L'UOMO DEL TRENO DELLA NOTTE Non c'è proprio alcun bisogno di mettersi a raccontare sino in fondo la vita del nostro personaggio, pur non essendo questa una regola precisa di cui servirsi in ogni momento narrativo, poiché diverse sono le circostanze vissute nei racconti. Certamente in questo caso la regola va rispettata senza neppure tentare di scalfirla ai limiti del suo spazio interno; e ciò per la natura del racconto che vuole narrare un episodio circoscritto nel tempo e nello spazio, e ciascuno di noi potrebbe esserne il protagonista o, se si preferisce, l'attore. La vita non è forse un immenso teatro dove gli uomini, ciascuno nel suo ruolo, vivono il breve attimo di un'apparizione? La vita è come un ponte breve che porta a spazi incolmabili ed infiniti, eterni. E su questo ponteteatro siamo tutti inconsapevoli attori, dal più grande al più piccolo, poiché impossibile è la conoscenza dei valori vitali che ogni uomo apporta nel suo fugace passaggio sul palcoscenico. Chi può dire: è più grande il presidente del più potente stato della terra o il più bravo dei chirurghi capace di salvare decine di vite umane, o colui che tende un pane al fratello che sta morendo di fame, o regala un sorriso a colui che a sua volta non sa donarlo, o il poeta che penetra nei misteri, o il filosofo che i misteri tenta di 1
svelare, o la dona che accetta nel suo grembo l'amore della vita, o la mamma capace di perdonare il figlio, o il padre capace di umiliarsi verso il figlio, o i figli che donano a padre e madre la forza del rispetto e la continuazione dell'amore, o il più umile uomo dei campi, o il più lontano pescatore del mare, o il più povero dei mendicanti, o il più dimenticato degli uomini? Chi può dirlo senza lasciarsi offuscare dal fumo dell'apparenza?
Perciò il nostro personaggio è uno qualunque, o meglio, uno di noi che vive immerso con noi nel mondo, mescolandosi tra caos, fretta, inquinamento, pasti frettolosi e disordinate abitudini quotidiane. Un giorno fu visto sul treno diretto verso Roma proveniente da Milano e non si seppe il motivo del suo viaggio; e poi a noi, son certo, non interessa affatto. Non è forse uno di noi? Noi partiamo molte volte: per affari, per lavoro, per piacere, per amore; e quando si arriva, si riparte. Appena il tempo di dare intorno sguardi frettolosi e distratti e poi di corsa verso la stazione con la paura di perdere il nostro treno. E quando ci troviamo intrappolati nella rete del traffico il nostro cuore ha gli stessi battiti dell'orologio che non vuol fermarsi. Il treno partirà? E calcoli facciamo sull'orario ad ogni attimo, sperando che ritornino a noi favorevoli. Non osiamo immaginare di non fare in tempo, e 2
non consideriamo, in quel momento, alternative soluzioni; la nostra corsa, del resto, lo impedisce. Solo dopo la dura realtà ci è davanti, e altro non possiamo fare che accettarla e superarla, perché certamente non si può restare sospesi in mezzo alla stazione, inerti. Qualcuno forse ci resta?
Quanti pensieri aveva con sé l'uomo del treno, poiché il suo viaggio non sarebbe finito a Roma. Nella capitale, infatti, doveva prendere un treno locale che lo avrebbe portato nel paese immerso in una campagna. Perciò ad ogni località attraversata, i calcoli ansiosi si ripetevano: chilometri percorsi, chilometri da percorrere, media oraria, proporzioni. E ciò che lo rendeva più nervoso era il fatto che la possibilità derivante era ogni volta diversa; si mordeva le labbra e stringeva fortemente le mani quando riteneva che il treno fosse in ritardo, ma, ad ogni calcolo positivo, si guardava intorno orgoglioso e soddisfatto, come se il merito che il treno viaggiasse in orario fosse solo suo, e sorrideva senza nemmeno accorgersene. Ma il cuore gli si strinse quando il treno rimase fermo più del solito nella stazione di Chiusi-Chianciano Terme; sentì fuori voci concitate, s'era fatta ormai sera, e tra i lampioni si scorgevano alberi scossi dal vento. – Ma cosa succede? – pensò ad alta voce proprio quando, dopo aver aperto con enorme 3
