Macc /il racconto p. 3 - OGM p. 4 - Cannibalismi p. 6 - Globalizzazione in cucina p. 8 - Ma quant’è sexy ‘sto cavolo! p. 11 - Il cibo nell’arte p. 12 - Comprare il cibo: un atto di responsabilità p. 14 - Perché sono vegano? p. 15 - Come sono buoni i bianchi p. 16 - Monasteri a tavola p. 18 - Una foto in uno scatto p. 21 - Mangia come parli p. 22 - In Austria non si mangiano viscere di lombrico (... anzi!) p. 23 - Il cibo e la carta p. 24 - Bibliofagia p. 26 - Il conflitto tra corpo e anima p. 27 - I mille volti del cibo nell’antica Roma p. 28 - Il cibo che dice la vita p. 30 - Cavoli o maccheroni? p. 31 - L’ultimo tabù p. 32 - Romanzi e cibo p. 34
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Job Adriaensz Berckheyde, Il fornaio, 1681 - olio su tela - Worcester Art Museum, Worcester
giornale per studenti, insegnanti ed esseri pensanti
2€ A n n o III n . 3 n o v. - d i c . 2009
l‘arcobaleno
editoriale 2
I
l serto di pomodori qui raffigurato ha un duplice valore: di testimonianza e di provocazione. La testimonianza sta nell’idea di una natura, di una cultura della natura, che ormai non esiste più. Il pomodoro, questo ortaggio che viene dalla lontana America, è probabilmente il condimento più vicino al nostro gusto, quello che caratterizza il nostro stile alimentare. La morale, neanche tanto nascosta, è che il pomodoro ha una storia di migrazioni, di adattamenti, di ibridazioni. In agricoltura, ma non solo, le ibridazioni rendono migliore ogni prodotto. Il nostro pomodoro è oggi un bastardo, come sono chiamati quei cavolfiori violetti che colorano i banchi degli erbivendoli nei mercati siciliani; come lo siamo noi tutti, figli di madri e di padri dalla pelle così diversa da poter coprire tutta la gamma dei colori tra il bianco ed il nero. Pensate che monotonia se i cavolfiori fossero tutti bianchi…. come le nostre pelli, d’altronde! Il pomodoro è estivo. Quando le stagioni giravano attorno al sole d’oro, e non al solo oro, c’era la pratica di raccoglierlo e di disporlo attorno ad una corona di fil di ferro. Una corona che veniva appesa nelle case, negli atri, nei cortili, per portare nell’inverno, e fino all’estate successiva, con una manciata di piccoli pomi d’oro, il sapore, il colore ed il calore di una stagione passata. Ma le serre riscaldate e le importazioni da altri emisferi ci restituiscono solo le sembianze di quei pomodori, costretti a recitare una parte non loro nella società dello spettacolo. Anche se, poi, è piacevole disporre di deliziosi pomodori in ogni stagione. Sono
le contraddizioni in cui ci dibattiamo: rimpiangiamo il passato …. e utilizziamo quanto ci offre il presente. Perché sarebbe facile, in fondo, risolvere la contraddizione, basterebbe ignorare i frutti della globalizzazione e comprare solo prodotti di stagione e della zona in cui viviamo. Cosa che non facciamo. Questa fotografia, che ci affascina, continua a raccontare di un tempo in cui c’era tempo. Quello che non abbiamo più. Per ordinare con cura, con armonia e
amore, quasi fosse una ghirlanda di fiori preparata per una persona amata, qualcosa che doveva servire solo per essere mangiata. Ma, proprio per questo, acquisiva un aspetto solenne, quasi un’aura di sacralità. Erano gesti che si ripetevano, ad ogni anno, ad ogni generazione, erano un rito per la vita, una scommessa sul futuro che non si giocava ancora nelle tabaccherie. La passata di pomodoro, le conserve di verdure, le marmellate di frutta, i fichi secchi, la vendemmia, la raccolta delle olive esigevano una dimensione collettiva, corale, plurale, che non abbiamo più. Oggi ciascuno viene incanalato, da solo, tra i canali faticosamente acquistati con canoni, decoder ed abbonamenti. Mentre potenzia i suoi mezzi di comunicazione, debilita la sua capacità di comunicare:
compreso di sé, compresso nel sé. E qui c’è l’altro valore dell’immagine, quello della provocazione. Ci piace, allora, pensare che potremmo imparare qualcosa dai pomodori. Con un pomodoro solo non si condisce la pasta e non si fa l’insalata: questo ci insegna ad amare la compagnia, se non si vuole essere schiacciati, inutilmente soli. Come gli umani, i pomodori possono non essere ancora maturi, esserlo abbastanza o talmente tanto da rientrare nelle categorie degli sfatti e dei marci, inutili a sé e dannosi agli altri. Come per gli umani, ne esistono decine di varietà, diverse per dimensione, forma, contenuto e sostanza. Con una buccia spessa e resistente o sottile e delicata, ricordano un poco il nostro carattere ruvido, deciso, oppure mite, esitante. Ma, sotto la buccia, ciò che conta, poi, è il sapore. Che si può conoscere solo andando oltre la smagliante lucentezza di una perfetta sfera rossa, o al di là del tono dimesso di una minuscola pallina opaca e giallognola. Oltre le apparenze, il gusto! Autentico, non geneticamente modificato dagli stupri compiuti sulle cellule o dalla propaganda di valori e di modelli di vita che esistono solo nelle menti dei “creativi”, pagati profumatamente per convincerci della loro bontà. Anche se è vero che, come i pomodori, possiamo essere più o meno ‘buoni’: ammettiamolo, possiamo essere anche insipidi. Ma, in un gruppo numeroso, i pochi insipidi si perdono. E allora, come i pomodori attorno ad un cerchio di fil di ferro, disponiamoci attorno ad un progetto comune, che ci dia la voglia di vivere con la dignità di individui diversi ma con la forza di una comunità, cosciente di esserlo perché costruita sulla libertà e non sulla costrizione, sulla verità e non sulla menzogna. Il serto, oltre che buono, è senza dubbio bello e vario nella sua molteplicità di forme, dimensioni e sfumature di colore. Quasi come un gruppo di persone, diverse ma vere e quindi belle.
foto, Ant An onio Squeo
Macc di Dario D’Angelo
Macc che però si chiama Marcello ciavi nove anni e una faccia accussì tunna ca pari una vastedda. Passa tutto il pomeriggio nel cortile a fari u putteri nelle partite che la matina invece cè la scuola. So o mà lo chiama sempre dal balcone del secondo piano che con il panaro ci proi da mangiare e da bere. Ogni ora precisa che allora u picciriddu deperisce. Macc ciavi la passione del pallone e delle crostatine macari ma anche dei viscotta con la cioccolata e dellaranciata e delle patatine che anche queste non ci dispiacciono e in genere non ci durano più di due minuti prima che lui le finisce. U viru quasi sempre mentre maffaccio che è assittatu sopra il muretto ca mangia affudduni e adduppannusi che pare che manca picca ca mori e certe volte mi scantu io per lui ma per fortuna fino ad ora non è mai successo niente. Sua madre comunque è contenta che u picciriddu ci mangia e poi anche quando acchiana a casa ciavi sempre u frigorifero chinu che a lui non ci deve mancare mai niente. Lei me la ricordo carusidda che pareva una cimmedda. Longa longa e sicca sicca. Ora addivintau una bafacchia che tutto il tempo da quando ci mossi u maritu o travagghiu lo passa davanti alla televisione e al supermercato a fari a spisa che certe volte lho incontrati anchio mentre caricavano il carrello. Io non lo so su cià facissi ad andare avanti a merendine e feddi di carne. A mia mi piaci manciari di tutto. Dalle anciove o zuzzu. Dallaccia alle vaccaredde. Dalle cacocciule al capuliato. E non è che mabbuffu o mi fazzu i piatti ca cumma che allora non avrebbe senso. A mia mi piaci sulu sapiri. E scegliere se posso. Se sono in grado. Epperò macari iu ciaiu le mie preferenze che se mi presentano un piatto di pasta con la cipudduzza e il pomodoro e due sarde a beccafico e un bicchiere di vino mi sento felice e tutto il resto non ciavi chiù importanza. Non esiste più.
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il racconto
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l‘arcobaleno
cibo e biotecnologie 4 di Rossella Lizzio
(Greenpeace Catania)
G
rimento su scala planetaria con conseguenze imprevedibili e potenzialmente irreversibili. Dati sperimentali hanno, infatti, dimostrato che i geni “trapiantati” possono passare velocemente da una coltura GM a piante affini, infestanti e non, mediante il polline, anche ad una distanza di 200 metri. Dati più recenti indicano che l’inquinamento genetico può avvenire anche a distanze maggiori, mettendo a rischio la biodiversità degli ecosistemi.
