farà morire l’empio. La giustizia sarà la cintura delle sue reni e la fedeltà la cintura dei suoi fianchi. Il lupo abiterà con l’agnello, e il leopardo si sdraierà accanto al capretto; il vitello, il leoncello e il bestiame ingrassato staranno assieme, e un bambino li condurrà. La mucca pascolerà con l’orsa, i loro piccoli si sdraieranno assieme, e il leone mangerà il foraggio come il bue. Il lattante giocherà sul nido della vipera, e il bambino divezzato stenderà la mano nella buca del serpente. Non si farà né male né danno su tutto il mio monte santo, poiché la conoscenza del SIGNORE riempirà la terra, come le acque coprono il fondo del mare» (Is 11:3-9). Grazie alla pienezza dello Spirito che viene dall’alto, tutti i segreti saranno svelati in vista della salvezza e del giudizio del mondo. Il libro si qualifica ancora una volta come apocalittico. In seguito, la penna si fa più gravida, il tono diventa più sen24

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tito e intimo: «... e da Gesù Cristo» (Ap 1:5). Questa è la parte che attira maggiormente l’attenzione. Quest’ultimo titolo cristologico è il più lungo di tutti e comprende tre attributi (testimone fedele, primogenito dei morti, principe dei re della terra) che si manifesteranno successivamente attraverso tre azioni descritte nel prosieguo del passo biblico «A lui che ci ama, e ci ha liberati... che ha fatto di noi un regno» (v. 5). L’elenco dei titoli di Gesù Cristo, descrivono, in effetti, le tre grandi tappe della sua opera salvifica: 1. L’incarnazione che lo rende testimone di Dio tra noi. 2. La morte e la risurrezione, nostra salvezza e promessa di vita eterna. 3. La sua regalità, garanzia della nostra cittadinanza nel regno di Dio. L’apostolo Paolo, nel quadro della sua riflessione sulla risurrezione, descrive il medesimo itinerario in tre tappe: «Ma ora Cristo è stato risuscitato dai morti, primizia di quelli che sono morti. Infatti, poiché per mezzo di un uomo è venuta la morte, così anche per mezzo di un uomo è venuta la risurrezione dei morti. Poiché, come tutti muoiono in Adamo, così anche in Cristo sarannno tutti vivificati; ma ciascuno al suo turno: Cristo, la primizia; poi quelli che sono di Cristo, alla sua venuta; poi verrà la fine, quando consegnerà il regno nelle mani di Dio Padre, dopo che avrà ridotto al nulla ogni principato, ogni potestà e ogni potenza. Poiché bisogna ch’egli regni finché abbia messo tutti i suoi nemici sotto i suoi piedi» (1 Cor 15:20-25). Si tratta dello stesso schema sviluppato dall’apostolo Pietro nel suo discorso della Pentecoste (cfr. At 2:22-25; 7:56). L’Apocalisse pone a preludio della profezia, il piano della salvezza, come è stato compreso dai primi cristiani. Il Dio che viene non è altri che Gesù Cristo stesso. L’attenzione sulla sua persona s’impone. La profezia non riguarda soltanto la buona notizia della nostra liberazione e della felicità della vita eterna. Non è solo un avvenimento che aspettiamo, ma prima di tutto, una persona che amiamo, conosciamo e dalla quale siamo amati e conosciuti. Questo rende l’attesa ancora più intensa e sicura. La prima profezia del libro riguarda proprio la sua venuta. Gesù è visto allo stesso modo in cui Daniele vide la venuta del Figlio dell’uomo: «... sulle nuvole» (Dn 7:13; cfr. Ap 1:7). 25

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L’espressione sorprende e più di una persona ha sentito la tentazione di sorridere o di scherzare su questo Gesù... paracadutista. Molti, hanno cercato di attutire l’effetto di queste parole, spiritualizzandole. Saremmo di fronte, quindi, a una semplice immagine che indica la discesa di Cristo nel cuore dell’uomo. Più sbrigativi, altri, hanno relegato la profezia nell’ambito dei miti. Ma, l’intenzione dell’autore è chiaramente un’altra: «... ogni occhio lo vedrà... anche quelli che lo trafissero» (Ap 1:7). Il testo riprende una profezia di Zaccaria: «... essi guarderanno a me, a colui che essi hanno trafitto, e ne faranno cordoglio come si fa cordoglio per un figlio unico, e lo piangeranno amaramente come si piange amaramente un primogenito. In quel giorno ci sarà un gran lutto in Gerusalemme, pari al lutto di Adadrimmon nella valle di Meghiddo» (12:10,11). Di fronte a un regno di sacerdoti «liberati (...) con il suo sangue» (Ap 1:5,6), Giovanni descrive lo scenario di «tutte le tribù della terra» che si lamentano e sono confuse davanti alla realtà della venuta di Dio (v. 7). In una successiva profezia, egli descriverà negli stessi termini, il dolore e i lamenti dei seguaci di Babilonia, nel vedere la sconfitta del loro dio, alla venuta del Signore (cap. 18; 16:12-16). Il nemico di Dio è sorpreso da un simile epilogo, che non aveva previsto e che aveva fatto di tutto per impedire. Il Signore sorprenderà prima di tutto coloro che hanno partecipato alla sua morte, coloro che l’hanno crocifisso. Certo, tornano subito alla mente i funzionari romani, troppo solerti nel conficcare i chiodi e nell’assistere alla sua morte, verificandola fino in fondo. Ma, tornano alla memoria tutti coloro che in un modo o in un altro, parteciparono alla sua crocifissione. Quei sacerdoti gelosi della sua popolarità, i discepoli vigliacchi che lo rinnegarono, che tacquero o fuggirono; e infine quella folla immensa di uomini e donne che, nei secoli, hanno continuato a crocifiggerlo con le loro trasgressioni (cfr. Is 53). Si pensa anche ai miscredenti, a coloro che ci ridono sopra e che non si convinceranno mai. Ecco la prova per eccellenza, assoluta e irrefutabile: essi lo vedranno. Ancora una volta la risposta liturgica risuona per confermare l’adempimento della promessa: «Sì. Amen!» (Ap 1:7). Sembra, quasi, che la frase sia pronunciata da colui che sta per appari26

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re; è lui che dirà subito dopo: «Io sono l’alfa e l’omega dice il Signore Dio, “colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente”» (1:8). I nomi che definiscono Dio, in questi passi, sono gravidi della stessa promessa. Prima di tutto si parla del Signore Dio, YHWH Elohim della creazione, dell’inizio della storia, ma anche della fine della storia; l’alfa e l’omega (la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto greco). Colui che è, che era e, soprattutto colui che viene, l’Onnipotente, El Shadai. Questo nome rappresenta l’appellativo più antico della tradizione ebraica. Il Dio dei patriarchi, ma anche quello più carico di promesse e di benedizioni.41 Shabbat Ora, questa visione del Dio che viene, Giovanni la riceve proprio «nel giorno del Signore» (v. 10). I cristiani che leggono questo testo pensano istintivamente alla domenica. Dimenticano, però, che è un ebreo che scrive, nutrito delle Scritture ebraiche e ben radicato nella religione dei suoi padri. Oltre a ciò, l’espressione «giorno del Signore» riferito alla domenica s’incontra solo a partire dalla fine del II secolo, e anche lì, si presenta eccezionalmente, negli scritti dell’epoca, lasciando spazio a larghe controversie.42 È assai più ragionevole pensare che il giorno del Signore di cui parla Giovanni, si riferisca al sabato, chiamato, appunto, «giorno del Signore» (o giorno di Adonai) nelle Scritture ebraiche.43 D’altra parte, il ricorrere costante nell’Apocalisse, del numero 7 rende assolutamente verosimile il riferimento al sabato, settimo giorno, in apertura della profezia, come in una sorta di intonazione. Questa interpretazione si giustifica, infine, per il fatto che il sabato introduce il ciclo delle feste giudaiche che strutturano il libro intero dell’Apocalisse. Troviamo la lista nel Levitico al

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Genesi 17:1; 28:3; 35:11; Giobbe 22:17,18; 29:5; ecc. In effetti, tra gli scritti dell’epoca, solo l’apocrifo: «Il Vangelo di Pietro» (35 e 50) applica questa espressione alla domenica. Cfr. S. Bacchiocchi, From Sabbath to Sunday, Roma, 1977, p. 118. 43 Il nome Adonai, «Signore» è la lettura tradizionale del nome di Dio YHWH, generalmente reso con «SIGNORE» (Es 20:10; Lv 23:3; Dt 5:14). 42

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capitolo 23: «Si lavorerà sei giorni; ma il settimo giorno è sabato, giorno di completo riposo e di santa convocazione. Non farete in esso nessun lavoro; è un riposo consacrato al SIGNORE in tutti i luoghi dove abiterete» (v. 3). Secondo la tradizione biblica, il sabato è il primo giorno di festa con Dio, celebrata dall’uomo e dalla donna (cfr. Gn 2:1-3) è anche il solo giorno la cui istituzione risale prima della promulgazione della legge sul Sinai (cfr. Es 16:23,29); è il solo giorno la cui osservanza non dipende né dalle stagioni né dagli astri; neppure, in definitiva, dalla storia umana. Dunque, è naturale che si cominci proprio da lì. Probabilmente, Giovanni si riferisce anche a un altro «giorno del Signore», allo yom Yahweh dei profeti biblici, che designa, nell’Antico Testamento, il giorno del giudizio di Dio e della sua venuta alla fine della storia umana.44 Come nel Nuovo Testamento45 e nella letteratura giudaica46 a lui contemporanea, l’espressione «giorno del Signore» si applica alla parusia di Cristo o alla venuta del Messia. Il contesto immediato conferma la nostra interpretazione. Anche senza tenere conto che l’associazione tra il sabato e il giorno escatologico della speranza è fortemente attestata sia nella Bibbia sia nella tradizione giudaica, comunque, il sabato è stato spesso compreso come il segno del gran giorno della liberazione e del regno di Dio che viene.47 In altre parole, Giovanni ebbe la visione dell’ultimo giorno (giorno del giudizio finale e della parusia), durante il giorno del sabato (altro giorno del Signore). Si ritrova la stessa coincidenza nel libro di Daniele, dove il profeta riceve una visione relativa a una cerimonia di Kippur,

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Sofonia 1:7; 2:2,3; 3:8; Malachia 3:2; 4:1,5; Gioele 1:15; 2:1,2,11. 1 Tessalonicesi 5:2; 2 Tessalonicesi 2:2; 1 Corinzi 1:8; 5:5; 2 Corinzi 1:14; Filippesi 1:6; 2:16. 46 II Baruc 48:47; 49:2; 55:6. 47 La Lettera agli Ebrei riflette questa identificazione del sabato con il giorno escatolico (Eb 3,4); nello stesso modo, la tradizione ebraica percepisce il sabato come il segno del giorno escatologico di Dio (Talmud di Babilonia, Sanhérin 98a; cfr. A. Heschel, Les batisseurs du temps, Paris, 1957, p. 176). 45

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proprio durante il tempo del Kippur.48 Stupisce come lo stesso metodo di comunicazione sia utilizzato nei due testi. Questo perché si riferiscono entrambi alla stessa visione del sacerdote dagli occhi di fuoco e dalla tunica di lino.49 Ma, Giovanni è altresì colpito nel suo spazio vitale. La parola lo coglie come un colpo impreviso, sferrato alle spalle. L’esperienza è simile a quella di Maria di Magdala al sepolcro. In due momenti, ella dovette girarsi per capire chi le stava parlando (cfr. Gv 20:14-16). Maria credeva che Gesù fosse morto e lo cercava nella tomba, mentre la voce del Risorto le giunse, come per Giovanni, dall’altro lato, alle spalle. Un’altra intenzione del testo è quella di far percepire questa voce come proveniente dal futuro. Nel pensiero ebraico, il passato è percepito davanti a noi, mentre l’avvenire è situato alle nostre spalle, è ciò che viene dopo.50 Mosè, al pruno ardente aveva ascoltato la stessa definizione di Dio, formulata al futuro: «Colui che si chiama “Io sarò”, è colui che mi ha mandato a voi» (Es 3:14, traduzione letterale). Questa forma verbale coniugata al futuro si ritrova nello stesso nome di Dio, YHWH (egli sarà). Come per Maria di Magdala, per Mosè, gl’israeliti dell’Esodo, anche per Giovanni, la parola proveniente dall’alto, sorprende; voce di Gesù risorto nel presente e prossimo a tornare. Essa è la voce di Dio che risuona da lontano, dal futuro; è la voce di un Dio che viene.

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Cfr. Le soupir de la terre, p. 225. parola greca poderes è quella che la Settanta utilizza in Esodo 28:4; la parola ebraica meyl designa l’abito del sacerdote (cfr. Zac 3:4; Sapienza 18:24, ecc.). 50 La parola ebraica qedem significa «ciò che sta prima» (Sal 139:5) e designa, di conseguenza, la più remota antichità, il passato; la parola ahar significa «davanti, le cose che devono accadere e designa, di conseguenza, le cose che verranno dopo, l’avvenire» (cfr. T. Boman, Hebrew Thought Compared with Greek, 1960, p. 149). 49 La

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30 Fase terrestre (cap. 1-11:18)

Shavuoth 7 Sigilli 4-5 6:1-8:1 (Interludio 7)

Fase finale (11:19-14:20)

Pre- Succot 19:1-10

Epilogo 22:6-21

7 Meraviglie di Gerusalemme 21:9-22:5

Fase in cielo (capp. 15-22)

7 Vittorie 19:11-20:15

Succot 21:1-8

*K.A. Strand Interpreting the book of Revelation, Ann Arbor, 1976, p. 51

Kippur 7 Segni 11:19 12-14 (Interludio 14:1-5)

Fine del Kippur 7 Coppe 15 16- 18 (Interludio 17 e 18)

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Prologo 1:1-11

Shabbat

Rosh Hashanah 7 Corni 8:2-5 8:6-11:18 (Interludio 10:1 - 11:14)

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Pessah 7 Chiese 1:12-20 2-3 Pasqua

STRUTTURA «A CANDELABRO» DELL’APOCALISSE*

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Prima parte

Tempeste

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Capitolo 1

Lettere aperte alle chiese

Preludio sul Figlio dell’uomo La descrizione del personaggio conferma la duplice natura del Figlio dell’uomo. Gesù assomiglia a un ordinario figlio dell’uomo; è il Gesù dei vangeli,51 incarnato e ben presente tra gli uomini del tempo di Giovanni. Ma, è nello stesso tempo, il «figlio d’uomo» glorioso del libro di Daniele, dai capelli bianchi, gli occhi di fuoco (10:6), implicato nel giudizio finale e che viene sulle nuvole del cielo per inaugurare il regno di Dio (7:913). Egli è, quindi, nello stesso tempo, il Dio vicino, personale e presente, il Gesù familiare e il grande Dio lontano, glorioso e futuro che parla a Giovanni. Il Dio che schiaccia il profeta, prostrato e come morto, a seguito della sua visione. Un Dio capace, anche di rassicurare con il tocco della sua mano destra e che dice: «Non temere...» (Ap 1:17). La speranza si articola nella tensione di un Dio che viene nel futuro e la prossimità di un Dio presente oggi nella nostra vita. Privi di questa tensione non è possibile sperare. Senza la sicurezza di un «dopo» che valica un presente che uccide, non avremmo alcuna ragione per attendere. L’esperienza quotidiana e la relazione con Dio suscita il desiderio di aspettarlo. Queste due categorie sono necessarie per forgiare la speranza. Pessah (Pasqua) Non è certo un caso che la visione introduttiva del ciclo delle sette chiese ci trasporti nell’ambito dei candelabri. Dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme nel 70, e la sparizione del candelabro nel bottino dell’esercito romano, come attesta il

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Matteo 8:20; 10:23; 17:9; Luca 7:34; Giovanni 6:53.

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famoso bassorilievo dell’arco di Tito, parlare ancora di candelabri è un insulto alla storia. Tuttavia, la fine del tempio di Gerusalemme non equivale alla fine dell’incontro con il Dio della storia. Il candelabro è là, incarnato nelle sette chiese; e in mezzo a loro cammina il Dio del cielo. Il suo popolo non è dunque abbandonato a sè stesso, alle vicissitudini della storia. Dio è presente in mezzo al suo popolo come la shekhinah lo era in Israele. «Camminerò tra di voi» aveva promesso YHWH a Israele durante l’esodo (cfr. Lv 26:12) e Gesù ripeté la promessa nell’ora della sua ascesa al Padre: «... io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell’età presente» (Mt: 28:20). È la presenza della shekhina luminosa che dà impulso e orienta il cammino del popolo nell’esodo; è la stessa presenza del Figlio dell’uomo dagli «occhi... come fiamma di fuoco (Ap 1:14), e dal «volto... come il sole quando risplende in tutta la sua forza» (v. 16), i cui piedi sono «simili a bronzo incandescente arroventato in una fornace (v. 15) a fornire la luce ai candelieri per orientare il cammino del suo popolo. Questa visione luminosa del Figlio dell’uomo, dalla «cintura d’oro» (v. 13), che si fonde con la visione eclatante dei candelabri d’oro, fa presagire, in un aureo flash, la visione della città futura. Dopo quello del sabato, è, a questo punto, il messaggio della Pasqua a essere veicolato; già a partire dalla forte evocazione della morte e della risurrezione di Gesù52 (v. 18), per seguire con la rassicurante presenza della sua shekhinah in mezzo al popolo. La Pasqua è la festa che segue immediatamente quella del sabato nella lista del Levitico (cfr. 23:4-14). È la prima festa del calendario ebraico (Es 12:2). La citazione della Pasqua non è, dunque, occasionale. Essa commemora l’uscita dall’Egitto e la nascita d’Israele. Soprattutto, la Pasqua si carica di profondi significati messianici. Il sacrificio dell’agnello ricorda il Pessah, il passaggio dell’angelo sulle case degl’israeliti, asperse del sangue dell’agnello, e rinnova nel cuore degli ebrei, la speranza della libera-

52

È soltanto nel capitolo 5:6 che l’Agnello è esplicitamente menzionato; ma in quel caso si tratta di un Agnello già immolato; ciò implica che la sua morte ha preceduto la scena del trono di Apocalisse 5.

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zione futura (cfr. Es 12:7,13). La proibizione a rompere le ossa trasmette il messaggio della risurrezione.53 La consumazione dei pani che non hanno il tempo di lievitare, i matsoth, ricordano la condizione nomade del popolo, sempre in piedi e in attesa della terra promessa (v. 11), fino ai nostri giorni, il canto liturgico dell’hagada, ripetuto di generazione in generazione nelle famiglie ebraiche, come nella stessa Gerusalemme, il profondo sospiro d’Israele, «l’anno prossimo a Gerusalemme» (leshana habaah birushalayim). Anche nella tradizione cristiana, la santa Cena (o eucarestia), inaugurata da Gesù durante la sua ultima Pasqua, ripete i gesti liturgici del Signore e ricorda la sua promessa: «In verità vi dico che non berrò più del frutto della vigna fino al giorno che lo berrò nuovo nel regno di Dio» (Mc 14:25). Commenta l’apostolo Paolo: «Poiché ogni volta che mangiate questo pane e bevete da questo calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga» (1 Cor 11:26). E non è certo per caso che la più antica liturgia dell’eucarestia termina con il saluto aramaico maranatha, «il Signore viene», che riassume tutta la speranza dei primi cristiani.54 Le sette chiese Questa tensione tra presente e futuro costituisce l’essenza della sua visione profetica. Quello che Giovanni vede concerne nello stesso tempo le cose che «sono e quelle che devono avvenire in seguito» (Ap 1:19). Immediatamente, viene così data la chiave d’interpretazione delle lettere alle sette chiese. Il messaggio indirizzato alle sette chiese dell’Asia, contemporanee di Giovanni, deve essere letto come una profezia che concerne la chiesa del futuro attraverso i secoli. Un certo numero d’indizi ci

53 Nella tradizione biblica e giudaica, l’evocazione delle ossa è significativamente associata all’idea della risurrezione (cfr. Ez 37:1-14; 2 Re 13:21; Gb 10:11; Sal 34:21; Is 66:14; Gn 50:25). Nel libro apocrifo dei Giubilei (I secolo a.C.), la proibizione di rompere le ossa dell’agnello pasquale è esplicitamente rapportata al miracolo della risurrezione «perché le ossa degli Israeliti devono restare integre in vista della risurrezione» (Giubilei 49:13). 54 Didaché 10:6.

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permettono di andare in questa direzione. Nell’associare le sette chiese alle sette stelle che il Figlio dell’uomo tiene nella mano destra (cfr. vv. 16,20), la parola profetica proveniente dall’alto, ci invita a una lettura orientata verso l’avvenire. Nel mondo antico si credeva, infatti, che le stelle reggessero i destini dell’umanità; da ciò derivava l’importanza degli studi astrali, soprattutto in Mesopotamia, al fine di predire il futuro. Gli autori biblici erano coscienti di questo, cosa che si trova, per esempio, nella domanda che Dio rivolge a Giobbe: «Puoi tu stringere i legami delle Pleiadi, o potresti sciogliere le catene d’Orione? Puoi tu, al suo tempo, far apparire le costellazioni e guidare l’Orsa maggiore insieme ai suoi piccini? Conosci le leggi del cielo? Regoli il suo dominio di esso sulla terra?» (Gb 38:31-33). Secondo questo testo biblico è Dio che regge le stelle nelle sue mani; ne deriva che egli controlla il cammino della storia umana. Il profeta Daniele, insistendo sull’idea di Dio quale re del cielo, trasmette ai babilonesi, nutriti d’astrologia, il senso della sua signorìa sullo spazio e sul tempo.55 Giovanni, da parte sua, spinge lo sguardo oltre le chiese a lui contemporanee, fino a coglierne lo sviluppo nella storia. Il fatto stesso che ne elenchi sette, numero simbolico nell’Apocalisse, conferma questa interpretazione. Dai tempi più remoti, il numero sette contiene un profondo valore simbolico. Presso i sumeri, i babilonesi, i cananei e gli stessi israeliti, il numero sette evocava l’idea della totalità e della perfezione.56 Nel periodo intertestamentario, sotto l’influenza della speculazione pitagorica (a partire dal V secolo a.C.) l’interesse per la numerologia, e in particolare per la simbologia del sette, vide la sua massima espressione.57 Ma, è soprattutto nell’Apocalisse che il numero sette viene particolarmente utilizzato. Basti pensare che su ottantotto citazioni presenti nel Nuovo Testamento, ben cinquantasei si trovano nell’Apocalisse. In essa si menzionano sette candelieri, sette

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Cfr. Daniele 2:28; cfr. 2:27,44,45; Le soupir de la terre, pp. 42,43. Cfr. Genesi 1; Esodo 34:18; Levitico 23:36; Numeri 28:11,19,27, ecc. 57 Cfr. 2 Esdra 13:1; Ecclesiastico (Siracide) 7:3; 20:12; 22:12; ecc. 56

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stelle, sette sigilli, sette spiriti, sette angeli, sette piaghe, sette corna, sette alture, ecc. La struttura stessa dell’Apocalisse si articola su di uno schema settenario. Le sette chiese di cui parla Giovanni non devono essere comprese in senso strettamente letterale. Del resto, le chiese dell’Asia erano ben più di sette. Ricordiamo Colosse e Ierapoli menzionate nel Nuovo Testamento.58 Le sette chiese rappresentano, essenzialmente, la chiesa nella sua totalità. Questa linea interpretativa che denomineremo «simbolico-profetica», è, in assoluto, la più antica. Essa è attestata in un manoscritto del III secolo d.C.59 Oltre a ciò, noteremo come il ritornello che conclude ognuna delle lettere sembri confermare questa impostazione: «Chi ha orecchie ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese».60 Le lettere sono destinate alle chiese e ogni credente, in tutte le epoche, potrà trarne alcuni insegnamenti. Questa intenzione è esplicitamente rivelata nella lettera centrale (la quarta, indirizzata a Tiatiri) che contiene l’espressione «tutte le chiese» (Ap 2:23). Inoltre, queste sette chiese sono state scelte, non soltanto in base al fatto che facevano parte di un ambiente familiare a Giovanni, ma soprattutto per quello che rappresentavano simbolicamente. Questo metodo di trarre un messaggio profetico da una realtà geografica non è nuovo per la cultura giudaica. Il profeta Michea aveva costruito tutta la sua visione del futuro sui nomi delle città che sorgevano in Palestina.61 Nello stesso modo, Daniele si era ispirato alla situazione geografica e strategica del nord e del sud, per situare la sua visione profetica.62 Lo stesso ordine cronologico nel quale sono menzionate le sette chiese, non è casuale. Alcune antiche ricerche geografiche hanno dimostrato che l’autore segue un andamento circolare,

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Colossesi 1:2; 4:13. Canon Muratorianus, S.P. Tregelles ed. 19. 60 Apocalisse 2:7,11,17,29; 3:6,13,22. 61 Michea 1:10-16 62 Cfr. Daniele 11; cfr. Le soupir de la terre, pp. 238-255. 59

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suggerendo così, l’itinerario di un viaggiatore ideale.63 Il percorso inizia da Efeso e prosegue per Smirne, Pergamo, Tiatiri, Sardi, Filadelfia e infine, Laodicea. Di città in città, la profezia di Giovanni segue le fluttuazioni della storia della chiesa; dal suo inizio, periodo di cui Giovanni è contemporaneo e testimone, fino alla fine dei tempi. All’interno delle lettere alle chiese, la progressione dei temi che le percorrono, rivela questo sguardo profetico che attraversa i tempi. In questo modo, la lettera alla prima chiesa, Efeso, rappresenta il punto di partenza della storia umana, con la promessa del giardino dell’Eden (cfr. Ap 2:7), mentre la lettera a Laodicea evoca la fine della storia con la promessa del regno di Dio (cfr. 3:21). Si nota ugualmente, dalla prima alla settima lettera, una progressione nell’evocazione della venuta di Gesù che si fa sempre più prossima: 1. Efeso: «... colui che cammina in mezzo ai sette candelabri d’oro» (2:1). 2. Smirne: colui «... che fu morto e tornò in vita» (2:8). 3. Pergamo: «Ravvediti dunque, altrimenti fra poco verrò da te e combatterò...» (2:16). 4. Tiatiri: «Soltanto, quello che avete, tenetelo fermamente finché io venga» (2:25). 5. Sardi: «se non sarai vigilante, io verrò come un ladro» (3:3). 6. Filadelfia: «Io vengo presto» (3:11). 7. Laodicea: «Io sto alla porta» (3:20). Ma, bisogna entrare nel cuore di queste lettere, leggerle una dopo l’altra, dall’interno, per coglierne l’intenzione profetica. Lo sguardo che esse portano sulle istituzioni cristiane non è certo indulgente. La visione rimane attenta alle crisi che la scruteranno, tempesta dopo tempesta, rivela i retroscena di una storia complessa e problematica. Lo studio di queste lettere seguirà, quindi, questa impronta profetica, per cercare di riconoscere l’avvenimento oggetto della denuncia, senza comunque negligere le lezioni provenienti da altri approcci esegetici. Come abbiamo già menziona-

63 Cfr.

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W.M. Ramsay, The Letters to the Seven Churches of Asia, London, 1909, p. 191.

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to, le lettere alle sette chiese riguardano le chiese contemporanee a Giovanni (interpretazione preterista) come ogni persona che «ha orecchie per intendere» (interpretazione idealista o simbolica). Certamente, le chiese dell’Asia hanno ricevuto il messaggio che era loro indirizzato; attraverso le epoche, tutti coloro che hanno letto l’Apocalisse ne hanno tratto un insegnamento particolare. Tuttavia, ciò che rende il nostro presente, un po’ speciale è che ci troviamo nel XXI secolo, alla fine del ciclo profetico. Oltre a questo, le letture preteriste e idealiste sono svantaggiate rispetto alla lettura profetica, che si trova in una posizione di privilegio, perché, per la prima volta, essa può essere verificata alla luce della storia e dei fatti trascorsi. Efeso È la prima tappa del viaggio provenendo da Patmos, probabilmente, il porto più importante dell’epoca. Le sue luci sono le prime che si percepiscono dal mare. Non è dunque per caso che Efeso è stata scelta per rappresentare la prima chiesa portatrice della «prima luce». L’accento posto dalla lettera è proprio su questa caratteristica di essere «la prima». Come Daniele aveva fatto partire il suo ciclo profetico dai tempi in cui viveva, e aveva identificato il regno di Babilonia con il giardino dell’Eden;64 anche Giovanni inizia il suo ciclo con un riferimento alla sua epoca, che associa al giardino dell’Eden: «A chi vince io darò da mangiare dell’albero della vita, che è nel paradiso di Dio» (Ap 2:7). Sono i tempi del primo amore. Efeso significa in greco «desiderabile». La passione è ancora fervente e i ricordi freschi (v. 5). Si tratta della chiesa che ha conosciuto i tempi apostolici (v. 2) e che ha appena ricevuto il passaggio della fiaccola. È altresì la chiesa dei primi convertiti dal paganesimo. Il convertito deve guardarsi dal pericolo dell’orgoglio, ricordando da dove proviene e qual era la sua condizione originale (v. 5). È la stessa ammonizione dell’apostolo Paolo ai romani (Rm 11:18). Per i cristiani di Efeso, alto luogo di Artemide, la famo-

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Daniele 2:37,38; cfr. Genesi 1:28; cfr. Le soupir de la terre, pp. 42,43.

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sa Diana degli efesini (At 19:28), questo appello a priori è particolarmente gravido di senso. Gli efesini erano conosciuti per la loro superstizione, e il commercio degli amuleti era tra i più fiorenti. L’immoralità e il crimine avevano fatto piangere il filosofo Eraclito (576-480 a.C.), fatto che gli valse il soprannome di «filosofo piangente». È la chiesa dei primissimi tempi dell’era cristiana (circa 31-100). Ora, questa chiesa, nonostante sia così vicina alle fonti autorevoli, è già minacciata dall’apostasia. L’andirivieni di colui che le si rivolge, tradisce la preoccupazione del Signore (cfr. Ap 2:1). Una sorta di agitazione nervosa di qualcuno che è seriamente preoccupato. Lo stesso verbo (peripatei) è utilizzato da Pietro per descrivere il comportamento di Satana.65 Ciò che sostanzialmente viene rimproverato è che il suo entusiasmo è stato un fuoco di paglia: «[Tu] hai abbandonato il tuo primo amore» (v. 4). Segue un appello pressante al pentimento: «Compi le opere di prima» (v. 5). Questo ritorno agli slanci di prima ricorda la «teshuvah» della tradizione profetica. Questo appello si risolve in un avvertimento: «Ravvediti... altrimenti... rimoverò il tuo candelabro dal suo posto» (v. 5). La luce sarà affidata a qualcun’altro, a meno che tu non ti penta, ripete l’oracolo. Niente è definitivo. Per quanto possa essere pura, anche la chiesa primitiva può perdere la sua luce. Il fatto che una chiesa sia stata suscitata da Dio e che essa compia i primi passi con lui non garantisce il suo futuro. La chiesa può traballare in qualsiasi momento. Può addirittura cadere e assistere alla rimozione del suo mandato per essere affidato ad altri. Pesante lezione da assimilare da parte di chi difende le istituzioni a ogni costo. Il rischio dell’apostasia, di sbagliare, esisterà sempre perché la chiesa non è Dio, non è infallibile. Non basta esserne membro per assicurarsi la salvezza, parafrasando la nota proposizione: «Anche nella chiesa nulla salus». Comunque, la lettera non resta immobile su questa nota, per così dire, minacciosa. Nonostante alcuni passi falsi, la chiesa conserva ancora la sua integrità. Essa odia le opere dei nicolaiti

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1 Pietro 5:8; cfr. Giobbe 1:7 nella Settanta.

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(v. 6), questo odio è a maggior ragione lodevole, per il fatto che coincide con la passione di Dio che, anche lui, «odia». Il male che minaccia la comunità cristiana delle origini porta i tratti dei nicolaiti. Si tratta dei discepoli di Nicola, menzionato dal libro degli Atti (6:5) come appartenente alla chiesa di Antiochia, non lontana da quella di Efeso. Non è ben chiaro se Nicola sia diventato eretico o fosse stato frainteso dai suoi discepoli. Comunque sia, dalla testimonianza dei Padri della chiesa sappiamo che i nicolaiti si caratterizzavano per la loro condotta licenziosa.66 Una cattiva assimilazione della predicazione dell’apostolo Paolo sulla legge e la grazia, li aveva condotti a rigettare ogni esigenza posta dalla legge di Dio. Poiché la grazia libera dalla legge, essi credevano che il cristiano poteva tranquillamente abbandonarsi alle passioni terrene. Questa tesi era supportata da una visione antropologica fortemente dualista. Il corpo ha origine dalla materia e dal male, sfugge, quindi alle categorie dello spirito. Si può fare del corpo ciò che si vuole. Solo lo spirito conta. All’interno della dialettica tra la legge e la grazia, questa maniera di pensare colloca il corpo nell’ambito della legge, quindi viene disprezzato. L’anima, appartenente al mondo della grazia verrà, al contrario, esaltata. Se diamo credito a questa testimonianza profetica, i primi frammenti d’apostasia hanno riguardato la legge e l’antropologia. Si rigettò la legge con la scusa di accogliere la grazia, mentre si disprezzava il corpo per esaltarne lo spirito. I primi cristiani resistettero a questa tentazione dualista. Per questo ricevettero una lode dal Signore. Infatti, rigettare la legge equivale a rigettare Dio stesso, il quale si rivela e s’incarna nelle scelte etiche dell’esistenza. Rigettare il corpo significa, poi, respingere il Dio della creazione e della vita. Smirne La seconda tappa del nostro viaggio ci conduce a Smirne, distante una cinquantina di chilometri da Efeso. Grande agglomerato commerciale, brillava per bellezza e ricchezza. Era

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Cfr. Ippolito, Adv. Haereses 7.24, e Epiphane, Adv. Haereses 1.2,25.

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divenuta famosa per una delle sue strade completamente pavimentata in oro. Era una delle poche città antiche a essere stata rigorosamente progettata e ricostruita. Fondata dai greci nell’anno 1000 a.C., fu distrutta dai Lidii nel 600 a.C. e cancellata dalla carta geografica dell’epoca. Fu ricostruita quattrocento anni dopo da Lisimaco, uno dei comandanti di Alessandro Magno. Il miracolo della sua rinascita era ancora presente nella mente di tutti. Non a caso, parlando di Smirne, l’Apocalisse parla, appunto, di morte e di risurrezione. L’autore della lettera si proclama come colui che è passato dalla morte alla vita (cfr. 2:8) I destinatari della lettera sono essi stessi candidati alla morte, ma a loro viene promesso solennemente che torneranno a vivere (vv. 10,11). Il nome di Smirne deriva, del resto, da «mirra», una resina utilizzata per imbalsamare i morti; l’allusione si carica di un significato funesto. Al di là del richiamo alle origini della città di Smirne, la lettera evoca l’epopea tragica dei martiri cristiani che perseguitati, uccisi, incarcerati, rimasero fedeli fino alla morte. I loro nemici non erano solo la prigione e la morte, ma anche la miseria e la povertà. Il cristianesimo non aveva ancora raggiunto la condizione di ricchezza che esibirà più tardi, quale presunto segno del favore divino. Siamo nell’epoca in cui essere cristiani non implica la benedizione materiale e il successo economico. È l’epoca della sconfitta. Convertiti delle classi più basse della società, i primi cristiani non facevano certo bella figura nella ricca città di Smirne. Essi era attaccati da ogni parte, dall’interno, come dall’esterno. È il tempo delle persecuzioni (100-313 d.C.). Per i pagani, ogni pretesto era buono. Essi accusavano i cristiani di cannibalismo a causa del rito della santa Cena, che simboleggiava il corpo e il sangue di Gesù. Giravano voci su presunte orge sessuali, che avrebbero avuto luogo durante le agapi, dove si celebrava l’amore fraterno. Si rimproverava loro di essere atei perché adoravano un Dio invisibile. Lo stato diffidava dei cristiani, mettendo in dubbio la loro lealtà politica a causa del fatto che rifiutavano di chiamare Cesare, loro «signore». Si diceva che credessero alla fine del mondo attraverso il fuoco. Fu naturale accusarli di essere incendiari per vocazione. Nerone, dal canto suo, non perse l’occasione per sfruttare la diceria. Veri e propri 42

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«paria», i primi cristiani avevano tutto per attirarsi l’odio e il disprezzo dei contemporanei. Per di più, venivano assimilati ai giudei, la cui religione era impopolare e disprezzata. I cristiani erano, tra le altre cose, vittime dell’antisemitismo dell’epoca. Sul versante ebraico le cose non andavano molto meglio. Non si vedeva di buon occhio questi seguaci di un messia già venuto e andato via. Alcuni giudei reagirono con tutte le forze contro questa «nuova setta». Saulo da Tarso, colui che sarebbe diventato l’apostolo Paolo, ne è un chiaro esempio.67 La lettera a Smirne li qualifica come calunniatori e si limita a notare che essi non sono dei veri ebrei, «dicono di essere giudei» (Ap 2:9). Questo linguaggio è assai significativo. Testimonia del fatto che i primi cristiani si consideravano ebrei a tutti gli effetti. Negli ambienti cristiani, oggi, l’accusa suona come un «voi non siete dei veri cristiani, siete una chiesa di Satana». In quel tempo, i cristiani si sentivano più vicini agli ebrei che non ai pagani. L’antisemitismo cristiano non era ancora nato. Gettati in prigione o in pasto ai leoni dai pagani, calunniati dai fratelli ebrei, i cristiani si trovavano a essere i diseredati della terra. La persecuzione s’intensificò, soprattutto, sotto il regno di Diocleziano che gli storici chiamano «l’era dei Martiri».68 Con un editto del 303, l’imperatore ordinò che «le comunità cristiane fossero sciolte, le loro chiese demolite e i manoscritti biblici bruciati».69 Un gran numero di cristiani pagarono la loro fedeltà con la vita. Molti furono resi schiavi. I nomi di alcuni di loro sono ricordati dalla chiesa cattolica come oggetto di particolare venerazione. San Sebastiano, un ufficiale, fu legato a un albero e trapassato da un centinaio di frecce. Santa Cecilia, patrono della musica sacra. Santa Agnese, morì tra le fiamme. L’ultima di queste grandi persecuzioni ebbe fine nel 311 e, finalmente, nel 313, l’imperatore Costantino promulgò un editto che concedeva ai cristiani il diritto di ricostruire le loro chiese e di praticare il loro culto in tutta libertà. È

67

Cfr. Atti 7-9. Cfr. P. Auge, «Diocleziano», in Larousse universel, 1948, p. 551. 69 C. Grimberg, Histoire universelle, vol. 3, Roma, L’Antiquité en Asie orientale e les grandes invasions (Marabout université), Verviers, 1963, p. 284. 68

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interessante notare come questa ondata di persecuzioni durò dieci anni, esattamente come predetto dalla lettera a Smirne (cfr. Ap 2:10), se si applica il principio profetico dell’equivalenza di un giorno uguale a un anno.70 Ma siamo, comunque, di fronte a un linguaggio profetico. Nella tradizione giudaica e biblica, il numero dieci è spesso utilizzato nel senso spirituale, per tradurre l’idea della verifica, della prova. Ricordiamo Daniele, sottoposto a una prova di dieci giorni (cfr. Dn 1:14-15). Questo simbolismo è presente anche nel calendario ebraico. Dieci giorni separano Rosh hashanah, la festa delle trombe, dal Kippur, il giorno del giudizio; un tempo concesso agli ebrei per prepararsi al giorno dell’espiazione. La Mishna riprende lo stesso schema e si riferisce alle dieci generazioni che intercorrono da Adamo fino a Noé, da Noé ad Abramo. Dieci sono le prove attraversate da Abramo, dieci le piaghe d’Egitto. Si può dedurre che il numero dieci segni nel tempo, il ritmo della prova.71 Una prova, appunto. La parola è già, in sé, portatrice di speranza. Annuncia che all’orizzonte si profila la ricompensa. La sconfitta e la morte non avranno l’ultima parola. La corona del vincitore, stephanos, è riservata a questi martiri della fede (Ap 2:10). Si intravede, nel testo, come un sorriso ironico. Falciati dalle spade dei gladiatori, essi riceveranno la corona dei vincitore. Morti, riceveranno «la corona della vita» un’immagine spesso rappresentata sui monumenti funerari dell’antichità greco-latina72 per rappresentare la vittoria sulla morte. Il testo, tuttavia, non promette l’immortalità dell’anima, tanto cara alla filosofia greca e che finirà per trovare il suo cammino nelle tradizioni giudeo-cristiane. Il testo vuol dire precisamente che, essi non saranno colpiti «dalla morte seconda» (v. 11). Nella Bibbia, quest’espressione si trova unicamente nell’Apocalisse.73 Altrove è presente nella letteratura rabbinica e, in partico-

70

Cfr. Le soupir de la terre, pp. 205,206. Aboth 5:1-9 72 F. Cumont, Etudes Syriennes, p. 63ss. 73 Apocalisse 20:6,14; 21:8. 71

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lare, nel Targum.74 Nei passi in questione, la «seconda morte» designa l’estinzione definitiva del malvagio, priva della speranza della risurrezione. In seguito, il verso di Apocalisse 20:6 chiarisce l’argomento parlando di due risurrezioni. La prima, riguarda i giusti alla venuta di Gesù Cristo in gloria e maestà; la seconda, i malvagi. Solo la prima risurrezione introduce nella vita eterna. La seconda, al contrario, porta alla morte eterna. In definitiva, tutti dovranno morire, ma solo i malvagi moriranno una seconda volta.75 La promessa formulata ai martiri di Smirne che non moriranno una seconda volta, equivale all’apertura dell’orizzonte della speranza nella risurrezione, quella che conduce alla vita eterna. Le concezioni dualiste dell’epoca sono spazzate via. Per la Bibbia, il superamento della morte non si compie attraverso l’immortalità dell’anima. Solo il miracolo della risurrezione, la quale implica la totalità dell’individuo, permette l’accesso alla vita eterna. Pergamo Il viaggio prosegue verso nord, a circa trentacinque chilometri da Smirne. La città di cui parleremo si ergeva superba e maestosa su di un’altura e merita ampiamente il nome che porta, Pergamo, che significa «cittadella», «città gloriosa». Fuori dalle grandi arterie dei traffici commerciali, essa non era meno considerata delle grandi città dell’Asia. Il geografo greco Strabone (58 a.C.- 25 d.C.) la definisce «la città illustre», lo storico romano Plinio (23-79 d.C.) la considera «la più famosa d’Asia». Pergamo aggiungeva alla sua fama di capitale politica, una solida reputazione culturale e religiosa. Vi si fabbricava anche la pergamena da cui trae il nome. Con i suoi duecentomila rotoli, la biblioteca cittadina rivaleggiava con quella di Alessandria. La città era celebre per la sua vita religiosa. I suoi ospedali e suoi templi dedicati a Esculapio, dio della guarigione, attirava-

74

Targum di Geremia 51:39,57; cfr. Targum del Deuteronomio 33:6 e d’Isaia 22:14; 65:6, ecc. 75 È probabilmente a questi due tipi di morte e di risurrezioni che Daniele fa allusione (12:29).

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no ogni anno migliaia di pellegrini, fenomeno testimoniato dall’immensa varietà di monete rinvenute dagli scavi archeologici. La città di Pergamo riflette la situazione della terza chiesa nella storia. Al contrario delle precedenti, Pergamo si caratterizza per il successo e la gloria. I cristiani non sono più oggetto di disprezzo. L’era dei martiri sembra tramontata. Vi si fa riferimento come a un epoca trascorsa (Ap 2:13). Questo è il tempo della prosperità e dell’istituzionalizzazione. Questo successo ha un costo. La lettera denuncia una pratica che ricorda le azioni di Balaam, profeta pagano al servizio del re moabita che aveva spinto Israele al sincretismo.76 Balaam, nome che significa, «divorare il popolo», aveva compreso che il modo migliore per «divorare» e neutralizzare il popolo d’Israele era di portarlo al compromesso. Ancor più che la persecuzione e la morte, l’introduzione di elementi estranei nell’assemblea d’Israele, riuscì quasi a distruggere questo testimone di Dio. Il compromesso con il male si rivelò quasi più letale della completa iniquità. Infatti, è più facile riconoscere il nemico, fin tanto che resta al di fuori delle mura. Ma, quando egli s’infiltra nelle file del popolo di Dio, la sua identificazione è assi più difficile e la sua eliminazione molto delicata. Questa era la situazione della chiesa che stiamo considerando. Per la prima volta, il paganesimo e l’errore si mescolano alla testimonianza della verità. Si nota un’evoluzione rispetto alla chiesa di Efeso. La prima chiesa ricevette la lode del Signore perché «odiava» i nicolaiti. Ora, essi si trovano in mezzo a loro: «Così anche tu hai alcuni che professano similmente la dottrina dei nicolaiti» (v. 15). All’azione di Balaam, divoratore del popolo, si unisce quella dei nicolaiti, il cui nome significa «il conquistatore del popolo». In questi due nomi traspare lo stesso pericolo per il popolo di Dio. La storia mostra, in effetti, che in questo periodo ebbero luogo molti compromessi. Per rafforzare le sue basi politiche, la chiesa divenne morbida e permeabile; essa fece alleanza anche con il potere politico. I decreti imperiali promulgati in questo

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periodo riflettono le nuove tendenze della chiesa. Un esempio tra gli altri: il riposo domenicale, giorno del sole per romani, prende il posto del riposo sabatico, giorno ordinato dal Dio d’Israele e osservato dai primi cristiani. Questo fatto emerge nettamente nel decreto di Costantino al concilio di Laodicea: «Che i cristiani non si comportino come gli ebrei osservando il giorno del sabato. Che tutti i giovani, le popolazioni delle città e tutte le categorie di lavoratori cessino le loro attività nel giorno venerabile del sole (domenica)» (Canone 29 del concilio di Laodicea).77 La tendenza al compromesso, tipica di quest’epoca, fu messa in risalto anche dal profeta Daniele in due riprese; nella visione della statua e in quella dei quattro animali. Nella visione della statua (Dn cap. 2), la chiesa era rappresentata dall’argilla, simbolo della dimensione spirituale e religiosa, mescolata con il ferro, simbolo del potere politico.78 Nella visione dei quattro animali, essa appare nella forma di un corno, simbolo del potere politico, con un volto umano, simbolo della dimensione spirituale.79 Nell’appello al pentimento, lanciato alla chiesa di Smirne, ritroviamo lo stesso rimprovero. La spada a due tagli che esce dalla bocca del Figlio dell’uomo (Ap 2:16) rappresenta la parola di Dio che giudica e che separa la verità dall’errore. La promessa come ricompensa per la vittoria, la «manna nascosta» e la «pietruzza bianca» (v. 17), riflettono la stessa preoccupazione. L’evocazione della manna è associata al ricordo dell’Esodo, nella prospettiva della terra promessa. Questo pane caduto dal cielo e mandato da Dio80 diviene un segno di speranza. Secondo un’antica leggenda ebraica, alla caduta di Gerusalemme e alla distruzione del tempio, nel VI secolo a.C., il profeta Geremia si sarebbe affrettato a nascondere il vaso della manna, conservato nell’arca dell’alleanza.81 Sarà solo alla venuta del Messia e del suo regno che verrà ritrovato e se ne potrà 77

W. Rordorf, Sabbat et dimanche dans l’Eglise ancienne, p. 49. Cfr. Le soupir de la terre, pp. 48-53. 79 Ibidem, pp. 149-160. 80 Esodo 16:15; Salmo 78:25. 81 Esodo 16:33,34; Ebrei 9:4. 78

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mangiare di nuovo.82 Secondo questa tradizione, l’identità degli eletti sarà rivelata solo nell’ultimo giorno. Per il momento, essi non s’identificano necessariamente con la comunità visibile della chiesa. È la stessa lezione contenuta nel simbolo della pietruzza bianca sulla quale è scritto un «nome nuovo» (v. 17). Il riferimento alla pietruzza bianca s’ispira alla procedura dei tribunali greco-ramani. Dei sassolini bianchi e neri erano usati dai giurati dell’epoca per indicare il loro verdetto. Il bianco significava assoluzione e il nero condanna. Ricevere una pietruzza bianca equivaleva a una dichiarazione di salvezza. Quanto al nome nuovo donato da Dio, esso è il marchio della nuova nascita che proviene dall’alto, il segno di un nuovo cammino. Così, Abramo fu chiamato Abraamo per annunciare la promessa di un popolo numeroso.83 Giacobbe divenne Israele, per indicare il nuovo destino che lo attendeva: quello di lottare con Dio.84 Anche i luoghi possono seguire lo stesso itinerario spirituale. Gerusalemme ricevette il nome di «l’Eterno nostra giustizia», come caparra dell’eterna presenza di Dio tra il suo popolo.85 Nello stesso modo, l’eletto di Pergamo riceve un «nome nuovo» situato al di là di ogni comprensione umana. Si tratta di un nome che nessuno può conoscere (v. 17). La Bibbia e la tradizione ebraica parlano in modo concorde sul nome impronunciabile di Dio e impossibile da racchiudere in un’unica formula.86 D’altronde è la stessa spiegazione data da una lettera successiva: «Chi vince io lo porrò come colonna nel tempio del mio Dio, ed egli non ne uscirà mai più; scriverò su di lui il nome del mio Dio e il nome della città del mio Dio e della nuova Gerusalemme che scende dal cielo...» (3:12). Quel nome nuovo non è altri che il nome di Dio stesso,

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Mekhita 16:25; cfr. 2 Baruch 29:8; Hagigah 12b. Genesi 17:5. 84 Genesi 32:28. 85 Geremia 33:16. 86 Cfr. Esodo 3:13-15; Genesi 32:29,30; Giudici 13:17,18; da cui deriva la proibizione a pronunciare il nome di Dio (crf. Talmud di Babilonia, Kid 71a; M. Sanhedrin 10:1). 83

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nome che si confonde con quello della nuova Gerusalemme. Ritroviamo la stessa equazione nel cuore dell’Apocalisse. Gli eletti di Dio, i cittadini della nuova Gerusalemme, i centoquarantaquattromila, riceveranno un nome che s’identifica con il nome di Dio (cfr. 14:1; 22:4). All’inizio della lettera, i pionieri ancora fedeli, erano stati designati come coloro che erano rimasti fedeli al nome di Dio (2:13). In seguito viene precisato che il rimanente della chiesa di Pergamo riceverà il nome di Dio. Il popolo di Dio è chiamato a diventare, per gli altri, il segno visibile del Dio invisibile. Il nome Antipa, spiega questa esigenza, significando, appunto, «rappresentante del Padre». La vocazione del figlio è di portare il nome del padre e di rappresentarlo in sua assenza. Si comprende allora perché questo nome è conosciuto solo da chi lo porta. Se l’eletto di Pergamo è il solo a conoscere il nome che Dio ha inciso sulla pietruzza, ciò è dovuto al fatto che egli intrattiene con Dio, una relazione personale. Questa condizione svela la natura di questi eletti: sono nascosti a tutti. Nell’epoca di Pergamo, la chiesa visibile comincia a perdere la sua identità e la sua vocazione. Essa sta perdendo il nome di Dio. Tiatiri Ora, la lettera ci spinge ad andare verso est; a circa cinquantacinque chilometri da Pergamo. Tiatiri è la città di gran lunga più insignificante delle sette. Plinio la descrive come mediocre. Tuttavia, sarà quella che riceverà il messaggio più lungo e articolato. Riceverà, anche, le accuse più ardenti. Pochissimi apprezzamenti (cfr. 2:19)e una lunga invettiva che occupa quasi tutta la lettera (vv. 20-27). Mentre le prime chiese si tenevano a una certa distanza dal male, dopo Pergamo si stabilisce una nuova tendenza. Se, a Pergamo il male aveva un suo posto, a Tiatiri imperava, governava la chiesa stessa. A Pergamo, l’apostasia era stata rappresentata dai tratti di un profeta pagano, Balaam, la cui influenza si esercitava a partire dall’esterno. A Tiatiri, l’apostasia regna. Essa si presenta sotto il segno di Jezabel (v. 20). Regina menzionata dall’Antico Testamento era sposa di Achab, re d’Israele. Di origine fenicia, era figlia di Ethbaal, re di Sidone (1 Re 16:31), il quale, secondo 49

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la tradizione, era sacerdote del culto di Baal e Astarte.87 La Bibbia la ricorda come una sovrana potente che riuscì a trascinare il marito e il popolo intero, al culto di Baal. Alla sua tavola sedettero quattrocentocinquanta profeti dell’idolo cananeo. Il suo zelo pagano la condusse a perseguitare il profeta Elia e tutti coloro che volevano restare fedeli a YHWH. L’influenza di Jezabel si estese anche sulle generazioni successive, fino alla famosa Athalia.88 Il ritratto di Jezabel rivela il carattere della nuova chiesa. Ormai, l’apostasia è ufficialmente insediata, e nei seggi più alti. Si fonde con il potere stesso della chiesa. Siamo nell’epoca in cui la chiesa si struttura come un’istituzione politica a carattere monarchico (VI sec.). Non è per caso che la città di Tiatiri fu rinomata per la porpora che produceva; colore della regalità89 e del sacerdozio.90 Ricordiamo Lidia di Tiatiri, la quale viveva con il commercio della porpora.91 Tiatiri era anche la città dedicata al culto di Tyrimnos (dio del sole), che sarebbe diventato in seguito, il culto dell’imperatore romano. Con un accenno ironico, l’emissario della lettera si presenta a Tiatiri come un personaggio radioso, dagli occhi di fuoco e dai piedi in rame rovente. Questo, allo scopo di far risaltare, per contrasto, il pallore del dio sole venerato da Tiatiri e denunciare la sua presuntuosa vanità. Lo stesso messaggio viene ribadito alla fine della lettera. La verga di ferro che pascerà le nazioni è posta nella mano di Dio, Padre e Figlio. L’espressione è presa dal Salmo 2:8,9, un salmo messianico che profetizza l’autorità del Messia Re, avente autorità sulle nazioni di tutta la terra. L’autorità di Jezabel è dunque usurpata. Purtroppo, quello fu il tempo dell’usurpazione dell’autorità divina da parte della chiesa. L’accusa è grave. Ed essa ci riguarda tutti. Tutte le chiese (2:23) sono interpellate dalla lettera. Quella tentazione le

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Cfr. Giuseppe Flavio, Antichità, VII. XIII 2. 2 Re 8:18,26; 10:11. 89 1 Maccabei 8:14; Omero, Iliade, 4:141-145. 90 Esodo 25:4; 28:5,6; 39:29; Giuseppe Flavio, Guerra, 5:5. 91 Atti 16:14,15,40. 88

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minaccia tutte. Accade, talvolta, che il testimone di Dio dimentichi e alla fine sostituisca l’oggetto della sua testimonianza con la sua stessa persona. È il rischio presente in tutte le religioni e in tutti i profeti. La tradizione, le istituzioni prendono il sopravvento sulla verità che le aveva legittimate. Ogni testimone di Dio corre il rischio di usurpare la posizione che compete solo al Signore. Ogni volta che questo succede, l’intolleranza, la persecuzione, i massacri prendono piede. Il regime di Jezebel si è distinto per queste atrocità commesse ai danni del popolo fedele a YHWH. Lo stesso volto tragico si manifesta nella chiesa di Tiatiri, la chiesa-istituzione del medioevo che inizia la sua storia nel 538, quando la minaccia dell’eresia ariana era stata debellata,92 per finire nel 1563 con il concilio di Trento. L’inquisizione, le crociate, gli eccidi: mai nella storia dell’umanità l’intolleranza religiosa ha raggiunto livelli d’intensità e di durata come in questo periodo. Si comprende l’ira di Dio e l’annuncio del suo giudizio, «una grande tribolazione» (v. 22). La chiesa pagherà cara la sua intolleranza. Ancora oggi, si parla di quell’epoca. Occorre osservare, comunque, che non sono gl’individui appartenenti a Tiatiri a essere esaminati dalla lettera; l’oggetto dell’attacco rimane la chiesa istallata al potere, la chiesa usurpatrice dell’autorità di Dio. A Tiatiri ci sono ancora uomini e donne rimasti fedeli. Essi non hanno «conosciuto le profondità di Satana» (2:24). Siamo di fronte a una espressione idiomatica costruita per contrapposizione con il passo di 1 Corinzi 2:10. Nel testo paolino si parla di coloro che fondano la loro ispirazione sullo Spirito di Dio, piuttosto che sulla «saggezza umana» (v. 5). Come ai tempi di Jezabel, c’è chi non ha «piegato le ginocchia» (1 Re 19:18) e resta fedele allo Spirito che proviene dall’alto. La lettera riconosce queste eccezioni che non esita a mettere in risalto. Siamo di fronte, paradossalmente, a una chiesa particolarmente virtuosa. Sono quattro le qualità attribuitele: l’amore, la fede, il servizio fedele e la costanza (cfr. Ap 2:19). Inoltre, questa chiesa segna un progresso in rapporto alle opere.

