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gior nale per studenti, insegnanti ed esseri pensanti
Una storia in uno scatto p. 3 - Passato / Presente, così lontani ma non così diversi p. 4 - La realtà della sicurezza e la percezione della paura p. 6 - Pinzeri e Teatro p. 9 - Quanto fa la paura? p. 10 - Il coraggio della paura p. 12 - La paura: un’emozione che si può apprendere p. 14 - Le trenta paure di Dante p. 16 - Paura, potere, affari e stragi di Stato p. 19 - La strage del 12 dicembre 1969 e la strategia della tensione p. 21 - Una giornata in sicurezza p. 22 - Chi è il nemico? p. 24 - Io non ho paura p. 26 - Era una notte buia e tempestosa p. 27 - Il ripiegamento sul presente dell’uomo postmoderno p. 29 - Dal Welfare State al Win for Life p. 30 - Il pasticciaccio tra Gadda e Germi p. 33 - La paura dell’influenza, l’influenza della paura p. 34
2€ Anno III n.2 ott-nov 2009
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editoriale 2
« Il male, dunque, che più ci spaventa, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è lei, e quando c’è lei non ci siamo più noi. » Epicuro
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ome non essere d’accordo con Epicuro? Eppure, anche quando fossimo intimamente convinti della verità della sua proposizione e riuscissimo a mettere a morte la morte, la madre di tutte le paure, questa avrebbe fatto comunque in tempo a partorirne moltissime altre. La malattia, la vecchiaia, il dolore, lo smarrimento, la fragilità, la precarietà, la debolezza (quanto sarebbe lungo l’elenco...) ci costringono ogni volta a misurarci con i limiti della nostra natura e con le paure che ne derivano. Ma, come se queste non bastassero, nel tentativo quasi sempre vano di allontanare dai pericoli le persone a noi care, ne creiamo altre, mostruose barriere psicologiche a cui abbiamo dato, di volta in volta, nomi fantasiosi e terribili: il Babau, l’Orco, l’Uomo nero, il Lupo, il Lupo Mannaro, la Strega, il Mammone... E non facciamo in tempo a capire che questi erano solo spauracchi, che già siamo costretti a fronteggiare altre inconfessate e spesso inconfessabili paure.
Questo numero parla della paura. Parla di come la paura abbia accompagnato la storia del nostro paese, e non solo del nostro, e di come sia una componente essenziale del controllo sociale. All’Uomo nero dei nostri incubi infantili, senza neanche doverci sforzare troppo, abbiamo dato i connotati dell’immigrato e, per scacciare i pericoli, invece che alle gonne materne protettrici, ci siamo affidati alle rassicuranti promesse di un apparato di sicurezza talmente imponente da incutere paura! Non fa forse paura l’idea di barricarsi in casa propria con sbarre di acciaio in stile supercarcere, porte blindate e corazzate, sistemi di allarme audio, video e satellitari? Di essere ripresi da videocamere a circuito chiuso non solo se si va in banca o dal gioielliere, ma anche se si è in un centro commerciale, in un negozio, in un ufficio, per strada ed in piazza?
E quanto siamo sicuri di essere più sicuri se troviamo un vigilante davanti alla banca, alla posta, al supermercato, alla farmacia?! E lo saremo di più quando ne avremo uno anche dal fruttivendolo, dal panettiere, dal parrucchiere? E non sarebbe il massimo averne uno per condominio, uno per famiglia? A quando i metal detector ed i tornelli nelle scuole? In Italia abbiamo oltre 325.000 persone destinate alla pubblica sicurezza, 74.000 in più rispetto alla Germania e più del doppio della Gran Bretagna. Il rapporto tra forze dell’ordine e popolazione è di 5,5 per 1000 abitanti, il più alto in Europa e nel Mondo, ad eccezione delle Mauritius. Da molto tempo vediamo nelle nostre strade pattuglie in servizio di vigilanza composte da giovani militari dell’esercito e carabinieri o poliziotti. Il “pacchetto sicurezza” varato dal governo ha aggiunto il pattugliamento del territorio da parte delle cosiddette “ronde”, che dovrebbero essere costituite
preferibilmente da ex appartenenti alle forze dell’ordine. Tutto questo dispiegamento di forze e di tecnologie avviene, però, in presenza di un effettivo e deciso calo della criminalità, cioè proprio mentre aumenta la sicurezza. Come si spiega? La paura genera un bisogno di sicurezza, e chi fornisce sicurezza esercita certamente un potere su chi ne ha bisogno. Il buio ed i fantasmi, suoi figli, non ci lasciano la libertà di andare là dove vorremmo, spingendoci a sottometterci alla protezione di chi si dice in grado di difendercene. E chi li conosce meglio di chi li ha creati? Noi siamo grati a chi ci protegge dal buio e saremo ben disposti a riconfermarlo nel suo ruolo di difensore della nostra sicurezza. Questi meccanismi sono tanto semplici che, per comprenderli non occorrono scienziati della politica o specialisti della psicologia del profondo. Per eliminare il buio basta accendere la luce!
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The Spy di Felisiano Bruni - Rumore Collettivo
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���������������������������������������������������� paura del diverso 4
di Vincenza Iannelli Paura, fobia, violenza, intolleranza, razzismo sono sentimenti e reazioni sempre più diffusi al giorno d’oggi. Il diverso, che sia immigrato, omosessuale, disabile, se, fino a qualche tempo fa, era emarginato e bandito dalla società in quanto di razza, pelle, religione, preferenze sessuali differenti dalle nostre o, come nell’ultimo caso, affetto da una minorazione fisica, oggi viene rifiutato o perseguitato e, nel peggiore dei casi, ucciso. L’aggettivo “diverso” significa: differente, dissimile per natura, qualità, aspetto e si ricollega etimologicamente al latino diversus, participio passato di divertere, che significa “volto in direzione opposta”. La Chiesa, nel periodo del proliferare delle eresie, criticò e condannò questi movimenti che erano appunto “diversi” in quanto deviavano dalla retta via e si allontanavano dai principi evangelici. Lo straniero è sempre stato considerato un “diverso”: i Romani più conservatori e legati all’osservanza del mos maiorum, uno tra tutti Catone il Censore, guardarono con disappunto al filellenismo di certi circoli romani (quello degli Scipioni, ad esempio) ed al diffondersi di dot-
trine filosofiche greche, ree di intaccare i capisaldi dell’impero romano. A causa di questa diffidenza furono espulsi da Roma oratori e filosofi greci, e chiuse le scuole in cui c’erano precettori greci. Anche Giulio Cesare non fu immune dal connotare negativamente lo straniero:
considerava i Galli delle popolazioni da sottomettere in quanto inferiori ed in quanto alieni dalla civiltà (la sua opera De bello Gallico ne è una testimonianza). Con il pretesto di difendere le popolazioni galliche dagli attacchi dei popoli confinanti, portò avanti una campagna militare della durata di sette anni, durante la quale sottomise, una ad una, tutte le tribù, “civilizzandole”; il vero motivo, in realtà, era quello di evitare il pericolo di possibili attacchi futuri, a danno dell’impero romano, da parte di queste popolazioni selvagge e temibili. Un’altra categoria temuta furono i cristiani; in quanto sovvertitori dell’ordine e portatori di un messaggio del tutto estraneo alla cultura romana, furono malvisti e perseguitati. A spaventarsi più di tutti per l’eccessivo seguito che stavano acquisendo fu l’imperatore Nerone, che, per fermarli, li accusò dell’incendio di Roma. In tutti i casi menzionati, la concezione della diversità vista come inferiorità derivava dall’orgoglio e dal senso di superiorità di questi popoli, da sempre abituati a dominare e a prevalere sugli altri ma an-
che dalla paura che il nuovo soppiantasse il vecchio. Facendo un salto temporale e avvicinandoci ai nostri tempi, le persecuzioni degli ebrei ad opera dei tedeschi durante la II Guerra mondiale sono state l’esempio più drammatico di come l’orgoglio ed il senso di superiorità di una razza, quella ariana, abbiano portato ad un atroce genocidio. Qualcuno potrebbe chiedersi cosa c’entri tutto questo con la realtà odierna. Ancora oggi, lo straniero è avvertito come un “diverso” ed etichettato in modo negativo. I denominatori comuni di certe reazioni sono: l’intolleranza e la paura. Non siamo lontani da ciò che pensavano i romani prima e i tedeschi poi: siamo popoli superiori, conosciamo la civiltà, stiamo bene come stiamo; cosa c’entrano queste persone, cosa vogliono? La paura è quella dei cambiamenti, di aprirsi al nuovo, di considerare che esistono culture diverse dalle nostre. E allora è meglio chiudere le frontiere e disinteressarsi degli altri. Gli immigrati che, a frotte, quasi quotidianamente, cercano di raggiungere le nostre coste, affrontando viaggi terribili in condizioni disumane e mettendo in pericolo la propria vita, sono, per molti, oggi, un pericolo, un nemico da combat-
tere, vengono considerati solo dei rubalavoro, dei criminali. E allora, che si fa? Si rispediscono tutti a casa o peggio li si lascia in balia delle onde del mare. Il fenomeno della criminalità, tra gli immigrati, e non solo, esiste e deve essere arginato. Ricorrere a gruppi di persone ( le “ronde”) che, animati da senso civico (spero, ma lo temo, non da astio e rabbia), si offrono volontari per aiutare, può essere pericoloso. Non vorrei che diventasse una faida e che, invece di risolvere, peggiorasse la situazione. Si parla di volontari non armati utilizzati per “fare la spia” ( non è in fondo questo che si chiede loro?) ma chi ci dice che l’altruismo (?) di certe persone non sia dettato da altro e non fomenti odio? Non solo gli immigrati sono oggetto di tante “premure” ma anche nostri connazionali che hanno la colpa di provare sentimenti verso lo stesso sesso. Non entro nel merito delle loro scelte bensì giudico riprovevoli gli episodi, sempre più diffusi, di aggressioni e pestaggi contro di loro, per motivi futili o spesso inesistenti. Non è per paura che gli omosessuali spesso vengono colpiti? La paura che a loro vengano riconosciuti
i nostri stessi diritti, che possano condurre una vita normale. Gli omosessuali erano, insieme agli ebrei e ad altri, portati nei lager al tempo del nazismo. Ancora una volta il passato ritorna. E i disabili? Che cosa scatena la furia di giovani che li sbeffeggiano e li picchiano, approfittando della loro debolezza, e mettono, come fossero trofei, i filmati
delle loro azioni su Internet? La paura di non essere nessuno se non si fa qualcosa di eclatante, la voglia di provare nuove emozioni perché “tutto il resto è noia”, come dice una canzone. Durante il nazismo, le categorie deboli (i malati, le donne, gli anziani) erano considerate inutili ed improduttive e, in quanto tali, nei lager subivano lo stesso destino degli altri. Non abbiamo imparato niente dalla storia? Non abbiamo imparato niente dagli errori che sono stati commessi? Historia magistra vitae, ma aggiungerei, saepe non est. Amore, accettazione dell’altro, diversità come possibilità di imparare, di aprirsi, integrare ed integrarsi con altre culture, e non come qualcosa da rigettare, dovrebbero prevalere su xenofobia e omofobia. Dovremmo avere paura per l’aumento di comportamenti razzisti e non per gli immigrati, gli omosessuali e per tutto ciò che intacca le nostre sicurezze ed il nostro indiscutibile modus vivendi. Ciò che è diverso, che esce fuori dal normale, dalle convenzioni, non è detto che sia sempre un pericolo. E’ molto più pericoloso rimanere arroccati nelle proprie convinzioni e non accettare di metterle in discussione. Se non sopporti chi è diverso da te: clonati è stato il messaggio provocatorio, posto sulle magliette dei manifestanti, alla fiaccolata di protesta contro xenofobia e omofobia del 24 settembre scorso, tenutasi a Roma e organizzata dalla Provincia. Potrebbe essere un’idea!!!
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i numeri e le impressioni 6
di Antonio Squeo
P
aura e sicurezza sono un binomio inscindibile. Se le rappresentassimo graficamente, vedremmo due binari che corrono uno accanto all’altro, senza che corrano mai il rischio di sovrapporsi. Infatti chi è sicuro non ha paura e chi ha paura non può avere la sicurezza, semmai ne ha disperatamente bisogno.
più insistenza e più rumore, possiamo vedere, ad esempio, che nel triennio 2004-06 i rumeni denunciati (non condannati, attenzione!) per omicidio sono settantanove, in media 26 all’anno. In Italia ci sono circa sessanta milioni di abitanti: fa un rumeno denunciato per omicidio ogni 2.307.692 persone. Sempre nel triennio 2004-2006 soltanto il 3% delle rapine in banca è stato compiuto da stranieri, e la nazione più rappresentata è la Germania. Nello stesso periodo, soltanto il 6% delle rapine in uffici postali è stato compiuto da stranieri, e la nazione più rappresentata è l’Irlanda. Solamente in tre tipologie di reato si ha una maggioranza di denunciati stranieri: sfruttamento della prostituzione (56%, ma straniere sono pure le vittime); furto in abitazione (51%); furto con destrezza (66%). In tutti gli altri reati il primato resta in mani italiane, con punte che superano il 90%. Quello che esiste, stando anche al
La realtà della sicurezza e la percezione della paura Le nostre fonti di informazione non si stancano di ripeterci che abbiamo bisogno di sicurezza. Ma è come se continuassero a suggerirci che abbiamo paura. La immaginate una mamma che alle paure del bebè risponde con qualche storiella horror? Se non è del tutto deficiente dovrebbe spiegargli, invece, come stanno effettivamente le cose, mettendolo in guardia sui pericoli veri e tranquillizzandolo su quelli inesistenti. Insomma dovrebbe dargli una corretta informazione. Non disponendo di altri dati, utilizziamo i più recenti dati ufficiali, quelli del Rapporto sulla criminalità* elaborato dal Ministero degli Interni. Questa fonte, allora, ci dice, senza mezzi termini, che il crimine più grave, l’omicidio volontario, non è mai stato così basso da oltre vent’anni. La stessa cosa accade per gli scippi, i furti in appartamento e per quelli di camion ed autoveicoli. L’unico dato in controtendenza, per gli ultimissimi anni, è quello delle rapine, specialmente per il notevole incremento registrato in Campania e nelle grandi città. Se, invece, si considera il quindicennio 1991-2006, Catania segna una diminuzione del 73% e Palermo addirittura del 172%! Se ci spostiamo sul fronte degli stranieri, dove il tamburo della paura batte con
Rapporto 2006, è una tendenza alla crescita della percentuale di stranieri sul totale dei denunciati come presunti autori di [alcuni] reati.. Tra le cause vi sono le condizioni di esclusione in cui vivono molti immigrati in Italia, paese più volte criticato dall’UE, con toni molto accesi, per le sue politiche di non accoglienza. Lo ammettono anche al Ministero quando, riferendosi proprio ai rumeni, parlano di sacche di marginalità come primo passo verso il coinvolgimento in attività delittuose. La nostra paura, dicono gli esperti della Polizia di Stato, scaturisce dall’ insicurezza. Ma questa assume due forme. La prima, concern about crime, è la preoccupazione, di ordine sociale, politico o morale per la criminalità, ed è influenzata dalla partecipazione politica, dalla
visione del mondo, dai valori propri di ogni persona. La seconda, fear of crime, è il timore che gli individui hanno per la propria incolumità o per i propri beni. Mentre la prima è più diffusa tra gli strati medio alti, la paura della vittimizzazione è diffusa tra gli strati medio bassi della popolazione ed è legata ai livelli di criminalità o di devianza del quartiere in cui si vive. Dal 1993 l’Istat rileva la percezione del rischio criminalità che hanno le famiglie italiane; i dati dicono che questa paura è stabile o in lieve declino, a circa il 30%. Nelle Isole è addirittura diminuita di quasi il 10% (Tab. I.2). Un indice molto attendibile della percezione dell’insicurezza è se ci si sente poco o per niente sicuri a camminare da soli di sera, al buio, nel proprio quartiere. La tabella I.3 riepiloga questi dati, mostrando notevoli
divari tra le regioni (Valle d’Aosta 12,8, Campania 38,9!) ma soprattutto tra uomini e donne. Il grafico VI.10 ci fa capire ancor meglio come agisce il senso di insicurezza: è sufficiente assistere ad episodi di spaccio o di consumo di droga per considerare la propria città a rischio. In altri termini si può dire che siamo indifferenti al fatto che nel nostro ambiente esista una criminalità più o meno grave; ciò che ci mette in crisi è esserne messi a contatto, anche per episodi di non grave entità penale. Il nostro profilo psicologico, riguardo al sentire paura, è condizionato dalla percezione, dalla suggestione, dall’impressione, più che motivato da fatti specifici. In questo contesto un’enorme importanza deve essere attribuita al ruolo dei mass-media. Nel 2007 in Italia sono stati registrati 2.933.146 casi di criminalità. Rapportati a 59.870123 abitanti rappresentano il 4,89%. Nello stesso periodo in Spagna i casi di criminalità sono stati il 5,14%, in Francia il 5,52%, in Germania il 7,65% e nel Regno Unito l’8,78%. Nel grafico VI.10 si vede chiaramente come la percezione dell’insicurezza sia assai minore in Francia, Spagna e Germania e Regno Unito, a fronte di una casistica notevolmente più pesante. Quando si parla di fenomeni sociali le spiegazioni non sono mai semplici ed univoche, ma qui appare evidente che l’emergenza sicurezza, che per stessa ammissione dei massimi organi preposti alla pubblica sicurezza non esiste, deve trovare fondamento in ambiti diversi dalle statistiche criminali. Magari nella necessità politica di compattare un elettorato con poche semplici frasi ad effetto. Raramente le parole d’ordine, gli slogans elettorali, si accompagnano a ragionamenti passabili o ad analisi degne di questo nome. Ricordo, schifato, il motto che la destra xenofoba tedesca aveva coniato per noi immigrati appena qualche decennio fa: Ausländers Raus! (Fuori gli stranieri!). Ma i tedeschi, più pragmatici e forse più seri, hanno lasciato che questa frase rimanesse circoscritta ad una ristretta cerchia di cretini e di nostalgici neonazisti (la differenza tra le due categorie è assai sottile...), dal momento che avevano bisogno della nostra forza lavoro. E hanno applicato lo stesso principio agli immigrati attuali, come hanno fatto spagnoli, francesi e inglesi, che, infatti, hanno percentuali di immigrati molto superiori all’Italia. In un paese, come il nostro, in cui da decenni non si fanno più figli, gli immigrati rappresentano l’unica garanzia non solo per mandare avanti il nostro apparato produttivo, ma anche per garantirci i con-
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tributi con cui pagare le nostre pensioni ed assicurarci il personale che ci userà la gentilezza di cambiarci i pannoloni. E questo lo afferma addirittura la Banca d’Italia quando, in un suo rapporto del 2008 che evidenzia che la crescita della presenza straniera non si è riflessa in minori opportunità occupazionalii per gli italiani e afferma l’esistenza di complementarietà tra gli stranieri e gli italiani più istruiti e le donne. In libera traduzione significa che gli immigrati hanno preso il posto che per tradizione spettava ai meridionali, simpaticamente conosciuti nelle città e nelle fabbriche del Nord industriale come terroni. Con grande intelligenza politica, con inaudito senso della prospettiva economica, con impareggiabile sensibilità sociale, con indicibile condivisione dei fondamentali precetti religiosi, con il totale rispetto dei principi e dei diritti inalienabili dell’Uomo, con la totale ed incondizionata adesione agli indirizzi degli organismi internazionali, come risponde l’Italia? Introduce il reato di clandestinità. Si è perseguiti non per aver compiuto atti dolosi o colposi, ma solo per essere privi di regolare permesso di soggiorno. Non per ciò che si fa ma per come si è. Con ciò, secondo il mio modesto avviso, si vìola e si calpesta l’articolo 2 della Costituzione: La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adem-
pimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Faccio notare ai distratti che i destinatari di questo articolo sono gli esseri umani, tutti, e non solo i cittadini. E che la solidarietà politica , economica e sociale non è un optional come i vetri azzurrati o i cerchi in lega, ma un dovere, e per giunta inderogabile, che non ammette alcuna eccezione. Ma pare che ormai, quando si parla di Costituzione, in certi palazzi di Roma,
ci si affretti a rispondere che è sana e robusta! Le immagini di barconi pieni di immigrati, ripetute ed amplificate in tutti i modi, ci strappano dalla nostra tranquillità quotidiana e stimolano il nostro immaginario a vederci oggetti d’assedio come a Fort Alamo o d’invasione, come nello sbarco in Normandia. Al disagio subentra la paura. E quando abbiamo paura la nostra capacità di ragionare prima arranca e poi si blocca. Questo è il momento pericoloso di cui bisogna aver veramente paura. Le nostre peggiori pulsioni si mettono a far politica. E il sonno della ragione genera mostri.