tamenti contro le piante infestanti, ma pervasi da veleni chimici. Molti contadini americani hanno deciso di usare la soia GM perché permetteva un abbassamento dei costi di produzione. Inoltre, l’uso uso di soia GM in associazione con il Roundup era più semplice da coltivare in quanto viene utilizzato un unico erbicida e in quantità inferiori. La Monsanto detiene il brevetto sia sull’erbicida erbicida Roundup che sui semi di soia GM, in modo da poter vendere entrambi in un unico pacchetto. É diventato chiaro che la produzione e il rilascio di semi GM non solo implicano un incalcolabile rischio per l’ambiente, ambiente, ma possono aggravare considerevolmente i problemi nell’agricoltura industriale. Inoltre la concessione di brevetti sugli organismi transgenici, ovvero la privatizzazione di forme di vita e di parti del patrimonio genetico, porta alla dipendenza degli agricoltori verso quelle industrie proprietarie delle sementi brevettate, che non potranno essere riutilizzate o scambiate da chi le usa. Oltre ai danni ambientali, gli OGM possono rappresentare un pericolo per la nostra salute. Infatti, manipolare geneticamente un organismo vuol dire passare ad esso una molecola di DNA che gli permette di produrre una proteina che prima non era in grado di fabbricare. Noi ci nutriamo da sempre di proteine, ma queste possono essere “rifiutate” dal nostro organismo, che in alcuni casi reagisce in modo violento con quella che chiamiamo “reazione allergica”. Le multinazionali del settore hanno a lungo rassicurato sui rischi, sostenendo che non si può creare possibilità di risposta allergica trapiantando un unico gene. Purtroppo, tale teoria è già stata contraddetta, ad esempio nel caso della società Pioneer, che aveva prodotto soia più ricca di metionina (un amminoacido essenziale) grazie ad un gene proveniente dalla
CIBO
li OGM - Organismi Geneticamente Modificati - vengono impiegati in diversi settori che spaziano dall’agricoltura, alla medicina, all’alimentazione e all’industria. Si tratta di organismi artificiali, spesso brevettati e dunque di proprietà privata di un’azienda. Sono il frutto della ricombinazione “non naturale” del materiale ereditario, ottenuta mediante l’inclusione di frammenti di DNA di un organismo donatore in un organismo ospite; organismi che per vie naturali non potrebbero in alcun modo scambiarsi materiale ereditario. LorgaL’ nismo che risulta da questa operazione non è necessariamente diverso dagli altri, in apparenza. Non ci sono, per esempio, visibili differenze tra una fragola d’orto e una fragola antigelo, tranne per il fatto che la seconda, esposta a basse temperature, non gela. Nel suo patrimonio genetico è stato, infatti, inserito il gene di un pesce antartico che permette ai succhi cellulari di non congelare anche quando le temperature sono inferiori allo zero. L’ingegneria genetica permette, quindi, di saltare le barriere tra le specie e di costruire nuovi organismi viventi. U Una volta rilasciato in natura, un OGM è in grado di interagire con altre forme di vita, con possibili effetti distruttivi, riprodursi riprodursi, trasferire le sue caratteristiche e mutare in risposta alle sollecitazioni ambientali. L immissione di OGM in ecosistemi L’ complessi plessi costituisce, quindi, un espe-
La maggior parte della ricerca sviluppata dalle aziende che utilizzano l’ingegneria genetica si è fino ad ora focalizzata sull’ottenimento di piante resistenti agli erbicidi prodotti dalle stesse industrie. Ad esempio, la soia manipolata della Monsanto resiste a dosi massicce di Roundup, un erbicida prodotto dalla Monsanto stessa. In questo modo, si ottengono esemplari resistenti ai trat-
noce brasiliana. Esperimenti di laboratorio hanno dimostrato reazioni allergiche a questo tipo di soia su soggetti non allergici a quella convenzionale, ma alla noce brasiliana. Come possiamo allora essere sicuri dell’affidabilità degli alimenti GM? Come possiamo escludere che essi possano causare un certo numero di allergie? Semplicemente non possiamo. Noi tutti saremmo, nostro malgrado, le cavie di un esperimento i cui risultati sono imprevedibili e probabilmente irreversibili. Anzi, lo siamo già, visto che gli alimenti GM sono ormai tra di noi. E non è insolito che ogni giorno si scopra qualche nuova allergie a questi prodotti. Di queste patologie e delle loo cause si conosce relativamente poco. Sarebbe, quindi, opportuno non aumentare inutilmente i rischi, avvalendosi in particolare del Principio di Precauzione (Principio 15 della Dichiarazione di Rio del 1992 su Ambiente e Sviluppo). L’ Luso di OGM viene tuttavia ““giustificato” come soluzione per la crisi alimentare e la fame nel mondo dall’industria industria biotecnologia. È la più grande bugia del mondo biotech. Gli OGM, infatti, vengono utilizzati soprattutto per produrre mangimi animali che vengono esportati nei paesi ricchi.
Inoltre, non producono più delle colture convenzionali e non danno garanzie di salubrità a lungo termine. L’ingegneria genetica non aiuterà a contenere l’aumento dei prezzi alimentari o a risolvere il problema della povertà. Il biotech non è la soluzione, ma parte del problema. Gli OGM sono una scelta rischiosa e costosa per gli agricoltori e minacciano la biodiversità del pianeta con il rischio delle contaminazioni, in maniera tanto imprevedibile quanto in-
controllabile. Per far fronte alla crisi alimentare c’è bisogno di: - ricorrere a moderni metodi di coltivazione ecologica che conducano a una produzione maggiore e a un sistema più equo di distribuzione;
- porre un freno all’eccessivo eccessivo consumo di carne e allo spreco di cibo nei paesi sviluppati; - ripensare alle politiche dei biocarburanti, da utilizzare soltanto se rispondono a rigidi criteri di sostenibilità e se non entrano in conflitto con la produzione di alimenti. Cibo migliore e in maggiore quantità può essere prodotto senza mettere in pericolo la sussistenza nelle aree rurali o le risorse naturali. Si devono scegliere produzioni locali, socialmente ed ecologicamente sostenibili. Il business “as as usual usual” non è un’opzione. Non si può continuare a fare affari sulla pelle dei più poveri. E’ necessario e urgente abbandonare l’attuale agricoltura di tipo industriale - distruttivo e dipendente dalla chimica - e adottare moderni metodi agricoli che non siano in contrasto con l’ambiente, che premino la biodiversità a beneficio delle comunità locali. Le tecnologie, quindi, come l’ingegneria genetica non sono la soluzione per l’aumento dei prezzi degli alimenti, la povertà, la perdita di biodiversità e il cambiamento climatico.
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l‘arcobaleno
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CANNIBALISMI
cibo sacrificale 6
di Antonio Squeo
N
el 1972 una squadra di rugby uruguayana, in seguito ad un disastro aereo, rimase intrappolata in un ghiacciaio andino. Negli oltre due mesi di isolamento i superstiti si nutrirono di carne umana. Nella Cina del 1960, attraversata da una gravissima carestia, si contarono numerosi episodi di cannibalismo. Come se ne contarono in Russia nel 1941, durante l’assedio di Leningrado da parte dei nazisti, in Ucraina negli anni ‘30, o in alcuni gulag staliniani, favorendo così la diffusione della diceria, un tempo così in voga, dei comunisti che mangiano i bambini. In ultimo, nella eccezionale carestia che ha colpito la Corea del Nord nel 1993-94, mentre il regime sanguinario spendeva folli cifre in armamenti, sembra che i cadaveri siano stati utilizzati come alternativa alla morte per fame. Fin qui il cannibalismo è in relazione con l’istinto per la sopravvivenza: ma non è sempre così. Qualche decennio fa fece scalpore la notizia che Bokassa I, autoproclamatosi
Diffusione del cannibalismo nel XIX secolo imperatore del Centro Africa, si nutrisse della tenera carne dei bambini. Negli stessi anni un altro feroce personaggio, Idi Amin Dada, dittatore dell’Uganda, venne accusato dello stesso crimine. Oppure, se si vuole fare un brusco salto indietro nel tempo, fonti storiche parlano di atti di cannibalismo compiuti dai crociati nel 1098, nel villaggio di Ma’arra, nei pressi di Tripoli del Libano. Giustificati presso il papa come atti dettati dalla carestia, oltre a rimanere nella tradizione orale mussulmana, gli episodi di cannibalismo furono testimoniati anche nel libro Gesta Tancredi in expeditione Hierosolymitana, dove si narra di adulti bolliti e bambini allo spiedo.
Canni anniiba balismo in B bal Brasiile descrit descritto o da Hans Staden, XVII sec.
In questi casi ciò che spinge al cannibalismo non è la fame, o come talvolta accade, la malattia mentale, ma una particolare credenza, una ragione culturale. La mappa qui riprodotta mostra le zone del mondo dove si sono verificate pratiche di cannibalismo. Come si vede, praticamente tutte le parti del mondo ne sono, o ne sono state, interessate. L’esempio più ricco di testimonianze, probabilmente, è quello della civiltà azteca, fiorita intorno al XV secolo nel territorio attualmente corrispondente al Messico. Le testimonianze di Cortés e dei suoi compagni descrivono con dovizia di particolari i sacrifici umani che venivano tributati agli dei Uitzilopochtli e Tlaloc. I prigionieri di guerra venivano trascinati per i capelli su per i 114 scalini del tempio dove quattro sacerdoti li afferravano, mentre un quinto li squartava dal petto. Il cuore, ancora palpitante, veniva strappato e bruciato come offerta votiva, mentre il corpo veniva distribuito e mangiato. Agli spagnoli venne raccontato che nel 1487, in occasione dell’inaugurazione della piramide di Tenochtitlàn, furono sacrificate quattro file di prigionieri di guerra, ciascuna lunga due miglia. Hans Staden, un sarto tedesco naufragato in Brasile nel XVII secolo, scrive che dopo che al prigioniero veniva fracassato il cranio con una clava cerimoniale, le anziane correvano a berne il sangue, mentre i ragazzi vi immergevano le dita. Le madri cospargevano di sangue i loro capezzoli perché anche i neonati potessero gustarlo. Il corpo veniva squartato e arrostito, mentre le anziane leccavano il grasso che colava dagli spiedi di legno. Due secoli più tardi, nel profondo del Nord America, presso le tribù degli Uroni, i mis-
sionari gesuiti assistevano a rituali più o meno simili, culminanti nel consumo di carne umana arrostita. In tutte le società indoamericane si hanno testimonianze dell’intreccio tra sacrifici umani e antropofagia. Il cannibalismo, secondo alcuni studiosi, rappresenta la forma più radicale di aggressività umana, perché comporta il compromesso fra l’amore per la vittima, che si esprime nel mangiarla, e l’ucciderla perché ci frustra. Mangiare il nemico significa trarre forza e nutrimento dal suo annientamento, impossessarsi delle sue virtù, del suo coraggio, specialmente attraverso organi simbolici come il cuore od il fegato. Ma se la logica della guerra, quella del vincitore che umilia ed uccide il vinto è sempre la stessa, come mai il ricorso al sacrificio umano ed al cannibalismo non è universale? Probabilmente ci sono altri importanti fattori che possono determinare l’elaborazione di una cultura antropofaga. Il cannibalismo azteco non è una degustazione cerimoniale. Il corpo umano viene utilizzato alla stregua di qualsiasi altro animale domestico, arrostito o cotto come uno stufato, insaporito da pepe e pomodori. In pratica, la carne dei prigionieri, in una società afflitta da uno scompenso strutturale dell’ecosistema, è una fonte essenziale di proteine animali. La crescita demografica e lo sviluppo della produzione agricola intensiva avevano ridotto drasticamente la possibilità di allevare animali domestici in una zona, come l’America centrale, in cui sin dalla fine dell’era glaciale la selvaggina era più scarsa che in ogni altra parte del mondo. In zone dove vi sono pecore, capre o cammelli, che si nutrono di erba, stoppie, foglie ed altri vegetali non commestibili per l’uomo, la bilancia delle proteine può essere messa in equilibrio senza ricorrere al consumo di carne umana. Ecco allora che la ritualizzazione del
Un agnello con bandiera cristiana, tipico simbolo dell’Agnus U ’’Agnus Dei
Il dio azteco Uitz U ilopocht i li
Soldati olda finlandesi mostrano la pelle di soldati russi mangiati oldati dai loro commi omm lit ommi i oni a Maaselkä it
sacrificio umano, e del consumo della sua carne, lascia il posto ai sacrifici di bestie, ed al consumo della loro carne, così ben documentati lungo tutto l’arco della storia umana. La cosa importante, da sottolineare, è che il semplice consumo di carne, specialmente nel mondo giudaico, è regolato da pratiche religiose. E’ l’autorità religiosa a decidere quale animale è puro e quale non lo è, come lo si deve macellare, quando e come se ne deve mangiare la carne, e persino a prescriverne i modi di cottura. Nel passaggio al cristianesimo, il sacrificio rituale della vittima sfuma in un momento di convivialità comunitaria che ne utilizza i simboli. Cristo, che è stato designato da Giovanni Battista come l’ Agnello di Dio, la vittima designata del rito pasquale, designa a sua volta il pane ed il vino come i simboli del suo corpo e del suo sangue. Siamo ancora nell’ambito di un discorso carnale, nel quale le tracce della vittima, animale ed umana, sono ancora sensibili. Al pasto comune, all’agape, della chiesa primitiva, nella quale la fede e le risorse alimentari venivano contemporaneamente ed equamente condivise, con impercettibili slittamenti di senso si sostituisce un altro simbolo. Prescindendo da ogni giudizio di valore sulla transustanziazione, che per i cattolici rimane un articolo di fede, questo simbolo è il ricordo, sbiadito, dell’antico e cruento rituale di uccisione della vittima. Slegato da ogni considerazione e valore alimentare, dell’oggetto del sacrificio rimane, nella messa, soltanto il nome, l’hostia, la vittima.