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A Efeso era stato rimproverato di aver dimenticato le opere di prima (cfr. 2:5). Tiatiri, al contrario, presenta opere più numerose delle precedenti (cfr. v. 19). Parliamo del periodo della storia della chiesa in cui visse Francesco d’Assisi, S. Luigi, fondatore di scuole, dei primi ospedali e di numerose università. Questa è l’epoca dei primi appelli al ravvedimento. Pensiamo a Pietro Valdo (1140-1217) in Italia, a John Wyclif (1320-1384) in Inghilterra, a Jan Hus (1369-1415) in Boemia. Per finire con Martin Lutero (1483-1546) in Germania. Tutti questi uomini e movimenti controcorrente sono incoraggiati dalle parole: «Quello che avete, tenetelo fermamente finché io venga» (v. 25). Non è facile rimanere in piedi quando la folla ti spinge contro. Non è facile pensare, amare in un tempo d’intolleranza e oscurantismo. La sola consolazione resta la speranza, la sicurezza che presto le tenebre saranno dissipate. È il messaggio contenuto nella promessa della «stella del mattino» (2:28), l’ultima stella che annuncia la fine della notte e il sorgere del sole. Sardi A circa quarantacinque chilometri a sud di Tiatiri, la città di Sardi si stende a due livelli, da cui il nome declinato al plurale (sardeis in greco). Originariamente, la città sorgeva su di un altipiano a millecinquecento metri d’altezza; in seguito, si estese sui pendii e nella vallata. Dal primo sguardo, la topografia di Sardi testimonia della decadenza che ha segnato la sua storia. Sardi è il perfetto esempio del contrasto tra un passato di gloria e la miseria del presente. All’epoca di Giovanni, Sardi poteva vivere solo di ricordi. Cinque secoli prima era annoverata tra le città più prestigiose del mondo. Il ricchissimo Creso era stato il suo ultimo sovrano (560-546 a.C.). Sotto il suo governo la città cadde nelle mani di Ciro. Sicuro di sé, corrotto e infiacchito da uno stile di vita edonistico, Creso fu preso alla sprovvista. Quando i soldati di Ciro giunsero alla sommità della collina, trovarono una città completamente aperta e offerta all’aggressore. Nel tempo che seguì la disfatta, Sardi perse ogni indipendenza e divenne il fantasma si se stessa. La fiera cittadella di una volta, che aveva sfidato e impressionato Ciro era stata ridotta a un antico monumento, atto a nutrire la nostalgia dei 52

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suoi abitanti, ricordando loro il prezzo doloroso che si deve pagare quando si manca di vigilanza. Le esortazioni presenti nella lettera s’ispirano al dramma vissuto da questa città. La dominante è quella del ricordo: «Ricordati dunque come hai ricevuto e ascoltato la parola, continua a serbarla e ravvediti» (Ap 3:3) I numerosi echi con la lettera a Efeso lasciano intendere una sorta di movimento di ritorno verso questa prima tappa della storia del cristianesimo. Il mittente si qualifica nello stesso modo, «colui che ha… le sette stelle» (Ap 3:1; cfr. 2:1). È anche la sola chiesa, con Efeso, alla quale è concesso di «avere». Nel cuore stesso delle accuse rivolte, nelle due lettere si comprende che, nonostante tutto, queste due chiese «hanno» qualcosa. Lo stesso termine greco alla (tradotto «tuttavia» in Ap 2:6; 3:4), introduce elogi che s’intersecano con rimproveri. Entrambe ricevono la stessa promessa di vita. «L’albero della vita» a Efeso (2:7), «il libro della vita» per Sardi (3:5). Entrambe anticipano un incontro festoso, un banchetto con Dio. Nella lettera a Efeso il banchetto è evocato attraverso la consumazione dell’albero della vita (2:7), mentre, nella lettera a Sardi si parla di vesti bianche (3:4,5). È evidente che gli abiti bianchi simbolizzano la purezza, come indicato dal contesto: «Essi non hanno contaminato le loro vesti» (3:4). Ma, la veste bianca è ugualmente associata alla festa e alla cena che la celebra (cfr. Ec 9:8). Vestirsi con un abito bianco equivale a mettersi nel clima della festa, significa anticipare le delizie del banchetto con il Signore. La chiesa di Sardi segna, nella storia del cristianesimo, un movimento di ritorno alle fonti. È il tempo della Riforma. Le antiche verità sono riscoperte. Si ritorna al messaggio originale della Bibbia, a ciò che si è «ricevuto e udito» (Ap 3:3). La parola di Dio diventa nuovamente l’oggetto dello studio da parte dei credenti. Le menti si aprono e si ritrova il gusto per gli studi. I riformatori valorizzano l’accesso diretto alle fonti della rivelazione. Non si dipende più dal sacerdote o dalla tradizione per comprendere la parola di Dio. Lo studio del greco e dell’ebraico (lingue usate nella Bibbia) torna a essere qualcosa d’importante, se non d’indispensabile. Questa è l’epoca delle prime grammatiche ebraiche. Ma, molto presto il movimento si sclerotizza. Anche in questo caso la chiesa produce la sua tradizione e il suo proprio 53

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credo. La preoccupazione dell’ortodossia, che predomina nella scolastica protestante, prende il posto della relazione personale con Dio e con l’impegno nella vita. Si ricade talvolta nell’intolleranza. Anche i protestanti hanno conosciuto inquisitori e processi. Calvino condannò al rogo studiosi come Michel Servet, che osavano distaccarsi dalle sue vedute. Lutero s’infiammò in crociate anticattoliche e antigiudaiche, abbandonando alla distruzione schiere di oppositori. Anche allora furono commessi dei crimini in nome di Dio. La chiesa protestante, al pari di quella cattolica, s’installò al potere, cercando riconoscimenti. In altre parole, si dimenticò quello che si era scoperto, per ricadere negli errori contro i quali ci si era ribellati. «Coloro che non si ricorderanno delle lezioni della storia, saranno condannati a riviverne gli errori». Non fu mantenuta la vigilanza dei primi tempi. I guardiani della città ne hanno abbandonato le porte. Si comprende, allora, il tono di costante appello alla vigilanza che caratterizza la lettera a Sardi. «Sii vigilante» (Ap 3:2), «se non sarai vigilante, io verrò come un ladro» (v. 3). Gli appelli schiaffeggiano Sardi a colpi d’imperativi. «Sii vigilante, sii fermo, ricordati, custodisci, pentiti». Il motivo di queste espressioni risiede nella rilassatezza di questi credenti che, al pari degli abitanti di Sardi, dopo la lotta, si erano seduti. Ma, sospira l’autore della lettera, non tutti sono in quello stato. C’è chi non ha contaminato le sue vesti (cfr. v. 4). Ancora una volta, si tratta, però, di una minoranza. La nozione di «rimanente» è profondamente radicata nella Bibbia. Da Seth, il terzo figlio di Adamo, ai costruttori del tempio sotto la guida di Esdra e Neemia, passando dai patriarchi Abraamo, Isacco e Giacobbe, per i profeti come Elia, e tutti i fedeli a YHWH che non hanno piegato le ginocchia davanti a nessun vitello d’oro, la storia sacra presenta sempre uomini che sono sopravvissuti all’infedeltà. Un rimanente resterà. Questa promessa risuonò anche ai tempi del profeta Isaia, il quale la rese indelebile nel nome di uno dei suoi figli, SearJasub (cfr. Is 7:3), sarebbe stato un segno per un popolo spiritualmente assopito. Anche Giovanni gioca sul nome di Sardi per trasmettere, attraverso un’allitterazione, il suo appello al risveglio (sterison) di un rimanente (Ap 3:2). Nel nome della città si 54

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avverte, imperiosa, l’esigenza e il dovere di salvare una minoranza in via di estinzione. Filadelfia A soli quarantacinque chilometri a est di Sardi, Filadelfia, porta le tracce del suo passato sconvolto dai terremoti. La grande pianura vulcanica che rivela, nel nome, la sua storia: katakaumena (terra bruciata). La città fu fondata durante il regno di Attalo II (159-138 a.C.) da coloni provenienti da Pergamo, desiderosi di propagare la lingua e la cultura greca. Il nome deriva dal sentimento assai vivo, nutrito dal re per il fratello Eumene. Filadelfia significa appunto: «amore fraterno». Non è il solo nome posseduto dalla città. In onore di Tiberio, che fornì ingenti aiuti per la ricostruzione a seguito del terremoto, essa prese il nome di Neocesarea (la nuova città di Cesare). In seguito cambierà ancora in Flavia, per gratitudine verso l’imperatore omonimo. La lettera riflette questa storia tormentata. Anche in questo caso, per costruire il suo messaggio, la profezia si basa su dati storici. Come la città, anche la chiesa è stata fondata da coloni. Questo è il tempo delle missioni oltre le frontiere europee, in Africa, in Asia, nel Nuovo Mondo (dalla fine del XVIII al XIX secolo). Un tempo nel quale il cristianesimo sembra vivere una stagione nuova, forse caratterizzata da alcune ingenuità, ma sicuramente zelante e pieno della speranza delle origini. «Pur avendo poca forza, hai serbato la mia parola e non hai rinnegato il mio nome» (Ap 3:8). Gli eletti di Filadelfia, camminano sul sentiero tracciato dal rimanente di Sardi che ha custodito la parola, ed è andato anche oltre. Mentre la lettera a Sardi incoraggiava a «custodire» (3:2), la lettera a Filadelfia riconosce la perseveranza dei fedeli, i quali «hanno custodito» (vv. 8,10). Siamo a uno stadio più avanzato. L’opera iniziata a Sardi si è compiuta a Filadelfia. A Sardi, la venuta del Signore è paragonata a quella di un ladro. Non è attesa. A Filadelfia, questa attesa è, invece, impaziente: «Io vengo presto» (v. 11). L’alleanza con Dio, viene ora rinnovata. La promessa contenuta nella lettera ricorda lo stile del Salmo 23. I nemici sono convocati per riconoscere che «io ti ho amato» (3:9; cfr. Sal 23:5). La reciprocità dell’alleanza e dell’amore è resa dall’eco esistente tra i due 55

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verbi: «Tu hai custodito», «io ti custodirò» (Ap 3:10). È la formula utilizzata dai profeti: «Tu sarai il mio popolo e io sarò il tuo Dio».93 La stessa dichiarazione d’amore «il mio amico e mio, e io sono sua» è presente nel Cantico dei cantici (2:16; 6:3; 7:11). Questa relazione d’amore esclusiva e rinnovata è descritta nel nome stesso della città. Filadelfia significa «amore»; essa riceve, come l’antica città greco-romana, il nome del suo maestro, lo stesso nome di Dio, fino a confondersi con il nome della nuova Gerusalemme che scende dal cielo (Ap 3:12). La chiesa trova la sua identità specifica nella speranza del regno di Dio. Probabilmente, è il momento storico nel quale l’attenzione per la venuta del regno di Dio raggiunge il punto più alto. Negli Stati Uniti come in Germania, in Scandinavia, in Francia, Svizzera e Olanda, folle intere di credenti sono colte dalla stessa impaziente attesa del ritorno di Cristo. Uno storico dell’epoca, John McMaster (1852-1932) riferisce che «quasi un milione di persone su diciassette che popolavano gli Stati Uniti, seguirono il movimento di risveglio, tra i quali un migliaio di pastori».94 L’attesa è così intensa che alcuni credono di discernere nella loro epoca, il momento in cui si compie la profezia. Viene perfino identificata una data: il 1844. Quello che stupisce è che la stessa febbre circola in ambienti ebraici e musulmani. Tra i primi, sorge il movimento hassidico, nel cuore stesso dell’Europa, che aspetta la venuta del Mashiah per l’anno 5603 (1843-1844).95 I musulmani bahai giungono alla stessa conclusione. Essi prevedevano per l’anno 1160 (1843-44) l’apertura della bab, porta che introduce alla conoscenza dell’imam nascosto, incarnazione del messia.96 Anche tra i laici sorgono movimenti, come il marxismo, che si richiamano all’idea di progresso e rivoluzione, in vista di una nuova era. È un’epoca di forti speranze che pervadono il mondo intero. Questo tratto caratteristico emerge ancora meglio, ascoltando la promessa contenuta nella lettera indirizzata a

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Esodo 6:7; Geremia 24:7; 30:22; 31:33; 32:38; Ezechiele 36:28, ecc. R. Lehmann, Les adventistes du septième jour, p. 14. 95 Machiah Maintenant 46, 30 gennaio 1993, p. 3. 96 Cfr. C. Cannuyer, Les Bahaiis, p. 11. 94

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questa chiesa: «Ti ho posto davanti una porta aperta che nessuno può chiudere» (Ap 3:8). Questa immagine della porta aperta verrà chiarita maggiormente nel capitolo seguente (4:1), allorché si parla di una porta che si apre anche sul trono di Dio. La «porta aperta» possiede, dunque un duplice significato. Essa rappresenta l’apertura di nuovi orizzonti nella propagazione del messaggio del Vangelo. Il XIX secolo è stata l’epoca in cui l’opera missionaria della chiesa ha conosciuto la massima espansione. Ma, un’applicazione non secondaria della nozione di «porta aperta» si trova anche nell’esplosione della ricerca biblica e profetica. Grazie a questo rinnovato interesse, molti scoprirono verità inerenti il piano della salvezza e realtà di ordine celeste. Ebbe inizio un studio profondo dell’opera attuale di Cristo Gesù nel cielo. Il tempo della chiesa di Filadelfia, sottolineato dalla porta aperta sulla terra, come nel cielo, si evidenzia anche come il tempo dell’attesa e della speranza. Riprende vita l’annuncio della liberazione del mondo. Laodicea Dopo Filadelfia, il profeta dell’Apocalisse ci trasporta a cinquanta chilometri verso sud, a Laodicea, l’ultima tappa del viaggio. È il tempo in cui viviamo; è la chiesa di oggi, qualunque sia il nome che le diamo, poiché siamo tutti coinvolti in questo ultimo sussulto della storia. Per tutti è il tempo della fine. Lo si comprende già dal fatto che Laodicea è la settima tappa del viaggio. Il numero sette parla di conclusione e siamo, infatti, all’ultima lettera. L’idea di fine, domina tutta la lettera. Emerge già dalle prime parole del mittente: Dio si presenta come l’«Amen» (3:14). È la parola della fine, del compimento di tutte le promesse e tutte le preghiere. Il profeta Isaia aveva qualificato Dio in questi termini: «Dio dell’amen» (Is 65:16).97 Nei due testi l’amen è seguito dal riferimento alla creazione. Nel libro di Isaia, il Dio dell’amen promette «... nuovi cieli e una nuova terra» (v. 17). Nella lettera di Laodicea, il Dio dell’a-

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La versione Nuova Riveduta traduce «Dio di verità». La parola ebraica amen deriva dal termine emet (verità).

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men si presenta come «Il principio della creazione di Dio» La parola greca arché traduce il termine ebraico bereshit (principio) in Genesi 1:1.98 Il Dio della fine è anche il Dio del principio. Dio si rivela qui come colui che ha seguito il corso della storia dall’inizio alla fine. La venuta di Dio darà compimento e fine alla vicenda umana e, ancor più, questa venuta è vicina. La lettera raffigura il Signore, in piedi, mentre bussa alla porta (3:20). Nel Cantico dei cantici egli è il beneamato che si tiene dietro la porta, in attesa dell’incontro (cfr. 2:8,9; 5:5). Gesù è alla porta. Nel linguaggio neotestamentario significa che la fine è prossima.99 L’evocazione dell’intimità della cena si carica dello stesso messaggio: «Io cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3:20). L’immagine è familiare già dai tempi più antichi, per esprimere la nostalgia per il ricongiungimento finale. Probabilmente è il significato nascosto in ogni pasto rituale e sacro, presente nella tradizione levitica e giudaica.100 Allo stesso modo, troviamo questa lezione nel Salmo 23, quando viene delineato, all’orizzonte dell’umana sofferenza, la speranza di un’immensa tavola apparecchiata da Dio per i suoi figli fedeli. Nel Nuovo Testamento, l’importanza del pasto nel ministero di Cristo, si arricchisce dello stesso accento.101 È il senso fondamentale dell’ultima Cena, consumata durante il Pessah, divenuta per tutti i cristiani il segno della speranza.102 La cena che riunirà Dio con il suo popolo, costituisce uno dei temi favoriti dell’Apocalisse.103 Ma, la speranza di cui parla la Bibbia trae origine dalla realtà e dalla vita concreta. Ne gioiremo con tutte le nostre facoltà. Non si poteva tradurre meglio la natura di questo regno, se non con l’immagine del pranzo. I profumi, il tatto, i colori, il gusto;

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Giovanni 1:1. Matteo 24:33; Marco 13:29; Giacomo 5:9. 100 Genesi 14:18-20; 31:54; Deuteronomio 12:5-7,17,18; 14:23,26; 15:20, Esodo 18:12; 24:8-11; 1 Samuele 9:11-14; Proverbi 9:1-5. 101 Matteo 5:6; 9:11; 22:1-14; Marco 6:35-44; Luca 13:29. 102 Marco 14:25; 1 Corinzi 11:26. 103 Apocalisse 2:7; 3:20; 19:7,9; 22:2. 99

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tutto l’essere partecipa e si dona alla vita. Per non parlare della presenza dell’altro che arricchisce l’esperienza. L’intimità e la reciprocità della relazione è resa, ancora meglio, dalla formula classica del patto coniugale che fa dire alle parti: «Io cenerò con lui ed egli con me» (3:20). Questa cena rende bene l’intimità dell’incontro. Per cogliere appieno l’immagine bisogna immaginare la scena come era vissuta nel Medio Oriente antico. Si mangiava nello stesso piatto, con le mani, ci si toccava, si condivideva, si correvano gli stessi rischi. Era davvero un atto di comunione. L’incontro con Dio è atteso, dunque, come una esperienza reale, fisica e storica. Curiosamente, qui, non è l’uomo il soggetto della speranza, ma Dio stesso. La speranza è descritta come una supplica di Dio, il quale sta in piedi davanti alla porta, come uno straniero non accettato, un mendicante nel bisogno che grida: «Io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce...» (3:20). È Dio che si fa invitare. La cena deve essere consumata, innanzitutto qui, a casa nostra. Contrariamente alla porta di Filadelfia, questa deve essere aperta quaggiù, dalla parte rivolta verso di noi: «se qualcuno apre la porta, io entrerò da lui». Questa richiesta di Dio conclude il lungo appello per una presa di coscienza e un cambiamento (vv. 15-19), un appello tanto accorato, quanto non richiesto da Laodicea, che non ne sente il bisogno. Laodicea si crede giusta, come indica il suo nome che significa «popolo giusto» e come si ricava dalle stesse sue convizioni apertamente confessate: «Tu dici: “Sono ricco, mi sono arricchito e non ho bisogno di niente!”» (v. 17). L’antica Laodicea era famosa per la sua ricchezza, in quanto era il centro di un sorta di società bancaria. Quando Cicerone, il console romano (63 a.C.-43 d.C.) viaggiava per l’Asia Minore, si fermava in questa città per cambiare le sue lettere di credito. A partire dal II secolo a.C. gli abitanti di Laodicea coniavano la loro propria moneta, le cui effigie raffiguravano gli dèi locali. Laodicea bastava a se stessa e non aveva bisogno di nessun aiuto esterno. Lo storico Tacito (55-120 d.C.) si meravigliò del fatto che, dopo il terremoto del 61, essa si rimise in piedi senza sovvenzioni da parte del governo romano.104

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Annales, XII, 27.

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Laodicea doveva la sua ricchezza anche alla fertilità del suolo, alla particolarità delle sue pecore che fornivano una lana dal profondo colore nero.105 Fioriva l’industria dell’abbigliamento, si produceva un collirio esportato in tutto il mondo allora conosciuto. Tutte le sue ricchezze sono la causa della sua profonda povertà. La lettera costruisce la sua requisitoria proprio su questo paradosso. Laodicea non si rende più conto che il suo tesoro non vale più niente. Il suo oro non ha più valore, la sua purezza è dubbia. Il consiglio è quello di acquistare dell’oro provato col fuoco (Ap 3:18). Essa si vanta della sua eleganza, ma va in giro nuda. Il consiglio è di acquistare in fretta degli abiti per coprirsi. La cosa peggiore è che è divenuta cieca, cosa che le impedisce di vedere la sua nudità. L’ironia della lettera schiaffeggia tutti quegli snob ridicoli che camminano sicuri di loro stessi, convinti di essere splendidi e provvisti di ogni cosa, mentre, in realtà sono nudi. Allora, il grido paterno ad acquistare del collirio per tornare a veder chiaro su se stessi. Dunque, tutte le ricchezze di Laodicea, l’oro, i vestiti, il collirio, tutto ciò che credeva di possedere in abbondanza e qualità, si dimostrano inutili. La ragione di questa aberrazione è semplice. È contenuta nel consiglio finale che proclama: «Compra da me» (v. 18). La ricchezza di questi cristiani dell’ultima ora è vana e falsa, perché essa non proviene da Dio. La situazione è tanto più tragica perché essi non sanno nulla e si credono ricchi. Tutta una mentalità, qui viene messa alla berlina. Si possono riconoscere i sintomi della nostra società umanistica e laica dalla quale Dio è escluso. Le ricchezze spirituali, culturali e religiose, s’accumulano a partire dallo sforzo della ragione, in stretto collegamento con la cultura umana e solo umana. Gli autori della letteratura religiosa non sono mai stati così prolifici, i dottori in teologia, mai così numerosi. Ma l’appello al soprannaturale è diventato sospetto anche negli ambienti più tradizionalmente religiosi. Non si crede più ai miracoli dall’alto. Il regno di Dio si costruisce quaggiù sulla terra. La chiesa istituzionalizzata, quando non è un vero e proprio Stato, prende il posto della città che

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viene dal cielo. La politica si sostituisce alla religione e i ragionamenti alla rivelazione, l’umano al divino. Questi mali si sono propagati nella cristianità stessa, presso coloro che dicono di attendere il regno di Dio. La complessità delle conoscenze dottrinali, non permette di discernere tutto quello che ancora c’è da conoscere, da ricercare. Si è fieri e soddisfatti di se stessi. La ricchezza materiale e il successo delle operazioni missionarie, amministrative ed ecclesiastiche, possono accecare. Non si è più in grado di discernere la propria miseria. Quando in uno sprazzo d’onestà si ammettono i propri errori, tutto si spegne nella mancanza di passione, di coerenza, di autentico ritorno alle origini evangeliche. A Laodicea convivono, l’incoscienza, l’indifferenza e la tiepidezza. È la diagnosi che scaturisce dalla lettera: «Tu non sei né freddo, né fervente... sei tiepido» (vv. 15,16). Alla periferia dell’antica città, abbondano le terme. Gli abitanti di Laodicea sono esperti in materia di... acqua tiepida. Non abbiamo bisogno di dare particolari suggerimenti. Ognuno, se vuole, può riconoscersi nelle parole della profezia. I tratti di Laodicea si riflettono nei nostri. La lettera di Laodicea è anche un giudizio contro il suo popolo. Il secondo significato della parola Laodicea è, infatti, «giudizio del popolo». Allora, che cosa fare? Secondo l’autore della lettera, la risposta non deve essere cercata qui sulla terra, nella retorica dei colloqui, nelle discussioni dei comitati, nei giochi del potere e del denaro. La soluzione viene da altri luoghi. Questi falsi ricchi hanno bisogno di quel falso mendicante. Di quel Dio che gioca a fare il mendicante, bussa alla porta supplicando che gli si apra. La soluzione si trova al di là della porta. Occorre fare come il beneamato del Cantico dei cantici e andare ad aprire (cfr. 5:5). A colui che corre questo rischio, a colui che vincerà, Dio promette il suo regno intero, infinito e generoso dicendo: «Io ti farò sedere presso di me sul mio trono» (Ap 3:21). È la sicurezza di un altro tipo di esistenza, di un’altra sovranità, di un’altra libertà nell’usufrutto di beni che non abbiamo guadagnato. A colui che gli apre la porta, sulla terra, Dio aprirà la sua, nei cieli. È significativo che, immediatamente dopo, la visione menziona una «porta aperta» sul trono di Dio nel cielo (4:1,2). Ci sono quindi due porte. Quella terrestre, alla quale Dio 61

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bussa, impazientemente e appassionatamente. La lettera di Laodicea riprende il Cantico dei cantici: «Sento la voce del mio amico che bussa e dice: Aprimi, sorella mia, amica mia!» (5:2). Secondo questo passo i colpi risuonerebbero molto forte. Il senso del verbo ebraico dapaq è «bussare con violenza». La parola utilizzata da Giacobbe per evocare la violenza del pastore che colpisce le sue pecore per costringerle a camminare più velocemente.106 I colpi non sono dolci e tranquilli. Sono come un martellare frenetico. E questa passione di Dio racconta la serietà del problema e l’ardore del suo amore. L’apertura di questa porta dipende dalla nostra buona volontà. In definitiva, si tratta della porta del nostro cuore. È il cristianesimo vissuto nella carne dell’esistenza e della storia. Sono le nostre scelte e le nostre lotte. È la nostra risposta all’appello di Dio che vuole entrare nella nostra vita. L’altra porta è nel cielo. Solo Dio può aprirla. Essa si spalanca sul perdono di Dio e sul suo regno. Il cristianesimo non è una religione d’ordine puramente esistenziale, un’etica o un’emozione, che riguarda il solo credente, qui e ora. Il regno di Dio non è solo «in mezzo a voi» (Lc 17:20,21). L’Apocalisse parla di un’altra porta, quella del cielo, di cui solo Dio possiede la chiave. Il regno di Dio è anche cosmico (vv. 24). La stessa immagine della porta viene ancora utilizzata, suggerendo un rapporto tra le due dimensioni. Il regno di Dio comincia qui sulla terra, dal momento in cui apriamo la porta. La cena con il Signore è già cominciata nelle nostre esistenze. Dio è sceso tra noi e tollera il nostro menù e il nostro gusto. Egli mangia alla nostra tavola. Ma, al suo contatto, un altro gusto si forma, si affina. Questa intimità ne domanda di nuove e di più profonde. La cena del Signore diventa un antipasto che chiede un programma più ricco. Più si vive in comunione con lui, maggiormente si fa sentire il bisogno della sua presenza. Il pasto consumato con lui ci porta a bruciare di nostalgia per quel regno dei cieli ancora lontano da noi. Più apriamo la nostra porta quaggiù, più sospiriamo perché si apra l’altra porta, quella del cielo.

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Preludio sul trono del cielo Come in risposta al sospiro che sale dalla terra, la visione seguente si apre all’improvviso su «una porta aperta nel cielo» (Ap 4:1); Giovanni è nuovamente colto dalla stessa voce del Figlio dell’uomo che l’aveva sorpreso all’inizio della sua visione. Ma, questa volta è il profeta che deve spostarsi nello spazio in cui opera il Figlio dell’uomo, come indica esplicitamente la voce che proviene dall’alto: «Ed ecco, un trono era posto nel cielo e sul trono c’era uno seduto» (4:2). L’Apocalisse è il libro del Nuovo Testamento che più si riferisce all’immagine del trono. Su sessantadue citazioni della parola, quarantasette si trovano nell’Apocalisse. La percentuale dà un’immagine chiara dell’importanza di questo motivo nella visione di Giovanni. Per i lettori contemporanei al profeta, preoccupatissimi dai troni terrestri e, in modo particolare da quello di Cesare, per i lettori di tutti i tempi che temono il potere o che vi aspirano, l’Apocalisse moltiplica le referenze, al fine di ricordarci che c’è «un trono nel cielo» che domina su tutti gli altri. Il trono è la parola chiave del capitolo 4, su quarantasette citazioni presenti nel nostro libro, quattordici sono in questo capitolo. Il trono in sé è praticamente indescrivibile. Giovanni si accontenta di menzionarlo. Lo stesso vale per il personaggio che prende posto sul trono. Non si azzarda nessuna descrizione. Una vaga comparazione è appena abbozzata. Il profeta utilizza la parola greca omoios «come, avente l’aspetto di…, simile a...» (4:3). Giovanni è incapace di identificare quello che vede. La realtà va oltre le parole. Il profeta descriverà la sua visione in poesia, utilizzando immagini che fanno parte del suo mondo. Il personaggio divino gli appare sotto forma di tre pietre preziose: il diaspro, il sardonio e lo smeraldo. Il fatto che 63

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queste tre pietre siano menzionate esattamente in questo ordine, dimostra che la loro citazione non è semplicemente un artificio stilistico o sensoriale. Quelle tre pietre figurano nel pettorale del sommo sacerdote (cfr. Es 28:17). Infatti, si trovano associate solo in quel contesto. Giovanni non vede i tratti somatici del personaggio divino, coglie l’essenziale, che sono le tre pietre. L’intenzione rimane quella di evocare l’ambiente del tempio. L’arcobaleno che sovrasta il trono, oltre ad aggiungere grandiosità alla scena, ricorda il diluvio. Dio assicura la sua misericordia a temperare l’esigenza della giustizia. Comparendo in mezzo a nuvole, lampi e tuoni (4:5), segni della tempesta che allude alla collera di Dio,107 l’arcobaleno è il segno dell’amore di Dio che si unisce alla sua giustizia per salvare l’uomo e aprirlo alla speranza. Esso è anche, come sostiene Ezechiele, «l’immagine della gloria di Dio» (1:28), cioè della sua grandezza infinita e della sua potenza. L’universo intero è compreso nell’abbraccio dell’arco. Intorno al trono prendono posto ventiquattro anziani. La loro età li identifica col giudice divino dai capelli candidi (Ap 1:14), così come la loro posizione, seduti come lui su dei troni (4:4), li qualifica come giudici.108 Ma bisognerà aspettare il capitolo 20:4, per vederli effettivamente all’opera in quella funzione. Per il momento essi sono descritti nell’atto di lodare e adorare (4:911); le due attività non sono, del resto, incompatibili. Seduti sul trono come il sommo sacerdote, essi sono investiti della duplice funzione di giudici e sacerdoti. Questo accorpamento risale ai tempi di Mosè, quando il sacerdote esercitava anche la funzione di giudice.109 I ventiquattro anziani rappresentano i vittoriosi di cui parla la lettera a Laodicea; quelli, cioè, che sono chiamati a sedersi sul trono per giudicare in compagnia del Figlio dell’uomo e del Padre suo (3:21). Così, essi sono incaricati di trasmettere «le preghiere dei santi» (5:8) e uno di loro aiuta Giovanni a identificare il popolo dei salvati (7:13,14). Il numero 24 è, certamente, simbolico;

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Giobbe 37:4; cfr. Apocalisse 11:18,19; 14:2. Apocalisse 20:4. 109 Deuteronomio 17:9; cfr. Geremia 18:18. 108

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gioca sul numero 12, numero dell’alleanza (4, numero della terra e 3, numero di Dio). Le dodici tribù d’Israele nell’Antico Testamento, i dodici apostoli nel Nuovo Testamento, testimoniano dello stesso simbolismo presente nell’Apocalisse (21:12,14). Il numero 12 rappresenta il popolo dell’alleanza. A essere menzionato è dunque l’Israele completo, del Nuovo e dell’Antico patto. L’attenzione di Giovanni è concentrata sulla loro azione sacerdotale. Il numero 24 è anch’esso intenzionale, in quanto allude al servizio del tempio, assicurato grazie a un corpo di ventiquattro gruppi di sacerdoti (cfr. 1 Cr 24:18). Ogni gruppo aveva il suo presidente, conosciuto generalmente con il nome di «capo» (v. 5). È interessante notare che la Mishna li designa con il termine «anziani».110 Come i sacerdoti, i leviti erano anch’essi suddivisi in 24 gruppi (cfr. 25:31) e, come gli anziani dell’Apocalisse, adoravano Dio suonando l’arpa (Ap 5:8; 1 Cr 25:6-31). Tramite gli anziani, Giovanni assiste in definitiva, a un servizio di adorazione celeste, il corrispondente ideale di ciò che si celebrava nel tempio israelitico.111 Il mare, di un vetro trasparente come il cristallo, si stende all’infinito davanti al trono di Dio, accentuando la dimensione cosmica dell’avvenimento. Il trono di Dio, sospeso sull’elemento acqueo, proclama il controllo di Dio e il suo potere sulle acque. Dio è presentato come il Creatore. Nel libro della Genesi, nella prima pagina della Bibbia, la creazione è descritta, in effetti, come la vittoria sull’acqua, simbolo del nulla e delle tenebre.112 Il tema è ripreso, del resto, nei salmi113 e nel libro di Isaia.114 Quando il Salmo 104 pone il trono di Dio al di sopra delle acque, vuole intendere la sovranità del Signore sulla creazione: «Egli costruisce le sue

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Taanith 2:6; Sukkah 5:6-8; Yoma 1:5. Esodo 25:40; cfr. Ebrei 8:5; 9:23. 112 Ezechiele 26:19-21; Giona 2:6; Abacuc 3:10; cfr. P. Reymond, L’Eau sacrée, sa vie et sa signification dans l’Ancien Testament (VT Supplemento 6), Leiden, 1958, p. 213. L’immagine si ritrova nelle altre culture dell’epoca, ma in quei casi essa è rivestita del linguaggio mitologico. A Babilonia, per esempio, la genesi del mondo viene attribuita alla vittoria di Marduk, dio di Babilonia, su Tiamat, dio dell’acqua. 113 Salmo 136:6. 114 Isaia 27:1; 40:12. 111

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alte stanze sulle acque» (v. 3). Probabilmente, è questa immagine che ha ispirato la costruzione della fonte del mare, nella struttura del tempio (cfr. 2 Cr 4:2), che spesso è assimilata al trono di Dio.115 Veniva ricordato, in questo modo, che il giudice divino, re dell’universo, era il creatore. Solo il creatore può essere il re dell’universo.116 È significativo che il riferimento al mare di vetro, ricordo del miracolo della creazione, sia introdotto dallo Spirito di Dio (cfr. Ap 4:5), di cui è noto il ruolo nella creazione (cfr. Gn 1:2). Subito dopo la presentazione del mare di vetro, si passa alla visione delle quattro creature viventi, altro punto significativo, le quali rappresentano l’ordine della terra. Nella Bibbia come nella cultura mediorientale, il numero quattro simboleggia l’universo terrestre. I quattro punti cardinali,117 per esempio, e i quattro angoli della terra.118 Il profeta Daniele parla dei quattro venti del cielo (7:2) per alludere alla totalità dello spazio terrestre, poi, si riferisce ai quattro regni per descrivere il cammino di tutta la storia umana. Da notare, a questo proposito, l’aspetto di queste quattro creature viventi. La prima fa pensare a un leone, la seconda a un vitello, la terza a un uomo e la quarta a un’aquila. Un’antica parabola ebraica, un midrash, riprende la stessa immagine. Secondo Rabbi Abahu, sono quattro le creature più possenti: l’aquila, tra i volatili, il bue tra gli animali domestici, il leone tra gli animali selvatici; l’uomo, fra tutte le creature.119 Secondo questa tradizione, i quattro animali rappresentano la creazione intera, come i ventiquattro anziani sono il simbolo dell’umanità. Il cuore della visione del trono risulta essere la creazione dell’universo. La liturgia che parte dal canto delle quattro creature e trova risposta nel coro dei ventiquattro anziani, mette ulteriormente l’accento, sul tema della creazione. In un primo tempo, le quattro creature si agitano intorno al trono,

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Geremia 13:7. Salmo 74:12,13; 89:13-15. 117 Geremia 49:36; Daniele 7:2. 118 Apocalisse 7:1; 20:8. 119 Strack H.L.P. Billerbeck, Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrasch, Munchen, 1978, t. III, p. 799. 116

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cantando a un ritmo ternario, per esaltare il Dio del cielo: «Santo, santo, santo... che era, che è, e che viene» (Ap 4:8). La liturgia suggerisce che la santità di Dio si manifesta nei tre tempi della storia e dell’esistenza: il passato, il presente e il futuro. Il profeta Isaia aveva ricevuto la stessa visione (6:1-3). Anche in quel passo la santità di Dio è ripetuta tre volte e si ripercuote sulla terra: «Santo, santo, santo è il SIGNORE degli eserciti! Tutta la terra è piena della sua gloria!» (v. 3). Dopo la fine del canto delle creature viventi, i ventiquattro anziani si prostrano in adorazione e gettano le loro corone ai piedi del trono. Poi il movimento riprende. Il servizio liturgico non ha mai fine, perché i quattro esseri non cessano di ripetere il loro canto. Lo spettacolo riempie lo spazio e il tempo. Il paesaggio, gli oggetti, le grida, i canti, le parole, le immagini e i personaggi presenti sono tutti protesi nello stesso atto di adorazione che si riferisce all’evento della creazione: «Tu sei degno, o Signore e Dio nostro, di ricevere la gloria, l’onore e la potenza: perché tu hai creato tutte le cose, e per tua volontà furono create ed esistono» (Ap 4:11). Ciò che rende Dio degno di essere adorato, in qualità di giudice e re, deriva dal fatto che egli è il creatore dell’universo. Senza questo, l’adorazione perde ogni senso e diviene idolatria. Infatti, o si adora il creatore, o una delle creature. Dio solo, per il fatto di essere il creatore, può giudicare e decidere del destino dell’universo; il nostro destino e la nostra salvezza. «Dio solo è degno». Questa affermazione conclude la scena del capitolo 4, per ritornare immediatamente all’inizio del capitolo 5, sotto forma di eco: «Chi è degno?» (v. 2). La domanda risuona come un forte grido, riferendosi a un libro sigillato che il profeta vede nella mano destra del giudice divino seduto sul trono: «Chi è degno di aprire il libro e di sciogliere i sigilli?». Ma la domanda resta sospesa nel vuoto. Solo il silenzio dell’universo le risponde: «Ma nessuno, né in cielo, né sulla terra» (v. 3) ne è degno. Giovanni si scioglie in lacrime e il suo dolore tocca uno degli anziani che lo rassicura: «Non piangere; ecco il leone della tribù di Giuda, il discendente di Davide, ha vinto per aprire il libro e i sette sigilli» (v. 5). Shavuoth A questo punto, egli vede lui, in mezzo alla scena fra le creature viventi e «in mezzo al trono» (v. 6). Giovanni ha appena udito 67

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parlare del leone di Giuda, possente e vittorioso, quando il suo sguardo viene attratto da una vittima debole, da un agnello sacrificato e provvisto di sette corni. In altre parole, un agnello forte, come viene suggerito da queste armi naturali, simbolo di potenza nella Bibbia.120 L’agnello è dotato anche di sette occhi, simbolo della pienezza dello Spirito (v. 6). Questa figura rappresenta, in modo evidente, Cristo Gesù, il Messia, figlio di Davide, leone di Giuda (v. 5), vincitore della morte e del male proprio grazie alla sua umiliazione e alla sua morte. Giovanni vede l’agnello avvicinarsi al trono divino e impadronirsi del famoso libro sigillato: «Egli venne e prese il libro dalla destra di colui che sedeva sul trono» (v. 7). Gesù Cristo sta in piedi alla destra di «colui che è seduto sul trono», scena che l’apostolo Pietro vede compiersi durante la Shavuoth, festa delle settimane (Pentecoste), che egli interpreta come l’intronizzazione di Gesù Cristo dopo la sua risurrezione: «Questo Gesù, Dio lo ha risuscitato; di ciò, noi tutti siamo testimoni. Egli dunque essendo stato esaltato alla destra di Dio e avendo ricevuto dal Padre lo Spirito Santo promesso, ha sparso quello che ora vedete e udite» (At 2:32,33).121 Questa immagine, presa in prestito dalla cultura del Medio Oriente antico, rappresenta i gesti rituali dell’intronizzazione di un nuovo re, il quale deve leggere il contratto di alleanza che lo lega al suo sovrano.122 Anche in Israele la cerimonia di intronizzazione prevedeva la lettura da parte del principe del testo del «libro dell’alleanza»,123 cosa che lo dichiarava vassallo di Dio sovrano supremo. Lo stesso scenario caratterizza la cerimonia d’alleanza del Sinai (Es capp. 19,20). Anche in quella circostanza il popolo ricevette un documento scritto da Dio su due tavole (32:15; Ap 5:1). L’avvenimento è accompagnato da tuoni, lampi e squilli di schofar (19:16; 20:18; Ap 4:1,5). Ancora una volta, il profeta è invitato a «salire» per ricevere la rivelazione di Dio (Es

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Cfr. Salmo 132:17; Geremia 48:25; Daniele 7:8,11,21; Zaccaria 1:18,19, ecc. Atti 7:55,56; Filippesi 2:9-11; Ebrei 8:1,2; 10:19-22. 122 Cfr. L.C. Allen, Psalms 101-150, p. 80; G. Von Rad, «The Royal Ritual in Judah», in The problems of the Hexateuch and Other Essays, Londra, 1966, p. 103. 123 Esodo 24:7; 2 Re 23:2,21; Deutoronomio 17:18; 2 Re 11:12,13; 23:3. 121

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19:24; Ap 4:1). Anche qui il popolo è invitato a diventare un regno di sacerdoti (Es 19:6; Ap 5:10). Nei testi in questione il santuario viene inaugurato sulla terra in Esodo 19 e 40 e nel cielo in Apocalisse 4 e 5.124 L’intronizzazione di Cristo è interpretata dal profeta dell’Apocalisse come un’inaugurazione del santuario. La lettera agli Ebrei spiega l’intenzione profonda presente nel testo: «Ora, il punto essenziale delle cose che stiamo dicendo è questo: abbiamo un sommo sacerdote tale che si è seduto alla destra del trono della Maestà nei cieli, ministro del santuario e del vero tabernacolo, che il Signore e non un uomo, ha eretto» (Eb 8:1,2). Questo complesso d’immagini impregnate di cultualità levitica era destinato a far comprendere ai giudeo-cristiani dell’epoca, il ruolo e il valore del sacrificio di Cristo e, soprattutto, a mostrare la realtà della sua opera: Gesù Cristo è vivente e agisce ancora in nostro favore. È interessante notare come la scena dell’intronizzazione di Cristo è posta nel contesto liturgico della Pentecoste. I suoi numerosi paralleli con Esodo 19 e 20, testo principale della liturgia ebraica della Pentecoste, lo indicano chiaramente. Il libro degli Atti attesta la stessa cosa, per quanto riguarda l’epoca dei primi cristiani. L’intronizzazione di Gesù nel cielo è associata alla Pentecoste cristiana, avvenuta sulla terra (At 2:1,34). Nell’Apocalisse, la Pentecoste che prepara

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È interessante notare che il passo dell’Apocalisse, come il testo che riporta l’inaugurazione del santuario nel libro dell’Esodo (cap. 40), si riferisce agli elementi riguardanti i componenti del santuario. L’unica volta in cui il santuario viene menzionato in tutte le sue parti è durante la festa delle Espiazioni (Lv 16). La presenza dell’agnello esclude la possibilità di un riferimento alla festa delle Espiazioni, poiché l’agnello fa parte dei sacrifici di inaugurazione del santuario (Es 40:29; Lv 1:10) e non di quelli della festa delle Espiazioni. Al contrario, il nostro testo è assolutamente privo di termini relativi al giudizio. Non vi si trova alcuna allusione all’arca dell’alleanza, così importante nella festa delle Espiazioni (Lv 16:11-15). Inoltre, la parola «naos», termine tecnico che designa nell’Apocalisse il luogo santissimo, è assente in Apocalisse 4 e 5. In modo significativo, la maggior parte delle citazioni della Parola appare nella seconda parte del libro: 11:2 e 19; 14:15 e 17; 15:5,6,8; 16:1,17; 21:22. I soli due testi che lo utilizzano nella parte iniziale del libro concernono il tempo futuro (3:12; 7:15).

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all’apertura dei sette sigilli, si situa in diretto rapporto con la Pasqua, che a sua volta aveva introdotto le sette lettere. L’Apocalisse segue da vicino il calendario ebraico. La Pentecoste segue immediatamente la Pasqua e segna la fine del periodo di cinquanta giorni, a partire dal secondo giorno della Pasqua (Lv 23: 15-16); da qui deriva il nome di Pentecoste che, in greco, significa «cinquantesimo», mentre nell’ebraico abbiamo la parola Shavuoth, che significa settimane, allusione alle sette settimane (7x7) che copre questo periodo. Praticamente, tutte le lezioni della Pentecoste ebraica si ritrovano in quella cristiana. È il tempo delle primizie, delle prime conversioni al cristianesimo, della fondazione della chiesa. È il periodo in cui si avvera il sogno che Dio aveva formulato per Israele all’uscita dall’Egitto, al momento della prima Pentecoste: «Tu ne hai fatto per il nostro Dio un regno e dei sacerdoti» (Ap 5:10; Es 19:6). La Pentecoste cristiana segna l’inizio della dispensazione dello Spirito Santo, in tutta la sua pienezza;125 il nostro passo vi fa allusione attraverso la citazione dei «sette Spiriti di Dio» (Ap 4:5). Per i cristiani, il tempo che segue la risurrezione è un tempo glorioso, quello dell’intronizzazione nel cielo. Il testo apocalittico che identifica in Cristo il leone della tribù di Giuda, il discendente della stirpe di Davide, si carica di nuovi significati (v. 5). L’antica promessa di una dinastia davidica eterna si compie.126 Questo è il senso del rituale del Figlio dell’uomo, in piedi alla destra del padre. Il cielo intero rimane commosso, in silenzio. La domanda di prima ritorna: «Chi è degno di aprire il libro?». La risposta arriva attraverso una straordinaria liturgia che coinvolge l’universo intero. Solo questo Agnello sacrificato è «de-gno». Tutta la liturgia si fonda su questo tema in un crescendo in quattro tempi. 1. Inizialmente, si leva il canto delle quattro creature viventi e dei ventiquattro anziani che proclamano: «Tu sei degno di prendere il libro e di aprirne i sigilli, perché sei stato immolato e hai acquistato a Dio, con il tuo sangue, gente di ogni tribù, lingua, popolo e nazione» (v. 9).

125

Atti 1:8; 2:38,39; Efesini 5:18. 49:10; 2 Samuele 7; 1 Cronache 17; Daniele 9:24-27; Luca 1:32,33.

126 Genesi

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I canti sono accompagnati dall’arpa, la musica si fonde con i profumi d’incenso, simbolo delle preghiere di tutti coloro che hanno gridato alla speranza (v. 8). Questo canto è assolutamente originale, mai udito fino ad allora, una nuova poesia, nuove emozioni, nuove melodie: «È un cantico nuovo» (v. 9). L’espressione è frequente nei salmi per introdurre la lode a Dio e tradurre i sentimenti della conversione, del passaggio dalle tenebre alla luce, dalla morte alla vita. L’espressione appare abitualmente nel contesto della creazione.127 2. In seguito, miliardi di angeli rispondono all’unisono: «Degno è l’Agnello… di ricevere la potenza, le ricchezze, la sapienza, la forza, l’onore, la gloria e la lode» (v. 12). Sette attributi come sette sono i corni, simbolo di potenza. 3. Tutte le creature dell’universo (v. 13) si uniscono all’immensa corale di angeli di cui riprendono in eco, le ultime parole, ma questa volta in senso inverso. Gli angeli avevano terminato con le parole: «La forza, l’onore, la gloria e la lode» (v. 12); le creature dell’universo rispondono: «La lode, l’onore, la gloria e la potenza» (v. 13), come per ben sottolineare il loro accordo armonico e la loro comunione con il canto precedente. 4. Infine, le quattro creature viventi concludono e donano la loro adesione con una sola parola che conferma quella confessione di fede: «Amen!» (v. 14). La scena termina con l’ingresso degli anziani che si prostrano e adorano. A questo punto le parole non servono più. Il silenzio può rendere l’ineffabile. I sette sigilli Il destino dell’universo è in gioco. Già dalle prime parole, la voce squillante come una tromba, lo aveva esplicitamente dichiarato: «Ti mostrerò le cose che devono avvenire in seguito» (4:1). La visione dei sette sigilli è diversa da quella delle sette chiese. In quest’ultima, il profeta vedeva anche le cose «che sono», e non solo «quelle che devono avvenire in seguito» (Ap 1:19).128

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Salmo 33:3-9; 96:1,4-6; 98:1-9; 149:1,2. Ciò spiega la frase «in seguito» (Ap 4:1) che mira al tempo delle sette chiese letterali, e significa: nell’epoca immediatamente successiva a quella dei contemporanei di Giovanni.

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La visione dei sigilli segna una svolta nel libro dell’Apocalisse. A partire da questo punto la visione guarderà solo al futuro. Tutta la simbologia contribuirà a confermare questo orientamento. Il rotolo è tenuto dalla mano destra di Dio, mano dell’azione salvifica, mano del controllo di Dio sulla storia umana.129 Allo stesso modo, il gesto del Figlio dell’uomo che prende il rotolo, allude al suo impegno di portare l’umanità verso gli orizzonti fissati dal piano di Dio. Il contenuto del rotolo non viene rivelato.130 È indicata solo la forma del documento. Si tratta di un opistographe, un manoscritto utilizzato su entrambi i lati; in uso per i documenti legali dell’epoca.131 Per aprire il rotolo, occorre, dunque rompere tutti e sette i sigilli.

129 Giobbe 40:9; Salmo 45:5; Luca 6:6; Atti 3:7; Isaia 48:13; Esodo 15:6-12; Salmo 17:7. 130 Un certo numero di indizi fanno pensare che si tratta di un libro che impegna Gesù in relazione al suo regno futuro, un po’ come il «libro dell’alleanza» impegnava gli antichi re d’Israele al momento della loro intronizzazione. Un altro parallelo con un brano di Ezechiele, dove anche lui menziona un rotolo sorretto da una mano tesa, uscita dal trono di Dio (cap. 1) e ugualmente «scritto dentro e fuori» (2:9,10; cfr. Ap 5:1), conferma questo orientamento. Il testo di Ezechiele spiega che il rotolo conteneva lamenti, lacrime e gemiti (2:10) che sono interpretati, in seguito, come avvertimenti e giudizi concernenti l’avvenire d’Israele (cap. 3). Allo stesso modo, il libro, visto dal profeta Giovanni contiene gli stessi avvertimenti e giudizi, indirizzati al popolo di Dio in rapporto al regno di Cristo. Si potrebbe persino pensare che il profeta veda in retrospettiva dei giudizi futuri che saranno più tardi rivelati nell’Apocalisse. I due documenti (l’Apocalisse e «il libro» del cap. 5) sono del resto designati con lo stesso vocabolo: biblion (1:11; 22:7, 9,18,19), parola chiave del cap. 5 dove vi appare 7 volte (5:1,2,3,4,5,7,8). Entrambi sono dati da Dio a Gesù per far conoscere «le cose che devono avvenire tra breve» (1:1; cfr. 22:6). Entrambi sono sigillati in attesa della fine. Il mancato suggellamento dell’Apocalisse è messo in rapporto con la fine «poiché il tempo è vicino» (22:10); solo alla fine si comprenderà. In questo senso, l’Apocalisse è come il libro di Daniele, anch’esso sigillato fino al tempo della fine. Poi, molti lo leggeranno «e la conoscenza aumenterà» (Dn 12:4; cfr. 12:9,10). 131Cfr. I rotoli scoperti a Qumran tra le lettere di Bar Kokhba: Y. Yadin, The Finds from the Bar Kokhba Period in the Cave of Letters, Gerusalemme, 1963, p. 118; cfr. F.M. Cross, «The Discovery of The Samaria Papyri», in The Biblical Archaeologist 26 (1963) pp. 111-115.

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Solo alla fine, cioè dopo il settimo sigillo, si comprenderà il senso di tutto; solo in quel punto la speranza si aprirà in tutta la sua estensione. Uno dopo l’altro, i sigilli vengono aperti e la speranza prenderà sempre più corpo. Come è accaduto per i messaggi alle sette chiese, il verbo «venire» è il leit motiv che attraversa i sette sigilli; cosa che suggerisce una progressione nel tempo: I II III IV V VI VII

sigillo: sigillo: sigillo: sigillo: sigillo: sigillo: sigillo:

«Vieni» (6:2) «Vieni» (6:3) «Vieni» (6:5) «Vieni» (6:7) «Fino a quando?» (6:10) «Egli è venuto» (6:17) Scende il silenzio (8:1)

L’imperativo «vieni» pronunciato regolarmente da ognuna delle quattro creature viventi, non è indirizzato certo a Giovanni e si applica solo parzialmente al cavallo che appare il quel momento. In realtà l’invocazione è indirizzata all’Agnello e riguarda la venuta di Gesù Cristo, la «parusia». Il verbo greco erchestai è, in effetti, il termine tecnico usato nell’Apocalisse per designare la venuta di Cristo.132 È la stessa forma imperativa, erchou, che compare alla fine del libro per esprimere la preghiera supplice (22:7,20). Al quinto sigillo, si alza il grido «fino a quando?» (6:10) gravido d’impazienza. È il grido di coloro che sono giunti al tempo della fine.133 Nel sesto sigillo, il ritorno è vissuto come un avvenimento contemporaneo: «Egli è venuto». Infine, il settimo sigillo non parla più di ritorno. Siamo immersi nel silenzio. Niente deve più accadere. Ci siamo! I sette sigilli sono posti sul cammino della storia come dei pali indicatori della venuta dell’Agnello, nella prospettiva del regno di Dio. I sette sigilli, come le sette lettere alle chiese, devono essere interpretati in senso profetico.

132 133

Apocalisse 1:4,7,8; 2:5,16; 3:11; 4:8; 16:15; 22:7,12,17,20. Cfr. Le soupir de la terre, pp. 263-267.

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La visione dei sette sigilli segue, infatti, quella delle sette chiese. La stessa storia s’intravede, passo dopo passo, al soffio dell’ispirazione profetica. Mentre quest’ultima denuncia le infedeltà e le apostasie della chiesa, quella dei sette sigilli, mette in evidenza le sue oppressioni, le sue violenze, le sue persecuzioni. Il cavallo bianco L’agnello apre il primo sigillo e appare un cavallo bianco, simbolo di conquista e di vittoria. Quando un generale romano celebrava il suo trionfo, appariva alla testa del suo esercito su di un cavallo bianco. Il commento del profeta conferma questa interpretazione simbolica: «Egli venne fuori da vincitore e per vincere» (Ap 6:2). È significativo il fatto che la venuta di questo cavallo sia annunciata dalla prima delle creature avente le fattezze di un leone (4:7); ora, questa immagine messianica viene associata normalmente alla tribù di Giuda e alla vittoria di Gesù Cristo. Inoltre, viene conferita al cavaliere una «corona vittoriosa» (in greco stefanos). Nel capitolo 19 dell’Apocalisse, la stessa immagine viene utilizzata per rappresentare la vittoria di Cristo: un cavallo bianco montato da un cavaliere incoronato (19:11-16). Notiamo, però, come la corona di questo cavaliere sia regale (in greco diadema). Anche se l’immagine del cavallo bianco del capitolo sesto riguarda Gesù Cristo in gloria, essa non si riferisce, comunque, alla venuta del regno. Gesù è vittorioso, ma non ancora sovrano. Certo, una battaglia è stata vinta, ma la guerra non è ancora finita. Nel nostro testo, il cavaliere viene descritto al momento della partenza, non a quello dell’arrivo: «Egli partì». La storia del cristianesimo e la sua conquista del mondo è partita bene. Questo è il tempo dei primi cristiani e della chiesa apostolica (I-III secolo). In quel periodo la chiesa è ancora esente da compromessi, da giochi politici e da violenze, un tempo in cui il combattimento si svolge a partire dall’esperienza vittoriosa di Gesù Cristo. Curiosamente, la vittoria di cui parla il nostro testo non è associata a guerre letterali o strategie. La corona della vittoria (stefanos) viene donata gratuitamente (6:2). È una grazia che proviene da Dio. Il cavaliere ha un arco in mano ma nessuna freccia. La sua è una vittoria pacifica, senza spargimento di sangue. 74

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Il cavallo rosso All’apertura del secondo sigillo, appare un cavallo rosso. La sua venuta è annunciata dalla seconda creatura vivente, che ha le sembianze di vitello. Colui che lo cavalca riceve la missione di levare la pace dalla terra (6:4). Gli uomini si uccidono l’uno con l’altro. Il cavaliere brandisce una «grande spada». La seconda tappa segna un cambiamento nella storia del cristianesimo. Si passa dalla pace alla guerra. Non si tratta di persecuzioni, ma di guerre intestine. Tutto depone a favore di questa interpretazione. Il colore rosso del cavallo suggerisce l’idea del sangue versato (cfr. 2 Re 3:22); il vitello evoca il macello (Lc 15:27); la grande spada annuncia la guerra. La stessa parola machaira si trova nel libro di Enoch (162-130 a.C.), dove «una grande spada» è donata a Israele per combattere ed eliminare gli infedeli (2 Enoch 90:19). In quest’epoca, la chiesa si batte per il potere politico. Poi, le lotte tra cristiani ariani e cattolici. Per la prima volta, gli imperatori danno il loro appoggio politico e militare all’espansione della chiesa. Costantino (306-337), e in seguito Clodoveo, imperatore franco (481-511), si batteranno per essa. È il tempo descritto da Jules Isaac, in cui «la chiesa cristiana si elevò (o si abbassò) dalla condizione di perseguitata a quello di chiesa vittoriosa e, presto, ufficiale».134 Il cavallo nero L’apertura del terzo sigillo suscita l’apparizione di un cavallo nero. Il cavaliere regge con le mani una bilancia che serve a misurare le razioni alimentari e rappresenta, quindi, la carestia, nello stesso ordine d’idee di Ezechiele: «Figlio d’uomo, io farò mancare del tutto il sostegno del pane a Gerusalemme; essi mangeranno con angoscia il pane razionato» (4:16). Il cavallo nero segue quello rosso, come la carestia segue la guerra. La voce si leva dal gruppo delle quattro creature viventi, proviene cioè dall’Agnello, perché egli si trova seduto in mezzo a loro. «E udii come una voce in mezzo alle quattro creature viventi che diceva: “Una misura di frumento per un dena-

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J. Isaac, Genèse de l’Antisémitisme, Paris, 1956, p. 133.

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ro e tre misure d’orzo per un denaro”» (Ap 6:6). La parola di colui che è seduto sul trono per giudicare è intesa come quella dell’Agnello; la giustizia incontra la misericordia. La voce comanda, infatti, di «non danneggiare né l’olio né il vino» (v. 6). Questa esclusione stupisce. Normalmente, l’olivo e la vigna, dalle profonde radici, resistono più facilmente dei cereali. Inoltre, il frumento, l’olio e il vino sono generalmente associati, nella Bibbia, per rappresentare i prodotti tipici della terra d’Israele.135 Questa innaturale limitazione, suggerisce un’interpretazione d’ordine spirituale. Questo orientamento è propiziato dall’apparizione del terzo essere vivente dalle sembianze umane. Il volto umano, in opposizione con quello animale delle creature precedenti, rappresenta la dimensione spirituale, al contrario delle altre creature che suggeriscono la condizione naturale, non religiosa (cfr. Dn 4:16,34; 7:8,13).136 Se ne deduce che la carestia di cui si parla riguarda l’ambito spirituale. Inoltre, la distinzione tra una parte di grano e l’altra parte di vino e di olio, richiama un’applicazione simbolica separata. Nella Bibbia ciascuno di questi alimenti ha un significato simbolico preciso: - Il grano si riferisce alla parola di Dio.137 - L’olio è simbolo dello Spirito di Dio.138 - Il vino è una metafora del sangue di Cristo.139 L’oracolo del terzo sigillo parla di carestia spirituale che metterebbe in crisi la Parola di Dio, ma non il suo Spirito e il valore del sacrificio di Cristo. Si comprende allora, perché i simboli vengono suddivisi in due categorie. Essi corrispondono ai due elementi di un’alleanza biblica: l’umano e il divino. Sul versante umano, la chiesa ha perduto il senso della sua vocazione. Essa non provvede più ai bisogni spirituali e teologici (intellettuali) dei fedeli. Il popolo non viene nutrito. Lo studio della Parola è negletto e la conoscenza s’impoverisce. Da parte 135

Deuteronomio 11:14; 14:23; 28:51; 2 Cronache 32:28; Nehemia 5:11. Cfr. Le soupir de la terre, p. 168. 137 Cfr. Deuteronomio 8:3; Matteo 4:4; Giovanni 6:46-51; Nehemia 9:15; Salmo 146:7. 138 Salmo 45:8; Zaccaria 4:1-6. 139 Luca 22:20; 1 Corinzi 11:25. 136

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di Dio, grazie all’influsso dello Spirito Santo e al valore del sacrificio di Cristo, egli continua ad assicurare la salvezza agli uomini di buona volontà, che esistono tra il suo popolo. Questa promessa è come un balsamo sulle ferite. Interessante notare come, nelle Scritture, il vino e l’olio sono utilizzati per la cura delle piaghe.140 È assai probabile che questi simboli, per associazione d’idee, veicolino due significati che non si escludono a vicenda. La simbologia biblica funziona spesso in questo modo. In certi casi, rappresentando l’era redentrice di Dio, il vino e l’olio agiscono come balsamo sulle ferite. La profezia del terzo sigillo guarda al tempo in cui la chiesa è preoccupata dal successo temporale, tanto da negligere il compito di nutrire il popolo spiritualmente. Nel testo, questa preoccupazione economica e materialista è suggerita dal grano misurato e dal denaro che compra tutto. Anche qui, il simbolo è ambivalente. Evidenzia nello stesso tempo l’attenzione materialista della chiesa e la carestia spirituale dei cristiani, e le due cose vanno di pari passo. La chiesa si afferma, quindi, come un potere temporale, con un territorio ben definito. L’Italia si è appena liberata dell’offensiva ariana (538). La chiesa può prendere piede senza ostacoli. Come nota giustamente Yves Congar «Le basi per una visione gerarchico-discendente, e finalmente teocratica del potere»,141 sono poste. Gregorio il Grande (590-604) è considerato il primo papa che «accentra le funzioni, i doveri e le responsabilità di capo di stato e della chiesa».142 Contemporaneamente al successo temporale e politico, la chiesa perde contatto con lo studio della Bibbia. L’istituzionalismo e la tradizione sostituiscono poco alla volta il riferimento alla parola ispirata delle Scritture. Questa lezione della storia della chiesa grida forte anche oggi e suona come un avvertimento per tutte le chiese che perdono dinamismo. Ogni volta che la chiesa ha concentrato i suoi sforzi soprattutto sulla pietra e la struttura, ne sono derivati frutti di miseria spirituale per il popolo. A forza di occuparsi delle cose relative, si perde il contatto con l’assoluto. 140

Luca 10:34. Y. Congar, L’Eglise de Saint Augustin à l’époque moderne, Paris, 1970, p. 32. 142 J. Isaac, Genèse de l’Antisémitisme, Paris, 1956, p. 196. 141

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Ma il rischio è ancora più grave. La storia mostra anche un altro pericolo. Forte di tutti i poteri e garantita sul piano politico, la chiesa si afferma d’autorità come depositaria della verità. Il dogma sostituisce la ricerca e il confronto con la Parola. A questo punto, siamo a un passo dall’intolleranza e dall’oppressione. E, presto verrà compiuto. Il cavallo giallastro L’apertura del quarto sigillo libera un cavallo dal colore livido (in greco cloros), che suggerisce la morte e il terrore. Questo cavallo è annunciato dal quarto essere vivente che assomiglia a un’aquila in pieno volo, pronta a piombare sulla preda. Immagine che, nelle Scritture evoca la persecuzione e la morte.143 In questo periodo la chiesa impersona la morte al suo massimo grado. Non soltanto il cavaliere si chiama «morte», ma è accompagnato per la prima volta da un secondo cavaliere che prende il nome di ades «soggiorno dei morti». Con questo nome la Settanta traduce il termine ebraico Scheol, cioè il luogo, lo stato dei morti. Le parole «morte» e «soggiorno dei morti» sono spesso associate nell’Apocalisse.144 Quest’ultima piaga supera tutte le altre: dopo la spada e la carestia, subentra la morte. Quanto alle «bestie selvagge», esse non fanno altro che aggiungere intensità alla realtà della morte. Il soggiorno dei morti è spesso rappresentato nell’immaginario biblico come un luogo infestato da belve.145 Un’epoca, questa, dove la chiesa si rivela portatrice di morte e oppressione. Ella perseguita e persegue tutti coloro che dal suo punto di vista, sono sospetti, tutti coloro che considera eretici e infedeli. Tempo di crociate, roghi e inquisizione; infine di guerre di religione. All’orizzonte di questa mentalità, si può addirittura intravedere l’ombra dell’oppressione nazista, nutrita da quell’«insegnamento del disprezzo»146 totalitario e usurpatore della chiesa. Il

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Deuteronomio 28:49; Giobbe 9:26; Lamentazioni 4:19; Abacuc 1:8; Matteo 24:28. 144 Apocalisse 1:18; 20:13,14. 145 Salmo 22:14-29; 91:13. 146 L’espressione è di J. Isaac, op.cit., p. 131.