NOTA * Il Rapporto sulla criminalità è scaricabile al link: http://www.interno.it/ mininterno/export/ sites/ default/it/sezioni/ sala_stampa/notizie/ sicurezza/0993_20_ 06_2007_Rapporto_ Sicurezza_2006.html
PINZERI
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scantarici semu tutti bravi che i problemi di certo non mancano e poi macari ca chisti non ci fussiru qualcuno disposto a rialannilli nzichitanza di certo si troverebbe. E cè cu chiuri locchi. Cu abbia pitrati. Cu arriri senza senso e cu si fa abbati. Cu cerca i so amici. Cu preia diu. Cu futti. Cu allucia. Cu “ci pensu iu”.
di Dario D’Angelo E cè cu talia rittu. Cu pigghia u vastuni. Cu mangia senza pitittu e cu fa u crastuni. Cu si ietta nterra. Cu accumencia a fumari. Cè cu si caca ncoddu. Cu scumpari.
Io se qualche cosa mi scanta mi cuntu delle storie che mi fanno scantare ancora chiossai e poi me le ripeto che così mi sento meglio. A vote poi invece mi sforzo solo di rapiri locchi che macari può capitari che la cosa ca mi fici scantari è sulu uno specchio nabbagghiu e per questo è Una vota u scantu faceva veniri i vemmi megghiu taliari. e se questi tarrivavano na testa eranoguai ca unu ci puteva arristari pazzu di E cè cu fingi festa. manicomio o moriri macari che i vemmi Cu si ietta a mari. erano pericolosi. E allora cera bisogno Cu ammazza a famigghia. di una cicaredda e di massaggi e di priari Cu si fa arristari. che la calavermi era brava e arrisuvveva Cu fa attentati e cu si marita. tutto. Bastava essiri precisi. Ordinati. Cu sforna figghi e cu si rifà una vita. Che tutto ciaveva il suo tempo. Che il bene era sempre chiù forti do mali.
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l teatro è una delle poche possibilità che ci viene offerta per dare vita ai nostri sogni. Calderón de La Barca ci suggerisce che la vida es sueño y los sueños sueños son (la vita di Laura Calcaterra è sogno, ma i sogni sono sogni); quando però si ha la voglia di raccontarli, di scri- Se poi il testo viene rappresentato, il gioverli, di descriverli... allora questi comin- co è fatto e le fantasie spiccano il volo! ciano a materializzarsi. Il palcoscenico rappresenta un universo parallelo dove poter superare le proprie paure, le proprie incertezze; una palestra dove allenare il proprio io a gestire i sentimenti della vita quotidiana. Immaginiamo l’essere umano come una scatola cinese, una risorsa infinita di micro-mondi che vorrebbero esprimersi liberamente, ma che non sempre trovano la forza di farlo. Ecco: si accendono i riflettori e noi, prigionieri di una gabbia di vetro che
Rosa Puglisi
IL BINARIO PARALLELO teatro come terapia della paura si frantuma in mille pezzi sentendo scrosciare gli applausi, permettiamo al nostro più profondo Io di prendere forma, di prendere vita, senza esitazione, senza paura di subire critiche, un Io che fluttua senza i vincoli delle regole morali e sociali che normalmente incatenano la nostra libera espressione. La paura di misurarsi col mondo irrompe in un fiume di sicurezza che ti vede protagonista spavaldo della tua vita irreale, di quella vita che cammina su un binario parallelo al tuo, che viaggia di fronte a te e che, anche se solo nei tuoi sogni, comunque c’è! Il teatro è opportunità di rivivere storie passate, di progettare storie future, ma soprattutto la possibilità di liberare adrenalina, emozioni, sentimenti che diversamente ci causerebbero infinito stress nella nostra vita quotidiana. È come una seconda possibilità, quasi indolore, per realizzare i sogni naufragati nel mare, talvolta maremoto, della nostra vita.
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la paura nei/dei classici 10
di Onesto Aquino
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casuali, deve esserci qualcosa di vero! Passata l’emozione, con la testa che riprende a funzionare, si verifica poi che la stella di Davide non c’entra nulla, che la sigla del volo non era quella, che anche Piergiorgio è di 11 lettere, che il numero 11 si può ottenere in un miliardo di altri modi, ecc. Chi, per conoscere le cose, non vuole sobbarcarsi la fatica di studiarle a fondo, non trova poi tanto difficile industriarsi a spiegarle con i fondi di caffè, i tarocchi, le linee della mano, i movimenti degli astri o la tastiera di un computer. L’enorme successo di libri, film e trasmissioni televisive che in modo evidente si richiamano al mistero e alle zone d’ombra delle pulsioni anziché all’analisi ed alla limpidezza razionale, esprime in modo esemplare in che genere di tempi ci ritroviamo a vivere. Sono tempi nei quali è assolutamente normale interrogarsi ansiosamente sulla fine del mondo prossima ventura (2012?!) e contemporaneamente continuare a vivere con l’indifferenza degli immortali. Anche noi abbiamo voluto provare a fare il gioco del mistero: chissà che qualcuno non ne venga affascinato. Ecco le istruzioni per l’uso. Scaricate da qualche sito web l’edizione integrale della Divina Commedia in formato testo (*.txt) e fate lo stesso con un Un aereo che punta verso due grattacieli programma analizzatore di testo. Dopo averlo avviato cercate la parola “paura”. gemelli, un teschio e la stella di David. C’è da rimanere allibiti! Le coincidenze Questo termine ricorre complessivamente sono tante e tali che non possono essere 30 volte. Anche lo studentello più sprovvell’indomani dell’attentato alle torri gemelle, le caselle di posta elettronica sono state intasate da lettere che attribuivano ai numeri di quella data, 11 settembre 2001, un polpettone di simboli, misteri e significati nascosti. 11 settembre, 11/9: uno+uno+nove uguale 11. Il numero 11 ricorda le torri gemelle del World Trade Center. L’undici settembre è il 254-esimo giorno dell’anno, e 2 più 5 più 4 fa 11. E mancano 111 giorni alla fine dell’anno. 119 è il prefisso dell’Iran e dell’Iraq. Il primo volo che ha colpito le torri era il volo numero 11. Lo Stato di New York è stato l’undicesimo ad aggiungersi all’Unione. New York City ha 11 lettere. Afghanistan ha 11 lettere. The Pentagon ha 11 lettere. Il principale responsabile dell’attacco al World Trade Center nel 1993 si chiama Ramzi Yousef, 11 lettere. Il volo numero 11 aveva 92 persone a bordo, nove più due fa 11. L’altro volo suicida, quello sul Pentagono, era il volo numero 77, con 65 persone a bordo, 6 più 5 fa 11. Uno dei due aerei che ha colpito le torri del World Trade Center era il volo numero Q33 NY: se si digitano questi caratteri con il font Windings si ottiene
duto sa, però, che nella cultura medievale, di cui Dante è eccelsa espressione, i numeri assumono un particolare significato, specialmente in relazione ai valori teologici. E allora 30, cioè 3 per 10, non può non significare la Trinità che si combina con la perfezione divina. Del resto, Dante ha composto il poema proprio in terzine, lo ha articolato in tre cantiche, ciascuno di 33 canti, aggiungendovi l’Uno, attributo di Dio e raggiungendo così il numero 100, che notoriamente è il quadrato di 10, attributo di perfezione. Di seguito sono elencate le terzine in cui è presente la parola paura. La distribuzione delle ricorrenze, come ci si può aspettare, è ineguale. Ovviamente si troverà più paura all’inferno, meno al purgatorio e ancor meno in paradiso. La ripartizione è la se-
1. 4 Ahi quanto a dir qual era è cosa dura 1. 5 esta selva selvaggia e aspra e forte 1. 6 che nel pensier rinova la paura!
INFERNO 1. 52 questa mi porse tanto di gravezza 1. 53 con la paura ch’uscia di sua vista, 1. 54 ch’io perdei la speranza de l’altezza.
16. 49 ma perch’io mi sarei brusciato e cotto, 16. 50 vinse paura la mia buona voglia 16. 51 che di loro abbracciar mi facea ghiotto.
1. 13 Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto, 1. 14 là dove terminava quella valle 1. 15 che m’avea di paura il cor compunto,
2. 61 l’amico mio, e non de la ventura, 2. 62 ne la diserta piaggia è impedito 2. 63 sì nel cammin, che volt’è per paura;
17.106 Maggior paura non credo che fosse 17.107 quando Fetonte abbandonò li freni, 17.108 per che ‘l ciel, come pare ancor, si cosse;
1. 19 Allor fu la paura un poco queta 1. 20 che nel lago del cor m’era durata 1. 21 la notte ch’i’ passai con tanta pieta.
7. 4 disse per confortarmi: «Non ti noccia 7. 5 la tua paura; ché, poder ch’elli abbia, 7. 6 non ci torrà lo scender questa roccia».
21. 25 Allor mi volsi come l’uom cui tarda 21. 26 di veder quel che li convien fuggire 21. 27 e cui paura sùbita sgagliarda,
1. 43 l’ora del tempo e la dolce stagione; 1. 44 ma non sì che paura non mi desse 1. 45 la vista che m’apparve d’un leone.
9. 13 ma nondimen paura il suo dir dienne, 9. 14 perch’io traeva la parola tronca 9. 15 forse a peggior sentenzia che non tenne.
23. 10 E come l’un pensier de l’altro scoppia, 23. 11 così nacque di quello un altro poi, 23. 12 che la prima paura mi fé doppia.
23. 19 Già mi sentia tutti arricciar li peli 23. 20 de la paura e stava in dietro intento, 23. 21 quand’io dissi: <<Maestro, se non celi 28.112 Ma io rimasi a riguardar lo stuolo, 28.113 e vidi cosa, ch’io avrei paura, 28.114 sanza più prova, di contarla solo; 31. 37 così forando l’aura grossa e scura, 31. 38 più e più appressando ver’ la sponda, 31. 39 fuggiemi errore e cresciemi paura;
PURGATORIO 2.127 se cosa appare ond’elli abbian paura, 2.128 subitamente lasciano star l’esca, 2.129 perch’assaliti son da maggior cura; 3. 19 Io mi volsi dallato con paura 3. 20 d’essere abbandonato, quand’io vidi 3. 21 solo dinanzi a me la terra oscura; 9. 64 A guisa d’uom che ‘n dubbio si raccerta 9. 65 e che muta in conforto sua paura, 9. 66 poi che la verità li è discoperta,
29.139 mostrava l’altro la contraria cura 29.140 con una spada lucida e aguta, 29.141 tal, che di qua dal rio mi fé paura. 30. 43 volsimi a la sinistra col respitto 30. 44 col quale il fantolin corre a la mamma 30. 45 quando ha paura o quando elli è afflitto, 31. 13 Confusione e paura insieme miste 31. 14 mi pinsero un tal «sì» fuor de la bocca, 31. 15 al quale intender fuor mestier le viste.
31. 94 Fialte ha nome, e fece le gran prove 31. 95 quando i giganti fer paura a’ dèi; 31. 96 le braccia ch’el menò, già mai non move».
13.136 Troppa è più la paura ond’è sospesa 13.137 l’anima mia del tormento di sotto, 13.138 che già lo ‘ncarco di là giù mi pesa>>.
PARADISO 11. 67 né valse udir che la trovò sicura 11. 68 con Amiclate, al suon de la sua voce, 11. 69 colui ch’a tutto ‘l mondo fé paura;
34. 10 Già era, e con paura il metto in metro, 34. 11 là dove l’ombre tutte eran coperte, 34. 12 e trasparien come festuca in vetro.
21.118 dal mio maestro, e «Non aver paura», 21.119 mi dice, «di parlar; ma parla e digli 21.120 quel ch’e’ dimanda con cotanta cura».
15.103 Non faceva, nascendo, ancor paura 15.104 la figlia al padre, che ‘l tempo e la dote 15.105 non fuggien quinci e quindi la misura.