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l‘arcobaleno
l‘arcobaleno storia di scambi e contaminazioni culturali; cibi e tecniche gastronomiche si sono diffusi, scontrandosi spesso con resistenze culturali e precetti religiosi. Il sociologo francese Claude Fischler ha coniato l’espressione paradosso dell’’onnivoro, cioè il rapporto tra il desiderio di varietà alimentare e la paura del cibo sconosciuto, tra la curiosità verso sapori nuovi e le regole sociali su ciò che è “culturalmente commestibile”. Tale paradosso rende bene l’idea dei lunghi e vadi Chiara Platania riegati percorsi alimentari: dal “viaggio” della melanzana, originaria dell’India e diffusa dagli arabi in tutta l’area del Mediterraneo, in cui è ancora oggi ingreCucinare: quanti significati e quante diente fondamentale delle gastronomie storie si intrecciano dentro un gesto locali, all’arrivo dal della quotidianità. Dagli antichi riti nuovo mondo sacrificali alle tradizionali feste del raccolto; dalla simbologia sacra che, da millenni, è in profonda relazione con ogni tipologia di pane in ogni parte del mondo, alle regole di purificazione americano del podettate da ogni religione; dall’ostentamodoro, del mais e della zione dei banchetti come affermazione patata, per secoli considerata di potere e prestigio a quella che Pierre cibo per i porci o per i poveri, prima di Bordieu chiama la “distinzione” sociale superare ogni barriera sociale; dalla dife di classe attraverso i consumi; dalla fusione di prodotti della gastronomia paura dei cibi diversi o sconosciuti al ebraica, come la cotognata, nonostante rapporto con il proprio corpo e la co- la rigida distinzione medievale tra merstruzione dell’identità… Per secoli, la cati cittadini e mercato del ghetto, alla storia dell’alimentazione è stata una straordinaria invenzione di pasticci e torte ripiene, come “scacciate” e “spincioni”, che si affermarono sia nella gastronomia popolare che in quella di corte. Per finire poi a quella che lo storico Fernand Braudel, celebre per i suoi studi sulle culture e l’economia dei popoli mediterranei, ebbe a definire la follia delle spezie, una passione alimentare che pervase per secoli la gastronomia europea, condizionando gli scambi commerciali. Oggi, lo scambio tra le culture è stato soppiantato da un modello
cibo globale
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La società in cucin cucina
alimentare globale, fondato sull’industrializzazione e la standardizzazione dei cibi su scala planetaria, che ha come conseguenza la perdita delle tradizioni gastronomiche e l’impoverimento del gusto. Mentre il costo di un Big Mac viene assunto come indicatore economico su scala mondiale, persino il cibo che trasmetteva i sapori di mercati profumati di spezie e piazze colorate di bancarelle, dai falafel alla pizza, dal kebab alle tapas, assomiglia sempre di più al modello del fast food e si trasforma in uno street food che ha sempre lo stesso gusto insapore in ogni parte del mondo. La messa in scena della società dei consumi ha trovato la propria evoluzione nella con/fusione tra reale e virtuale della società dell’iperconsumismo: i nuovi
strumenti di consumo si avvalav gono di una gran varietà di messe in scena. Il sociologo americano George Ritzer, tra i primi a studiare il fenomeno dei fast food, sostiene che c’è’’èè ben poco di «reale» in essi, anche quando permangono elementi reali c’è’’èè una spinta quasi irresistibile ad alterarli. L’industria del fast food, con i suoi cibi completamente inventati, ne è un esempio emblematico: miliardi di Chicken McNuggets, identici tra loro, copia perfetta di cui non è mai esistito un originale, distruggono persino l’idea dell’esistenza del pollo “reale”, con ossa, pelle e penne. Allo stesso modo l’hamburger dei fast food, metafora non solo di una malalimentazione a base di manzi agli ormoni e mucche pazze, ma anche di un profondo cambiamento sociale dell’alimentazione, come sottilmente annota Paul Lardellier, non ha più della carne né il nome, né la forma, né il gusto, nascosto sotto un simulacro del sangue kitch e dolce: il ketchup. Le nuove messe in scena trasformano il “rito” del pasto, spostando l’attenzione dall’alimento all’intrattenimento, dalla convivialità alla spettacolarità. Guy Debord, nel famoso saggio “La società dello spettacolo”,, in pieno sessantotto, diceva: il mondo che lo spettacolo ci mette davanti agli occhi è [...] il mondo dei beni di consumo che dominano tutto il vissuto,, simulazioni di pietanze casalinghe riempiono un mondo fatto di congelatori e forni a microonde, e il pasto, non più rito, non più convivio, non più socialità, diviene un solitario atto di sopravvivenza. sopravvivenza
La perdita rrdita dita del gust gusto o Oggi, nell’epoca del controllo capitalistico sul processo vivente naturale – attraverso la riduzione a merce dell’intera sfera riproduttiva; il commercio dei corpi come contenitori di pezzi di ricambio umani; la manipolazione di ogni seme vegetale ridotto a brevetto industriale - anche i significati delle abitudini alimentari stanno cambiando profondamente: scivoliamo, quasi senza accorgercene, verso l’impoverimento dei sapori e la standardizzazione del gusto. Un famoso enogastronomo italiano, Luigi Veronelli, scomparso da qualche anno, scriveva: “il sapere di laboratorio non riproduce la vita (di una pianta, di un frutto, di una qualsiasi forma della vita), ma la sua rappresentazione nel commercio mondiale. [...]. La terra appare oggi come un bambino che, nel tentativo di farlo crescere forte e sano, viene tenuto al riparo dal contatto con altri simili e viene alimentato solo da antibiotici e da cibi di sintesi prodotti da una delle poche buone mamme multinazionali”. Oggi, dieci multinazionali detengono il totale controllo del mercato globale dei semi geneticamente modificati e di un’enorme fetta del mercato di sementi, agrochimica e pesticidi; il commercio mondiale dei cereali dipende da cinque multinazionali: le carestie e i rincari creati dal mercato sono tornati ad essere drammatica cronaca del nostro tempo. Mentre la speculazione finanziaria contribuisce alla crisi alimentare su scala globale, i colossi dell’agroindustria possono contare su accordi internazionali che consegnano loro il controllo monopolistico sulla produzione agricola. Nell’ultimo triennio, i prezzi degli alimenti sono aumentati, a livello mondiale, dell’83%, per un complesso intreccio di cause, che vanno dalle politiche del WTO alla crescita dei consumi, in particolare di carne (e quindi di cereali per l’allevamento), mettendo a rischio la sopravvivenza di centinaia di milioni di persone.
S/tra S/tr racci accia cciar are re l’etic ’etich ’etic etichetta ett Molte documentate inchieste hanno dimostrato che le maggiori minacce alla sicurezza alimentare provengono dalle grandi aziende agricole industriali e dai grandi distributori, i cui comportamenti – dalla produzione (polli alla diossina, carne agli ormoni) alla distribuzione (lunghi trasporti, interruzione della catena del freddo, conservazione inadeguata nei grandi centri commerciali) – hanno accelerato l’incidenza di patologie come salmonella, morbo della mucca pazza e afta epizootica. Qualche esempio: milioni di carcasse di pollame, importate dal Sud Est asiatico, vengono sottoposte alla pratica del “tumbling”: si scongelano, si riempiono di additivi, si gonfiano d’acqua e si rivendono alle aziende di trasformazione; il “collagene” utilizzato per la chirurgia estetica serve anche a rifare il trucco alle carni: si iniettano proteine, estratte ad alte temperature da altri ani-
mali, o parti di animali, come pelle, ossa o penne. Proprio a causa di questa pratica sono stati trovati in commercio petti di pollo con proteine bovine e carne di manzo che conteneva proteine di suino. E i problemi non riguardano solo le carni: l’insalata insalata in busta, confezionata in atmosfera modificata, lavata con il cloro e sottoposta a riduzione d’ossigeno ossigeno per aumentarne la durata, perde il contenuto di vitamine e polifenoli; ogni cespo, prima di essere raccolto, riceve almeno dodici dosi di pesticida, che può provocare gravi conseguenze sul sistema endocrino di chi la consuma. Porsi il problema della sicurezza alimentare significa chiedersi cosa si mangia, come è prodotto e da chi, da dove proviene e com’èè arrivato nel piatto. La tracciabilità, termine con cui si indica la possibilità di individuare tutte le fasi e i luoghi del processo produttivo di un alimento, non può essere un’etichetta etichetta colorata dietro cui nascondere gli enormi difetti del sistema agroalimentare ma
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deve poter essere uno strumento che favorisca una scelta alimentare consapevole, valorizzando le produzioni legate al territorio. Ad esempio, la valorizzazione delle produzioni regionali europee riguarda pochi settori a rilevante interesse economico, per i quali si istituiscono “denominazioni di origine”, che non sempre sono garanzia di qualità. La tanto attesa entrata in vigore delle norme sull’etichettatura, prevista ormai da diversi anni nell’Unione Europea, non ha, evidentemente, prodotto alcun mutamento. È quindi legittimo chiedersi se il modello della tracciabilità possa essere uno strumento di informazione sui rischi crescenti della mala alimentazione ed un mezzo per una presa di coscienza rispetto alle implicazioni ambientali e sociali del consumo, oppure se le norme europee sulla tracciabilità servano soltanto ai colossi del-
l’agroalimentare per rimodellare la propria immagine, per “rifarsi l’etichetta”, nascondendosi dietro gli stessi prodotti e gli stessi criteri produttivi. La tracciabilità e la sicurezza restano solo slogan, se non si costruisce la filiera corta, eliminando l’enorme distanza percorsa dal cibo, dal luogo di produzione fino alla tavola. La scienziata e ambientalista Vandana Shiva, durante l’incontro internazionale “Terra Madre” tra produttori agricoli di tutto il mondo svoltosi a Torino presso il Salone del Gusto, ha affermato: la menzogna che ci viene continuamente ripetuta è che non ci si può permettere il cibo locale, perché spedire del cibo da 5.000 miglia di distanza costa meno, pompare il cibo con enormi dosi di prodotti chimici costa meno. Questa menzogna sul cibo economico proveniente dal commercio libero globalizzato e dalle monoculture industriali è ciò che sta rendendo impossibile la pratica di unagricol’agricoltura davvero genuina”.