fatica il finestrino, vide il macchinista scendere dalla tartaruga e avvicinarsi, gesticolando, verso il capostazione. Ci fu tra i due (capelli brizzolati entrambi, magro e asciutto il macchinista, grassottello il capostazione) una vivace conversazione che l'uomo del treno seguì con estrema apprensione. Dopo aver teso l'orecchio il più possibile, gli parve di capire che il macchinista non voleva saperne di ripartire, poiché il suo treno, chissà come (forse in seguito a strane manovre ferroviarie) si era venuto a trovare al di là del segnale verde, che non poteva ovviamente vedere. Si dovette così far indietreggiare il treno di quel tanto che bastava; e finalmente, si ripartì. L'uomo richiuse il finestrino con la stessa enorme fatica con la quale l'aveva aperto e, mentre si risiedeva, guardò l'orologio: – Ecco – esclamò seccatamente rivolgendosi ai suoi compagni di viaggio. – Abbiamo perso quasi venticinque minuti... – e si guardò d'intorno per cercare un gesto di solidarietà, che non trovò. Per tutto il resto del viaggio l'uomo rimase al suo posto, stanco e un po' rassegnato forse, considerato che il ritardo accumulato sembrava praticamente irrecuperabile. Solo in quei momenti riuscì a mandare fuori qualche distratto sguardo, a vedere paesaggi montani in lontananza circondati da un velo di 4
nebbia, a cercare di leggere, ad ogni stazione attraversata, l'indicazione della località. Si sentì spossato e chiuse gli occhi per distendersi. Il rumore del treno sulle rotaie aveva il suono triste dei viaggi, dei volti tesi in un ultimo sguardo, degli occhi pieni d'amore e di lacrime, delle labbra desiderose ancora di un bacio, delle speranze di un ritorno, della nostalgica malinconia dell'infanzia, dei cuori rivolti verso un migliore futuro. E fu quel suono, con la sua nenia, che lo addormentò. Il risveglio durante un viaggio ha delle strane sensazioni. All'inizio non si hanno le idee chiare: pare di starsene a dormire nella comodità del proprio letto, ma dura solo un attimo; poi, all'improvviso, la realtà ci stravolge, i rumori, il vociare della gente, l'odore di ferraglia. – Roma! – esclamò qualcuno. Questa parola lo ridestò completamente. Guardò l'orologio: era quasi mezzanotte, mancavano perciò poco più di quattro minuti alla partenza dell'altro treno. Guardò fuori, si era ormai nell'abitato di Roma, e pioveva. Il treno non rallentò nemmeno quando attraversò la stazione Tiburtina, e ciò lo fece sperare. Ancora uno sguardo all'orologio, no, non si può fermare il tempo: mancavano solo due minuti.
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Ormai la stazione Termini era là, avvolta nel buio, ma punteggiata di luci di marmotte, di semafori, di neon. Appena in stazione, ancor prima che il treno si fermasse del tutto, l'uomo aprì lo sportello e... volò. Era ormai quasi a metà strada quando sentì un fischio che per lui fu come un sibilo che gli rintronò nel cervello; non volle nemmeno pensare che stava per perdere il suo treno. Continuò a correre contro ogni speranza e, appena giunto al binario, vide due luci rosse che si allontanavano, implacabilmente. Corse, corse ancora, senza sapere perché; poi si fermò di scatto, si arrese; notò, lì vicino, con la coda dell'occhio avvelenato, una panchina di pietra, semidistrutta. Pensò di sedersi, e lo fece per riposarsi dell'inutile corsa. – A che ora ci sarà il prossimo? – chiese a se stesso pur sapendolo benissimo. Capita, a volte, di fronte a realtà indesiderabili di ripeterci quello che si dovrà fare: per guadagnar coraggio, per accettare che si è soli, per convincerci che non ci sono altre vie. E non c'è cosa più ardua e sofferta che convincerci da soli. Più facile è persuadere gli altri, poiché, pur conoscendone la situazione, possiamo recitare, inventare, si ha più spazio per l'operazione. Recitare con e per noi è altra cosa, giacché sappiamo d'essere inventori d'una falsa 6