34.121 Da questa parte cadde giù dal cielo; 34.122 e la terra, che pria di qua si sporse, 34.123 per paura di lui fé del mar velo,
22. 88 E pria ch’io conducessi i Greci a’ fiumi 22. 89 di Tebe poetando, ebb’io battesmo; 22. 90 ma per paura chiuso cristian fu’mi,
26. 19 Quella medesma voce che paura 26. 20 tolta m’avea del sùbito abbarbaglio, 26. 21 di ragionare ancor mi mise in cura;
quella della vista. La via d’uscita dalla cecità, che è provocata da un eccesso di visione, viene da Dante indicata nel ragionamento; come dire che il lume dell’intelletto va ben oltre la percezione fisica dei nostri occhi. Nel XXVI canto la preminenza della vista cede il posto all’udito, senso che permette
Potremmo rimproverargli forse di avere una mentalità un pochino medievale, ma, poverino, bisogna capirlo, è nato nel 1265. In compenso, come avrete sicuramente realizzato dalle impressionanti coincidenze delle sequenze numeriche disseminate nel suo capolavoro, Dante disponeva di un potentissimo calcolatore di sua invenzione e costruzione, suggeritogli dalla frequentazione dei matematici dell’epoca, di ascendenza Averroista e di origine araba. Non si potrebbe spiegare altrimenti la geometrica perfezione dell’impianto letterario e l’assoluta precisione e distribuzione dei riferimenti numerici. Del resto, se è stato capace di creare di sana pianta tre altri mondi sarà pure stato capace di dotarsi di un pc. Rimane un solo dubbio, sul sistema operativo adottato: Windows, Mac, Linux? Potremmo chiederlo ai Maya! Un’ultima, ma non meno importante considerazione: è molto probabile che la proposizione la paura fa novanta sia di matrice dantesca. A parte le evidenti corrispondenze numerologiche tra il 30, sopra esaminato, ed il 90 che è addirittura 3 x 3 x 10, come non cogliere il significato del 90 come fine, come limite di una serie cui si connette il principio di un’altra? È la trasparente metafora di un mondo che trasmuta in altri. Bella! Da fine del mondo!
guente: inferno 18, purgatorio 9, paradiso 3. Ma salta subito agli occhi che al 3 del paradiso, numero perfetto, si associano il 9 ed il 18, entrambi multipli di 3, uno corrispondente al suo quadrato e l’altro al doppio del suo quadrato. Si può parlare ancora di coincidenze? I numeri che precedono le terzine indicano rispettivamente il canto ed i versi. Dopo averle contate, lasciamo ad altri, più ferrati in letteratura, il compito di analizzarle. Non prima, però, di aver evidenziato una caratteristica delle paure di Dante. Vediamo, ad esempio, la prima, quella contenuta in una terzina che tutti, o quasi, siamo capaci di citare: Ahi quanto a dir qual era è cosa dura esta selva selvaggia e aspra e forte che nel pensier rinova la paura! Dante non prova paura per una causa attuale; a destarla basta solo il ricordo della selva. Tra lonze, lupe e leoni, giganti, mostri, esseri che volano e che strisciano, verifichiamo che le paure di Dante sono sempre reazioni scatenate da cause di ordine psicologico, emotivo, affettivo, sentimentale. La paura non è mai motivata da un elemento che attenta alla sua integrità fisica. Tranne che una volta, l’ultima, la trentesima. Qui Dante, racconta di aver provato paura per un sùbito abbarbaglio, un improvviso accecamento dovuto all’intensità della visione paradisiaca di san Giovanni. Questi, però, lo rassicura che presto la riacquisterà tramite Beatrice e, nel mentre, lo invita a ragionare in modo approfondito su ciò che lo ha indirizzato verso Dio. È molto interessante notare che in un poema visionario, come la Divina Commedia è unanimemente considerato, l’unica menomazione fisica di Dante, temporanea ma pur sempre capace di ingenerare paura, è proprio
al Poeta di proseguire, argomentando, il suo viaggio ultramondano. Sembra quasi che Dante, profetizzando sulle insidie della società attuale, tutta basata sul vedere, apparire, o per dirlo peggio, sul look, abbia voluto indicarci una strada per ricostruirla, basata, invece, sulla capacità di udire, sentire, o per dir meglio, d’ascoltare. Qualcuno potrebbe storcere il naso. Dante un profeta, un veggente? Nella selva oscura dove imbonitori professionali seminano altrettanto oscure profezie ad uso degli imbecilli, attingendo a piene mani da Nostradamus ed errori di stampa, Maya ed errori di traduzione, Templari ed errori di comprensione, Malachia ed errori di persona, Barbanera, cartomanti, oroscopi, cataloghi di vendite per corrispondenza, previsioni del tempo e del traffico, diciamo che Dante appare come una gigantesca stella di luce e di verità.
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IL CORAGGIO DELLA PAURA ovvero, la paura nell’universo mafioso la paura e la mafia 12 di Giovanni Abbagnato
J
acques de Saint Victor, docente di storia delle idee politiche alla Università Paris VII e collaboratore di “Le Figaro”, ha scritto un libro dal titolo: Mafia: l’industria della paura, con un evidente riferimento alla presenza costante della paura nell’universo mafioso, osservato da diverse angolazioni. La paura è connaturata ad ogni manifestazione della mafia e rappresenta un elemento di confronto ineludibile per tutti i soggetti che con essa si misurano, sia da una parte che dall’altra della barricata. Giovanni Falcone — magistrato di riconosciute qualità umane e professionali, ucciso insieme alla moglie e agli agenti della sua scorta in un attentato mafioso di inaudita violenza — aveva più volte fatto riferimento, sia pure con una sorprendente serenità, alla quasi ineludibilità della sua morte per mano mafiosa. In un’occasione, stimolato dall’intervistatrice Michelle Padovani, aveva rivelato con il suo consueto equilibrio, quasi distaccato, qual era il suo rapporto personale con la paura. Falcone diceva testualmente: l’importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è sapere convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa paura. Ecco, il coraggio è questo, altrimenti non è coraggio, ma incoscienza. Quindi, un’affermazione di profonda umanità, lontanissima da una certa retorica dell’eroismo, di un uomo che ogni giorno era costretto a fare i conti con l’estrema precarietà della sua vita che, come preciserà in più occasioni, solo per spirito di servizio e senso del dovere aveva deciso di mettere in gioco, con la tragica consapevolezza di avere ben poche possibilità di vincere questa battaglia, almeno per quanto riguardava la sua personale esistenza. Ma Giovanni Falcone, seppure nemico implacabile dei mafiosi, non perdette mai il rispetto per la loro umanità e grazie all’equilibrio dimostrato nel suo delicato
lavoro, pur nella netta distinzione dei ruoli e delle posizioni, riuscì a penetrare lo spazio psicologico di alcuni boss, anche loro costretti a fare i conti con le proprie fragilità emotive. Certo, l’idea della morte è intimamente connaturata ad un processo di adesione, prima che formale, culturale all’organizzazione mafiosa e, quindi, rientra nell’ordine naturale delle convinzioni di un mafioso la consapevolezza che il suo prestigio criminale e il suo potere economico e relazionale possono essere messi in discussione
ogni giorno all’interno di un’organizzazione che vive la complessità di varie influenze, da quelle dettate dai cicli economici e delle dinamiche socio–politiche e territoriali, a quelle emergenti all’interno di complessi quadri psicologici presenti nelle società mafiose. In questo senso, il professore Girolamo Lo Verso, dell’Università di Palermo, ha condotto degli studi interessantissimi sullo psichismo mafioso, rivolto a vari soggetti del mondo mafioso, tra i quali figure estremamente complesse come
quelle dei collaboratori di giustizia, i cosiddetti pentiti. Interessantissimi, nella loro drammaticità, i racconti “dall’interno” di questi soggetti che fin dalla giovane età e in tutto il loro percorso esistenziale dovevano attrezzare uno spazio assai rilevante della loro personalità per la gestione dell’ansia e della paura, all’interno e all’esterno dell’organizzazione. La descrizione della latitanza fatta da alcuni mafiosi rivela un fondo di terrore nella loro vita che non sempre viene scongiurato da senso di onnipotenza data dal prestigio criminale e dal consenso sociale sul quale spesso gli appartenenti alle cosche possono contare. Il boss pentito Tommaso Buscetta, che ha pagato un prezzo altissimo nella guerra di mafia scatenata dai corleonesi, subendo lo sterminio dei suoi familiari, rivela, tra l’altro, le preoccupazioni del mafioso per i propri cari in un tempo in cui, secondo lui, la mafia ad un certo punto della sua parabola si era imbarbarita oltre misura non risparmiando nemmeno i figli minori degli affiliati che una volta sarebbero stati al riparo da vendette anche durante le guerre di mafia. Pur prendendo le debite distanze da teorie, non di rado interessate, che sostengono differenze sostanziali tra vari tipi di mafie divise in una presunta, vecchia mafia “buona”, da contrapporre ad una nuova mafia molto più crudele — asserzione che non ha alcun fondamento storico — è innegabile che anche in famiglie pervase nella profondità delle loro coscienze da un ferreo codice culturale mafioso, la paura per l’incolumità dei propri cari era e rimane presente, anche se l’appartenenza mafiosa assicura una tale presa che non di rado ha determinato assassinii comandati ed eseguiti all’interno di famiglie mafiose, anche con legami di sangue. Per esempio, sono fatti processualmente
accertati l’assassinio di una giovane donna, presunta adultera, comandato dal padre mafioso a tutela dell’onore della sua famiglia e l’omicidio di un boss di primo piano con il coinvolgimento nel delitto del fratello, scontento della leadership del congiunto. La fotografa Letizia Battaglia, in bellissime istantanee, in un bianco e nero che parla, ha immortalato momenti di disperazione di familiari di vittime nell’immediatezza di agguati mafiosi. Nei casi di omicidi di appartenenti a cosche mafiose, l’intensità drammatica dei volti disperati dei congiunti dell’ucciso consegna quasi un’esplosione di un dolore, tanto profondo quanto annunciato, dentro chi quotidianamente aveva potuto allontanare, ma non eliminare, la paura costante dell’irruzione della morte violenta nelle loro famiglie. Insomma, non si può che ribadire che mafia e paura rappresentano un binomio inscindibile in realtà in cui, di fatto, vengono “sospese”, se non del tutto eliminate, libertà e giustizia. Da questa considerazione deriva la consapevolezza che sconfiggere la mafia è tutt’altro che solo un problema di ordine pubblico, ma un fatto di civiltà. Le foto a corredo di questo articolo sono di Letizia Battaglia
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la paura e la mafia
l‘arcobaleno
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paure e fobie 14
U N’EMOZIONE CHE SI PUO’
E
APPRENDER
di Rosaria Furnari
L
a paura è un’emozione primaria che tutti abbiamo provato e che conosciamo in modo intuitivo. Pensiamo, ad esempio, ad una situazione di pericolo: ci troviamo da soli davanti a un cane da guardia inferocito perché siamo entrati, magari per sbaglio, nella sua zona. Sentiamo il nostro cuore battere più rapidamente, respiriamo più in fretta, lo stomaco si contrae, le mani diventano gelate. Contemporaneamente il cervello ci comunica che siamo in una situazione di rischio fisico e noi reagiamo fuggendo. E anche se scopriamo che in realtà il cane era legato con una catena, abbiamo bisogno di alcuni minuti per tornare di nuovo tranquilli. Insomma abbiamo avuto paura. La stessa cosa può capitarci in un incidente stradale o se siamo vittime di una rapina. Vediamo meglio cosa succede in queste situazioni in cui siamo o ci sentiamo in pericolo, quali sono cioè le componenti della paura: 1) Reazione viscerale (cuore che batte velocemente, ecc.) che può a mettere l’organismo in grado di reagire rapidamente o, al contrario, lo può paralizzare. Questa reazione non è controllabile dalla nostra volontà. 2) Confronto mentale immediato tra quello che ci sta succedendo e le nostre conoscenze su quello che potrebbe succedere quando si ci trova in una situazione simile. In questo frangente immaginiamo rapidamente che potremmo subire un danno fisico. Questa reazione dipende molto dalle nostre precedenti conoscenze sul tipo di situazione e non è legata alla nostra volontà. 3) Azione (comportamento di attacco o fuga). E’ quello a cui ci preparano le nostre reazioni fisiche. Questa è l’unica reazione che può essere controllata, invece che scegliere infatti se correre, salire su un albero, cercare un bastone ecc. Quindi, se non possiamo fare nulla per modificare i nostri pensieri e le nostre
E. Munch, Autoritratto con sigaretta accesa, 1895 olio su tela, Nasjonalgalleriet, Oslo
reazioni fisiche davanti ad una forte emozione, il nostro comportamento può essere controllato. Allo stesso modo quando proviamo rabbia possiamo impedirci di aggredire la persona che ci ha fatto infuriare, così come possiamo evitare volontariamente di esprimere la nostra gioia per la vittoria della squadra preferita esultando davanti ai tifosi della squadra avversaria. Riprendiamo l’argomento delle paure. Cosa le provoca? Sono innate? Alcune paure sono innate (per esempio, quella dei rumori forti nei bambini molto piccoli), ma la maggior parte di esse viene appresa nel corso della vita.
Le paure reali sono giustificate da un rischio per la propria incolumità o sopravvivenza, ci sono però altre paure, non meno intense, chiamate fobie. Le fobie riguardano oggetti o situazioni che non rappresentano davvero un pericolo. Esistono fobie legate ad evidenti esperienze spiacevoli (può succedere che chi è rimasto a lungo in un ascensore bloccato abbia poi paura di tutti gli ascensori) e fobie che in apparenza sono inspiegabili. Provate ad immaginare appunto questa situazione: siete da soli in un ascensore che si blocca tra un piano e l’altro, non avete orologio né cellulare. Premete il pulsante di allarme e non suc-
cede niente. Tentate di chiamare qualcuno e non avete risposta. Cercate inutilmente di aprire le porte. Vi chiedete per quanto tempo ancora basterà l’ossigeno presente e credete che siano già passate delle ore. Cominciate a sentire caldo, a sudare. Vi sentite soffocare. Gridate ancora ma sentite la vostra voce sempre più flebile. Anche se a questo punto qualcuno vi farà uscire, voi avrete associato le spiacevoli sensazioni provate con la situazione “essere in ascensore”e anche con “essere in un luogo da cui non si può uscire”, avrete cioè imparato, più o meno coscientemente che: 1) Ascensore e sensazioni spiacevoli sono collegati (avrete connesso un’emozione, cioè una reazione involontaria viscerale unita a certi pensieri e certe azioni, ad una situazione). 2) Se non andrete più in ascensore non proverete più quelle sensazioni. 3) Probabilmente smetterete di salire su qualsiasi ascensore e forse anche su mezzi di trasporto chiusi come funivie, autobus e aerei. Metterete in atto cioè dei comportamenti attivi di evitamento delle situazioni in cui potreste restare imprigionati in un luogo chiuso. Si è instaurata una fobia. Il numero degli oggetti e delle situazioni che possono provocare fobie è pressoché illimitato. Si può ipotizzare che, anche quando non ci siano state esperienze evidenti che ab-
biano causato la fobia stessa, la nostra mente abbia associato in maniera impropria cause e conseguenze di sensazioni spiacevoli. Molte paure sono apprese anche senza un contatto traumatico con l’oggetto temuto, benché questo sia presente. Se un bambino esita di fronte ad un cane rivolgendosi verso la madre e questa, allarmata, lo prende in braccio e gli impedisce il contatto con il cane, la madre segnala al bambino che la situazione è effettivamente pericolosa e il bambino impara ad averne paura. Allo stesso modo una giovane gazzella apprende ad avere paura dei predatori anche solo rilevando il comportamento della madre o del branco davanti a segnali della loro presenza. Esistono infine situazioni, ancora più complesse ma abbastanza frequenti, in cui il collegamento tra oggetto e situazione temuti è di tipo puramente mentale. Freud, già all’inizio del secolo scorso, descrisse la paura dei cavalli in un bambino di 5 anni: attraverso una serie di associazioni il bambino paragonava i cavalli, grandi e forti, al padre, per lui grande e forte. Secondo il bambino, il padre era arrabbiato con lui e avrebbe potuto punirlo e, allo stesso modo, i cavalli avrebbero potuto fargli del male. Come risultato finale il bambino evitava i cavalli e rimaneva a casa con la madre (e questa era per lui una situazione decisamente
più piacevole). Ci sono paure molto frequenti e in fondo innocue (paura del sangue e delle ferite, paura di insetti come ragni e scarafaggi ecc). Altre paure sono invece decisamente disturbanti. Immaginate per esempio un conducente di autobus che abbia la fobia per i temporali o un rappresentante, costretto a viaggiare per lavoro, che abbia paura di viadotti e gallerie. O un politico che abbia paura di parlare in pubblico. O una persona che non riesce ad uscire da casa se non è accompagnata da qualcuno di sua fiducia. Quando la paura provoca sofferenza, disagio, alterazione della vita sociale e lavorativa può essere considerata una vera e propria malattia. Solo in questi casi è necessario un intervento mirato. Come si curano le paure? Il sistema migliore sarebbe quello di “imparare una cosa diversa” cioè, dopo aver capito quale sia stato l’apprendimento erroneo, sostituirlo con uno più aderente alla realtà: gli ascensori si bloccano raramente e comunque si viene liberati, i cani sono pericolosi solo in certe situazioni, i temporali di solito non provocano danni agli autobus e così via. Non sempre è facile raggiungere questo obiettivo, a volte è necessario anche assumere dei farmaci specifici che da soli certamente non eliminano le paure, ma che ci mettono in condizione di affrontarle meglio e superarle.