Mangi Ma angia ngiar are re: atto agri ag gric rico colo lo o,, atto social socialee Per consumare responsabilmente, bisognerebbe innanzitutto essere coscienti che mangiare è un atto agricolo, per utilizzare la frase del poeta e contadino americano Wendell Berry: “Mangiando concludiamo lo spettacolo annuale dell’economia alimentare iniziato con la semina e la nascita delle piante. Gran parte della popolazione, però, pur mangiando, non è più consapevole di questa verità. [...] Acquistano ciò che vogliono nei limiti di ciò che possono riuscire a procurarsi. Pagano, quasi sempre senza protestare, il prezzo che viene loro richiesto. E ignorano in larga misura determinate domande cruciali sulla qualità e il costo di ciò che viene loro venduto”. Consumare in modo cosciente e responsabile implica una serie di problemi teorici e pratici, per cui non è facile esprimere una scelta critica, sia soggettivamente, perché sottoposti a una continua manipolazione attraverso pubblicità e sollecita-
zioni della grande distribuzione, sia oggettivamente, perché non sempre è possibile trovare cibi sani al prezzo giusto. Ma stanno crescendo numerose esperienze quotidiane di consumo critico, come l’auto-organizzazione auto-organizzazione di mercati contadini e come l’organizzazione e la diffusione di gruppi di acquisto solidali o popolari, che spezzano la tortuosa struttura della filiera lunga attraverso il contatto diretto con piccoli produttori agricoli che, controllando do la qualità e contenendo i prezzi, rappresentano un’alternativa alternativa possibile alla mala alimentazione globale. Per ridare senso al nostro modo di mangiare, dovremmo avere insieme la consapevolezza che si tratta di un atto agricolo – rispettando il ciclo delle stagioni, ritrovando i sapori della terra – ma anche di un atto sociale: ridare senso alla preparazione e condivisione del cibo è un modo per ricostruire legame sociale e resistere alla solitudine della società dei consumi globale. Questo testo costituisce la voce “Cucina “ ” in un lessico plurale per vivere il presente prossimo o il futuro presente, appena pubblicato dalle edizioni Diabasis: ““IL DOLCE AVVENIRE. ESERCIZI DI IMMAGINAZIONE RADICALE DEL PRESENTE”. ””. Il lessico raccoglie saggi brevi sui temi-chiave dell’ dellattualità, ’attualità, come clima, decrescita, democrazia, laicità,lavoro, migrazione, pace…, affrontando la complessità del nostro tempo e della nostra condizione con una freschezza espositiva che lo rende accessibile e appassionante come manuale-dizionario per lo studio, come strumento diffuso di conoscenza e di autocoscienza culturale e politica, come strumento di relazione. www.diabasis.it Le foto che illustrano l’articolo sono o di Karl Blossfeldt (1865 – 1932)
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l quadro qui riprodotto si intitola “Venditrice di frutta, verdura e pollame”, ed è stato dipinto da Joachim Beuckelaer nel 1564. Rappresenta una scena di mercato, nella quale una ragazza esibisce un ricchissimo assortimento di cibarie. L’assortimento è talmente ricco che la superficie del quadro è quasi totalmente occupata dalla merce, che, riempiendo tutta la base, si innalza verso il centro a formare una specie di piramide. L’idea di un mercato all’aperto viene appena suggerita da due squarci sul fondo, in cui si intravedono alcuni alberi e delle case. La figura umana, al confronto con i cesti ed i vasi sovrabbondanti di ogni varietà di frutti e verdure, più che pro-
getale. Tali diversità, come nel caso dei cavoli iridescenti, con i loro bizzarri ricci e i loro ghirigori rugosi, non solo testimoniano l’uso di fertilizzanti, ma ostentano orgogliosamente i risultati di ibridazioni ed incroci. Bastardo, come si sa, è il nome popolare che in diverse parti della Sicilia assume un particolare cavolfiore, di colore viola; e i lunghi processi di imbastardimento genetico non sembrano affatto estranei alla scelta di questa denominazione. Lopulenza e la fecondità da paradiso L’ terrestre che il quadro esprime rappresentano però solo un primo livello di interpretazione. La semplicità ed il tono dimesso della ragazza ci spingono a guardare lo stesso quadro anche con un
tagonista, sembra un elemento accessorio del dipinto. L’ Lintento L’ principale dell’artista sembra quello di impressionare l’osservatore, esibendo i mirabolanti risultati quantitativi e qualitativi resi possibili dalle nuove tecniche agricole. La fotografia in bianco e nero non offre la possibilità di cogliere appieno la ricchezza dei dettagli, precisi fino al limite della classificazione di un botanico. Se ci si sofferma a guardarli, comunque, non solo si nota un’impressionante un varietà di frutta ed ortaggi, ma anche una notevole diversificazione di prodotti appartenenti alla stessa famiglia ve-
occhio più distaccato e critico, lasciando spazio a considerazioni di carattere morale. La ricchezza non suscita anche cupidigia? Oggi abbiamo perso la capacità di interpretare la ricca simbologia del tempo, ma ai contemporanei del XVI secolo non sfuggiva che l’offerta del volatile era un indubbio riferimento all’amore carnale (la parola vogelen,
di Onesto Aquino
significa anche copulare). Il cavolo, poi, era considerato un simbolo sessuale femminile, tradizionalmente servito ai matrimoni, mangiato con l’olio, ed era anche usato come contraccettivo. E chi di noi non ha mai sentito parlare, almeno una volta, di bambini nati sotto il cavolo? Accostati ai cavoli, ben visibili ed in primo piano, ecco carote, cetrioli, baccelli di fave e di piselli, universalmente associati all’elemento fallico e mascolino. Ma anche le altre verdure e gli altri frutti possono essere interpretati come metafora dell’intera gamma dei sentimenti di amore e di lussuria. E che l’intento morale sia qui prevalente è dimostrato dal fatto che la rappresentazione, botanicamente perfetta, è storicamente falsa, perché accosta frutti di stagioni diverse. Ciliegie rosse e nere, susine, prugne, mele e pere, fragole more e lamponi, meloni, uva bianca e nera, persino noci: l’elenco è incongruo per il calendario agricolo ma, rappresentando i desideri carnali, i peccati di gola, gli eccessi e la mancanza di inibizioni, è perfettamente coerente con il calendario liturgico. Quanto sarebbe importante, oggi, recuperare la capacità di leggere un quadro, cogliendone i diversi livelli di interpretazione. Sarebbe un po’ come riuscire a riassaporare quei frutti nel loro sapore naturale, secondo i ritmi prescritti dalla natura, e non dalla globalizzazione.
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cibo e arte
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l‘arcobaleno
cibo per la mente di Stefania Lucia Zammataro
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in dalle epoche più remote, la vita dell’uomo è stata condizionata dalla ricerca del cibo. Questa lo ha indotto a spostarsi continuamente in cerca di terre fertili e ricche di prede, modificando di volta in volta le sue abitudini. Le scene di caccia che ancora possiamo osservare sulle pareti delle caverne e nelle incisioni rupestri rappresentano per l’uomo primitivo una delle prime, elementari forme di comunicazione. Contemporaneamente le rappresentazioni delle prede di caccia assumono un valore magico, manifestando quella ricerca innata del sovrannaturale, comune dall’origine dei tempi a tutti i gruppi umani. Pensiamo ad una delle rappresentazioni iconografiche più importanti dell’arte occidentale, all’Ultima cena di Leonardo. Qui il Cristo compie, insieme, un gesto umano e spirituale: divide il pane per condividerlo in un gesto d’amore con i suoi discepoli e amici. Il cibo condiviso si carica così di un valore spirituale che richiama reminiscenze magico-pagane. E quando Cristo offre in sacrificio il proprio corpo, per salvare l’umanità dal peccato, siamo in presenza di un’esplicita reminiscenza di riti tribali di natura antropofaga.