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cavallo giallastro evoca ugualmente l’Olocausto, con i suoi morti, la sua opera sinistra di sterminio sistematico. Questa lettura del messaggio profetico può sorprendere. Perché non si è mai voluto comprendere a sufficienza il rapporto esistente tra l’odio antisemita di Hitler e il terreno preparato dalla chiesa, nel corso di diciotto secoli di appelli all’odio e alla violenza contro gli ebrei.147 Hitler, probabilmente, non si rese conto di aver detto il vero quando, in un colloquio con due vescovi cattolici, affermò di volere continuare e concludere l’opera che la chiesa aveva iniziato contro gli ebrei, durante i secoli precedenti.148 Anche se la Shoah (il genocidio nazista), non ha contatti diretti con la problematica religiosa, essa non è poi così estranea alla storia della chiesa, è un frutto pericoloso di una mentalità millenaria, nota come antisemitismo. La chiesa, certo non è stata coinvolta nella tragedia, ma si può dire che non abbia alcuna responsabilità? Se non altro per i silenzi e per alcune complicità.149 Il quarto cavallo segna l’ultima tappa della «jihad» della chiesa. Mentre la conquista del mondo era iniziata pacificamente, con un cavallo bianco e un cavaliere che portava un arco vuoto, una conquista condotta da Gesù Cristo in persona, a partire dal secondo cavallo, la chiesa assume il comando e si prende la briga di combattere al posto di Cristo. Non è più Gesù che si batte per lei. Qualcosa è cambiato nella mentalità cristiana e le guerre di religione sono un sintomo eloquente della malattia. La verità cristiana di un Dio che scende dal cielo e lavora per l’uomo, non è più attuale. La situazione è ora capovolta. È la chiesa che si

147

Sul rapporto tra l’Olocausto e l’antisemitismo cristiano attraverso i secoli, citiamo tra le altre cose, lo storico cristiano F. Lovsky: «La frenesia nazionalsocialista non è nata per caso, né è cresciuta come un fungo; essa si è impadronita delle nazioni che nutrivano nel profondo di loro stesse, un risentimento antico. Il cristiano battezzato odiava Israele. Il greco Crisostomo, il protestante Martin Lutero, il cattolico Bossuet, non hanno avuto la prudenza intellettuale e la carità evangelica di esorcizzare i demoni dell’antisemitismo» - La déchirure de l’absence, Paris, 1971, p. 13; cfr. J. Doukhan, Boire aux sources, pp. 42,43,50,51. 148 Hitler’s Table Talk, citato da Rosemary Ruether, Faith and Fratricide, New York, 1974, p. 224. 149 Cfr. S. Friedlander, Pie XII et le III Reich, Documents, Seuil, 1964.

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arroga il diritto di difendere Dio, pretende di agire al suo posto. Le opere dell’uomo, il potere, la tradizione, prendono il posto di quella salvezza che proviene dall’alto. L’intolleranza parte da questo fatto: il testimone di Dio s’identifica con Dio stesso. Quando il successo di un’istituzione conta più della proclamazione della parola del Vangelo e del regno di Dio. Quando le statistiche e l’ebbrezza dei numeri prevalgono sulla conversione, quando la soluzione è attesa dalle ricette e dalle strategie, piuttosto che dall’appello di Dio, quando, in definitiva, l’uomo prende il posto di Dio, ci si può aspettare qualsiasi abuso. Le cause del meccanismo sono semplici. La sicurezza che si basa su ciò che è visibile, palpabile, immediatamente controllabile, si sostituisce alla fedeltà a un Dio invisibile, umilmente ricercato e accettato. L’orgoglio e la sicurezza basata sull’uomo, aprono la porta a ogni sorta d’intolleranza. La violenza e l’oppressione sono i prodotti naturali dell’usurpazione dei poteri di Dio. Dalle crociate ai campi di sterminio, ogni volta che l’uomo si è innalzato anteponendosi a Dio, per battersi in nome della croce o del «Gott mit uns», milioni di vittime innocenti ne hanno fatto le spese e gridano giustizia a Dio. Le vittime Il quinto sigillo segna una svolta. L’apertura dei primi quattro, associata ad altrettante creature viventi, all’appello ripetuto quattro volte: «Vieni!», sbocca nell’ingresso dei quattro cavalli, chiamati a rappresentare gli avvenimenti. L’apertura dei successivi sigilli, invece, ci introduce direttamente su avvenimenti profetici. Nel quinto sigillo udiamo le voci di quelle vittime. La storia non è più raccontata a partire dalle vicende dell’istituzione che perpetrava l’oppressione, ma viene data la parola alle vittime stesse. Il profeta non vede più né cavalli né creature, ma uomini e donne che sospirano e invocano il giudizio di Dio. Dal punto di vista delle vittime, due cose sole contano: sapere il perché della sofferenza e, soprattutto, fino a quando durerà. La prima domanda pesa, lancinante e destabilizzante, l’eterna domanda relativa alla sofferenza del giusto. Ma, qui, la sofferenza è ancora più ingiusta: è la sofferenza di chi muore a causa «della parola di Dio» (Ap 6:9). 80

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È il grido degli ebrei in esilio a Babilonia, gettati nella fornace ardente, per aver rifiutato di prostrarsi davanti a un idolo. Il grido dei primi cristiani gettati nei circhi a causa della loro fede nel Dio d’amore. È il grido dei cristiani emarginati, imprigionati, arsi vivi, per aver osato aprire la Bibbia, la verità di Dio che procede dall’alto. Ma è anche il grido degli ebrei, attraverso il medioevo, fino ai tempi moderni, che sono stati spogliati di tutto, deportati, massacrati e asfissiati, semplicemente perché erano ebrei e testimoniavano del Dio antico. È sempre lo stesso tipo di vittima, sempre la stessa ragione a renderla tale. Essi muoiono come i martiri di Dio. Crocifissi a causa di Dio, sono morti per Dio. Questa ambiguità è voluta dal testo biblico che descrive questa prova, come un olocausto. La loro morte è descritta come quella degli animali sgozzati sull’altare (Lv 4:7). Tutto il loro essere grida vendetta a Dio, come il sangue di Abele gridava nei tempi antichi (Gn 4:10). Il linguaggio del testo in questione è ispirato al Levitico, che identifica l’anima al sangue (Lv 17:11), per esprimere ancora meglio il carattere sacrificale della prova. Il loro sangue è versato sull’altare di Dio, nello stesso tempo la loro morte riveste un carattere religioso che chiama in causa Dio. Giustizia sarà fatta. Il profeta promette loro, non soltanto la salvezza - le vittime ricevono una veste di colore bianco - ma anche vendetta sui colpevoli. Per essere completa, la salvezza esige la giustizia. Per salvare, Dio deve giudicare. Verità scomoda, spesso ignorata dagli ambienti cristiani. Ci si compiace di sottolineare l’importanza della croce, della grazia, dell’amore di Dio. La religione si riduce a un’emozione o a una verità d’ordine intellettuale; si dimentica la dimensione storica della salvezza. La vittima schiacciata non vede le cose in questo modo. Le dolci parole, le belle idee, i teneri sorrisi non possono bastare. Solo una salvezza che lo strappi alla sua sofferenza risponde al suo problema. La vittima sospira invocando la propria liberazione. Da qui il suo grido: «Fino a quando?». Il grido non si accontenta di una consolazione religiosa, di una fede nel Dio del presente e del passato. Questo grido si tende di quell’urgenza appassionata che esige l’azione di Dio nella realtà della storia. «Fino a quando? (...) tu tardi a giudicare?» (Ap 6:10). 81

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Questo significa che il giudizio non è ancora avvenuto e che è atteso in un momento preciso della storia. Lo stesso grido risuona nei salmi,150 carico della stessa impazienza. Incontestabilmente, è Daniele 8:13151 che trasmette il grido più simile a quello del nostro testo. Anche in quel passo si parla della sofferenza dei santi perseguitati dalla chiesa (v. 12). Anche in quel caso il giudizio di Dio è la logica conclusione. Alla domanda: «Fino a quando?» l’angelo risponde collocando il giudizio nel tempo: «Fino a duemilatrecento sere e mattine; poi il santuario sarà purificato» (v. 14). La purificazione del santuario, nel linguaggio levitico, indica la festa dell’espiazione, o Kippur,152 ossia il giudizio cosmico di Dio. È il momento in cui, secondo Daniele 7, nel testo parallelo, «... si tenne il giudizio e i libri furono aperti» (v. 10). Il quinto sigillo ci trasporta fino al tempo in cui il giudizio inizia nelle sfere celesti. Secondo questa visione, non siamo ancora alla fine dell’umana sofferenza. L’avvenimento della salvezza definitiva è rinviato al momento in cui il numero dei salvati sarà completo (Ap 6:11). Perché la salvezza sia effettiva, occorre la presenza di tutti. La salvezza dell’individuo implica quella dell’universo intero. La salvezza è cosmica o non esiste. Non si può essere salvati nelle condizioni attuali, perché il regno di giustizia esige una purificazione, una creazione di un’altra natura. Questa è la lezione fondamentale del Kippur.153 Dati questi elementi, l’immagine di Dio non è basata solo sulla croce, la grazia, l’esistenzialismo o il misticismo. Dio è anche giustizia e santità. Questo volto di Dio qui è evocato in modo preciso: «Signore (greco despotes) santo e veritiero» (v. 10); è un linguaggio teologico già riscontrato nella lettera a Filadelfia (3:7). Le due visioni si congiungono sul tema della fratellanza, il termine adelphoi è contenuto nel nome Filadelfia (v. 11). Questa eco furtiva ci introduce in una successiva epoca storica, per cui siamo ora nel XIX secolo.

150

Salmo 13:2; 35:17; 79:5; 89:47; 94:1-3. Daniele 12:6. 152 Levitico 16:30; cfr. Le soupir de la terre, p. 182. 153 Cfr. Le soupir de la terre, p. 184. 151

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Questa profezia può stupirci, inclini come siamo a considerare la religione cristiana come una verità esistenziale e atemporale. Il Dio che si rivela qui è il solo che risponde veramente al grido delle vittime. Un Dio d’amore, certo, ma proprio per questo, Dio di giustizia che agisce concretamente nella storia. Uno sconvolgimento cosmico Al grido delle vittime schiacciate, che anelano alla liberazione di Dio, risponde ora il grido di terrore degli oppressori che tremano alla collera di Dio. L’apertura del sesto sigillo rivela l’altro lato della giustizia di Dio. Nel quinto sigillo, il giudizio di Dio riguardava le vittime il cui sangue versato, «grida vendetta sugli abitanti della terra» (v. 10). Il giudizio ha come scopo la loro salvezza, protagonista il Dio della grazia che dona una «veste bianca». Ora, il giudizio si rivolge all’oppressore e vede in scena il Dio della giustizia che colpisce gli abitanti della terra con la sua collera. Le due facce di Dio sono complementari e svolgono la stessa opera di salvezza. Per salvare davvero, Dio deve necessariamente passare da una nuova creazione. Con tutto quello che implica in termini di sconvolgimento e rinnovamento, ma anche di annientamento del vecchio ordine di cose. Il peccato dell’uomo produsse un effetto che è andato oltre la sua sfera e si ripercosse sull’universo intero (quello da noi conosciuto). Questo principio biblico fu annunciato nell’istante della creazione. L’uomo e la natura sono creati dipendenti l’uno dall’altro. Ogni crimine morale o religioso ricade sull’ambiente. La disubbidienza di Adamo portò spine e triboli. L’iniquità dei primi uomini portò il diluvio sulla terra. La perversità degli abitanti di Sodoma fece piovere fuoco e zolfo sulla città. Il paese di Canaan vomitò i suoi abitanti a causa del loro peccato. La menzogna di Acan esplose nella vallata che divenne tenebrosa, prendendo il nuovo nome di valle di dolore. E Akhor (dolore) fa eco ad Acan. I profeti d’Israele non hanno mancato di sottolineare questo principio nei loro avvertimenti al popolo. Nel solco di Mosè, Osea, Isaia, Geremia, hanno gridato su Israele per ricordargli la sua responsabilità sul mondo. Le piante, gli animali, lo stesso tempo atmosferico, le montagne e soprattutto gli uomini e le donne della comunità, sono toccati dal peccato. 83

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Nel Nuovo Testamento, la morte di Gesù scuote la terra e dei terremoti succedono all’avvenimento. Ogni crimine contro l’uomo è un crimine contro l’umanità intera e contro l’universo. Il cielo, la terra e tutti i colpevoli rappresentano l’oggetto della collera di Dio. L’Apocalisse rivela questo principio, oltre le storie sacre della Bibbia. Lo sguardo profetico lo mette in evidenza fino al cuore stesso della nostra civiltà, laica e moderna. I tempi della fine sono descritti come degli sconvolgimenti cosmici inquadrati in due momenti fondamentali. La prima fase riguarda la terra. Il suo effetto è limitato allo spazio in cui operano gli uomini. È il tempo della storia. «Guardai di nuovo quando l’Agnello aprì il sesto sigillo; e si fece un gran terremoto; il sole diventò nero come un sacco di crine e la luna diventò tutta come sangue; le stelle del cielo caddero sulla terra come quando un fico scosso da un forte vento lascia cadere i suoi fichi immaturi» (Ap 6:12,13). Non è fuori luogo riconoscere in questo quadro le catastrofi che hanno colpito il mondo tra la fine del XVIII secolo e il XIX secolo. Pensiamo al terremoto di Lisbona (1 novembre 1755) dove morirono più di settantamila persone, circa la metà degli abitanti. Possiamo ricordare anche le tenebre che sorpresero gli abitanti dell’America settentrionale, in Canada, poi, Inghilterra, Olanda, Francia, Svizzera e Italia, intorno agli anni 1780 e 1880. Inoltre, la pioggia di meteoriti d’intensità eccezionale, registrata in tutto il XIX secolo, in Europa come in America, ma anche in Africa e Asia. Stranamente, questo periodo coincide con quello che, il profeta Daniele definisce come il tempo della fine dell’oppressione. Questo tratto della storia umana è, in effetti, segnato nel calendario profetico. È un momento di quiete per coloro che sono stati perseguitati dalla chiesa. Siamo alla fine di quel periodo profetico detto dei «tre tempi e mezzo», la persecuzione di cui parla il profeta Daniele (7:25).154 Durante la bufera della Rivoluzione francese, tutte le strutture sono sovvertite. La chiesa non minaccia più nessuno. I segni cosmici fanno da palo indicatore nel cammino della storia, dando un significato nuovo allo scorrere del tempo. Dalla fase del tempo della fine, si passa alla fase della fine dei tempi.

154

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Cfr. Le soupir de la terre, p. 155.

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La visione del sesto sigillo segue così lo stesso percorso nel tempo di quella relativa al quinto. I due sigilli sono contemporanei e portano alla considerazione degli stessi avvenimenti. Cambia solo la prospettiva. Nel quinto sigillo, lo sguardo profetico si concentrava sul popolo di Dio, vittima dell’oppressione, il cui grido «fino a quando?», associato alla profezia di Daniele 8, ci aveva condotto alla metà del XIX secolo. Poi, la visione aveva attraversato il tempo e ci aveva portato oltre la storia umana, nel momento in cui il grido è ascoltato da Dio e il giudizio ha inizio. I giusti ricevono la veste bianca. Allo stesso modo, la visione del sesto sigillo passa dal momento segnato dalla fine dell’oppressione, XVIIIXIX secolo, al termine della vicenda umana, dove il male e l’oppressore vengono annientati. Questa seconda fase riguarda il cielo. «Il cielo si ritirò come una pergamena» (Ap 6:14). A questo punto, l’avvenimento si estende a tutta la terra. Il linguaggio che lo descrive traduce la sua portata universale, con l’utilizzo d’immagini tipiche della cultura ebraica; in modo particolare l’associazione dei contrari per esprimere totalità: «le montagne... le isole»; «i re della terra... i capi militari...»; «tutti gli schiavi e gli uomini liberi» (vv. 14,15). L’ira di Dio pervade tutto. È il momento in cui Dio assume il controllo di tutta la realtà. Ormai, niente e nessuno gli sfugge (v. 16). Da cui consegue la domanda angosciata che conclude l’oracolo: «Chi può resistere?» (v. 17). Nonostante tutto, la speranza si rivela in ogni piega di quella domanda. È il paradosso della speranza biblica, il fatto di trovare la speranza là dove non ci si aspettava più nulla. La domanda è ispirata al linguaggio dei profeti Naum e Malachia. La speranza sorge per rassicurare i sopravvissuti, nel cuore stesso della disperazione; «egli conosce coloro che confidano in lui» (Na 1:6,7; Ml 3:2,3). Anche nell’Apocalisse, la domanda si pone nell’ambito di una parentesi: un interludio che riguarda i sopravvissuti dalla tempesta. Interludio: i sopravvissuti di Giacobbe Prima di descrivere il giorno terribile dell’ira di Dio, il profeta apre una parentesi e la sua visione si sofferma su coloro che «possono resistere» (Ap 6:17). La collera è trattenuta per un istante, il tempo per suggellare con un segno distintivo coloro 85

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che devono essere salvati. La situazione ricorda l’uscita dall’Egitto, quando l’angelo della morte aveva risparmiato gli israeliti grazie al segno di sangue che era stato asperso sugli stipiti delle porte (Es 12:23), anche in quella circostanza l’obiettivo era la terra promessa (v. 25). Questa volta, però, lo scenario abbraccia tutta la terra. I quattro venti del cielo che trasportano l’ira di Dio, soffiano dai quattro «canti della terra», cioè dappertutto.155 Il ritmo chiastico (ABA1) che struttura l’ordine dato all’angelo, avvertito dell’identità dei salvati. Il primo ordine (A) risparmia la terra, il mare e gli alberi (Ap 7:1). Il secondo ordine (B) minaccia la terra e il mare (v. 2). Il terzo ordine (A1) di nuovo, risparmia la terra, il mare e gli alberi (v. 3). A (7:1) Non danneggiare: terra, mare, alberi

B (7:2) Non danneggiare: terra e mare

A1 (7:3) Non danneggiare: terra, mare, alberi

Il centro del chiasmo (particolare tipo di parallelismo) rivela più precisamente l’elemento della natura che viene risparmiata dai venti. Quando parte l’ordine di distruggere, l’angelo colpisce la terra e il mare (v. 2), rappresentazione del pianeta terra.156 Gli alberi sono esclusi dall’obiettivo, come se fossero gli unici sopravvissuti dell’ordine terrestre. Questa osservazione stilistica è confermata implicitamente sul piano della sintassi. Nel primo ordine che apre tutti gli altri, la parola «albero» (v. 1) viene declinata differentemente, rispetto a «terra e mare». «Albero» è un accusativo (complemento oggetto), mentre «terra e mare» sono dei genitivi (complemento di specificazione). Questo procedimento stilistico e sintattico esprime l’intenzione di mettere «gli alberi» in un quadro diverso. Essi rappresentano la resistenza. Grazie alle loro radici che affondano nella terra, essi potranno resistere alle raffiche di vento. Fuori dalla metafora, nella Bibbia, gli alberi rappresentano il giusto (Sal 1:3; Ger 17:8), mentre la paglia trasportata dal vento, rappresenta i malvagi (Sal 1:4; Gb 21:18).

155

Daniele 7:2.

156 Apocalisse 10:2,5; Genesi 1:1-9; Esodo 20:11; Neemia 9:6; Salmo 95:5; Matteo 23:15.

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La preservazione degli alberi deve essere letta come un’allusione alla protezione dei giusti. Ma, curiosamente, questi alberi/giusti non devono la loro salvezza alle loro radici incuneate nella terra. La vita, la salvezza proviene loro dall’alto. La loro fronte è segnata da un sigillo. L’operazione è eseguita da un angelo che viene dall’est, da dove nasce il sole, la vita e la luce. Dall’est viene la speranza, il giardino dell’Eden (Gn 2:8), il re salvatore Ciro (Is 41:2) viene anch’egli dall’est e infine il Dio salvatore stesso verrà dall’oriente (Ez 43:2). Contrariamente agli altri sigilli portatori di messaggi di morte, questo sigillo proviene dal Dio della vita (Ap 7:2). In contrasto con tutti quei sigilli che annunciano il giudizio e la distruzione della terra, quest’ultimo parla di salvezza e di creazione. Questo sigillo si distingue già dalla sua funzione. I precedenti garantivano la chiusura di un documento, mentre questo indica l’appartenenza a qualcuno. Gli antichi usavano, in effetti, segnare con un sigillo alcune proprietà, come delle mercanzie. Generalmente, si trattava di una piastrina metallica o una pietra preziosa (Es 28:11; Est 8:8); vi si incideva il nome del proprietario o un disegno, talvolta le due cose. Il sigillo veniva impresso solitamente nell’argilla (Gb 38:14). Nel testo, si parla di un sigillo sulla fronte. La prima volta che la Bibbia riferisce di una simile operazione è in relazione a Caino: egli ricevette un marchio sulla fronte avente lo scopo di proteggerlo (Gn 4:15). Ma è soprattutto il libro di Ezechiele che contiene il testo che più si avvicina al nostro passo. «“Passa in mezzo alla città, in mezzo a Gerusalemme, e fa’ un segno sulla fronte degli uomini che sospirano e gemono per tutte le abominazioni che si commettono in mezzo a lei”. Agli altri, in modo che io sentissi, disse: “Passate per la città dietro a lui e colpite; il vostro occhio sia senza pietà... ma non vi avvicinate ad alcuno che porti il segno; cominciate dal mio santuario”» (9:4-6). Coloro che ricevono il marchio sulla fronte sono tutti coloro che sono rimasti fedeli a Dio e reagiscono alle «abominazioni» (v. 4) dei loro contemporanei. Lo stesso termine abominazione è impiegato qualche versetto prima, per designare il peccato d’idolatria e l’adorazione del sole (8:16,17). Il marchio sulla fronte rappresenta, dunque, l’adorazione del vero Dio, il Dio vivente, il Creatore. Questo è il 87

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senso preciso del testo apocalittico a cui fa eco il racconto della creazione. La sequenza terra, mare, alberi, si riferisce, infatti, al racconto della creazione nel terzo giorno (Gn 1:9-13). Se il sigillo è il segno dell’adorazione del Creatore, di conseguenza, sarà il segno d’appartenenza a Dio. Questo rapporto è spesso sottolineato dai salmi, dove Dio è cantato come il vero proprietario di tutte le cose, essendo il creatore di tutte le cose. «Al SIGNORE appartiene la terra e tutto quel che è in essa, il mondo e i suoi abitanti. Poich’egli l’ha fondata sui mari, e l’ha stabilita sui fiumi» (Sal 24:1,2).157 Riconoscere Dio come proprietario di tutte le cose, come colui al quale apparteniamo, significa riconoscerlo come il Creatore, il nostro Creatore. Tutta una mentalità religiosa si rispecchia nell’idea del sigillo di Dio. La Bibbia porta questa lezione in tutte le sfere dell’esistenza. Si tratta di riconoscere, semplicemente, che tutto quello che abbiamo e che siamo lo dobbiamo a Dio. Verità che si rende evidente nel principio della decima, la consacrazione a Dio di un decimo delle nostre entrate nella consapevolezza che tutti i nostri beni appartengono a lui. Questa è la spiegazione che lo stesso Melchisedec presenta per fondare l’offerta della decima, Dio è il «padrone dei cieli e della terra» (Gn 14:19). La stessa ragione è apportata dal libro del Levitico. Prima di entrare nella terra promessa, il popolo d’Israele deve ricordarsi che il paese appartiene a Dio: «... la terra è mia e voi state da me come stranieri e ospiti» (Lv 25:23). Da questo principio scaturisce che: «Ogni decima della terra, sia delle raccolte del suolo, sia dei frutti degli alberi, appartiene al SIGNORE» (27:30). Non è neppure un caso che il sabato occupi nel decalogo il posto centrale normalmente riservato al sigillo, negli antichi documenti d’alleanza.158 Il sabato, che esprime la fede nel Creatore e il riconoscimento che gli dobbiamo, assolve la funzione di sigillo di Dio. Esso è visibile anche nella scelta alimen-

157

Salmo 89:12,13; 100:3. Cfr. M.G. Kline, The Covenant Structure of Deuteronomy, Studies and Commentary, Grand Rapids, 1963, pp. 18,19; The structure of biblical authority, Grand Rapids, 1972, p. 120. 158

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tare di Daniele e dei suoi amici, che rivelano il desiderio di affermare la loro dipendenza dal Creatore, piuttosto che dal re (Dn 1).159 Il sigillo di Dio posto sulla fronte significa, in definitiva, il segno di Dio sulla nostra persona intera, sul nostro corpo e nel nostro spirito. È il segno che apparteniamo a Dio. L’immagine di Dio che si riflette nella creatura umana, come ricorda il racconto della Genesi (1:26), significa, in un certo modo, il sigillo di Dio. Vivere secondo Dio è, nello stesso tempo, affermare e dimostrare questa verità. Il suo sigillo è molto più di un tatuaggio sulla fronte, un gesto rituale o una qualunque osservanza. Tramite questa immagine, l’Apocalisse designa in modo più ampio, tutti coloro che confessano il Dio Creatore e Signore, nella loro religione, come nella vita quotidiana. Il sabato, la decima, un determinato stile alimentare, il rispetto della legge di Dio, non sono che degl’indici di una mentalità; certo, essi potrebbero attestare la presenza del segno di Dio, ma essi non sono, quasi magicamente, il sigillo divino. Il sigillo di Dio è nello stesso tempo invisibile e vivente, proprio come il Dio creatore a cui si riferisce. Il segno è di natura spirituale, come il Dio che rappresenta. Lo stesso si può dire dei portatori del sigillo di Dio. Siamo di fronte a una compagine spirituale. Il loro numero, 144.000, composto da 12x12, è simbolico. Il numero dodici, qui intensificato, è il numero dell’alleanza tra Dio e il suo popolo (quattro è il numero della terra, moltiplicato tre, il numero di Dio). È altresì il numero delle dodici tribù d’Israele, elencate nel testo stesso (Ap 7:4-8). Ogni tribù comprende dodicimila persone. Quanto al numero mille che moltiplica il dodici, si può dire che esso non traduce soltanto l’idea di moltitudine,160 ma anche quella di tribù (secondo l’etimologia ebraica). In ebraico, la parola elef (mille) designa la tribù, la folla, il clan, il reggimento.161 Il numero dodicimila significa, dunque, la tribù in tutta la

159

Cfr. Le soupir de la terre, p. 25. Giudici 15:15; 1 Cronache 12:14; 16:15; Salmo 91:7. 161 Esodo 18:21; Deuteronomio 33:17; Giudici 6:15; Numeri 1:16; Giosuè 22:21. 160

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sua pienezza. Ora, al tempo di Giovanni, la maggior parte delle tribù in quanto tali, erano scomparse. Restavano Giuda, Beniamino e Levi. Concludiamo che l’Israele di cui si parla qui non è quello letterale. Il ritmo regolare della lista delle tribù, rafforza questa impressione di pienezza e di perfezione. Siamo di fronte a un esercito in parata. D’altra parte, la parola greca okhlos tradotta qui con «folla» significa ugualmente «esercito»;162 i versi 9 e 10, descrivono, in effetti, un esercito vittorioso dopo la battaglia. Le vesti bianche, come le palme, fanno parte del rituale guerriero di celebrazione della vittoria.163 Nella simbologia del numero, nello stesso stile del testo, come nella descrizione della folla, la parola profetica trasmette lo stesso messaggio: i centoquarantamila rappresentano Israele al gran completo. Si tratta di quel «tutto Israele», sognato dall’apostolo Paolo (Rm 11:26), il numero «completo» dei salvati al quale fa allusione il quinto sigillo (Ap 6:11). Giovanni vede una folla multiculturale e multinazionale, vestita della stessa tunica bianca (7:9; 6:11) sopravvissuta all’oppressione (7:14; 6:9,11). Il numero, non ancora completo, descritto nel quinto sigillo, i centoquarantaquattromila e la moltitudine, sono lo stesso popolo, tutti presenti al gran completo. Questi sradicati della storia, queste minoranze straziate, il cui unico punto di riferimento era nei cieli, che avevano perduto il loro senso di appartenenza, perché sempre soli, sempre controcorrente, cittadini di un altro regno, finalmente si ritrovano e, improvvisamente scoprono la loro identità di un Israele spirituale. Uniti nello spirito, con lo stesso passato di lotte e sofferenze, ora sono riuniti in carne e ossa, con gli stessi sentimenti. L’emozione è al culmine e si esprime in una liturgia che trascina il mondo intero in un grido immenso che celebra la vittoria di Dio (cfr. 7:10). Al suono di questo grido, gli angeli, gli anziani e le quattro creature viventi risposero immediatamente con un «Amen» pieno di un’adorazione in sette tempi: «Amen! Al nostro Dio la lode, la gloria, la sapienza, il ringraziamento, l’onore, la potenza e la forza nei secoli dei secoli! Amen» (7:12).

162 163

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Cfr. Theological Dictionary of the New Testament, vol. 5, p. 58. Cfr. 2 Maccabei 11:8; 1 Maccabei 13:51; cfr. Giovanni 12:13.

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La visione si colloca, adesso, nella dimensione celeste, trasportandoci nel lontano futuro, nel momento in cui gli esseri celesti si uniranno all’adorazione umana; quando Dio abiterà, realmente con il suo popolo. Esso servirà Dio: «... giorno e notte, nel suo tempio» (v. 15). L’immagine, presa in prestito dalla storia d’Israele, evoca il santuario nel deserto. Attraverso la lingua greca kenosei «drizzare una tenda» si risale alla parola ebraica Shekhinah, dal verbo shakhan «abitare», che si riferisce alla nube di fuoco, segno del Dio che abita in mezzo al popolo (Es 40:34-38). La presenza di Dio è effettiva. Dio è là fisicamente. Il testo termina con un’allusione al Salmo 23.164 Dal pastore che conduce le sue pecore alle fonti d’acqua viva, si passa al Dio prossimo che arriva fino a toccare e asciugare «ogni lacrima dai loro occhi» (v. 17). Dio non si accontenta di sopperire a tutti i bisogni. Non soltanto la fame, la sete, il caldo, la sofferenza, non colpiranno più l’uomo, ma Dio stesso s’avvicina per stringere una relazione personale con i redenti: Dio li consola. Furtiva, l’immagine del mondo nuovo e della sua felicità, si scorge in trasparenza. Il silenzio del cielo A questo punto, lo sguardo del profeta ritorna sul libro liberato dai sei sigilli. Ne rimane uno da rompere, affinché esso si riveli in tutto il suo messaggio. Già a partire dall’apertura del settimo sigillo, Giovanni è colto da stupore. È l’unica volta che non si trova implicato nella visione. Fino ad allora, ogni sigillo partiva con un coinvolgimento da parte sua. I primi quattro erano regolarmente introdotti da «io udii», il quinto e il sesto da «io vidi», oppure «io guardai». Ma il settimo sigillo cade all’improvviso nella coscienza di Giovanni, senza che lui possa vedere o sentire. Per la prima volta, un avvenimento che prende il via dall’apertura di un sigillo, si svolge interamante nel cielo. I primi sei riguardavano la storia umana; in contrapposizione con essi, il settimo, viene presentato dal testo come eccezionalmente breve. Esso copre un solo versetto (8:1), e l’avvenimento

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J. Doukhan, Aux portes de l’espérance, Dammarie-lès-Lys, 1986, p. 243.

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che introduce, risulta radicalmente diverso. Dopo tutto quel rumore di guerre, grida di bestie selvagge, pianti umani, terremoti e fenomeni astronomici, ora scende il silenzio più totale. Questo avvenimento che non si può né vedere né sentire, rimane indescrivibile. Il silenzio esprime ciò che la musica e la pittura non possono descrivere. È il silenzio che accompagna la venuta di Dio, la «parusia». Solo il silenzio è adeguato per esprimere l’inesprimibile. Solo il silenzio può rendere la presenza del Dio infinito.165 Esso dura mezz’ora. Nel linguaggio profetico, un giorno equivale a un anno,166 per cui, il tempo che otteniamo è di una settimana letterale. La storia umana termina come era cominciata, con un periodo equivalente a quello della creazione: la settimana di silenzio della fine fa eco alla settimana di silenzio del principio (Gn 1). Questa idea è largamente attestata nella letteratura ebraica.167 All’apertura del settimo sigillo si può finalmente decifrare il messaggio del libro: si tratta dell’annuncio della venuta di Dio e la promessa di una nuova creazione e di un nuovo mondo. Questa è la sola risposta a tutte le domande, a tutte le nostalgie, la sola soluzione a tutte le sofferenze.

165

Abacuc 2:20; Sofonia 1:7; Zaccaria 2:13. Cfr. Le soupir de la terre, pp. 205-207. 167 4 Esdra 6:39;7:30; 2 Baruc 3:7. 166

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Capitolo 3

Gli schofar della morte

Preludio davanti all’altare La visione seguente ci riporta davanti al trono di Dio dove sette angeli si preparano a suonare i corni o le trombe, in ebraico è schofar (Ap 8:2). Si annuncia una nuova serie di sette eventi. Ma come sempre in questi casi, come era già accaduto per le sette chiese e per i sette sigilli, la storia profetica è preceduta da un preludio che ci colloca nell’orbita del santuario ed evoca Gesù Cristo in relazione a una festa ebraica. Esattamente prima della visione delle sette chiese, avevamo visto Gesù risorto in rapporto con la Pasqua. Prima della visione dei sette sigilli, abbiamo visto l’intronizzazione di Gesù in rapporto con la Pentecoste. Adesso, in apertura dei sette squilli di schofar, la visione che abbiamo davanti è quella dell’altare dei profumi (v. 3), nella quale il profeta vede l’angelo intento a bruciare l’incenso. Egli non si accontenta di far salire i profumi; improvvisamente getta il contenuto del braciere sulla terra. La visione dell’angelo s’ispira al rituale levitico che obbligava il sommo sacerdote a mantenere un fumo permanente davanti a Dio, «ogni mattina», ma anche «tra le due sere» (Es 30:7,8). Il rituale era praticato per tutto l’anno su un altare di forma quadrangolare, sul quale dei carboni ardenti erano gettati con l’aiuto, probabilmente, di un aspersorio d’oro. Una volta l’anno, durante la festa dell’espiazione, l’incenso era messo direttamente nell’aspersorio, riempito di braci e portato «al di là della cortina», all’interno del luogo santissimo (Lv 16:12,13). La visione dell’Apocalisse ci porta, quindi, nel contesto del rituale quotidiano nel corso del quale, il sacerdote, come l’angelo del testo, gettava il suo braciere incandescente a terra, tra il portico del tempio e l’altare. 93

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Capitolo 3

Tutta la cerimonia viene descritta nel più vecchio trattato rabbinico, il Tamid, uno scritto del I secolo a.C., incorporato poi nella Mishna un secolo dopo, cioè una dozzina di anni prima della stesura dell’Apocalisse.168 Il parallelo tra il passo in questione e l’Apocalisse è degno di nota: «Uno dei sacerdoti prese il braciere e lo gettò tra il portico e l’altare, e nessuno poteva udire la voce del proprio vicino a causa del tonfo prodotto dal braciere» (Tamid V. 6) «Poi l’angelo prese l’incensiere, lo riempì del fuoco dell’altare e lo gettò sulla terra. Immediatamente ci furono tuoni, voci, lampi e un terremoto» (Ap 8:5). Secondo un altro passo del Tamid (III. 8), il suono di questo braciere era così forte che si poteva udire fino a Gerico, per un raggio di venti chilometri. Questa eccezionale risonanza la si deve alla particolare struttura dell’oggetto. Circa la testimonianza del Talmud di Gerusalemme (Sukka V. 6), la magrefa era provvista di un centinaio di fori (o di tubi) ciascuno dei quali poteva produrre una decina di suoni differenti; questo dava una sonorità composta da un migliaio di emissioni per volta. Siamo di fronte a un organo a canne ante litteram. Comunque sia, il rumore incredibile del braciere, associato ai carboni ardenti, era un’immagine chiara e suggestiva del giudizio e dell’ira di Dio. Questa lezione non è sfuggita al profeta Ezechiele, il quale riferisce di una visione dove un angelo-sacerdote, vestito di lino, getta dei carboni di fuoco su Gerusalemme (10:2). Il gesto è presagio del castigo che colpirà la città santa. Gerusalemme diventerà «un gran fuoco» (24:9; 21:3; 2 Re 25:9). Il colpo di questo braciere dato dall’angelo dell’Apocalisse è carico della stessa minaccia; risuona fortissimo come il braciere del sommo sacerdote, tra il portico e l’altare. Giovanni lo assimila a «tuoni, voci, lampi e un terremoto» (Ap 8:5). L’intero rituale dell’angelo segue la cerimonia levitica, caricandosi di significati simbolici. I profumi che si alzano davanti al trono di Dio rappresentano le preghiere degli uomini e delle

168

Cfr. L. Ginzberg, «Tamid», Journal of Jewish Lore and Philosophy I, 1919, pp. 33,38,197,263,291.

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donne che hanno gridato dal fondo della loro sofferenza affinché giustizia sia fatta. «Signore, io t’invoco; affrettati a rispondermi. Porgi orecchio alla mia voce quando grido a te. La mia preghiera sia in tua presenza come l’incenso, l’elevazione delle mie mani come il sacrificio della sera» (Sal 141:1,2). Il nostro passo fa eco al quinto sigillo che faceva ascoltare, anch’esso, grida di vittime provenienti dai lati dell’altare (Ap 6:9,10). Il colpo di braciere proveniente dall’alto acquista tutto il suo senso. Esso annuncia che le preghiere degli oppressi sono state ascoltate. Durante l’apertura del quinto sigillo, il sangue delle vittime gridava vendetta «su quelli che abitano sopra la terra» (v. 10). Ora, gli schofar portano questa vendetta sugli «abitanti della terra» (8:13). Questa intenzione è chiaramente rivelata al suono del settimo schofar: «la tua ira è giunta, ed è arrivato il momento di giudicare... e di distruggere quelli che distruggono la terra» (v. 18). Gli schofar stanno ai sigilli, come la «vendetta» risponde all’oppressione. Mentre i sigilli mostravano l’oppressione del potere usurpatore attraverso le epoche, gli schofar mettono in evidenza un giudizio immanente, effettivamente inserito nel corso degli eventi storici, preparatore del giudizio finale, proveniente dal cielo. Rosh hashanah L’immagine del suono del corno è, a questo punto, particolarmente suggestiva. Perché qui si parla non di trombe ma dello schofar. La parola greca salpigx, che le nostre Bibbie traducono solitamente con «trombe», traduce, in realtà, nella Settanta la parola ebraica schofar. Si tratta del corno dell’ariete che si utilizzava nelle occasioni solenni della guerra e del giudizio. I sacerdoti suonarono lo stesso strumento musicale durante la conquista di Gerico (cfr. Gs 6:4,6,8,13) per annunciare la vittoria. Poi, durante la festa dell’espiazione (cfr. Lv 25:9) per proclamare il gran giorno del giudizio di Dio.169 Fino a questo momento, nel libro dell’Apocalisse, il suono di questo strumento era stato sporadico. Lo abbiamo incontrato

169

Cfr. Le soupir de la terre, p. 183.

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una volta prima delle sette lettere alle chiese (1:10) e un’altra volta prima dell’apertura dei sette sigilli (4:1). Nei capitoli 8 e 9 risuona attraverso tutta la storia vista nella prospettiva profetica. Come le preghiere salgono in ogni momento verso il cielo, similmente gli schofar fanno udire la loro voce continuamente. Questa associazione, schofar e preghiera, ci ricorda l’atmosfera della festa denominata delle «trombe» (cioè degli schofar). È la festa che segue la Pentecoste. Si celebrava il primo giorno del settimo mese (Tishri: settembre ottobre) del calendario ebraico (cfr. Lv 23:23-25). Essa diventerà il primo giorno dell’anno ebraico (Rosh hashanah). Per dieci giorni, seguito dal suono degli schofar, l’israelita si preparava alla venuta della festa delle Espiazioni (il dieci di Tishri). Ogni mattina, i selioth (richieste di perdono) venivano recitati, e nel cuore della preghiera si ricordano i tredici attributi della misericordia di Dio (cfr. Es 34:6:7). La lettura della Torah è tratta dal racconto della nascita e del sacrificio d’Isacco che apporta alla festa la nota positiva del Dio che provvede ed esaudisce le preghiere impossibili (cfr. Gn 21,22). Nel contesto dell’Apocalisse, l’evocazione della festa degli schofar arricchisce la profezia degli stessi accenti di speranza e di giudizio lanciando, nello stesso tempo, un appello al pentimento e alla conversione. L’angelo vestito di lino fino che fa bruciare l’incenso davanti a Dio, rappresenta Gesù Cristo; il quale, dopo la sua intronizzazione, intercede presso Dio nel cielo. Nello stesso tempo, il braciere riempito di carboni ardenti, lanciato dall’angelo contro il portico e l’altare, si comprende come un appello al pentimento che fa eco ai drammatici squilli del corno. Il libro del profeta Gioele merita qui di essere menzionato in modo speciale. Anche lui associa, infatti, nella medesima visione, il suono del corno che allerta e chiama al pentimento e l’intercessione del sacerdote «fra il portico e l’altare». «“Nondimeno, anche adesso”, dice il SIGNORE, “tornate a me con tutto il vostro cuore, con digiuni, con pianti e con lamenti!”. Stracciatevi il cuore, non le vesti; tornate al Signore, vostro Dio, perché egli è misericordioso e pietoso, lento all’ira... Sonate la 96

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tromba a Sion... Piangano, fra il portico e l’altare, i sacerdoti, ministri del SIGNORE e dicano: “Risparmia, o SIGNORE, il tuo popolo...» (Gl 2:12-17). Con la sua allusione alla festa degli schofar e gli appelli del profeta Gioele, la visione dell’Apocalisse porta più di un avvertimento relativo alla venuta del giudizio di Dio, o una generica speranza che assicura la risposta di Dio. Essa lancia un appello personale al pentimento che obbliga ognuno a lavorare nel suo cuore per tornare a Dio completamente. Nella prospettiva profetica, la festa degli schofar si riferisce al momento che precede immediatamente il gran giudizio di Dio. Mentre il ciclo dei sette sigilli era posto a seguito della intronizzazione di Cristo, il cui tipo era scritto nella festa della Pentecoste; il ciclo degli schofar è introdotto dall’avvenimento che prepara al giudizio, il cui tipo è presente proprio nella festa delle trombe. I sette schofar ricordano le sette feste mensili della luna nuova, che fanno da ponte tra le feste della primavera e quelle dell’autunno, trovando il loro punto culminante nella festa degli schofar (cfr. Nm 10:2,10; 29:1). I sette squilli di schofar che punteggiano la storia umana hanno la funzione di ricordare a ogni essere umano di tutte le epoche, il dovere di prepararsi per incontrare il nostro giudice. Poiché, anche se l’evento del giudizio è situato in un momento preciso della storia, tutti ne siamo coinvolti. I sette schofar Gli schofar corrispondono al ciclo dei sigilli ma è solo che tra il secondo e il sesto sigillo che l’apostasia e l’oppressione della chiesa si esplicano nella storia umana; gli schofar coprono esattamente questo periodo. Il primo e il settimo sigillo che incorniciano questa epoca, sono immuni da ogni ingiustizia. Durante il primo sigillo, all’inizio dell’esperienza cristiana, la chiesa è pura, resta fedele alle sue radici e si lascia ancora condurre da Gesù Cristo. L’ultimo sigillo segna la fine della storia umana e annuncia la discesa di Dio. È dunque da sottolineare che gli schofar fanno eco ai sigilli, inserendosi precisamente tra il secondo e il sesto sigillo: 97

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Primo sigillo: cavallo bianco Secondo sigillo: fuoco, sangue

Primo e secondo schofar: fuoco e sangue

Terzo sigillo: ◆ mancanza di pane (fame)

Terzo schofar: ◆ mancanza d’acqua (sete)



buio

Quarto schofar: oscurità



Quarto sigillo: morte (due nomi)

Quinto schofar: morte (due nomi)

Quinto sigillo: il grido dei martiri ◆ voce davanti all’altare ◆ numero parziale dei salvati da completare in seguito

Sesto schofar: ◆ voce davanti all’altare ◆ numero parziale dei martiri ◆ numero parziale dei salvati, da completare in seguito

Sesto sigillo: «il giorno della sua ira è venuto»

Settimo schofar: «la tua ira è venuta»



Settimo sigillo: silenzio nel cielo.

Inoltre, al pari dei sigilli, gli schofar descrivono una progressione cronologica molto evidente: 1. Attraverso delle transizioni che annunciano gli schofar come avvenimenti successivi nel tempo (cfr. Ap 8:13; 9:12). 2. Suddivisione in un gruppo di quattro e in uno di tre, per ogni serie. 3. Nota finale sull’ultimo schofar che proclama la venuta del regno di Dio. Sulla base di queste considerazioni letterarie abbiamo forti ragioni di pensare che gli avvenimenti annunciati dagli schofar corrispondono a quelli descritti dai sigilli. 98

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Fuoco e sangue Il primo e il secondo dei quattro schofar sono complementari. I cataclismi di cui parlano colpiscono la terra e il mare. Il primo schofar produce un fiume di fuoco e una pioggia di grandine che inaridiscono la terra (v. 7). Il secondo schofar produce una massa solida incandescente, «una grande montagna», che insanguina il mare (v. 8). Nel primo caso come nel secondo, il risultato è lo stesso: la terza parte ne risulta contaminata. Il fuoco e il sangue rappresentano la violenza delle guerre che devastano tutto; nello stesso tempo ricordano le piaghe d’Egitto. Anche in quella circostanza, l’oppressore d’Israele è colpito dal fuoco e dalla grandine (cfr. Es 9:23-25). Quanto alla «terza parte», ciò significa che gli effetti della piaga saranno parziali e che la maggior parte della terra sopravviverà al flagello (cfr. Ez 5:2; Zc 13:8). I due schofar corrispondono al secondo sigillo e si applicano all’epoca in cui la chiesa cristiana è lacerata dalle guerre contro i barbari (IV e V secolo d.C.). Né acqua né luce Il terzo e il quarto schofar riguardano entrambi i corpi celesti: la stella, il sole e la luna. Tutto ciò che era stato creato per essere fonte di luce e di vita, diventa tenebre e morte. Curiosamente, questo processo di decomposizione inizia dalla stella, contrariamente alla normale sequenza, sole, luna e stelle (cfr. Gn 1:16). Questa anomalia traduce l’intenzione dell’autore di far emergere il primato del ruolo della stella in rapporto agli altri corpi celesti. La stella mette in moto il meccanismo degli eventi. Un’altra anomalia consiste nel fatto che «la stella» è al singolare. Raramente vi si trova nella Bibbia e comunque sempre al plurale, in associazione al sole e alla luna. L’autore vuole attirare l’attenzione sulla «stella» al singolare. Nella Bibbia, Antico e Nuovo Testamento, si parla di stella al singolare quando si fa riferimento al Messia. Nella profezia di Balaam, la stella designa il Re Messia chiamato a salvare Israele dai suoi nemici (cfr. Nm 24:17). Nel Nuovo Testamento, la stella rappresenta Gesù Cristo (cfr. Mt 2:2; Ap 2:28; 22:16). Il solo passo dove la parola «stella» al singolare non si riferisce al Messia si trova nel libro del profeta Isaia, dove si applica all’angelo decaduto, Lucifero, personi99

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ficato dalla potenza di Babilonia (cfr. Is: 14:12). Qui, la stella rappresenta il potere malefico che vuole, al pari dell’antica Babele (cfr. Gn 11:1-9), elevarsi fino a Dio per prenderne il posto,170 intenzione che causerà la sua caduta «nell’abisso»: «Come mai sei caduto dal cielo, astro mattutino, figlio dell’aurora? Come mai sei atterrato, tu che calpestavi le nazioni? Tu dicevi in cuor tuo: “Io salirò in cielo, innalzerò il mio trono al di sopra delle stelle di Dio; mi siederò sul monte dell’assemblea, nella parte estrema del settentrione; salirò sulle sommità delle nubi, sarò simile all’Altissimo”. Invece ti hanno fatto discendere nel soggiorno dei morti, nelle profondità della fossa!» (vv. 12-15). Il testo dell’Apocalisse si riferisce a questo brano. Vi si ritrova lo stesso motivo di caduta della stella, quale potere usurpatore. L’unica differenza è che, in questo caso, la stella nasce qui sulla terra e si colloca nella dinamica della storia della chiesa. Il profeta Daniele ne aveva ricevuto la rivelazione quando parlava del piccolo corno che si sarebbe elevato «fino a raggiungere l’esercito del cielo... e fino al capo di quell’esercito» (8:10,11). Nell’Apocalisse, come nel libro d’Isaia, la caduta di questa stella è associata alla morte. In Isaia, si identifica direttamente con il soggiorno dei morti. Nell’Apocalisse, provoca l’inquinamento dei fiumi e delle sorgenti e, di conseguenza, la morte di «molti uomini» (Ap 8:10,11), sia a causa della sete, sia per avvelenamento. Nel linguaggio simbolico del nostro libro, permeato dalle Scritture ebraiche, i fiumi e le sorgenti rappresentano il nutrimento spirituale.171 D’altra parte, l’identificazione della stella con l’assenzio, richiama l’esperienza degli israeliti a Mara (cfr. Es 15:23). I motivi si riuniscono nel tema comune dell’amarezza che la Bibbia, generalmente associa all’apostasia.172 Il popolo muore di sete perché l’acqua non è più potabile. La verità è stata adulterata, quindi non può più vivificare i credenti. Il quarto schofar dice la stessa cosa in altri termini. Il sole, la luna e le stelle, cioè il popolo di Dio (cfr. Gn 37:9; Ap 12:1), passano attraverso le tenebre.

170

Cfr. Le soupir de la terre, pp. 19,20. Deuteronomio 8:7,9; Salmo 36:8,9; Geremia 17:8,13. 172 Deuteronomio 29:17,18; Geremia 9:15; 23:15. 171

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Al terzo schofar, la verità è stata alterata; al quarto addirittura cancellata. I due schofar annunciano, dunque, due misure complementari che riguardano la stessa epoca, inquadrata dal terzo sigillo. È il momento in cui la chiesa si fa rappresentante di Dio sulla terra (VI-X secolo). Roma assume il ruolo di «città di Dio». La tradizione, il potere temporale ed ecclesiastico prendono il posto degli interessi spirituali. La verità si fa introvabile, le tenebre s’impadroniscono del popolo che muore di sete spirituale, come durante il terzo sigillo moriva di fame (cfr. Ap 6:6). A seguito della sua usurpazione, la chiesa perde il senso della sua missione e della verità di cui è depositaria. Per aver voluto elevarsi fino a Dio e prenderne il posto, la chiesa conoscerà la confusione. L’esperienza di Babele si attua per l’ennesima volta. Come nel ciclo dei sigilli, anche durante quello degli schofar, al quarto, abbiamo una svolta. Il capitolo 8, verso 13 segna una transizione che introduce i tre schofar seguenti: «Guai, guai, guai agli abitanti della terra, a causa degli altri suoni di tromba che tre angeli stanno per sonare!». Le cavallette Il quinto e il quarto schofar sono direttamente collegati dal punto di vista storico. L’attenzione è ancora fissa sulla stella caduta dal cielo (9:1). Ancora lo stesso potere usurpatore che agisce, una potenza che ricorda quella dell’antica Babele, una chiesa che pretende un’autorità che solo Dio possiede, autorità che non può essere delegata a nessuna organizzazione umana. Fino a questo momento, gli schofar indroducevano delle azioni divine di tipo cosmico, provenienti dall’alto. Da questo momento in poi, gli schofar annunciano delle azioni prodotte da forze che provengono dal basso, «dall’abisso» (vv. 1,2). Il termine greco abyssos è quello che la Settanta utilizza per tradurre la parola ebraica tehom (abisso). Questa parola caratterizza lo stato della terra prima dell’intervento creatore di Dio (cfr. Gn 1:2). Il termine tehom è associato, in modo significativo, ai concetti di acqua, tenebre e vuoto. Nel secondo racconto della creazione è messo in relazione con le parole «non» e «non ancora» 101

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(2:5).173 Il tehom - abyssos è il luogo della negazione di Dio. Più tardi, i profeti ne faranno la sede simbolica del nemico di Dio, il dragone marino (cfr. Is 51:9; Sal 74:13). Nel libro apocrifo di Enoc (167-164 a.C.), il tehom designa la dimora degli angeli decaduti (Enoc 18:12-16; 19:1,2). L’oracolo apocalittico arriva a personificare questo luogo con il nome ebraico di abbadon (9:11), che significa annientamento, perdizione.174 Il termine deriva dalla radice abad (perire, scomparire), utilizzato generalmente per descrivere il destino dei malvagi.175 Il termine Apollyon (9:11) che l’accompagna viene dal sostantivo apoleia che significa perdizione, distruzione; e, come abyssos, traduce nella Settanta lo stesso termine tehom. La parola ebraica abbadon e il termine greco apollyon ripetono lo stesso concetto di nulla e di negazione di Dio, rafforzandolo maggiormente. Le tenebre che invadono la scena (9:2), non sono della stessa natura di quelle del quarto schofar. In quella circostanza le tenebre erano determinate dal fatto che i corpi celesti erano stati colpiti (8:12). Ora, le tenebre hanno un’altra origine. Associate al tehom, sono quelle del tempo precedente la creazione. Le cavallette che il profeta vede sorgere dall’abisso (9:3) portano in loro la qualità di quel terribile luogo. La spessa nube che esse formano, oscura la luce proveniente dall’alto e negano, in qualche modo, l’esistenza del cielo. Il quinto schofar svela il meccanismo di negazione di Dio che caratterizzò quel periodo storico. La stella cade nell’abisso, questo provoca lo scatenarsi delle forze del nulla, delle tenebre. In altre parole, l’usurpazione dell’autorità divina, con tutto quello che implica, in termini di orgoglio, presunzione, intolleranza e oppressione, porta inevitabilmente alla negazione di Dio. Il quinto schofar descrive il processo che porta al castigo di Dio. Il giudizio colpisce la chiesa dall’interno, quale conseguenza neutrale delle sue opere. Il giudizio è già presente nell’errore. Sono le pretese di essere rappresentanti di Dio sulla terra che

173

J. Doukhan, The Genesis Creation Story, pp. 64,65. Giobbe 26:6; 28:22; 31:12; Proverbi 15:11; 27:20. 175 Proverbi 11:10; 19:9; 21:28; 29:3. 174

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hanno prodotto intolleranza e persecuzione, da queste è derivata la ribellione degli uomini e il rigetto di Dio e delle istituzioni ecclesiastiche. La storia conferma la profezia. La reazione popolare e laica prodotta dalla Rivoluzione francese trae origine anche da quei comportamenti del cristianesimo corrotto. I movimenti anticlericali del XVII e del XVIII secolo, non sono altro che una risposta allo spirito delle crociate, dell’Inquisizione che hanno segnato la storia dal XI al XVI secolo. L’oracolo profetico utilizza l’immagine delle cavallette per rendere meglio la natura di questo assalto. Le cinque parole del flagello corrispondono al ciclo della vita di una cavalletta: dalla nascita alla morte, passando dallo stato di larva. Si ritrova la stessa immagine nel libro di Gioele. Anche lì, il giudizio divino è rappresentato da un’invasione di cavallette che assomigliano a dei veri cavalli (cfr. 2:4; Ap 9:7).176 In quel passo veterotestamentario, le cavallette devastano i raccolti e oscurano il cielo (cfr. Gl 1:10), esattamente nel lasso di tempo di una generazione (vv. 4-6). Gli effetti del flagello previsto dal quinto schofar sono limitati nello spazio e nel tempo. Nello spazio, perché esse toccano solo coloro che non hanno ricevuto il marchio di Dio sulla fronte (cfr. Ap 9:5), cioè tutti coloro che non hanno perduto il senso dell’adorazione di Dio creatore. Soltanto la chiesa in quanto istituzione viene attaccata dai rivoluzionari laici. Il popolo, dal canto suo ne esce più libero e audace, nel pensiero come nella ricerca della verità. Il momento è propizio per una rimessa in questione della tradizione, per la fioritura di quelle idee che furono della Riforma. Nel tempo, perché le cavallette si accontentano di ferire come degli scorpioni (9:5). Il loro morso non è fatale; non uccide. La sofferenza non dura che un istante. La chiesa (apostata) sopravvivrà al flagello. Secondo l’oracolo profetico, il suo tormento durerà cinque mesi (5 moltiplicato per 30 giorni), centocinquant’anni secondo il calcolo profetico che vuole un giorno corrispondere a un anno.177

176

Il paragone è felice, tenendo conto dell’aspetto delle cavallette, della loro velocità e della loro stessa strategia militare (Os 14:3; Am 6:12). 177 Cfr. Le soupir de la terre, pp. 205-207.

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Una simile depressione è senza precedenti nella storia della chiesa. Il suo inizio è segnato dal grande urto della Rivoluzione francese che fa tremare le fondamenta della chiesa, tanto da imprigionare il papa (1798). La fine di questo periodo si attua completamente nel dopoguerra (1948), quando il papato ha ritrovato la sua sovranità temporale, grazie alla ratificazione dei patti lateranensi (1929). Inoltre, una delle particolarità più salienti della politica del dopoguerra, è l’ascesa di quei partiti detti «democratico-cristiani» attraverso tutta l’Europa; largamente dominati da membri della chiesa cattolica, essi sono stati spesso a capo di governi, detti di coalizione. La chiesa si impone allora sulla scena internazionale su tutti i piani; su quello politico, di fronte al comunismo, nella lotta contro le ingiustizie sociali, su quello religioso, impegnandosi nel dialogo ecumenico. Certo, si potrebbero fare altri calcoli e dare altri punti di partenza nella cronologia in questione. Ma, quale che sia il risultato, il messaggio è sempre lo stesso. L’irruzione delle cavallette nel cielo della chiesa deve essere letto come un giudizio di Dio che colpisce chi si è macchiato di crimini orrendi. I precedenti esistono nella storia biblica e parlano di giudizio di Dio.178 Questo è il senso particolare dei cinque mesi, un tempo che ricorda il racconto del diluvio, il primo giudizio di Dio, nella storia umana (cfr. Gn 7:24). I cavalieri Il sesto schofar risponde al grido del quinto sigillo. Alle voci che piangono davanti all’altare (6:10), fa eco una voce che libera i quattro angeli sull’Eufrate (9:13-14). Ancora una volta, l’avvenimento in esame deve essere letto come un castigo contro l’oppressore, identificato qui, chiaramente, con Babilonia. Il riferimento all’Eufrate ricorda, nella memoria biblica, la caduta di Babilonia.179 Allo stesso modo, «gli idoli d’oro, d’argento, di rame, di pietra e di legno» (v. 20) ricordano l’idolatria di Babilonia, come essa è ricordata dal profeta Daniele alla vigilia della distruzione di Babilonia (v. 23). «I demoni» (v. 20) e le «loro

178 179

Geremia 51:14; Gioele 1:4; Amos 7:1; Salmo 105:34. Geremia 51:59-64; cfr. Isaia 44:27,28; Geremia 50:38.