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E. Munch, Nudo. c.1913. Olio su tela, Munch Museum, Oslo
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la paura nei/dei classici 16
di Melania Paladino
L’
articolo Quanto fa la paura? giocato sulla ambiguità dei significati che i numeri possono assumere, ha destato la curiosità di verificare in modo sistematico i “luoghi della paura” della Divina Commedia. Una curiosità che potrebbe facilmente diventare una traccia didattica, un modo poco tradizionale ma forse più stimolante per avvicinare i giovani ai classici. I riferimenti sistematici ai singoli canti sono stati già sopra elencati, qui di seguito proveremo ad inserirli nel contesto ed a fare qualche riflessione. Le prime “tre paure” del poeta sono provocate dal terrificante aspetto della selva oscura; poi, a turbare Dante, è la vista del
leone e della lupa. Nel secondo canto è Beatrice a fare riferimento alla paura del suo protetto. L’angelica donna, chiedendo a Virgilio di accompagnare verso la salvezza il suo sfortunato amico, prima lo elogia e poi gli riferisce, per impietosirlo, che Dante, per paura, sta ritornando verso la selva, rischiando di perdersi per sempre. Nel settimo canto sono le grida blasfeme e misteriose di Pluto, il demonio custode del quarto cerchio, ad intimorire Dante;
ma Virgilio gli legge in volto la paura e lo rincuora: per quanto potere possa avere, il maladetto lupo non potrà impedire a Dante di scendere nel quinto girone. A noi lettori moderni, abituati al genere noir ed ai film di Quentin Tarantino, queste paure possono sembrarci ben poca cosa. In effetti la selva è poco illuminata, ma non si sentono rumori strani, né
teranno addosso costringendolo a rivolgersi con i denti contro se stesso. Questo sì che è un episodio “da paura”! Eppure Dante non fa una piega, nonostante sia per la prima volta realmente messa in pericolo la sua incolumità. Evidentemente le minacce che noi tendiamo a sottovalutare (la selva, il leone ecc.) sono per lui più gravi e certamente
LE TRENTA PAURE DI DANTE le immagini sono tratte dalla Divina Commedia illustrata da Gustave Dorè
si avvertono pericoli imminenti. Anche le famigerate tre bestie, per quanto poco rassicuranti, sono piuttosto statiche e fanno pensare, più che alle inquietanti presenze di Lost, ai mostri di pietra delle cattedrali romaniche. C’è, invece, nell’ottavo canto, un episodio che ci avrebbe preoccupato di più. Dante, traghettato dal diavolo Flegiàs attraverso la palude Stigia, riconosce un suo concittadino, Filippo Argenti, immerso nelle acque paludose insieme agli altri iracondi come lui. Nonostante sia sporco di fango e deturpato dalle ferite che gli iracondi si infliggono vicendevolmente, Dante lo riconosce e, si direbbe oggi, lo provoca, chiamandolo spirito maladetto e mostrandosi ben contento delle sofferenze a cui è condannato. A questo punto Filippo Argenti allunga le braccia, intenzionato, probabilmente, a rovesciare la barca o, comunque, a regolare i conti con Dante, ma Virgilio lo ricaccia dentro la palude e poi si spende in lodi per il nostro poeta, lo bacia e benedice pure sua madre che lo ha messo al mondo. Noi moderni restiamo sorpresi per una tale mancanza di pietà, ma per Dante non è ancora abbastanza. Così si rivolge a Virgilio e gli esprime un desiderio che per noi sarebbe inconfessabile: ...molto sarei vago/ di vederlo attuffare in questa broda/ prima che noi uscissimo dal lago (Inf. VIII, vv.52-4). La risposta di Virgilio è dello stesso tenore: prima di abbandonare la barca Dante potrà godere dello spettacolo che esaudirà il suo desiderio; Filippo verrà assalito da uno stuolo di altri iracondi che gli sal-
Dante è più preoccupato di salvare la sua anima piuttosto che il suo corpo. Mostrare debolezza nei confronti dell’iracondo Filippo avrebbe sminuito la ferma
condanna che incombe sul personaggio e sul suo peccato. La stessa cosa avverrà nel canto XXXIII, quando Dante promette a frate Alberigo dei Manfredi di Faenza di scrostargli il ghiaccio che ha sugli occhi (e che gli impedisce di sfogare il suo dolore con le lacrime) ma poi non mantiene la promessa, dicendoci, per inciso, e cortesia fu lui esser villano. Se si vive una vita in armonia con le leggi di Dio, ribadisce Dante, non si può mostrare debolezza nei confronti di chi,
come frate Alberigo, ha commesso l’atroce delitto di fare uccidere gli ospiti di un suo banchetto ed evidentemente neppure di chi, come Filippo Argenti, è responsabile delle continue lotte fra Comuni. Si tratta di due peccati che costituivano per Dante un obiettivo sensibile contro cui schierarsi, un nervo scoperto che provoca in lui dolore e sdegno, molto più
sando al valoroso Harry Potter che cavalca lo scorbutico ippogrifo Fierobecco... la letteratura è piena di queste citazioni e forse, come nella chimica, nulla si crea e nulla si distrugge. Virgilio invita quindi Dante a sistemarsi davanti a lui (per evitargli le insidie della coda), ma il povero poeta è in preda al panico. Si sente i brividi della febbre, ha le unghie livide
di macelleria umana: sangue, ossame, minugia (cioè budella), corata (fegato, milza e polmoni) e perfino (ma l’elenco potrebbe continuare) quel tristo sacco che merda fa di quel che si trangugia (lo stomaco). Alla fine del suo viaggio nell’Inferno, prima di incontrare Lucifero, Dante ha paura alla vista di molti giganti, immobi-
di altre infrazioni alle leggi divine (pensiamo al diverso trattamento riservato a Francesca). Un altro ostacolo farà cadere Dante nello sconforto da lì a poco: i più di mille diavoli che presidiano la città di Dite vogliono far entrare solo Virgilio; il povero Dante tornerà indietro da solo, se ne sarà capace. Ma la paura dura ben poco: un angelo, con modi piuttosto sbrigativi, aprirà la porta, rimprovererà i diavoli e se ne andrà senza nemmeno rivolgere lo sguardo ai due poeti. A confermare quanto sopra ricordato a proposito del diverso atteggiamento di Dante nei confronti dei peccatori c’è la “nona paura” di Dante. Stavolta lo troviamo tra i sodomiti. Dopo un affettuoso incontro col suo maestro Brunetto Latini, il poeta ritrova tre suoi concittadini (Guido Guerra, Tegghiaio Aldobrandi e Iacopo Rusticucci). Virgilio afferma che con loro si deve essere cortesi e Dante riesce a stento a trattenersi dall’abbracciarli, bloccato dalla paura di scottarsi sotto le falde di fuoco che cadono dall’alto come neve e che devastano con piaghe nuove e vecchie le loro membra. Nel canto XVII la paura di Dante si fa per noi più comprensibile. Bisogna superare un terribile burrone e c’è un solo modo per farlo: volare sulla groppa di un essere mostruoso con volto di uomo, busto di serpente, zampe pelose, grandi ali e, nascosta, una coda di scorpione pronta a colpire a tradimento. Molti lettori under 18 potranno immaginare la scena pen-
e trema. C’è però una cosa che lo spinge a salire in groppa al mostro: si vergogna a comportarsi da vigliacco davanti a Virgilio! Il posto è angusto e il volo non può essere dei più panoramici, sarà per questo che Dante (a differenza di Harry Potter) non si distrae e non riesce a vincere la paura. Pensa ai pochi voli, tutti sciagurati, che gli possono venire in mente (Fetonte, Icaro) e sente il vento colpirlo al viso dal basso verso l’alto. Poi Gerione, come una specie di ascensore, lo depone nel fondo dell’ottavo cerchio e vola via. Nei canti XXI e XXIII la paura di Dante è suscitata dagli scalcinati diavoli delle malebolge. L’umanità degradata si rispecchia in questi demoni che, già nei nomi, manifestano la loro indole volgare e scioccamente aggressiva: Malebranche, Malacoda, Scarmiglione, Barbariccia, Graffiacane ecc.. Le parole usate da Dante sono plebee e poco musicali; alla fine del ventunesimo canto i diavoli non comunicheranno neppure più con quelle ed useranno, con un codice ben condiviso, pernacchie e scoregge. Stavolta è proprio Dante ad intuire, dai loro ammiccamenti, che i diavoli stanno per farsi beffe di lui e di Virgilio che, invece, dà loro credito e solo in extremis riuscirà a portare Dante in salvo nella bolgia successiva. Nel canto XXVIII la paura somiglia al disgusto. Questo canto oggi si definirebbe pulp, dato che gronda, fin dalle descrizioni iniziali, di ogni sorta di articolo
li e bloccati come torri di una fortezza. La loro grandezza testimonia la loro presunzione e la loro immobilità è la giusta punizione per chi ha osato ribellarsi alle leggi umane e divine. Nell’ultimo canto Dante scrive che la paura suscitata da quelle ultime visioni riaffiora ancora nel comporre i suoi versi. La visione di Lucifero lo lascia in stato catatonico (Io non mori’ e non rimasi vivo; XXXIV,25), ma ad impressionare noi lettori non è tanto l’enorme mole dello ‘mperador del doloroso regno, quanto piuttosto l’ultima paura di cui si parla nell’Inferno: quella della terra che, per evitare il contatto con l’angelo ribelle, si ritrae, precipitosa, nell’altro emisfero. Molto meno numerosi sono gli spaventi di Dante nel Purgatorio. Nulla di mostruoso, ovviamente, fatta eccezione per il serpente che ogni giorno arriva nella valletta dell’Antipurgatorio e, senza mai variazioni nel copione, viene cacciato via da due angeli. Dante è così intento ad osservare il serpente che non si accorge neanche di come abbiano fatto, ma le anime che gli stanno attorno non paiono per nulla impressionate; e come avrebbero potuto, visto che si trattava dell’ennesima replica? La prima volta che Dante usa la parola “paura” nel Purgatorio è nel secondo canto. Catone, il severo custode, interrompe l’estasi delle anime assorte nell’ascolto del canto di Casella, ricordando loro che non sono lì per divertirsi. Come colombe che lasciano il pasto, distolte da un forte
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spavento, così tutti si allontanano in fretta. Dante leggerà nel volto di Virgilio il rimorso per essersi fatto distrarre anche lui; il nostro poeta lo ammira per questo, ma non sembra per nulla turbato dall’accaduto, né si sente in colpa. Eppure era stato proprio lui a chiedere all’amico Casella di cantare qualcosa e di Dante sono le parole della canzone. Ci fosse stata la SIAE avremmo potuto pensare ad un tornaconto personale, ma forse è solo orgoglio di paroliere. La paura del canto IX viene vissuta in sogno. È l’alba e il poeta sogna di essere afferrato da un’aquila e portato talmente in alto che sta per scottarsi dentro una sfera di fuoco. Per lo spavento si sveglia e, siccome nel Medioevo i sogni che si facevano all’alba erano veritieri, Dante saprà da Virgilio di essere stato portato in volo da Santa Lucia su per la montagna, superando un grande dislivello. Molto più concreta è la paura manifestata nel colloquio con l’invidiosa Sapìa (canto XIII): Dante sa di essere stato talvolta invidioso (e quindi toccherà anche a lui passare qualche secolo con le palpebre cucite ed un ruvido mantello addosso), ma sa di meritarsi un castigo maggiore per aver peccato di superbia. Manifesta quindi la paura per il tormento di sotto (cioè per la pena da scontare nel cerchio sottostante) e sente già sulle spalle il peso opprimente dei massi che, fra capo e collo, opprimono i superbi. Nei canti XXI e XXII c’è l’incontro con il poeta Stazio, preceduto, nel XX, da un forte terremoto che scuote la montagna. Questo poeta latino, vissuto quasi un secolo dopo Virgilio, è rimasto 500 anni nella quinta cornice per avere sperperato il suo denaro ed il terremoto ha segnato la sua definitiva liberazione dai peccati. Presentandosi ai due viaggiatori, dice di essere vissuto al tempo dei Flavi ed aggiunge che, come scrittore, ebbe a modello l’Eneide e, se gli fosse stato concesso di conoscerne l’autore, volentieri sarebbe rimasto in Purgatorio un altro anno. Dante sorride, ma ha timore di rivelare a Stazio che Virgilio è proprio lì davanti
e cerca con lo sguardo il consenso della sua guida. La “sesta paura” della cantica riguarda proprio Stazio, che, pur essendosi convertito al Cristianesimo (ed anche di questo rende merito a Virgilio), tenne nascosta la sua fede, terrorizzato dalle persecuzioni di Domiziano. Per questo ha scontato una pena di 400 anni nel cerchio degli accidiosi. Considerando che il poeta morì alla fine del I secolo d.C. e che il viaggio di Dante avviene nel 1300, se ne deduce che Stazio ha scontato i suoi peccati con circa 1200 anni di Purgatorio. In fatto di pene detentive Dante non conosceva proprio le mezze misure!
Nei canti III e XXX Dante ha paura di essere stato abbandonato da Virgilio e ne cerca il conforto. Lo impaurisce anche, nel canto XXIX, la visione di San Paolo, armato di una lucida spada; confusione e paura gli provocheranno le incalzanti domande di Beatrice (XXXI) che gli rimprovera lo sbandamento avuto dopo la sua morte. Ma la prova più terribile che dovrà superare nel Purgatorio, paragonabile al volo dell’Inferno in groppa a Gerione, Dante ce la racconta nel XXVII canto. Un muro di fuoco lo separa dall’Eden; il poeta lo sa, ma non ha il coraggio di attraversarlo: ha fissa in mente l’immagine dei corpi degli uomini condannati al rogo
che aveva visto ardere nelle pubbliche esecuzioni. Virgilio cerca di spronarlo in tutti i modi: gli dice che lo accompagnerà, come aveva fatto con Gerione; ammette che forse un po’ soffrirà ma che di certo non potrà morire e, quand’anche ci stesse dentro mille anni, il fuoco non gli brucerebbe un capello. Lo invita anche ad avvicinarsi con cautela ed a mettere vicino il suo mantello, per rendersi conto che non brucerà. Dante ci riflette, sa che Virgilio ha ragione ma non ce la fa: è pietrificato dalla paura. Virgilio le ha provate tutte ma, alla fine, gioca la mossa vincente e dice or vedi, figlio: tra Beatrice e te è questo muro (vv. 35-6); solo quel muro di fuoco lo separa da Beatrice: è proprio sicuro, Dante, di non poterlo attraversare? A sentire quel nome ogni resistenza è vinta e Virgilio sorride, perché lo ha convinto come si fa con i bambini, ai quali si promette un dolce frutto. La paura, in Paradiso, viene citata tre sole volte e, considerato il luogo, sembrano anche troppe. Nell’XI canto viene richiamata in modo alquanto macchinoso quando Tommaso d’Aquino, tessendo l’elogio della povertà di san Francesco, ricorre ad una citazione di Lucano che afferma che Cesare non riuscì a farla provare al poverissimo Amiclate. In seguito, nel XV, Dante si lascia andare alla nostalgia dei bei tempi che furono, quando la bellezza femminile non chiedeva gonne fregiate, cinture, catenelle e corone, e quando la nascita di una figlia femmina non era ancora causa di paura per il padre che doveva approntarle la dote. L’ultima paura la ritroviamo nel canto XXVI. Per la prima volta nel poema, nonostante tutti i pericoli affrontati, Dante è stato colpito nel fisico: la visione di san Giovanni lo ha abbagliato, non riesce più a vedere Beatrice e teme di aver perduto la vista. Ma il santo lo rassicura: la vista tornerà poco a poco; nel frattempo Dante può “compensare” la momentanea cecità con il ragionamento. Questo consiglio ci sembra validissimo anche oggi. Ragionando forse non si vincono immediatamente tutte le paure, ma si evita sicuramente di farsi prendere dal panico, che è causa di mali peggiori. Grazie, Dante!