Pitture rupestri a Lascaux, circa 17,000 anni fa
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IL CIBO
Nella pittura fiamminga del Quattrocento, invece, il cibo perde ogni connotazione spirituale, diventando simbolo della società borghese e materialistica rinascimentale. Al ritratto, il genere iconografico più in voga all’epoca, spesso troviamo associato il cibo. In copiose quantità e varietà, languidamente adagiato sopra una tavola arricchita da sontuose stoffe, il cibo lento raggiunto dai nuovi ricchi, il prestiin bella mostra simboleggia lo status opu- gio dei mercanti e delle loro famiglie. Con la crisi del Rinascimento e l’avvento avvento del tormentato periodo del manierismo, l’artista Arcimboldi compie un atto di ribellione nei confronti di un un’arte svilita a merce da vendere, assoggettata ai desideri ed ai soldi della ricca committenza. Arcimboldi diventa allora simbolo dell’arartista “moderno”,, che vuole essere critico emancipandosi dai condizionamenti sociali. Dipinge busti umani irreali formati da frutti e verdure, “teste composte” che ci spingono ad interrogarci sui significati nascosti, opere che ne hanno fatto il precursore del surrealismo. E’ la crisi dell’umanesimo, l’uomo non è più al centro razionale dell’universo ma è ridotto a “cosa”. Per la prima volta il ruolo del cibo Floris Claesz van Dijck, Natura morta con frutta, noci e formaggio nell’arte arte muta radicalmente, da reale, si fa 1613, Frans Halsmuseum, Haarlem emblema di ciò che è paradossale, “bestia-
O NELL’ART NELL’ART R E le”, dissacrante e significativamente ironico. Nel ventesimo secolo il cibo nell’arte nell raggiunge l’apice l del valore dissacratorio. Duchamp dispone concettualmente ingredienti gastronomici. Sono oggetti dall’aspetto decisamente detestabile, dal retrogusto vomitevole o semplicemente scevri da qualsiasi proprietà commestibile. La natura è innaturale, ripugnante, guasta. È una natura “maligna”, che si ribella al nichilismo dell’uomo dell postmoderno. Langoscia L’ dell’uomo moderno, è ben espressa dalle macabre carcasse di carne sanguinolenta dipinte da Francis Bacon. La carcassa che accompagna la figura raccapricciante di papa Innocenzo X, ripreso dal ritratto di Velàzquez, è l’angoscia l dell’uomo che, in cerca di Dio, non riesce più a trovare nella religione alcun riferimento spirituale. Le impacciate figure obese di Botero, simbolo di una umanità massificata che “trangugia ogni cosa”, come canta Giorgio Gaber nella canzone l’obeso l richiamano l’uomo “ad una dimensione” teorizzato dal filosofo Herbert Marcuse, che avidamente ingloba tutto ciò che viene dai mass media, senza discernimento e capacità critica. Ambigua, tra senso critico e accettazione passiva di una società massificante, la pop-art, con un gioco dadaista, toglie ogni sacralità all’arte, all facendola divenire prodotto e, spingendosi oltre, fa diventare
imprenditori fiamminghi, ritorna ad essere simbolo di una società in cui l’uomo tende a liberarsi da qualsiasi costrizione religiosa mentre riafferma nuovamente il denaro come valore assoluto, unica fonte per raggiungere la felicità fluttuando inebetiti nel fantastico mondo dei consumi. Nelle opere di Courbet, legate al realismo Fernando Botero, La famiglia sociale di fine Ottocento e primo Noveopera d’arte una comunissima confezione cento, il cibo era simbolo delle disumane di cibo in scatola. La scatoletta di cibo, condizioni di vita dei contadini. In Europa esattamente come nei ritratti dei ricchi e negli Stati Uniti, nel secondo dopoguerra, l’Informale a cui appartengono anche Andy Warhol e Robert Rauschemberg, non è una corrente, è la situazione di crisi dell’arte come atto di coscienza; è la fine del realismo socialista e del tentativo d’inserire l’arte nella lotta politica della classe operaia. È la poetica dell’incomunicabilità e non è una libera scelta. Larte L’ si sgancia dalla forma come linguaggio comunicativo, portavoce di una concezione del mondo, per diventare, gesto individuale, relativo, soggettivo, inspiegabile. Larte L’ è da sempre stata specchio della condizione particolare dell’uomo, nell’epoca in cui si è manifestata come atto creativo. La condizione dell’uomo contemporaneo è paradossale: in un mondo circondato da mezzi di comunicazione non sa più cosa dire, o, forse, preferisce non parlare per vivere felice in un nuovo Eden. Questa volta non ideato e creato da Dio. Ma da chi? Forse da chi sta al potere; o è solo il Andy Warhol, Campbell’s Soup, 1968 frutto del nostro individualismo?
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l‘arcobaleno
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cibo e spesa
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alla diossina alla “mucca pazza”, dal latte al ddt al vino al metanolo al grano al cadmio, fino al recente formaggio-spazzatura), assumono una forte centralità simbolica e trovano riscontro nel fatto che dal Veneto alla Sicilia, dai campi e dagli allevamenti, dai magazzini e dalle cantine arrivano voci di frodi e di orrori nelle filiere agroalimentari, ma anche di routines - legali e diffuse - dagli effetti dannosi, spesso imprevisti. Quando esplose la Bse ci mettemmo tutti a comprare polli; con l’aviaria li abban-
essere trattati allo stesso modo di altri beni di consumo: gli alimenti non sono riconducibili soltanto alla loro funzione d’uso. L’alimentazione è stile di vita, di Alessandra Cazzola cultura, identità, radici: non le si può apa fine del millennio ha visto cresceplicare lo stesso metro che si applica alle re, inattesa, una nuova paura: quelaltre merci. la dell’alimentazione quotidiana. Grazie a queste riflessioni la ricerca di In prima fila tra i rischi percepiti dai citprodotti ‘sani’ o ‘puri’ non è più di nictadini ci sono sempre quelli per la salute; chia, ma si diffonde la crescente consapesecondo le ricerche condotte dalla Comvolezza dei rischi insiti nell’attuale momissione Europea e secondo le segnaladello di produzione industriale. zioni di Eurobarometro già dieci anni fa Se ne è da tempo accorta la pubblicità, preoccupache ormai in campo alimentare pone vano quelli l’accento accento soprattutto sulla genuinità dei derivanti prodotti reclamizzati: la cura della tradidal l’a ssunzione, il rispetto della natura, la certificazione di cibi zione delle origini territoriali vedono una contaminati centralità discorsiva quasi parossistica o manipolasia negli spot che sui giornali. ti. Le ansie Il nuovo consumatore è infatti una figura sui rischi esigente e complessa, che cerca nei proalimentari dotti non solo mezzi per soddisfare birisultano ai sogni primari, ma esperienze, emozioni, primi posti sensazioni. in Italia, nei Egli ha sviluppato una dimensione comRapporti cu- cucinare petente di criticità nelle proprie scelte. rati annual- foto di Si diffonmente da l Valentina Tortora - Rumore Collettivo de sempre Censis. di più una Da tempo abbiamo la sensazione che modalità di perfino attività elementari indispensaconsumo bili come respirare e mangiare possano responsabidiventare fonti di catastrofi. Il cibo è orle, che cermai comunemente rappresentato come ca prodotti un possibile agente patogeno. Ogni alprovenienti larme si trasforma in psicosi. Intorno da aziende al nostro carrello, sulla scia delle musiche adottichette rassicuranti del supermercato, no sistemi volteggiano i fantasmi delle fragole modi produdificate col gene del pesce del Baltico, zione che packaging foto di del gene del tabacco mescolato a quello non nuocValentina Tortora - Rumore Collettivo dello scorpione … ciano alAnche restando ai cibi “normali”, sapl’ambiente piamo che troppe volte il dilemma tra donammo per buttarci sui maiali. Ora, ed alla salute dei consumatori, e si siano interesse pubblico e interessi industriali con la diossina nei mangimi dei maiali, distinte per l’impegno in campo sociasi risolve a favore di questi ultimi, e che torniamo ai bovini: il ciclo ricomincia! le e per l’attenzione nei confronti delle la potente agroindustria ha più a cuore Se la standardizzazione e la banalizzazio- condizioni di vita dei lavoratori. Chi va gli interessi dei propri azionisti che quelli ne dei cibi sono cresciute insieme all’am- al supermercato esprime una valutaziodei cittadini, più i vantaggi a breve termi- pliamento della platea dei consumatori e ne implicita per ogni prodotto che acne che quelli di lungo periodo, e sembra alle esigenze della distribuzione, ora esse quista, segnalando così alle imprese i nel complesso ben poco interessata a so- hanno mostrato tutti i loro limiti, spin- comportamenti che condivide e quelli luzioni sostenibili. gendo a rivalutare le esigenze della quali- che condanna. I casi negativi, gli scandali sempre più tà del prodotto e delle sue caratteristiche Tutti lo possiamo fare. frequenti, acuiti dalla rappresentazione intrinseche. (da Paesaggi coltivati, paesaggio da coltivare, mediatica (dal pollo e dalle mozzarelle I prodotti agroalimentari non possono Gangemi, Roma 2009)
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La carne produce fame: cibarsi meglio cibarsi tutti
Pe r c h é s o n o diventato vegano vegano?
I prodotti agricoli a livello mondiale potrebbero essere sufficienti a sfamare tutti, se non fossero in gran parte utilizzati per alimentare gli animali da allevamento.�� �������������������������������������������������������������������������������������������������������� Umberto Veronesi di Stefano Sannella
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ento di dover iniziare questo articolo dando la definizione dell’argomento in questione. La scelta d’apertura non è banale: so, per esperienza, che la maggioranza dei lettori ignora il significato del termine “vegano”. Sarò ben lieto di rimediare subito: dicesi “vegano” colui che, per scelte anche diversissime, ha un’alimentazione priva di alimenti d’origine animale. Niente carne e niente pesce, ma soprattutto, e qui sta il confine tutt’altro che labile con i vegetariani, niente derivati di origine animale, cioè sostanzialmente uova e latticini. Dietro questa scelta alimentare radicale possono esserci motivazioni diverse e non necessariamente univoche: la causa animalista prima di tutto (basta pensare a quanto sia paurosa la vita di una bestia in un allevamento); la preoccupazione per l’ambiente; il problema dell’eco sostenibilità; motivi religiosi; di salute; e potrei elencarne ancora altre. Ma mi preme approfondire, tra le cause citate, la
seconda, che è il motivo più forte che mi ha spinto a diventare vegano. Cosa c’entra il non mangiar carne ed il resto con l’ambiente? O ancora con la denutrizione in vaste parti del globo? Semplice: produrre carne costa. E tanto. E’ un freddo e razionale bilancio in termini scientifici: supponiamo di avere una mucca e di doverla alimentare con mais e soia, due degli alimenti più usati in allevamento. È facile ottenere una stima di quanti chili di cereali o soia sia necessario investire per ottenere un solo chilo di carne. Dipende dall’animale, ovvio, ma una ragionevole media si può fare: fonti del Dipartimento dell’Agricoltura USA indicano un rapporto di 16 kg di prodotti alimentari (cereali o soia) per ottenere 1 kg di carne. Altre stime più al ribasso si attestano su 10 a 1. La ragione è evidente ed è un processo che vale anche per gli uomini: assumendo alimenti non si realizza un aumento di peso pari a quanto si è ingerito. Tra espulsione di scarti, consumo energetico del corpo e altro si accumula ben poco. Per un animale è lo stesso, anzi forse peggio se si guarda alla sua capacità di produrre carne: non tutto l’animale viene consumato. Alcuni tessuti (ossa, pelle, peli e scarti vari da macellazione), la cui costruzione ha richiesto un notevole consumo di cibo, non alimenteranno alcuno. Gianni Tamino, biologo, ex deputato e docente presso l’Università di Padova, afferma: “Quei cereali e legumi sarebbero buoni anche per l’uomo. Al posto di quella bistecca, si avrebbero 8-9 porzioni di cereali o legumi. Col materiale di partenza, potrebbero mangiare 9 persone”. Per consentire a noi umani di alimentarci in maniera carnivora, serve una biomassa di vegetali decisamente maggiore che se ci alimentassimo con i soli vegetali. Il 90% della soia prodotta al livello mondiale è destinata all’allevamento. Per il mais siamo al 70% (dati denunciati anche dalla trasmissione televisiva “Report”, nel maggio 2009). La questione che si pone è squisitamente etica: destinare il 90% di un ottimo cibo come la soia ad animali, per trarne molto meno, a fronte di un miliardo di denutriti (dato dell’Organizzazione Organizzazione delle Nazioni