sceneggiatura; il conflitto è aspro, ma alla dobbiamo accettare la fragile menzogna, l'alibi per non cessare la corsa. Così il nostro uomo s'incamminò verso la sala d'aspetto, la sede di un'attesa di circa cinque ore; ma nemmeno vi entrò. Da fuori, attraverso la vetrata appannata, vide che tutte le panche erano occupate: c'era una confusione d'uomini e valigie. Istintivamente girò lo sguardo verso la parte opposta – si accorse della pioggia che cadeva giù abbondante – e notò che la sala d'aspetto di prima classe era tutt'altra cosa: poltrone al posto delle panche, una luce azzurra fioca e dolce, pochissime persone. – Eh già – disse tra sé – sarebbe bello, ma il mio biglietto non è di prima classe! – E fece per ritornarsene, quando gli venne in mente l'idea di comprare un biglietto di prima classe. Si avviò verso la biglietteria, di corsa, non c'era molta gente a quell'ora. – Ehi, signore, scusi... – sentì chiamare proprio mentre stava per entrare nella sala d'aspetto di prima classe; si voltò e vide un uomo vestito con la divisa da ferroviere. Aveva i capelli castani e ricci, gli occhi sanguigni, il viso rotondo e paffutello, all'altezza degli zigomi un bel colore rosso. – Dice a me? – chiese sperando una risposta negativa. 7
– Sì – replicò quello – scusi, il biglietto, prego. – Egli gli porse il biglietto. – Non può entrare – gli disse il ferroviere in modo secco e deciso. Ma cosa stava insinuando?! – Come mai non posso entrare? – Il mio è un regolare biglietto di prima classe! – – Non può entrare. Questo biglietto non è valido. – – Non è valido? Ma se l'ho appena fatto, vede la data? E' quella di ieri, ma no, di domani, cioè volevo dire di oggi... visto che la mezzanotte è passata... accidenti... l'ho fatto proprio adesso... – – Non è questione di data: per entrare là dentro ci vuole un biglietto di prima classe. – – Ma... scusi... vede... c'è scritto anche sopra, questo è...è di prima classe! – – Lo vedo bene che è un biglietto di prima classe; ma non ha una percorrenza superiore ai sessanta chilometri. – – Percorrenza?... ma... io... io non capisco cosa centri la... la... – C'entra! Perché per aver diritto alla permanenza nella sala d'aspetto di prima classe, occorre un biglietto naturalmente di prima classe, ma con una percorrenza naturalmente superiore ai sessanta chilometri. – Cosa sentisse in sé, in quel momento, il nostro uomo, non è facile da raccontarsi, basterebbe solo provarlo. Quante cose vengono in 8
mente, quante cose si pensa di fare, eppure, per qualche attimo non si sa né cosa dire né cosa fare; si guarda solo d'intorno come per cercare una soluzione rapida che ci liberi dal terribile groviglio. Senza nemmeno rendersene conto, a passi svelti, girò per la stazione, incrociando un poliziotto della Polfer. Gli raccontò tutto. – Certo che le non ne ha proprio l'aspetto – gli disse il poliziotto. L'uomo lo guardò meravigliato, non aveva capito il senso delle sue parole. – Oh, vedo che è rimasto un po' perplesso – proseguì quello. – Io intendo dire... vede, qui... la sera, c'è molta gente che entra nella stazione, ma non certo per partire; è perché non sa dove andare... sono persone che non hanno casa, anzi...la loro casa è in ogni posto dove si fermano a mangiare o a dormire. – L'uomo osservava attentamente il poliziotto mentre questi parlava, per cercare una spiegazione alle tante cose che non aveva capito. – Cosa c'entro io con i vagabondi – pensò – e perché, a causa delle loro abitudini, io, cittadino libero e onesto, non posso usufruire di un pubblico servizio? – Questo pensava quando fu distolto da un vociare lì vicino. Si voltò e vide due uomini con una lunga barba e capelli fin sopra le spalle, scalzi, vestiti d'abiti che non erano più tali, ma stracci. C'erano anche due donne, in quel misero 9
gruppo, anch'esse scalze, la faccia sporca, gli stessi stracci addosso. Alcuni poliziotti li avevano sorpresi a dormire in un treno e li stavano portando via. Gli occhi della donna più giovane, neri come la notte, incrociarono quelli dell'uomo, che rimase fulminato da quello sguardo così intenso. – Vede? – disse il poliziotto – vanno a dormire anche nei treni... e tentennò il capo: fu un gesto di commiserazione. Passarono alcuni secondi in silenzio, poi: – Ma ora venga... – disse il poliziotto – venga... venga con me. – E insieme si avviarono verso la sala d'aspetto di prima classe. Il ferroviere dal viso rotondo e paffutello fece ancora un po' di storie quando il poliziotto gli disse che, in quel caso, un'eccezione poteva essere fatta; e mentre l'uomo stava entrando nella sala lo sentì ancora brontolare con un suo collega. Ma non gliene importava più nulla, ormai. La stanchezza aveva preso il sopravvento sui princìpi, sulla rabbia, su quello che è giusto o no, sul mondo. Si sedette su una comoda poltrona di pelle nera, la luce era tenue per conciliare il sonno, e sulla parete opposta, in alto, un orologio ben visibile ricordava il tempo che passa. Con gli occhi socchiusi vide che mancavano dieci minuti all'una, e quando abbassò lo sguardo 10