U
n giovane cane dalmata che fugge via terrorizzato da un giocattolo semovente che riproduce in piccolo un esemplare della propria specie, perlopiù non manca di suscitare divertimento nelle persone che assistono alla scena. Analoga reazione accoglie l’abbaiare di un cagnolino spaventato da un palloncino a forma di delfino legato al carrozzino di un bambino. La fuga del primo e l’aggressività del secondo appaiono comiche in quanto risultato di un equivoco, di un inganno circa una minaccia, un pericolo in realtà inesistenti, oltretutto connessi ad un nemico non solo falso, ma anche in sommo grado innocuo. Ma, prima e più che causa di ilarità, quei comportamenti dovrebbero costituire materia di riflessione, dato che la paura è una condizione, un sentimento, un istinto, che riguarda la specie umana quanto gran parte o, forse, la totalità degli altri animali. Il nuovo, l’estraneo, il diverso, l’ignoto, l’incomprensibile non spaventano soltanto gli animali, ma anche gli uomini incorrono nello stesso tipo di reazioni. È da ritenersi, del resto, del tutto improbabile che una specie incapace di concepire la paura e gli opportuni comportamenti di difesa, di fuga o di aggressione nei confronti del proprio predatore possa aver conseguito condizioni di sopravvivenza e quindi essere sopravvissuta. In altri termini, appare pressoché certo che la paura e la conseguente aspirazione a condizioni di sicurezza debbano
PAURA POTERE AFFARI E STRAGI DI STATO considerarsi fattori di importanza fondamentale nella evoluzione dell’uomo e delle società umane, come in quella degli animali e delle loro collettività. Dire che la paura e l’aspirazione a condizioni di sicurezza fanno parte della base istintuale anche della specie umana equivale ad affermare che anch’essa deve guardarsi da possibili derive autodistruttive e da comportamenti altrettanto irrazionali quanto quelli degli altri animali. Insomma, anche gli esseri umani possono incorrere ed incorrono in errori, equivoci ed inganni simili a quelli in cui cadono i cagnolini di cui essi ridono, anche se, c’è
da sperare, non proprio uguali ed altrettanto ingenui. Inoltre, le società umane, a differenza di quelle degli altri esseri viventi, soggiacciono ad un ulteriore pericolo: la possibilità che le loro basi istintuali vengano sfruttate a fini di accumulazione di potere e di ricchezza e di rafforzamento di posizioni di dominio e di sfruttamento. Questo pericolo non riguarda soltanto i conflitti interni ed internazionali a fini di potere politico, ma i campi più diversi, compresa la possibilità di suscitare e sfruttare il terrore delle epidemie per la vendita di vaccini o altri farmaci e rimedi di cui si detengano i brevetti di commercializzazione. La paura, infatti, può essere suscitata artatamente, il nemico può essere, a tale scopo, inventato e costruito e, quindi, sostenuto, finanziato, armato, addestrato; all’interno della stessa società o nazione possono essere prodotte divisioni e contrapposizioni. Che non si tratti di un discorso accademico o ipotetico, ma solidamente basato su fatti reali, è noto a chiunque abbia una conoscenza anche solo superficiale della
di Francesco Mancini
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la paura nella nostra storia recente l‘arcobaleno
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storia dell’umanità, in particolare del suo ultimo secolo di vita. D’altra parte, fra tutte, proprio la storia d’Italia, in special modo per ciò che concerne il periodo successivo alla seconda guerra mondiale, può considerarsi tra le più significative ed esemplari in rapporto agli argomenti svolti. Le particolari condizioni politiche e storiche e la posizione geografica dello Stato italiano l’hanno reso particolarmente vulnerabile ed adatto ad un condizionamento esercitato facendo leva sul sentimento o istinto della paura e sulla aspirazione alla sicurezza. Le vicende italiane attuali dimostrano che una accorta ed abile gestione della paura e della sicurezza, con il supporto di mezzi di comunicazione di massa asserviti o comunque favorevolmente disposti, fa letteralmente miracoli. Ad un paese con elevatissimi tassi di evasione fiscale e contributiva e di esportazione illegale di capitali ed una fortissima incidenza dell’economia in nero o in mano alla malavita organizzata, viene fatto credere che il suo problema principale è costituito dalla immigrazione clandestina. Inoltre, mentre i dati di organismi ministeriali, Istat e Inps evidenziano l’importanza dell’apporto degli immigrati in rapporto ad essenziali esigenze produttive, sociali e previdenziali, i cittadini vengono sempre più convinti della necessità della loro espulsione dal territorio nazionale. Oltre a ciò, a fronte di una consistente flessione evidenziata dalle rilevazioni relative ai livelli di criminalità, l’opinione pubblica appare sempre più convinta del crescente aggravamento di tale problema, che perlopiù viene associato a quello dell’immigrazione clandestina. È un fatto che tutto ciò consente il permanere e prosperare di una classe dirigente e di un apparato di sicurezza pletorici, farraginosi ed inefficienti, sostanzialmente parassitari, che però vengono presentati come indispensabili per il mantenimento di condizioni di sicurezza e benessere sociale. Occorre dire che in un passato non tanto lontano le cose sono andate verosimilmente molto peggio. Nel lungo periodo caratterizzato, a livello internazionale, dalla politica dei blocchi contrapposti a guida statunitense e sovietica, la storia d’Italia ha visto l’infittirsi di episodi tragici, quali stragi, scontri di piazza, progetti e tentativi di colpi di stato e terrorismo. Con la strage di piazza Fontana a Milano, nel dicembre del 1969 si avviò quella che sarebbe stata definita strategia della
tensione e poi, variamente, degli opposti estremismi e degli opposti terrorismi, in quanto consistente in un esercizio sistematico del terrore. Quarant’anni dopo, le risultanze processuali ed il lavoro degli storici e dei giornalisti d’inchiesta hanno dimostrato che l’intera strategia fu concepita ed attuata al fine della stabilizzazione al potere delle forze politiche filostatunitensi. Allo stesso modo, è stato dimostrato l’intervento diretto, e non solo finanziario, dei servizi segreti statunitensi, volto, con ogni mezzo, a garantire la permanenza dell’Italia nel blocco occidentale e ad impedire l’accesso del Partito comunista al potere o anche solo nella maggioranza di governo. Per ciò che concerne specificamente la vicenda della strage va detto che non è affatto vero che non si sia venuti a capo di niente. In realtà, sono stati individuati sia i responsabili materiali della strage (Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi e Giancarlo Rognoni) sia i mandanti (Franco Freda e Giovanni Ventura). Il fatto che, per motivi procedurali, i primi tre siano stati assolti e, in virtù delle vicende processuali pregresse, gli ultimi due siano risultati non più condannabili, non significa che non sia stata accertata la verità su quella tragica vicenda. È stato inoltre provato, come dichiarò Paolo Emilio Taviani, allora vicepresidente del consiglio, che la bomba di piazza Fontana è stata messa con la copertura dei servizi segreti, ma non avrebbe dovuto esserci la strage, perché la banca all’ora dello scoppio avrebbe dovuto essere chiusa. In altri termini, a tanti anni di distanza dai fatti, anche le sentenze della magistratura hanno riconosciuto la fondatezza delle accuse di quanti all’epoca dei fatti ritennero che si trattasse di una strage di Stato. In ultimo, le indagini e le sentenze hanno accertato non solo che gli anarchici erano del tutto innocenti, ma che tale circostanza era perfettamente
nota a coloro che li accusarono, anche per la presenza di numerosi infiltrati della polizia e dei servizi segreti nei loro gruppi di appartenenza. Ascoltato dalla commissione stragi, lo stesso Taviani disse che l’operazione piazza Fontana era stata organizzata da persone serie e aggiunse che il progetto non prevedeva la strage. (...) se i mandanti erano persone serie, non altrettanto lo furono gli esecutori (...) Perché, o sbagliarono (e cioè per errore fecero esplodere la bomba quando la banca era affollata) o andarono oltre l’incarico ricevuto, trasformando uno dei tanti attentati dimostrativi di quegli anni in un massacro. Ipotesi, quest’ultima, più probabile della prima. Resta sempre, però, la menzogna sulla morte di Giuseppe Pinelli, che secondo i funzionari e dirigenti della questura di Milano si sarebbe suicidato perché risultato implicato nella strage, alla quale era invece perfettamente estraneo, come essi sapevano benissimo. In Italia chiunque parli di complotti viene irriso e gratificato della qualifica di “dietrologo”; e allora, se non complotto, come andrebbe definito quello posto in atto contro Valpreda e Pinelli?
N
ell’autunno del 1969, il democristiano Mariano Rumor era presidente del consiglio di un governo monocolore democristiano; il socialdemocratico Giuseppe Saragat era presidente della repubblica. Il 4 luglio di quell’anno, la componente socialdemocratica saragattiana si era separata dal Partito socialista italiano, dando vita al Partito socialista unitario (Psu). Alle 16,37 del 12 dicembre una potente bomba alla gelignite viene fatta esplodere nel salone affollato della sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura, in piazza Fontana, a Milano. Il bilancio delle vittime è di 17 morti, di cui uno deceduto successivamente, e 86 feriti. Nei giorni successivi alla strage, solo a Milano, sono 84 le persone fermate tra anarchici, militanti di estrema sinistra e due appartenenti a formazioni di destra. Il primo ad essere convocato è il ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, fermato dalla polizia e convocato in questura poche ore dopo la strage. Dopo tre giorni di interrogatorio non gli viene contestata alcuna imputazione eppure non viene rilasciato; ad interrogarlo è il commissario Luigi Calabresi, il quale guida l’inchiesta sulla strage. Intorno alla mezzanotte del 15 dicembre, Pinelli viene trovato morto nel cortile della questura, dopo essere precipitato dalla finestra della stanza dell’interrogatorio, che si trovava al quarto piano. La versione ufficiale parla di suicidio; gli inquirenti cercarono di far credere che Pinelli si fosse tolto la vita perché coinvolto nell’attentato alla Banca nazionale dell’Agricoltura. Lo stesso giorno, all’interno del tribunale di Milano, era stato arrestato Pietro Valpreda, un ballerino anarchico, accusato della strage e oggetto di riconoscimento, a dir poco pilotato, da parte del tassista Cornelio Rolandi, il quale ritenne di individuarlo come il passeggero da lui trasportato il pomeriggio del 12 dicembre nei pressi della Banca Nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana. Si è accertato al di là di ogni dubbio, anche a seguito di numerose sentenze giudiziarie, che polizia, servizi segreti e neofascisti erano perfettamente al corrente che Valpreda ed il minuscolo gruppo anarchico romano “22 marzo” cui ap-
parteneva erano del tutto estranei alla strage di piazza Fontana. È sufficiente, al riguardo, rammentare che del gruppo — non più di 10 membri — cui fu attribuita la responsabilità della strage, facevano parte un agente di P.S. (Salvatore Ippolito, referente diretto del capo dell’ufficio politico della questura di Roma), un confidente del SID - Servizio Informazione Difesa (il neofascista Stefano Serpieri) ed il nazifascista Mario Michele Merlino, che, dopo il suo arresto, divenne il principale collaboratore della polizia ed accusatore di Valpreda. Valpreda rimase detenuto, insieme ad altri componenti del suo gruppo, fino al 30 dicembre del 1972, allorché fu liberato a seguito della approvazione da parte del Parlamento della legge 773 (cosiddetta “Legge Valpreda”). Il 14 dicembre 1969, il settimanale inglese “The Observer”, nel commentare la situazione politica italiana all’indomani della strage e degli altri attentati di Milano e Roma, traendo spunto dalla nascita del Psu, aveva scritto: “ I motivi di Saragat nel creare la scissione erano evidentemente sottili. Egli cercava non tanto di influenzare i socialisti quanto di spingere a destra la Democrazia Cristiana. Il calcolo era che il governo Rumor fosse costretto alla resa dall’agitazione sul fronte industriale, che le elezioni anticipate venissero tenute nell’anno nuovo e che la paura del comunismo cancellasse alle urne la sinistra democristiana. Ma tale proposito non si è avverato ... Per l’intero schieramento di destra, dai socialisti saragattiani ai neofascisti, l’inaspettata moderazione dell’autunno caldo mi-
nacciava di liquidare la paura della rivoluzione sulla quale essi avevano puntato. Quelli che hanno fatto esplodere le bombe in Italia hanno rinverdito questa paura. Dal terrorismo dell’estrema destra, anche la destra ‘moderata’ può trarre vantaggio”. Nel contesto dell’articolo dell’ “Observer” appare per la prima volta l’espressione strategia della tensione, a significare che quanto avvenuto in Italia è il risultato di precise scelte politiche, coerentemente organizzate all’interno di un disegno preordinato. Le risultanze processuali hanno infine dimostrato la fondatezza della tesi formulata dal settimanale inglese nell’immediatezza dei fatti: la strage fu effettuata ad opera dei neofascisti di Ordine Nuovo, con l’appoggio, la copertura, la supervisione e i depistaggi dei servizi segreti italiani e statunitensi.
di F. M.
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la paura contrastata: la sicurezza 22
di Giuseppe D’Angelo
È
l’alba di un nuovo giorno. Mi preparo ad affrontare una nuova giornata. Prima di iniziare le attività, nel silenzio della mattina, mi è più facile pensare e riflettere. Tra un pensiero ed il successivo mi chiedo cosa significhi “sicurezza”. E mi ricordo che il termine “sicuro” proviene dal latino securus, ossia tranquillo, senza preoccupazioni. Mi alzo con un convincimento: durante la giornata valuterò la mia “cultura della sicurezza”. Preparandomi ad uscire, mi accorgo che sono contornato da rischi che, per superficialità, non avevo valutato. L’elettricità, ad esempio, o il gas: e pensare che consideravo la mia abitazione il luogo più sicuro al mondo! La riflessione susseguente è che, di
U NA GIORNATA IN S ICUREZZA fronte a questi pericoli, agisco in modo da mettermi al riparo da ogni possibile danno. Non utilizzo l’asciugacapelli se sono bagnato, né tantomeno in prossimità della vasca da bagno piena d’acqua; e se utilizzo la cucina verifico con attenzione il corretto posizionamento delle manopole del gas. Piccoli accorgimenti, ma essenziali per la mia sicurezza. Ora che ci penso, i miei genitori hanno incaricato un tecnico specializzato ed abilitato ai sensi della legge 46/90, di verificare gli impianti di casa, e questo francamente mi conforta. Sull’uscio del mio appartamento incrocio la portinaia che sta finendo di lavare la scala. La saluto e lei mi risponde aggiungendo: stai attento, il pavimento è bagnato! Raccolgo la raccomandazione e trovo il modo di passare nei riquadri più asciutti. Meno male che calzo le mie scarpe di gomma: oggi ho lezione di educazione fisica! Caspita, devo tornare indietro,
Charles C. Ebbetts, Pausa sul Rockfeller Center N.Y. 1932
ho dimenticato il casco e devo andare in motorino. Stamani sono un po’ in ritardo. Di solito anticipo l’uscita di qualche minuto per non andare di fretta, evitando i pericoli di una guida veloce e situazioni di stress. Sono a scuola: oggi le lezioni sono dedicate alla sicurezza. Ogni docente, in base alla materia di insegnamento, tratterà argomenti riguardanti la sicurezza sui luoghi di lavoro. Il professore di Diritto, nell’ambito della Costituzione, richiama l’articolo 35, che recita: La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni ed aggiunge che Cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori. Parla poi dell’art. 41, dove esplicitamente si dichiara che l’iniziativa economica, Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana e si sofferma infine sulla funzione sociale assegnata
Charles Chaplin - Fotogramma da Tempi moderni - 1936
alla proprietà dall’art. 42. Ci dice che ai nostri giorni si parla di sicurezza come se sull’argomento si fosse legiferato di recente. Ma già agli inizi degli anni ’50 il legislatore si era prodigato nella emanazione di norme per contrastare le cosiddette “morti bianche”, con i Dpr n°55 del 1957 e n° 303 dell’anno successivo. Il boom economico aveva portato ad una crescita del lavoro nell’industria e nelle costruzioni e questo si ripercuoteva inesorabilmente con infortuni molte volte mortali. Le norme degli ultimi anni, decreto legislativo n. 626 del 1996 ed il Testo Unico sulla sicurezza dell’anno scorso, emanate per armonizzarsi con quelle europee, introducono il concetto di sistema della sicurezza che pone l’accento sull’organizzazione del lavoro come fattore di leva per migliorare le condizioni di sicurezza. Sbuffo perché sentire snocciolare dipierre e decreti legislativi non corrisponde alla mia idea di piacere, ma soffoco lo sbadiglio e spero che il prof non se ne accorga. Meno male che suona la campana! Nuova ora di lezione, nuovo approccio all’argomento. Siamo all’economia aziendale ed ai costi della sicurezza in azienda. Le società che adottano modelli della sicurezza allineati alla normativa ne traggono benefici in termini di immagine e produttività. Se un lavoratore subisce un infortunio resterà fuori dal processo produttivo e non è facile trovare un sostituto, con la stessa esperienza; ciò si ripercuote sulla produttività. Rifletto un attimo e razionalizzo che un infortunio è anche un costo sociale di cui tutti siamo “costretti” a farcene carico. E chi se lo immaginava! La lezione di informatica di oggi è meno
ne di scienze riguarda la salute dei lavoratori nei luoghi di lavoro. L’insegnante ci ricorda che una corretta igiene induce a comportamenti “sensati” durante l’attività lavorativa. Ci fa notare, ad esempio, l’atteggiamento di un benzinaio che fuma mentre effettua il rifornimento, mettendo così a repentaglio la sua incolumità e la nostra. In questo gesto si nota anche la mancanza di igiene, e la sigaretta diventa veicolo di ingestione di sostanze nocive. La sicurezza si occupa anche della prevenzione di malattie che si manifestano in ambienti insalubri e privi di dispositivi per evitare il verificarsi di patologie talvolta anche gravi. Penso al carrozziere sotto casa mia che senza alcuna protezione respira i vapori delle “sue vernici”: mentre ripara le vetture degli altri distrugge i suoi polmoni. Si parla della figura del medico competente in azienda. Ha la funzione di mettere in allerta il lavoratore sulle malattie che potrebbe contrarre nel corso della sua attività lavorativa e su cosa fare per prevenirli. La lezione si conclude al suono della campana che sancisce la fine dell’attività scolastica. Ritorno a casa. Alla televisione il telegiornale comunica l’ennesima morte sul lavoro. Da oggi mi accosto alla notizia con una sensibilità più spiccata e convinto che devo costruirmi una adeguata “cultura della sicurezza”. Un giorno sarò un lavoratore e salutando i miei bambini la mattina, all’inizio di una giornata di lavoro, devo avere la certezza di poterli riabbracciare la sera.
impegnativa del solito. Si parla di lavoro al videoterminale. Scopro che stare davanti al computer fa correre rischi mica da ridere. Vengo a conoscenza di termini nuovi: ergonomia, postura, disturbi muscolo scheletrici, tunnel carpale. Comincio ad avvertirne i primi sintomi. Che succede? Suoni persistenti della campana avvertono che è avviata l’evacuazione di emergenza. In un attimo mi ritornano in mente le esercitazioni di evacuazione e le norme che ormai abbiamo imparato ad osservare in modo quasi automatico. Stiamo simulando la procedura di abbandono delle aule in caso di incendio, terremoto o situazioni di pericolo in genere. Ricordo che la prima volta che mi hanno parlato di questo “piano” ho fatto gli scongiuri di rito. Nel percorrere i corridoi per raggiungere l’uscita, mi accorgo del gran da fare dei bidelli che, tra l’altro, hanno al braccio una fascia rossa oppure verde. Sono gli addetti all’emergenza e all’antincendio. Mi ritrovo fuori nel cosiddetto luogo sicuro (semmai ce ne fossero). Con i compagni si scherza e si sghignazza sull’argomento, ma siamo convinti che queste prove sono importanti perché ci preparano ai comportamenti da adottare in situazione di pericolo, quando il panico potrebbe prendere il Cos’è cambiato? - Anonimo 2009 sopravvento. Al ritorno in aula la lezio-
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CHI E’ IL NEMICO?
di A. L. D.