Unite per l’alimentazione e l’agricoltura agricoltura (FAO), 2009) ? L’ Lallevamento e l’agricoltura agricoltura industriale su larga scala pesano sull’ambiente ambiente anche per altri fattori. C’èè anzitutto la questione acqua: su scala globale, il 70% dell’acacqua è impiegata nell’industria industria agricola e zootecnica. Il noto economista indiano Rajendra Pachauri indica che per un chilo di mais occorrono circa 900 litri d’acqua. acqua. Per un chilo di carne di maiale, siamo sui 4.900, per arrivare ai 15.500 del manzo. Cifre enormi. E si potrebbe affrontare anche il legame tra agricoltura e disboscamento, inquinamento del territorio (agenti chimici agricoli) e falde acquifere ed emissioni di CO2 derivanti dai trasporti necessari allo spostamento di queste enormi quantità di cibo. Concludo con la domanda iniziale: perché vegano? Perché non mangiare prodotti di origine animale significa boicottare a 360° questo sistema, perché rappresenta un rifiuto ed un’alternativa alternativa sostenibile che può portare a cambiare le cose. Metto già in conto i probabili pensieri del lettore: “non serve a nulla”, “è inutile” e affini. Anch’io io lo penso, a volte, in vari ambiti. Ma mi incoraggia anche ricordare che tanti reali progressi (politici, scientifici, sociali), come la storia ci insegna, sono maturati nel tempo grazie a chi ci ha creduto e ha saputo gettare i giusti semi, anche a proprie spese, agendo nell’ambito ambito ristretto delle scelte personali. E noi ora possiamo godere di questi progressi. Spero mi si permetta, da modesto studente di Matematica quale sono, di chiudere con una citazione a cui sono particolarmente … affezionato, e che spero valorizzi un poco quanto appena affermato: Sono diventato vegetariano per ragioni etiche, oltre che salutistiche. Credo che il vegetarismo possa incidere in modo favorevole sul destino dell’umanit . dell’umanità Albert Einstein in Per saperne di più http:// www. istitutospllanzani.it/doc/263.pdf
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cibo e ambiente
l‘arcobaleno
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COME SONO BUONI I BIANCHI (e come sono brave le rockstars)
musica 16
di Aldo Migliorisi (http://aldomigliorisi.blogspot.com)
disegno di Guglielmo Manenti Laltro L ’ giorno, siccome a forza di vedere Bruno Vespa in televisione mi era venuta una fame nervosa che non vi dico, e considerato che a casa non c’era niente da mangiare, sono sceso giù per comprare qualcosa. Solo che per strada, appena ho visto il primo negozio di dischi, mi ci sono infilato senza neanche pensarci. Prima il vizio poi i bisogni, mi sono detto. Mi ero quindi messo a rovistare tra gli scaffali, quando ho beccato un lp con in copertina un bambino nero denutrito che guardava con due occhi da vergognarsi. Era il Concert for Bangladesh del 1973, la Grande Madre di tutti i concerti umanitari. Ora, dovete sapere che questa storia dei concerti di beneficenza, e di come siano brave le rockstar, e di come l’industria sia sensibile ai problemi della povera gente mi ha subito colpito. Così ho chiesto al commesso se c’era qualche altra cosa del genere, che volevo dargli un’occhiata. Il tipo deve aver capito subito con chi aveva a che fare: gli sono brillati gli occhi, si è infilato diritto nel lercio retrobottega e dopo qualche minuto n’è uscito con un pacco di vinili che puzzavano di muffa. - Questi come le sembrano? – mi ha chiesto con un sorriso che sembrava la volpe di Pinocchio, scansando le ragnatele e le cacche dei topi sulle copertine. C’era tutto: Live Aid, Live8, Live Earth, USA for Africa, Pavarotti & Friends e anche il concerto per il terremoto in Abruzzo. Non ci ho visto più: in preda alla commozione ho acquistato l’intero scatolone di dischi e sono andato diritto a casa per ascoltarmeli in segno di solidarietà, orgoglioso di me e della mia bontà. Ho pensato anche a come siamo buoni noi bianchi, con i nostri concerti rock di beneficenza; tutti uniti contro la povertà, gli uragani, l’aids. Tutti: Laura Pausini compresa. Quando però sono arrivato a casa senza niente da mangiare, la fame mi è subito ritornata. Lunica L’ cosa commestibile era una specie di 4 Salti in Padella ormai mummificata che risaliva al neolitico superiore: con un po’ di coraggio si poteva tirarla fuori dal freezer, scongelarla, mangiarsela e sperare di sopravvivere. Una storia tipo roulette russa, per capirci, che se uno volesse cedere all’insano vizio della scrittura, potrebbe iniziare così: Presi la Cosa, la infornai e, appena il termostato toccò i 180°, l’’oggetto iniziò a muoversi lentamente, mormorando come se volesse dire qualcosa. Stava cambiando colore e sembrava che trasudasse mozzarella alla diossina quando, dopo aver acceso il grill per una migliore tostatura, il Mostro iniziò lentamente a parlare … - Basta con queste scemenze - ha detto la gatta interrompendo bruscamente questo mio slancio letterario- pensa
invece a preparare quell’articolo su cibo e musica, che se no a quelli dell’Arcobaleno non ce li leviamo di torno. Oggi ho già ricevute quattro telefonate anonime in pugliese. - Erano allucinazioni letterarie dovute alla fame. Un fatto romantico: cose che tu non puoi capire – ho detto alla micia, assumendo la posa da scrittore tormentato. Comunque, era vero: dovevo buttare giù qualcosa su musica e cibo ma, onestamente, a parte le verdure marce che gli spettatori inferociti buttano solitamente sul palco, c’era veramente poco da scrivere. - Qualcosa sulla musica come nutrimento dell’anima, non potrebbe andare bene? Tanto quelli del giornale si bevono tutto – ha detto la gatta. - Questa storia l’avrò letta minimo duecento volte, e in tutte le salse. Caso mai l’avessi dimenticato, ti ricordo che io sono un autore di un certo livello. Lasciamo perdere - ha fatto lei - mi sa che oggi non è giornata. Sto telefonando per ordinare due pizze. Tu come la vuoi? La situazione è precipitata quando, nell’attesa che arrivassero le pizze, ho messo sullo stereo il primo dei dischi acquistati. Prima una graziosa nuvoletta azzurrina a forma d’aureola, poi un rumore che sembrava che stessero ammazzando un maiale da 800 chili, e alla fine le casse sono esplose, spargendo un terribile tanfo d’uova marce. - Ma che è? Cos’era?–– ha detto la gatta, gonfiando la coda tipo mongolfiera. - Come, – ho risposto con una voce commossa - era il Live8 del 2005, quello contro la povertà! La gatta mi ha guardato con compassione, io non ho capito il perché. Stavo per chiedere una spiegazione, quando suonano al citofono: - Pizza! - fa una voce con uno strano accento. - Grazie, sesto piano. Lascensore L’ è rotto -. Dall’altra parte della cornetta mi è parso di sentire una bestemmia. Forse, in africano. Dopo aver scalato i sei piani il ragazzo della pizzeria, un eritreo che conoscevo di vista, si è accasciato sul tappetino dell’ingresso e mi ha smollato le pizze chiedendomi, allo stesso tempo, un bicchiere d’acqua e una sedia per riposarsi. - Solo un minuto – ha detto, madido di sudore- sei piani, un minuto di poltrona, prego. Sono andato a prendergli un bicchiere d’acqua e, al ritorno, il tipo si era messo comodo sulla poltrona e stava guardando con interesse la copertina del disco del Live8. - Io mi ricordo del Live8, nel 2005. Eravamo appena sbarcati a Lampedusa dopo tre giorni di mare. In duecentocinquanta su una barca lunga dieci metri e larga cinque- ha detto l’ eritreo sorridendomi - Guarda, ti faccio leggere una cosa. Il ragazzo ha preso il portafoglio e ha tirato fuori un ritaglio di giornale. - Quelli della Croce Rossa ci avevano involtato il pesce, al centro di prima accoglienza. Lho L trovato là. Tieni - ha detto il L’ ragazzo prima di andarsene. La gatta si è avvicinata curiosa, mi ha preso il ritaglio dalle mani e ha iniziato a leggere: Sabato 2 luglio 2005: in concomitanza con il G8 il pianeta assiste al Live8, ““il più grande concerto del mondo””. Miliardi di spettatori, quasi 150 rockstars coinvolte, nove concerti in contemporanea sparsi per il pianeta. Pink Floyd, Deep Purple, Roxy Music, Paul Mac Cartney, Brian Wilson... - Certo, di terra ne hanno dovuta scavare, metri e metri di putridi cimiteri, per disseppellire un cast del genere- ha commentato acida la micia. Poi ha continuato: Consegnare la povertà alla storia: ““Make poverty history” è lo slogan del megaconcerto umanitario. Sensibili alle richieste degli organizzatori, in apertura di G8 i portavoce governativi hanno dichiarato che da parte degli otto grandi c’è’’è l ’ intenzione di ridurre il debito multilaterale di alcuni (soltanto diciotto) paesi poveri del cento per cento, per un totale di 50 mld. di dollari. - Bravi – ha fatto la micia. - Solo che hanno dimenticato di dire che il debito totale dei paesi poveri è superiore ai 1000 miliardi di dollari, 300 solo quelli dell’Africa. Tanto per dire, l’anno prima di questa buffonata, nel 2004, l’America aveva allegramente sborsato 455 miliardi di dollari per armamenti e guerre. Altro che lotta alla fame nel mondo. - E tu come fai a sapere queste cose? – ho chiesto alla gatta. - La conoscenza è forza, l’ignoranza è schiavitù – ha detto lei, per tutta risposta. – Hai presente Socrate? - Socrate chi? Il gruppo rock greco? - Quelli si chiamavano Socrates Drank The Conium e suonavano progressive blues negli anni settanta. Invece di perdere tempo con Bruno Vespa, che ti fa anche venire la fame nervosa, prova a leggere qualche libro: nutre e non fa ingrassare. - Ora che c’entra Bruno Vespa, il più grande giornalista italiano vivente? - Poi te lo spiego. Un’altra cosa: debito multilaterale, per l’Africa, significa solo il 30 per cento del totale, ed è quello dovuto agli organismi finanziari internazionali: Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale e Fondo di Sviluppo per l’Africa. Africa. Laltro, L’ il restante settanta per cento, si chiama debito unilaterale: riguarda direttamente gli Stati e quello non si tocca neanche a bastonate, neppure se dovesse resuscitare Elvis Presley in persona, sciarpe e lustrini compresi – ha continuato la gatta. - E ora che c’entra anche la buonanima di Elvis? - Lascia stare. Tu lo sai che per ogni dollaro che i paesi occidentali danno in aiuto a quelli poveri, nove devono essere restituiti per pagare i debiti? Calci in culo ci vorrebbero, altro che canzoncine cantate da rockstars – ha concluso la mia gatta, che è una micia che parla sempre con proprietà di linguaggio. Ora, sarà stato per la fame, sarà perché la pizza era ormai fredda ma, all’improvviso, chissà perché, mi è venuta in mente una canzone. Quella di John Lennon dove c’è quel verso che fa: “E’ facile vivere con gli occhi chiusi, senza capire nulla di ciò che vedi...”. Avete presente?