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magie» (v. 21) costituiscono, ugualmente, secondo il profeta Isaia, le caratteristiche di Babilonia e la causa della sua caduta (cfr. 47:12). Lo schofar precedente aveva sentito la venuta di un potere la cui mentalità arrogante e orgogliosa ricordava lo spirito di Babele. Delle cavallette sorte dall’abisso, con la coda di scorpione, erano state scatenate contro di lui. Il profeta aveva descritto questa minaccia con l’immagine di un esercito a cavallo che corre «alla battaglia» (9:9). Quest’armata viene annunciata dal sesto schofar. Anche in questo caso, l’esercito è comparato a dei cavalli che hanno il loro potere offensivo nella coda (v. 19). Il sesto schofar riprende il filo della storia accennato nel quinto. Il combattimento, qui, s’intensifica. Il nemico di Babilonia diventa più minaccioso. I cavalli del quinto schofar hanno denti di leone. Questa volta, tutta la testa è leonina (v. 17). Il potere malefico dei soldati del quinto schofar si esercitava attraverso la coda. Questa volta, non solo essa è fatale, ma anche la bocca (v. 19). La corazza dei combattenti del quinto schofar era di ferro (v. 9). Questa volta è del «colore del fuoco» (v. 17). Le cavallette scorpione del quinto schofar si accontentano di ferire senza uccidere (v. 5). I cavalieri del sesto schofar uccidono (9:18). Il fumo del quinto schofar (v. 2) diventa fuoco e zolfo nel sesto (v. 18). Il numero dei nemici è aumentato. Il profeta è sorpreso a tal punto da usare un superlativo, «due miriadi di miriadi» (v. 16). La parola greca myrias, che significa diecimila, rende l’idea di un numero molto grande.180 Lo si ritrova nella benedizione dei figli di Bethuel che auguravano alla loro sorella Rebecca una posterità di «venti migliaia di decine di migliaia» (Gn 24:60 Riveduta). Ricordiamo anche il canto delle donne a seguito delle imprese di Davide: «Saul ha ucciso i suoi mille, e Davide i suoi diecimila» (1 Sam 18:7). Ora, quel numero è gonfiato due volte: non solo 10.000x10.000, ma 2x10.000x10.000. La battaglia non è mai stata così grave. La forza uscita dall’abisso, laica e anticlericale, si sviluppa oltre ogni previsione. Contro la chiesa e contro tutto ciò che rappresenta in termini

180

2 Samuele 18:3; 1 Corinzi 4:15; 14:19.

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religiosi e di fede in Dio, le correnti politiche e filosofiche si moltiplicano e si sostengono a vicenda. A partire dal XIX secolo le ideologie nate dalla Rivoluzione francese, marxiste, materialiste, evoluzioniste e razionaliste, mettono le basi di una mentalità che formerà le menti fino ai giorni nostri. Le vedute laiche e atee penetrano ovunque e s’infiltrano anche negli ambienti religiosi per affermare idee che eliminano il concetto di Dio, sostituendolo con la ragione umana e con le sue risorse. È una delle ironie più notevoli della storia. Per aver voluto sostituire Dio sulla terra, la chiesa ha trovato il suo più feroce nemico proprio al centro della terra, nell’abisso che è la negazione di Dio. L’Apocalisse conferma la visione di Daniele. Al capitolo 11 del suo libro, il profeta aveva previsto un confronto tra i due poteri.181 Il primo viene dal nord, Babilonia, e incarna il movimento d’usurpazione di Dio, che ha caratterizzato, purtroppo, la chiesa attraverso i secoli. L’altro, viene dal sud, l’Egitto, che incarna quei movimenti laici e atei che hanno segnato l’occidente durante l’era moderna e contemporanea. L’Apocalisse, come Daniele, fa allusione a Babilonia, come all’Egitto. Babilonia si vede nel quinto squillo di schofar, nella stella caduta; nel sesto squillo, si percepisce nell’associazione con l’Eufrate. Il potere dell’Egitto è ugualmente evocato dalle piaghe. Le cavallette, gli scorpioni, i serpenti, le tenebre, sono altrettanti motivi che richiamano l’esperienza dell’Egitto; in modo particolare nella sua irriducibile negazione di Dio (cfr. Es 5:2). L’Egitto è descritto nel nostro oracolo, soprattutto, per l’allusione ai carri e ai cavalli; nella tradizione biblica, questi elementi sono sempre stati associati alla potenza egiziana.182 Sono quindi le stesse circostanze storiche a essere visualizzate da Daniele, come da Giovanni. Ma le convergenze non si fermano qui. Come in Daniele 11, anche nell’Apocalisse si prevede la vittoria di Babilonia.183 I cavalieri del sesto schofar eliminano un terzo degli uomini (Ap 9:18). I due terzi sopravvissuti continueranno nel loro

181

Cfr. Le soupir de la terre, p. 238. Isaia 31:1-3; 2 Re 10:28; Geremia 46:8,9. 183 Cfr. Le soupir de la terre, p. 247. 182

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atteggiamento idolatrico, senza pentimenti. Poi, non si dirà più nulla sul nemico, come se fosse stato trascinato dal passo di Babilonia. Come in Daniele 11, la storia termina con la fusione dell’Egitto con Babilonia (v. 43). Oggi, si può intravedere il compimento della profezia. Gli ultimi avvenimenti lasciano indovinare gli sbocchi di questo antico cammino. La caduta del marxismo e la sconfitta del razionalismo mostrano che sia Daniele sia Giovanni potrebbero avere ragione. Il processo non ha riguardato solo la cristianità occidentale. Il conflitto tra le forze rappresentate da Babilonia e dall’Egitto esce dai limiti propri della chiesa cattolica e dei movimenti laici nati dalla Rivoluzione francese. L’influsso della Rivoluzione si è esteso al di là delle frontiere religiose e politiche. Lo spirito laico, giudicato come inoffensivo, si è agevolmente infiltrato nelle società cristiane ed è penetrato anche nel giudaismo e nell’islam; fino a produrre anche in quegli ambienti, una passione umanistica e anticlericale. In queste due tradizioni si è cristallizzato un nuovo movimento. In reazione allo spirito critico e razionalista, rigettato per la sua origine occidentale e imperialista, si è assistito al sorgere di movimenti fondamentalisti, sia nel giudaismo che nell’islam. Più che mai, gli ayatollah e i rabbini hanno detto parole importanti per i destini politici delle loro nazioni. In Iran, in Algeria e in Egitto, come anche in Israele, la politica è stata messa al servizio della religione. Mentre negli ambienti cristiani, i movimenti laici sono nati in contrapposizione alla religione, qui è avvenuto il contrario. La religione è stata assunta per reagire contro i movimenti laici. Lo stesso fenomeno comincia a prendere piede in ambienti cristiani occidentali. Anche qui, in reazione alle correnti laiche, razionaliste e liberali, alcuni movimenti fondamentalisti si sono formati per proclamare il ritorno alle radici e prendere il potere. Negli Stati Uniti, in particolare, una nuova destra si è posta l’obiettivo di vincere le elezioni e creare un paese più cristiano. La tendenza è presente praticamente in tutta l’Europa. Questa storia, in sintesi, si è sviluppata in quattro fasi: 1. La chiesa prende i connotati dell’antica Babele, si eleva fino a Dio per rappresentarlo sulla terra, imponendosi come magistero morale e religioso su tutte le coscienze. 107

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2. Nel XIX secolo, sotto l’impulso della Rivoluzione francese e per reazione alla chiesa, i valori umanistici e laici vengono affermati e sviluppati nel corso del XIX secolo dal marxismo, dal positivismo e dall’evoluzionismo. Profeticamente potremmo dire che l’«Egitto» ha attaccato «Babilonia». 3. A partire dal XIX secolo fino all’inizio del XX secolo lo spirito laicista si spande nelle differenti culture religiose, paradossalmente, attraverso i canali missionari cristiani, ma anche a causa della politica colonialista dei governi dell’epoca. 4. Dopo la seconda guerra mondiale, sotto l’impulso dei movimenti d’indipendenza e di rinnovamento nazionale, nel ricordo degli orrori della guerra, si assiste ovunque, in reazione allo spirito razionalista e liberale, a un certo ritorno ai valori religiosi, tradizionali e nazionali. È il tempo dei best sellers religiosi e dei predicatori che diventano divi. Siamo dunque arrivati alla fase 4 del ciclo che annuncia una fase 5 nel corso della quale i due campi sono in procinto di riunirsi nello stesso sforzo di usurpazione dell’autorità di Dio, nello spirito di Babele. I primi sintomi sono già visibili. All’interno stesso della moda del risveglio religioso, si avverte un forte accento antropocentrico che caratterizzava le correnti laiche dell’ottocento. La religione diviene sempre più «umana». Il Dio immanente del «profondo» prende il posto del Dio trascendente della Bibbia che si rivela per sua iniziativa, dall’alto, mettendo in crisi la natura umana. Questo ritorno alla spiritualità, lo si deve, tra l’altro, al successo del New Age, la cui influenza si esercita su tutte le religioni. Questo nuovo «evangelo» che non rinnega l’antico, viene predicato da personalità cristiane e non cristiane. Padre Teilhard de Chardin, e sulle sue orme «ecoteologi» come Thomas Berry, esaltano la verità della «madre terra». L’evoluzione è interpretata come un «processo sacro» attraverso il quale Dio si sarebbe incarnato nelle pulsazioni della natura. Dio è in tutto e dappertutto. Da questo presupposto, credere alla relazione tra Dio e la natura, tra i morti e i viventi, il passo è breve; compierlo è facile grazie alla dottrina dell’immortalità dell’anima e della reincarnazione. Le manifestazioni paranormali, gli astrologi, le comunicazioni con l’aldilà non hanno mai conosciuto tanta popolarità. Tutti questi fenomeni 108

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traggono origini da uno stesso spirito. Il Dio creatore che è nei cieli non è più invocato. L’uomo e le potenze che provengono dal basso, lo hanno sostituito. Sul versante cristiano, questa «ricerca del cosmo sacro» ha trovato un fervente interprete nella persona di Vaclav Havel. Durante un recente discorso tenuto presso l’università di Stanford, il presidente ceco ha sostenuto la tesi di una dimensione spirituale che collegherebbe tutte le culture e, in definitiva tutte le creature umane. Questo appello a una «democrazia planetaria» non è priva di affinità con l’ideale dell’Internazionale marxista. Ma dopo la caduta del comunismo e sull’onda delle nuove spiritualità, un linguaggio simile acquista un significato particolare. I valori umanistici e antropocentrici si sono uniti ai valori religiosi. Il mondo dello spettacolo non è estraneo a questo fenomeno. Madonna ha dedicato un canto a Gesù e a Maria nel film di Lelouch. Mescolando il profumo d’incenso con lo splendore dei gioielli, è nata una nuova cultura carica di tutti gli ingredienti della profezia apocalittica. L’Egitto e Babilonia cominciano ad andare proprio d’accordo. Non è ancora tutto determinato. La chiesa, le religioni, sono tutte entità presenti e separate, di fronte ai movimenti laici e atei. Gli indizi sono, nonostante tutto, sufficienti per riconoscere una tendenza e riconoscere il cammino di una storia, così come è stata vista dai profeti della Bibbia. Presto Babilonia ed Egitto danzeranno allo stesso ritmo. Interludio: l’angelo di luce, il libro e i due testimoni Dopo il sesto schofar il profeta fa una pausa, come era accaduto dopo il sesto sigillo. Questa introduce il settimo schofar. Come nella serie dei sigilli, l’interludio si svolge nella dimensione di Dio. L’angelo di luce Alla stella caduta, angelo dell’abisso che richiama il nulla e la morte (cfr. Ap 9:1,2) si oppone, ora, un angelo potente di luce che guarda al Dio creatore (cfr. 10:1). L’arcobaleno sulla sua testa è il segno dell’alleanza tra il Dio dell’universo e l’uomo (Gn 9:12,13). I suoi piedi, posati successivamente sul mare e sulla terra (cfr. Ap 10:2,5), ricordano l’azione creatrice di Dio, la 109

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quale si attua, prima sulle acque (cfr. Gn 1:1-8), poi, sulla terra (v. 9 e ss.). Questo personaggio ricorda il Figlio dell’uomo della prima visione dell’Apocalisse. Come lui, ha il volto che splende come il sole (10:1; 1:16), i suoi piedi ardono come il fuoco (10:1; 1:15), la sua voce è come il tuono (10:3; 1:15). Come lui, scende sulle nuvole del cielo (10:1; 1:7). Ma, quando si considera la visione nel suo insieme, la memoria va al profeta Daniele. Al capitolo 12 del suo libro, Daniele riporta la visione di un personaggio in piedi, sulle acque, che alza le mani verso il cielo che giura «per colui che vive in eterno» (v. 7). Questo solenne giuramento dell’uomo vestito di lino risponde alla domanda di un altro essere celeste: «Quando sarà la fine?» (v. 6). La risposta non è completamente soddisfacente, tanto che Daniele non comprende; la cosa obbliga l’uomo vestito di lino a precisare che quelle parole sono sigillate «fino alla fine dei tempi» (v. 13). È qui l’ultimo periodo della profezia e, di conseguenza il solo che contiene la risposta completa e definitiva alla domanda «fino a quando?» Solo questo periodo profetico conduce a quel «fine dei tempi». Infatti, il tempo della fine era già stato l’oggetto di una rivelazione precedente. Il capitolo 8 del libro di Daniele riporta la stessa visione dei due personaggi celesti che dialogano. Anche in questo caso l’incontro prende il via con la domanda «fino a quando?» (v. 13). Nuovamente, la risposta conduce al tempo della fine. E un periodo profetico viene tracciato. In Daniele 8, il «tempo della fine» che risponde alla domanda «fino a quando?» è posto al termine di duemilatrecento sere e mattine, cioè nel 1844, ed è descritto come una festa dell’espiazione e purificazione del santuario.184 Poiché i milletrecentotrentacinque giorni portano anche loro alla «fine dei tempi» come risposta alla stessa domanda «fino a quando?», si può dedurre che essi conducono agli stessi avvenimenti predetti dalla profezia delle duemilatrecento sere e mattine, quindi alla stessa data e alla stessa festa dell’espiazione dell’umanità, che è iniziata nel 1844. È da notare come il

184

Cfr. Le soupir de la terre, pp. 179-184.

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personaggio celeste che annuncia questo Kippur del tempo della fine è vestito con l’abito di lino finissimo, proprio del sommo sacerdote, durante la festa dell’espiazione. Questo tempo di giudizio (a partire dal 1843-44) è la risposta alla domanda «fino a quando?», grido dei martiri del quinto sigillo (Ap 6:10). È il tempo definito dal profeta Daniele come «tempo della fine» (Daniele 8:17,19,26). Ora, questo tempo è appunto quello che è attraversato dal suono del sesto schofar. Si comprende bene, adesso, il senso di questa parentesi letteraria. Essa è un modo per situare la visione dell’angelo di luce nel tempo. Il profeta Daniele aveva avvertito che la sua visione sarebbe stata sigillata «sino al tempo della fine» (12:9). L’angelo dichiara, ora, che «questo tempo della fine» è arrivato e non ci sarà «più indugio» (10:6). Il tempo del sesto schofar segna il momento in cui la profezia di Daniele è aperta, la si può comprendere. Il libro Per meglio esprimere questa verità, Giovanni si alza e, per ordine di una voce celeste e in seguito dell’angelo, s’impadronisce del «libro... aperto» che è nelle mani dell’angelo e lo mangia (Ap 10:8,9). Questo gesto è significativo: la parola è ricevuta e assimilata. «Il libretto» rappresenta dunque il libro di Daniele che, dopo essere stato sigillato per molto tempo, è infine «aperto» e mangiato (cioè, letto e compreso). L’esperienza del profeta dell’Apocalisse ricorda quella di Ezechiele: anche lui udì la voce dello stesso angelo di luce (cfr. 1:28; cfr. Ap 1:12-15) che gli ordina di mangiare un libro (cfr. Ez 3:1). Questo gesto strano è spiegato dai versetti seguenti. Indica il ministero del profeta che, dopo aver «assimilato» il contenuto del libro, lo comunica ai suoi contemporanei (vv. 2-6). Il parallelo tra i due testi non si ferma qui. Come Giovanni, Ezechiele trova il libro «dolce come del miele» (v. 3; cfr. Ap 10:9,10). Per Giovanni, l’esperienza è ambigua. Alla dolcezza si mescola un retrogusto amaro. Questo libro contiene «lamentazioni, gemiti e guai» (Ez 2:10). La ragione di questa ambiguità risiede nella natura stessa del messaggio profetico da trasmettere al popolo. Si tratta, nello stesso tempo, di un messaggio di giudizio e di restaurazione. 111

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Il giudizio di cui parla Ezechiele è diverso dagli altri annunciati fino a quel momento dai suoi predecessori: «la fine viene» (7:2,3,6). Ezechiele, profeta dell’esilio, annuncia la venuta imminente del giudizio di Dio. La distruzione di Gerusalemme è alle porte. Il profeta è posto in Israele come una sentinella che grida e avverte il popolo del disastro imminente. Ezechiele non si accontenta di predicare la notizia per mezzo di oracoli, parabole e gesti simbolici (cfr. 33:2). Il profeta vive l’avvenimento doloroso, sulla sua propria carne. Sua moglie, «la delizia» dei suoi occhi, muore (24:15-27). Egli porterà il lutto per tre anni; il tempo dell’assedio di Gerusalemme, fino alla sua caduta (33:22). Da un altro lato, oltre agli avvertimenti di morte e di distruzione, Ezechiele annuncia la promessa della restaurazione. Il ritorno degli esuli è profetizzato; le tribù d’Israele saranno nuovamente riunite (37:21). La città di Gerusalemme sarà ricostruita (40-48). Il paese rifiorirà (47:12). Gli uomini e le donne avranno un cuore nuovo. La profezia vede l’avvenimento come una vera risurrezione. Le ossa, toccate dalla parola di Dio si ricopriranno di carne, di nervi, di pelle, si alzeranno e torneranno in vita (cap. 37). Il miracolo della creazione è nuovamente proclamato. Come in Genesi 2:7, lo Spirito soffia per far vivere la polvere della terra (37:9). Questo doppio messaggio, dolce e amaro nello stesso tempo, di giudizio e di creazione, si trova nell’Apocalisse e trova un’eco in Ezechiele. Questo è il messaggio per eccellenza contenuto nella festa dell’espiazione.185 Le luci di Daniele e di Apocalisse convergono per rivelare il carattere del tempo della fine. In Daniele, questo tempo è esplicitamente designato quale festa dell’espiazione, cioè, un tempo ambiguo di speranza che annuncia, contemporaneamente, il giudizio e la ricreazione del mondo. Nell’Apocalisse, questo tempo è descritto attraverso la visione del profeta che mangia il libro di Daniele e lo trova sia dolce sia amaro. I libri di Daniele e Apocalisse si completano. Il fatto stesso che il profeta Giovanni sia chiamato a mangiare il libro di Daniele è significativo e parla di una relazione di interdipendenza tra le due rivelazioni.

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Cfr. Le soupir de la terre, p. 185.

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Questo reparto acquista tutto il suo senso quando, dopo aver avvallato il libro, Giovanni è chiamato a profetizzare «su molti popoli, nazioni, lingue e re» (10:11). La stessa frase la ritroveremo in seguito, al capitolo 14, per caratterizzare la missione del messaggero profetico dei tempi della fine, anche lui chiamato a parlare «a ogni nazione, tribù, lingua e popolo» (v. 6). Anche in questo passo il messaggio è centrato sul giudizio e sulla creazione (14:7-11). Il popolo di Dio del tempo della fine, impersonato da Giovanni che ha assimilato il libro di Daniele, è annunciato come un popolo di profeti la cui missione è di portare al mondo il messaggio di Daniele riassimilato dall’Apocalisse. I due testimoni La visione seguente mette Giovanni nuovamente a confronto con l’esperienza profetica di Ezechiele. Come lui, riceve una verga per misurare il tempio della Gerusalemme futura (cfr. Ap 11:1; Ez 40:3). Questo gesto simbolico diventa chiaro quando lo si mette in parallelo con il ciclo dei sigilli. Dopo l’apertura del sesto sigillo, la serie si era interrotta per consentire a Dio di segnare il suo popolo, esperienza che gli consentirà di vivere in tempi difficili (7:3). Allo stesso modo, dopo lo squillo del sesto schofar il profeta si ferma a misurare il tempio di Dio annunciandone la restaurazione (cfr. 11:1; Zc 2:2). Più esattamente, Giovanni deve misurare «l’altare» e contare «quelli che vi adorano». La visione si applica al popolo di Dio attraverso la storia. Questo popolo ha ricevuto la missione di «profetizzare» (11:3). La sua missione è simile a quella del popolo di Dio dei tempi ultimi: testimoniare della rivelazione che viene dall’alto. Mentre, in precedenza la testimonianza verteva su Daniele e l’Apocalisse, ora, arrivati alla fine della storia umana, la testimonianza si allarga all’intero messaggio biblico. L’oracolo paragona questo popolo «profetico» a «due testimoni» (11:3) e spiega: «Questi sono i due olivi e i due candelabri che stanno davanti al Signore della terra» (11:4). Il profeta Zaccaria riporta un’analoga immagine di due olivi e di un candelabro (4:1-6,11-14). Alla domanda del profeta: «Che significano queste cose?» (v. 4), l’angelo risponde: «“Non per potenza, né per forza, ma per lo Spirito mio” dice il SIGNORE degli eserciti» (v. 6). 113

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La spiegazione dell’angelo si basa sul rapporto tra l’olio d’oliva e il candelabro. Come il candelabro illumina grazie all’olio versato dall’alto, così la parola profetica rischiara grazie allo Spirito che scende dall’alto. Nella Bibbia, la Parola di Dio è spesso paragonata alla luce. Il salmista ne trae un principio dinamico proprio del cammino verso Dio: «La tua parola è una lampada al mio piede e una luce sul mio sentiero» (Sal 119:105). I proverbi compongono giochi verbali per riferire la torah, la legge di Dio rivelata, alla luce, ôr (cfr. Prv 6:23); le due parole derivano dalla stessa radice. Nel Nuovo Testamento «Dio è luce» (1 Gv 1:5) e, quando Gesù si identifica con la luce, egli la riferisce alla via (cfr. Gv 8:12) nello spirito del Salmo 119, facendo, in questo modo, allusione alla torah, la rivelazione di Dio. All’immagine dell’ulivo e del candelabro si aggiunge un’altra identificazione dei due testimoni. I miracoli che essi compiono ricordano due personaggi importanti dell’Antico Testamento, Mosè ed Elia. Mosè è ricordato per il miracolo delle acque mutate in sangue e delle piaghe che colpiscono la terra (cfr. 11:6; Es 7:14-18). Elia è ricordato dall’evento del fuoco che divora il nemico e della pioggia sottomessa al controllo (cfr. 11:5,6; 1 Re 19:10; 17:1). Ora, il solo testo dell’Antico Testamento che associa questi due personaggi si trova in Malachia, l’ultimo profeta canonico delle Scritture ebraiche. «Ricordatevi della legge di Mosè, mio servo, al quale io diedi sull’Oreb leggi e precetti, per tutto Israele. Ecco, io vi mando il profeta Elia, prima che venga il giorno del SIGNORE, giorno grande e terribile. Egli volgerà il cuore dei padri verso i figli, e il cuore dei figli verso i padri, perché io non debba venire a colpire il paese di sterminio» (4:4-6). Il testo in questione è orientato in due direzioni diverse e opposte; la prima si riferisce a Mosè e guarda, di conseguenza, al passato. È un appello alla memoria, alla fedeltà all’antico patto stipulato tra Dio e il suo popolo. Mosè rappresenta l’Antico Testamento. Per i cristiani contemporanei di Giovanni, Mosè era associato alla rivelazione del primo patto.186

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Matteo 23:2; Giovanni 1:17; Atti 15:21.

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Secondo la tradizione ebraica, Mosè era all’origine di tutto l’Antico Testamento. «Mosè ricevette la torah sul Sinai e la trasmise a Giosuè. Giosuè la trasmise agli anziani, gli anziani ai profeti e i profeti ai membri della grande assemblea» (Pirqey Aboth 1:1). La seconda direzione si riferisce a Elia ed è orientata verso l’avvenire. Si tratta della promessa della venuta del Messia e incoraggia la speranza. I cristiani dell’epoca di Giovanni associavano Elia alla venuta del Messia.187 Lo stesso fa la tradizione giudaica. Le leggende che si tramandano, i gesti liturgici durante le sere pasquali del seder, i canti nostalgici del Shabbat sul far della sera «sono pieni dell’attesa del Messia».188 Come Mosè riporta alle radici dell’Antico Testamento, Elia chiama alla speranza messianica del Nuovo Testamento. Per Giovanni, nutrito alle sorgenti giudeo-cristiane, l’allusione a Mosè e a Elia non è casuale. Essa è carica di allusioni alle due rivelazioni di Dio, che comunemente sono chiamate, Antico e Nuovo Testamento. I due testimoni sono qui presenti e giocano un ruolo nel processo profetico. Tramite questo doppio riferimento scaturisce la lezione del rispetto per tutta la Bibbia. La complementarietà dei due testimoni è ancora una volta testimoniata e sottolineata. Senza l’Antico Testamento, che profetizza la venuta del Messia e pone i principi fondamentali di una vita ispirata alla legge di Dio, proveniente dall’alto, non sarebbe possibile né riconoscere il Messia né comprendere il suo messaggio né riceverlo. Senza il Nuovo Testamento, che compie le profezie e rivela il senso profondo della legge dall’alto, non si potrebbe comprendere l’intenzione delle antiche istituzioni ebraiche né cogliere l’orientamento delle profezie messianiche. Ma, al di là di questi due documenti ispirati, l’immagine dei due testimoni si applica ai popoli che li hanno trasmessi. Infatti, il profeta vede, prima di tutto, degli uomini e delle donne che profetizzano e che soffrono (Ap 11:3,7). Occorre, innanzitutto, pensare al popolo ebraico, che ha

187 188

Luca 1:13-17; Matteo 17:10-13. A.R. Neher, Histoire, vol. 2, n. 272, p. 405.

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portato nella propria carne e al ritmo della sua esistenza quotidiana, la testimonianza della legge che viene dall’alto. Gli ebrei hanno conservato coscienziosamente e appassionatamente le Scritture ebraiche con le profezie, specialmente quelle di Daniele. Sono stati gli ebrei fedeli, quelli che hanno pagato con la loro vita o con lacerazioni sociali e affettive, per il solo fatto di essere ebrei. Ma occorre anche pensare alla chiesa, quella che ha portato al mondo la buona notizia della salvezza e dell’amore di Dio e ha fatto conoscere il nome di Gesù Cristo, che ha conservato con cura e competenza gli scritti del Nuovo Testamento; con le sue profezie, con l’Apocalisse. Pensiamo a quei cristiani che hanno conosciuto il martirio e sono morti per aver proclamato la loro fede, rifiutando ogni compromesso. Senza questi due popoli, noi non avremmo potuto accedere alle Scritture, all’Antico e Nuovo Testamento né alle verità di cui sono carichi. Senza di loro, persone in carne e ossa, inseriti in una cornice storica, questi documenti, sarebbero rimasti lettera morta e ridotti a pezzi da museo. In definitiva è perché l’uno o l’altro di questi testimoni, è stato trascurato, ignorato o addirittura rigettato, che si è reso necessario il fatto che Israele e la chiesa, sopravvivessero insieme, testimoni complementari per il mondo, ma anche utili reciprocamente. Ignorare una di queste due testimonianze conduce inevitabilmente a una deformazione, se non a un’amputazione della rivelazione di Dio. Essi, non soltanto si illuminano a vicenda, ma anche si completano, portando una verità che manca all’altro. Il principio dell’unità e della complementarietà dei due testimoni è fondamentale per la comprensione del libro dell’Apocalisse. Senza il libro di Daniele, l’Apocalisse rimane oscuro, non soltanto a causa delle sue allusioni e referenze a questo libro, ma perché si situa idealmente sulla stessa linea, utilizzandone il linguaggio e la stessa simbologia, riferendosi allo stesso filone di avvenimenti. Ne abbiamo un esempio eloquente in quelle cronologie, periodi di tempo, che richiamano il calendario profetico di Daniele (Ap 11:2,3). In entrambi si parla di oppressione che deve durare milleduecentosessanta giorni profetici, l’equiva116

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lente di quarantadue mesi (42x30). Daniele prevede una persecuzione che durerà «un tempo, dei tempi e la metà d’un tempo» (Dn 7:25). L’analisi di questa espressione nel contesto del libro di Daniele189 rivela che il profeta pensa a un anno (360 giorni), due anni (360x2) e la metà di un anno (360:2), per un totale di milleduecentosssanta giorni-anni. Per descrivere questo tempo di persecuzione, Giovanni utilizza un linguaggio che richiama quello di Daniele: «... le nazioni… calpesteranno la città santa» (Ap 11:2), come il piccolo corno calpesterà i santi (Dn 8:10). Si tratta, dunque, dello stesso avvenimento visto da due profezie. La storia mostra, in effetti, che per milleduecentosessanta anni, a partire dal 538 a.C., data nella quale la chiesa diventa un potere temporale, fino al 1798, data in cui esso viene duramente scosso, i testimoni delle Scritture vengono costantemente colpiti. Durante tutto questo tempo, ci dice l’Apocalisse, i due testimoni profetizzano «vestiti di sacco» (11:3), precisa, in seguito, che essi saranno colpiti a morte dalla «bestia che sale dall’abisso» (11:7). Il luogo del dramma si colloca in un senso spirituale (11:8) in rapporto a tre luoghi che hanno segnato la storia biblica: «La grande» città, cioè Babilonia (14:8), che personifica l’usurpazione dell’autorità di Dio; l’Egitto, che rappresenta la negazione di Dio; e Sodoma che incarna la degradazione morale e l’ignoranza di Dio. In questi luoghi Dio è morto; è stato sostituito, negato o semplicemente ignorato. Perseguitando i testimoni di Dio, in realtà si è colpito più in alto. Il crimine è assimilato a un vero e proprio deicidio. L’accusa è portata in modo esplicito dall’Apocalisse che vede in questo luogo un altro Golgota, «dove anche il loro Signore è stato crocifisso» (11:8). Nel vento della Rivoluzione francese, che è rappresentata dalle forze che salgono dall’abisso (9:1,2), non soltanto la religione ufficiale viene attaccata, ma anche tutto ciò che la ricorda o la ispira. Il nuovo culto della Ragione promuove la distruzione delle Scritture e la negazione di Dio. Sulle pubbliche piaz-

189

Cfr. Le soupir de la terre, p. 156.

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ze, i libri considerati come sacri, dai cristiani come dagli ebrei, vengono bruciati. La seguente testimonianza è riportata da un giornale dell’epoca: «Ieri, giorno della Decade sono state cancellate le ultime tracce della superstizione: una grande catasta di legna alzata sulla piazza era cosparsa da una moltitudine d’immagini e di quadri portati via dalle chiese. La folla ha buttato sulla legna circa seimila volumi cosiddetti religiosi; mentre lo faceva cantava degli inni repubblicani. Persino degli ebrei presenti in città sono venuti a portare libri sacri rinunciando alla loro ridicola attesa del Messia. La massa dei libri portati era così tanta che il fuoco acceso arde ancora alle dieci di questa mattina».190 Nel novembre 1793, la Convenzione promulgò un decreto che aboliva tutti i culti. Per la prima volta nella storia della chiesa, è proclamata la fine della religione cristiana: «La ragione ha riportato una grande vittoria sul fanatismo; una religione di errori e di sangue è stata annientata; dopo diciotto secoli essa non ha causato che dei mali per la terra e nonostante questo è stata chiamata divina! I vespri siciliani, il massacro di San Bartolomeo, le Crociate, i Valdesi, ecco le sue opere, ecco i suoi trofei: che essa sparisca dalla faccia della terra».191 La storia ha dei risvolti ironici. La chiesa che ha soffocato la testimonianza delle Scritture, ha prodotto per reazione la Rivoluzione francese che ha bruciato le Scritture. La chiesa ha negletto la rivelazione che viene dall’alto, ha perseguitato e di fatto generato il suo proprio distruttore che in un attimo ne ha carpito l’anima; la Parola di Dio è stata rigettata. La cronaca profetica degli avvenimenti contiene una lezione spirituale spesso ripetuta dall’Apocalisse: l’iniquità genera spesso il suo proprio giudizio. Ma l’Apocalisse guarda ancora più lontano. A questo giudizio immanente si unisce un giudizio dall’alto il cui effetto è duplice. Da una parte un terremoto scuote «la città» (11:13), un luogo già definito come «la grande città», cioè Babilonia. Il potere, l’usurpatore riceve un terribile colpo. Siamo nel 1798, nel momento in cui la chiesa, attaccata da

190 191

Le Moniteur, I trim., anno II. Le Moniteur, 14 novembre 1793.

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due lati, vede il suo capo politico e spirituale, il papa, messo in prigione. Pertanto, la vitalità della chiesa non è per questo diminuita. Secondo la profezia, solo «la decima parte della città crollò e settemila persone furono uccise» (11:13). Queste due misure hanno un significato ben preciso nella tradizione biblica. La decima simboleggia una grandezza minima;192 questo significa che il colpo è inferto su una piccola parte della città. Le «settemila persone», nella memoria biblica, sono associate all’idea di «resto»;193 ciò significa che questo potere politico e religioso si rimetterà molto presto da simile aggressione, perché il colpo ricevuto non è stato mortale. D’altra parte, il popolo di Dio e i testimoni ritornano in vita. L’avvenimento è riferito in un linguaggio che evoca il miracolo della risurrezione. Dopo l’allusione alla crocifissione di Gesù, il testo allude alla sua risurrezione. L’idea è già presente nei «tre giorni e mezzo»194 che ricordano la durata del soggiorno di Gesù nella tomba prima della sua risurrezione (cfr. Mc 9:31; Gv 2:19-22). «... uno spirito di vita procedente da Dio entrò in loro; essi si alzarono in piedi» (Ap 11:11). È anche il messaggio contenuto nel meccanismo di questa restaurazione che ricorda il miracolo della risurrezione descritto in Ezechiele 37:5,9,10. Nello stesso tempo, il seguito degli avvenimenti evoca l’ascensione di Gesù dopo la sua risurrezione: «Essi salirono al cielo in una nube» (v. 12; cfr. At 1:9). In effetti, a partire dagli anni 1797-98, nel momento in cui la chiesa è colpita e tre anni e mezzo dopo la proclamazione della morte della religione cristiana, per la prima volta viene indirizzato un appello alla tolleranza e alla libertà di tutti i culti. Lo scrittore e uomo politico Camille Jordan fu uno dei primi

192

Cfr. Isaia 6:13; Levitico 27:30; Le soupir de la terre, n. 486, pp. 148,299. 1 Re 19:18; 20:15. 194 Secondo le credenze dell’epoca, il processo di decomposizione non cominciava che dopo tre giorni. Allora soltanto il defunto era ufficialmente morto. Parlare di risurrezione dopo tre giorni, equivaleva a sostenere la realtà di un miracolo. Al di là dell’esempio di Gesù, questa lezione si ritrova altrove, nelle Scritture. Lazzaro non risuscita se non il quarto giorno (Gv 11:17,39). Giona esce dal pesce dopo tre giorni, un tempo che egli identifica con il soggiorno dei morti (Gio 2:3; Os 6:1,2). 193

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ideologi della Restaurazione; egli scrisse nel maggio 1797 al consiglio dei Cinquecento: «La fede in Dio è una garanzia di ordine e di stabilità per lo stato, cosa che nemmeno le migliori leggi sono capaci di fare. Che tutti i nostri concittadini siano dunque oggi pienamente rassicurati: che tutti, cattolici, protestanti, credenti e non credenti, sappiano che è la volontà del legislatore, come l’auspicio della legge, che essi seguano in tutta libertà la religione che il loro cuore ha scelto. Io rinnovo loro, a nome vostro, la sacra promessa che tutti i culti saranno liberi in Francia».195 Per la comunità ebraica, è chiaro che la Rivoluzione francese e il suo erede Napoleone, hanno inaugurato una nuova era. Ovunque arrivavano gli eserciti francesi, cadevano i muri dei ghetti e gli ebrei liberati diventano cittadini con pari diritti. In Spagna l’Inquisizione è immediatamente soppressa e i «marranos» possono per la prima volta proclamare la loro fede ebraica, per lungo tempo mantenuta segreta.196 Da quel momento inizia un movimento di ritorno alle Scritture. Dopo appena un anno dalla frase di Voltaire che prediceva la sparizione della Bibbia votandola a una sorta di «calendario dell’anno scorso», il testo sacro ritrovava un posto preponderante nella cultura e nei cuori. I due testimoni sono rimessi in piedi al momento dovuto, esattamente tre giorni profetici e mezzo, tre anni e mezzo dopo la loro morte. I testimoni sono risuscitati e ancora oggi sono vivi e vegeti. La Bibbia è diventata il più grande best-seller di tutti i tempi. Quanto a Israele e alla chiesa, essi sono sopravvissuti più dinamici che mai. Israele all’olocausto e la chiesa alle ideologie atee. L’ira di Dio Il settimo schofar annuncia il «terzo guaio» (11:14) che colpirà durante gli ultimi momenti della storia umana. L’avvenimento è descritto come un tempo della fine. Nel corso della visione precedente, il settimo schofar è atteso come la realizzazione del

195

J. Vuilleumier, L’Apocalypse, Dammarie-lès-Lys, 1941, p. 177. A. Chouraqui, Histoire du Judaïsme, Paris, 1963; A.L. Sachar, Histoire des Juifs, Paris, 1973, p. 324.

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«mistero di Dio» (10:7). L’espressione è familiare nel linguaggio biblico-apocalittico;197 essa si applica al senso nascosto della storia. Paolo la utilizza per descrivere l’atto finale dell’azione di Dio nella storia.198 Poiché è solo alla fine dei tempi che il mistero sarà svelato, al compimento della profezia in questione. Il settimo schofar fa dunque da specchio al sesto sigillo. Entrambi si rapportano agli stessi avvenimenti esprimendosi nei medesimi termini: questo è il tempo dell’ira di Dio e del giudizio delle nazioni (cfr. 11:18; 6:15-17). I due passi hanno una prospettiva, comunque diversa. Il sesto sigillo illumina uno scenario terrestre, mentre il settimo schofar si apre a una prospettiva celeste. Nel sesto sigillo, la visione parte dalla terra e progredisce verso l’avvenire, per culminare nel cielo, dove Dio regna sul suo trono. Nel settimo schofar, la visione parte dal cielo per finire sulla terra, un processo logico tipico del pensiero ebraico.199 La visione presenta tre fasi. La prima concerne il momento in cui delle voci tonanti gridano che tutto è compiuto. «Il regno del mondo è passato al nostro Signore e al suo Cristo ed egli regnerà nei secoli dei secoli» (11:15). Un raffronto con il capitolo 4 rivela un certo numero di temi comuni. È la stessa cerimonia di adorazione e sono gli stessi attori. Anche in questo passo abbiamo «ventiquattro anziani che siedono sui loro troni (11:16; cfr. 4:4); anche qui, Dio è invocato con lo stesso titolo: «Dio onnipotente, che sei e che eri» (11:17; cfr. 4:8). Solo la menzione del «Dio che viene» di Apocalisse 4:8, è assente in Apocalisse 11:17. La sola spiegazione per questa omissione è che la parusia è già avvenuta, in quel momento. Inoltre, nella liturgia di Apocalisse 4, l’intervento dei ventiquattro anziani è preceduta dal Sanctus pronunciato dalle quattro creature viventi. Come abbiamo già presentato, esse sono un richiamo al tema della creazione. Quello è il momento in cui tutta la creazione riconoscerà in Dio il proprio re. È il fine ultimo di tutto il piano di Dio. Dio regna effettivamente e per sempre. I ventiquattro anziani passano dall’adorazione all’evocazio-

197

Apocalisse 1:20; 17:5-7; Daniele 2:22. Romani 16:25,26; cfr. Colossesi 1:25,26. 199 Cfr. Le soupir de la terre, p. 219. 198

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ne dell’evento che ha portato a questo momento finale, cioè il giudizio, scomposto in questo caso, in due successive operazioni (14:14-20): a. Il giudizio dei morti che significa «la distruzione» dei malvagi, «le nazioni adirate» che «distruggono la terra» (11:18). La profezia riporta a una visione ulteriore dell’Apocalisse (20:1215), che colloca questo avvenimento dopo i mille anni. Nei due testi si parla, difatti, di giudizio dei morti utilizzando lo stesso linguaggio «grandi e piccoli». «E vidi i morti, grandi e piccoli, in piedi davanti al trono. I libri furono aperti, e fu aperto anche un altro libro che è il libro della vita; e i morti furono giudicati dalle cose scritte nei libri, secondo le opere loro» (20:12). b. Il giudizio dei «santi» che porta alla loro ricompensa (11:18). La visione fa qui allusione al momento della parusia, quando Gesù Cristo verrà a prendere i suoi, un avvenimento che precede i mille anni. Anche qui, la visione rimanda a un passo ulteriore sulla base di temi comuni: «Ecco, io sto per venire e con me avrò la ricompensa da dare a ciascuno secondo le sue opere» (22:12). In effetti, i due giudizi sono dipendenti l’uno dall’altro: nel distruggere «coloro che distruggono la terra», Dio salva la terra. Qui non si parla strettamente di ecologia. Bisogna comprendere questo riferimento in senso spirituale. Nell’Apocalisse e soprattutto nei testi paralleli, nell’ottica del sesto sigillo, la terra rappresenta gli esseri umani minacciati dal nemico (7:3); nel quinto schofar, «l’erba della terra», «la verdura», «gli alberi», rappresentano coloro che sono segnati con il sigillo di Dio (9:4). La distruzione della terra di cui si parla riguarda essenzialmente il campo religioso e spirituale. Le nazioni sono «adirate» contro Dio, per questo distruggono la terra. Questo strano rapporto è suggerito a partire dall’aggettivo che le qualifica. La parola «adirate» è presa in prestito dal Salmo 2, dove viene descritto il carattere del Messia che viene a prendere possesso del suo regno (v. 5). Ma, al posto del Messia del salmo, troviamo le nazioni con la loro rabbia. Esse si comportano come se fossero le proprietarie legittime della terra e la collera che dovrebbe essere di Dio, ecco che diviene la loro. Ancora, siamo di fronte a questa mentalità usurpatrice di Dio che porta alla persecuzione di altri uomini. A causa del loro rigetto di Dio in 122

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qualità di Signore della terra, avendone preso il posto, esse si sono trasformate in forze persecutrici. Di nuovo lo stesso meccanismo d’intolleranza e oppressione religiosa. Questi uomini uccidono i loro fratelli perché hanno perso il senso del Padre celeste, al di sopra di loro. Il parricidio conduce fatalmente al fratricidio. Il rigetto del Dio assoluto e trascendente conduce inevitabilmente alla crociate, all’Inquisizione, al fascismo integralista e nazionalista. Ecco perché il giudizio di Dio contro le nazioni diventa un giudizio salvifico per la terra. Lo sguardo profetico del settimo schofar è posto indietro nel tempo. Partito dall’instaurazione definitiva del regno di Dio, prosegue con il castigo delle nazioni e si conclude con l’evento che aveva innescato tutto il processo: la venuta di Gesù Cristo.

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Quando il cielo rosseggia

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Quest’ultima visione del «Dio che viene» ci porta al centro dell’Apocalisse, la quale fa eco alla prima visione del libro (1:1-8). Come nel libro di Daniele, la struttura dell’Apocalisse concentra la visione centrale, sul tempo della fine e del giudizio (cap. 7).200 Dopo la lunga serie di tempeste che hanno imperversato sul corso della storia della chiesa, le nuvole minacciose, ora, si colorano di speranza (Mt 16:2). Il dragone sulla terra attacca la donna (primo segno, Ap 12), nel farlo chiede aiuto alle forze del mare e della terra (secondo e terzo segno, cap. 13. In un cielo pieno di attesa (interludio 14:1-5) tre angeli gridano agli ultimi uomini della storia, il messaggio di speranza (quarto, quinto e sesto segno, 14:6-13). In effetti, alla fine di questo triplice grido, il cielo è finalmente riempito della presenza di Dio che viene (settimo segno, 14:14-20). Preludio sull’arca Prima di entrare nella nuova serie dei sette, come sempre a questo punto, la visione ci porta nello spazio del santuario: «Allora si aprì il tempio di Dio che è in cielo...» (11:19). Kippur L’attenzione, ora, volge sull’arca dell’alleanza nel luogo santissimo. Ci troviamo durante la festa dell’espiazione (o Kippur, in ebraico), il solo giorno dell’anno nel quale il luogo santissimo è aperto al sacerdote. Si tratta ancora di una festa ebraica che diventa il preludio di un nuovo ciclo di sette segni. L’evocazione del Kippur giunge a proposito, proprio alla fine della festa degli schofar (Lv 23:26-32), alla fine dei dieci giorni di preparazione (il 10 di Tishri, il settimo mese). La festa degli schofar era carica del messaggio del giudizio d Dio che la chiesa doveva ricevere a partire dalla morte e dalla risurrezione di Cristo. Nello stesso modo, la festa delle espiazioni è, ora, piena del messaggio della venuta del giudizio di Dio sulla chiesa alla fine dei tempi. E, non è per caso che l’arca occupi tutto lo spazio della visione. Essa svolge un ruolo centrale durante la festa delle espiazioni.

200

Cfr. Le soupir de la terre, pp. 15,141.

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Sull’arca dell’alleanza veniva asperso il sangue dei sacrifici (cfr. Lv 16:13-15). Ora, questo oggetto posto in fondo al luogo santissimo, sul quale erano chinati i due cherubini in oro battuto (cfr. Es 37:7-9), rappresenta, nello spirito ebraico, il trono di Dio nei cieli201 e la presenza di YHWH (Nm 10:35,36). Portare il sangue sull’arca equivaleva a un giudizio divino, perché presupponeva che un animale fosse morto per il peccato; nello stesso tempo indicava la grazia di Dio, perché il sangue sull’arca indicava che Dio stesso si era caricato del peccato perdonato. La vita, dunque, poteva riprendere su di un nuovo cammino. La grazia va di pari passo con la giustizia. La grazia del perdono non si riceve se non nella misura in cui la giustizia della legge viene soddisfatta. La giustizia e la grazia si trovano compiute nel simbolo dell’arca dell’alleanza. È significativo il fatto che l’arca contenga, con la legge, la verga di Aronne che era fiorita, con dei campioni di manna.202 Da una parte, la legge manifestava l’esigenza della giustizia; è sulla base di essa che la sentenza verrà pronunciata. D’altra parte, la verga fiorita di Aronne e la manna caduta nel deserto erano segni della grazia d Dio che crea dal nulla. La verità di questa complementarietà è stata tramandata dalla mistica ebraica, la quale ha visto nei cherubini chini sull’arca l’espressione di due attributi fondamentali di Dio: la giustizia e la misericordia. Il fatto che il sangue di Gesù Cristo sia stato necessario per conseguire il perdono, attesta la giustizia di Dio. Che Gesù abbia acconsentito a subire il martirio dichiara l’amore di Dio per l’uomo. Ma, nonostante questo atto inaudito, consumato sulla croce, si rende necessario un giudizio capillare di Dio, cosa che sottolinea l’esigenza della giustizia di Dio, in merito alla realizzazione della salvezza. Tutto il messaggio è concentrato su questa visione che apre la seconda parte dell’Apocalisse (11:19). Al cielo aperto che mostra l’arca dell’alleanza e proclama il perdono di Dio, si aggiungono «lampi e voci e tuoni e un terremoto e una forte grandinata», messaggio dolce e amaro per un giudizio nutrito di speranza, per i goyim, gli abitanti della terra.

201 202

Isaia 6:1-3; Ezechiele 1:4-28. Ebrei 9:4; Esodo 16:33,34; Numeri 19:10; Deuteronomio 10:5.

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La donna Su questo retroterra di speranza e di giudizio prende vita una nuova visione dell’Apocalisse. In quello stesso cielo, dove lo sguardo profetico si sofferma sull’arca dell’alleanza, nasce una donna bellissima, incoronata da dodici stelle e risplendente della luce del sole e della luna. La visione non ha niente del sogno meraviglioso, il cui senso si perde nelle nebulose dell’inconscio. La sua figura si staglia in modo netto e i suoi simboli sono familiari nella Bibbia. Nella tradizione ebraica, l’immagine della donna scorre su due piani. Per un verso, la donna rappresenta la sposa o la fidanzata di Dio; attraverso questo riferimento si comprende bene la relazione d’amore di Dio per il suo popolo. Il Cantico dei cantici, i profeti Isaia, Geremia, Ezechiele, Osea, Amos, testimoniano questa immagine, nata già all’inizio della relazione di Dio con Israele. In altri casi, la donna rappresenta la madre. L’immagine si arricchisce, allora, di promesse profetiche. Adamo chiama sua moglie Eva, cioè «madre di tutti i viventi» (Gn 3:20). Per il primo uomo, la donna rappresenta la garanzia di un futuro. Ella è il canale che permetterà al seme umano di fecondare l’umanità. Per l’autore della Genesi, la donna porta il seme che salverà l’umanità (v. 15). È evidente che le due funzioni di moglie e di madre sono in relazione tra loro. Grazie alla relazione coniugale, la sposa diventa madre. Nel testo dell’Apocalisse, la visione della donna ricorda il sogno di Giuseppe (cfr. 37:9-11). Il sole, la luna e le stelle compaiono quale simbolo della famiglia d’Israele: Giacobbe, Rachele e i suoi dodici figli. Associata a quegli astri, la donna rappresenta, dunque, Israele, il popolo di Dio. 129

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Inoltre, il profeta vede la donna in preda alle doglie; nella simbologia ebraica è una chiara allusione alla speranza messianica.203 Perché, in fondo, i sintomi che caratterizzano Israele «contorto» nello spasimo dell’attesa messianica, sono gli stessi di una donna che sta per partorire. La sua impazienza di veder apparire il neonato, si mescola all’angoscia dell’incertezza e al dolore vivido che scuote tutte le membra. Le promesse ci sono tutte, ma in concreto, ancora niente. Solo la fede immagina attraverso lo spessore del silenzio, la vita segreta del seme che cresce, nelle profondità della madre. Tutto questo è nascosto nell’immagine della donna che soffre, nell’attesa. Il diavolo Di fronte alla speranza che promette l’irruzione di Dio nella storia, il profeta vede l’antisperanza personificata dal dragone. Anche qui, la visione è piena di riferimenti simbolici propri dell’Antico Testamento. Già dalle prime pagine della Genesi, il serpente incarna la potenza del male (cap. 3). È lui che seduce e trascina i primi uomini nella disubbidienza e nella morte. In seguito, sarà ancora il serpente che verrà utilizzato dai profeti per illustrare la potenza orgogliosa e malefica del faraone d’Egitto.204 Il testo apocalittico si colloca nella linea di questa tradizione. Qualche versetto più lontano, il dragone è esplicitamente identificato come «il serpente antico, che è chiamato diavolo e Satana» (Ap 12:9). Troppo sbrigativamente, il personaggio del diavolo è stato ridotto a un mito buono per essere sbattuto in soffitta come le cose inutili, invecchiate, come una credenza ingenua valida solo per i nostri antenati. Non si è capito abbastanza il valore di questa nozione che si è cercato di eliminare dalla religione. Notava ironicamente Baudelaire: «Cari fratelli non dimenticate mai, quando udirete vantare il progresso dell’Illuminismo, che la più straordinaria astuzia del diavolo è quella di convincervi che non esiste».205

203

Isaia 13:8; Osea 13:13. Isaia 51:9; 32:2. 205 C. Baudelaire, Le spleen de Paris, Oeuvres complètes, Bibliothèque de la Pléiade, Paris, 1961, p. 276. 204

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Lo sguardo lucido del profeta dell’Apocalisse perfora la realtà svelandola per quella che è. Il diavolo è identificato come «il seduttore di tutto il mondo» (12:9), cioè come colui di cui non si riconosce immediatamente la presenza e la potenza malefica. La figura del diavolo, così come è evocata, non ha niente a che vedere con il mostro dalle corna e zoccoli da caprone. Egli è qualcuno che si nasconde e si traveste dietro le azioni più clamorose, le motivazioni più nobili e le cause più sacre. Il diavolo è qualcuno che ci trascina al male dandoci l’illusione di andare verso il bene. Il racconto della creazione ci svela questo metodo fin dal suo esordio. Il serpente fece credere alla donna che disubbidire a Dio fosse una virtù (cfr. Gn 3:5). Il diavolo si nasconde anche in quelle idee che lo rimettono in questione per ridurlo a un semplice principio di ordine psicologico. Per l’Apocalisse, invece, il diavolo esiste ed è proprio una persona. Egli agisce all’interno della storia umana. La descrizione della bestia straordinaria che lo rappresenta supera, comunque, quella del serpente. Con le sue dieci corna, essa richiama la quarta bestia di Daniele 7. Il numero delle teste (sette) è sacro e traduce il carattere soprannaturale di questo dragone-serpente. Qui viene rappresentato il male assoluto e soprannaturale. Il colore rosso del fuoco aggiunge al quadro generale una connotazione di crudeltà e di violenza. Tanto la donna sul punto di partorire appariva vulnerabile, tanto il dragone rosso, con le sue sette teste e le sue dieci corna, trasuda minaccia. Da questo momento in poi, la storia del dragone-serpente si riduce a una serie di aggressioni contro la donna. Guerra a oltranza Guerra nel cielo Giovanni vede il conflitto iniziare sullo scenario celeste. Il problema del male non è specifico della condizione umana, ma è un problema cosmico. I profeti Isaia ed Ezechiele tracciano lo stesso quadro. Partendo dalla realtà di Tiro e Babilonia, essi evocarono quella stessa guerra primordiale che agitò il cielo e finì nella medesima tragedia: la caduta di un essere celeste che mirava troppo in alto. «Eri un cherubino dalle ali distese, un protettore. Ti avevo stabilito, tu stavi sul monte santo di Dio, 131

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camminavi in mezzo a pietre di fuoco. Tu fosti perfetto nelle tue vie dal giorno che fosti creato, finché non si trovò in te la perversità… Il tuo cuore si è insuperbito per la tua bellezza; tu hai corrotto la tua saggezza a causa del tuo splendore; io ti getto a terra... ti riduco in cenere sulla terra...» (Ez 28:14-18, cfr. Is 14:13-15). Secondo il racconto dell’Apocalisse, questa guerra celeste scoppiò bruscamente. L’avvenimento è qui descritto senza l’apporto di alcuna ragione, privo di premesse razionali. La perversità è stata trovata in te, commenta Ezechiele (28:15). L’avvento del male è irrazionale. Il mistero di questa assurdità che ci colpisce tutti è spiegato in questo modo: la terra è occupata da Satana e dai suoi alleati. Essi sono stati precipitati giù dal cielo, espulsi dalla presenza di Dio, confusi al nulla e alle tenebre che precedevano la creazione. Il fatto che Dio abbia scelto questo punto preciso per attirare l’attenzione dell’umanità, può stupire se non addirittura creare sospetti. In realtà, questa strana dichiarazione contiene una lezione di ampia portata. Dio lancia una sorta di sfida all’universo e alla storia. Siamo di fronte a un paradosso. Il piano della salvezza si svolge e si realizza proprio su quel terreno tenebroso e caotico, nel quale Dio è negato e combattuto. Proprio la terra, diventata il rifugio di Satana, diventerà l’epicentro dell’azione salvifica di Dio. Guerra sulla terra Giunto sulla terra, il diavolo attacca la donna. Ella è il primo oggetto della sua opera seduttrice (Gn 3:1). Anche in seguito è su di lei che continuerà ad accanirsi. Attraverso la donna il seme della salvezza sarà, infatti, salvaguardato e veicolato. Questa verità scaturisce dalle prime pagine della Bibbia. Dopo la triste esperienza di Abele, Eva riceve Set, come un seme «collocato» da Dio per far partire quella progenie dalla quale sarebbe venuto il Salvatore dell’umanità. Il nome di Set suggerisce questa presenza di Dio nel tessuto della storia; significa «Dio ha posto» (4:25). Il testo ebraico gioca sulle parole. Il nome Set evoca il verbo che aveva introdotto, qualche versetto prima, la prima profezia della Bibbia: «Io porrò inimicizia fra te e la donna, e fra la tua progenie e la progenie di lei; questa progenie ti schiaccerà il capo e tu le ferirai il calcagno» (v. 15). I temi 132

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comuni della donna, del serpente, del parto e del conflitto mostrano che il nostro testo apocalittico si riferisce a questa profezia. All’orizzonte dei due testi si profila la stessa visione di speranza. I due testi predicono la vittoria sul serpente grazie a colui che nascerà dalla donna. Oltre a Eva, «la madre di tutti i viventi», la profezia si applica a Israele, la donna dell’alleanza, dalla quale uscirà «un figlio maschio il quale deve reggere tutte le nazioni» (Ap 12:5). Si intuisce dietro queste parole un’allusione al Salmo 2:9 che evoca la venuta del Figlio di Dio (v. 7) re di tutta la terra. Secondo il testo dell’Apocalisse, il parto conduce al regno di Dio. Il bambino è posto sul trono. «Ella partorì un figlio maschio, il quale deve reggere tutte le nazioni con una verga di ferro; e il figlio di lei fu rapito vicino a Dio e al suo trono» (Ap 12:5). In seguito, il profeta scomporrà il meccanismo di questa vittoria che porta al regno di Dio. «Allora udii una gran voce nel cielo, che diceva: “Ora è venuta la salvezza e la potenza, il regno del nostro Dio, e il potere del suo Cristo, perché è stato gettato giù l’accusatore dei nostri fratelli, colui che giorno e notte li accusava davanti al nostro Dio. Ma essi lo hanno vinto per mezzo del sangue dell’Agnello, e con la parola della loro testimonianza; e non hanno amato la loro vita, anzi l’hanno esposta alla morte...”» (vv. 10,11). La morte del serpente passa necessariamente dalla morte del bambino. È un vero sacrificio. L’Apocalisse parla «del sangue dell’Agnello» (v. 11). Genesi 3:15 utilizza lo stesso schema. La morte del serpente, lo schiacciamento della sua testa, passa dalla morte di colui che deve nascere dalla donna.206 L’immagine della profezia suggerisce un’azione simultanea. Schiacciando la testa al serpente egli è ferito al tallone. Il testo

206

L’interpretazione, che consiste nel vedere nella posterità della donna un’immagine del Messia personale, è molto antica. Essa è attestata già a partire dal II secolo a.C. nella Settanta che traduce la parola «posterità» (seme) con il pronome personale maschile singolare (autos), invece del neutro (auton), che si sarebbe applicato al seme. Questa lettura messianica si ritrova anche nella tradizione giudaica (cfr. J. Doukhan, Boire aux sources, pp. 66,67), come in quella cristiana (cfr. Rm 16:20; Eb 2:14, Padri della Chiesa come Ireneo).

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ebraico rafforza questa impressione di simultaneità, con un gioco di parole. Lo schiacciamento della testa e il morso al tallone sono resi dalla stessa parola shuf. Per il profeta dell’Apocalisse, la vittoria di Gesù Cristo e la sua intronizzazione passano dalla propria morte. Grazie al sacrificio della sua vita, egli neutralizzerà le accuse del seduttore. Dio perdona il penitente e il regno viene confermato. Comunque sia, il regno è ancora una realtà futura. La gioia esplode nel cielo (12:12). Sulla terra ancora, imperversa il male. Guerra nel deserto L’avvento del Messia, la sua morte e la sua risurrezione, la sua vittoria sul male non hanno cambiato molto la faccia della terra. Il serpente rimane al suo posto. La morte, la sofferenza e il male colpiscono sempre e dovunque. Il regno di Dio non è ancora venuto. Il popolo di Dio è sempre in attesa. In un certo senso, l’Apocalisse assimila la chiesa di Dio all’Israele dell’esodo. Come gli Israeliti, la chiesa si trova nel deserto ed è nutrita da Dio (12:6,14). Le ali d’aquila (cfr. Ap 12:14; Es 19:4; Dt 32:11), la terra che ingoia il nemico (cfr. Ap 12:16; Es 15:12) sono le stesse immagini che la Bibbia aveva utilizzato nel passato per descrivere l’uscita dall’Egitto e gli assalti dell’esercito del faraone. Questi numerosi paralleli tra le due avventure portano alla stessa lezione. Come il popolo d’Israele, in marcia verso la terra promessa, così la chiesa, salva dalla schiavitù del peccato, cammina in direzione della nuova Gerusalemme. Anche lì siamo di fronte alle prove. Siamo ancora nella storia. Il popolo di Dio dovrà camminare per milleduecentosessanta giorni (12:6). Questo periodo è ripetuto molte volte nell’Apocalisse, come per sottolinearne il carattere storico. Il periodo è dato in giorni: Apocalisse 11:3 e 12:6 parlano di «milleduecentosessanta giorni». In un altro passo viene dato in mesi: 11:2 e 13:5 parlano di «quarantadue mesi». Infine, è dato in anni: 12:14 (come Daniele 7:25 e 12:7) parla di «un tempo dei tempi e la metà di un tempo» [360 + (360x2) + (360:2) = 1260].207

207

Cfr. Le soupir de la terre, p. 156.