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o sempre pensato che tra vedere e guardare ci fosse una grandissima differenza. Guardare è facile ma cosa vediamo? Ogni cosa è tradotta in un linguaggio adeguato, ma solo tra tutti i linguaggi che possediamo. Per chiarire basta pensare ad un daltonico. Lui guarda ma VEDE qualcosa di totalmente diverso da quello che guardiamo/vediamo noi. E l’unica differenza è la frequenza. Se i daltonici fossero la quasi totalità delle persone, ad essere daltonici sarebbero quelli che ora sono considerati normali. Sì, lo so, è ovvio per tutti..... ma solo se ci pensiamo. Vale per qualunque difetto visivo, spesso corretto con strumenti. Meno evidente risulta il fatto che usiamo sempre uno strumento perché c’è un solo modo di guardare vedendo ed è di usare una lente. Lo facciamo TUTTI senza esserne consapevoli. La lente della cultura in cui viviamo, dei nostri pregiudizi, delle nostre esperienze. Interrogarsi sulla lente che decifra il mondo per noi è saggio. Scegliere una lente interpretativa adatta al nostro modo di essere è consapevolezza. Se tutti usano una lente, se è indispensabile usarne una, quale scegliere e sceglierla bene diventa un preciso dovere etico. Io, consapevolmente, ho scelto il femminismo. La storia è tutta un susseguirsi di violenze e prevaricazioni di un gruppo su un altro più o meno differente. Ma la sopraffazione e le violenze più globali e sempiterne sono quelle effettuate dagli uomini contro le donne. Per anni mi sono sentita chiedere, con tono tra scandalizzato ed incredulo, ‘ma lei E’ femminista?!’ Ad un certo punto mi sono davvero stufata di chiarire che il femminismo non è il ridicolo dibattito su chi lava i piatti o chi fa riparare la macchina. Il femminismo è una lente e permette meglio di molte altre di vedere più chiaramente, di leggere il mondo. Siamo chiusi nella rete dei nostri pensieri e pensiamo che siano particolari, unici, talvolta ci sembrano strani, sten-
Il tuo viso esiste fresco di Felisiano Bruni - Rumore Collettivo tiamo a capirne le radici. E poi, con grande sorpresa, scopriamo che sono comuni ad altri/e. Da bambina, da ragazzina, andavo a scuola da sola e spesso sentivo commenti, frasi disturbanti. Gli uomini che me li dicevano mi facevano paura. E mi facevano paura anche gli uomini che mi guardavano in silenzio. E mi facevano ancora più paura se erano in gruppo e, soprattutto, se ridevano. Non ne capivo il motivo, non sapevo perché. Ma sentivo il cuore che mi batteva, abbassavo la testa, acceleravo il passo, ignoravo quello che sentivo, frasi volgari, brutali. Finché lessi, anni dopo, un articolo di una femminista storica che diceva le stesse cose! E tutte le altre le confermavano.
Tutte le donne hanno paura degli uomini! Così cominciammo a chiederci perché. Perché, soprattutto, il riso maschile fosse percepito da tutte noi come minaccioso. Tra letture e discussioni, credemmo di trovare una risposta. Esiste una memoria storica delle donne fatta di violenze e prevaricazioni. So benissimo che non tutti gli uomini dicono frasi oscene alle ragazzine, che non tutti gli uomini che ridono in gruppo sono pronti a violentare le donne. Ma la paura istintiva e generalizzata che suscitano nelle donne dovrebbe indurli a riflettere su se stessi. Da un mini sondaggio fatto tra ragazze risulta che la situazione non è cambiata affatto, non c’è stata nessuna evoluzione in direzione di un maggior rispetto ver-
so le donne. Addirittura mi è stato detto che c’è una maggiore aggressività e non c’è più il riguardo verso le donne-in-compagnia-di-un-uomo. Gli uomini riflettono poco sulle responsabilità di genere. Si sentono disturbati, offesi, scuotono la testa e si rifugiano nell’individualismo ‘rispondo solo dei miei atti e comportamenti’, dimenticando la LORO memoria storica. Non accettano una responsabilità di genere come non accettano una responsabilità di razza o di classe sociale. Dimenticando allegramente quanto della loro individualità poggi su privilegi di genere/colore della pelle/classe sociale. Le donne hanno una memoria storica più persistente e questo le induce a temere gli uomini. E bisogna ammettere che molti uomini danno alle donne ottimi motivi per farlo. Da bambini, i maschietti sono aggressivi e violenti molto più delle femminucce che, anche se usano armi più sottili, sono abituate a temerli. Ma, crescendo, le donne cominciano a distinguere tra uomini sconosciuti, e quindi temibili, e uomini conosciuti e attraenti e quindi diversi, amabili, amichevoli. È umano sentirsi attratti dal diverso da sé, pur cercando il simile. Ed è umano (e molto femminile) continuare a temere gli uomini in generale ma amare il proprio, differente, dolce e tenero uomo. Che però, spesso, ospita in sé un Mr. Hyde che non controlla, che non riconosce, che non individua. Perché poco portato all’auto-analisi, perché superficiale, perché ottimista sul proprio conto. Perché non dà molta importanza ai sentimenti, preso da problemi ben più importanti (carriera, politica, tasse). Perché, naturalmente, il problema della violenza, e soprattutto della violenza sulle donne, non riguarda loro ma solo gli altri, persone, popoli, culture diverse. Non noi ma solo loro, insomma l’altro da sé. E le donne distinguono anch’esse gli uomini in generale, di cui pensano e parlano malissimo, dai loro uomini sempre diversi e meravigliosi. Non capirò mai perché la gente dia così poco valore alle statistiche e spero che Trilussa bruci nell’inferno in cui non credo per un’espressione che, spero suo malgrado, è rimasta come l’unica immagine di una scienza serissima, quale in realtà è. Il malefico discorso del pollo, banalizzante e valido solo come battuta, è l’unica visione della gente. Appena si cita una statistica, immancabile appare il pollo come contrapposizione. Che poi mi chiedo
perché mai io abbia dato due esami all’università, perché abbia studiato tante formule irte di integrali, se tutto si riduce ad un discorso di un pollo, mezzo pollo. TUTTI conoscono questa definizione che mette in ridicolo una scienza che, pur nelle sue approssimazioni, è l’unico modo per avere un’immagine globale della realtà in cui viviamo. Se prendessimo un po’ più sul serio le statistiche, forse molte nostre idee ne sarebbero modificate. La prima causa di morte per le donne sotto i 40 anni, in tutto il mondo, è la violenza. L’80% di queste violenze, che oltre alla morte provocano invalidità, dolore ed umiliazioni senza fine, sono effettuate..... dagli uomini che ci amano: mariti in primis, amanti, fidanzati, padri, fratelli. Il posto più pericoloso per una donna..... è la famiglia, la propria casa! Se gli uomini prendessero atto di questa triste realtà, sorveglierebbero meglio il proprio Mr.Hyde.
Se le donne prendessero atto di questa triste realtà, trasversale alle razze, alle etnie, alle classi sociali, sarebbero molto più caute e diffidenti e, forse, meno pronte a perdonare gesti violenti che amano scambiare per prove d’amore da cui si sentono gratificate. La cosa più triste è che le donne non hanno abbastanza paura degli uomini. Sprecano la propria paura per gli sconosciuti, specialmente se diversi, e si affidano ad uomini spesso violenti, caratteristica che sottovalutano. Esistono milioni di uomini che le donne considerano possessivi, gelosi, talvolta collerici ma mai vedono per quello che sono in realtà: violenti e maneschi. E vigliacchi, perché prendersela con persone fisicamente più deboli (donne e bambini) credo che sia la forma peggiore di vigliaccheria. Cambiare prospettiva, essere meno indulgenti innanzitutto con i propri fidanzati/amanti, stare attente, nella consapevolezza che i segnali d’allarme vanno valutati attentamente, dato che possono
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Edvard Munch, Ragazza sulla spiaggia, 1896 Acquatinta raschietto e punta secca su zinco, Munch Museum, Oslo
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solo peggiorare e mai sparire col tempo, probabilmente diminuirebbe il numero di vittime. Ma nulla cambierà realmente se gli uomini non si faranno carico di indagare la propria carica di violenza. Se non daranno per scontato di avere un grosso problema con la gestione della propria emotività, con il controllo della troppo facile soluzione d’ogni conflitto, affibbiare un ceffone e poi continuare così. SO che molti uomini non lo hanno mai fatto e mai lo faranno ma.... sono in maggior numero, purtroppo, quelli che lo fanno e lo faranno.
So anche che molti di loro, probabilmente la maggioranza, se ne vergognano moltissimo a posteriori ma non riescono a controllarsi. Affrontare il problema invece di negarlo farebbe bene soprattutto a loro. Risparmierebbe chissà quante vite e renderebbe meno sgradevole la vita a milioni di donne ma anche uomini. Non credo che un uomo decente possa, quando torna in sé, trovare giustificazioni al proprio comportamento. Voglio sperare che si vergogni a morte di se stesso. Se imparasse a gestire i propri sentimenti ed a canalizzare la collera in altro modo, la qualità della sua vita certamente mi-
gliorerebbe. E, incidentalmente, quella delle donne. In effetti, dato che penso sia del tutto impossibile eliminare i conflitti della vita familiare, non ci sono altre strade per risolvere un problema più grave e profondo di quello che appare. La parte che arriva alla cronaca nera dei quotidiani è, infatti, solo la parte emersa dell’iceberg. La maggior parte, è risaputo, viene tenuta nascosta all’interno delle famiglie, culla d’amore, tenerezza e comprensione reciproca. Basta sfogliare un giornale per convincersene.
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IOIONON NONHOHOPAURA PAURA di Katia Arcidiacono
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opo l’11 settembre 2001 il mondo intero ha dovuto fare i conti con un sentimento normale come la “paura”: paura di un attentato terroristico, di una pandemia, di una guerra planetaria. Sono riemerse ataviche paure dell’uomo relative all’estinzione, all’autodistruzione; il mondo appare pieno di pericoli, di minacce per il genere umano: la radioattività, i rischi nucleari, l’inquinamento, le catastrofi naturali. James Hillman è uno dei più illustri psicologi dei nostri giorni e, secondo i suoi studi, gli uomini possono convivere in modo sereno e costruttivo con paure personali e globali. Non bisogna vergognarsi di provare paura, essa è legittima e, spesso, indispensabile e costruttiva. Non bisogna abolire la paura, non si potrebbe vivere senza; ad un bambino insegniamo ad
avere paura, non a non averne. Essa è un bisogno primario, una pulsione basilare, le cui cause possono anche essere remote, infantili. È nella società in cui viviamo che la paura trova i suoi germi, la società del rischio, la società dell’insicurezza, dei timori condivisi. L ’opinione pubblica è portata a credere che paure ed insicurezze siano dovute, per esempio, all’aumento della criminalità e del terrorismo, ma queste sono solo delle illusioni, create ad arte per suscitare paura in un nemico invisibile. Vengono messe in atto strategie per modellare la realtà in base a precise volontà politiche. Chi governa, ed esercita una certa autorità, comprende perfettamente quanto peggiore della paura sia l’immaginazione della paura stessa, la sua proiezione. Il potere sfrutta, quindi, la paura per ot-
tenere consensi, ma è proprio generando un caos controllato che si dissemina la paura, l’insicurezza, la diffidenza e si predispongono le masse al fanatismo. Ai nostri giorni la paura è veicolata dalla propaganda, dai mass media, dagli ingranaggi della lavatrice del cervello, da una guerra psicologica. Ecco che Hillman esprime una delle paure che più attanagliano la nostra società: il collasso della cultura e dell’educazione, la semplificazione e la massificazione delle nuove generazioni, non più abituate e forme di pensiero critico. E pensare che fino a qualche decennio fa la paura maggiore che si cercava di esorcizzare era quella delle malattie e della morte. Oggi, invece, anziché infondere sicurezza e comprensione, si trasmettono inganno, confusione e persuasione. Già negli anni ’80 Konrad Lorenz si chiedeva: ci attende un mondo senza uomini?
ERA UNA NOTTE
di Aldo Migliorisi
B UIA E TEMPESTOSA chi ha paura della musica? L’
altra notte vengo svegliato da un rumore: è un piccione che bussa con insistenza alla finestra. Mi alzo e, appena apro, l’uccello, con un’espressione molto seria, tira fuori una matita da dietro l’orecchio, mi dà un modulo da firmare, recapita un telegramma e se ne va senza neanche salutare. • Non ho mai visto un piccione che tiene la penna dietro l’orecchio-, fa la micia che aveva seguito tutta la scena. • Ed io non ho mai visto gatti che parlano - le ho risposto con un tono sgarbato, innervosito da quel telegramma nel cuore della notte. • L’avrà mandato qualche squinternato di quelli che frequenti - ha risposto acida la gatta - Sicuro. Come il fatto che i piccioni non hanno orecchie. Prox Numero Su Musica Et Paura Stop F.To Squinternat. Arcobaleno, c’era scritto sul telegramma. La micia mi ha guardato con uno sguardo di compatimento e si è rimessa a ronfare. • Paura... ma cosa c’entra mai con la musica? - ha detto all’improvviso una voce che veniva da una poltrona al buio in fondo alla stanza. Mi si è ghiacciato il sangue nelle vene. A casa non c’era nessuno e le poltrone, notoriamente, non
parlano da sole. • Ma scusi, signora poltrona, com’è che tutto a un tratto si è messa a parlare? – sono riuscito a balbettare, mentre il cuore mi batteva a mille. • Piacere di conoscerla, spero che indovinerà il mio nome ha risposto l’ombra sulla poltrona, sporgendosi verso di me. Nell’oscurità a malapena riuscivo a vederla. • E lei che ci fa qua, com’è entrato? Chi è? • Permetta che mi presenti, sono un uomo ricco e di gusto. Ora, io avevo capito una cosa: se si cena tardi, non è il caso di esagerare con il pasticcio di lasagne, la caponata di melanzane, i peperoni in agrodolce, la cassata, lo zibibbo e il nero d’Avola. La micia mi ha chiamato da parte: “Guarda che il tipo ti sta ripetendo a pappagallo le parole di Sympathy for the Devil, la canzone dei Rolling Stones. Non te ne sei ancora accorto?”. Meno male che i gatti parlano, ho pensato - e che conoscono i Rolling-, ha aggiunto lei. Confortato da questi riferimenti musicali, sono quindi ritornato alla carica. • Signore, dando per scontato che lei è un’allucinazione pro-
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vocata dagli effetti psichedelici della caponata di melanzane, vorrei approfittare di questa sua inopinata presenza per chiederle chiarimenti rispetto alla sua prima affermazione, quella cioè dove ella esclude ogni possibile relazione tra musica e paura - ho detto al tipo. Quando la caponata mi rimane sullo stomaco, la parlantina mi esce sempre bene. • Veda, caro amico, a differenza di quegli squinternati dell’Arcobaleno che lei si ostina a frequentare, io non credo che la musica possa fare paura. • A parte quella di Toto Cotugno - ho aggiunto io, sempre in vena di spiritosaggini. L’ombra ha fatto finta di niente e ha continuato: • A detta di tutti, se c’è un posto dove il diavolo è di casa, a parte la tv commerciale, ville di proprietari comprese, questo è proprio la musica. Da sempre. Da Dioniso ai Throbbing Gristle. Passando per Marylin Manson e tutti i gruppi che tirano in ballo serial killers, zombie, demoni e anticristi. • Quelle band che sembrano fatte da custodi di cimiteri, insomma - mi sono intromesso con la solita battuta scema. La micia intanto si era svegliata, evidentemente interessata alla conversazione. • A sostenere questa tesi si tira in ballo anche il blues: la musica del diavolo, com’era chiamata – ha ripreso lui. – Si diceva che il mitico Robert Johnson avesse imparato a suonare la chitarra dal diavolo in persona, di notte, nei cimiteri. Niente di vero, se lo lasci dire da me, che ne so qualcosa. Insomma, l’elenco sarebbe lungo da fare. E forse inutile. Perché non è questa la musica che fa paura. Ma quella che, come succede a volte all’arte e alla cultura, può diventare una bandiera di libertà; un pericolo per chiunque comanda. • Queste ultima cosa non l’ho capita, signore. Potrebbe farmi un esempio? - L’uomo ha fatto un sospiro, assunto il tono di voce di quando si spiega una cosa allo scemo di casa e, con molta pazienza, ha iniziato: • Ad esempio la musica può diventare talmente pericolosa che i generali cileni, durante il colpo di stato del 1973 torturarono, uccisero a colpi di pistola e fracassarono le mani a Victor Jara, colpevole di aver composto canzoni contro la dittatura. • Chiunque comanda è automaticamente pericoloso, diceva Anselme – ha aggiunto la gatta. • Anselme chi, il cantante dei Pantera? - ho chiesto io, ormai completamente nel pallone. • Quello si chiama Phil Anselmo. L’heavy metal non c’entra - ha replicato acida la micia, guardandomi storto. • Ha ragione la sua gatta, amico mio. Anselme Bellegarrigue era uno che, tra le altre cose, diceva: Dove nessuno obbedisce, nessuno comanda - ha precisato l’ombra. • Ho capito: era un individualista, come tutti i cantanti. Mi piace –. Era chiaro che non avessi capito niente. La micia ha sospirato. • Però, signore, scusi: ancora non mi ha risposto. Lei, chi è? All’improvviso, un’esplosione ha fatto tremare i vetri. L’ombra era scomparsa. Nell’aria rimaneva solo un odore di zolfo, misto a quello dei peperoni in agrodolce. Dopo un po’, la micia ha rotto il silenzio: “Se la musica fa paura, allora è altrettanto vero che non c’è musica paurosa”. • A parte quella di Toto Cotugno - ho insistito io. • Chi fa paura è chi ascolta la musica sbagliata, quella che non fa cantare in coro - ha continuato la gatta, alzando la testa dal libro che stava sfogliando. Una sorta di trattato sul saper vivere ad uso delle nuove generazioni, scritto da un vampiro belga, tale Vaneigem. La mia è una micia che legge
libri sulle buone maniere. • Basta, con la paura - ha fatto lei, chiudendo il libro. Poi ho preso il primo album dei Black Sabbath e l’ho messo sullo stereo. Silenzio. La spirale dell’etichetta inizia a girare, ipnotica. Un cimitero abbandonato, pioggia, rintocchi di una campana a morto. Un lampo spezza il buio, seguito da un tuono terribile: entra la chitarra di Tommy Jommi. Ozzy è là, nascosto dietro una tomba. Si alza, spalanca gli occhi, dalla bocca gli esce ancora mezza testa di pipistrello e inizia a cantare con una voce da pazzo: ”Chi è questo che mi sta davanti, vestito di nero che mi punta con gli occhi....”. Ragazzi, dopo un’indigestione di pasticcio di lasagne, come i vecchi Sabbath non c’è nessuno. • Solo che loro vanno bene per la notte di Halloween, non certo per un articolo su Paura e Musica. Basta con l’hard rock da museo. Tieni metti questo - mi ha detto la gatta, dandomi “Fear of music“ un disco dei Talking Heads di trent’anni fa, talmente vecchio da essere perfettamente alla moda. Vedi i Franz Ferdinand, tanto per dire. • Ma alla fine, quello chi era? - ho chiesto. • Come, non lo hai ancora capito? Hai lasciato la tv accesa e ti sei addormentato durante il tg di retequattro. • Emilio Fede? •Temo proprio di sì - ha fatto la micia.