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l‘arcobaleno
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cibo e storia 18
di Agata Coco
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l Medioevo evoca sempre nell’immaginario collettivo l’età oscura e barbara in cui la civiltà sembrò essersi fermata. Il pensiero moderno ha spesso sostenuto l’idea che filosofia, scienza e arte avessero abbandonato la terra per poi ricomparire, dopo secoli di letargo, dopo il XV secolo. Eppure il Medioevo annovera studi, scoperte scientifiche e innovazioni tecnologiche che rivoluzionarono il sistema economico del tempo e delle epoche successive.
Floris Gerritsz. van Schooten, Natura Morta conventi, detentori di tutte le tradizioni gastronomiche, si moltiplicarono in Francia, dando così grande impulso all’arte culinaria”. Secondo lo storico belga Leo Moulin dunque, l’origine della gastronomia
era prodotta esclusivamente all’interno dei conventi e la prima relazione scritta riguardante la sua fabbricazione risale al IX sec., ad opera del priore di San Gallo in Svizzera. Oltre alla birra (famosa quella dei trappisti, ancor oggi
MONASTERI A TAVOLA
la nascita della cucina europea
Il fulcro economico e culturale della prima fase dell’età medievale è senza alcun dubbio il monastero, il luogo in cui i discepoli di Benedetto da Norcia condividono la vita religiosa, seguendo la regola dell’ora et labora. Le comunità monastiche benedettine si diffondono rapidamente in ogni angolo dell’Europa e la laboriosità dei monaci si trasforma rapidamente in operosità creativa tanto da divenire la molla della nuova civiltà europea. I monaci furono dissodatori, giardinieri, vivaisti, piscicoltori, apicoltori, allevatori e proprietari di aziende agricole, capaci di utilizzare nuove tecniche di produzione e soprattutto di trasformazione dei prodotti della terra ed è proprio dai monaci che provengono pietanze e bevande che ancor oggi caratterizzano la cucina europea; anzi, secondo alcuni studi, ancor oggi, luoghi rinomati per la loro tradizione culinaria sono quelli in cui anticamente sorgevano monasteri. Nel Dictionnaire de gastronomie francese si legge che “verso la fine dell’era merovingia, cioè dal VII sec. in poi, i
moderna è da ricercarsi nella cucina monastica e il motivo è semplice: i monaci si dedicavano alla coltivazione della terra e si nutrivano dei suoi frutti. Si trattava di prodotti poveri, ortaggi e radici, che però venivano preparati con estrema cura. Dapprima solo conditi con olio (nelle regioni meridionali) e grasso animale (al nord), vennero poi accompagnati da uova e formaggio e sostenuti dal pane (panis familiae) o cotto sotto la cenere (subcinericium). Il consumo di carni, invece, era, in un primo momento, molto limitato; nell’ordine cistercense, nel XII sec., era vietato cibarsi di carne e persino di verdure se cotte nel grasso animale, solo la carne di volatili era consentita poiché gli uccelli erano assimilati ai pesci, che venivano consumati abbondantemente specie durante la quaresima.
prodotta, e dei francescani) i monaci producevano assenzio al miele, sidro e naturalmente vino, il cui uso come bevanda era stato autorizzato dallo stesso San Benedetto. Il vino era già ovviamente conosciuto, tuttavia la necessità di utilizzarlo puro per la messa indusse i monaci benedettini a praticare la viticoltura. Essi piantarono la vite e ne diffusero la coltivazione in ogni luogo d’Europa, Europa, anche dove il clima era meno adatto. I monaci bevevano vino puro di alta qualità, ma anche aromatizzato all’anice anice o bollito e speziato con la cannella, chiodi di garofano, mandorle dolci o con aggiunta di miele, anche perché gli uomini del medioevo non bevevano mai acqua senza l’aggiunta aggiunta di vino, o sidro o succo di frutta. I monaci sono anche all’origine origine della produzione degli alcolici: grappe, acquaviti e liquori. Lalcol L’ era però imbevibile e così i monaci, che coltivavano erbe e piante medicinali, impararono a produrre liquori aromatizzati alle erbe, utilizzati a scopo terapeutico, ma Ai monaci si deve anche l’invenzione anche degustativi, tra questi l’acqua acqua di della birra e degli alcolici. La birra melissa dei carmelitani scalzi, l’acqua acqua
La birra e gli alcolici.
di fiori d’arancio e ancora oggi molto conosciuti, il Benedictine, prodotto dal monaco benedettino Dom Bernardino Vincelli nel 1510, dall’infusione di 35 erbe e lo Chartreuse o Elixir di lunga vita del 1605 ottenuto dall’infusione in alcol di ben 130 varietà di erbe aromatiche alpine. Furono invece i monaci irlandesi e, secondo la leggenda, lo stesso San Patrizio ad inventare il whisky. I monaci che, dal V al X sec., evangelizzarono gran parte dell’Europa settentrionale e orientale, favorirono la produzione di scotch, vodka e grappa, kirsch, nati nei paesi dove fiorirono le abbazie irlandesi e benedettine, mentre il rum fu inventato nel XVII sec. dai padri Dutertre e Labat.
mina): il pan pepato all’anice, il certosino bolognese, i frati, i sacrestani, i benedettini alle mandorle, il frangipane (pastafrolla alle mandorle), che, secondo la tradizione piaceva così tanto a san Francesco che volle mangiarlo sul letto di morte, ma non riuscendovi, lo fece dividere ai frati presenti che lo mangiarono per obbedienza con le lacrime agli occhi. Ogni Ordine monastico aveva la sua specialità: i carmelitani le frittelle al miele cosparse di foglie di rose, l’Ordine Ordine di Santa Caterina il biancomangiare, tanto che nei giorni di festa si svolgevano addirittura gare di dolci tra gli Ordini religiosi. Anche in Sicilia con la diffusione del monachesimo benedettino, che fa proprie le influenze precedenti e successive, si sviluppa una tradizione culinaria e dolciaria che continua tuttora I monaci medievali sono gli unici ad o attraverso i ricettari dei conventi o avere gli strumenti per inventare nuoancora attivamente in alcuni conventi ve tecniche di trasformazione dei profemminili. dotti della terra che essi accumulano in Ma nel Medioevo e durante i seco- Non è possibile ignorare la descrizione gran quantità e che devono necessaria- li successivi, le grandi specialità degli che Federico de Roberto inserisce nelmente trasformare in beni non deperi- Ordini monacensi sono i dolci (dulcea- la sua opera I Viceré, a proposito delle bili, e sono gli unici attività culinarie dei in grado di insegnamonaci benedettini re queste tecniche, del monastero di di conservarne i San Nicola: ““I calsegreti, ma anche deroni e le graticole di perpetuarli e traerano tanto grandi mandarli di geneche ci si poteva bollirazione in generare tutta una coscia di zione. Per esempio, vitella e arrostire un grazie a Benedettini pesce spada sano sano; e Cistercensi l’arte sulla grattugia due casearia si sviluppò sguatteri, agguantata ulteriormente dancirca mezza ruota di do origine a nuovi formaggio, stavano tipi di formaggi, un’ora ’’ora ora a spiallarvela; specie stagionati: il ceppo era un tronco il brie, il munster di quercia che due uocreato dai monaci mini non arrivavano del Monasterium ad abbracciare, ed Confluentes nel ogni settimana un faVII secolo, secolo l’herve legname, che riceveva belga, il montaquattro tari e mezzo sio prodotto nell’ barile di vino per queabbazia di Moggio sto servizio, doveva sedal XIII sec., il garne due dita, perché laguiole che ebbe si riduceva inservibiorigine nell’abbale dal tanto triturare. zia di Aubrac nel In città, la cucina dei 1120 per rifornire Benedettini era pasi pellegrini che qui sata in proverbio; il sostavano lungo la timballo di maccherostrada per Santiago ni con la crosta di pade Compostela, la sta frolla, le arancine mozzarella di bufadi riso grosse come un la che risale al XII melone, le olive imbotsec. da notizie del Georg Flegel, Natura morta, Städelsches Kunstinstitut, Frankfurt tite, i crespelli melati, monastero di San erano piatti che nessun
I formaggi.
Lorenzo in Capua. Sempre in Italia, i monaci cistercensi fondano nell’area padana molte abbazie, in questi territori essi operano bonifiche e destinano parte del territorio all’allevamento di mandrie di vacche da latte. E’ proprio grazie all’enorme disponibilità di latte vaccino e all’interesse dei monaci per la produzione di formaggio, che essi misero a punto tecniche sofisticate di lavorazione come il doppio riscaldamento, la salatura e la stagionatura da cui nasce il formaggio grana. I primi documenti in cui è citato il parmesan risalgono al Trecento. Nel 1348 è Boccaccio che scrive: «in una contrada che si chiama Bengodi […] eravi una montagna di formaggio parmigiano grattugiato grattugiato» . È probabile, però, che le prime forme di grana siano state prodotte nel secolo precedente, ovvero nel 1200.
I dolci.