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In effetti, dal 538, data in cui la chiesa ufficiale, sconfitta l’eresia ariana è riconosciuta come un potere supremo, fino al 1798, momento in cui il suo potere crolla sotto i colpi della Rivoluzione francese e dei filosofi, sono passati 1260 anni. La profezia non poteva essere più precisa. Guerra finale Secondo l’Apocalisse, questi milleduecentosessanta giorni/anni portano al tempo della fine; cosa che giustifica l’impazienza e l’irritazione del serpente (12:17). Egli sente che la sua influenza volge al termine. Per questo concentrerà tutti i suoi sforzi contro «quelli che restano della discendenza di lei», il suo ultimo seme. Questo motivo della «discendenza» riporta nuovamente alla profezia di Genesi 3:15. È il momento di farla finita con questa donna che ha resistito ai suoi attacchi. Secondo il serpente, i giusti degli ultimi tempi sono particolarmente pericolosi. L’Apocalisse li descrive come degli irriducibili che «osservano i comandamenti di Dio e custodiscono la testimonianza di Gesù» (12:17). Ciò che li caratterizza è la loro fedeltà: «essi osservano». Il rimanente ha attraversato la storia immune dalle influenze del mondo e non ha alterato l’eredità che gli era stata affidata. Essi se ne ricordano. Sono gli ultimi testimoni di una verità che riunisce tutti i contrari e trascende tutti i partiti, verità della legge e della grazia insieme, della giustizia e dell’amore, del giudizio e della creazione e, potremmo arrivare a dire, dell’Antico Testamento e del Nuovo. In definitiva, testimoni dell’intera verità. Questa verità non vola alta sulle nuvole, non è un’astrazione filosofica. Essa scava il suo cammino nei palpiti caldi dell’esistenza e della storia. Rappresenta un impegno quotidiano misurato secondo i criteri del regno dei cieli: ubbidienza ai comandamenti di Dio. Essa è anche discepolato di colui che si è incarnato proveniente dall’alto: «la testimonianza di Gesù» (12:17). Questo è il ritratto degli ultimi fedeli di Dio, quelli del tempo della fine (14:12). Contro di loro, il dragone radunerà tutte le sue forze. Il serpente si attesta sul terreno, sulla spiaggia (12:18). Egli dimostra con questo gesto la sua duplice influenza e la sua volontà di chiamare a raccolta le forze del mare e quelle della terra. 135

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Capitolo 5

Bestie e uomini

La bestia che sale dal mare Ben presto risponde anche il mare. Dalle sue onde sale una bestia che rassomiglia, in modo stupefacente al dragone. Come lui, è dotata di sette teste e dieci corna; come lui, si pavoneggia delle sue corna (cfr. Ap 13:1). La profezia precisa anche che essa riceve il suo potere dal dragone stesso (v. 4). La sua origine acquatica, ne tradisce la natura malefica. Nella Bibbia e nella letteratura del Medio Oriente antico, il dragone che esce dalle acque rappresenta le forze opposte al Dio creatore.2O8 Le acque simboleggiano anche le nazioni pagane, i goyim che si precipitano all’assalto del popolo di Dio.209 L’origine acquatica di questo animale tradisce ugualmente la sua identità politico-geografica: si tratta di Roma, la cui potenza era percepita, dai popoli mediorientali, come proveniente dal mare. Nelle visioni del quarto libro di Esdra (libro apocrifo scritto nel 97 a.C.), Roma viene rappresentata da un animale che esce dal mare (IV Esdra 11:1; 12:11). Tuttavia, la descrizione di questa bestia oltrepassa i tratti tipici del dragone. Sono, invece, evidenti le caratteristiche degli animali di Daniele 7. Il leopardo, l’orso, il leone (13:2; cfr. Dn 7:2,3), e, soprattutto, il quarto animale dalle dieci corna (13:1; cfr. Dn 7:7). Lo sguardo profetico si concentra più precisamente sull’elemento particolare che conclude la serie degli animali e che caratterizza il quarto animale: parliamo del «piccolo corno». Come lui, questa bestia è provvista di una bocca che proferisce parole arroganti (13:4; cfr. Dn 7:8). Anche questa, pretende

208 209

Isaia 27:1; 43:2; Ezechiele 29:3-5; 31;32; Salmo 69:1,2; 74:12-17; 124:1-5. Isaia 17:12; Geremia 46:6; Apocalisse 17:1,18.210.

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di elevarsi fino a Dio. Essa si fa adorare e assume titoli che sono una prerogativa di Dio. «Chi è simile alla bestia?» (13:4). Questa frase ne richiama una simile: «Chi è come Dio?»; un’espressione riferita al Dio d’Israele (Es 15:11; Sal 35:10), presente nel nome stesso di Michele (dall’ebraico mi-ka-el , «Chi è come Dio?»). Inoltre, come il piccolo corno di Daniele, essa opprimerà il popolo di Dio per quarantadue mesi, alla fine dei quali, il profeta rivelerà che essa sarà «ferita a morte» (Ap 13:3). Questa cronologia emerge dalla struttura stessa del testo, organizzata sul parallelismo: ABC//A’B’C’: Primo paragrafo: A la bestia riceve la sua autorità dal dragone (13:2) B La testa viene ferita (13:3) C La ferita viene sanata, ammirazione del mondo (13:3,4) Secondo paragrafo: A’ La bestia riceve una bocca e un potere (13:5) B’ Durante quarantadue mesi (13:5) C’ Apre la bocca, adorazione del mondo (13:6,7) Questa sequenza suggerisce un rapporto tra B e B’. Nel primo paragrafo, la bestia riceve l’autorità dal dragone (A) fino al momento in cui la sua testa viene ferita (B), dopodiché suscita l’ammirazione del mondo intero (C). Parallelamente, nel secondo paragrafo, la bestia riceve l’autorità dal dragone (A’), durante quarantadue mesi (B’), alla fine dei quali viene adorata dal mondo intero (C’). La ferita della bestia giunge alla fine dei quarantadue mesi. Fin qui, la profezia non fa che riprendere le precedenti rivelazioni. Nel solco delle profezie di Daniele, l’Apocalisse vede una potenza religiosa e usurpatrice dell’autorità divina che si colloca, cronologicamente, dopo il quarto regno, in definitiva: sulle tracce di Roma. Secondo la stessa fonte, il quarto potere istituzionale opprimerà il popolo di Dio per «un tempo, dei tempi e la metà di un tempo» (Dn 7:25), cioè per quarantadue mesi, ossia milleduecentosessanta giorni profetici (uguali ad anni), cosa che aggiunge precisione alla visione della donna. L’elemento nuovo è costituito dal fatto che alla fine di questo 138

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periodo, la bestia sarà ferita, per guarire in seguito. La storia della bestia si conclude con una prospettiva gloriosa: «L’adoreranno tutti gli abitanti della terra» (13:8). Un semplice sguardo alla nostra storia, confermerà questo quadro profetico. I milleduecentosessanta anni che hanno inizio intorno al 538, anno che segna l’intronizzazione della chiesa in quanto potere istituzionale, si compiono nel 1798, tempo caratterizzato dalla ferita di questo potere, perpetrata da Napoleone.210 Dopo quei fatti, il potere papale si riabiliterà presto. Nel XIX secolo assistiamo al rinnovamento della chiesa cattolica. Il primo concilio vaticano (1870) segna l’apice della devozione verso la figura del papa. Dopo i sommovimenti della Rivoluzione francese e delle campagne napoleoniche, il papato è sempre più riconosciuto come un’autorità morale e civile. L’infallibilità papale diventa un’esigenza imprescindibile, al fine di rendere il potere papale effettivo. A metà del secolo questa idea ha molti assertori nel mondo cattolico. Il papa, dal canto suo, l’incoraggerà vivamente. La predicazione gesuitica sosterrà addirittura che, quando il papa medita, Dio stesso pensa dentro di lui. Vengono composti inni alla gloria di Pio IX. Ci si spinge fino a definirlo «Santo Padre», «Vicario di Dio per l’umanità».211 Nell’anno 1870, viene sancito il dogma dell’infallibilità papale. Da quel momento in poi, il prestigio del papato non ha fatto che crescere. Oggi, all’indomani della crisi del comunismo e sull’onda delle tensioni sociali, politiche ed economiche, il papa è sempre di più invocato come l’autorità morale che offre maggiori garanzie. Alla fine del 1994, il periodico americano Time gli dedicherà un numero speciale, definendolo «l’uomo dell’anno».212 Partire dall’attualità, per osare l’identificazione della bestia apocalittica con il papato, significa rischiare l’anacronismo. Questi argomenti non sono più in voga al giorno d’oggi, per noi

210

Cfr. Le soupir de la terre, p. 147. B.L. Shelley, Church History in Plain Language, Waco, 1982, p. 381. 212 Time, 26 dicembre 1994 al 2 gennaio 1995. 211

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che viviamo sotto il cielo clemente dell’ecumenismo, aperto e rispettoso. L’immensa popolarità del papa, eroe mondiale della pace e della morale, sempre al fianco dei diseredati, degli oppressi di tutto il mondo, sembra smentire il verdetto della profezia. Paradossalmente, questi avvenimenti ultimi, danno ragione alla profezia, proprio a partire da quei fatti che sembrano contraddirla. Invece di essere un argomento contro la verità della visione apocalittica, la popolarità del papa confermerebbe il quadro profetico. Anche questo è stato previsto. Dietro questo potere religioso, l’Apocalisse vede radunarsi «ogni tribù, popolo, lingua e nazione» (Ap 13:7). Per la prima volta l’influenza del papato si esercita oltre i confini della chiesa cattolica, dell’Italia, della Francia, «figlia primogenita della chiesa». Ma, la pertinenza della parola profetica non giustificherebbe uno sguardo accusatore rivolto verso la cattolicità. L’intenzione della parola profetica non è quella di spingere al disprezzo dell’altro, orgogliosamente attestati su di un piedistallo. Al contrario, si vuole illuminare il senso della storia, affinché si sappia che esiste un Dio che opera dall’alto, per fortificare la fede e nutrire la speranza. Questa ultima lezione si desume dalla parte finale del verso che dice: «Qui sta la costanza e la fede dei santi» (v. 10). La bestia che sale dalla terra Appena dopo la guarigione della bestia, nel momento in cui tutti i popoli adorano lei, il profeta dell’Apocalisse vede sorgere una nuova bestia; ma questa volta, essa sorge dalla terra. Il profeta non si è mosso. La scena si svolge nello stesso ambito. La seconda bestia si colloca vicino alla prima, come per mostrarle solidarietà e sostegno. La sua natura è subito svelata: parla come un dragone (v. 11). Essa si affianca alla bestia che aveva ricevuto autorità dal dragone (v. 4); un’autorità che le viene a sua volta trasmessa: «Essa esercitava tutto il potere della prima bestia, in sua presenza» (v. 12). In un secondo momento, essa s’impegnerà a far sì «che tutti gli abitanti della terra adorassero la prima bestia» (v. 12). Essa sedurrà attraverso molti prodigi (vv. 13,14). Si lancerà, poi, in una campagna pubblicitaria nella quale innalzerà una grande 140

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statua, replica della bestia (v. 14). Giungerà ad animare questa statua e a farla parlare, come una marionetta di cui si tirano i fili. Verrebbe quasi da sorridere, se il processo non desse luogo alla minaccia e alla violenza. Il testo apocalittico ricorda la disavventura occorsa a Daniele (cap. 3). Nabucodonosor eresse anche lui una statua, copia di quella che aveva visto in sogno (cap. 2)213 e ordinò a «ogni popolo, nazione e lingua» (3:4), a «tutti i popoli» (v. 7) di adorarla, pena l’essere gettati in una fornace ardente (v. 6). Lo stesso progetto anima la bestia che sale dalla terra: essa fece in modo che tutti coloro che non adoreranno l’immagine della bestia saranno uccisi (Ap. 13:15). Nell’Apocalisse, l’adorazione si manifesta con il fatto che i soggetti ricevono «un marchio sulla mano destra o sulla fronte» v. 16). Questa associazione s’ispira al libro del Deuteronomio, dove la fedeltà alla legge di Dio viene così espressa: «Te li legherai alla mano come un segno, te li metterai sulla fronte in mezzo agli occhi» (6:8; cfr. Es 13:9). Le intenzioni del potere rappresentato da una bestia che sale dalla terra, risultano chiare: fare in modo che tutti gli esseri umani si sottomettano alla legge della bestia del mare, seguendo lo stesso processo seguito dagli israeliti, quando si sottomisero alla legge di Dio, assumendola «sulla fronte e sulla mano», cioè nel pensiero e nelle azioni; insomma totalmente. Grazie alla politica attuata dalla bestia che sale dalla terra, quella che sale dal mare viene confermata e sostenuta nella sua ambizione. È l’antica presunzione il cui emblema è Babele: prendere il posto di Dio, conquistare la vita e i cuori degli uomini. Il «marchio della bestia», significa molto di più che un segno visibile sulla fronte e sulla mano; il marchio incide in profondità, nel modo di pensare; per continuare nell’esistenza, negli atti concreti. A tutti i livelli, il marchio è il segno dell’usurpazione dell’autorità di Dio. Il nome di questa bestia tradisce la natura della sua vocazione: 666. L’Apocalisse spiega che si tratta di «un numero d’uomo» (13:18). Nella tradizione biblica, il numero 6 si collega

213

Cfr. Le soupir de la terre, p. 61.

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all’umanità. L’uomo, creato il sesto giorno, non è ancora entrato in relazione spirituale e religiosa con il suo Dio, egli è ancora senza Dio. Il numero 6 simboleggia l’orgoglio umano che fa a meno di Dio. Troviamo ancora, il numero 6 nella costruzione della statua di Nabucodonosor, in Daniele, alla quale, il testo apocalittico fa allusione (Dn 3:1).214 Ora, l’obiettivo della statua era assicurare l’unità dal basso, per rimpiazzare il regno che viene dall’alto. Il numero 6 è ripetuto tre volte, l’intenzione di usurpare la dignità divina, risulta rafforzata. Il tre è infatti il numero di Dio. Ripetere tre volte il numero 6 equivale ad elevare l’uomo al livello del Dio «tre volte santo» (cfr. Is 6:3; Ap 4:8). Nell’attribuire al potere in questione il numero 666, l’Apocalisse, ironicamente, ne svela la natura. Dietro questa maschera divina, si nasconde un’istituzione umana, troppo umana. Questa chiesa non ha niente a che fare con Dio. Tutto è politico; la storia lo dimostra chiaramente. Dopo Costantino e Clodoveo, la chiesa si è affermata con la forza del potere politico. Nulla di strano se in questo momento cruciale della sua storia, quando essa si radica fortemente nella storia dell’uomo, ancora una volta non è Dio a ispirarla e a sostenerla. È davvero un potere che proviene dal basso, quello che il profeta contempla, sottoforma di una bestia che sale dalla terra. Un certo numero d’indizi ci permettono di identificare quest’ultimo potere. La sua natura: questo potere è diverso da quello della bestia che sale dal mare. Non è un potere religioso. L’adorazione non è indirizzata verso di lui (13:12,15). Al contrario, si definisce come un potere economico che influenza il «comprare e il vendere» (v. 17), e un potere politico; infatti può amministrare la pena di morte (v. 15). La sua epoca: l’apparizione di questo potere segue cronologicamente, la venuta della prima bestia e la sua azione si esercita dopo che la sua ferita è stata guarita (v. 12). Questo potere comincia la sua storia alla fine del XVIII secolo. Il suo luogo d’origine: al contrario della bestia precedente che esce dal mare, quest’ultima proviene dalla terra. Questa

214

Cfr. Le soupir de la terre, pp. 63,64.

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origine diversa è assai significativa per l’ebreo dell’epoca. Mentre il mare rappresenta la minaccia, il nemico, la terra appare, invece, come un’entità familiare che ispira fiducia. La parola ebraica haaretz (terra) designa il paese, la patria, la casa.215 Proveniente dalla terra, essa si presenta come un alleato rassicurante. Alcuni versi prima, del resto, la terra veniva evocata come un’entità che soccorreva la donna (12:16). Il suo carattere: l’aspetto stesso della bestia, conferma questa impressione. Con le sue due piccole corna, essa è simile a un agnello (13:11) e ispira fiducia. La bestia precedente, con le sue dieci corna e le sembianze di una belva, appariva come impura e terrificante. Questo nuovo animale fa parte dell’universo familiare israelita. Inoltre, a Giovanni, ricorda il dolce Salvatore Gesù Cristo, nell’atto di camminare in mezzo al popolo redento di Dio (14:1). Nonostante queste premesse, non bisogna fraintendere. L’agnello parla come un dragone (13:11). L’associazione di questi due caratteri opposti è davvero sorprendente. Inoffensivo e familiare, l’agnello ruggisce esattamente come il dragone. Tutti questi indizi convergono per formare un ritratto che riguarda un potere che non crederemmo mai di dover incontrare, a questo punto del nostro studio. Parliamo di una superpotenza politica ed economica, nata verso la fine del XVIII secolo, terra promessa per i cristiani evangelici, per i protestanti perseguitati dalla chiesa cattolica, gli Stati Uniti d’America, appaiono, ora, sulla scena internazionale, come un dragone con testa d’agnello. L’ambiguità del personaggio si manifesta tanto sul piano politico che psicologico. L’ingenuità idealista americana si confonde con la sua potenza politica, militare ed economica. Ma, spesso, le parole ruggenti del dragone americano, sorprendono perché proferite dal suo volto d’agnello. La storia che si svolge sotto i nostri occhi, da alcuni anni mostra come l’Apocalisse ha visto giusto. Secondo la testimonianza profetica, questa potenza si manifesta su due livelli. Essa

215

Genesi 11:31; 12:1, 5-7; Levitico 14:34; Deuteronomio 18:9; 2 Re 5:2; cfr. Matteo 2:20,21; Efesini 6:3.

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agisce sugli abitanti della terra come sull’altra bestia apocalittica. Da una parte, essa affascina gli abitanti della terra con i suoi prodigi, per la sua capacità di far «piovere il fuoco dal cielo». Per l’ebreo Giovanni, nutrito delle storie dell’Antico Testamento, questa immagine ricorda la potenza di Elia (1 Re 18:17-39). Nell’Apocalisse, essa caratterizza l’azione dei due testimoni (11:5). La bestia della terra realizza una sorta di contraffazione dei miracoli soprannaturali d’origine divina. Oltre alle azioni straordinarie nel campo militare o diplomatico, la cultura di Hollywood, nutre le menti del mondo intero con lo spirito superottimistico americano, salvatore del mondo. Il paranormale, d’altra parte, invade la vita quotidiana americana e mondiale, dominando i media. L’impatto dell’influenza americana si fa sentire dappertutto. Il dollaro è diventato il metro per misurare tutte le monete. La Cnn si riceve nella maggior parte dei paesi del mondo. La musica rock, i jeans, la Coca-Cola sono diventati i segni distintivi della gioventù mondiale, moderna, liberata, cosmopolita. Non c’è bisogno di molte parole per dimostrare il fatto che la cultura americana ha conquistato la maggior parte dei popoli. Per altri versi, gli Stati Uniti giocano un ruolo determinante nel successo dell’altra bestia. La storia recente e persino la cronaca, mostrano al mondo intero che il Vaticano e gli Stati Uniti si sono intesi a più riprese per le svolte di portata storica. Pensiamo alla caduta del comunismo. I primi sintomi della storia annunciata dalla profezia cominciano a evidenziarsi sulla scena internazionale. Quello che oggi, è meno riconoscibile, è il carattere totalitario di questo sistema che obbliga tutti gli esseri umani a segnarsi con il nome della bestia che sale dal mare. La profezia ci dice che nessuno potrà intraprendere qualsiasi attività sociale, senza prima dimostrare la sua adesione al sistema. L’identità d’ognuno dovrà essere forgiata sul numero 666. Se la profezia è vera, la culla della tolleranza e della democrazia, gli Stati Uniti, diventeranno l’ultimo bastione dell’intolleranza religiosa; il luogo stesso dove, secondo l’espressione dell’Apocalisse, verrà formato il «marchio della bestia». In che modo questo marchio si manifesterà, il testo non lo dice espressamente. Ci si limita a dire che l’autorità di Dio verrà soppiantata, nello spirito come 144

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nelle azioni. L’adempimento della profezia, comunque, traspare già nei nuovi stili di culto che, in molte chiese si stanno aprendo un cammino. Il desiderio di successo, argomentazioni di tipo psicologico o sociologico, prevalgono sull’adorazione del grande Dio che ritorna. Lo stesso si può dire per quei movimenti che lavorano per imporre un giorno di riposo religioso, unico per tutti,216 con il pretesto della funzionalità o, più sottilmente, per esigenza di unità e solidarietà tra i credenti. Certo, si tratta di sintomi confusi con altri. Il marchio della bestia è molto più che un giorno di culto o una forma di religiosità; è anche, più interiormente, il riconoscimento profondo della propria sintonia con la bestia, con il potere di Babele, con tutto il suo potenziale di abuso, di alienazione, in tutti i momenti della vita. Sembra incredibile. Però, un certo numero d’indizi sembrano portare in questa direzione. Il successo crescente della destra cristiana, dei suoi partiti votati all’abolizione della separazione tra stato e chiesa; le fazioni nazionaliste e le milizie di destra che operano da qualche tempo negli Stati Uniti; la bomba di Oklahoma con le sue centinaia di morti, tutte quelle manifestazioni di gruppi dall’ideologia neofascista, suggeriscono perlomeno che, un certo terreno propizio è pronto per l’adempimento di questa audace profezia. C’è molto da temere. E la profezia termina sulla prospettiva angosciosa, di un potere assoluto che controllerà tutte le strutture e tutte le coscienze. L’ultima nota è dura e pessimistica, la sua eco si ascolta nella freddezza del numero 666, come se la speranza fosse tecnicamente e razionalmente impossibile. Interludio: gli uomini del cielo A questo punto una nuova visione si impone, folgorante, agli occhi del profeta. Improvvisamente, in fondo all’orizzonte che si credeva senza uscita da quel «numero di uomo» (Ap 13:12),

216 Cfr.

«Lord’s Day Alliance Officials Have Audience With Pope John Paul II and Others in Europe» in Sunday: The Magazine of the Lord’s Day, Alliance in the United States, October/December 1986, pp. 8,9; J.P. Wesberr, The Lord’s Day, Nashville, 1986, p.123.

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sorge una folla che canta la vittoria e la gioia. La scena contrasta in modo evidente con quello che abbiamo appena visto e temuto. A coloro che sono stati calpestati dagli stivali di Babele viene presentata una nuova ragione per sperare, la possibilità di avere un futuro. Di fronte alla terra e al mare che trionfano nel presente, si innalza il « monte di Sion» (14:1). È la sola volta che Sion viene menzionata nell’Apocalisse. La Sion di cui si parla è di ordine celeste. La voce che il profeta ascolta viene dal cielo (v. 2), mentre la moltitudine dei salvati percepita dal suo sguardo si trova radunata davanti al trono celeste (v. 3). Gli antichi profeti ebrei avevano evocato l’esistenza di questo luogo sacro della dimora di Dio e del suo trono. Sulla base dell’esperienza storica d’Israele che viveva il sentimento della presenza di Dio a Sion, era stato chiamato con lo stesso nome quel luogo celeste: «il monte di Sion».217 I figli di Koré nel Salmo 48 collocano Sion, il monte santo di Dio, nella «parte estrema del settentrione» (yarketey zaphon), naturalmente essi alludevano al cielo. Il profeta Isaia conferma questa interpretazione, quando utilizza la medesima espressione per designare un luogo «in cielo... al di sopra delle stelle di Dio» (Is 14:13). In opposizione alle bestie che «salgono» dal mare o dalla terra, l’agnello «sta in piedi» sul monte Sion. La stabilità e l’ordine che regnano nella sfera di Dio contrastano con la turbolenta agitazione del mondo del dragone. Il contrasto si spinge fino al modo con cui il segno di appartenenza viene posto. Sulla fronte e sulla mano, in modo caotico nell’ambito del dragone, sempre sulla fronte nell’ambito dell’agnello (14:1). Anche il numero di 144.000 che simboleggia la perfezione dell’alleanza con Dio (12x12.000) contrasta con il numero 666 che rappresenta l’assenza di qualsiasi alleanza con Dio. Le «vergini» dell’Agnello, cioè coloro che si sono conservate per il matrimonio, contrastano con coloro che si sono lasciati «sedurre» dalla bestia (13:3,14). Ancora una volta, la metafora coniugale parla della natura particolare della relazione di Dio

217

Salmo 2:6; 68:18; 87:1; 99:9.

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con il suo popolo. Nell’Antico Testamento, il popolo di Dio è spesso chiamato la vergine di Sion.218 Il Cantico dei cantici celebra l’amore sulla vita, che rappresenta Israele, continuamente in attesa del suo beneamato.219 Il profeta Osea piange di nostalgia al ricordo d’Israele, ancora fidanzata di Dio nel deserto (2:16). Attraverso questa immagine della verginità del popolo eletto, non è certo l’astinenza sessuale a essere esaltata, ma piuttosto la virtù di chi attende Dio. Ciò che è rappresentato qui, è essenzialmente la natura della relazione con lo sposo che ritorna. Il popolo di Dio resterà sempre vergine perché il suo sposo sarà sempre atteso. Il regno non è di questo mondo. Contrariamente a tutti gli altri che cercano il Dio del presente e si affannano nei regni di questo mondo, la vergine di Sion si apparta per il Dio del futuro e non vive che per il regno che viene dall’alto. Quando si parla dei 144.000 salvati come di «vergini», il nostro libro vuole intendere un popolo consacrato, messo da parte per Dio. La stessa idea traspariva nell’altro titolo che li caratterizza: «primizie a Dio» (14:4). Anche in questo caso il linguaggio è ispirato all’Antico Testamento ed evoca il rituale del primo frutto della messe appartato per un’offerta particolare consacrata a Dio. Questo veniva fatto prima di utilizzare il raccolto per il sostentamento.220 Israele era considerato il primogenito di Dio,221 ma anche come la primizia delle messe (Ger 2:3), in definitiva come un popolo consacrato e messo a parte per Dio. I 144.000 si distinguono dagli altri, come il sacro si distingue dal profano. Il contrasto esistente tra il popolo dell’Apocalisse e quello del dragone si nota soprattutto dalle loro azioni e dai loro atteggiamenti. I discepoli del dragone si comportano come degli automi senza anima. Stranamente, non li si sente nemmeno parlare. La bestia parla per loro. Le loro decisioni sono prese meccanicamente secondo la convenienza del momento, seguendo la massa. Le loro preoccupazioni sono essenzialmente materialiste e soggette alle leggi di mercato.

218

2 Re 19:21; Isaia 29:12; 37:22; Geremia 14:17; Amos 5:2. Cantico dei cantici 2:8,9; 5:2; 8:14. 220 Deuteronomio 26:1-11; Levitico 23:9-21. 221 Esodo 4:22; Geremia 31:9. 219

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Essi perseguono l’unico scopo di vincere qui sulla terra. I discepoli dell’Agnello presentano tutta un’altra immagine. Essi seguono il loro Maestro spontaneamente (v. 4) e cantano un «cantico nuovo» (v. 3). La creatività di questi poeti musicisti si oppone ai calcoli ottusi dei commercianti che belano tutti lo stesso ritornello. La vita e l’immaginazione, i paesaggi dell’avventura e della scoperta, si oppongono alla morte e alla noia delle masse che si muovono obbedienti allo schiocco della frusta del dragone. Questo è il senso dell’espressione «cantico nuovo» presente nella Bibbia. La ritroviamo nei salmi dove essa traduce l’esperienza ricreatrice della salvezza.222 Per inciso, i 144.000 vibrano del miracolo della risurrezione. Il loro canto esplode in sinfonie mai sentite fino a quel momento, per esprimere il meraviglioso e l’indicibile. La visione profetica anticipa l’avvenimento lontano del gran giorno del giudizio finale. Si sentono rumori di tuoni e accordi di arpa. Questo è il momento in cui la giustizia e l’amore di Dio si abbracciano per mettere fine alla storia del male.

222

Salmo 33:2; 40:4; 96:1; 98:1; 144:9; 149:1.

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Grida di angeli

Dal centro del cielo, il profeta Giovanni vede spuntare tre angeli che si precipitano in direzione della terra. Eccoci nuovamente nel tempo della storia. I popoli della terra sono ancora presenti. I messaggeri dall’alto sono portatori di notizie che riguardano i destini di quaggiù. La venuta di questi tre angeli si colloca immediatamente prima della venuta del Figlio dell’uomo sulle nuvole del cielo (v. 14), e nel prolungamento dei quattro animali di Daniele 7 (Ap 13:2). Il parallelismo tra i due passi indica che il momento di questa proclamazione, corrisponde in Daniele 7, al tempo del giudizio di Dio (7:9-12), ossia, il Kippur (8:14), il tempo della fine (v. 17). Daniele 7 1. Quattro animali (leone, orso, leopardo, bestia dalle dieci corna) 2. Potere usurpatore e oppressore (1260) 3. Giudizio celeste 4. Ritorno del Figlio dell’uomo

Apocalisse 13 e 14 1. Bestia dalle dieci corna (caratteristiche del leone, del leopardo, dell’orso) 2. Potere usurpatore e oppressore (42 mesi) 3. Proclamazione dei tre angeli 4. Ritorno del Figlio dell’uomo

Secondo l’Apocalisse, la terra risuonerà di un triplice appello eseguito in tempi particolari. Il primo angelo A essere interpellato è, prima di tutto, l’ambito dei fedeli dell’Agnello. Il primo angelo ha la missione di annunciargli il «vangelo eterno» (14:6). Il termine greco euaggelion, tradotto generalmente con vangelo, significa letteralmente «buona notizia». Questa espres149

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sione è utilizzata nella letteratura greca classica per designare la notizia di una vittoria.223 Essa riguardava, sia la morte del nemico, sia l’apparizione dell’imperatore romano224 che veniva a «salvare» le nazioni dai loro problemi per imporre loro la pax romana (la pace romana). Il messaggio del primo angelo è dunque un messaggio di speranza. Egli annuncia che la tragedia umana volge alla fine. Per coloro che hanno scelto di seguire l’Agnello, questa notizia echeggia all’interno della loro esistenza, come un appello a temere Dio, in qualità di giudice e, nello stesso tempo a riconoscerlo come Creatore. «Temete Dio e dategli gloria, perché è giunta l’ora del suo giudizio. Adorate colui che ha fatto il cielo, la terra, il mare e le fonti delle acque» (14:7). Timore del giudice Nel Medio Oriente antico, il re ricopre anche l’incarico di giudice supremo. Anche la Bibbia associa le due funzioni.225 In questo contesto glorioso nel quale Dio appare giudice e re occorre collocare l’appello del primo angelo a temere Dio. Questa nozione del timore di Dio è impopolare e malcompresa. L’abbiamo in precedenza riscontrata al capitolo 11:18. Essa deve essere relazionata alla coscienza dello sguardo onnipresente di Dio. La parola ebraica che traduce questa nozione yra è probabilmente della stessa famiglia di raah, «vedere». Temere Dio equivale a sapere che egli ci guarda ovunque ci troviamo e qualunque cosa facciamo. La Bibbia collega il timore di Dio alla legge: «Così che tu tema il tuo Dio, il SIGNORE, osservando… tutte le sue leggi...» (Dt 6:2). Il timore di Dio è anche garanzia dell’etica: «Temi Dio e osserva i suoi comandamenti» (Ec 12:15). In questo ultimo brano, la sintassi della frase ebraica dà alla congiunzione «e» non il valore aggiuntivo ma piuttosto esplicativo. In altre parole bisognerebbe tradurre «temere Dio equivale a osservare i suoi comandamenti». Per l’Ecclesiaste

223

Theologisches Worterbuch zum Neuen Testament, vol II, p. 722. G. Flavio, Antichità, 18:228,229. 225 Esodo 18:13; 2 Re 15:5; 2 Cronache 1:10; Salmo 72:2. 224

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ogni uomo (kol haadam) è implicato in questa esigenza, questo è dovuto al fatto che esiste una prospettiva di giudizio, «Dio infatti farà venire in giudizio ogni opera, tutto ciò che è occulto, sia bene, sia male» (12:16). Temere Dio significa essere attenti al bene, al diritto, alla giustizia; significa osservare i suoi comandamenti, non soltanto in pieno giorno sotto lo sguardo di tutti, ma anche in famiglia e nell’intimità. Siamo di fronte a una concezione generale dell’esistenza. La religione non è più confinata in alcune ore domenicali o sabatiche, o nel momento sacro della preghiera. Ogni procedimento, ogni decisione, ogni opera, ogni pensiero sono messi sotto l’autorità che viene dall’alto. Per questo motivo il timore di Dio costituisce un leit motiv tanto importante nella letteratura sapienziale. In quei libri, nel cuore delle tematiche esistenziali che abbracciano il quotidiano, al centro delle riflessioni profonde forgiate al fuoco del dubbio e dell’intelligenza critica, il timore di Dio riceve il posto più alto «Il principio della saggezza è il timore del SIGNORE» (Prv 9:10; cfr. 1:7). Il timore di Dio non ha niente della paura superstiziosa che paralizza e conduce a una religione meccanica e magica. Nella Bibbia, il timore di Dio è spesso associato all’amore. Appena dopo aver parlato del timore di Dio e dell’ubbidienza alla sua legge, il testo del Deuteronomio (6:1-3) si snoda sul principio che lo ispira: «Tu amerai dunque il SIGNORE, il tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima tua e con tutte la tue forze» (6:5). Temere Dio significa amarlo sapendo di essere amati da lui. Significa avere la convinzione che il Dio d’amore ci segue dappertutto con il suo sguardo, non con l’intenzione di sorprenderci in errore e di punirci, ma con la preoccupazione di chi veglia sui nostri passi per guardarci da ogni male, «l’occhio del SIGNORE è su quelli che lo temono» (Sal 33:18). L’ubbidienza e il riferimento alla legge che viene dall’alto, presenti in ogni momento dell’esistenza, sono il risultato di questa relazione d’amore reciproca. Una vita sotto lo sguardo di Dio è una vita con Dio. Reciprocamente, poiché viviamo con Dio, viviamo sotto il suo controllo. La vera religione è coerente. Dio viene preso sul serio. Questa è la lezione che si desume dal testo dell’Apocalisse: l’appello al timore di Dio è seguito dall’appello a rendergli glo151

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ria (14:7). La parola ebraica kabod, tradotta con «gloria», contiene l’idea della pesantezza. Dio ha un suo peso, egli è rispettato. Il messaggio dell’Apocalisse colpisce duramente l’ipocrisia delle religioni facili e superficiali che non hanno saputo ispirare il rispetto di Dio; questo succede perché il riferimento a Dio è spesso effettuato prescindendo dal timore di Dio. Si parla di Dio, si costruiscono delle cattedrali o delle sinagoghe, lo si chiama in causa continuamente, nel calore dei dibattiti teologici o della politica ecclesiastica, ma l’uomo non è cambiato; egli rimane carico delle sue menzogne e dei suoi crimini. Nel secondo millennio, da poco alle nostre spalle, nel cuore della nostra civiltà cristiana, l’Olocausto ha proclamato il fallimento della religione e in modo particolare del cristianesimo. Poiché la religione non è stata coerente, Dio non viene preso veramente sul serio, tanto da diventare il «buon Dio» inoffensivo e strumentalizzabile, o il piccolo Gesù che intenerisce le anime sensibili. Per altri, Dio è morto. Quest’ultima tesi si è diffusa persino nei circoli religiosi. La religione, quando esiste, non è altro che un’esperienza spirituale soggettiva, un codice morale, o semplicemente una tradizione culturale. Non è più attuale credere nel «gran Dio del cielo» e ancor meno sperare nel suo regno. A causa del fatto che il timore di Dio è un sentimento perduto non si riesce a immaginare e nemmeno ad augurarsi la sua venuta in gloria. Questo passo dell’Apocalisse all’inizio del XXI secolo, diventa più che mai attuale. Esso contiene un appello a temere Dio, per donarci di nuovo il gusto di Dio, per svegliare nel cuore degli uomini e delle donne troppo occupati in opere terrene, il bisogno della venuta di Dio nella pienezza della sua gloria, per tener desta la speranza. L’adorazione del Creatore L’angelo passa dalla visione del Dio da temere, al Dio creatore, oggetto della nostra adorazione. Dall’ubbidienza della legge da cui si riconosce la giustizia e la bontà di Dio, si passa ora all’adorazione piena d’amore che si meraviglia davanti alla grandezza della sua opera. La creatura umana sconvolta dall’universo infinito e meraviglioso, non può che sentirsi spinta ad adorare il suo Creatore. 152

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È interessante notare come i salmi e le preghiere, centro dell’adorazione d’Israele, associano direttamente la creazione all’adorazione.226 Infatti, è proprio creando che Dio dimostra nello stesso tempo la sua potenza e la sua grazia. La sua grandezza infinita conduce alla riverenza, mentre la sua vicinanza permette l’incontro e l’amore. Dio è prima e al di sopra di tutti e di tutto, assolutamente indipendente e unico, ma anche all’origine di tutta la realtà. Noi esistiamo grazie a lui e per mezzo di lui. Noi siamo dipendenti da lui. Questa è la lezione della creazione. L’adorazione si colloca al centro di questa tensione: il senso della distanza di Dio e l’esperienza intima della sua presenza. Fin dalle prime pagine della Bibbia, i due racconti della creazione testimoniano questa esigenza. Nel primo testo (Gn 12:4), Dio, Elohim, è trascendente, è potente e creatore dell’universo. Nel secondo testo (2:4b-24), Dio, YHWH viene presentato come immanente e personale, Dio dell’esistenza e della storia, Dio della relazione. La Bibbia comincia con la creazione, non soltanto per delle ragioni storiche e cronologiche evidenti, ma anche per sottolineare che fin dall’inizio l’essere umano che riceve questa parola di Dio può collocarsi correttamente nel rapporto verso di lui. Nel cominciare con la creazione, la Bibbia pone le basi per la vera adorazione. Ma il testo dell’Apocalisse prende di mira molto più che una semplice evocazione dell’evento della creazione. La menzione inattesa delle «fonti delle acque» (14:7), espressione aggiuntiva dei tre elementi tradizionali, cielo, terra e mare, traducono un’intenzione speciale. Nel contesto dell’antico Israele, attorniato dal deserto dove la vita dipendeva dall’acqua, le fonti delle acque rappresentavano la sopravvivenza. Nell’Apocalisse, esse contrastano con il deserto, luogo di morte e di malvagità (12:6,14; 17:3). L’Agnello conduce, per esempio, il suo popolo verso le fonti delle acque (7:17; 12:6; 22:17). Allo stesso modo, nel libro di Ezechiele, la Gerusalemme della speranza è immaginata come

226

Salmo 95:6; 102:19; Neemia 9:6.

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debordante di sorgenti (47:1-12); e in questo, essa si colloca nel solco della descrizione del giardino dell’Eden (Gn 2:10-14).227 Con l’evocazione delle sorgenti, il nostro testo suggerisce dunque una visione dell’avvenire dove, la Gerusalemme ideale è descritta con i tratti del giardino dell’Eden. Quindi, non è per caso che l’appello all’adorazione del Creatore sia pronunciato in una prospettiva di giudizio: «perché è giunta l’ora del suo giudizio» (Ap 14:7). Questa associazione è carica di speranza. Il giudizio che segna la fine della storia umana porta in sé, nello stesso tempo, l’annuncio della nuova creazione.228 Il secondo angelo Poi, d’improvviso, il tono cambia. Il secondo angelo rivolge lo sguardo nel campo avversario. Questa volta il messaggio è formulato in maniera opposta al precedente, in negativo. Invece di portare una buona notizia di speranza che rassicura e riempie di gioia, si ascolta una parola di giudizio, dai connotati inquietanti. È l’annuncio della caduta di Babilonia. «Caduta, caduta è Babilonia la grande che ha fatto bere a tutte le nazioni il vino dell’ira della sua prostituzione» (v. 8). Il verbo è coniugato al passato, per sottolineare il carattere definitivo della sentenza. Questo è lo stile degli oracoli dei profeti ebrei. Anche Isaia, gridava: « Caduta, caduta è Babilonia» (v. 9). Allo stesso modo, Geremia dichiarava: «Babilonia era nelle mani del SIGNORE una coppa d’oro, che ubriacava tutta la terra; le nazioni hanno bevuto il suo vino, perciò le nazioni sono divenute deliranti. All’improvviso, Babilonia è caduta, è frantumata» (51:7,8). Siamo nel campo dell’illusione e del sogno. I discepoli di Babilonia ubriachi del suo vino hanno perduto ogni senso della realtà. Essi sono stati ingannati. Babele si è fatta passare per la città di Dio. Molti ci hanno creduto e si sono uniti a essa in una relazione adulterina. Secondo il libro dei Proverbi, questo è l’inevitabile destino del bevitore: «Non guardare il vino quando rosseggia, quando scintilla nel bicchiere e va giù così facilmen-

227 228

Gioele 3:18; Zaccaria 13:1; Salmo 46:4; Apocalisse 22:1,2. Cfr. Le soupir de la terre, pp. 186,187

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te! Alla fine, esso morde come un serpente e punge come una vipera. I tuoi occhi vedranno cose strane, e il tuo cuore farà dei discorsi pazzi. Sarai come chi si coricasse in mezzo al mare, come chi si coricasse in cima a un albero di nave» (23:31-34). In stridente contrasto con i 144.000 che rimangono vergini in attesa della città che viene dall’alto, quelli di Babele vengono descritti come beoni trascinati nell’infedeltà. Le schiere dell’Agnello sono caratterizzate dal timore di Dio vissuto in una relazione d’amore e di fedeltà. Nell’ambito di Babele, al contrario, Dio è sostituito da un’istituzione terrena e la sua religione è vissuta come una relazione adultera. La missione del secondo angelo consiste nello smascherare questa mistificazione affinché gli abitanti della terra siano consapevoli di quello che sta succedendo. La maschera è calata. Grazie agli studi del libro di Daniele e dell’Apocalisse condotti nel corso del XIX secolo, si è in grado, ora, di comprendere che il potere religioso dominante non proviene dall’alto. Il piccolo corno dal viso umano che si leva fino a Dio (Dn 7:24,25; 8:9-11), rappresenta un’istituzione assolutamente umana. Questa scoperta effettuata alla luce delle Scritture, rappresenta di per sé la caduta di Babilonia. Il messaggio è stato proclamato in tutte le direzioni della terra. Non si tratta qui di accusare qualcuno per suscitare sentimenti di superiorità in altri, piuttosto, siamo di fronte al dovere di avvertire il mondo a non cadere in questi pericoli. La caduta di Babilonia diventa il paradigma di tutte le cadute. A partire dall’esempio della Babilonia storica, caduta sotto i colpi di Ciro nel 536 a.C., la profezia biblica ha creato un tipo la cui lezione diventerà universale. Essa deve essere compresa oltre tutte le frontiere, su ogni terreno, sia esso politico, religioso o psicologico. Ogni orgoglio e ogni pretesa all’infallibilità porta inevitabilmente alla confusione di Babele la quale ha come destino la caduta. Non c’è ideale politico, ecclesiastico, umano insomma, che sia al riparo da questo pericolo. Babilonia è una mentalità, una caratteristica dello spirito che si trova ben oltre la famosa torre o il regno di Nabucodonosor, o della stessa chiesa cattolica. La caduta di tutte queste Babilonie costituisce una messa in guardia severa contro il nostro proprio orgoglio e annuncia la nostra propria caduta. 155

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Il terzo angelo Da questa caduta di Babilonia, il terzo angelo trae le conseguenze per i due campi opposti. Nel campo di Babele, il suo annuncio significa che «chiunque adora la bestia e la sua immagine» (Ap 14:9), cioè Babilonia, è votato al suo stesso destino. Il verbo «adorare» è intenzionale. Esso viene pronunciato dal primo angelo in rapporto con il creatore (v. 7). La sua riapparizione sulle labbra del terzo angelo indica la natura dell’usurpazione che egli denuncia: la bestia ha preso il posto del Creatore. Niente di stupefacente, allora, se i suoi discepoli sono caratterizzati nello stesso modo con cui lo sono i 144.000 adoratori del creatore. Essi sono segnati con il suo nome (cfr. 14:9,11; 7:3). Quello è il segno che parla della loro sottomissione all’autorità della bestia; potere che si esercita nelle loro esistenze, nelle loro menti, come indica il marchio sulla fronte, e sulle loro azioni, come indica il marchio posto sulla mano. Con ironia, l’Apocalisse annuncia che essi saranno le vittime delle loro proprie illusioni. Un castigo è stato preparato conseguente ai loro vizi, essi berranno «il vino dell’ira di Dio» (v. 10). Il vino di Babilonia che li aveva ubriacati si confonde, all’improvviso, al vino della collera di Dio. Bevendo il vino di Babilonia è in realtà il vino del giudizio di Dio che essi stanno bevendo. Il loro peccato diventa la loro propria punizione. Più essi bevono, più si perderanno e mentre si perdono continuano ancora a bere... Questo processo ha del tragico; come il Prometeo del mito di Sisifo, chi ama Babele non sa più riprendersi. I costruttori di Babele (cfr. Gn 11:3,4) come i satrapi di Dario (Dn 6:6),229 erano caratterizzati dallo stesso forsennato attivismo che agita gli zelanti operatori di questa città che proviene dal basso: sempre la stessa ansia di prevalere. Questa nevrosi che li attanaglia è la prova della loro fede esclusiva nelle proprie opere. Ma tutto questo, tutta questa euforia, tutti questi lavori, andranno in fumo: «Il fumo del loro tormento sale nei secoli dei secoli. Chiunque adora la bestia e la sua immagine e prende il marchio del suo nome, non ha riposo né giorno né notte» (Ap 14:11).

229

Cfr. Le soupir de la terre, p. 126.

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Il linguaggio è ironico. Esso evoca la famosa valle di Hinnom (gué Hinnom) dalla quale proviene il famoso termine «geenna», luogo a sud di Gerusalmme dove venivano arsi dei fanciulli sacrificati al dio Moloch.230 La Bibbia ci riferisce che il re Giosia contaminò questo luogo per renderlo improprio ai riti idolatri (cfr. 2 Re 23:10). Da quel momento in poi fu adottata l’abitudine di bruciarvi le immondizie della città. I mucchi di spazzatura che ardevano continuamente erano associati al ricordo delle abominazioni di Moloch. Quello è il destino finale degli orgogliosi di Babele. L’Apocalisse non vuole qui insegnare la dottrina del fuoco eterno dell’inferno. La lezione riguarda altre cose. Attraverso questo gioco di immagini e associazioni viene svelata la natura immonda e idolatra di Babele. Inoltre, l’espressione «nei secoli dei secoli» non è relativa alla durata eterna del fuoco, ma al suo effetto definitivo. I malvagi vengono bruciati per poi sparire definitivamente. Il profeta Isaia chiarisce queste espressioni mettendo in parallelo il «fuoco divorante» con le «fiamme eterne»: «Chi di noi potrà resistere al fuoco divorante? Chi di noi potrà resistere alle fiamme eterne?» (33:14). La caduta di Babilonia e dei suoi discepoli equivale a una morte vergognosa, come quella riservata ai rifiuti: una morte assoluta e definitiva. Tra i seguaci dell’Agnello, la caduta di Babilonia ha un’altra valenza. Nel momento in cui questa notizia viene annunciata, Babele è più fiorente che mai. L’istituzione umana si impone all’attenzione di tutti. Il Dio del cielo, al contrario, resta invisibile, ciò conferma il successo di Babele. La chiesa di Dio sembra votata alla sconfitta. In questo contesto, l’annuncio della caduta di Babele viene recepito come una parola di speranza e di incoraggiamento a continuare la lotta, nonostante tutto, a tenere duro conservando la propria peculiarità. «Qui è la costanza dei santi» commenta l’angelo (Ap 14:12). Troppo spesso il senso di questa ultima parola è stato mal compreso. Il santo, nella Bibbia (in ebraico: qadosh) non ha nulla a che vedere con il bambino modello che

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Salmo 106:38; Geremia 7:31; Isaia 30:33; 2 Cronache 28:3.

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ubbidisce sempre ai suoi genitori e non delude mai i suoi maestri. I santi sognati dal profeta sono l’incubo dei burocrati. Essi scuotono e disturbano l’ordine costituito. Essi camminano contro corrente. I santi degli ultimi tempi sono personalità indipendenti e rivoluzionarie. Essi sentono che la fine è vicina e forgiano se stessi al diapason del regno che viene dall’alto. Questo è il carattere che emerge dalla definizione di credente data dal testo apocalittico. Questi santi sono coloro che «osservano i comandamenti di Dio e la fede in Gesù» (v. 12). Contro la maggioranza che segue l’etica umana e terrena per ossequiare l’autorità di Babele, i santi sono una minoranza che vive nel timore di Dio, rimanendo fedele agli antichi comandamenti del Dio d’Israele e di Gesù. Contro la maggioranza che non crede se non in ciò che vede e confida solo nelle proprie opere, questi sopravvissuti di un tempo lontano, hanno conservato la fede in Gesù. Essi credono, nonostante le tenebre e il silenzio di Dio. Essi sperano nonostante le sconfitte e la croce. Ma oltre questo ritratto che delinea le caratteristiche psicologiche del «santo», la definizione che abbiamo letto, fonda e conforta il cammino del credente. Attraverso i «comandamenti di Dio» e «la fede in Gesù», l’Apocalisse guarda ai due avvenimenti che hanno segnato il cammino della rivelazione di Dio, nella storia e nell’esistenza umana. Da una parte, la Torah, la legge di Dio, dall’altra parte l’incarnazione e la morte di Gesù. L’Apocalisse s’impegna, una volta di più, ad abbattere la divisione che il dramma giudeo-cristiano ha provocato, tra Mosè e Gesù, tra l’Antico e il Nuovo Testamento, tra la legge e la grazia. I santi del tempo della fine, sono visti dall’Apocalisse come coloro che si «ricordano» e che «osservano». Diventare cristiano non deve significare l’abbandono della legge. Il nuovo patto non deve significare il rinnegamento o la revisione dell’antico; ma, al contrario, un radicarsi nell’antico per vivere una nuova giovinezza spirituale. Tutta la Bibbia è rappresentata da questo ultimo testimone di Dio. La fede di Gesù non esclude il timore di Dio. La fiducia nel Dio che prende tutti i peccati del mondo su di sé per salvare l’umanità con il suo sacrificio, riassume questa passione di vivere e servire secondo i suoi comandamenti. 158

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Non c’è da stupirsi, quindi, se i messaggi di questi «santi» gravitano attorno al giudizio e alla creazione. Da una parte, l’atto del giudizio implica la legge e il timore di Dio. Poiché è sulla base della legge che un giudizio può esercitarsi. In ebraico, la nozione di legge coincide con quella di giudizio a tal punto che, lo stesso termine mishpat231 significa nello stesso tempo, legge e comandamento.232 È la prospettiva del giudizio che ispira e governa il timore di Dio e l’ubbidienza alla sua legge. D’altra parte, il miracolo della creazione implica la fede e l’adorazione di Dio. Mentre è da sottolineare il fatto che la sola definizione biblica della fede si riferisce all’evento della creazione: «Or la fede è certezza di cose che si sperano, dimostrazione di realtà che non si vedono... Per fede intendiamo che i mondi sono stati formati dalla parola di Dio; così che le cose che si vedono non sono state tratte da cose apparenti» (Eb 11:1-3). Credere che Dio è stato ed è capace di trasformare il nulla nell’esistente e le tenebre in luce, equivale a fondare la propria esistenza sull’invisibile e l’impalpabile. Significa correre dei rischi. In questo senso, la creazione è un miracolo che esige la fede per eccellenza. La tesi evoluzionista che rifiuta questa audacia del pensiero e concepisce la vita e l’essere come qualcosa che sorge «naturalmente» dalla materia, si colloca, ovviamente, agli antipodi di questa fede nella creazione. Non solo, i santi dell’Apocalisse ubbidiscono ai comandamenti di un Dio invisibile e trascendente, ma credono in un Dio creatore, cioè un Dio che esiste al di fuori di loro. Questi credenti si collocano sulla linea degli antichi Israeliti, i quali, osservatori fedeli dei comandamenti di Dio e credenti nella sua opera creatrice, vivevano la settimana al ritmo del sabato del decalogo: «Ma il settimo è giorno di riposo, consacrato al SIGNORE Dio tuo; non fare in esso nessun lavoro ordinario, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo servo, né

231

Deuteronomio 1:17; Malachia 2:17; Salmo 1:5. Esodo 21:1; Levitico 5:10; 9:16; Geremia 8:7; Isaia 58:2; 42:4; 51:4; Ezechiele 7:10.

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la tua serva, né il tuo bestiame, né lo straniero che abita nella tua città; poiché in sei giorni il SIGNORE fece i cieli, la terra, il mare e tutto ciò che è in essi, e si riposò il settimo giorno; perciò il SIGNORE ha benedetto il giorno del riposo e lo ha santificato» (Es 20:10,11). Nel mettere da parte il tempo sacro dedicato a Dio, essi manifestano la loro fede nell’esistenza del vero Dio che vive al di fuori di loro. Il Dio giudice, il Dio creatore. Un messaggio simile è assai discordante rispetto alle idee correnti nella nostra epoca, che esaltano il Dio «interiore», da scoprire nelle pieghe nascoste della mente umana. Ormai le teorie spiritualistiche, panteistiche non sono mai state così popolari. Tipi di fede ristretti nell’ambito delle filosofie pagane, come la reincarnazione e la divinizzazione della natura, l’immortalità dell’anima e la deificazione dell’io, fioriscono nel pensiero religioso di ogni estrazione. L’influsso delle religioni orientali ispirato dal New Age, è certamente un segno dei tempi. Bisogna dire che l’idea dell’immortalità dell’anima, già radicata nelle tradizioni giudeo-cristiane ha favorito il successo di queste tendenze spirituali. La credenza secondo la quale l’essere si prolunga naturalmente, al di là della morte senza l’intervento esterno di Dio, traduce la stessa concezione delle cose e dell’essere. La fede nella creazione, invece, esclude l’idea dell’immortalità dell’anima. Secondo la Bibbia, l’essere umano è stato creato dalla polvere ed è totalmente dipendente da Dio (Gn 2:7). Fin dalle prime pagine di questo libro, questa verità risplende senza equivoci: «Certamente morirai»,233 afferma Dio in Genesi 2:17. In quanto creatura, l’uomo non è immortale per natura. In quanto essere creato, tuttavia, l’uomo può credere nella nuova creazione. La fede in essa rende possibile la fede nella risurrezione. Contrariamente ai seguaci di Babele, febbrili e angosciati da una fine assoluta, i discepoli dell’Agnello, sono definiti come «beati» (Ap 14:13) e sicuri di un futuro oltre il nulla della morte. «Le loro opere li seguono», dice l’Apocalisse (v. 13).

233

Cfr. la nota della TOB ad loc.

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Questa parola «opere» (in greco erga) appartiene al linguaggio ebraico dell’epoca ed è applicato comunemente al momento del giudizio finale.234 Si tratta del termine tecnico che designa le buone azioni tipiche della vita cristiana (2:2,19) grazie alle quali i santi saranno giudicati favorevolmente e salvati (19:8; 20:12). Nelle lettere dell’apostolo Paolo, questa parola, designa tutto ciò che sopravvive alla prova finale del fuoco. «... l’opera di ognuno sarà messa in luce; perché il giorno di Cristo la renderà visibile, poiché quel giorno apparirà come un fuoco; e il fuoco proverà quale sia l’opera di ciascuno» (1 Cor 3:13). Nella lettera agli Ebrei, «l’opera» è ciò che è conservato nella memoria di Dio in vista «di cose migliori e attinenti alla salvezza» (6:9). Il riferimento alle opere non ha nulla di legalistico. In modo significativo, queste opere non hanno lo scopo di acquistare la salvezza. Al contrario esse la «seguono». Le opere in questione saranno messe in luce solo quando colui che le ha compiute non esisterà più; quindi non potranno essere esibite come mezzo di esaltazione di se stessi. La vera opera è ciò che resta quando il suo autore è scomparso. È ciò che sopravvive oltre la propaganda, le vanterie, la promozione politica. È ciò che rimane nella memoria di Dio e non negli uomini, troppo spesso ingannati dal rumore delle apparenze. È l’opera giudicata da Dio. La proclamazione del giudizio e della creazione presente nel programma dei tre angeli, implica dunque molto di più che il semplice riferimento oggettivo ai due avvenimenti che incorniciano la storia umana. Si tratta di una filosofia dell’esistenza e della natura dell’uomo, proposta nella sua interezza. Le lezioni che se ne possono trarre non riguardano, quindi, il giudizio soltanto o la creazione in quanto tale. Piuttosto, si coglie tutta una ricchezza di significati nell’associazione del giudizio con la creazione. Vi si scorge un’intima tensione. Da una parte si vuole sottolineare il valore della creazione. Si afferma il dono di Dio, la natura, la gioia, la vita e l’amore. Dall’altra parte, in un certo senso viene messo un freno a

234

2 Baruc 14:12; 24:1; 4 Esdra 7:77; Salmo di Salomone 9:9.

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un facile trionfalismo, quando l’accento è messo sulla legge, la disciplina e il giudizio. Questa tensione è posta nella Bibbia sin dagli inizi della storia dell’uomo, come si può intendere già dal primo comandamento di Dio: «Mangia pure di ogni albero del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non ne mangiare; perché nel giorno che tu ne mangerai, certamente morirai» (Gn 2:16,17). La stessa tensione attraversa il messaggio del sapiente dell’Ecclesiaste: «Rallegrati pure, o giovane, durante la tua adolescenza, e gioisca pure il tuo cuor durante i giorni della tua giovinezza, cammina pure nelle vie dove ti conduce il cuore e seguendo gli sguardi dei tuoi occhi, ma sappi che, per tutte queste cose, Dio ti chiamerà in giudizio!» (12:1). Non è stato abbastanza compreso l’importanza e la necessità vitale di questa tensione. Le comunità religiose sono spesso lacerate tra le due tendenze. Alcuni, irriducibili santi, si riferiscono al giudizio e alla legge e a un Dio grande, nell’alto dei cieli, rigoroso e da rispettare. Si esige in questi ambienti una dura perfezione, senza la quale la salvezza è impossibile. Altri, liberali, generosi e sorridenti, si appellano alla grazia e all’amore di un Dio vicino e umanista. La religione, qui, viene ridotta a dei buoni sentimenti che portano a una salvezza, ottenuta tramite una conversione a buon mercato. Nell’Apocalisse, invece, la proclamazione del giudizio e della creazione insieme, porta all’armonia delle due tendenze precedenti. Il filosofo ebreo Abraham Heschel lo aveva ben compreso quando proponeva l’ideale di un uomo «santo e umano».235 L’ideale qui descritto è presente in tutta la Bibbia. Israele si batterà con Dio e con gli uomini. Abbiamo Gesù, il Dio perfetto che dimora con gli uomini e ride, mangia e canta con loro. Ricordiamo una delle sue preghiere: «Non prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li preservi dal maligno» (Gv 17:15); questo è l’ideale del sale che deve, nello stesso tempo, conservare il suo sapore e unirsi alla vivanda (Mt 9:50). Ma al di là di questa lezione e di questo ideale che pervade

235

A.J. Heschel, Dio alla ricerca dell’uomo, Borla, Torino, 1969, p. 238.

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l’esistenza umana, la proclamazione del giudizio e della creazione mira anche ad altro. Questa associazione giudizio/creazione costituisce l’essenza della festa delle espiazioni. Allo stesso modo, sia i riti cerimoniali del Kippur riportati nei testi biblici (cfr. Lv 16) sia le preghiere tradizionali della liturgia ebraica, testimoniano della stessa verità del giudizio collegato alla creazione. Il simbolismo biblico del rituale del Kippur lo dimostra: i sacrifici offerti in questo giorno unico hanno un effetto che valica il destino particolare del singolo individuo. Non soltanto, infatti, il popolo intero è perdonato dalle sue iniquità (cfr. vv. 21,22), ma il santuario stesso, carico dei peccati di un anno intero, viene purificato (vv. 16,33). Il grande giudizio di Dio porta con sé il messaggio di una vera e nuova creazione. Del resto, questo significa esattamente «la purificazione del santuario». Infatti, nel pensiero ebraico, il santuario rappresentava l’universo intero creato da Dio. Il tempio e il tabernacolo erano visti dagli antichi israeliti, come una metafora «microcosmica» della creazione.236 L’idea è esplicitamente contenuta nei salmi: «Costruì il suo tempio, simile a luoghi altissimi, come la terra ch’egli ha fondato per sempre» (78:69).237 Il rapporto tra la creazione e il santuario traspare già nel racconto della sua costruzione che si sviluppa in parallelo con il racconto della creazione (cfr. Es 25-40). Al pari del racconto della creazione, il testo relativo al santuario segue una struttura suddivisa in sette tappe. La settima tappa viene conclusa dalla stessa frase e dalle stesse parole ebraiche utilizzate dal testo della Genesi relativo alla creazione

236

Questa associazione del tempio di Gerusalemme con «i cieli e la terra» non ha simili nel Medio Oriente. Presso l’antica Sumer, si chiamava il tempio Duranki «luogo del cielo e della terra» e a Babilonia si conosceva un altare dal nome di Etenanki, «la casa dove si trova la fondazione del cielo e della terra». (Cfr. J.D. Levenson, Creation and the Persistence of Evil, New York, 1988, pp. 7899; cfr. G.W. Ahlstrom, «Heaven on Earth at Hazor and Arad», in Religious Syncretism in Antiquity, ed. B.A. Pearson, Missoula, 1975, p. 68). 237 Salmo 134:3; 150:1,6.