�������� Rolling Stones, Beggars Banquet - 1968; Toto Cutugno, The Very Best Of Toto Cutugno -1990; Euripide, Le baccanti; Karoli Kereny, Dioniso, Adelphi; Elemire Zolla, Il dio dell’ebbrezza, antologia dei moderni dionisiaci, Einaudi; Throbbing Gristle, 20 Jazz Funk Greats, 1979; Marylin Manson, Antichrist Superstar, 1996; Robert Johnson, The Complete Studio Recordings - 2CD, 1990; Victor Jara, Canto por travesura, 1973; Pantera: Vulgar Display of Power, 1992; Anselme Bellegarigue, Manifesto, Altamurgia editore; Raoul Vaneigem, Trattato di saper vivere ad uso delle nuove generazioni e altri scritti, Massari Editore; Black Sabbath, Black Sabbath, 1970; Talking Heads: Fear of music; 1979. (http://aldomigliorisi.blogspot.com)
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IL RIPIEGAMENTO SUL PRESENTE I L ER L I PL I E ’GU A MO E NM TO S UPL O P RSE STE M N TO E DERNO D O UOMO POSTMODERNO: IIDLL EFLFUL T’U CI NOA CMC EI A M I N Adi C C I APisani Giacomo UT R OUCR OO ME M
a società postmoderna sembra fin troppo sicura, stabile, monotona. Pare che l’individuo abbia perso, di fronte a sé, l’incertezza del futuro, e che la realizzazione personale sia già scritta, guidata da strutture fisse. L’individuo deve adeguarsi al “posto” stabilito dalla società. E’ questo che garantisce l’essere oggettivo dell’uomo, quello che appare agli altri, quello che si fa “storia”. E la nostra storia , quella visibile, necessita di essere decorosa, familiare, appunto adeguata. Questo “fattore esterno” orienta lo sviluppo dell’individuo, lo determina. La spinta irripetibile dell’uomo che si apre al mondo, costruendosi in esso, risulta mediata da bisogni estranei, eppur stringenti, vitali. Per avere uno stipendio a fine mese, per condurre una vita presentabile, è necessario incanalare le pulsioni spontanee, che costituiscono la stoffa della nostra vita produttiva, nelle strutture paradigmatiche dominanti, lasciandosi dipendere da esse. Proprio così nasce l’omologazione desolante che ogni giorno ci circonda, riducendo le persone a meccanismi sempre identici, lasciando cadere la libertà negli schemi astuti delle sole possibilità offerte. È nella corsa al posto che l’individuo trova il senso della propria vita, la sicurezza della propria posizione. Per questo, è necessario lottare con ogni mezzo per raggiungere la forma perfetta, la prestazione più adatta al grande sistema, spesso poco comprensibile, che muove il lavoro, i soldi, la vita. Le grandi utopie, quelle di chi continuava a sperare che esistesse un’altra dimensione in cui la realtà fosse generata dalle persone stesse, hanno visto crollare la sicurezza che offrivano a chi, in esse, trovava il senso della propria vita, delle lotte di ogni giorno. L’unica sicurezza è nel mondo materiale, quello in cui i numeri dividono la gente, opponendo gli uomini come rivali, concorrenti selvaggi. Eppure, quella stessa realtà che fondava nel senso di sicurezza la propria forza, sembra rivelarsi oggi avara di speranze. Il futuro da cui tutti attendevano la risposta ai sacrifici, alla corsa alla realizzazione, si mostra oggi sempre più incerto, quasi maligno. Il capitalismo, nella fase moderna, quella che Zygmut Bauman chiama della “modernità liquida”, garantisce il proprio funzionamento attraverso improvvise riduzioni dei posti di lavoro, delocalizzazioni dell’at-
tività produttiva, processi spinti di preca- po’ delle proprie idee. Per far risuonare alrizzazione e flessibilizzazione del lavoro, l’esterno l’originalità delle proprie scelte, che si abbattono sull’esistenza degli uomini del proprio essere, sempre vario e rivolucome “colpi del destino [...] inferti da forze miste- zionario. Se c’è qualcosa che ancora muove riose, di provenienza diversa, nascoste dietro nomi bizzarri e impenetrabili, come: mercati finanziari, condizioni globali di scambio, competitività, offerta e domanda”. E’ difficile contrastare i processi economici in atto, che finiscono col terrorizzare i giovani, chiudendoli nel consumo immediato della vita, puntando al piacere hic et nunc. Il nemico da contrastare si fa spettrale, e pare colpire ogni persona isolatamente, nascondendo la propria natura, quasi al fine di impedire che la gente possa fronteggiarlo in comune. Ogni senso è eliminato, persino quello offerto dagli ideali di portata sociale, che trascendevano l’esistenza del singolo. Ogni ostacolo è individuale, e pare non esserci via di uscita. Edvard Munch Come dice ancora BauParafrasi di Salomè - 1894-98 man, è “come se minacce e peAcquarello, inchiostro e matita ricoli fossero destinati a colpire Munch Museum, Oslo. le loro vittime separatamente, quando verrà il loro turno; come se dovessero es- incondizionatamente le passioni mai banali sere subiti in solitudine. Le sofferenze individuali delle persone, dei giovani, tutto rientra in non sono più sincronizzate: la catastrofe sceglie a gioco, ogni cosa rischia di veder ridefinita le quale porta bussare, in quale giorno, a quale ora. propria posizione, e anche il mondo, forse, Le sofferenze che ci tormentano quasi in conti- può diventare più umano. nuazione non si sommano e perciò non uniscono Concludiamo allora con una frase del le loro vittime. Le nostre sofferenze dividono e Mahatma Gandhi, per ridare dignità alla isolano: i nostri tormenti ci separano, lacerano il soggettività, per continuare a credere nella tessuto delicato delle solidarietà umane”. forza della libertà: Il futuro promessa si trasforma così in futuro “Sii tu il cambiamento che vuoi vedere minaccia. Questo favorisce un ripiegamen- avvenire nel mondo”. to drammatico dei giovani sul presente, in cui soltanto può svolgersi la vita. Il futuro, infatti, dipende da altro, e quest’altro fa paura. Ma c’è ancora un briciolo di umanità in chi, nonostante tutto, continua a trovare in sé lo stimolo di ogni percorso, la scintilla di ogni creazione. C’è chi cerca ogni giorno se stesso nel mondo, lasciando esplodere la ricchezza delle proprie facoltà, trovando fra le pagine di un libro lo strumento per far rivivere un
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DAL WELFARE STATE AL WIN FOR LIFE 30
di Pietra Pomice
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ra le paure più diffuse ed intense di questo inizio di terzo millennio, un posto preminente spetta alla mancanza ed alla precarietà del lavoro. Qui non si tratta, come per la criminalità, di una percezione di tipo psicologico o sociologico: è la dura, incontrovertibile realtà. Nonostante l’ottimismo a 32 denti dispensato generosamente dalla compagine di governo, i dati pubblicati dall’Istat il 22 settembre, pochissimi giorni fa, non sembrano offrire molti spunti di ilarità. Il rapporto dice che, rispetto all’anno precedente, l’offerta di lavoro ha subito una riduzione di 378.000 unità, pari a 1,6%. Con le parole dell’Istat il tasso di occupazione della popolazione tra 15 e 64 anni scende dal 59,2 per cento del secondo trimestre 2008 all’attuale 57,9 per cento. Il numero delle persone in cerca di occupazione sale invece a 1.841.000 unità (+137.000 unità, pari al +8,1 per cento rispetto al secondo trimestre 2008). Il tasso di disoccupazione aumenta, passando dal 6,7 per cento del secondo trimestre 2008 all’attuale 7,4 per cento. Devo ricordare che ai disoccupati (7,4%) ed alle persone in cerca di occupazione (8,1%), si dovrebbero aggiungere quelle persone, quasi tutte le casalinghe del Sud, ad esempio, che il lavoro non lo cercano neanche, perché sanno già che è perfettamente inutile. Nell’area dell’euro gli ultimi dati disponibili sulla disoccupazione, dell’agosto 2009, parlano di un complessivo 9,6%, quasi il due per cento in più in meno di un anno. E la tendenza, come si sa, va verso il peggioramento... Sono i duri effetti, dicono, della crisi finanziaria. Quello che dimenticano di dire è che quella crisi è stata causata dalla violazione sistematica o dalla totale mancanza di regole, in un gioco che ha permesso ai colossi finanziari, alle banche ed agli speculatori di fare soldi a palate, senza distribuire neanche le briciole a quelli che oggi sono
chiamati a pagare il conto. dello chiamato moltiplicatore. Tutti gli interventi che gli Stati hanno Si può raggiungere lo stesso risultato anfatto e che ancora stanno facendo, sono che stimolando direttamente il potere infatti indirizzati a rattoppare quel sistema marcio che ha prodotto la crisi, semplicemente riempiendolo di nuovo denaro tratto dalle risorse pubbliche, ossia dalle tasche dei contribuenti. Chi volesse, a questo proposito, rinfrescarsi la memoria, legga il numero di febbraiomarzo dell’Arcobaleno, tutto dedicato alla crisi. In questi casi la ricetta tradizionalmente suggerita dagli economisti, da Keynes in poi, è quella dell’intervento pubblico, ma a sostegno dell’occupazione e del reddito. Chi ha un lavoro spende, chi spende stimola la produzione dei beni che acquista, cosa che stimolerà l’occupazione di nuovi lavoratori, che vorrà dire reddito aggiuntivo, aumento dei consumi e così via, secondo un mo-
d’acquisto, dirottando risorse verso quei soggetti che, essendo poveri, sono costretti a consumarle tutte o in gran parte. Pensionati al minimo, disoccupati, famiglie numerose, giovani in cerca di prima occupazione: sono questi i soggetti che dovrebbero essere privilegiati sotto forma di aumenti salariali, sussidi, sgravi fiscali, salario sociale. In questo modo la paura di affrontare il quotidiano ed il futuro senza disporre di adeguati mezzi, verrebbe spazzata via dalla possibilità di disporre di un minimo vitale, condurre un’esistenza libera e dignitosa, come sancito dall’art. 36 della Costituzione. Ma i soldi per fare questa politica, come si è detto, sono stati usati per salvare isti-
tuti finanziari, banche e per dare incentivi alle grandi imprese. Lo Stato rastrella i soldi da tutti i contribuenti, per la stragrande maggioranza poveri, e li consegna nelle mani dei potentati economici che hanno causato la crisi. È come se, una volta scoperta una rapina, accertata l’identità dei rapinatori e dei rapinati, si pretendesse non dai rapinatori di restituire la refurtiva, ma ai rapinati di fare una colletta obbligatoria a favore dei ladri. In questa politica l’Italia è stata in buona compagnia di tutti i partners europei ed anche della grande promessa Obama, appena insignito del Nobel per la pace. Il presidente USA sostiene
di non averlo meritato, e sarà certamente vero per la guerra in Afghanistan, ma è il giusto riconoscimento per il comportamento più che pacifico nei confronti dell’establishment di banchieri, finanzieri e speculatori! Dopo il boom economico degli anni ‘60, attraverso una fitta legislazione, in Italia si era costruito e consolidato il cosiddetto Stato sociale, cioè un sistema politico nel quale tutti avessero dei diritti minimi. Risalgono a quegli anni la riforma sanitaria, della scuola obbligatoria, dei diritti dei lavoratori, del fisco, della famiglia e l’introduzione di alcuni diritti civili come il divorzio e l’aborto terapeutico. Chi trovava un posto di lavoro dipendente poteva ragionevolmente tenerlo fino alla fine della vita lavorativa, quando cominciava invece la vita da pensionato. Non si era all’assistenzialismo scandinavo dalla culla alla bara, ma una rete di protezione contro le cadute nel vuoto c’era. Dopo gli anni ‘70, una nuova dottrina economica, che si richiama al pensiero di Milton Friedman e alla sua scuola di Chicago, critica questo sistema, ritenuto costoso ed inefficiente, a favore di un primato del mercato sullo Stato. È il momento della deregulation, della progressiva eliminazione dei vincoli della società sull’economia, delle privatizzazioni degli enti pubblici, della creazione di sofisticati (leggi incomprensibili e truffaldini) prodotti finanziari, di un cambiamento radicale nei confronti del lavoro, dei contratti, dei diritti economici e socio-politici. Le amministrazioni Thatcher, nel Regno Unito, e Reagan, negli Usa, fanno da apripista per le politiche neoliberiste a cui entusiasticamente aderiranno quasi tutti i paesi europei. Cominciano timidamente prima, e con roboante sicurezza poi, ad apparire le parole flessibilità, mobilità, competitività, nuove divinità a cui si devono sacrificare la sicurezza del posto di lavoro, la stabilità del rapporto con il territorio in cui si vive, la qualità e la specificità della produzione. Queste parole, magiche sulla bocca di politici ed imprenditori, diventano tragiche sulla pelle dei giovani, fondendosi in un solo concetto, la precarietà. Il dizionario etimologico alla parola precàrio riporta: da prèx, preghiera, ottenuto per preghiera. Che non dura sempre, ma quanto vuole il concedente. Ecco dove siamo arrivati. Alla certezza dei diritti è subentrato l’arbitrio di chi ha il potere di concedere. Bisogna pregare; il lavoro diventa un evento che va oltre la natura umana, sfiora le sfere celesti,
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tocca l’imponderabile, l’incommensurabile: non è più questione di logica ma di destino. Come una Provvidenza, terrena, però, lo Stato attua un intervento deciso a favore di quei lavoratori che aspirano a liberarsi dall’angoscia dell’incertezza per approdare alla sicurezza sociale. Lavoro stabile? salario sociale? veri sussidi di disoccupazione? Macché! Quando si parla di preghiere sappiamo bene che le grazie non si dispensano a tutti. Anche nel Vangelo di Matteo è detto che molti sono chiamati, ma pochi eletti e ricordiamolo, Matteo, per professione, di finanze se ne intendeva. La soluzione sarà: Win for life! Ben 13 estrazioni al giorno, una ogni ora, così i disoccupati non si annoiano, non oziano, che-si-sa-che-l’ozio-è-il-padre-dei-vizi, e si vince per la vita, quattromila euro al mese per vent’anni, mica la miseria dei 1200 euro secondo contratto-collettivo-nazionale-di-lavoro che tocca agli operai. E se ti capita la sfiga di lasciarci le penne, don’t worry, la bella sommetta la lasci al coniuge inconsolabile che magari così proverà a consolarsi, ed i pargoletti ringrazieranno for ever. Senza dimenticare che non si pagano tasse! Che almeno in questo ci si può sentire simili ai potenti! Cosa aspetti? Corri nella Ricevitoria Sisal più vicina e gioca! Non penserai mica che ti stiamo rifilando l’ennesimo bidone; che ti stiamo vendendo a caro prezzo la speranza (emptio spei dicevano i latini); che la tua eventuale vincita è enorme-
mente inferiore a quanto ti spetterebbe se il gioco fosse equo, se cioè ti venisse pagata la posta in base all’esatto calcolo delle probabilità; che i quattromila euro al mese di oggi potrebbero non bastare per una pizza tra vent’anni, visto che non sono indicizzati; che questa attività, qualora fosse svolta da soggetti diversi da quelli indicati dallo Stato sarebbe considerata delinquenziale; che il proliferare di giochi, scommesse, lotterie, gratta e vinci, bingo e via dicendo ha come unico scopo quello di rimpinguare le casse dello Stato e come unico effetto quello di tosare la lana degli illusi. Quando passa il messaggio che la paura per un presente precario e per un futuro indefinibile si combatte con un colpo di dadi e non con la lotta per l’affermazione dei diritti, allora abbiamo ragione di aver paura che, educando a sperare nella fortuna, stiamo costruendo una sfortunata società di disperati. C’è un posto, nella nostra società, dove si insegna, o si dovrebbe farlo, che il successo personale si costruisce conoscendo se stessi, le proprie capacità ed i propri limiti, utilizzando un metodo adeguato ed impegnandosi costantemente e per un tempo molto lungo. La scuola, così si chiama questo posto, esprime valori antitetici rispetto ai modelli vincenti che basano il loro successo su forma fisica, qualità naturali e colpi di fortuna. Sarà per questo che la scuola è oggetto di molte “attenzioni” da parte di chi la avverte
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come una sacca di resistenza. Non sarà che, abituati ad esprimere giudizi, gli insegnanti sono diventati come i giudici? E che, abituati a scrivere, cominciano ad imitare i giornalisti? E che diamine, smettano di leggere e vedano anche loro un poco di sana televisione!