notò – in una delle poltrone di fronte – proprio sotto l'orologio, una donna. Si soffermò a guardarla: aveva indosso una pelliccia, sul volto un trucco appena accennato, il rossetto sulle labbra, e tra le mani reggeva una piccola borsa nera e lucida. Il volto e le mani erano rugosi, e dicevano l'età di quella donna. Egli continuò a fissarla, inconsapevolmente, attratto forse dallo strano sguardo di lei così nervoso, eppure così vivo, attento. Inaspettatamente ella incontrò i suoi occhi proprio nell'attimo che egli stava per distoglierli da lei; e lei gli sorrise, stranamente e dolcemente. L'uomo non rispose a quel richiamo, non ne capì il significato né voleva conoscerlo, aveva quasi paura. Ma la donna continuò a sorridergli, poi si alzò e, tremando sullo stanco corpo, gli si avvicinò, gli si sedette vicino e disse: – Ho visto che mi guardava. – Un attimo di paura, poi soggiunse: – E io ho tanto bisogno di parlare! – L'uomo si irrigidì, quasi a volersi allontanare. Dopo alcuni istanti di silenzio (tra i due sguardi ci fu solo il sorriso di lei) la donna infilò nella borsetta le mani, che le vibravano nel muoversi, e ne trasse due o tre fotografie in bianco e nero, ingiallite dal tempo. – Vede... – disse porgendo le fotografie all'uomo – questo... (tossì) questo è mio figlio, il mio unico figlio... le porto sempre con me, le ho tenute sempre nella borsetta. – 11
L'uomo prese le fotografie e le guardò senza alcun interesse. – Oh, certo – riprese la donna – queste sono fotografie di tanti anni fa, adesso non è più quel bambino... – La voce si fermò, si perse per qualche istante nel tempo, rabbrividì nel freddo passato; poi tossì ancora, negli occhi spuntarono e brillarono due lacrime come rugiada. Lentamente appoggiò la testa alla poltrona e chiuse gli occhi. – Pensi che sono più di sette mesi che sto a Roma... – s'interruppe –. Poi soggiunse: – Chissà... chissà se mio figlio mi ha mai cercata! – Da un po' i treni nella stazione avevano ripreso a fischiare, la pausa notturna era finita. Si sentiva solo l'odore del giorno, poiché ancora il buio era completo; e, lungo i binari, movimento d'uomini. Nella sala d'aspetto di prima classe poche persone erano rimaste appisolate qua e là. Il nostro uomo si levò dal lieve sonno e lo sguardo ansioso rapì l'ora sulla parete: erano quasi le cinque. Si guardò al suo fianco, la donna non c'era più, dissolta nel risveglio. Si alzò, frettolosamente indossò il cappotto che aveva poggiato sulle ginocchia e uscì, incamminandosi verso il binario del suo treno, che partì poco dopo. 12
Avrebbe avuto voglia di dormire, ma ormai poco mancava al suo arrivo. Rimase perciò nel corridoio, appoggiato al finestrino: vedeva fuori l'alba pian piano squarciare il buio, la nebbia diventare chiara, e in mezzo ad essa, alberi gocciolavano, e case s'aprivano, e pietre umide apparivano. La vista del paesaggio gli procurò un brivido, si strinse nel suo cappotto e infilò le mani nelle tasche. Con una di esse, nella parte sinistra, gli parve di sfiorare qualcosa, forse un pezzo di cartone. Tastò più volte, incuriosito, finché non la tirò fuori: era una fotografia in bianco e nero, ingiallita, sfumata dal tempo. – Ah... – pensò. – Gli ritornò in mente la donna nella sala d'aspetto della stazione. Il treno, in quel momento, cominciò a rallentare, lo sentì scuotersi sugli scambi. Guardò fuori e riconobbe l'invernale campagna del suo paese, finalmente il viaggio era finito. Rimise in tasca la fotografia mentre si avvicinava alla porta. Il treno fermò, e scese. Faceva molto freddo e foglie umide cadevano. Alzò il bavero del cappotto e si avviò lungo il viale di platani, nella nebbia, dove si disperse.
Antonio Ragone
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