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di Dio. «Così Mosè completò l’opera» (Es 40.33; cfr. Gn 2:2).238 Si deve notare che il racconto della costruzione del tempio di Salomone è descritto attraverso lo stesso itinerario in sette fasi. L’opera durerà sette anni (1 Re 6:38) e sarà segnata dalla stessa frase conclusiva precedentemente trovata «Così... compì tutta l’opera richiesta dal re Salomone» (cfr. 1 Re 7:40,51). È estremamente significativo il fatto che in tutta la Bibbia ebraica, questa associazione di parole si riscontra solo in questi tre versi, i quali suggeriscono un rapporto assolutamente particolare, tra il santuario e la creazione. Questo rapporto è presente nella Bibbia anche in senso inverso. La creazione è descritta con termini che evocano il santuario israelita: «... egli distende i cieli come una cortina e li spiega come una tenda per abitarvi» (Is 40:22).239 Questo rapporto riappare in modo implicito nel vangelo di Matteo. La distruzione del tempio di Gerusalemme equivale alla distruzione del cosmo (24:1-39); la lacerazione del velo del tempio corrisponde a quella della terra (27:51). Per gli antichi israeliti la festa dell’espiazione, il Kippur, significava molto più che una semplice pulizia della tenda o dell’edificio. Il rituale del Kippur aveva uno scopo cosmico. La purificazione del santuario significava la purificazione del mondo, cioè la sua nuova creazione. È per questo che la creazione futura di «nuovi cieli e nuova terra» si riferisce anche alla creazione di una nuova «Gerusalemme» (Is 65:17,18; Ap 21:1). Per lo stesso motivo il profeta Daniele descriverà il Kippur cosmico di Daniele 8 in termini presi in prestito dal linguaggio del racconto della creazione: «Sere e mattine» (v. 14). Questa espressione, molto rara, non si trova se non nel contesto del racconto della creazione (cfr. Gn 1:5,7,13,19,23,31). In seguito, nel solco del pensiero biblico, la tradizione ebraica ha assimilato il giudizio del Kippur a una creazione. Secondo

238

Cfr. P.J. Kearney, «Creation and Liturgy: The P Redaction of Ex 25-30» Zeitschrift fur Alttestamentliche Wissenschaft 89 (1977), p. 375; cfr. J. Blenkinsopp, «The Structure of P» Catholic Biblical Quarterly 38 (1976), pp. 276-278. 239 Isaia 44:24; Giobbe 9:8; Salmo 104:2; Geremia 10:12.

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uno dei più antichi commentatori ebrei della Genesi, la nascita del Kippur coincide con quella dell’universo: «C’è stata una sera, c’è stata una mattina, un giorno unico, e questo significa che il Santo, il Benedetto, diede a Israele un giorno unico che altro non è se non il Kippur» (Midrash Rabbah, Gn 4,10). Le preghiere recitate in questo giorno, le riflessioni teologiche che esso ispira portano invariabilmente allo stesso riferimento del giudizio e della creazione. «Che tu sia benedetto, o Eterno Dio nostro, Re dell’universo, che ci apri le porte della misericordia e illumini gli occhi di coloro che desiderano il perdono di colui che ha creato la luce e l’oscurità, che ha creato tutte le cose» (Yotser leyom Kippur). «Come può l’essere umano essere giusto davanti al suo creatore, quando tutto viene messo a nudo davanti a lui?» (Mosaph leyom Kippur). Si ritrova anche in queste preghiere tradizionali il medesimo appello al timore di Dio sottolineato da Apocalisse 14. L’associazione tra giudizio e creazione sussiste anche in questi testi citati. «Noi dobbiamo santificare questo giorno perché esso è un giorno di timore e di terrore. In questo giorno il tuo regno e il tuo trono sono stati stabiliti. Poiché tu sei il giudice e il testimone, colui che scrive e colui che sigilla. Tu ti ricorderai di tutte le cose dimenticate e aprirai il libro dei ricordi. In quel giorno suonerà il grande schofar e la voce del silenzio si farà sentire e gli angeli si precipiteranno pieni di timore e di tremore ed esclameranno: Ecco il giorno del giudizio!» (Raccolta di preghiere, Mahzor min Rosh Hashana weyom hakippurim, prima parte, p. 31). «Diffondi il timore del tuo nome, o Signore, nostro Dio, su tutte le tue creature affinché tutti gli uomini ti temano e si prosternino davanti a te, tutti coloro che tu hai creati... Poiché noi siamo coscienti, o Signore nostro Dio, che tu sei sovrano e il potere è nelle tue mani, la potenza è nella tua destra e che il tuo nome sia conosciuto a tutti coloro che tu hai creati» (Choulkhan Aroukh, p. 514). Tutte queste informazioni, presenti nella Bibbia come nelle tradizioni e liturgie ebraiche, mostrano il retroterra del messaggio di Apocalisse 14. Per mezzo di questa associazione del concetto di giudizio e di creazione, si vuole evocare la festa dell’espiazione. Come per 165

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caso, la proclamazione compiuta sulla terra coincide con l’evento del giudizio visto dal profeta Daniele nel cielo (7:9-11), mentre il testo parallelo di Daniele 8 mette l’attenzione sulla purificazione del santuario, cioè il Kippur (v. 14).240 L’Apocalisse si riferisce a Daniele persino nella struttura letteraria. Come Daniele, l’Apocalisse colloca nel suo centro geometrico, proprio il giudizio. Ma mentre Daniele contemplava il risvolto celeste dell’evento, l’Apocalisse considera l’aspetto terrestre. La proclamazione del giudizio e della creazione, qui sulla terra ha come contropartita un Kippur che si svolge nel cielo. L’applicazione storica della profezia biblica ci obbliga a sottolineare nello scenario della storia umana, come una sorta di grande ondata che si solleva durante la metà del XIX secolo. Un movimento, il cui messaggio è centrato proprio sul giudizio e sulla creazione. Questo immenso appello pronunciato da uomini e donne che testimoniano sia con la parola sia con la loro vita, rappresenta il segno visibile del gran giorno del Kippur iniziato nel cielo. Oltre a questo, si ode come un grande grido del cielo che avverte gli abitanti della terra circa la venuta del Figlio dell’uomo; mentre nuovi orizzonti si preparano. Il Figlio dell’uomo Il profeta dell’Apocalisse aveva iniziato la sua serie di sette segni, partendo dalla visione celeste di una donna illuminata dal sole e dalla luna, il cui capo era incoronato da stelle. Ora, lo sguardo profetico chiude il cerchio e si ferma sulla visione celeste di un Figlio dell’uomo avvolto da una nuvola, la cui testa è incoronata da un diadema d’oro. La visione del Figlio dell’uomo risponde a quella della donna. La venuta di Gesù Cristo, che sorge dal cuore delle nuvole per impadronirsi, finalmente, del governo della terra, risponde ai sospiri della donna esiliata nel deserto la quale non vive se non per questo sogno e di questo sogno. Quest’ultima visione riassume tutta l’esperienza cristiana. Non è per caso che questa speranza ha ispirato il saluto dei

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Cfr. Le soupir de la terre, p. 182.

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primi cristiani, maran atha, «il Signore viene». Il verbo aramaico atha è esattamente il verbo che si trova nel testo di Daniele 7, capitolo che descrive la venuta del Figlio dell’uomo (v. 13). Siamo alla fine. Quest’ultimo avvenimento segna il compimento di tutte le attese. Per comprendere questo messaggio della fine, il profeta Amos aveva ricevuto a suo tempo, la visione di un canestro di frutta matura (cfr. 8:2). L’idea di maturità e di compimento passava già attraverso un gioco di parole. In ebraico, la parola fine qetz si percepisce anche nel suono della parola frutto qaytz. Per gli antichi profeti d’Israele la fine non era soltanto un tragico arresto, dopo il quale non c’era più nulla. La fine è anche portatrice di orizzonti nuovi. La fine è anche speranza. Per rendere questa ambivalenza del concetto di fine, i profeti hanno utilizzato la metafora della mietitura (Gl 4:13). La mietitura, infatti, implica nello stesso tempo la violenza del taglio e la raccolta dei covoni. Viene suggerita la nozione di morte e di vita, nello stesso tempo. Il profeta dell’Apocalisse riprende la stessa immagine della mietitura per evocare l’evento della fine (Ap 14:14-19). Ma per rendere ancora meglio l’idea dell’ambivalenza di questa fine, l’Apocalisse la descrive prendendo ad esempio le due mietiture che scandivano la vita agricola della Palestina dell’epoca: la mietitura del grano a primavera e la vendemmia in autunno. La mietitura del grano rappresenta l’adunata dei fedeli (14:14-16). L’immagine si situa nel solco dell’esperienza sacrificale già analizzata precedentemente. Essi rappresentano «le primizie di Dio» (14:4). Questa mietitura è riferita al Figlio dell’uomo. Si tratta quindi della sua opera e del suo regno. La visione dell’Apocalisse si ricongiunge a quella del profeta Daniele. Anche in quel caso, il giudizio è posto come l’ultimo avvenimento della storia umana, in vista della venuta del Figlio dell’uomo. Nel capitolo 7 di Daniele, il Figlio dell’uomo è direttamente impegnato nell’atto del giudicare. Lo si scorge mentre interviene presso «il vegliardo», prima di ricevere il regno e il dominio (cfr. Dn 7:13,14,26,27). Il testo dell’Apocalisse segue lo stesso sviluppo. Il primo significato della parusia è quello del giudizio che separa e raduna tutti coloro che sono giudicati giusti. Il giudizio è di assolu167

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zione (7:22).241 La raccolta dei fedeli porta con sé, un messaggio di vita. La scelta del termine greco utilizzato per tradurre l’idea di mietitura (therismos, therizo) è assai significativa. Questa parola si riferisce specificatamente alla raccolta e alla riunione dei covoni e non alla loro recisione, come sarebbe stato se si voleva alludere al castigo dei nemici. I covoni sono carichi di grano e contengono la promessa del pane. L’immagine evoca la sicurezza del ritorno a casa. D’altro canto, la vendemmia, rappresenta il castigo dei malvagi. Questa volta, il mietitore è associato al fuoco (Ap 14:18) il quale, come in Daniele 7, è lo strumento del giudizio sinonimo di castigo (v. 11). Inoltre, l’angelo che esegue la sentenza viene descritto nell’atto di uscire dall’altare, dove erano state udite le voci dei martiri di Dio (cfr. Ap 6:9; 8:3-5). Questo giudizio è descritto come l’atto di giustizia che vendicherà le vittime di ogni tempo. È la manifestazione dell’ira di Dio (14:19). La messe introduce, ora, un messaggio di morte. I grappoli spremuti violentemente secernono il loro rosso succo, evocativo del sangue che scorre.242 Il profeta l’interpreta in questo senso (v. 20). L’immagine prosegue fino a evocare il campo di battaglia con i suoi cavalli immersi nel sangue fino alle redini. L’estensione della carneficina si indovina dalle cifre che ne misurano lo spazio: 1600 stadi, circa 300 chilometri. Il numero è, ovviamente, simbolico. Gioca sul numero 4 (4x4x100), indicando l’universalità geografica: «tutta la terra» (v. 6), la stessa cosa fa il libro di Daniele.243 Il castigo assume proporzioni mondiali. Inoltre, è il solo numero quadrato (4x4) dell’Apocalisse, assieme ai centoquarantaquattromila (12x12) e questa corrispondenza suggerisce un certo rapporto tra le due entità, rappresentate da questi numeri quadrati. Il versante della terra (numero 4) è la controparte di quello alleato con Dio (numero 12 = 4x3). L’operazione si svolge «fuori dalla città» (14:20). Anche in

241

Le soupir de la terre, pp. 162,163. Isaia 63:1-6; Lamentazioni 1:15. 243 Le soupir de la terre, p. 117. 242

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questo caso il linguaggio è simbolico, volto a descrivere il luogo tradizionale del giudizio delle nazioni, dei goyim.244 Coloro che appartengono al campo avverso, estraneo, nemico. Questo è il messaggio più sorprendente e più scioccante dell’Apocalisse. Esso ha sconvolto molti cristiani. L’illustre riformatore, Martin Lutero aveva eliminato dal canone biblico il libro dell’Apocalisse, perché vi è descritto un Dio adirato, un Dio di giustizia che fa scoppiare i grappoli con il loro succo color sangue, e non unicamente un Dio d’amore che viene a raccogliere i suoi. Quello che Lutero non aveva compreso, e molti cristiani con lui, è che l’amore non può esistere senza giustizia. I teorici dell’amore che dimenticano questa esigenza sono, nella maggior parte dei casi, come dei principini che non hanno mai conosciuto l’umiliazione dell’oppressione e l’amarezza dell’ingiustizia. L’amore privo dell’attenzione rigorosa della giustizia, non è autentico. Per questo motivo, nella Bibbia, la parola «giustizia» (tsedeq) è spesso messa in relazione con «l’amore e la bontà» (hesed).245 È questa la ragione per la quale, l’amore di Dio non è fatto solo di buoni sentimenti, parole dolci, sorrisi demagogici che intorpidiscono l’intelligenza. L’amore vero, implica un’azione reale di salvezza, un cambiamento radicale nella storia. Del resto, è impossibile essere liberati dalla sofferenza, essere salvati dalla morte, senza prima schiacciare il male completamente. È il messaggio contenuto nell’immagine del sangue che copre tutta la terra, che indica la portata totale del giudizio. Un’immagine scioccante, certo, ma che indica l’estrema serietà della condizione umana. Ma, l’intenzione della rappresentazione va più lontano. Presa in prestito dal vocabolario marziale, essa annuncia l’ultima battaglia di Harmaghedon che vedrà confrontarsi le forze dall’alto, con le forze malefiche dal basso (16:12-16). Le due visioni fanno eco l’una all’altra (16:13; cfr. 14:19). La mietitura

244

Gioele 4:2,12; Zaccaria 14:2-12. Salmo 36:11 e 103:17 sul rapporto tra la giustizia e l’amore, Cfr. H. Baruk, Tsedek, droit hébraïque et science de la paix, Paris, 1070, pp.15, 23.

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dei giusti e l’uva pigiata da cui fuoriesce il sangue (16:19; 14:20). Il Figlio dell’uomo che riunisce con amore il grano e il guerriero in collera che fa colare il sangue: sono lo stesso personaggio, Gesù Cristo. Paradossalmente, lo scopo di questa immagine, non è quella di terrorizzare, ma di rassicurare. È la buona notizia della vittoria finale che è qui proclamata. L’immagine grida forte, piena di speranza. La violenza che sconvolgerà gli ultimi momenti della storia terrestre è inaudita. Per poter salvare, Dio è obbligato a confrontarsi con il nemico. Egli è costretto a battersi e a colpire per strappare le pecore dagli artigli del «leone ruggente» e per spingere la storia, finalmente, nella giusta direzione, quella della vita, della giustizia e della pace.

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A partire dal capitolo 15, l’Apocalisse intraprende un nuovo corso. Nella prima parte, la profezia percorre la storia partendo dall’epoca del profeta, fino ai tempi della fine (da Gesù al giudizio finale). Nella seconda parte, la visione si concentra sui tempi della fine (giudizio), l’ultimo scorcio della storia umana, quella che precede la venuta di Dio. In questa terza parte, lo sguardo profetico si sposta sul periodo che segue la fine dei tempi: dal giudizio alla fondazione della nuova Gerusalemme. Per la prima volta, il corso della storia è spinto direttamente dalla presenza effettiva e totale di Dio. L’esperienza è completamente nuova e incomparabile, sia dal versante di Babilonia sia da quello della nuova Gerusalemme. L’ira di Dio non è mai stata espressa così fortemente e la distruzione, mai così radicale. L’Apocalisse parla di un terremoto mai visto prima (16:18). La potenza creatrice di Dio non è mai stata così intensa e la trasformazione tanto profonda. «Io faccio ogni cosa nuova», promette il Dio dell’Apocalisse (21:5).

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L’ira di Dio, descritta precedentemente come un grande tino colmo di vino, viene, ora descritta nel suo compimento. Dal tino si passa alla coppa. Di nuovo, siamo di fronte a un linguaggio simbolico. L’immagine della coppa è ripresa dall’Antico Testamento. Nel Medio Oriente antico, la coppa era usata nei riti di divinazione. Giuseppe si serve di una coppa per predire l’avvenire (Gn 44:5). Il profeta Geremia vede in essa il giudizio futuro delle nazioni: «Infatti così mi ha parlato il SIGNORE, Dio d’Israele: Prendi dalla mia mano questa coppa del vino della mia ira e danne da bere a tutte le nazioni a cui ti manderò. Esse berranno, barcolleranno, saranno come pazze a causa della spada che io manderò in mezzo a loro» (25:15,16).246 Preludio sulla chiusura del tempio Prima di togliere il velo sull’ultimo capitolo, quello relativo al giudizio di Dio, fedele al suo stile letterario, Giovanni apre il nuovo ciclo settenario con una pausa sul motivo del tempio. Il suo sguardo profetico vede oltre le sette coppe e anticipa lo svolgimento di questo ultimo conflitto tra il Dio, che viene dall’alto e le forze demoniache dal basso. Il profeta vede una scena di vittoria. Ciò che colpisce inizialmente, è una distesa d’acqua, liscia come un mare di vetro (Ap 15:2). Quest’immagine, già incontrata a proposito della visione del tempio, allude alle acque del firmamento e, per associazione di idee, evoca la creazione, che la Bibbia descrive come una vittoria sulle acque.247

246 247

Isaia 51:17; Zaccaria 12:2. Salmo 136:6; Isaia 40:12; 27:1.

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La visione seguente mette in scena l’immensa folla dei salvati (15:2-4). Il profeta li descrive come gli antichi israeliti dell’esodo. Come loro, essi si tengono in piedi sul mare, affermando la vittoria di Dio sugli elementi. Come quei progenitori della fede cantano l’inno di Mosè (Es 15) che celebra la vittoria di Dio sui nemici d’Israele. La fine del Kippur Dopo questa visione di vittoria che garantisce il futuro dei credenti, la profezia ritorna a parlare di avvenimenti passati. Sono nuovamente protagonisti i sette angeli di luce, in procinto di versare il contenuto delle loro coppe. Il profeta li vede uscire dal tempio, vestiti con l’abito che il sommo sacerdote portava nel giorno dell’espiazione: la tunica di lino finissimo (cfr. Ap 15:6; Lv 16:4). La scena ricorda il rituale che segna la fine del rito dell’espiazione, nel cerimoniale del Kippur: «Nella tenda di convegno, quando egli entrerà nel santuario per farvi l’espiazione, non ci sarà nessuno, finché egli non sia uscito e non abbia fatto l’espiazione per sé, per la sua casa e per tutta la comunità d’Israele» (Lv 16:17). In effetti, il tempio è pieno «di fumo a causa della gloria di Dio» (Ap 15:8), segno che nessuno, ormai, può più entrarvi e l’opera dell’espiazione è terminata. Lo stesso fenomeno caratterizza la fine della costruzione del santuario, nel libro dell’Esodo. Anche in quell’occasione, la nuvola di Dio invase lo spazio del santuario, manifestazione della gloria del Signore (cfr. Es 40:34). Anche in quella circostanza, nessuno poté entrare nella tenda (v. 35). Questo passo dell’Esodo allude alla fine dell’opera della creazione. La stessa espressione stilistica che conclude il racconto di quell’opera, nel libro della Genesi «compì la sua opera», riappare nel racconto del santuario (cfr. v. 33; Gn 2:2). La fine dell’opera di costruzione del santuario è vissuta, quindi, come la fine della creazione dell’universo. Questi due momenti sono, del resto, riempiti della gloriosa presenza di Dio. L’avvenimento riportato dall’Apocalisse, evoca, dunque, la fine dell’azione ricreatrice di Dio, un altro modo di suggerire la fine di quel processo di purificazione che caratterizza il Kippur. Nella realtà, la fine indica quella del giudizio. La sentenza è fis-

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sata. Questa verità è stata tramandata nella liturgia del Kippur, fin dai tempi più remoti, per arrivare ai giorni nostri. L’ultima preghiera del Kippur, recitata al tramonto, la neilah, che significa «chiusura», viene associata, nel Talmud, alla chiusura del tempio celeste.248 Secondo la tradizione ebraica, se il Kippur è il coronamento dei dieci giorni di preparazione, è nell’ora della neilah che «le nostre concezioni, i nostri destini sono definitivamente fissati e il nostro giudizio sigillato».249 È significativo il fatto che, in questa preghiera, la parola hotménu «suggellaci» sia diventata la parola chiave sulla quale venne forgiato il saluto tradizionale, alla fine del Kippur: hatimah tovah, «buon suggellamento!» L’Apocalisse ha ripreso questa tradizione per proclamare che è venuto il momento nel quale, la sorte di ognuno è segnata. Dio non perdona più. Persino l’intervento di Cristo e l’evocazione del suo sacrificio si fermano in quel punto. Si fatica molto a comprendere questa «durezza» di Dio che mal si concilia con la concezione di un «SIGNORE misericordioso e pietoso» (Es 34:6). Per molti cristiani, il messaggio di un Dio d’amore è degenerato in un sentimentalismo etereo, dove una filosofia astratta, che ha perduto contatto con la storia, si è affermata sulla potenza del pensiero biblico. Lo abbiamo già detto. La salvezza è un fatto reale, essa è un avvenimento, quindi ha dei limiti: se così non fosse, il cristianesimo sarebbe solo un’idea, un’emozione. Il «no» di Dio è l’indice della realtà della sua esistenza e della sua azione nella storia. È la dimostrazione che egli non è un’invenzione dello spirito umano. Questo blocco si spiega anche sul piano degli esseri umani. A forza di spingere in questa direzione, essi hanno finito per determinare il loro destino. Il sigillo di Dio altro non è che la ratifica, proveniente dall’alto, che essi non possono più tornare indietro. L’esempio del faraone d’Egitto riportato nel libro dell’Esodo, illustra perfettamente questo meccanismo. Nel corso della prima metà delle piaghe, il racconto biblico sottoli-

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Talmud de Jérusalem, Berakhot, IV, 5. Choulkhan Aroukh Abrégé, p. 570.

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nea che il faraone stesso indurì il suo cuore (cfr. Es 7:13-22; 8:15; 9:7,35).Solo nel corso della seconda parte delle piaghe, all’improvviso, il racconto biblico cambia la sua visuale: «Il SIGNORE indurì il cuore del faraone» (10:1,20,27; 14:4,8). A forza di intestardirsi nel peccato, si arriva a un punto di non ritorno, nel quale non si è più capaci di pentirsi. Questa osservazione d’ordine psicologico e morale troverà il suo compimento ultimo, nel tempo della fine; quando ognuno sarà, finalmente, determinato dalla deliberata ripetizione dei suoi atti e delle proprie scelte. Lo stesso principio apparirà successivamente, sotto la forma di un proverbio: «Chi è ingiusto continui a praticare l’ingiustizia; chi è impuro continui a essere impuro; e chi è giusto continui a praticare la giustizia, e chi è santo si santifichi ancora» (Ap 22:11). Nello stesso senso, durante le sette piaghe, come in un triste leit motiv, ricorre l’osservazione del profeta: «Essi non si ravvidero dalle opere loro...» (16:9,11,21). Qualsiasi tipo di angoscia o di speculazione, a proposito del tempo del suggellamento, è assolutamente fuori luogo. Noi non siamo ancora arrivati a quel punto della storia umana. Il fatto di chiedersi se lo viviamo, significa, di per sé, che non ci siamo ancora arrivati. Quando qualcuno si chiede se il perdono è ancora possibile, significa che egli vive il tempo della grazia. Il giorno in cui non sarà più possibile sperare, sarà quello in cui si sarà scelto di smettere di sperare. Un altro indizio per riconoscere il tempo del suggellamento è costituito dall’osservazione, obiettiva, dell’ira di Dio: le sette coppe versate sul mondo. Il tempo della chiusura del tempio, corrisponde all’inizio del ciclo delle coppe (15:8). L’ira di Dio già espressa nel sesto sigillo (6:17) e nel settimo schofar (11:18,19) viene annunciata come una futura minaccia, all’interno del messaggio del terzo angelo: «Chiunque adora la bestia e la sua immagine e ne prende il marchio sulla fronte o sulla mano, egli pure berrà il vino dell’ira di Dio versato puro nel calice della sua ira» (14:9,10). Le sette coppe si collocano cronologicamente, dopo la proclamazione dei tre angeli, mentre prendono il via nel momento in cui, il dominio della bestia (13:16) è un fatto compiuto. A 178

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cominciare dalla prima coppa, si comprende che il giudizio riguarda «gli uomini che hanno il marchio della bestia e adorano la sua immagine» (16:2). Le sette coppe non sono che una ripresa del giudizio che segue i sette schofar. Esse si sposano parallelamente al movimento delle trombe. Primo schofar terra (uomo)

Prima coppa terra (uomo)

Secondo schofar mare insanguinato

Seconda coppa mare insanguinato

Terzo schofar fiumi e sorgenti

Terza coppa fiumi e sorgenti

Quarto schofar il sole

Quarta coppa il sole

Quinto schofar abisso e tenebre

Quinta coppa abisso e tenebre

Sesto schofar l’Eufrate

Sesta coppa l’Eufrate

Settimo schofar ira di Dio: grandine, possesso del regno

Settima coppa ira di Dio: grandine, possesso del regno

Al pari degli schofar, anche le coppe seguono la sequenza della creazione (cfr. Gn 1:1 a 2:4). Il giudizio anche qui diventa cosmico. Ma, mentre gli schofar colpivano un terzo del territorio, gli effetti delle coppe si fanno sentire dappertutto: «la terra», «il mare», «il sole»... Il giudizio che si esercita attraverso queste piaghe, completa e compie quello parziale, iniziato con gli schofar. Questo dimostra che si tratta dell’ultimo giudizio di Dio. I sette schofar seguivano, passo dopo passo, le infedeltà della chiesa; le sette coppe si concentrano sugli ultimi atti della storia umana. Questo giudizio è esercitato in due fasi ben distinte: 179

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Capitolo 7

La prima fase è occupata dalle prime cinque coppe e copre la prima metà del capitolo (16:1-11). La denomineremo, fase delle ulcerazioni. Fase molto breve perché le vittime della quinta coppa soffrono ancora per le ulcerazioni prodotte dalla prima coppa. Questa fase è caratterizzata da un giudizio di Dio inerente alla condizione di peccato degli uomini e opera «secondo la legge della reciprocità».250 La seconda fase è occupata dalla sesta e settima coppa e copre la seconda metà del capitolo (16:12-21). Questa fase è chiamata Harmaghedon. Essa è caratterizzata da un giudizio di Dio che rende obbligatorio l’intervento diretto dall’alto in risposta alla rivolta delle forze del male, dal basso. La fase delle ulcere Il versante nemico viene definito fin dalla prima coppa: sono coloro che si sono lasciati marchiare dal dio straniero (16:2). L’ulcera maligna che colpisce è in stretto rapporto con l’iniquità che l’ha prodotta. Il marchio della bestia diventa ulcera. Sembra una sorta di ascesso che copre i corpi degli uomini e ricorda la lebbra dei maledetti dell’Antico Testamento (cfr. Dt 28:27; Lv 13); il marchio è visto come un segno esterno della corruzione interna che rode gli adoratori della bestia. La punizione si intravede all’interno dell’errore stesso. L’adorazione della bestia con tutto ciò che essa implica in termine di asservimento e di alienazione, porta in sé il suo proprio frutto di morte. Un sorriso ironico si indovina nella descrizione di questa prima piaga. Essa ricorda la sesta piaga d’Egitto di cui fu detto che avrebbe colpito tanto il popolo egiziano, quanto i sacerdoti e i maghi (cfr. Es 9:11). La malattia colpirà coloro che hanno ricevuto il marchio della bestia, fino a raggiungere la bestia stessa. Il dio di Babele è così smascherato, come lo furono nell’antichità gli dèi d’Egitto. Sono degli impostori. La prova: si grattano disperatamente come tutti gli altri. Il dio della bestia non esiste perché nessuno viene risparmiato. Persino i sacerdoti sono vittime della loro propria religione e non soltanto i semplici fedeli.

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J. Ellul, Architecture en mouvement, p. 193.

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Questa prima coppa come del resto il primo schofar, riguarda la terra. Ma questa volta, la piaga colpisce direttamente gli uomini. Le stesse bruciature del suolo si ritrovano sulla pelle degli uomini. L’ulcera maligna non esce dal nulla; essa è il risultato normale di un processo nel tempo. Il guaio osservato durante il primo squillo di schofar raggiunge il suo pieno sviluppo durante la prima coppa. L’arsura annunciata dal primo schofar rappresentava la condizione di desolazione all’indomani delle guerre con i barbari, nell’epoca in cui la chiesa si batteva per la supremazia. L’ulcera maligna scatenata dalla prima coppa, dovrebbe rappresentare uno stato di desolazione ancora più grave. Il male si amplifica e il suo stadio è assai più avanzato. Inoltre, ricordiamolo, il suono del corno toccava solo un terzo della terra, mentre la coppa si riversa su tutto il globo. Il profeta dell’Apocalisse descrive gli ultimi drammi della storia umana in termini che ricordano gli sconvolgimenti che hanno accompagnato la presa del potere della chiesa. Ma, ciò che all’inizio della storia cristiana si poteva osservare su un piano locale, alla fine dei tempi prenderà una proporzione mondiale. Poiché sono ancora visibili le sofferenze dell’ulcera fino alla quinta coppa, si deve ricavare che il grave malessere durerà molto tempo. Ciò che caratterizza la prima fase, è l’occupazione da parte del potere della chiesa, di tutta la terra. Tutto ciò implicherà abusi e intolleranza. Il profeta Daniele l’aveva previsto. Nel capitolo 11 del suo libro, egli annuncia che, alla fine dei tempi, il potere religioso rappresentato da Babilonia (il nord) avrebbe dominato su tutta la terra.251 L’ambizione di dominare tutta la terra risulta appena velata. Sia all’interno della chiesa sia all’esterno se ne parla, la si sogna, la si giustifica.252 Alla luce degli ultimi avvenimenti, questa lettura delle profezie di Daniele e dell’Apocalisse diventa molto più chiara. L’avvenire dirà in quale misura e in quale maniera esse si realizzeranno. Le due coppe seguenti sono versate sulle acque delle terra: sul mare, durante la seconda coppa, sui fiumi durante la terza.

251 252

Le soupir de la terre, pp. 241,247. Le soupir de la terre, p. 154.

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Capitolo 7

Le piaghe che seguono ricordano la prima piaga d’Egitto. L’acqua diventa sangue (cfr. Es 7:17-21). Nel contesto dell’antico Egitto, questa piaga assumeva un significato tutto particolare. Il Nilo era adorato come un dio e la sua acqua assicurava la vita agli abitanti del paese. L’esperienza degli ultimi nemici di Dio all’alba della liberazione finale, è estremamente simile a quella dei nemici di Israele all’alba dell’uscita dall’Egitto. Essi si accorsero improvvisamente che il dio sul quale essi confidavano con tutto il loro cuore, al quale credevano di dovere la vita, era in effetti generatore di morte. Invece dell’acqua produce sangue. Anche in quel caso, la spiegazione della piaga tiene conto della legge della reciprocità. «Essi... hanno versato il sangue dei santi» per questa ragione dovranno bere del sangue (cfr. Ap 16:6). Il castigo è inerente, una volta di più al peccato. Essi sono avvelenati dalla morte che hanno prodotto. La loro punizione è proporzionata al loro errore. L’angelo delle acque lo fa notare: «È quello che meritano» (v. 6), e l’angelo dell’altare, generalmente associato ai martiri, vittime dell’oppressione di Babele, gli fa eco: «Sì, o Signore, Dio onnipotente, veritieri e giusti sono i tuoi giudizi» (v. 7). Gli squilli del secondo e del terzo schofar annunciano anch’essi dei flagelli che, successivamente, colpiranno prima le acque del mare, poi, quelle dei fiumi, infine le sorgenti (8:8-11). Al tempo degli schofar, questa immagine si riferiva alla condizione spirituale degli uomini e delle donne dell’epoca. La chiesa, occupata ad assicurarsi il potere politico, perderà il senso di ciò che conta davvero. La vita spirituale, simboleggiata dall’acqua viva,253 mancava. Tutta la terra è colpita dagli effetti dello svuotamento delle coppe, le acque sono mutate in sangue. Non solo il mare (v. 3) ma anche i fiumi e le sorgenti all’interno dei continenti (v. 4). La condizione spirituale degli abitanti di Babele è tragica. Per l’esiliato di Patmos, l’immagine delle acque divenute sangue, è una delle più suggestive. Egli si trova sulla piccola isola, attorniata dal mare, i cui orizzonti sono chiusi. In tutte le dire-

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Salmo 36:8,9; Geremia 17:8.

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zioni, all’esterno come all’interno, Dio è morto. I suoi testimoni, i santi, i profeti, non vengono più ascoltati. L’acqua è diventata sangue. La gente di Babele non ha più speranza, non solo perché tutto è diventato sangue, ma anche perché essi non hanno più nulla per risvegliare i loro gusti e la nostalgia delle cose, un tempo, amate. La quarta coppa accentua il malessere causato dalla precedente. Alla mancanza d’acqua si aggiunge la canicola. Il cielo è vuoto, sgombro di nuvole. Non c’è più speranza. La siccità spirituale che affligge questa fase è terribilmente insopportabile. Anche in questo caso, il castigo è posto in relazione alla colpa, secondo il principio di reciprocità. Questa lezione è data attraverso un sorriso ironico che s’intravede nel quarto schofar. Come in quest’ultimo, la quarta coppa riguarda il sole (v. 8). Ma, mentre nel capitolo 8, il sole subiva un’eclisse parziale, qui, al contrario, la potenza del sole risulta moltiplicata. Esso brucia e il suo calore porta sofferenza e morte. Gli uomini sono le vittime della propria idolatria, il sole che hanno divinizzato è diventato la causa del loro dolore e del loro fallimento. La quinta coppa colpisce direttamente il cuore del problema: il trono della bestia (16:10). La piaga ricorda quella del quinto schofar. Le tenebre invadono la scena. Sotto l’influsso del quinto schofar, le tenebre erano prodotte dal fondo dell’abisso. È il tehom, il nulla della negazione di Dio, che accompagna le ideologie laiche scaturite dalla e dopo la Rivoluzione francese (9:1,2). In quell’epoca, le tenebre coprivano un terzo dello spazio (8:12); questa volta esse avvolgono ogni cosa (16:10). In passato, la negazione di Dio era propria di una potenza straniera antireligiosa. Ora, fa parte integrante della religione. Per riprendere lo scenario descritto dal profeta Daniele, il sud si presenta in totale integrazione con il nord (11:43).254 Babele diventa maestra di quell’arte di negare Dio che caratterizzava il faraone d’Egitto. Ancora una volta, il giudizio deriva dall’iniquità commessa. Per aver adorato la bestia, il cui trono era buio e vuoto, gli uomini erediteranno tenebre e un nulla devastante. Essi sono, ancora una volta, vittime della loro propria religione di morte.

254

Le soupir de la terre, pp. 241,248,249.

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Il flagello ricorda la nona piaga d’Egitto, la penultima, quella che precede l’intervento finale e mortale di Dio, contro i primogeniti d’Egitto. Nel libro della Sapienza, un apocrifo del I secolo, la piaga delle tenebre assume una dimensione cosmica: le tenebre, uscite dal soggiorno dei morti, sono presentate come il castigo, per eccellenza che riassume e conclude tutti gli altri (Sapienza 17). Nello stesso modo, la quinta coppa contiene tutti i mali delle precedenti. Si soffre a causa delle ulcere portate dalla prima coppa, come dei dolori che accompagnano le altre coppe. L’intensità della pena raggiunge il massimo. L’odio contro Dio si è sviluppato in proporzione ai mali che causano la sofferenza. Si è passati dall’idolatria presente nella prima piaga (16:2) alla blasfemia contro «il nome di Dio che ha il potere su questi flagelli» (16:9), infine la blasfemia è contro «il Dio del cielo» (16:11), il Dio assoluto dell’universo. Sempre più, gli uomini capiscono che si sono sbagliati. Ma, invece di cambiare strada, s’intestardiscono e si rivoltano contro colui che dovrebbero riconoscere come vero Dio. Dalla confusione religiosa che li portava lontano da Dio, passano all’odio cosciente e deliberato rivolto contro Dio. Il loro comportamento diventa simile a quello del faraone d’Egitto. Costretto a riconoscere l’esistenza di Dio, spinto dalle piaghe, egli confermò le sue posizioni, tanto da diventare sempre più aggressivo verso Dio stesso. Il conflitto, faccia a faccia, diventa inevitabile. La fase di Harmaghedon La sesta coppa, al pari del sesto schofar, colpisce l’Eufrate (cfr Ap 16:12; 13:14). Questa volta, l’evocazione è più specifica. Le acque del fiume di Babilonia si seccano per preparare «la via ai re che vengono dall’Oriente!» (16:12). Nella tradizione biblica, il prosciugarsi dell’Eufrate è associato alla conquista di Babilonia da parte di Ciro nel 539 a.C.: «Io dico all’abisso: Fatti asciutto. Io prosciugherò i tuoi fiumi! Io dico di Ciro: Egli è il mio pastore; egli adempirà tutta la mia volontà» (Is 44:27,28 cfr. Ger 50:38). Questa associazione d’idee si spiega con la particolare strategia bellica di cui parla lo storico greco Erodoto (484-425 a.C.): «Ciro dispose il grosso del suo esercito al punto di ingresso del 184

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fiume, là dove esso penetra in città, e gli altri soldati, invece, alla parte opposta, dove il fiume esce e diede ordine alle sue forze che quando avessero visto il fiume divenuto guadabile, per quella via penetrassero in città... Infatti, per mezzo di un canale, avendo immesso le acque dell’Eufrate nel bacino scavato che era allo stato di palude, fece sì che abbassandosi il livello del fiume, il vecchio letto diventasse guadabile. Ottenuto un tale risultato, i persiani che avevano ricevuto gli ordini proprio in vista di questo, quando l’Eufrate si fu abbassato tanto da non giungere nemmeno a metà coscia d’un uomo, ne seguirono il corso ed entrarono in Babilonia» (Storie, I, 191, trad. L. Annibaletto). La frase relativa ai «re che vengono dall’Oriente» (16:12) è un’allusione a Ciro, la cui apparizione è presente nella memoria d’Israele come un atto salvifico di Dio proveniente dall’oriente. «Io ho suscitato Ciro, nella giustizia, e appianerò tutte le sue vie; egli ricostruirà la mia città e rimanderà liberi i miei esuli senza prezzo di riscatto e senza doni, dice il SIGNORE degli eserciti» (Is 45:13). «Chi ha suscitato dall’oriente colui che la giustizia chiama sui suoi passi? Egli dà in sua balia le nazioni e lo fa dominare sui re» (41:2; cfr. 41:25). Occorre notare che l’avvenimento della caduta di Babilonia ricopre una grande importanza nella storia d’Israele. Il libro di Daniele ne fa un perno sul quale ruota tutta la sua struttura (1:21; 6:28; 10:1).255 È significativo, tra l’altro, che il canone della Bibbia ebraica termina su questa citazione di Ciro (2 Cr 36:22,23). Infatti, è proprio grazie a Ciro, il re suscitato dall’oriente, che le porte dell’esilio furono aperte e che il popolo ebraico poté ritornare in patria per ricostruire una nuova Gerusalemme e riscoprire la propria identità perduta. Il ritorno dall’esilio è dunque vissuto come una nuova creazione. Come preludio all’apparizione di Ciro, il profeta Isaia evoca l’atto della creazione: «Così parla il SIGNORE, il tuo redentore, colui che ti ha formato fin dal seno materno: Io sono il SIGNORE, che ha fatto tutte le cose; io solo ho spiegato i cieli, ho

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Le soupir de la terre, p. 138.

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disteso la terra... Io dico di Ciro: Egli è il mio pastore; egli adempirà tutta la mia volontà, dicendo a Gerusalemme: sarai ricostruita! E al tempio: le tue fondamenta saranno gettate!» (44:2428; cfr. 45:18; 43:15). L’Apocalisse, per poter annunciare l’evento della sesta coppa, si appoggia sul ricordo di Ciro e il ritorno dall’esilio, nella prospettiva della ricostruzione di Gerusalemme. Anche nel nostro libro, la caduta della Babilonia simbolica e la battaglia che la provoca, preparano la liberazione finale e la creazione di una nuova Gerusalemme, da parte di Dio. Due fronti sono qui a confronto, l’uno contro l’altro. Da una parte, «i re che vengono dall’oriente» rappresentano le forze del Dio che salva, il Dio di Gerusalemme. Dall’altra parte, il versante dei «re di tutta la terra» (Ap 16:14) rappresenta le forze del male, le forze di Babilonia. In questo schieramento, si mobilitano tutti i poteri nemici di Dio e, in modo particolare, quei poteri demoniaci che il profeta vede in forma di rane. Anche la sesta coppa richiama la seconda piaga dell’Esodo (cfr. Es 7:26-8:8-11). La rana, adorata in Egitto come dea della fertilità hiqit, invase rapidamente i luoghi più privati: la camera da letto, lo stesso letto (7:28). Anche in quel caso, il giudizio di Dio fa risaltare con umorismo la vanità deludente dell’idolatria egiziana. Il dio che era, da sempre, considerato propiziazione della fertilità ne diventa un concreto ostacolo. Il lato comico viene dal fatto che i maghi, nel tentativo di dimostrare il loro potere, rendono ancora più grave la piaga. Nell’ebraismo dell’epoca di Giovanni, si associavano le rane ai maghi ingannatori e agli spiriti generalmente abitanti le zone acquatiche.256 Le rane rappresentano dunque un potere di origine soprannaturale. L’Apocalisse le definisce esplicitamente «spiriti di demoni» (16:14) che escono dalla bocca dei tre nemici di Dio: 1. Il dragone che rappresenta il diavolo (Ap 12). 2. La bestia del mare che rappresenta l’istituzione di Babele (13:1-10). 3. La bestia della terra chiamata qui «falso profeta».

256

C. Thompson, Semitic Magic, its Origins and Development, Jerusalem, 1971, pp. 28-32,90.

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Delle tre bestie, quest’ultima è la sola a ricevere un nuovo nome che, a questo punto, si carica di significati religiosi. Fino a ora, la bestia era vista solo per la sua dimensione politica. Nel contesto di Harmaghedon, prevalgono i connotati religiosi. Viene descritta come «un falso profeta», cioè, un funzionario al servizio dell’istituzione, invece che di Dio (cfr. Ger 5:30,31; 23:14). Essa si configura come un profeta di «pace», rassicurante, mentre occorrerebbe un’azione di opposizione e di disturbo (6:14; 8:11). Un profeta apparentemente ispirato, dotato della ruah, lo spirito, ma che non presenta la parola oggettiva di Dio, davar (5:13; 23:16). Il falso profeta rappresenta gli Stati Uniti, nel ruolo di sostegno del potere di Babele. È il sistema politico che spinge per creare un governo cristiano conservatore, di destra. D’altra parte, pensiamo a tutte le azioni politiche-religiose, intraprese per tentare di «riunire» i movimenti religiosi cristiani, con l’obiettivo di realizzare un medesimo programma. In ogni caso, che esso agisca in chiave politica, ecclesiastica o cultuale, è sempre la stessa meta a essere perseguita: vale a dire, condurre «tutti gli abitanti della terra ad adorare la prima bestia» (Ap 13:12). Curiosamente, i metodi del falso profeta sono d’ordine magico, sovrannaturale, simili a quelli «degli spiriti dei demoni». Per caratterizzarli l’autore utilizza la stessa parola. Esso seduce per mezzo di «prodigi» (Ap 13:14 cfr. 16:14). Il carattere fantasioso di questa descrizione non deve scoraggiarne l’interpretazione. L’attualità conferma sempre di più l’esattezza delle profezie apocalittiche. Certo, lo scenario descritto dalla profezia sembra ancora lontano da noi. Negli Stati Uniti e altrove, si possono notare molti indizi di una tendenza sempre più definita. Il miracolismo a sfondo paranormale, le apparizioni sempre più frequenti della Vergine e il relativo mercato che prende vita attorno a esse, l’interesse acuto per i fantasmi, i defunti, gli spiriti e i riti magici, tutto questo viene, da una parte sfruttato dalla credulità popolare, dall’altra diventa oggetto di studi specializzati, promossi in modo speciale, proprio negli Stati Uniti. Anche se gli avvenimenti profetizzati sembrano sfidare la nostra mentalità razionale, le notizie che ci giungono ogni giorno dai mezzi di comunicazione, rendono ragionevoli e plausibili le diagnosi dell’Apocalisse. 187

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Quale sia l’identità di queste «rane», che esse rappresentino dei poteri paranormali o degli artifici posti dal mondo della politica, l’obiettivo perseguito è sempre lo stesso: sedurre e radunare i re di tutta la terra (16:14) per opporsi alla venuta del Dio che scende dall’alto. Il piano non è inedito. Risale ai tempi della torre di Babele: «Poi dissero: Venite costruiamoci una città e una torre la cui cima giunga fino al cielo; acquistiamoci fama, affinché non siamo dispersi sulla faccia di tutta la terra» (Gn 11:4). Da allora, sempre la stessa ambizione ossessionerà i seguaci di Babele: unirsi per elevarsi fino al cielo, «alla porta di Dio». «Babele» vuole prendere il posto di Dio, restando ben ancorata al governo di sistemi terreni. Per la prima volta, dai tempi di Babele, questa preoccupazione, assumerà una portata mondiale. Tutta la terra sarà implicata nel progetto di usurpazione dell’autorità divina. Il libro di Daniele aveva previsto, anch’esso, un simile consenso tra le nazioni. Alla fine di tutti i conflitti, il profeta ebreo aveva visto alzarsi il fronte di tutti i poteri della terra, il nord e il sud, contro «il bel monte santo» (11:45), che altro non è se non la montagna di Sion, la Gerusalemme celeste.257 Questa è una vera e propria guerra mondiale, l’ultima, e questa volta non vede gli uomini affrontarsi tra di loro, ma al contrario riunisce tutte le creature della terra nello stesso combattimento cosmico contro la montagna sacra di Dio. L’Apocalisse dà un nome ebraico a questa ultima battaglia: «Harmaghedon» (Ap 16:16). Questa preoccupazione d’ordine linguistico e semantico traduce nella linea dell’onomastica biblica258 l’intenzione di rivelare attraverso il nome il senso profondo di questo ultimo conflitto. «Harmaghedon» significa «monte di Meghiddo». Il parallelo esistente tra Daniele e Apocalisse suggerisce un rapporto stretto tra la montagna di Meghiddo e Gerusalemme, «il bel monte santo». Il solo passo della Bibbia dove questi motivi si trovano riuniti (montagna,

257

Le soupir de la terre, pp. 243-250. A. Straus, Nomen-Omen, la stylistique des nom propres dans le Pentateuque, Rome, 1978, pp. 199,200.

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Meghiddo, Gerusalemme) si trova nel libro del profeta Zaccaria. Quello è l’unico passo nel quale la parola Meghiddo è impiegata sotto questa forma (cioè con la terminazione di «on»): «In quel giorno ci sarà un gran lutto in Gerusalemme, pari al lutto di Adadrimmon nella valle di Meghiddo» (Zc 12:11). Due ragioni spiegano questa forma eccezionale della parola «Meghiddon», al posto di «Meghiddo».259 1. Una ragione d’ordine poetico: l’intenzione di fare la rima tra Meghiddon e Adadrimmon, cosa abbastanza corrente nell’onomastica biblica.260 2. Una ragione d’ordine retorico: l’intenzione di utilizzare la forma antica per meglio evocare un avvenimento memorabile del passato entrato nella tradizione.261 Il profeta dell’Apocalisse associa nel medesimo destino, la montagna har santa, Gerusalemme, e la valle di Meghiddon, producendo, in questo modo, la combinazione Har Meghiddon, che significa, monte di Meghiddon. La montagna sacra si qualifica sulla base del ricordo collegato alla valle di Meghiddon. La forma di questa espressione è tipica della sintassi ebraica del genitivo qualificativo (tipo il complemento del nome). La sua funzione corrisponde a quella del nostro aggettivo qualificativo. Così, per esempio, «montagna santa» si direbbe letteralmente, in ebraico, «montagna di santità» (Dn 11:45); similmente, «giusta bilancia», diventa «bilancia di giustizia» (Lv 19:36, letterale), ecc. Inoltre, l’espressione dell’Apocalisse «Harmaghedon» è collegata ai termini usati da Zaccaria, Adadrimmon e Meghiddon, dal gioco di assonanza (paronomasia), tecnica molto frequente nei nomi propri della Bibbia:262 Har Adadrimmon

Meghiddon Meghiddon

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Giosuè 12:21; 17:11; Giudici 1:27; 5:19; 1 Re 4:12; 2 Re 9:27. Deuteronomio 32:15(wayishman/yeshurun); 2 Re 8:28,29 (yoram/Aram). 261 Cfr. il nome di Schinéar in Daniele 1:2; cfr. Le soupir de la terre, p. 19. 262 Per esempio, Jizreel è composto da zara (seme) e da El (Dio) per dire che, attraverso quel nome Dio darà il suo seme (Os 2:24,25); Cfr. M. Garsiel, Biblical Names, p. 229. 260

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L’espressione «monte di Meghiddon» (Harmaghedon) indica di per sé, il luogo della battaglia. Si tratta di una vallata. Il riferimento a Meghiddo non significa che bisogna collocare l’avvenimento, là nella valle di Jizreel, con il passato storico che evoca: la battaglia di Barac contro Sisera (cfr. Gdc 5:19) o quella di Jeu contro Acazia (2 Re 9:27). Se Meghiddo è chiamata montagna, har, nonostante essa sia una valle, è per alludere al Carmelo, alla sfida tra Elia e i profeti di Baal (2 Re 18:20-40). Il monte Carmelo si trova a circa dieci chilometri da Meghiddo. Il profeta parla di «montagna» di Meghiddo (Harmaghedon) perché ha in mente specificatamente Gerusalemme. Il luogo di battaglia non è, però, la valle di Jizreel, ma, come previsto da Daniele, «il bel monte santo» (11:45). Tutti i re della terra, tutti i poteri radunati, hanno lo stesso obiettivo: il controllo di Gerusalemme. Non si tratta, qui, della Gerusalemme dello stato moderno d’Israele. Nel contesto particolare dell’Apocalisse, dove il linguaggio è pregno di simbolismi, la Gerusalemme in questione è d’ordine spirituale. Nel libro di Daniele, la montagna gloriosa di Sion, rappresenta spesso il regno celeste di Dio. Nel capitolo 2, alla fine dei regni umani, votati alla sparizione, il profeta vede il regno di Dio, sotto forma di una montagna (vv. 35,44,45). Tuttavia, alla fine del capitolo 11, l’orizzonte di speranza si configura come «il bel monte santo» (11:45). Occorre ricordare che il tema di Gerusalemme e della montagna di Sion gioca un ruolo predominante nella formulazione biblica della speranza. Per questo, la Sion della speranza è ben alta nei cieli (cfr. Sal 47:2; Is 14:13); è la casa di Dio (Sal 78:68; 132:13), essa possiede tutte le qualità dell’Eden (Ez 47:1,2; Gl 3:18; Zc 13:1; Ap 22:1,2). Nell’Antico e nel Nuovo Testamento, Gerusalemme è diventato il nome della città celeste. Una tale mentalità non si crea da un giorno all’altro. Per arrivare a questo punto, a questo rigetto deliberato e definitivo del regno che viene dall’alto, è stato necessario, come per il faraone, passare da numerose fasi di ribellione e di indurimento. Il pericolo minaccia tutti; nella misura in cui gli errori non vengono riconosciuti, poco per volta, progressivamente, ci ritroveremo a non attendere più, quella speranza che scende dall’alto. 190

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Il profeta cambia improvvisamente di tono. Dal messaggio profetico che annuncia avvenimenti futuri, egli passa alla lezione esistenziale che ci riguarda, qui e ora: «Ecco, io vengo come un ladro; beato chi veglia e custodisce le sue vesti perché non cammini nudo e non si veda la sua vergogna!» (Ap 16:15). Il messaggio risuona come un appello per tutti i borghesi di Babele, i quali hanno preso l’abitudine di confidare nella forza e nel genio del dio che possono vedere. L’avvertimento non s’indirizza solo ai materialisti miscredenti e atei. Esso si rivolge al cuore della comunità dei «santi», a coloro che costituiscono l’ultimo anello della testimonianza del vero Dio, alla chiesa degli ultimi tempi. La beatitudine riprende il consiglio particolare dato ai cristiani di Laodicea (3:18). Perfino coloro che si caratterizzano per la proclamazione della speranza e s’identificano con l’annuncio della venuta del regno di Dio sono al riparo dalla sindrome di Babele. I germi sono riconoscibili: istituzionalismo, politica dei grandi numeri senza autentiche conversioni, chiesa per la chiesa, strutture fine a se stesse. L’atteggiamento di conquista di un successo immediato, che non guarda più al regno di Dio futuro, proveniente dall’alto e da lui costruito, può essere Babele. Da questo rapido colpo d’occhio, gettato sui messaggeri del tempo della fine, emerge chiaramente che, nelle file di Babele, si possono incontrare dei fedeli di Laodicea. La profezia li interpella direttamente, non senza un filo d’ironia. Si può essere nudi, esporre le proprie parti intime, e nello stesso tempo sfilare, convinti di essere ben vestiti. Il rischio che corrono i credenti dell’ultima ora è di essere giunti alla perfezione religiosa e alla pienezza della conoscenza teologica; l’illusione orgogliosa di non avere «bisogno di niente» (v. 17). L’appello contenuto nella profezia li spinge al risveglio e alla presa di coscienza. Perché, non c’è condizione peggiore di chi adora il dio di Babele, pur essendo nelle file di Gerusalemme. L’idolatria si fonda, qui, nel sentimento della propria giustizia e nella dolce convinzione di essere nella verità. Attraverso la citazione di Harmaghedon, il profeta non si accontenta di fissare il luogo della battaglia, egli ne presenta lo svolgimento. Con l’allusione a Hadad Rimmon, Harmaghedon, evoca all’orizzonte della storia, una calamità straordinaria: «In 191

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quel giorno ci sarà un gran lutto in Gerusalemme, pari al lutto di Adadrimmon nella valle di Meghiddo» (Zc 12:11). Zaccaria annuncia al suo popolo che esso sperimenterà un lutto comparabile a quello di Adadrimmon. Il profeta ebreo parla di un’antica leggenda cananea, molto conosciuta dagli israeliti della sua epoca e giunta a noi attraverso le tavolette di Ras Shamra.263 Si trattava della storia del dio Hadad, dio del tuono che piange e si lamenta per la morte del suo unico figlio, Aleyin, ucciso dalla dea Mut. Quanto a Rimmon, esso ci è noto come un dio arameo (cfr. 2 Re 5:18). La sua associazione al dio cananeo Hadad si spiega con le relazioni molto intense, esistenti tra le due culture. Rimmon proviene dalla radice rmm che, nella letteratura semitica occidentale (cfr. Is 33:3), si riferisce al tuono, altro nome del dio Hadad. Il mito del dio Hadad (Rimmon), nel contesto dell’antica Palestina, era quanto mai opportuno, dove la morte del dio Baal, dio della vegetazione, veniva celebrata dai fedeli cananei.264 Ma, oltre a questa allusione alla mitologia pagana, nel testo di Zaccaria s’intravede il ricordo della tradizione d’Israele. Nella valle di Meghiddo, in effetti, Israele conobbe una delle sofferenze più grandi della sua storia. In quella valle, il re Giosia fu ucciso dal faraone Neco, nel 609 a.C. Il verso delle Cronache che riporta l’accaduto, (cfr. 2 Cr 35: 20-27) ha diversi motivi in comune con il testo di Zaccaria. Entrambi accordano importanza alla partecipazione delle donne a questo lutto (cfr. v. 25; Zc 12:12-14) e collegano il lutto di Meghiddo a quello di Gerusalemme (cfr. 2 Cr 35:24; Zc 12:11). Infine, sono gli unici due testi della Bibbia ebraica a impiegare l’espressione «nella valle di Meghiddo» (2 Cr 35:22; cfr. Zc 12:11). Questa coincidenza letteraria è un segno evidente che Zaccaria e l’autore della cronaca si riferiscono allo stesso avvenimento, la morte di Giosia. Occorre ricordare che la personalità di Giosia si prestava bene a questa memoria. È il re che ha governato più a lungo di

263 H.H.

Rowley, The Rediscovery of the Old Testament, 1945, p. 49; D.W. Thomas, The documents from Old Testament Times, 1958, p. 133. 264 J. Aistleitner, Die mythologischen und kultischen Texte aus Ras Shamra, Budapest, 1959, pp. 17,18.

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tutti, essendo stato, anche, il riformatore per eccellenza della storia d’Israele. Inoltre, egli fu l’unico a essersi impegnato in un opera di riforma estesa al nord e al sud del paese; la sua azione riguardava sia l’amministrazione sia la vita religiosa, la politica e la spiritualità. Il libro delle Cronache riferisce che egli fu l’ultimo re d’Israele a fare «ciò che giusto agli occhi del SIGNORE» (2 Re 22:2). La sua tragica fine portò al crollo del regno di Giuda. Il dramma vissuto dal popolo diede vita a una celebrazione annuale che perdurava all’epoca dell’autore delle Cronache.265 Se «la valle di Meghiddo» è, di fatto, un riferimento alla morte di Giosia, la menzione ad Hadad Rimmon266 accentua il carattere particolare di questo lutto. Il nome di Harmaghedon porta con sé il destino che aspetta tutti gli idolatri di Babele: un lutto senza precedenti. Un po’ più avanti, il capitolo 18 dell’Apocalisse, conferma questa previsione. La caduta di Babilonia è accompagnata da una disperazione mai vista. La parola chiave «lutto», è utilizzata molte volte nel testo (18:7,8,11,15,19). Il rituale tradizionale del lutto viene presentato esattamente: polvere gettata sul capo, pianti, lamenti (18:9,10,15,19). Nel riportare alla memoria Hadad Rimmon che annuncia la morte del primogenito, Harmaghedon ricorda la decima piaga d’Egitto (Es 12:29-36). La coincidenza è flagrante e intenzionale. Il lutto per i primogeniti d’Egitto è inquadrato come un avvenimento unico: «Vi sarà in tutto il paese d’Egitto un gran lamento, quale non ci fu mai prima, né ci sarà mai più» (11:6). Siamo di fronte a un’altra lezione contenuta nel nome Harmaghedon; la caduta di Babele causerà un lutto pari a quello dell’esodo d’Egitto. Per gli antichi egiziani, la morte dei primogeniti, rappresentava molto più che la perdita di ciò che era loro più caro. Il loro futuro era compromesso, poiché veniva a mancare la successione nei ranghi dei notabili, dei maghi e dei

265

Il libro delle Cronache, scritto al tempo di Esdra e d’Artaserse, risale al V secolo a.C., il libro di Zaccaria risale al VI secolo a.C. 266 Girolamo identifica questo nome con una città, chiamata al suo tempo Maximianopolis (In Zachariam, PL 25, col 1515) e che si trova a circa 3 chilometri a sud di Meghiddo. Oggi prende il nome di Rummaneh.