supplemento a Sicilia Libertaria N° 288 - ottobre 2009. Direttore responsabile: Giuseppe Gurrieri. Registrazione Tribunale di Ragusa n° 1 del 1987. Fip. Progetto grafico Marina La Farina. La Redazione, composta da volontari, si riunisce periodicamente in un “Comitato di reLazione”. Chiunque, condividendo i princìpi antifascisti, antirazzisti ed antisessisti propri di questo giornale, può proporsi come collaboratore o può inviare contributi all’indirizzo di posta elettronica:
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Da questo mese sarà attivo anche il nostro sito : http://giornalelarcobaleno.blogspot.com dove sarà possibile reperire i numeri arretrati e gli approfondimenti tematici.
IL PASTICCIACCIO TRA GADDA E GERMI
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receduto da un laborioso iter compositivo, il romanzo di Carlo Emilio Gadda, “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”, esce in volume presso l’editore Garzanti nel 1957. Il romanzo, a dispetto del plurilinguismo e dell’impasto stilistico che lo caratterizza e ne rende difficile la lettura, riscuote un buon successo di vendite, forse anche perché pubblicizzato come un grande “giallo” all’italiana, ambientato al tempo del fascismo. Ciò spinge il produttore Giuseppe Amato a ricavarne un film, che affida alla regia di Pietro Germi, cineasta che aveva esordito dietro la macchina da presa con il giallo psicologico “Il testimone” (1945). Germi aderisce subito alla proposta di Amato, perché da tempo medita di girare un poliziesco italiano con l’intento di sfatare la leggenda che in Italia “il giallo non si può fare perché la nostra polizia non incute né spavento né il senso fatale della legge, ma fa solo ridere”. Un pomeriggio del 1959, Gadda viene invitato da Germi ad assistere a una proiezione privata del “Ferroviere”. Uomo incline a “follie cicliche”, Gadda sospetta che tutto sia un pretesto per eliminarlo fisicamente ed evitare così alla produzione di dovergli corrispondere i due milioni pattuiti per l’esame e l’approvazione della sceneggiatura. “Il sicario - scrive Giulio Cattaneo, nel godibilissimo libretto ’Il gran lombardo’, dedicato agli anni romani dello scrittore - , poteva essere Germi, interprete di personaggi duri, baffuti, maneschi, di una classe certamente nemica della famiglia Gadda”. Perciò lo scrittore, in cuor suo pentito di avere accettato l’invito, avverte affannosamente un amico per telefono, raccomandandogli di rivolgersi ai carabinieri se lui non avesse telefonato entro una cert’ora. Naturalmente il delitto non ci fu. Uomini appartenenti a generazioni diverse, culturalmente e fisicamente assai distanti, Gadda e Germi sono entrambi timidi e l’uno ha
di Lorenzo Catania
soggezione dell’altro, come traspare dalle rare foto che li ritraggono insieme. Inoltre condividono non poche abitudini e ossessioni: frequentano le trattorie, bevendo volentieri senza esagerare, si nascondono alla gente che li cerca, utilizzano poco il telefono, non hanno in simpatia i comunisti, sono maniaci dell’ordine e della giustizia, che sentono minacciati dal caos contemporaneo. Gadda dovrebbe collaborare alla sceneggiatura del film intitolato “Un maledetto
linea retta ma come per accumulo di digressioni e di personaggi, Germi e i suoi collaboratori si divertono a manipolarlo, apportando numerose modifiche: danno un nome al misterioso assassino di una signora della borghesia romana e spostano la vicenda del romanzo dagli anni del fascismo agli anni Cinquanta. In particolare Germi, calandosi anche nei panni del commissario Ingravallo, posa il suo sguardo, desideroso di capire, su una realtà popolata da una borghesia ricca e viziosa e da un sottoproletariato non rassegnato a restare ai margini della società. Con straordinaria abilità, il regista costruisce un credibile quanto infedele equivalente cinematogra-
imbroglio” (1959), ma poi si limita a dare un’occhiata al copione realizzato da altri. Timidissimo, ogni tanto lo scrittore fa capolino sul set per esprimere riserve sulla decenza di qualche battuta o per suggerire all’aiuto regista di modificare i nomi di alcuni personaggi: “Senta Giannetti, che nome avete dato a quel personaggio?... non si potrebbe cambiare, non so, in Carpedoni? Perché sembra una carpa. Carpedoni”. Approfittando del fatto che il “Pasticciaccio” è privo di una conclusione e racconta un fatto di cronaca nera romana non in
fico del testo letterario. In pratica, opera il passaggio dalla storia sghemba del “Pasticciaccio” alla storia apparentemente lineare di “Un maledetto imbroglio”, che del romanzo di Gadda aggira la questione del plurilinguismo, ma coglie le intenzioni profonde: raccontare a larghi strati sociali, suscitando interesse e passione con il pretesto del “giallo” e della narrazione intricata, l’incorreggibile corruzione del mondo impazzito, dove i valori e i contatti umani autentici si sono come volatilizzati e non esistono più certezze.
Il prossimo numero de l‘arcobaleno in distribuzione dal 9 - 9mbre - 09 è dedicato al tema del CIBO
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la maschera della paura
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LA PAURA DELL’INFLUENZA L’INFLUENZA DELLA PAURA Nuova influenza, oggi vertice Ue arrivate in Italia 500 mila dosi di vaccino
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Le regioni ricevono il farmaco: una piccola quantità rispetto ai circa 25 milioni necessari per le categorie a rischio. Ma molti medici non vogliono vaccinarsi. di Anteo Quosino
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uesto è uno dei titoli di testa di Repubblica on line del 12 ottobre. L’occhio viene colpito subito dalle parole influenza, Ue, 500 mila, vaccino. C’è la malattia, la sua soluzione, la grande dimensione numerica, la grande dimensione geografica. Appena sotto si capisce che di dosi di vaccino ce ne vogliono almeno 50 volte tanto e poi si legge la notizia che più mi ha colpito: molti medici non vogliono vaccinarsi. Nel testo dell’articolo si ribadisce: Nei reparti e negli studi sono in molti a dire di non volersi vaccinare. “Risulta anche a me - dice Annalisa Silvestro, presidente dell’Ipasvi, l’ordine professionale degli infermieri - Su questo tema non c’è molta sensibilità dei colleghi. Faccio appello a tutti a vaccinarsi”. Sulla stessa linea Giacomo Milillo, segretario della Fimmg, il sindacato dei medici di famiglia: “Vaccinarsi è un dovere, si fa per la collettività. Il rischio che molti non vogliano partecipare alla campagna c’è”. Mi chiedo: se molti medici ed infermieri, che conoscono perfettamente l’entità ed i rischi dell’influenza e, per giunta, devono affrontarla direttamente e tutti i giorni non vogliono vaccinarsi, ci sarà qualche ragione? Non sarà che loro hanno informazioni supplementari rispetto a quelle di cui disponiamo noi? L’influenza è una malattia virale che si diffonde d’inverno. Un vecchio adagio dice: “Se si cura, l’influenza dura sette giorni, se non si cura dura una settimana”. E’ una malattia lieve, con febbre e diversi sintomi, come mal di testa e dolori muscolari, malessere generale, tosse, nausea, diarrea e di solito costringe a letto per un paio di giorni. La mortalità nella popolazione aumenta con due picchi all’anno, uno d’estate quando la temperatura è massima ed uno d’inverno, in concomitanza con l’epidemia influenzale L’epidemia di influenza A, che è iniziata in Messico nel 2009, è di minor gravità rispetto a quella dell’influenza stagionale. Siccome il contagio si diffonde molto facilmente, la si definisce “pandemia” perché può arrivare a contagiare la metà della popolazione. Tuttavia la contagiosi-
tà non significa nulla rispetto alla sua gravità, che è minore di qualunque altra influenza del passato. Colpisce più persone, ma provoca meno morti di qualunque altra influenza passata. Le cifre variano in base alla fonte dei dati, per esempio in Gran Bretagna sono stati registrati 30 morti su centomila casi e negli USA solo 302 su un milione di casi. Nell’inverno australe (che coincide con l’estate in Italia) in Argentina sono morte circa 350 persone, in Cile 128 ed in Nuova Zelanda 16. Quasi alla fine dell’inverno australe, sinora, nel mondo intero si sono avuti 2501 decessi. Per fare un paragone, si calcola che in Italia, duFoto di rante un inverno “normale” i Sebastião Salgado decessi per influenza stagionale sono oltre 8.000. La mortalità per influenza A riguarda l’importante è che sia salva la vita. prevalentemente persone di età mino- Solo che questo ragionamento consolare di 65 anni, in quanto i soggetti di età torio non funziona affatto. superiore sembrano avere un certo gra- Ogni anno, più di un milione di persodo di protezione, a seguito di epidemie ne, l’80% delle quali vive nell’Africa subpassate dovute a virus simili. In Australia, sahariana, muore per la malaria. Una madove ogni anno per influenza stagionale lattia curabile che in Mali è la principale muoiono circa 310 persone minori di 65 causa di morte tra i bambini al di sotto anni, con l’inverno ormai terminato, ne dei 5 anni d’età. Nel mondo, ogni anno sono morte 132 per influenza A, di cui muoiono due milioni di bambini per diarcirca 119 di età minore di 65 anni. rea. Si potrebbe evitarlo con un semplice Nel 2005 l’Organizzazione Mondiale del- rimedio che costa 25 centesimi. Polmonila Sanità (OMS) aveva previsto che sareb- te e molte altre malattie curabili con vacbero potuti morire fino a sette milioni di cini economici, provocano la morte di 10 persone per influenza aviaria. Alla fine i milioni di persone ogni anno. morti furono solo 262. L’influenza comune, uccide ogni anno Come si spiega questa enorme disparità mezzo milione di persone nel mondo. tra dati attesi e dati reali, e soprattutto, Come per l’influenza aviaria, anche per come si spiegano le differenze di valuta- quella suina le grandi case farmaceutiche zione del pericolo tra queste pandemie stanno affilando le armi ed invadendo il ed altre malattie? mercato con medicinali che servono solo Se si aspettano milioni di morti ed alla ad arricchirle. fine ce ne sono solo poche centinaia è In attesa della prima ondata di vaccini certamente una gran bella cosa. Si saran- contro l’influenza A (dei quali però ancora no sprecati inutilmente fiumi di denaro, non si conoscono gli effetti reali, né tutte
Foto di Sebastião Salgado le controindicazioni), prevista dalle autorità sanitarie nazionali per il 15 ottobre, le raccomandazioni del Ministero della Salute, del Lavoro delle Politiche Sociali indicano due antivirali sia per prevenire l’infezione sia per curarla: zanamivir e oseltamivir. Le linee guida italiane, redatte sulla falsariga di quelle emanate dai Centers for disease control and prevention (Cdpc) statunitensi, però sono messe in dubbio da un articolo apparso sulla rivista “Dialogo sui farmaci”: non solo l’efficacia degli antivirali contro l’influenza da H1N1 non è comprovata da dati sufficienti, ma anche contro quella stagionale queste armi appaiono piuttosto spuntate, scrivono gli esperti. Dall’analisi dei dati pubblicati in letteratura, infatti, si evince che “in un paziente adulto sano questi farmaci possono al massimo far passare la febbre in tre giorni anziché quattro”, spiega Massimo Valsecchi, direttore del Dipartimento di Prevenzione della Ulss 20 di Verona. Potrebbero invece beneficiare di questo trattamento – sempre contro l’influenza stagionale -i soggetti a rischio: le persone anziane, asmatiche, obese, immunodepresse (sieropositivi e malati di Aids, per esempio), o coloro che soff rono di altre patologie (polmonari, cardiovascolari, renali, epatiche, ematologiche, metaboliche). Non bisogna poi sottovalutare gli eventi avversi. Per quanto riguarda l’uso di zanamivir i principali sono nausea diarrea, sinusite, bronchite, tosse, infezioni al tratto respiratorio, cefalea e vertigini. Nel caso di oseltamivir, invece, a
preoccupare maggiormente sono gli effetti avversi psichiatrici rilevati soprattutto in bambini e adolescenti. Secondo i primi dati di sicurezza correlati all’uso profilattico di oseltamivir contro il virus H1N1, in bambini e adolescenti di tre scuole del Regno Unito, circa il 50 per cento degli studenti ha presentato reazioni quali mal di pancia, stanchezza, vomito. Inoltre, uno su cinque degli studenti di uno dei tre istituti ha riportato eventi neuropsichiatrici quali incubi, disturbi del sonno, scarsa concentrazione e confusione mentale. “Questi farmaci sono considerati utili perché sono gli unici antivirali a disposizione, ma tenuto conto della modesta efficacia sui pazienti sani, degli effetti avversi e i fenomeni di resistenza, vanno usati poco e solo quando servono veramente”, ricorda Valsecchi. “Gli antivirali devono essere a disposizione in caso di vero bisogno: occorre quindi evitare la corsa alle scorte e lasciare che ci siano dosi per chi ne ha veramente bisogno, appunto i soggetti a rischio”. Il livello di allarme tra gli addetti ai lavori è sicuramente meno alto che tra il pubblico: “In realtà la situazione è per ora meno grave di quanto immaginato, anche se è vero che può sempre esserci un’evoluzione”, conclude la Font. D’altronde gli operatori sono abituati ogni anno a far fronte all’emergenza influenza che, sebbene non ottenga la stessa copertura mediatica, miete migliaia di vittime. Se le cose stanno così, e a dircele sono professionisti, medici che stanno in corsia, e non dietro una scrivania, vuol dire
che qualcuno, forse, ha interesse a raccontarci un’altra storia. Parolone come pandemia e antivirali, proiezioni che prevedono milioni di casi, contagi impossibili da evitare, bacetti d’affetto e segni di pace sostituiti da cenni di saluto, ipotesi di scuole chiuse, numero verde (1500) precetti di comportamento per le scuole, continue esternazioni di responsabili della salute pubblica, tam tam continuo di ogni mezzo di informazione: messi tutti insieme, con l’aggiunta di tanti altri, questi elementi sono potenzialmente in grado di sviluppare una psicosi senza precedenti. L’ultimo rapporto dal sito http://www. ministerosalute.it/, del 7 ottobre, ci dice che in Italia ci sono stati sinora 2664 casi confermati, con 4 morti. In una situazione di così grande calma, provate a cercare in farmacia disinfettanti e antibatterici in gel, di quelli da usare in mancanza d’acqua: vanno a ruba o sono introvabili. Tanti quattrini per pochi grammi di alcool etilico. Immaginate cosa potrà accadere quando molte persone dovranno mettersi a letto! Si scatenerà la caccia al vaccino ed agli antivirali. Il ministero della salute prevede di vaccinare il 40% della popolazione!! Le case farmaceutiche Roche con Tamiflu e la GlaxoSmithKline con Relenza si spartiranno il mercato degli antivirali, ottenendo grandiosi profitti. Faranno il bis del business dell’influenza aviaria. La paura fa vendere e fa fare profitti. Se così non fosse, perché di fronte a tanto pericolo, l’OMS non autorizza la produzione di farmaci generici a basso costo?
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Foto di Antonio Squeo