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sacerdoti del regno. Significava la fine della loro cultura e religione, essendo il primogenito considerato l’incarnazione stessa dello loro divinità. In modo significativo, il testo dell’Esodo interpreta quest’ultima piaga come un fare «giustizia di tutti gli dèi d’Egitto» (12:12). Nel contesto biblico, dove la nozione di primogenito si applica al sacerdote,267 a Israele,268 al re Messia,269 e, nel Nuovo Testamento, a Gesù stesso,270 il lutto prende un senso ancora più terribile. Significa la morte della speranza. D’altra parte, quest’allusione all’ultima piaga d’Egitto è portatrice di speranza. È il Pessah del popolo di Dio. Israele, il primogenito di Dio viene risparmiato. Gli Israeliti sono tutti in piedi, i fianchi cinti, il bastone in mano (v. 11). Questo è il giorno in cui «il SIGNORE fece uscire i figli d’Israele, ordinati per schiera, dal paese d’Egitto» (v. 51). La decima piaga significa, per il popolo di Dio, la fine della sua miseria e la vittoria sul nemico; nello stesso tempo, fa apparire all’orizzonte la terra promessa. La battaglia di Harmaghedon scoppia, infatti, durante la settima coppa. Per la prima volta, il castigo viene dall’alto e i suoi effetti sono definitivi. La voce che lo annuncia sorge dal tempio celeste. È la voce di Dio che dice: «È fatto» (Ap 16:17). Siamo di fronte a un’espressione idiomatica che si ritrova al capitolo 21:6, associata al Dio del principio e della fine, «l’alfa e l’omega». L’irriducibilità dei nemici di Dio è giunta, ora, al suo ultimo stadio. Per la prima volta, Babele si dichiara, apertamente contro Dio. Le bestemmie a lui rivolte, raggiungono il parossismo. Durante la quarta piaga, gli uomini bestemmiavano «il nome di Dio» (16:9), durante la quinta, contro «il Dio del cielo» (16:11), giunti, infine alla settima, si rivolteranno contro Dio, semplicemente. Notiamo questa progressione che diventa universale e assoluta. Si era partiti dal «nome di Dio», semplice astrazione, per passare al «Dio del cielo», cioè appartenente a un regno lontano, vivente in un’altra dimensione, per finire alla persona di

267

Numeri 3:11-13,40; 8:14-18. Esodo 4:22; Geremia31:9. 269 Salmo 89:28. 270 Matteo 1:25; Luca 2:7; Ebrei 1:6; Colossesi 1:18; Apocalisse 1:5; 1 Corinzi 15:22. 268

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Dio, contro la quale si vuole combattere coscientemente. Per la prima volta, la piaga colpisce il mondo intero e non solo gli uomini. La natura ne è sconvolta. Isole e catene montuose scompaiono (16:20). Si possono cogliere, ancora, allusioni all’esperienza d’Egitto, ma, qui, la portata è universale. La quinta piaga è caratterizzata dalla violenza inaudita della grandine (Ap 16:21; cfr. Es 9:22). A due riprese, il racconto dell’Esodo sottolinea che essa cadde «sulla gente, sugli animali e sopra ogni erba dei campi» (vv. 22,25). La coppa della collera di Dio, fino a ora soltanto annunciata, (Ap 14:8,10) troverà, d’ora in poi, un pieno adempimento: «Dio si ricordò di Babilonia la grande per darle la coppa del vino della sua ira ardente» (16:19). Come nel racconto della torre di Babele, l’intervento di Dio produce la dispersione degli edificatori della città. L’unità che avevano realizzato con tanti sforzi e tanta cura viene totalmente destabilizzata. «La grande città si divise in tre parti» (16:19). I tre poteri che avevamo trovato riuniti sotto la stessa bandiera, il dragone (i poteri occulti), la bestia (il potere politico religioso di un cristianesimo di vertice), il falso profeta (Stati Uniti), si trovano, a questo punto, disgregati. Da questa frammentazione delle tre potenze ne consegue la caduta delle nazioni (16:19). L’avvenimento corrisponde allo scenario del sesto schofar, nel quale i tre poteri erano dipinti nell’atto di influenzare i re della terra (16:13,14). La confusione è uno dei segni della caduta di Babele. Interludio: la bella e la bestia In questa caotica transizione, Dio si ferma un istante per dare una spiegazione. «Vieni, ti farò vedere il giudizio che spetta alla gran prostituta che siede su molte acque. I re della terra hanno fornicato con lei e gli abitanti della terra si sono ubriacati con il vino della sua prostituzione» (17:1,2). Non è un caso che il suo portaparola è un angelo associato alle sette coppe (17:1). L’intenzione della sua rivelazione è giustificare il castigo insito in essa. Il gesto del grande giudice è sorprendente. Dio non si comporta da despota che «sa quello che fa» e che «ha le sue ragioni». Egli ama e rispetta l’essere umano che ha creato, tanto da rendergli conto dei suoi atti, assicurandosi l’approvazione e la comprensione profonda delle sue creature. 195

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Si tratta dell’ultimo interludio. Fino a questo momento, gli interludi riguardavano i redenti, la cui salvezza, ancora al di fuori della storia, era vissuta nella prospettiva della speranza (7; 10:11-14; 15:1-5), al contrario di Babele, che è una realtà presente. In questa terza e ultima parte dell’Apocalisse (capp. 1522) la visione del salvati è rappresentata nel suo divenire storico, mentre l’interludio su Babele, questa volta, porta il lettore fuori dalla realtà. L’Apocalisse parla di speranza e di giudizio anche nel ritmo della sua struttura. La bella La Babele dell’interludio è presentata nelle vesti di una donna, i cui tratti ricordano, nel suo contrario, la donna del capitolo 12 che rappresenta il popolo di Dio, ancora alle prese con la storia di quaggiù. Entrambi hanno una dimensione cosmica, esse occupano un posto centrale nell’universo, sono associate al deserto (cfr. 17:3, 12:6,14) e al dragone (cfr. 17:3,7; 12:4,13). Il contrasto tra le due figure femminili risalta in modo sconvolgente. La prima donna era sospesa nel cielo e incoronata di stelle (12:1); la seconda è seduta sulle acque e si trova circondata da re debosciati (17:1,2). La prima era perseguitata e oppressa dal dragone (12:4, 13-17); la seconda è unita al dragone (17:3) e opprime il popolo di Dio (17:6). La prima era una profuga, sperduta nell’esilio (12:6); la seconda, istituzionalizzata, domina, vestita come una regina (17:4). La prima, soffre per l’isolamento nel deserto (12:6,14); la seconda, festeggia nella città (17:4). La prima è nutrita da Dio (12:6,14); la seconda è ebbra del sangue dei santi (17:6). La prima è la madre del Messia (12:5) e del rimanente d’Israele (12:17); la seconda è la madre delle prostitute (17:5). È chiaro ormai, che la donna del capitolo 17 è la perfetta antitesi di quella del capitolo 12. La lezione insita in questo rapporto si esplicita alla luce della metafora coniugale. Nell’Antico Testamento, come abbiamo già considerato, Israele è spesso paragonato a una donna, alla sposa di Dio; e la sua infedeltà è assimilata all’adulterio e alla prostituzione.271 L’Apocalisse parla lo stesso linguaggio.

271

Osea 5:3; Ezechiele 16:15; 23:1.

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L’identità della prostituta dell’Apocalisse non rappresenta davvero un enigma. Non si tratta, né di una potenza pagana né di un potere politico. Nella linea delle immagini della Bibbia, la prostituta dell’Apocalisse simboleggia l’infedeltà del popolo di Dio. Nella prospettiva del Nuovo Testamento, si tratta di quella chiesa che ha deviato e si è compromessa con gli «amanti» della terra. Questa prostituta è d’altra parte esplicitamente identificata con la potenza di Babele. Il nome che la designa, «Babilonia la grande» (17:5), si riferisce alla sua natura religiosa, tradendone, nello stesso tempo, l’orgoglio e l’ambizione di prendere il posto di Dio. Questa rivelazione è davvero sorprendente. Agli inizi dell’era cristiana, il profeta ne è completamente sconvolto. «Quando la vidi, mi meravigliai di grande meraviglia» (17:6). La bestia Per risolvere il mistero rappresentato dalla prostituta e rispondere alla perplessità del profeta, l’angelo fissa l’attenzione sul mistero della bestia alla quale questa figura viene associata. La formula del suo essere è data come un enigma in quattro tempi: A 1. 2. 3. 4.

«La bestia che hai visto era e non è essa deve salire dall’abisso e andare in perdizione» (17:8).

Questa definizione della bestia ricalca la definizione stessa di Dio che «era, che è, e che viene» (4:8; cfr. 1:4,8). Questa coincidenza conferma l’identità e l’ambizione del potere che si considera come Dio. Siamo di fronte alla stessa bestia di Apocalisse 13, «la bestia che sale dal mare», la quale, non dimentichiamolo, si faceva venerare come Dio (v. 4); essa è, del resto, blasfema come la precedente (cfr. 17:3; 13:6). Nello stesso tempo, la «bestia di colore scarlatto» (17:3) ricorda «un gran dragone rosso», simbolo di Satana nel capitolo 12:3 inoltre, al pari della bestia che sale dalla terra, essa ha il carattere di un potere terreno e politico, la cui funzione consiste essenzialmente nel sostenere gli altri poteri di natura religiosa o spiritualeggiante, cioè, la donna e il 197

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dragone (17:2,12; cfr. 13:11,12). È vero che il dragone, «bestia dalle dieci corna» del capitolo 12 si ritrovava anche nella bestia che sale dal mare, anch’essa «dalle dieci corna», del capitolo 13, come nella bestia che sale dalla terra e che parlava come un dragone. Per sintetizzare, questa nuova bestia del capitolo 17 raggruppa tutti i poteri malvagi e nemici di Dio; si tratta di una vera coalizione. Il problema contenuto nel versetto 8, viene ripreso e analizzato in due fasi successive e parallele, nei versetti 10 e 11. Nella prima fase, viene rappresentata la storia dei sette re di cui si fa allusione: B 1. 2. 3. 4.

«Cinque sono caduti uno è l’altro non è ancora venuto e quando sarà venuto, dovrà durare poco» (17:10).

Nella seconda, si narra la stessa storia in quattro tempi, combinando l’esposizione generale, riguardante la bestia (17:8) con quella più specifica, relativa ai re in questione (17:10). C 1. 2. 3. 4.

«E la bestia che era, e non è, è anch’essa un ottavo re, viene dai sette, e se ne va in perdizione» (17:11).

Un quadro sintetico dei tre passi paralleli (ABC) faciliterà l’interpretazione del nostro brano enigmatico: Primo tempo A. essa era B. cinque re sono caduti C. essa era Secondo tempo A. essa non è più B. un re esiste C. non è più

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Terzo tempo A. essa deve salire dall’abisso. B. un re non ancora venuto C. ottavo re Quarto tempo A. va alla perdizione B. resta per breve tempo C. va alla perdizione Per decodificare i fatti rappresentati da questa bestia, occorre ritornare alla descrizione che ne viene fatta al capitolo 13. La bestia dalle dieci corna agisce in quel periodo storico che il profeta Daniele descrive nel capitolo 7. Non soltanto ricorda la quarta bestia di Daniele (v. 7) e il piccolo corno (con il suo comportamento arrogante e usurpatore delle prerogative divine, v. 8), ma essa possiede anche le caratteristiche delle bestie precedenti, il leopardo, l’orso e il leone. La bestia dalle dieci corna di Apocalisse 13, occupa i cinque periodi storici annunciati da Daniele 7: Babilonia, Medo-Persia, Grecia, Roma e il piccolo corno.272 Questa è la prima fase: i cinque re di cui parla Apocalisse 17:10. La seconda fase prevede un periodo d’assenza che corrisponde alla ferita della bestia (v. 7). Questo è il tempo del sesto re. Il profeta osserva il paradosso di questo re che «esiste» nonostante la sua morte apparente (v. 10; cfr. 13:3). La terza fase annuncia la guarigione della ferita: la bestia sale dall’abisso (17:8; cfr.11:7). Siamo all’epoca del settimo re la cui durata arriverà fino alla fine; per questa ragione viene descritto anche come «l’ottavo re» (17:11), essendo il suo regno proseguito, oltre il ciclo dei sette. Il settimo re rappresenta, dunque, il potere politico religioso che ha ricevuto la ferita mortale, ma che si è ristabilito e che durerà fino alla fine. La quarta fase proietta la visione nel tempo della fine, con l’ottavo (settimo) re che rappresenta la chiesa del tempo della fine e che conoscerà, purtroppo, «la perdizione» (v. 11). Il regno

272

Le soupir del la terre, pp. 42-48; 143-160.

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dell’ottavo re coincide con quello dei dieci re; mentre i due periodi sono definiti con l’espressione «non ancora» (Ap 17:12; cfr. 17:10). Entrambi sono rappresentati come «brevi»: la breve durata del settimo (ottavo) re (17:10) corrisponde a «un’ora» dei dieci re (v. 12). Il linguaggio è simbolico e vuole sottolineare l’estrema brevità del tempo. Nel capitolo 18, la rapidità del giudizio che pone fine al regno di Babilonia è, d’altra parte, resa nello stesso modo, «in un momento», (greco «in una sola ora») (18:10,16,19).273 Un po’ più avanti, nello stesso capitolo, la stessa idea viene tradotta con un’altra misurazione: «in uno stesso giorno» (18:8). I dieci re rappresentano gli ultimi poteri politici che regneranno su tutta la terra. Li avevamo già incontrati al capitolo 16 nel contesto di Harmaghedon (16:12). Li ritroveremo subito dopo al capitolo 18 nello stesso contesto che riprende il racconto della battaglia di Harmaghedon (18:9). Harmaghedon Quest’ultima fase attira tutta l’attenzione del profeta. Dopo una breve luna di miele, durante la quale tutti i poteri si accordano per governare insieme sotto l’autorità della bestia (Ap 17:13), la battaglia di Harmaghedon esplode (v. 14). Dio vince sugli eserciti terreni. A questo punto, spinti da profondi sentimenti di frustrazione, i re della terra, delusi da colei che avevano adulato e incoronato (vv. 17,18), le si rivoltano contro. La profezia prevede che le dieci corna (i re della terra), «odieranno la prostituta, la spoglieranno e la lasceranno nuda, ne mangeranno le carni e la consumeranno con il fuoco» (v. 16). Curiosamente, non ci viene detto niente sul loro destino. La profezia si concentra, per il momento, sul giudizio di Dio di cui si sono fatti strumento e si limita alla semplice constatazione: «È caduta, è caduta Babilonia la grande» (18:2). Questa proclamazione dell’angelo riecheggia parola per parola l’annuncio del secondo angelo che aveva gridato sulla terra proprio alla fine della storia umana (14:8). La ripetizione del messaggio è il segno che la profezia si

273

1 Tessalonicesi 2:17.

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compirà alla lettera. Non poteva essere altrimenti, perché è Dio stesso che «ha messo nei loro cuori di eseguire il suo disegno... fino a che le parole di Dio siano adempiute» (17:17). Come nel caso dell’indurimento del cuore di faraone, Dio prende su di sé tutta la responsabilità degli avvenimenti; siamo di fronte a una sfida ironica della volontà di indipendenza di Babele, ma anche per segnare il carattere definitivo di questa iniquità che ha raggiunto il punto di non ritorno. La verità è presente persino nel tono del verso che sembra parlare come un computer dal programma preciso e irrevocabile. In contrasto con questa parola dura e seria, il racconto profetico è tessuto con paradossi e ironie. La bella, così civettuola e preoccupata del piacere, vestita d’oro e adorna di pietre preziose (v. 4), «aveva in mano» con eleganza e stile «un calice d’oro pieno di abominazioni e delle immondezze della sua prostituzione» (v. 4). Ella è seduta come una regina maestosa su una bestia orribile sulla quale si possono leggere «nomi di bestemmia» (v. 3). Ella è intimamente unita con la bestia tanto da confondersi con essa (vv. 17,18); ma, comunque, sarà la bestia a ricevere il colpo fatale (v. 13). La bella-bestia è anche il luogo dove sorge Babele. Anche se essa viene chiamata «Babilonia la grande», eccola che crolla in un deserto devastato (18:2). In realtà, questo linguaggio tanto contraddittorio e depistante, traduce tutta una filosofia della storia. Al di là degli imbrogli politici e delle intenzioni malefiche che hanno origine dal basso, Dio controlla tutto e conduce gli avvenimenti conformemente ai suoi piani. La storia ha un senso, anche al di fuori di Dio e contro Dio, essa non si concluderà in un incidente assurdo e tragico. Ciò afferma, da un lato la giustizia di Dio, dall’altro offre uno spunto per la speranza. Uscite da essa A questo punto, la parola proveniente dall’alto diventa estremamente attuale e in una parentesi che si stacca dall’insieme del racconto, lancia un chiaro appello a tutti gli uomini: «Uscite da essa, o popolo mio» (18:4). La frase è presa dal profeta Geremia e si riferiva agli israeliti esiliati a Babilonia affinché si apprestassero a fuggire dalla città (cfr. Ger 51:45). Le ragioni della 201

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predicazione di allora non riguardavano soltanto il futuro, cioè l’esigenza di sfuggire all’ira di Dio e permettere il ritorno in patria (cfr. Ger 50:9; Is 48:20); essa si applicava anche al presente, sottolineando l’esigenza di proteggersi dall’influenza nefasta e corruttrice dell’idolatria (Ger 51:47,51). Questo appello si era fatto sentire molte volte nel corso della storia d’Israele: Abramo l’aveva udito a Ur dei Caldei (cfr. Gn 12:1), Lot a Sodoma (cfr. 19:12), gl’Israeliti in Egitto (cfr. Es 12:31). Nel Nuovo Testamento, i cristiani sono tutti interpellati (cfr. 2 Cor 6:14; Ef 5:11; 1 Tm 5:21). È sempre lo stesso messaggio di sradicamento e di avventura in vista di nuovi orizzonti. Il grido del cielo che risuona qui, sulla piazza di Babilonia, è gravido della stessa inquietudine e della stessa supplica di Dio. Qui, non si tratta di lasciare fisicamente dei luoghi per emigrare altrove. Dopo la caduta della Babilonia storica, l’appello a uscire da Babilonia, non è più accompagnato da traslochi e biglietti d’aereo. Babilonia si trova ovunque. Essa è, certo, lo abbiamo studiato, l’istituzione religiosa che ha segnato con la sua impronta, generazioni di cristiani. Ma, non è uscendo da un’organizzazione umana anche se religiosa, che si esce da Babilonia. Babilonia si trova al di là delle sue mura, si tratta di una mentalità, di un bagaglio di abitudini e di errori che si sono propagati negli ambienti religiosi più disparati. Uscire da Babilonia significa smettere di fare della chiesa, la porta di Dio (Babele), sostituire Dio con l’organizzazione ecclesiastica e la fede con i negoziati politici. Uscire da Babilonia significa sbarazzarsi della mentalità orgogliosa e imperialista. Significa guarire dall’antisemitismo. E, per un cristiano, equivale a ricordarsi delle proprie radici ebraiche. Uscire da Babilonia è avere il coraggio di rimettere in discussione le proprie idee e tradizioni. Significa anche correre il rischio di arrivare a credere in cose diverse da quelle ereditate dalla nascita, per aprirsi alla verità che viene dall’alto, anche se essa urta contro i luoghi comuni umani, dal basso. Uscire da Babilonia è un programma di conversione. La questione è grave, ne va della nostra sopravvivenza. Uscire da Babilonia s’impone come il solo modo per sfuggire al massacro, ma anche per scoprire la propria identità nella terra promessa. 202

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È un appello alla speranza che viene lanciato per le strade stesse di Babilonia, quando la città vibra, in tutto il suo tessuto, un appello che riguarda tutti. Il lutto di Babilonia E, come per convincere ancora di più, la voce del cielo prosegue la sua predicazione per dissipare ogni illusione a proposito del suo futuro, dopo la caduta di Babilonia. La terra è interamente in lutto (18:9-19). Il periodo post-babilonese non è certo dei più felici. I re della terra (18:9), i mercanti della terra (18:11), tutti gli speculatori (18:17), tutti coloro che hanno approfittato della sua ricchezza e della sua influenza, piangono su tutto ciò che hanno perduto. La cosa peggiore è che essi stessi sono all’origine della caduta di Babilonia. Sono loro che l’avevano gettata nel fuoco (17:16). Come un bambino viziato e capriccioso che reclama il suo giocattolo, dopo averlo rotto, gli amanti di Babele, pestano i piedi inutilmente. Questo comportamento irrazionale, non è inverosimile. Gli abitanti della terra non sanno fare altro, ormai, che adorare Babilonia, nonostante la sua scomparsa. I loro lamenti hanno conservato il carattere idolatrico di una volta. L’interrogativa «quale città fu mai simile a questa grande città?» (18:18), riprende la vecchia formula di adorazione della bestia, «chi è simile alla bestia?» (13:4); e ricalca, capovolgendolo, l’antico «chi è come Dio!» degli israeliti in adorazione davanti a Dio.274 Si tratta di un lutto straordinario, annunciato dal nome stesso di Harmaghedon: un lutto riguardante un dio, come quello di Hadad Rimmon. Tuttavia, c’è una differenza: il dio pianto in questo momento, non è della stessa natura di quello cananeo che era la divinità della fertilità. Questo dio non segue il movimento delle stagioni, non risusciterà a primavera. Contrariamente alle consuetudini funerarie tradizionali,275 queste non contengono alcuna rivolta, né consolazione. La storia termina tragicamente e senza speranza. Per spiegare meglio la caduta della «grande Babilonia», l’angelo, drammaticamente,

274 275

Esodo 15:11,12; Michea 7:18. 2 Samuele 1:18-27; 3:33,34.

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sottolinea con il suo gesto di gettare «una grande macina» in mare, il destino di Babilonia: «Così, con violenza, sarà precipitata Babilonia, la gran città, e non sarà più trovata» (18:21). Il profeta Geremia aveva compiuto lo stesso gesto, per simboleggiare la caduta della Babilonia storica. Per ordine di Dio, egli aveva gettato una pietra nell’Eufrate, dicendo: «Così affonderà Babilonia, e non si rialzerà più, a causa del male che io faccio venire su di lei; cadrà esausta» (Ger 51:64). Il gesto e l’intenzione sono identici. Solo l’oggetto differisce. Questa volta Babilonia è rappresentata da una macina e non una pietra comune. Il dettaglio è importante, perché la macina è menzionata poco dopo, come simbolo di vita (Ap 18:22). Il fatto che si possa gettare via una macina, significa che non c’è più nessuno in grado di utilizzarla. Non c’è più vita. La macina era così necessaria che la legge di Mosè aveva proibito di darla in pegno: «Nessuno prenderà in pegno le due macine, nemmeno la macina superiore, perché sarebbe come prendere in pegno la vita» (Dt 24:6). A tutto questo si aggiunge il fatto che la grande macina risulta più pesante della pietra. Occorreva un cavallo o un asino per girarla. In questo caso deve sollevarla «un potente angelo» (Ap 18:21). La grande macina affonda, dunque, con decisione nelle acque. L’angelo commenta, inoltre, che la macina precipiterà «con violenza» (18:21). Notiamo, d’altra parte, che è il mare e non un semplice fiume ad accoglierla. Questi particolari contribuiscono a sottolineare il carattere definitivo della caduta di Babilonia. Il lutto su Babilonia è assoluto. In qualche modo, questa è anche la sua consolazione. Non c’è più nulla da temere, nessuna recidività, in prospettiva. La notizia rassicura, soprattutto se si ricorda che «in lei è stato trovato il sangue dei profeti e dei santi e di tutti quelli che sono stati uccisi sulla terra» (18:24). L’Apocalisse vive l’avvenimento con un’intensa emozione. Alla gioia di un giusto giudizio, si unisce la certezza della speranza.

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Preludio sul trono di Dio Come ogni volta, prima di un ciclo settenario, la visione si ferma sulla scena di un’adorazione. Questa introduzione fa eco a quella che precede i sette sigilli (19:1-10; cfr. capp. 4,5); vi si ritrovano gli stessi temi: il trono celeste attorno al quale gravitano i ventiquattro anziani, le quattro creature viventi e l’agnello. Questa volta, colui che siede sul trono è esplicitamente identificato, è «Dio che siede sul trono» (19:4). Siamo di fronte all’ultima liturgia dell’Apocalisse. Pre-Succot Per la prima volta, il testo non menziona nessuna suppellettile presente nel tempio. Tutti i riti di espiazione sono terminati e, per questo, il tempio non ha più ragione di esistere. Il giudizio proseguirà, ormai, al di fuori delle sue mura. Nel corso del rituale del Kippur, un altro capro era messo da parte (quello per Azazel), non per essere sacrificato, ma per essere scacciato nel deserto, carico dei peccati del popolo (cfr. Lv 16:9,10,20-26). Dopo il Kippur, il popolo si trova completamente liberato dal male. In una prospettiva profetica, la lezione è ricca di speranza. Dio non si accontenta di perdonare i peccati dell’uomo attraverso il sacrificio d’espiazione. Egli desidera liberarlo per sempre da ogni male. Il diavolo, rappresentato dal capro di Azazel, sarà scacciato dal campo e annientato per l’eternità. Da questo momento in poi, ogni cosa proclama la gloria di Dio. Secondo la tradizione ebraica, i giorni che seguono il Kippur sono pieni di gioia, quella gioia che caratterizza la festa di Succot (festa delle capanne), chiamata anche zéman simhaténu, «il tempo della nostra gioia». Il digiuno è bandito durante i giorni di costruzione e preparazione delle capanne (Succot). 205

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Il nostro passo dell’Apocalisse risuona interamente di questa gioia, che festeggia la distruzione del male e anticipa il momento in cui i redenti abiteranno con Dio. Sicuri della caduta di Babilonia, ci si prepara, ora, a entrare in Gerusalemme. La prostituta è morta, viva la sposa! Il cielo esplode cinque volte per le grida della folla: «Alleluia!» (19:1,3,4,5,6).276 L’espressione ebraica, alleluia, risale ai canti dei Salmi che s’intitolano proprio a partire da questa esclamazione di lode: tehilim. Alleluia significa «lodate (hallelu Yah)» (abbreviazione del nome di Dio, YHWH, SIGNORE). Il senso di questa lode è suggerito dalle parole che le sono associate: «Cantare», «comporre una melodia» (Sal 146:2; 149:3). «Dire, raccontare, proclamare» (Sal 22:23). «Ringraziare», «rendere grazie» (Sal 35:18; 44:9; 109:30). «Glorificare» (Sal 22:24). «Benedire» (Sal 115:17; 145:2). «Gioire» (Ger 3:7). La parola hallel è ricca di tutte queste sfumature. La parola contiene nello stesso tempo, un grido entusiasta e viscerale, una melodia armoniosa, cantata con sensibilità, un’idea concepita nell’intimità e nello sforzo dell’intelligenza. Le ragioni della lode, hanno a che fare con il passato e con il futuro. Si loda Dio per aver creato il mondo (Sal 104), per aver liberato Israele dall’Egitto (105; 106; 135), ma anche per la certezza che «la sua bontà dura in eterno» (106:1; 107:1; 118:1,2,34). È interessante notare, con i rabbini dell’antichità, che la parola «alleluia», appare per la prima volta alla fine di 104 salmi, più precisamente, alla fine del Salmo 104, immediatamente dopo l’annuncio dello sterminio dei malvagi: «Spariscano i peccatori dalla terra e gli empi non siano più! Anima mia benedici il SIGNORE. Alleluia» (104:35). Non è un caso che il cosiddetto hallel, il gruppo di salmi da 113 a 118, denominati così per via dei numerosi «alleluia» che li punteggiano, costituiscano il testo base della liturgia del Succot. Questi salmi venivano cantati durante gli otto giorni della festa,

276

In ebraico, l’espressione «lodate il nostro Dio» contiene la parola alleluiah.

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fin dall’antichità.277 La maniera con cui si cantavano, variava a seconda delle tradizioni. In alcune comunità, si cantavano in modo antifonale; in altre, come presso gli Yemeniti, la congregazione rispondeva gridando: «Alleluia!», dopo la metà di ogni versetto. Questo è il tipo di Alleluia che la folla dell’Apocalisse intona, una lode che ricorda i canti responsoriali dei cori del tempio.278 La parola alleluiah era una risposta dei fedeli, alternata ai canti dei solisti. La sintassi stessa della parola alleluiah presuppone questo genere di liturgia. È un imperativo al plurale che incita la moltitudine a lodare Dio. Viene cantato da tutti, da una «folla immensa» (19:1,6) identificato più tardi, con il numero dei 144.000 (Ap 7:4,9); dai ventiquattro anziani e le quattro creature viventi (19:4), rappresentanti la creazione intera. Infine, questo canto di lode uscirà, per voce di un anonimo, dallo stesso trono di Dio (19:5). I due primi alleluia sono pronunciati dalla folla e sono rivolti al passato. Il primo alleluia si fonda sulla riconoscenza della giustizia esercitata contro la grande prostituta (19:2). Il secondo alleluia intensifica l’emozione, con l’osservazione del fumo che sale nei «secoli dei secoli», segno della sua definitiva distruzione (19:3),279 per volgere, alla fine, lo sguardo verso il futuro. La visione guarda, in definitiva, alla distruzione finale del male e della morte. L’espressione «nei secoli dei secoli» che parla di conseguenze eterne, verrà utilizzata un po’ più avanti (20:10) per descrivere l’ultima fase del giudizio, quella che si riferisce a Satana e che è rappresentata, nella fase finale del rituale del Kippur, dal capro di Azazel e dalla sua fine (Lv 16:10,21,26).

277

Una tradizione talmudica del primo secolo la fa risalire a Mosè (Pes. 117a); cfr. Matteo 26:30. 278 Salmo 135:19; cfr. 1 Cronache 16:25,36. 279 Sarebbe un errore dedurre, da quest’espressione, l’esistenza dell’inferno eterno, come sarà insegnato dalla chiesa cattolica e immaginato dal poeta Dante Alighieri. Abbiamo già sottolineato che questa espressione è utilizzata nella Bibbia per esprimere il carattere definitivo della sparizione di Babilonia (Ap 14:11). Nel libro di Giuda, la stessa iperbole caratterizza il castigo di Sodoma e Gomorra, il cui fumo non è certo visibile ancora oggi (Gd 7; cfr. 2 Pt 2:6).

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I due alleluia successivi sono pronunciati da esseri celesti (i ventiquattro anziani e i quattro esseri viventi) e non hanno altra ragione, se non la lode di Dio in sé. Il terzo alleluia si giustifica con l’adorazione di Dio «che siede sul trono» (19:4), cioè del Dio che regna e che giudica. Il quarto alleluia è motivato dal timore di Dio (19:5) che caratterizza gli uomini, «i suoi servi» (1:1). Il quinto e ultimo risuona più forte degli altri. Il profeta lo sente simile a un rumore di acqua e scoppi di tuono (19:6). È una lode decisamente proiettata nel futuro. Essa anticipa, in qualche modo la venuta del regno di Dio: «Perché il Signore, Dio nostro, l’onnipotente, ha stabilito il suo regno. Rallegriamoci ed esultiamo e diamo a lui la gloria, perché sono giunte le nozze dell’Agnello e la sua sposa si è preparata» (19:6-8). A partire dall’annuncio della morte della prostituta all’annuncio del matrimonio con la sposa, l’Apocalisse ricorre, una volta di più, alla metafora coniugale. Il popolo di Dio prende, finalmente, il suo posto di sposa legittima dell’Agnello. La relazione che unisce Dio al suo popolo è di natura simile a quella che unisce gli sposi. È una relazione d’amore reciproco che impegna la coppia nella responsabilità. Nel nostro testo, la responsabilità della sposa è ampiamente sottolineata: «Ella (la sua sposa) si è preparata» (19:7). Il testo greco riprende il pronome «ella» (eauten) per mettere l’accento sull’impegno assunto dal soggetto: «Lei, lei stessa, si è preparata» (traduzione alla lettera). La salvezza non è un’esperienza passiva. Dio si aspetta una risposta da parte dell’uomo. Conformemente ai costumi dell’epoca, la sposa doveva prepararsi per il grande giorno delle nozze, scrupolosa nell’essere bella per il suo sposo e integra nel dedicargli la sua verginità. Ella prende un bagno profumato, si adorna con bellissimi gioielli.280 Il compito è così serio ed elaborato, da richiedere la consulenza delle amiche più care. La sposa viene coperta da un velo che le nasconde anche il volto; esso verrà rimosso solo nella camera nuziale.281 Intorno alla vita le veniva posto una cintura che solamente lo sposo poteva toglierle.282

280

Isaia 44:18; 61:10. Genesi 24:5; Cantico dei cantici 4:1,3; 6:7. 282 Geremia 2:32. 281

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D’altro canto, precisa l’oracolo, «le è stato dato di vestirsi di lino fino, risplendente e puro; poiché il lino fino sono le opere giuste dei santi» (19:8). Il modello, la qualità di quel vestito, l’atto stesso di vestirsi, sono un dono della grazia proveniente dall’alto. Il «lino fino» rappresenta qui «le opere giuste dei santi» (19:8), mentre, nel caso della prostituta, il segno di un lusso insolente. La semplicità del suo vestito «risplendente e puro» contrasta con la veste multicolore «di lino fino», ma anche «di porpora e di scarlatto, adorna d’oro, di pietre preziose e di perle» (18:16) della prostituta. L’umiltà e la modestia della sposa si oppongono all’orgoglio e all’impudenza della prostituta. Questa antitesi quasi simmetrica conferma come, nella mente dell’autore, le due figure femminili si riferiscano allo stesso ordine d’idee. Come la sposa, anche la prostituta partecipa alla stessa metafora coniugale e allo stesso patto. La gioia stessa che esplode nelle strade, i canti di nozze (19:7,9) fanno da contraltare alla tristezza dei lamenti, alle grida e alle lacrime, al silenzio dei musici (18:10,11,16,19,22). E questa grande felicità invade la scena terrestre di Giovanni: «Beati quelli che sono invitati alla cena delle nozze dell’Agnello» (19:9). La felicità è contagiosa. Bisogna condividerla. La beatitudine non si accontenta di organizzare la festa, essa vuole coinvolgere tutti, nello stesso invito. Dopo aver sentito quelle parole, Giovanni cadde ai piedi dell’angelo, «per adorarlo» (19:10). La reazione del profeta è sorprendente. È il gesto di qualcuno che ha perduto l’autocontrollo, tanto è sconvolto dall’intensità delle sue emozioni. L’angelo lo rimette immediatamente al suo posto, ricordandogli di essere nulla di più che «un servo come te». Solo Dio deve essere adorato. Per sostenere il suo argomento, l’angelo si giustifica dando una motivazione, apparentemente fuori dal contesto: «Perché la testimonianza di Gesù è lo spirito della profezia» (19:10). La formula arriva con l’impatto di un enigma. La si ritroverà nella conclusione del libro, integrata in un analogo contesto. Anche in quel caso, a seguito di una beatitudine pronunciata dall’angelo, il profeta si lascia trasportare dalla sua emozione. Di nuovo viene ripreso dal suo «conservo». Il parallelismo tra i due testi ci permette di decifrare l’intenzione di questa strana formula. 209

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Apocalisse 19:10 - «Io

- mi prostrai ai suoi piedi per adorarlo. - Ma egli mi disse: Guardati dal farlo - io sono un servo come te - e come i tuoi fratelli - che custodiscono la testimonianza di Gesù: - adora Dio!».

Apocalisse 22:8,9 - «Io, Giovanni, sono quello che ha udito e visto queste cose. E dopo averle viste e udite, - mi prostrai ai piedi dell’angelo… per adorarlo Ma egli mi disse: Guardati dal farlo - io sono un servo come te - e come i tuoi fratelli, i profeti... - che custodiscono le parole di questo libro. - Adora Dio!».

Coloro «che custodiscono la testimonianza di Gesù» corrispondono a «quelli che custodiscono le parole di questo libro». In altre parole, «la testimonianza di Gesù» significa «questo libro», cioé l’Apocalisse. Portare la testimonianza di Gesù equivale a portare il messaggio dell’Apocalisse e annunciare la profezia che riguarda la salvezza finale dell’universo. L’espressione «testimonianza di Gesù» deve comprendersi nel senso di una testimonianza che procede da Gesù stesso (in greco, genitivo soggettivo). La «testimonianza di Gesù» viene identificata con «lo spirito della profezia» cioé l’ispirazione dall’alto nel fenomeno della profezia.283 Il testo lo indica esplicitamente, «la testimonianza di Gesù è lo spirito della profezia» (19:10). La testimonianza non può essere quindi ridotta a una semplice etica o a una tradizione culturale priva della potenza e della presenza dall’alto. Inversamente, in un altro testo, l’Apocalisse associa la testimonianza di Gesù al dovere di osservare i comandamenti di Dio (12:17).

283

Questa definizione di «Spirito della profezia» è attestato negli scritti rabbinici e soprattutto nei Targum aramaici: Cfr. Strack-Billerbeck, Kommentar zum Neuen Testament, Munich, 1965, vol 2, pp. 128,129; cfr. J.F. Etheridge, The Targums of Onkelos and Jonathan Ben Uzziel on the Pentateuch, Londres, 1862, vol 1, pp. 131,556; vol 2. p. 442.

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Osservare i comandamenti di Dio, vivere secondo i criteri dall’alto, equivale a confermare la profezia. La «testimonianza di Gesù» deve essere intesa come una testimonianza centrata su Gesù (in greco, genitivo oggettivo). Una vita morale attenta al cammino tracciato da Dio è il segno visibile dello spirito di profezia, cioè la prova della vera ispirazione che viene dall’alto. In altre parole non si può pretendere di essere ispirati senza questa prova evidente presente nella propria vita, senza vivere in conformità ai principi del regno che si predica. Il fanatismo e gli eccessi religiosi commessi in nome di una pretesa attività profetica che fa a meno dell’etica e delle strutture sociali, sono qui esclusi. L’espressione «testimonianza di Gesù» dovrebbe essere presa nei due sensi.284 Non è per caso che l’Apocalisse vede in questa «testimonianza di Gesù e lo spirito della profezia» un tratto fondamentale di «quelli che restano della discendenza di lei» (Ap 12:17). Ciò che caratterizza gli ultimi testimoni dell’attesa di Dio, non è soltanto la loro fedeltà sopravvissuta a tutte le apostasie e a tutti gli oblii, ma anche il miracolo della parola profetica che li visita e rischiara il loro cammino negli ultimi momenti della storia. Le vittorie provenienti dall’alto La visione seguente vede Giovanni prosternato in adorazione (19:10). Il suo sguardo, orientato oltre l’angelo stesso, vede «il cielo aperto» (19:11). Finora, dal cielo venivano solo delle voci o degli angeli; la visione di questo spazio restava limitata. Solo talvolta, la visione parlava di una «porta aperta» (4:1) oppure di «un tempio aperto» (11:19; 15:5). Per la prima volta essa descrive il «cielo aperto». La rivelazione vuole essere completa e generosa: gli occhi si perdono nell’infinito del regno celeste. Su questo orizzonte allargato appare un cavallo bianco che ci riporta all’ultima campagna militare di Dio. Le vittorie provenienti dall’alto si succederanno al ritmo di temi paralleli ai sette sigilli dell’inizio del libro.

284 Cfr.

1 Corinzi 1:6; cfr. W. De Boor, Der erste Brief des Paulus an die Korinther, Wuppertal, 1968, p. 28; G. Pfandel, «The Remnant Church and the Spirit of Prophecy», in F. B. Holbrook (ed.) Symposium on Revelation, vol. 2, pp. 310,316.

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I sigilli (Ap 6)

Le vittorie (Ap 19,20)

1. cavallo bianco, corona, vittoria v. 2) 2. cavallo color sangue, guerra, spada (vv. 3,4) 3. carestia spirituale (vv. 5,6)

1. cavallo bianco, diademi, vittorie (19:11-13) 2. eserciti, sangue versato, guerra, spada (vv. 14-21) 3. sazietà antropofoga (vv. 17,18; cfr. 21b)

4. morte, soggiorno dei morti (vv. 7,8) 5. anime immolate a causa della parola di Dio, in attesa della morte (vv. 9-11) 6. battaglia di Harmaghedon (vv. 12-17) 7. cielo vuoto, silenzio, parusia (8:1)

4. abisso (20:1-3) 5. anime decapitate a causa della parola di Dio risuscitano (vv. 4-6) 6. battaglia di «Gog e Magog» (vv. 7-10) 7. grande trono bianco nel cielo, terra e cielo vuoti (vv. 11:15)

Il cavallo bianco Fin dall’inizio, siamo avvertiti della natura del rapporto che intercorre tra la storia rivelata dai sigilli e quella inaugurata da quest’ultimo cavallo bianco. Nel ciclo dei sigilli, il cavallo bianco segnava la partenza vittoriosa della conquista terrena della chiesa (6:2); quella era la prima tappa della sua storia. Ora, il cavallo bianco segna il ritorno vittorioso della conquista celeste che dominerà tutto il corso di questa storia. L’ultimo cavallo bianco si presenta come quello che correggerà e riprenderà il cammino di quella storia interrotta. Nel ciclo dei sigilli il cavallo bianco era cavalcato da una figura dalle intenzioni pacifiche; le sue armi non erano utilizzate. Qui, invece, il cavallo bianco è montato da un guerriero violento che usa la sua spada contro le nazioni e ne versa il sangue (19:13,15). Il primo cavaliere portava una corona d’alloro (6:2), l’ultimo porterà numerosi diademi (19:12). La progressione suggerita dalle diverse corone è significativa. L’alloro appartiene all’ambito delle vittorie sportive; il diadema esprime una regalità permanente. Il primo cavaliere era appena evocato, non era che un’ombra anonima. Ora, si possono scorgere i suoi tratti. La sua testa e i suoi occhi (v. 12), la sua 212

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bocca (v. 15), la sua coscia e il suo vestito (v. 16) sono ben visibili. La sua identità è chiaramente rivelata. Egli riceve quattro nomi la cui progressione passa dall’affermazione della vicinanza di Dio che si incarna, a quella della distanza e della sua grandezza. Il primo nome, «Fedele e Veritiero», afferma la presenza sicura e costante di Dio al nostro fianco. La sua venuta è certa.285 Il secondo nome, «che nessuno conosce fuorché lui», sottolinea la distanza del Dio invisibile e totalmente altro. La sua venuta sorprenderà. Il terzo nome, «Parola di Dio» afferma la manifestazione del Dio che si rivela agli uomini attraverso la sua parola e i suoi atti. Si tratta del Dio personale che viene nell’esistenza e nella storia. Il quarto nome, «Re dei re e Signore dei signori», afferma la sovranità suprema del Dio re dell’universo. È il nome che designa l’Agnello, Gesù Cristo (17:14). La trascendenza e l’immanenza di Dio risultano in un rapporto di tensione. Dio è nello stesso tempo lontano e vicino (cfr. Ger 23:33). L’incarnazione e la presenza prossima di Dio camminano di pari passo con la sovranità di Dio, la sua giustizia e la sua grandezza. Gesù enunciava lo stesso principio quando pregava: «Padre nostro» (Dio è vicino) «che sei nei cieli» (Dio è lontano). Allo stesso modo, il regno di Dio è presente e futuro; sia esistenziale sia cosmico. Subito dopo aver affermato davanti ai farisei: «Il regno di Dio è in mezzo a voi» (Lc 17:21), Gesù si affretta ad aggiungere: «com’è il lampo che balenando risplende da una estremità all’altra del cielo, così sarà il Figlio dell’uomo nel suo giorno» (v. 24). Solo la coscienza affinata da questa tensione assicura la qualità dell’adorazione di Dio e del culto. Non è certo un caso che, questa riflessione, intervenga proprio in questo momento preciso, quando Giovanni si trova in ginocchio nell’atto di adorare Dio (19:10) e la rivelazione dell’Apocalisse tocca il suo apice: la parusia.

285

Un poco più avanti, questi due aggettivi qualificano la parola (Ap 22:6), per sottolineare la verità del regno di Dio e della nuova Gerusalemme (Ap 22: 1-5).

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La folla di Harmaghedon La visione della venuta del Re dei re è ancora presente, quando lo sguardo profetico si proietta all’indietro, per mettere in evidenza una questione di capitale importanza. Il sangue, ancora fresco, sugli abiti del cavaliere (19:13) è il segno che egli si è servito della spada. L’avvenimento, rimanda al secondo sigillo. Per una giustizia interna ai fatti, il sangue degli oppressori è la risposta al sangue a loro volta versato (6:3,4). La guerra risponde alla guerra, la spada alla spada. L’«alleanza dei re della terra» contro il divino cavaliere (19:19) evoca l’«assembramento» dei «re della terra» sul monte di Meghiddo, teso a contrastare la venuta di Dio (16:15). Il «gran banchetto di Dio» (19:17) fa eco alla «battaglia del gran giorno del Dio onnipotente» (16:14). Questi temi, paralleli a quelli della sesta coppa, indicano che siamo di fronte alla battaglia di Harmaghedon. Come sempre, le peripezie della battaglia non sono descritte nei particolari. Il profeta si limita a darne l’esito: la vittoria totale di Dio sui suoi nemici. Alla bestia e al falso profeta si aggiungono, ora, tutti gli altri. I capitoli 17 e 18 ci avevano presentato già la disfatta degli eserciti di Babele. Giovanni ci presenta la caduta di Babilonia e il grande lutto che ne seguirà, i re della terra che l’avevano prima gettata nel fuoco, ora la piangono con nostalgia. Il racconto era rimasto là, come sospeso, senza che si sapesse che ne era stato dei «re della terra» sopravvissuti. L’angelo riprende il filo della storia della battaglia di Harmaghedon. Egli ci ricorda che Babele e il suo alleato, il falso profeta, sono stati gettati nel fuoco (19:20; cfr. 17:16; Dn 7:11). Nel racconto precedente, il falso profeta non veniva menzionato (17:16), perché il suo destino si fondeva con quello di Babele. Ora, si comprende che sono stati trascinati entrambi nello stesso castigo. Quanto agli altri, «i re della terra», i poteri politici, sono stati «uccisi dalla spada che usciva dalla bocca di colui che era sul cavallo» (19:21). Il castigo è diverso da quello che colpirà le bestie. Contrariamente alle bestie (la bestia che sale dal mare e la bestia che sale dalla terra o falso profeta) che sono gettati nello stagno di fuoco, i «re della terra» sono attaccati dalla spada. Ogni potere è combattuto sul suo proprio terreno. I pote214

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ri di natura religiosa sono annientati dalla potenza cosmica del Dio giudice. I poteri di natura politica sono vinti dalla potenza «militare» del Dio degli eserciti. In questo caso, l’arma che porta il colpo fatale, altro non è che la Parola di Dio. La storia del mondo iniziò per mezzo della parola creatrice di Dio (cfr. Gn 1:3; Gv 1:1-3); e ancora, sarà la sua parola a porvi fine. Essa può essere creatrice ma anche distruttrice. «... per effetto della parola di Dio, esistettero dei cieli e una terra tratta dall’acqua... mentre i cieli e la terra attuali sono conservati dalla medesima parola, riservati al fuoco» (2 Pt 3:5,7). In ebraico, «la parola» significa molto di più che un insieme di suoni articolati. Il termine davar (parola) significa anche, storia. Essa è l’espressione vivente, storica e concreta della persona. Secondo la lettera agli Ebrei, «Dio ha parlato a noi per mezzo del Figlio» (1:1). Il ritorno di Gesù Cristo, la discesa effettiva di Dio, è la sua parola più espressiva. È per questo che l’uomo non può sopportarla (cfr. Is 33:20; 1 Tm 6:16). Alla sua venuta, o si muore o si viene trasformati. Certo, la venuta di Dio significa per alcuni, la trasformazione della propria natura (1 Cor 15:51,52), e per gli altri, la morte. Un banchetto antropofago Per i «re della terra», la venuta di Dio equivale alla loro morte violenta. Per la prima volta, Dio è l’agente immediato del loro castigo. Infatti, non c’è nessun altro, sulla scena, oltre a lui. Fino a quel giorno, il giudizio era stato amministrato secondo meccanismi dal basso, per mezzo di fattori inerenti la condizione terrestre. L’ultimo colpo del giudizio è inferto direttamente da Dio. Essi vengono uccisi. Ciò che resta dei loro corpi sparisce ai quattro venti, «tutti gli uccelli si saziarono delle loro carni» (Ap 19:21). Babilonia era finita nello stesso modo. Le dieci corna e la bestia avevano mangiato la sua carne (17:16). Ora viene il loro turno. Ma, poiché non resta più nessuno, sono gli uccelli del cielo che provvedono a spazzare via tutto. La descrizione s’ispira a una visione di Ezechiele, con alcune significative differenze. Il profeta ebreo riunisce insieme gli uccelli e le bestie dei 215

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campi; mentre nella visione di Giovanni, le bestie dei campi sono scomparse, per lasciare il posto solo ai volatili. Ezechiele limita il massacro ai principi, agli eroi, ai guerrieri e ai loro cavalli (Ez 39:17:20). L’Apocalisse esce dai limiti d’azione del profeta Ezechiele, per assumere una dimensione cosmica; alla sua lista, aggiunge «le carni... di uomini d’ogni sorta, liberi e schiavi, piccoli e grandi» (19:18). Ironicamente, questo banchetto «antropofago» dei re della terra, fa eco alla carestia spirituale che aveva stremato il popolo durante il terzo sigillo (19:17,9). Questo rapporto simmetrico tra i due banchetti, suggerisce una volta di più, lo stesso evento della salvezza di Dio, visto nei suoi due aspetti. Gli invitati al banchetto delle nozze dell’Agnello, sono saziati nella gioia e nella sicurezza della vita eterna. Il banchetto di Harmaghedon vede i suoi convitati, divorati, nella tristezza di un lutto assoluto. Di loro non resta più niente, nemmeno le ossa. Essi, non hanno nemmeno diritto a una sepoltura. Gli uccelli rapaci hanno divorato tutto. Su quest’immagine sinistra e macabra, si conclude la visione. Non si poteva rendere meglio il carattere disperato della loro fine. Tutti scompaiono. La terra resta vuota. Il diavolo e il nulla In questo paesaggio desertico e vuoto, il nemico giurato di Dio viene interpellato e immobilizzato. Come in Apocalisse 12:9, egli è chiamato «il dragone, il serpente antico, cioè il diavolo, Satana» (20:2). Dei tre poteri scesi in campo contro Dio, nella battaglia di Harmaghedon (16:13), il dragone è il solo a essere scampato. Gli altri due, la bestia del mare e la bestia della terra (il falso profeta), sono stati già colpiti, e con loro i re della terra che si trascinavano ancora, in quel tempo della fine. «La chiave dell’abisso», tempo addietro, consegnata alla «stella caduta dal cielo», cioè al principe della terra (9:1), si trova, a questo punto, nelle mani di un angelo di Dio (20:1). Viene evocata una sorta di condizione di pre-creazione. La stessa parola ebraica tehom (abisso) di Genesi 1:2 si trova nel retroterra del testo greco. È in quelle profondità che, il diavolo, viene gettato. 216

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La terra è vuota. L’assenza di Dio e della vita costituisce il suo ambiente naturale. Il diavolo è condannato al deserto e al nulla, come una volta, il serpente fu condannato alla polvere (Gn 3:14). Non c’è più nessuno da sedurre. Ritorna, allora, alla memoria, il racconto della Genesi. La tentazione, che aveva fatto scattare la tragedia umana, non è più possibile per mancanza di soggetti. Il male è quindi neutralizzato. Questa lezione di speranza era già scritta nella simbologia del rituale del Kippur. Il capro Azazel, che rappresenta Satana in tutta la sua forza malefica, è lui stesso condannato al deserto (Lv 16:20-22). Questo cerimoniale camminava di pari passo insieme al piano della salvezza pensato da Dio. Parallelamente all’espiazione di «tutti i peccati del popolo» e alla purificazione del santuario, che assicurava il perdono cosmico di Dio, il cerimoniale del Kippur annunciava anche la reclusione dell’ispiratore del male. La stessa profezia è pronunciata nel vangelo di Giovanni. Durante il «giudizio del mondo», sarà cacciato fuori Satana, «il principe di questo mondo» (12:31). L’idea è presente anche nella tradizione ebraica e, in modo particolare, nel libro di Enoc, uno scritto contemporaneo, nel quale Dio ordina all’arcangelo Raffaele di sgozzare il capro Azazel, e di gettarlo nelle tenebre del deserto.286 Il profeta Daniele, nella profezia del giudizio di Dio, vide il grande giorno del Kippur (cap. 8);287 in esso, quale ultimo atto del giudizio, l’espulsione di Azazel il diavolo, nel tehom del deserto. L’Apocalisse rende questa cacciata di Satana, come un avvenimento reale nel tempo. Si tratta di un periodo di mille anni. Nel contesto apocalittico, l’impiego di questo numero riveste un valore simbolico. Il «mille» presente nel numero 144.000, indica una moltitudine. Nella tradizione ebraica, il numero mille viene sempre utilizzato per indicare quantità elevate.288 Questo simbolismo è impiegato, in modo particolare, per esprimere tempi lunghi. «Un giorno nei tuoi cortili val più

286

Enoc 18:12-16; 19:1,2; 21:1-6. Le soupir de la terre, p. 179 ss. 288Salmo 91:7; 119:72; 1 Cronache 16:15; Ecclesiaste 7:28; Ezechiele 30:17. 287

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che mille altrove» (Sal 84:10), oppure, «mille anni sono ai tuoi occhi come il giorno di ieri ch’è passato» (90:4). L’Ecclesiaste conduce una riflessione sulla vita umana, nel corso della quale riscontriamo un uso analogo del numero mille, riferito alla qualità dell’esistenza (6:3,6). A partire da questo retroterra biblico, abbiamo delle serie ragioni per pensare che l’Apocalisse utilizza il numero «mille» in modo simbolico, per intendere un periodo di «molti anni». D’altra parte è significativo che, alla fine del versetto, i mille anni siano in contrasto con l’espressione «per un po’ di tempo» (20:3). Il profeta Isaia è preso dalla stessa visione. In un brano che i commentatori hanno definito «la piccola Apocalisse» - capp. 24,25 - egli descrive, come Giovanni, lo stato desertico della «terra». La parola chiave nel testo, ripetuta ben sedici volte, è identificata con il tohu (informe), stato della terra prima della creazione (cfr. Is 24:10; Gn 1:2). Anche in quel caso il profeta annuncia il castigo di Dio su Satana e i suoi accoliti: «In quel giorno il SIGNORE punirà nei luoghi eccelsi l’esercito di lassù» (Is 24:21). Nel testo, si parla di una «carcerazione» che ha una durata che il profeta definisce «molti giorni» (v. 22), che potrebbe essere un chiarimento ulteriore dell’espressione apocalittica «mille anni». A questo punto, ci si può sentire scoraggiati a seguire un cammino di questo genere, dubitando di una storia così strana. Oppure, al contrario, lanciarsi in una speculazione senza fine, su cosa succederà durante i mille anni. Il testo non suggerisce nessuno dei due atteggiamenti. La sola lezione da ricevere è che, l’Apocalisse, nel linguaggio che le è proprio, ci suggerisce l’idea che, per un periodo piuttosto lungo, le potenze del male non avranno alcun potere sull’umanità. Il senso simbolico della cronologia, non esclude, pertanto, la sua realtà. Forse, i mille anni dell’Apocalisse dureranno effettivamente tanto, ma la questione non è questa. A questo punto, nella prospettiva dell’eternità, al di là della storia umana, il computo del tempo non si effettua più secondo le nostre categorie. Ricordiamo, a questo proposito, che «mille anni» è in media, la durata della vita della prima generazione antidiluviana. Adamo visse fino a 930 anni, Jared 962; Matusalemme 969; Noè 218

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950, ecc. L’utilizzo dei «mille anni» riporta all’epoca antidiluviana, al tempo del giardino dell’Eden. Troviamo lo stesso linguaggio nel libro del profeta Isaia, dove la speranza di «nuovi cieli» e di una «nuova terra» (65:17) è descritta poeticamente, nella nostalgia dell’età d’oro antidiluviana, quando morire a cento anni era morire giovani (v. 20) e quando gli uomini vivevano a lungo come gli alberi (v. 22). L’intenzione dell’Apocalisse resta dunque, in conformità con Isaia, di farci comprendere che, allora, ritroveremo la felicità e la qualità della vita, tipici dell’epoca della creazione. I mille anni rappresentano i primi passi compiuti dal genere umano, nell’eternità. Morti, tornati in vita Dall’abisso desolato, la visione ci trasporta sulla scena celeste trepidante di vita. L’informazione arriva stupefacente: tutte quelle persone che brulicano, sono degli esseri umani. Si notano immediatamente proprio coloro che meno ci aspettavamo; gli umiliati, gli oppressi di Dio, i «decapitati per la testimonianza di Gesù e per la parola di Dio» (20:4) il cui grido era risuonato nella visione del quinto sigillo (6:9). Ma, non si parla solo dei martiri e degli eroi, ma anche di tutti quegli anonimi che sono semplicemente rimasti fedeli e hanno rifiutato di compromettere la loro identità (20:4). In definitiva, i giusti di tutte le epoche. Con una frase lapidaria, l’angelo spiega il mistero: «Beato e santo è colui che partecipa alla prima risurrezione» (20:6). È la quinta delle sette beatitudini; come tutte le altre è posta in relazione con il ritorno di Cristo. L’idea non è nuova. Il libro di Daniele aveva già osato tanto: «Molti di quelli che dormono nella polvere della terra si risveglieranno» (Dn 12:2). Questo evento è dovuto alla venuta di Michele. In modo significativo, l’ultimo capitolo di Daniele esordisce e si conclude su questo tema. All’angelo guerriero Michele289 che si leva (in ebraico, amad) come un eroe vittorioso (v. 1), risponde il levarsi (amad) «alla fine dei tempi» (v. 13). L’Apocalisse associa, ancora, la risurrezione dei giusti alla vittoria del guerriero sul

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Le soupir de la terre, pp. 258,259.

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cavallo bianco. L’apostolo Paolo rende testimonianza della stessa fede. «... noi viventi, i quali saremo rimasti fino alla venuta del Signore, non precederemo quelli che si sono addormentati; perché il Signore stesso, con un ordine, con voce d’arcangelo e con la tromba di Dio, scenderà dal cielo e prima risusciteranno i morti in Cristo; poi noi viventi, che saremo rimasti, verremo rapiti insieme con loro, sulle nuvole, a incontrare il Signore nell’aria; e così saremo sempre con il Signore» (1 Ts 4:15-17). La risurrezione è la sola spiegazione data dalla Bibbia, e in modo particolare, dall’Apocalisse, per giustificare la presenza insolita di questi morti, vibranti di vita. Nessuna traccia dell’idea dell’immortalità dell’anima che, dalla filosofia greca, ha infestato la religione, tanto ebraica che cristiana. La parola «anima» qui utilizzata (20:4) deve essere compresa nella sua accezione ebraica; essa descrive l’essere vivente nella sua totalità. Così, il termine ebraico nefesh, generalmente tradotto dalla Settanta con la parola greca psyche e nelle nostre versioni in italiano, con il termine «anima», chiama in causa tutte le facoltà dell’essere umano; spirituali, mentali, emozionali, come quelle fisiche e psicologiche. La nefesh (anima) può avere fame (cfr. Sal 107:9; Dt 12:20), oppure sete (cfr. Sal 143:6), essere soddisfatta (cfr. Ger 31:14), mangiare bene (cfr. Is 55:2). Ma la nefesh può anche amare (cfr. Gn 34:3; Ct 1:7), commuoversi (cfr. Sal 31:10), gridare (cfr. Sal 119:10), conoscere (cfr. Sal 139:14), essere saggia (cfr. Prv 3:22), adorare e lodare Dio (cfr. Sal 103:1; 146:1). Nella Bibbia, l’essere umano è concepito nella sua totalità. Se la meccanica psicologica cessa di funzionare, la vita dello spirito fa la stessa fine (Ec 9:5). La morte è totale come la vita. Quando l’Apocalisse, radicata nelle Scritture ebraiche, parla di risurrezione intende coinvolgere la dimensione fisica come quella spirituale, «corpo e anima», come si dice comunemente. Solo che, nella Bibbia, il corpo non è distinto dall’anima. Il corpo è l’anima e viceversa. Dopo questa premessa, sarà più facile comprendere la natura delle realtà evocate dai testi precedentemente studiati. Nello spirito della Bibbia, la vita implica i sensi e il corpo, le emozioni e il pensiero. I salvati del paradiso ebraico sono dei viventi. Ma, come sono arrivati là? Attraverso quale esperienza sono passati 220

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da morte a vita? L’angelo non entra nei particolari. Come sempre, conta il risultato finale. Questo vale per tutti i miracoli della Bibbia; dalla creazione al passaggio del mar Rosso, fino alla risurrezione di Gesù. L’autore ispirato si limita a testimoniare dell’avvenimento, senza spiegarne la meccanica scientifica. Ciò che importa è che sono là; e questa presenza non ha bisogno di prove o di spiegazioni: si giustifica da sola. Dio, il miracolo per eccellenza, la creazione, l’essere umano, sono poste nella Bibbia come delle realtà indiscutibili. Gli esseri viventi, i fatti che accadono, non hanno necessità di essere provati per essere riconosciuti in quanto tali. Essi si provano da sé, l’evidenza sono la loro dimostrazione. Lo sguardo profetico si proietta su dei risuscitati in piena azione. I ruoli, però, sono ora rovesciati, perché la giustizia sia compiuta. Giudici con Dio, essi sono chiamati a condividere con lui, la responsabilità della sentenza che decide della vita o della morte di tutti gli uomini. E, pertanto, la sentenza è stata già pronunciata. La loro presenza nella prima risurrezione è la dimostrazione che il giudizio è un fatto già avvenuto. Al ritorno di Gesù Cristo, i giusti e i malvagi sono stati già designati. Il libro di Daniele intende le cose in questo modo, quando situa il giudizio di Dio nel tempo, alla fine del periodo delle 2300 sere e mattine. Cioè nel 1844. Allo stesso modo, il racconto della battaglia di Harmaghedon, che aveva raggruppato i nemici di Dio, implica chiaramente, una definizione dei due campi opposti. In tutti i modi, il giudizio appartiene solo a Dio, il solo che conosce, per intelligenza, per acutezza del suo spirito, «i cuori e i reni » (Sal 7:9; Ap 2:23). Dio è il solo, ancora, a poter equilibrare e armonizzare, la grazia e la giustizia e, grazie al sacrificio di Cristo, l’unico a poter perdonare. Dio, infine, è il solo a essere completamente puro e, di conseguenza, capace di distinguere il bene e il male. Per queste ragioni, Dio è il solo ad avere il diritto di esercitare il giudizio (Gv 8:7). Nondimeno, Dio acconsentirà a far conoscere le sue ragioni a uomini e donne. Egli metterà a disposizione tutti gli atti istruttori e tutti i suoi archivi, «i libri furono aperti» (20:12). Egli donerà loro pieni poteri, essi «regnano con Cristo» (vv. 4,6). Dio vuole che i suoi siano informati di tutto, ma ancora di più, che essi lo comprendano. Dio condividerà con loro, oltre al potere e 221

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al regno, anche la sua santità. Il testo presenta questo insieme di nozioni con l’espressione «sacerdoti di Dio e di Cristo» (20:6). Questo rapporto si comprende ancora meglio nel libro del Levitico che costituisce la base legale per la comprensione della funzione sacerdotale e nel quale il termine ebraico qodesh (santità) ritorna più di centocinquanta volte. Il ritornello «sarete santi come io sono santo», è l’espressione che costituisce la caratteristica dominante del libro sacerdotale.290 D’altronde, è significativo che nella beatitudine che introduce la promessa, l’aggettivo «beato» è strettamente collegato a «santo» (Ap 20:6). L’Apocalisse definisce i risorti con il termine «sacerdoti», collocandoli, in rapporto a Dio, nella posizione di maggior privilegio e intimità. La santità (qodesh) costituisce la qualità essenziale di Dio.291 La santità è l’espressione del carattere di Dio. Di conseguenza, i risorti, partecipando della purezza di Dio, sono resi capaci di discernere il male in quanto tale, quindi di giudicare. Dio non si limiterà a fornire loro gli strumenti di lavoro, le informazioni, l’intelligenza e la santità. Egli concederà loro anche il tempo necessario per istruire il processo: i mille anni. Segno tangibile del rispetto di Dio per la serietà del lavoro dei redenti. L’amore di Dio si spinge fino a quel punto. Non soltanto gli uomini saranno giudicati da altri uomini, ma Dio stesso permetterà che i suoi giudizi vengano attentamente valutati dai suoi figli. Essi saranno dotati dei poteri e dei mezzi per farlo. Gog e Magog Dio rispetta a tal punto le sue creature da attendere mille anni per impartire quel castigo che apporterà la morte definitiva. Questo evento poteva, benissimo, aver luogo al momento della parusia, quando Dio aveva in mano tutti gli elementi per giudicare. Del resto, l’istruzione del processo era stata acquisita e la sentenza pronunciata. Ma, Dio vuole adesso il consenso pieno degli uomini. Egli desidera che, prima di chiudere definitivamente questa pagina della loro storia, tutti comprendano bene.

290 291

Levitico 11:44,45, 19:2; 20:7,26. Isaia 6:3; 57:15; Salmo 99:5.

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Persino dopo, Dio tratterrà il suo castigo. Il fuoco scenderà dal cielo in risposta a un movimento di rivolta dal basso. Alla fine dei mille anni, i restanti dei morti sono tornati in vita. Il profeta li vede come una moltitudine simile alla «sabbia del mare», proveniente dai «quattro angoli della terra» (20:8). È solo allora che il diavolo ritorna in scena. Il ritorno in vita dei malvagi gli permette di riprendere la sua attività di seduttore. L’Apocalisse commenta così: «Satana sarà sciolto dalla sua prigione» (20:7). Le sue intenzioni sono chiare: «per radunare (le nazioni) alla battaglia» (20:8). Lo scenario ricorda Harmaghedon; anche in quella occasione si parlò di grande adunata, in vista di un conflitto armato e, anche in quell’occasione, gli eserciti nemici di Dio vennero gettati nello stagno di fuoco (19:20; cfr. 20:10,13,14). Come quella volta, il luogo della battaglia riceverà un nome ebraico, «Gog e Magog», che si riferisce da vicino, alla storia d’Israele (Ez 38:2). Tuttavia, la battaglia di Harmaghedon opponeva Israele al suo nemico tradizionale: Babilonia. Quella di Gog e Magog vede sollevarsi degli eserciti non meglio definiti, mossi dal solo obiettivo di distruggere un regno di pace (v. 11). Nella battaglia di Harmaghedon, le armate di Babele si erano opposte alla venuta del Salvatore, proveniente dall’oriente (16:14,15). La loro strategia si limitava al prosciugamento dell’Eufrate. Il nemico era ancora lontano da Gerusalemme. Ora, in Gog e Magog, gli eserciti del dragone invadono «il campo dei santi e la città diletta» (20:9). Harmaghedon vedeva protagonisti «i re della terra», sotto la triplice direzione della bestia, del falso profeta e del dragone. Nella battaglia di Gog e Magog, sono implicate «tutte le nazioni che sono ai quattro angoli della terra» (v. 8), sotto la direzione unica del dragone. La parola ebraica Harmaghedon era il nome del luogo della battaglia (16:16) ed evocava, per associazione, il lutto dei re della terra, sopravvissuti a Babilonia. La parola ebraica Gog e Magog si riferisce, invece alle nazioni «ai quattro angoli della terra» il cui «numero è come la sabbia del mare» (20:8). Con i due nomi, vengono indicate le nazioni, in quanto moltitudini. Quello è, del resto, il tema dominante che determinerà il nome stesso del luogo del conflitto: «Quel luogo sarà chiama223

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to la Valle di Amon-Gog (moltitudine di Gog)» (Ez 39:11).292 A partire da Harmaghedon fino a Gog, si nota un tratto d’ironia. I nemici di Dio avevano preso di mira la montagna (har) e si ritrovano… a valle. Quanto alla moltitudine, segno di potenza, nel nuovo paesaggio di morte, si tramuta in orrore; si tratta sì di una moltitudine, ma di cadaveri (vv. 11,14,15). Nelle parole «valle di moltitudini» (guey hamon) si avverte il suono della parola, «geenna» (guey Hinnom), che designava il luogo dove venivano arse le giovanissime vittime del dio Moloch (2 Cr 33:6).293 Su questo ricordo dei sacrifici attraverso il fuoco, si svilupperà, in seguito, la nozione dell’inferno e della «geenna» (Mt 5:22) che altro non è che la trascrizione dall’ebraico di guey hinnom (valle di Hinnom). Il nome di «Gog e Magog» rafforza ulteriormente l’evocazione della moltitudine. Il suo valore numerico è 70 e rappresenta, nella tradizione ebraica, il numero di tutte le nazioni, al di fuori d’Israele.294 Questo spiega l’associazione, di per sé eccezionale, dei due nomi che non figurano mai insieme altrove.

292

Ezechiele 38:4-9,13,15,16,22,23; 39:2,11,12,15,16. valle di Hinnom a sud di Gerusalemme segnava la frontiera tra le tribù di Beniamino e di Giuda (Ger 15:7; 18:15,16). Essa divenne così famosa che Geremia poteva fare a meno di menzionare il suo nome per chiamarla semplicemente la vallata (Ger 2:23). 294 Secondo il numero delle nazioni elencate in Genesi 10 che arriva a 70, parallelamente alle 70 persone che costituiscono la famiglia di Giacobbe (Gn 46:27; Es 1:5; Dt 10:22). Questo rapporto è stato interpretato, nella tradizione ebraica, come l’applicazione di un principio contenuto nel Deuteronomio; secondo il quale Dio ha determinato il numero delle nazioni «tenendo conto del numero dei figli d’Israele» (Dt 32:8; cfr. Pesiqta Zutreta, Noah; cfr. Targ. Zer. Genesi 28:3, secondo il quale i 70 membri del sinedrio corrispondevano alle 70 nazioni del mondo). Il motivo delle 70 nazioni è estremamente diffuso nella letteratura rabbinica. Secondo la tradizione, il decalogo fu scritto in 70 lingue in modo da essere capito dalle 70 nazioni (Sot 7:5); per la stessa ragione, la voce divina si fece intendere sul Sinai in 70 lingue (Shab 88b). I 70 sacrifici offerti nel santuario erano destinati all’espiazione delle 70 nazioni (Suk 55b). 293 La

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Questo tipo di interpretazione295 trova agevolmente il suo posto, nel contesto dell’Apocalisse, dove i nomi ricevono un valore simbolico, come, per esempio il celebre 666 (13:18). Nel linguaggio simbolico dell’Apocalisse, «Gog e Magog» significa «la moltitudine delle nazioni», dei goyim, cioè, secondo la terminologia ebraica tradizionale, tutti coloro che sono estranei all’alleanza con il Dio d’Israele. La morte della morte La visione di «un grande trono bianco» (20:11), che conclude il ciclo, fa eco al «cavallo bianco» che lo introduceva. La vittoria del guerriero conduce fino al trono. Alla vista di lui, «la terra e il cielo» fuggono via e, questo strano vuoto, ci riporta al «silenzio» del settimo sigillo (8:1). Notiamo l’inversione della formula tradizionale «cielo e terra», che si riferisce alla creazione (Gn 1:1). Equivale a dire che, l’universo umano, tutto ciò che ci è familiare, sparisce. Gli scampati di Harmaghedon che avevano studiato i libri per mille anni, comprenderanno più che mai, quanto Dio aveva ragione: «Furono giudicati, ciascuno secondo le sue opere» (20:13). La morte che sta per colpire i malvagi è assoluta e da essa non si ritornerà mai più. Al di là di questa morte ultima o «seconda morte» (20:14), non vi sarà più morte. È la morte della morte. Il profeta esprime questa realtà con le forti immagini della sua poetica: «Poi la morte e il soggiorno dei morti (l’Ades) furono gettati nello stagno di fuoco. Questa è la morte seconda, cioè lo stagno di fuoco» (v. 14). Si riconoscono gli accenti del profeta Osea che faranno vibrare l’apostolo Paolo: «... sarei la tua peste, o morte; sarei la tua distruzione, o soggiorno dei morti» (13:14; 1 Cor 15:55). Il carattere totale e definitivo di quest’ultimo giudizio di Dio

295 Fin dai tempi più antichi, le lettere ebraiche avevano valore numerico. I rabbini prendevano piacere a dedurre un senso particolare delle Scritture a partire dal valore numerico costituito dalla dizione delle lettere di una parola. Si chiamava questo sistema ghematria. Un esempio classico è fornito dai 318 servitori di Genesi 14:14 che identifica il servitore di Abramo, Eliezer, il cui nome aveva il valore numerico di 318 (cfr. Ned. 32a; Gen R 43:2).

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si ritrova anche nella descrizione di «Gog e Magog», così come è presentata dal profeta Ezechiele. Secondo questa visione, contrariamente ad Harmaghedon, tra le schiere di «Gog e Magog» non ci saranno superstiti, «la casa d’Israele li sotterrerà» (Ez 39:12). Alla fine della battaglia non resterà che Israele; secondo l’Apocalisse, si tratta di tutti quei giudei, come anche dei cristiani, fino a tutti coloro che, insieme, costituiscono il campo di Dio, poiché, bisogna ricordarlo, Israele è molto più di un’entità etnica. Secondo la definizione donata nei capitoli seguenti, Israele è paragonato a «... quelli che non avevano adorato la bestia né la sua immagine e non avevano ricevuto il suo marchio sulla loro fronte e sulla loro mano» (20:4). Altrove, l’angelo aveva identificato, con un linguaggio in positivo, coloro che hanno il sigillo di Dio sulla fronte (cfr. Ap 7:2,3), ossia, «i centoquarantaquattromila segnati di tutte le tribù dei figli d’Israele» (7:4). Nell’Apocalisse, Israele è compreso in senso simbolico e spirituale e comprende tutti i salvati, i sopravvissuti della storia umana. Su di loro, il profeta concentra tutta la sua attenzione. Come il profeta Ezechiele, proprio dopo la visione di morte in Gog e Magog, il profeta dell’Apocalisse vede scendere dal cielo, bella e luminosa, piena di vita, la nuova Gerusalemme (capp. 21,22 cfr. Ez 40-48).

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Compimento di tutte le speranze, risposta a tutti i sospiri della terra, spegnimento di ogni sete (21:5), la discesa della città di Dio è posta come un punto d’arrivo: «Ogni cosa è compiuta!» (21:6). Non è un caso che questa città venga chiamata Gerusalemme. Essa è, innanzitutto, la città il cui antico nome «Salem» evoca la pace. Essa era la città da cui proveniva Melchisedec (cfr. Gn 14:18; Eb 7:1), re di giustizia, il quale aveva benedetto e sostenuto Abramo nei suoi combattimenti (cfr. Gn 14:19). Essa è anche la montagna sulla quale Abramo era disposto a sacrificare suo figlio Isacco e dove egli aveva ascoltato la promessa di Dio che gli prometteva un futuro (cfr. Gn 22:1-18).296 Questo è il luogo dove Dio aveva fermato la spada che avrebbe decimato il popolo d’Israele (cfr. 1 Cr 21:14). Gerusalemme è stata anche la capitale d’Israele; città nella quale Davide aveva collocato l’arca del patto dopo averla conquistata (cfr. 2 Sam 6:12-23; 1 Cr 11:1-9). Ma, Gerusalemme nella memoria storica d’Israele, è soprattutto il luogo dove sorgeva il tempio in cui si adorava il vero Dio, luogo di preghiera, di canti e di lode che esplodevano di gioia sacra e di amore rinnovato (cfr. Sal 48:2; 122:1). Essa era la città che rappresentava il contrario di Babilonia simboleggiando il ritorno in patria, dopo tanti anni di esilio e di oppressione, la città che nutriva la nostalgia tanto da diventare indimenticabile (Sal 137).

296 Il

Midrash ha riconosciuto questa associazione dei due ricordi attraverso l’etimologia del nome di Gerusalemme; Jeru che deriva dalla stessa radice di Morijah, fa allusione al sacrifico di Isacco, e Salem fa allusione a Melchisedec (Gen Rabba Par. 56:16; cfr. Midr. Teh. 126:3).

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Ma, al di là di tutti i ricordi, Gerusalemme aveva finito per diventare il luogo per eccellenza della presenza di Dio. La Gerusalemme di lassù, popolata da angeli, piena della gloria di Dio, di cui si immaginava solo qualcosa (cfr. Is 14:13; Sal 48:1-3). Il profeta Daniele ebbe anche lui la visione di questa Gerusalemme celeste.297 Dopo tutti quei regni terreni che sarebbero spariti uno a uno senza lasciare traccia (2:35), egli vede «un regno che non sarà mai distrutto» (v. 44) rappresentato da una montagna (vv. 35,44), immagine tradizionale di Sion o di Gerusalemme.298 Questa Gerusalemme non ha niente a che vedere con le esperienze passate. Nulla di già conosciuto. Già dall’inizio del capitolo 21, il lettore viene avvertito: le prime parole della visione fanno eco alle prime parole del racconto biblico sulla creazione: «Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, poiché il primo cielo e la prima terra erano scomparsi, e il mare non c’era più» (21:1). «Nel principio Dio creò i cieli e la terra. La terra era informe e vuota, le tenebre coprivano la faccia dell’abisso e lo Spirito di Dio aleggiava sulla superficie delle acque» (Gn 1:1,2). La coppia di vocaboli «cielo e terra», ma anche «l’acqua» (il mare), sono comuni ai due testi. Il riferimento alla creazione è del resto esplicitamente indicato nel testo parallelo di Isaia: «Poiché, ecco, io creo nuovi cieli e una nuova terra; non ci si ricorderà più delle cose di prima... poiché, ecco, io creo Gerusalemme per il gaudio, e il suo popolo per la gioia» (65:17,18). Ne consegue che questo universo ha origine da un ordine completamente diverso dal vecchio. «Il mare non c’era più»

297

Sui passi della Bibbia ebraica, la tradizione giudaica afferma che la realtà della Gerusalemme celeste esisteva prima della creazione del mondo (Tanh B.Num, p. 34); e che ispira predicazioni e canti d’amore (Taan 5a, Tanh. Peq 1). Nella letteratura apocalittica ebraica, si annuncia che la Gerusalemme celeste e il suo tempio scenderanno per prendere il posto delle città terrene «poiché là dove abita l’Altissimo nessuna opera umana può sussistere» (1 Enoc 90:28,29; 4 Esdra 7:26; 10:54). Secondo il rabbino cabalista del XIII secolo, Bahya Acher, il plurale «duale» della parola ebraica per Gerusalemme (Yerushalaym) si spiega col fatto che ne esistono due, una terrestre e una celeste). 298 Salmo 24:2; Isaia 2:3; Zaccaria 8:3; Isaia 27:13; Daniele 9:20; 11:45.

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(21:1). Questa è la prima caratteristica del nuovo universo. Essa implica tutte le altre. Il riferimento al mare si colloca nella linea del pensiero ebraico che rappresentava con esso, tutto ciò che è negativo: il nulla e le tenebre (cfr. Gn 1:2; Sal 18:12; 28:3-6; Gb 26:10; Prv 8:27), la morte e il «non mondo»299 (Ez 26:19-21; Gio 2:6; Ab 3:10), le forze malefiche ostili a Dio (Is 27:1; 51:9,10). L’acqua è anche associata a Babilonia (cfr. Ap 16:12; Ger 50:3), mentre nell’Apocalisse è il luogo da cui proviene la bestia (13:1).300 La Gerusalemme di cui parla l’Apocalisse, echeggiando Isaia, è una Gerusalemme assolutamente nuova. La parola greca neos che la qualifica, designa ciò che è radicalmente nuovo, indica «la dimensione universale del nuovo mondo».301 Si tratta di una Gerusalemme creata interamente da Dio e che discende dal cielo (Ap 21:2; 3:12). Non è certo la Gerusalemme liberata durante la guerra dei sei giorni. Non è quella della moschea di Omar, neppure quella del muro del Pianto o del santo Sepolcro. Non è, ancora, una città restaurata con l’intonaco, dagli edifici ricostruiti o dai quartieri di lusso. Siamo di fronte a un cambiamento radicale che riguarda tutti i piani e le dimensioni: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose» (21:5). Preludio su Dio La Gerusalemme che scende dal cielo della fine del libro, fa da contraltare simmetrico alle sette chiese dell’inizio della profezia. Molti sono i motivi comuni alle due parti. «La nuova Gerusalemme» (3:12; 21:10; ), lo splendore di Dio (21:23; 1:16), il nome di Dio scritto sul suo popolo (22:4; 3:12), l’albero della vita (22:2; 2:7), il libro della vita (21:27; 3:5). Nelle due parti,

299 L’espressione

è di J. Pedersen, Israel, its life and culture, Londres, 1926-1940, p. 464; cfr. P. Reymond: «L’Antico Testamento parla volentieri dell’oceano come della morte stessa... paese senza ritorno... paese nel quale non si vive più in comunione né con gli uomini né con Dio» («L’eau, sa vie e sa signification dans l’Ancien Testament» in VT Supplement 6, Leiden, p. 213). 300 J. Doukhan, The Genesis Creation story, p. 70. 301 L. Coenen, E. Beyreuther, H. Bietenhard, «Kainos», in Dizionario dei concetti biblici del Nuovo Testamento, Ed. Dehoniane, Bologna, 1976, p. 1105.

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viene promessa una benedizione per colui che vincerà (21:7; 2:7,11,17,26; 3:5,12,21) mentre Dio è chiamato «il primo e l’ultimo», «l’alfa e l’omega» (1:17; 2:8; 21:6;). Sono anche, i due soli contesti dell’Apocalisse dove si ascolta direttamente la voce di Dio (21:3; 1:10). Inoltre, anche in questo caso, prima della rivelazione, da parte dell’angelo del contenuto e del senso della visione (21:922:5), lo sguardo profetico sottolinea per due volte l’atto del «vedere» (21:1,2) e una volta quello del «sentire» (21:3). Dopo questo il discorso profetico si concentra sulla presenza di Dio (21:1-8). Al tempo delle sette chiese, il profeta aveva visto il Figlio dell’uomo camminare tra i candelabri sulla terra. Ora, al tempo della nuova Gerusalemme il profeta vede Dio in persona che abita tra gli uomini della terra. La prima volta, la visione muoveva i suoi primi passi al ritmo liturgico dei tempi sacri d’Israele. Le sette chiese venivano poste nell’orbita del Pessah, la prima festa del calendario ebraico. Parallelamente, la nuova Gerusalemme evoca il Succot, la festa delle capanne, l’ultima festa del calendario ebraico. Succot La nuova Gerusalemme è rappresentata come l’ultima festa di quel calendario. La visione dell’Apocalisse la evoca in termini che l’assimilano appunto, alla festa dei tabernacoli. Questa coincidenza si percepisce già nel gioco di parole che ci porta all’immagine dei tabernacoli. «Udii una gran voce dal trono, che diceva: Ecco il tabernacolo di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro» (21:3). La parola greca skene, che indica il «tabernacolo» ricorda la parola ebraica shekhinah, la nuvola gloriosa, segno della presenza di Dio tra il suo popolo (cfr. Es 40:34-38). La parola shekhinah deriva dalla radice shakhan (abitare) che si ritrova nel verbo greco seguente skenosen (abitare). Una parafrasi letterale farà emergere un gioco di allitterazione che lascia trasparire l’intenzione dell’autore: «Ecco il tabernacolo (shekhinah) di Dio con gli uomini! Egli “tabernacolerà” (sarà come la shekhinah) con loro» (21:3) Questa strana grammatica, traduce una nuova realtà: Dio stesso sarà il tempio. Un po’ oltre, il testo afferma esplicita230

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mente: «Nella città non vidi alcun tempio, perché il Signore, Dio onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio» (21:22). Questa è la differenza essenziale tra la nuova Gerusalemme e l’antica. Nella nuova città, la presenza reale di Dio rende inutile il tempio, la cui funzione, nella vecchia città, era di rappresentarlo in sua assenza. Ritroviamo lo stesso itinerario nel libro di Ezechiele, che termina anch’esso sull’affermazione della presenza di Dio nella città, fin nel suo stesso nome: «E da quel giorno, il nome della città sarà: il SIGNORE è là» (Ez 48:35). Dio è finalmente presente. La relazione reale e reciproca è ora possibile. L’Apocalisse esprime la nuova realtà nel linguaggio classico dell’alleanza: «Essi saranno suoi popoli e Dio stesso sarà con loro» (21:3). «Io gli sarò Dio ed egli mi sarà figlio» (21:7).302 Attraverso queste parole s’indovina uno dei temi favoriti del Cantico dei cantici: «Il mio amico è mio, e io sono sua» «Io sono dell’amico mio; e l’amico mio… è mio» (2:16; 6:3; 7:11). La metafora coniugale, come quella paterna, traducono questa vicinanza di Dio, con il quale è finalmente possibile intrattenere una relazione diretta e reciproca, senza l’ostacolo della distanza, del peccato, degli errori di prospettiva, o di mal compresi gesti rituali e mediazioni sacerdotali. Quello che era stato rifiutato a Mosè e ogni altra creatura (Es 33:20-23, diviene realtà quotidiana: «vedranno la sua faccia» (22:4). Dio sarà là, realmente presente, come gli uomini e le donne che vediamo tutti i giorni, come i miei cari che vedo e con cui parlo, con i quali mangio, rido e penso. Sarà un’esperienza totalmente nuova, che si può appena immaginare. Questa ineffabile verità è nascosta nella festa dei tabernacoli che deve il suo nome (Succot) all’abitudine di soggiornare in capanne fatte di foglie, per tutta la durata delle celebrazioni, fatto che ricorda sia il soggiorno nel deserto sia la costruzione del santuario, la succah di Dio, la cui funzione era quella di esemplificare la presenza di Dio tra il popolo: «Essi mi faranno un santuario e io abiterò (shakhan) in mezzo a loro» (Es 25:8). Secondo la tradizione ebraica, la succah come il santuario

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Osea 2:25; Zaccaria 13:9.

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simboleggiano la shekhinah.303 I salmi, letti nella prospettiva della succah mettono in evidenza questa simbologia, quando sottolineano la presenza protettrice di Dio (cfr. Sal 27; 31; 36, 57; 63; 91). Parallelamente, la natura provvisoria della succah ricordava il carattere effimero della città terrena e alimentava la speranza nella città che viene dall’alto. La lettura liturgica inserita nella festa dei tabernacoli è, in modo significativo, quella dell’Ecclesiaste. Il libro mette giustamente l’accento sul carattere transitorio e vano della nostra casa e di tutte le acquisizioni terrene (cfr. Ec 2:4) È la stessa lezione di speranza presente in un’altra festa, chiamata appunto «festa della mietitura» (Es 23:16; 34:22), perché essa segnava, nello stesso tempo, la fine della mietitura e della vendemmia. Nell’Apocalisse, l’evocazione della festa dei tabernacoli è, in questa fase, estremamente opportuna. Dopo il Kippur (11:19), terminata la mietitura e la vendemmia (14:14-25; 16:17; 18:24), compiuto il rito di Azazel (20:2,3), quando il campo sarà finalmente purificato da tutte le forze del male (20:7-15), verrà il momento della riunione del popolo di Dio, dai quattro angoli della terra. L’universalità dell’appello è suggerito già nell’espressione neutra e generica di «con gli uomini» (21:3). Il profeta Zaccaria aveva previsto questa festa messianica dei tabernacoli. «Tutti quelli che saranno rimasti di tutte la nazioni venute contro Gerusalemme, saliranno d’anno in anno a prostrarsi davanti al Re, al SIGNORE degli eserciti e a celebrare la festa delle Capanne» (Zc 14:16). Il profeta dell’Apocalisse gli fa esplicitamente eco in questa visione. «Le nazioni cammineranno alla sua luce e il re della terra vi porteranno la loro gloria» (Ap 21:24). Sarà, finalmente, il momento in cui gli assetati di Dio potranno dissetarsi alla sorgente: «A chi ha sete, io darò gratuitamente della fonte dell’acqua della vita» (21:6; cfr. 22:1). L’immagine è anche qui, evocativa della festa dei tabernacoli. Un antico costume di questa festa, che era ancora in voga ai tempi di Gesù, prescriveva che, all’ora del sacrificio quotidiano, mattina e sera, un sacerdote andava ad attingere dell’ac-

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qua al pozzo di Siloé, con un recipiente d’oro. Al suo ritorno, era ricevuto dal popolo che cantava: «Voi attingerete con gioia l’acqua dalle fonti della salvezza» (Is 12:3).304 È a questa abitudine che Gesù si rapporta quando, alla festa dei tabernacoli, invita i suoi uditori a bere alla sua acqua. «Nell’ultimo giorno, il giorno più solenne della festa, Gesù stando in piedi esclamò: Se qualcuno ha sete, venga a me e beva» (Gv 7:37). Sul piano personale della realtà dell’esistenza, la nuova Gerusalemme significa, prima di tutto, la più grande delle consolazioni. Questa è la prima verità che l’Apocalisse trae da questo avvenimento: «Egli asciugherà ogni lacrima dai loro occhi» (21:4). Il testo greco è al singolare «ogni lacrima». Non si tratta di lacrime versate in quel momento, su Gog e Magog, nel ricordo di coloro che sono scomparsi per sempre. Il contesto suggerisce, che quel pianto riguarda l’ordine passato. Come la morte, le grida e il dolore, anche le lacrime spariranno, al pari di ogni altra sofferenza. È significativo il fatto che, il primo contatto con Dio porta a una riflessione sul dolore umano. Quello è il più antico e grave contenzioso del mondo: il silenzio di Dio davanti alla sofferenza. A quell’epoca, nell’ora delle lacrime, Dio non rispondeva. La morte e l’oppressione avevano colpito l’uomo fino in fondo. Il pianto della bimba innocente, schiacciata sotto gli stivali dei soldati, non era servito a niente. Sono quelle, le lacrime che Dio asciugherà di persona e con le sue mani. Nessuna parola o spiegazione teologica. Un semplice gesto, per dire che non vi saranno più lacrime. È quella l’ultima consolazione. L’atto di Dio che apre una nuova era, risolve d’un tratto il problema della sofferenza. La sola risposta adeguata alle lacrime, sarà che non ce ne saranno più. Tutto, parte da Dio. Per questo motivo la visione di Gerusalemme, con tutto ciò che implica di meraviglioso, sarà data solo in seguito. Per la prima volta in tutto il libro, lo sguardo profetico non si sviluppa su avvenimenti ordinati cronologicamente, ma si riunisce in una sola visione. La ragione è evidente. La Gerusalemme d’oro segna l’arrivo del percorso. La descrizione della città progredi-

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sce dal generale al particolare, come se il profeta vedesse la città avvicinarsi e divenire sempre più distinguibile.305 La visione viene annunciata, nelle grandi linee, dall’angelo: «Vieni e ti mostrerò…» (21:9). In seguito, essa si suddivide in due scene ben definite che Giovanni introduce, ogni volta, con la medesima formula: «mi mostrò» (21:10; 22:1). In effetti, la visione si sposta dalla periferia al centro, svelando in successione, le sette meraviglie della città. 1. La città nel suo insieme splende come il cristallo. 2. Le mura e le porte sono di pietre preziose. 3. La sua piazza è d’oro. 4. Il suo giardino è attraversato dal fiume dell’acqua della vita. 5. In essa sorge l’albero della vita. 6. Qui è il trono di Dio. 7. Qui è Dio stesso (22:1-5). La città La nuova Gerusalemme significa ambiente perfetto. Solido e armonioso, esso suscita fiducia e ammirazione. La città è ben protetta, si trova circondata, infatti, da grandi e alte mura (21:12). Le sue dimensioni sono perfettamente misurate. Ogni lato della città (v. 16) copre 12000 cubiti (2000 chilometri), le sue mura (v. 17) sono larghe 144 cubiti (65 metri) ed è appoggiata su 12 fondamenta (v. 14). La città intera è costruita sul numero 12 che è quello delle tribù d’Israele (o dei 12x12000 = 144.000 salvati), come dei dodici apostoli i cui nomi sono segnati sulle dodici fondamenta della città (v. 14). La città è costruita su misura delle persone che l’abiteranno. Non si poteva descrivere meglio le sue qualità pratiche. L’architetto non è altri che il Creatore in persona. Egli conosce tutti i bisogni e tutte le vibrazioni degli esseri umani. L’architettura stessa della città traduce il suo rispetto per le individualità. Egli ha tenuto conto di ognuna delle dodici tribù. Le porte aperte in tutte le direzioni (v. 25) rivelano uno spirito

305 R. Badenas, «New Jerusalem the Holy City», in Symposium on Revelation book

2, ed. F.B. Holbrook (Biblical Research Institute), 1992, p. 246.

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di fiducia e di comprensione tra tutti gli abitanti di Gerusalemme. Questo rispetto per la diversità dei caratteri che ha ispirato la costruzione della città, si riflette anche nelle relazioni umane. Ogni porta e fondamenta sono costituite da pietre di diversa natura (vv. 19-21); tutti contribuiscono alla felicità degli altri, senza gelosie e tortuosità. In modo significativo, le tre liste di malfattori, esclusi dalla città, si concludono con la categoria dei bugiardi (vv. 8,27; 22:15). Niente di più rassicurante. Sarà bello viverci, perché, al benessere e alla ricchezza, si aggiungeranno la pace e la fiducia tra gli uomini! Ma, l’architetto non si accontenta di essere concreto e di rispondere alle necessità vitali degli uomini. La città è anche bella. Essa è «adorna» (v. 2). La parola greca kosmeo (da cui deriva la nostra «cosmetica») è utilizzata per rendere l’intenzione, anche estetica, che ha ispirato la costruzione della città. Notiamo, inoltre, le sue proporzioni armoniose e simmetriche. «La lunghezza, la larghezza e l’altezza erano uguali» (v. 16). Siamo di fronte a un cubo perfetto, come il luogo santissimo dell’antico tempio (1 Re 6:20). Come il candelabro, il luogo santissimo porta l’evocazione della nuova Gerusalemme, tanto attesa dagli uomini. La coincidenza mostra ancora una volta il rapporto esistente tra il culto biblico e la città della speranza. Del resto, la religione, sulla terra, ha senso solo se vissuta nella prospettiva del regno di Dio. La bellezza della città viene ulteriormente sottolineata dai materiali preziosi che la costituiscono. Pietre preziose, lucenti vetrate, e, soprattutto, oro splendente come cristallo (21:18,21). La diversità di tutti questi elementi viene esaltata da ciò che li riunisce, la presenza luminosa di Dio, «perché la gloria di Dio la illumina» (v. 23). La città si erge come un tempio d’oro dalle vetrate multicolori da cui si riflette la stessa luce, ma con toni diversi e complessi. Il giardino La nuova Gerusalemme contiene anche l’idea dell’affermazione del valore della vita: piena, intensa e sana. Il paesaggio del giardino dell’Eden è qui richiamato alla memoria (Gn 2 e 3) con la sua natura florida e generosa, le sue acque limpide e soprattutto, facendo eco alle lettere indirizzate alle sette chiese, il suo 235

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«albero della vita», con foglie e frutti (2:7). «Poi, mi mostrò il fiume dell’acqua della vita, limpido come il cristallo, che scaturiva dal trono di Dio e dell’Agnello. In mezzo alla piazza della città e sulle due rive del fiume, stava l’albero della vita. Esso dà dodici raccolti all’anno, porta il suo frutto ogni mese e le foglie dell’albero sono per la guarigione delle nazioni» (22:1,2). Nella visione della nuova Gerusalemme, il profeta Ezechiele aveva egli stesso evocato questo giardino, con i suoi fiumi e i suoi alberi miracolosi. «Presso il torrente, sulle sue rive, da un lato e dall’altro, crescerà ogni specie d’alberi fruttiferi le cui foglie non appassiranno e il cui frutto non verrà mai meno; ogni mese faranno frutti nuovi, perché quelle acque escono dal santuario; quel loro frutto servirà da cibo, e quelle loro foglie di medicamento» (47:12). Il simbolo dell’albero che attraversa la Bibbia306 e si ritrova a diversi gradi in una moltitudine di antiche civiltà, porta, innegabilmente, lo stesso messaggio di vita. A partire dal giardino dell’Eden, l’albero è sempre associato alla vita. È grazie ai suoi frutti che l’uomo e la donna vivevano; mentre la morte li minaccerà dal momento in cui, l’accesso all’albero verrà interdetto (3:22). Questo «albero della vita», al singolare nel giardino dell’Eden della Genesi, si ritrova al plurale nella nuova Gerusalemme di Ezechiele; un modo, questo, di esprimere l’intensità e la ricchezza della sua produzione. Il beneficio derivante da questo albero è totale, poiché esso è utile per le foglie e per i frutti. Il testo non dice nulla quanto al ruolo del frutto stesso, se non che verrà prodotto per tutto l’anno, procurando un nutrimento permanente, capace di assicurare la vita «biologica» dell’individuo. Al contrario, le foglie sono specificatamente destinate alla «guarigione delle nazioni». Non si tratta di una terapia con... piante medicinali. La scomparsa della morte implica l’assenza di ogni germe malefico. Il contesto suggerisce un’interpretazione tesa a un’altra direzione. L’ultima volta che le «nazioni» sono state menzionate, appena qualche versetto prima, è stato in relazione alla luce irradiata da Dio. «La città non ha bisogno di sole, né di luna che

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Salmo 1:3; Isaia 65:22; Levitico 26:4; Giudici 9:8-13.

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la illumini, perché la gloria di Dio la illumina, e l’Agnello è la sua lampada. Le nazioni cammineranno alla sua luce e i re della terra vi porteranno la loro gloria» (21:23,24). Il seguito del testo giustifica del resto questo rapporto con il passo del capitolo 21, riprendendo lo stesso tema: «Non ci sarà più notte; non avranno bisogno di luce di lampada, né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà, e regneranno nei secoli dei secoli» (22:5). La «guarigione delle nazioni» è l’equivalente dell’illuminazione delle nazioni effettuata da Dio stesso. È uno dei miracoli della nuova Gerusalemme, che ha meravigliato tutti i profeti,307 e che s’inscrive nel programma della festa messianica dei tabernacoli: «Tutti quelli che saranno rimasti di tutte la nazioni venute contro Gerusalemme, saliranno di anno in anno a prostrarsi davanti al Re, al SIGNORE degli eserciti, e a celebrare la festa delle Capanne» (Zc 14:16). Le nazioni (goyim), normalmente estranee all’alleanza e generalmente associate all’ignoranza della legge e della verità di Dio, si ritrovano qui, associate nel servizio di Dio. Il profeta Isaia, in modo particolare verte su questo tema, attraverso alcuni motivi comuni al nostro testo: «Sorgi, risplendi, poiché la tua luce è giunta, e la gloria del SIGNORE è spuntata sopra di te! Infatti, ecco, le tenebre coprono la terra e una fitta oscurità avvolge i popoli; ma su di te sorge il SIGNORE e la sua gloria appare su di te. Non più il sole sarà la tua luce, nel giorno; e non più la luna t’illuminerà con il suo chiarore; ma il SIGNORE sarà la tua luce perenne, il tuo Dio sarà la tua gloria» (Is 60:1,2,19). Nella nuova Gerusalemme, le nazioni sono «guarite» nel senso che esse verranno istruite, illuminate, assunte da Dio.308 Questa sfumatura viene confermata dal parallelismo che esponiamo: ABC (Ap 22:1-3a); A’B’C’ (22:3b-5). Da notare la guarigione delle nazioni in B, in parallelo con i servitori illuminati da Dio, in B’.

307 Salmo 72:11; 79:1; 102:16; Isaia 1:4; 42:1; 66:18; Geremia 1:17; 16:19; Lamentazioni 1:10; Zaccaria 2.11; Matteo 25:32; Apocalisse 15:14. 308 Questo significato è contenuto ugualmente nel termine greco originale therapeian da cui viene la parola «terapia», che significa generalmente «aver cura di, servire» (At 17:25, Lc 12:42). Nella Settanta questa parola traduce l’ebraico abad, «servizio, servitore, servire» (Gn 45:16, Is 5:2).

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A/A’

- Il trono di Dio e dell’Agnello da cui esce l’acqua della vita che alimenta l’albero della vita, posto in mezzo alla città (A, 22:1-2a), corrisponde al - trono di Dio e dell’Agnello che sono nella città (A’, 22:3b).

B/B’

- I frutti che vengono prodotti ogni mese e le foglie che servono alla guarigione delle nazioni (B, 22:2b), corrispondono ai - servitori che vedranno il suo volto; e il Signore li illuminerà (B’ 22:3c-5b).

C/C’

- «Non ci sarà più nulla di maledetto» (C, 22:3a), allusione alla maledizione di Gn 3:14 che assicura il carattere definitivo del loro accesso all’albero della vita; corrisponde a - «regneranno nei secoli dei secoli» (C’, 22:5:c).

Il parallelismo tra B e B’ fa corrispondere la luce alla vita. Essi sono, in effetti, due concetti paralleli nel pensiero biblico.309 Così scrive Giovanni, nel suo vangelo, quando parla di Gesù: «In lei era la vita, e la vita era la luce degli uomini» (Gv 1:4). Allo stesso modo, Gesù promette a coloro che lo seguiranno: «la luce della vita» (8:12). La sovrapposizione delle due immagini, quella dell’albero della vita con i suoi frutti e le sue foglie, e quella della luce di Dio che rischiara, rivela, ora, tutto il significato presente nel simbolo del candelabro a sette braccia. La famosa menorah dell’antico tabernacolo. Questo candelabro a forma di albero, dai rami luminosi, era il simbolo della speranza.310 Esso ricordava il giardino dell’Eden con il suo albero che procurava la luce e la vita; e di fatto, alimentava nel cuore degli israeliti, la nostalgia per il paradiso. La vita, data dai frutti e dalle foglie è, ora, totale. Nello stesso tempo fisica e spirituale. Essa nutre sia il corpo sia lo spirito.

309 310

Giobbe 3:20; 33:30; Salmo 49:19,20; 56:14. C.L. Meyers, The Tabernacle Menorah, Missoula, p. 118.

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Il principio è fondamentale, nel pensiero ebraico che non dissocia la vita fisica da quella spirituale. In ebraico, la parola ruah traduce la nozione di aria e di respirazione che esprime la dimensione della vita «biologica» (Gn 6:17; 7:15) e la nozione di spirito che esprime la vita religiosa (Nm 27:19; Is 63:10,11). La ruah che fa respirare l’uomo e lo fa vivere, procede da Dio, in più, è la ruah di Dio. Questa verità si è a tal punto impossessata del salmista da condurlo alla sovrapposizione delle due ruah: «Tu nascondi la tua faccia, e sono smarriti; tu ritiri il loro fiato e muoiono, ritornano nella loro polvere. Tu mandi il tuo spirito e sono creati, e tu rinnovi la faccia della terra» (Sal 104:29,30). In altre parole, l’uomo esiste solo in relazione con Dio. L’uomo è religioso o non esiste. La dimensione religiosa non è semplicemente una risposta ai bisogni spirituali, è una necessità biologica. Questa verità è fortemente affermata nella Bibbia, fin dalle prime pagine. L’uomo è stato creato da Dio; animato dal suo soffio, egli dipende biologicamente da lui; separandosi da lui è destinato alla morte (cfr. Gn 2:17; 3:17,19). Questa verità è nuovamente proclamata nell’ultima pagina della Bibbia. La vita spirituale e quella fisica sono collegate. La nuova Gerusalemme non è un paradiso di esseri disincarnati, anime eteree, concezione tipica di molti cristiani; non è neppure il paradiso delle gioie sensuali, dei musulmani. La vita è totale. Si mangia, si beve, si respirano i profumi, si tocca, si provano piaceri che coinvolgono tutti i sensi, vengono utilizzati tutti i muscoli, si vive più fisicamente; poiché il corpo non è più usurato dalla fatica, dalla vecchiaia, lo spirito è più vivo che mai. Inoltre, si pensa correttamente, si studia con più attenzione, si comprendono meglio le lezioni, si apprendono meglio una quantità infinita d’informazioni. Si riceve perfettamente la Parola di Dio. La vita spirituale e mentale non è mai stata così intensa e profonda. La memoria, l’intelligenza e il cuore sono al massimo del rendimento, e il corpo è più forte che mai. Non ci resta che sognare nella sofferenza e nelle lotte quotidiane, dove si mescolano bellezze e brutture, dove i bei palazzi si affiancano alle baracche, la verità è inquinata dalle bugie; in un mondo in cui la vita è pervasa dalla morte, un mondo sempre più ostile che grida aiuto e, senza saperlo, implora il ritorno di Dio. 239

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Dal cielo, la visione ci riporta sulla scena terrestre. L’ultima parola profetica fa eco alla prima. L’epilogo (22:6-21) rinvia al prologo (1:1-8) con le stesse parole, le stesse frasi stilistiche e gli stessi temi.311 Questa tecnica retorica (inclusio) è molto antica. La si riscontra nella poesia ebraica,312 in quella greco-classica, per opera di Platone.313 Essa è attestata anche negli scritti di Giuseppe Flavio,314 presso i rabbini del terzo secolo dopo Cristo.315 È un modo d’indicare, all’inizio e alla fine, la verità che ha ispirato l’intera opera. Improvvisamente, la parola apocalittica, fino a quel momento, carica d’immagini, simboli, al di là della realtà fisica e storica, si fa pressante e dinamica. «Venire» è la parola chiave. La si legge sette volte, come un ritornello; perché in essa si concentra il messaggio ultimo di questo grande grido proveniente dall’alto. Gli aspetti che avevamo sottolineato all’inizio del libro, ora, dobbiamo ricordarli, quando ritornando alle lotte quotidiane, come alle piccole gioie, faremo fronte agl’imprevisti dell’esistenza, aspettando la morte e i sussulti della storia: «Ecco, sto per venire» (22:7). «Ecco, sto per venire» (22:12).

311

Apocalisse 22:6 e 1:1; 22:7,18,19 e 1:3; 22:16 e 1:4-6; 22:13 e 1:7,8; 22:8 e 1:910 (paragonare). Secondo K.A. Strand, Interpreting the book of Revelation, Ann Arbor, 1976, p. 45. 312 Genesi 1:1 e 2:4; Isaia 1:2 e 66:22; Giobbe 1-2 e 42:7-17; Ecclesiaste 1:2 e 12:10 ss. (paragonare). 313 Leg. IV.7. 314 Ant. VIII. II. 2. 315 Gen R. 31; Jerusalem Jeb. XII. 13a.

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«Vieni!» (22:17a). «Vieni!» (22:17b). «Venga» (22:17c). «Sì, vengo presto» (22:20a). «Amen! Vieni!» (22:20b). Il verbo «venire» esce tre volte dalla bocca di Dio «sto per venire» (22:7,12,20). Mentre, tre volte è ripetuto da bocche umane: «Vieni!» (22:17a/b,20). Seguendo da vicino il filo tracciato da questa parola chiave, nel testo, si scopre un andamento di andata e ritorno che denota reciprocità. Al grido del cielo che dà inizio alla serie dei «venire» e si presenta per due volte come una promessa «ecco, sto per venire» (22:7,12), risponde per due volte, l’invocazione dal basso «vieni!» (22:17), alla quale risponde il conforto dall’alto: «Sì, vengo presto» (22:20, a sua volta interviene la preghiera umana: «Amen! Vieni, Signore Gesù» (22:20b). La lezione che si vede in filigrana in questo alternarsi del verbo «venire», merita di essere meditata: 1. L’appello umano alla venuta di Dio presuppone l’esistenza di una promessa in tal senso. L’appello non parte dall’uomo nella forma di un pio desiderio, qualcosa che si vuole che sia vero. Dio parla per primo, ed è per questo che gli si crede. La fede non è un fenomeno soggettivo, ma essa poggia su una parola che è al di fuori dell’uomo e lo precede. 2. D’altro canto, Dio rassicura della sua venuta solo coloro che invocano il suo ritorno. Se egli ci dice «sì, vengo presto», è per confermare la fede di coloro che anelano alla venuta di Dio. Bisogna credere in Dio e vivere già in relazione con lui per poter desiderarne il ritorno. 3. Infine, solo chi ha ricevuto l’assicurazione della sua venuta può pregare per la sua realizzazione. La preghiera procede dalla convinzione e non da una semplice informazione teologica o storica. Unicamente coloro che credono veramente alla venuta di Gesù Cristo pregheranno per la sua realizzazione. Questa è la sintesi finale del processo di comunicazione tra Dio e l’uomo. Sarà proprio questa preghiera che concluderà tutto il libro, una preghiera che conclude tutte le altre, la preghiera per eccellenza: «Venga il tuo regno!» (Mt 6:10; Lc 11:2). Allo stesso 242

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tempo, essa è la risposta e l’appello ardente del cuore e del corpo. Tutta la religione cristiana e tutte le sue preghiere conducono a quese ultime parole. La preghiera che preconizza l’Apocalisse si colloca all’opposto delle preghiere abituali, pronunciate spesso come una formula magica, per guadagnare successi e gioie. La preghiera per la venuta di Dio non mira alla benedizione delle nostre opere né al compimento di sforzi per costruire l’ordine terreno, al contrario, il suo scopo è cambiare questo ordine. Si grida «vieni!», in risposta alla promessa «io vengo», pronunciato da Dio. Il fine non è quello di proseguire meglio sulla nostra strada personale, ma di cercare, con passione, un’altra strada, quella di Dio. Questa preghiera era così importante per i primi cristiani, che essi ne fecero un saluto pronunciato in aramaico: Marana tha!, «Signore nostro, vieni!» (cfr. 1 Cor 16:22). La frase intera Marana tha Amen che conclude l’Apocalisse, segnava la fine del servizio eucaristico, presso la cristianità primitiva. Lo sappiamo, grazie alla testimonianza della Didaché,316 uno dei documenti più antichi della chiesa cristiana, la cui composizione risale all’epoca dell’Apocalisse stessa. Queste risonanze suggeriscono l’intenzione dell’autore dell’Apocalisse, di collocare il suo libro, in una prospettiva liturgica aderente al rito della comunione317 che annuncia «la morte del Signore finché egli venga» (1 Cor 11:26). Tuttavia, la preghiera e i gesti liturgici non sono certo le sole risposte alla promesse dall’alto. Al centro dei cinque ultimi «vieni!», intersecata con le invocazioni dello Spirito e della chiesa, che invocano l’intervento di Dio (Ap 22:7), risuona una preghiera completamente diversa: «Chi ha sete venga; chi vuole, prenda in dono dell’acqua della vita» (v. 17). Il ritorno di Dio e il desiderio della sua apparizione, non riguarda soltanto il futuro; l’acqua che disseta, non è solo il simbolo della salvezza e della vita eterna che si realizzerà nella nuova

316 «Venga

la grazia e passi questo mondo. Osanna alla casa di David. Chi è santo si avanzi, chi non lo è si penta. Maranatha. Amen» Didaché 10:6, introduzione, traduzione e note di Umberto Mattioli, edizioni Paoline, Roma, 1984, p. 117. 317 P. Prigent, L’Apocalypse de saint Jean, pp. 361,362; cfr. O. Cullmann, La foi et le culte dans l’église primitive, Neuchâtel, Paris, 1963, p. 111.

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Gerusalemme (21:6). Il verbo è coniugato al presente e situa l’esperienza già su questa terra. Nell’Antico Tesamento «l’acqua della vita» è generalemente associata a YHWH, SIGNORE, e si applica alla vita presente. «Poiché in te è la fonte della vita e per la tua luce noi vediamo la luce» (Sal 36:9). Dio viene identificato con «la sorgente d’acqua viva» (Ger 2:13; cfr. 17:13). Nel Nuovo Testamento, quando Gesù offre da bere alla Samaritana, si pone sulla stessa linea (Gv 4:10-15) ed esorta la folla a bere della sua acqua (Gv 7:37,38). Giovanni spiega che quest’acqua rappresenta: «Lo Spirito che dovevano ricevere quelli che avrebbero creduto in lui» (v. 39). Nella stessa direzione, per gli antichi rabbini e i maestri di Qumran, l’acqua della vita era la religione ispirata dalla Torah.318 Per tutti, l’acqua della vita è accessibile già su questa terra, nella storia e nel cuore dell’esistenza. In altre parole, la promessa di bere l’acqua viva della nuova Gerusalemme non esclude la stessa esperienza, qui ed ora (hic et nunc). La religione della speranza non è passività. Essa non si perde nel sogno utopico di un futuro sempre lontano. «L’acqua della vita» è un dono per il presente; essa ci viene offerta «gratuitamente» precisa l’Apocalisse (22:17). Questo miracolo non deriva da un’operazione magica né da una tecnica soprannaturale. Bere di questa acqua della vita significa semplicemente vivere in relazione con Dio, il Dio della vita, incontrato nella nuova Gerusalemme, ma già ricevuto qui e ora, nell’esistenza. Il cammino sulla terra è già punteggiato da miracoli; il Dio invisibile è sperimentato nella vita di tutti i giorni, nelle risposte precise e dirette alle preghiere, nella felicità che fa battere i cuori, nella sua protezione, nella sua guida, nel suo conforto, quando siamo soli e soffriamo. Allora, possiamo sentire quel sentimento forte e sicuro, quell’intuizione potente che ci dice che egli è lì, presente e vicino. Tuttavia, l’acqua gratuita non è data in modo arbitrario e autocratico. Occorre aver sete, bisogna desiderare, andare,

318

H. Odeberg, The Fourth Gospel, Uppsala, 1919, pp. 149-169; cfr. M. Burrows, The Dead Sea Scrolls, Londres, 1956, pp. 353,356.

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volere, prendere. La vita con Dio non è fatta solo di grazia, miracoli, emozioni e sicurezze. Il desiderio potente di cose maggiori, la volontà e l’azione, fanno parte della religione. È necessario muoversi per poter cogliere la presenza di Dio che si offre a noi; ed essa non è mai acquisita una volta per tutte. Bisogna sempre avere sete, volere, andare e prendere. Paradossalmente, questa presenza porterà ad avere ancora più sete, a chiamarlo ancora più vicino a noi, ad andare da lui a coglierne le benedizioni. Gli esseri umani sono totalmente responsabili della loro relazione con Dio. Molti cristiani non l’hanno capito ed è per questo che la religione, troppo spesso, viene ridotta a una dottrina o a dei buoni sentimenti, come a dei brividi mistici o a una fredda tradizione culturale. La religione preconizzata dall’Apocalisse, completamente pervasa dall’«andare» di Dio, corrispondente all’«andare» del credente. Alla discesa di Dio deve corrispondere questa dinamica dal basso. La volontà del credente, la sua azione, la sua etica e le sue scelte, a tutti i livelli dell’esistenza, sono permeati della venuta di Dio. Perché quell’«acqua», quella venuta di Dio è reale e storica; essa è percepibile nel palpitante vissuto di coloro che la bevono. Leggere l’Apocalisse, significa, innanzitutto portare le parole di questo libro, nella propria vita. Questo orientamento di lettura è stabilito da Gesù stesso, nelle parole benedicenti che introducono l’epilogo: «Beato chi custodisce le parole della profezia di questo libro» (22:7). La lezione è ripetuta dall’angelo che si associa a «quelli che custodiscono le parole di questo libro» (v. 9); per trovare compimento nella conclusione del libro, pronunciate dall’autore dell’Apocalisse, sottoforma di maledizione: «Io dichiaro a chiunque ode le parole della profezia di questo libro: se qualcuno vi aggiunge qualcosa, Dio aggiungerà ai suoi mali i flagelli descritti in questo libro; se qualcuno toglie qualcosa dalle parole del libro di questa profezia, Dio gli toglierà la sua parte dell’albero della vita e della città santa che sono descritti in questo libro» (vv. 18,19). Non è lo scriba a essere messo in discussione. La parola è indirizzata a «chiunque ode le parole di questa profezia di questo libro» (v. 18); ed essa interpella ogni lettore di tutti i tempi. Il libro del Deuteronomio impiega lo stesso linguaggio e ne chiari245

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sce l’intenzione: «Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne toglierete nulla, ma osserverete i comandamenti del SIGNORE vostro Dio, che io vi prescrivo» (Dt 4:2; cfr. 13:1). Il parallelo tra i due testi invita a leggere l’Apocalisse come, una volta, gli israeliti dovevano leggere il Deuteronomio, cioè come un documento d’alleanza che riguarda il quotidiano. «Osservare le parole di quest libro», equivale a renderle significative nel vivo dell’esistenza. Questo implica, innanzitutto, una giusta comprensione della parola profetica. Sono implicati, qui, tutti gli interpreti e tutti i commentatori dell’Apocalisse (compreso me stesso), in definitiva, tutti i lettori del libro. Il dovere di un’esegesi corretta obbliga a un’umile ricerca ma rigorosa ed esigente, soprattutto onesta. La buona volontà o una fede fervente, non garantiscono nulla. Non basta leggere per aver capito. Bisogna leggere nella direzione giusta. L’Apocalisse ci mette in guardia contro ogni lettura soggettiva, personale e selvaggia, che ci porterebbe fuori strada. L’idea è quella di un rispetto profondo per l’integrità della parola, che conduce a non voler aggiungere né togliere nulla. La conseguenza sarà quella di vivere concretamente ciò che si è compreso. La cosa è seria e si rischia grosso a mal comprendere l’Apocalisse. L’esistenza deve allinearsi alla visione. Ogni lettore dell’Apocalisse è minacciato dalla stessa tentazione. Esaltati dagli «Alleluia» e dagli «Amen», colpiti dalle immagini, dai simboli e dalle visioni celesti, si può essere portati a fermarsi là, dimenticando la propria responsabilità di uomini che devono testimoniare del regno che viene. L’Apocalisse chiama a una religione coerente ed equilibrata. Alla visione che attende cose future, deve accostarsi uno sguardo lucido, ben agganciato alla realtà di tutti i giorni. Questi due avventi, s’impongono entrambi e si controllano reciprocamente. La purezza e l’autenticità della religione dipendono da questo. Senza la profezia che nutre la speranza, la religione si ridurrà a un’etica relativistica, umanista e soggettiva, nella quale Dio non avrà più posto. Conseguenza estrema di questa omissione, porterà agli abusi di Babele, alle violenze e alle oppressioni delle società totalitarie, dove il valore si fonda sul criterio della maggioranza o del successo. D’altro canto, senza il confronto con la realtà umana, la religione degenera in 246

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un delirio patologico e fantastico, se non nel fanatismo pericoloso, come si è osservato a proposito dei messia e delle sette, sorte negli anni scorsi, attorno all’Apocalisse. Ma, nel momento in cui vorremo chiudere questo libro, tanto strano e minaccioso, quel grido del cielo si farà udire potente, nelle orecchie dei razionalisti, che rimangono chiuse alla speranza, ma anche in quelle di folli esaltati, che facilmente vi si perdono. La lettura dell’Apocalisse spingerà fuori dalla lettura stessa, per incontrare l’azione in Dio, affinché egli venga; e nell’uomo affinché vada incontro al Dio che viene. Al di fuori del libro, nella storia e nell’esistenza, gli eventi, renderanno tutto il loro senso all’Apocalisse.

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Shavuoth 1. Cavallo bianco 2. Cavallo rosso 3. Cavallo nero 4. Cavallo giallo 5. Grido delle vittime 6. Segno nel cosmo 7. Silenzio

Pessah 1. Efeso 2. Smirne 3. Pergamo 4. Tiatiri 5. Sardi 6. Filadelfia 7. Laodicea

Primi cristiani, I-III secolo Guerre intestine IV-V secolo Potere temporale, VI-IX secolo Intolleranza, X-XVIII secolo Giudizio, XIX secolo Giudizio, XIX secolo Ritorno di Cristo

II. I sette sigilli: dal primo secolo al ritorno di Cristo (Ap 4:1-8:1)

Chiesa apostolica, I secolo Persecuzioni, II-III secolo Cristianità regnante con successo IV-V secolo Potere temporale della chiesa e intolleranza VI-XVIII secolo Riforma protestante XVI-XVIII secolo Missioni XVIII-XIX secolo Chiesa degli ultimi tempi

I. Le sette chiese: dal primo secolo ai tempi della fine (Ap 1:12-3:22)

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Shabbat

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Tavola delle visioni profetiche

Appendice

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Guerre intestine, IV-V secolo Carestia spirituale VI-X secolo Cavallette, oppressione e rivoluzione, X-XVIII secolo Chiesa e secolarizzazione, XVIII secolo – fine dei tempi Regno e ritorno di Cristo

III. I sette shofar: dal IV secolo al ritorno di Cristo (Ap 8:2-11:18)

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V. Le sette coppe: dopo gli annunci dei tre angeli (Ap 15 e 16) Fine del Kippur Prima coppa/1° shofar Dominazione tramite il potere papale Seconda coppa/2° shofar Carestia spirituale (mare) Terza coppa/3° shofar Carestia spirituale (fiumi e fonti) Quarta coppa/4° shofar Carestia spirituale (sole bruciante) Quinta coppa/5° shofar Tenebre dell’abisso, rifiuto di Dio Sesta coppa/6° shofar Harmaghedon, formazione dei campi di battaglia Settima coppa/7° shofar Harmaghedon, ritorno di Cristo, vittoria di Dio

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IV. I sette segni: tempi della fine (Ap 11:19-14:20) Kippur 1. Il dragone e la donna Persecuzione dei 1260 anni 2. La besta del mare Roma papale, ferita e guarigione 3. La besta della terra Stati Uniti d’America 4. 1° angelo Giudizio e creazione 5. 2° angelo Denuncia sullo stato di Babilonia 6. 3° angelo Scelta di campo 7. Il Figlio dell’uomo Venuta di Gesù Cristo (radunamento dei fedeli e castigo degli empi)

Rosh Hashanah 1° e 2° shofar/2° sigillo 3° e 4° shofar/3° sigillo 5° shofar/4° sigillo 6° shofar/5° sigillo 7° shofar/6° e 7° sigillo

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Succot 1. La città (bellezza) 2. Mura, porte e fondamenta (sicurezza) 3. La piazza (pace) 4. Fiume della vita (vita) 5. Albero della vita (vita) 6. Trono di Dio (regno di Dio) 7. Dio di luce (regno dei santi)

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VII. Le sette meraviglie della nuova Gerusalemme: dopo il millennio (Ap capp. 21-22)

VI. Le sette vittorie di Dio: dopo il ritorno di Cristo (Ap capp. 17-20) Pre-Succot Prima vittoria/1° sigillo Cavallo bianco, venuta gloriosa di Gesù Cristo Seconda vittoria/2° sigillo Harmaghedon, i re della terra uccisi Terza vittoria/3° sigillo Harmaghedon, i resti divorati Quarta vittoria/4° sigillo Diavolo incatenato per mille anni Quinta vittoria/5° sigillo Risurrezione dei giusti; giudizio dei mille anni Sesta vittoria/6° sigillo Gog e Magog: ultima battaglia contro il diavolo liberato, gli empi risorti Settima vittoria/7° sigillo Trono bianco: ultima fase del giudizio, mai più la morte

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252 Shabbat Pessah Shavuoth

intronizzazione di Cristo

Rosh hashanah

insediamento del potere eccl. bestia sale dal mare

508 Inizio oppressione

538

1844

guarigione della bestia del mare, bestia della terra

1870

fine Kippur

pre-Succot

Gog e Magog

1.000 anni

7 vittorie

ritorno di Cristo

7 coppe

suggellamento, schieramento dominio della bestia

Messaggio dei 3 angeli

7 segni

inizio Kippur

fine dell’oppressione, ferita della bestia del mare secolarizzazione

1798

7 shofar

Succot

nuova Gerusalemme

13:00

crocifissione resurrezione di Cristo

31

7 sigilli

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42 mesi

7 chiese

Tavola degli avvenimenti profetici

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Indice

Prefazione: I folli dell’Apocalisse Introduzione: Il Dio che viene Apocalisse 1 Prima parte: Tempeste Apocalisse 2-12 1. Lettere aperte alle chiese 2. Il silenzio del cielo 3. Gli «schofar» della morte

9 15 31 33 63 93

Seconda parte: Quando il cielo rosseggia Apocalisse 13,14 4. Il diavolo e la donna 5. Bestie e uomini 6. Grida di angeli

125

Terza parte: A oriente tutto è nuovo Apocalisse 15-22:5 7. Le sette coppe del mondo 8. La conquista dello spazio 9. La Gerusalemme d’oro

171

Conclusione: Il Dio che torna Apocalisse 22:6-21 Appendice

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129 137 149

175 205 227

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Finito di stampare nel mese di luglio 2004 da Legoprint S.p.A. - Lavis TN

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