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Maerten Boelema de Stomme, Natura morta; olio su tela - 1642 Musées Royaux des Beaux-Arts, Brussels altro cuoco sapeva lavorare; e poi gelati, per lo spumone, per la cassata gelata…”. gelata… Certamente rilevante fu la funzione dei conventi nell’arte dolciaria di cui la diffusione in numerosi centri della Sicilia di “biscotti della monaca” o di “dolci della “badia” sono una piccola testimonianza. G. Meli, poeta siciliano del Settecento, dedica una lunga poesia a Li cosi duci di li batii, cioè, ai dolci che venivano confezionati dai ventuno monasteri di Palermo, da quello di S. Chiara al Salvatore, alla Martorana, ecc., celebrando di ciascuno di essi le specialità più rinomate. Pitré, studioso delle tradizioni popolari di Sicilia, annota che come ogni monastero aveva «l’emblema in legno o in marmo sulla porta», vantava altresì una ««piatta di pasta di mandorle, un manicaretto, ch’era il suo distintivo». Sicché sono rinomati i frutti di
pasta di mandorle del convento della Martorana, coloratissimi pasticcini, modellati a forma di frutta, ortaggi o quant’altro, che devono il loro nome alla nobile Eloisa Martorana, fondatrice nel 1193 dell’omonimo monastero palermitano; i cannoli; le cosiddette «teste di turco» e le cassatelle della Badia Nuova; i nucàtili di Natale del monastero di S. Elisabetta e i muscardini della Concezione, per il festino di S. Rosalia. Tomasi di Lampedusa, nel suo romanzo Il Gattopardo, parla invece de “i “ mandorlati rosa e verdognoli sgranocchiati con soddisfazione”durante la visita al monastero della beata Corbera. Intorno al 1500, un editto, a Mazara del Vallo, proibì alle monache di dedicarsi alla preparazione della cassata, di origine araba, ma rielaborata dalle suore dei monasteri, perché le allontanava dalle pratiche religiose.
Floris Claesz van Dijck, Natura morta - 1613 Frans Halsmuseum, Haarlem
A Noto fino al secolo XIX, dei diciassette conventi e dei sei monasteri che contava la cittadina, il più rinomato era quello benedettino del SS. Salvatore. In un elenco delle ultime monache di questo convento, risultano trentuno religiose e tre zitelle, cioè delle converse che, pur non legate da voti o regole, osservavano la clausura ed erano soprattutto famose per l’abilità con cui confezionavano la più raffinata dolceria. Dopo il 1860, con l’incorporazione dei beni ecclesiastici da parte dello Stato, alcune suore continuarono a far vita monacale fuori dai conventi, in abitazioni private. Aumentò in tal modo il numero delle cosiddette «monache di casa », le quali contribuirono certo in modo notevole a diffondere i ricettari a un più vasto pubblico. La ricchezza dei prodotti originatisi dalla tradizione monastica, la varietà e la cura dei cibi, la raffinatezza delle pietanze specie in epoche più recenti, sembrerebbero scontrarsi con le severe regole degli ordini monastici. Soprattutto nei primi secoli del monachesimo, sono noti i richiami di abati e vescovi ad una condotta di vita più austera che appaiono confermare l’ immagine del frate gaudente, panciuto e rubicondo, di una certa iconografia tradizionale. Certamente, però, la realtà è più complessa e se è vero che lavoro, commercio e donazioni arricchirono oltremisura alcuni monasteri fino a snaturarne la vocazione, è altrettanto vero che tanta attenzione e dedizione alla trasformazione dei prodotti della terra e ai cibi meritano alcune considerazioni. I monaci erano innanzitutto uomini di fede che attraverso il lavoro dei campi scoprivano le enormi potenzialità di quel creato che Dio aveva consegnato agli uomini perché lo trasformassero e lo utilizzassero a proprio vantaggio; essi evidentemente guardavano con stupore la natura e i suoi fenomeni e dall’osservazione costante e curiosa traevano materia per le loro invenzioni e innovazioni che mettevano al servizio delle comunità; infine l’amore amore per il buon cibo non è altro che un segno dell’umanissimo umanissimo desiderio di godere della vita e di ciò che di bello e buono essa offre. D’altronde come sostiene A. BrillatSavarin, “La La scoperta di un piatto nuovo è più preziosa per l’umanità umanità che la scoperta di una stella”.
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Oltraggio all’ortaggio, foto di Antonio Squeo
una storia in uno scatto l‘arcobaleno
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MANGIA COME PARLI alimentazione e globalizzazione
cibo nostrano 22
di Francesca M. Lo Faro
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hiunque si rechi a Salerno non può fare a meno di andare a visitare il “Giardino della Minerva” che, oltre a rappresentare la principale attrazione della città campana, è anche l’antesignano degli orti botanici, essendo stato fondato poco dopo il 1300 da un insigne medico della Scuola salernitana - Matteo Silvatico - che fu autore di Opus Pandectarum Medicinae, medico personale del re di Napoli Ronae berto d’Angiò e profondo conoscitore delle piante per la produzione di medicamenti. Il Silvatico, nel suo giardino, coltivò molteplici piante commestibili, ma considerò i prodotti del mondo vegetale farmaci più che alimenti. La descrizione delle virtù terapeutiche delle piante fu anche l’interesse primario di altri medici medievali i quali, prescrivendo le regole per il mantenimento della buona salute, imposero ai pazienti numerose norme alimentari e considerarono insalubri, ad esempio, i luoghi in cui cresceva il fico, il noce, il melograno e il sambuco. Già da questi accenni sull’antica botanica medica, si comprende come il motto “l’Uomo è ciò che mangia” non sia semplicemente un modo di dire, ma un’idea consolidata, radicata nella nostra cultura al punto tale che, in passato, tra i naturalisti invalse l’opinione che occorresse nutrirsi o curarsi esclusivamente con le piante che crescono nello stesso territorio in cui si vive, giacché le piante autoctone avrebbero effetti benefici sugli individui e sugli interi gruppi sociali che vivono nello stesso loro territorio. Una tale riflessione, ad inizio Ottocento, venne formulata da alcuni naturalisti e docenti dell’ateneo catanese (Carmelo Maravigna, Giuseppe Maria Cosentini, Gaetano De Gaetani, Paolo Di Giacomo Castorina, Francesco Ferrara) che, in molteplici scritti pubblicati in riviste dell’epoca, posero l’accento sulle piante locali, considerate di gran lunga superiori rispetto a quelle importate,
in quanto – a loro parere - esisterebbe un rapporto determinato tra uomo e natura. Il dibattito scientifico, o pseudo tale, sulla pretesa superiorità delle specie indigene sulle altre, nascondeva implicazioni ideologiche, giacché è evidente che, dietro al rifiuto delle piante e dei cibi esotici, si celava il rifiuto verso tutto ciò che arrivava dall’esterno esterno e che giungeva in Europa a seguito dell’intensifi intensificarsi degli scambi a livello planetario che, giusto all all’inizio dell’Ottocento, facevano percepire già quel processo che oggi chiamiamo globalizzazione. Tali considerazioni aprono uno scenario sull’attualità attualità e ci inducono a considerare che, riguardo ai cibi esotici, le nuove ondate migratorie hanno riportato alla ribalta fenomeni di rifiuto, come dimostrano le recenti prese di posizione di alcune amministrazioni civiche contro la vendita del kebab. Vi è, dunque, un parallelo tra i processi storici che stiamo vivendo in questi ultimi anni da una parte e, dall dall’altra, le polemiche che in passato accompagnarono ll’introduzione di nuove specie vegetali, considerate nocive perché esotiche e con molte cautele coltivate a scopi alimentari, come mostra il noto caso della patata, pianta a lungo considerata non commestibile o, addirittura, velenosa, anche perché simbolo di un mondo lontano, estraneo, altro. In sintesi, è importante osservare che, quando si parla di alimentazione, i sentimenti collettivi verso il cibo risentono di molteplici fattori culturali e sociali. Le oscillazioni delle mode spingono verso due atteggiamenti estremi e contrastanti: il globalismo culinario (con la diffusione di cibi e ristoranti esotici) ed il localismo culinario (con la tutela dei prodotti tipici del territorio). La compresenza di questi elementi contraddittori contamina brio briosamente samente le nostre tavole.
supplemento a Sicilia Libertaria N° 289 - novembre 2009. Direttore responsabile: Giuseppe Gurrieri. l‘arcobaleno Registrazione Tribunale di Ragusa n° 1 del 1987. Fip. - Progetto grafico Marina La Farina. Il “Comitato di reLazione” si riunisce periodicamente. Chiunque, condividendo i princìpi antifascisti, antirazzisti ed antisessisti propri di questo giornale, può proporsi come collaboratore o può inviare contributi all’indirizzo di posta elettronica elettronica:
[email protected] sul nostro sito http://giornalelarcobaleno.blogspot.com è possibile reperire i numeri arretrati e gli approfondimenti tematici.
“U
n anno all’estero?! Ma lo sai non consapevolmente). che non ci sarà la mamma a Però ho mangiato zuppa di fegato, un tracucinarti i tuoi piatti prefe- dizionale piatto austriaco, e mi è piaciuta! riti, vero?!” L´Austria, come può darsi che non sappiaQuesta è stata la primissima reazione di te se siete scarsi in geografia (del tipo: io un parente dopo aver saputo della mia de- non lo sapevo. Grazie Wikipedia!), conficisione di trascorrere quest’anno scolasti- na con ben otto paesi: la Germania, la Reco a Vienna, la capitale dell’Austria. pubblica Ceca, la Slovacchia, l’Ungheria, la Non la nostalgia, non la difficoltà di stu- Slovenia, l’Italia, la Svizzera e il Lietchendiare materie già astruse di loro come ma- stein (vi giuro che esiste per davvero). tematica, chimica o latino in una lingua Questo rende la cucina austriaca molto straniera che conoscevo a malapena, non varia, perché influenzata dalla tradizione le tantissime altre cose che possono an- dei paesi confinanti. In particolare la cuci-
cerie che vendono tanti tipi di pane, tra cui i miei amati Bretzeln (nella foto, quelli semplici con sale grosso sulla superficie e quelli con formaggio), e prodotti dolci come torte, cornetti o muffins. Se avete più tempo, soldi da spendere e voglia di rilassarvi, potete entrare in una Kaffeehaus e prendere una cioccolata calda o un caffè accompagnati da dolci come il Mohr im Hemd (un tortino al cioccolato servito con cioccolato fuso e panna), le Palatschinken (crêpes) o la celebre Sachertorte mit Schlagobers,, solo per citarne alcuni (la
na viennese include molti piatti ungheresi, tra cui svariati buonissimi gulasch. Il mio preferito è di carne, con paprika e spätzle, degli gnocchetti di farina che qui mangio spesso anche accompagnati da uova sbattute ((Eierspätzle). Un altro dei piatti che mangio volentieri è importato dalla Baviera, la parte meridionale della Germania. Si tratta dei
lista completa è lunga e succulenta!). Le Kaffeehäuser sono piuttosto costose ed è quasi impossibile uscirne senza essersi separati da almeno cinque euro – ma ne vale assolutamente la pena, anche solo per l´atmosfera fantastica che si respira in alcune (mamma, papà, perdonatemi se sto prosciugando il conto di famiglia solo per andare a caccia di atmosfere).
dare storte in un’esperienza come quella che sto vivendo, ma il cibo, l’assenza del buonissimo, universalmente dichiarato “il migliore al mondo” cibo italiano, e in particolare del “cibo della mamma”, cucinato con tanto amore perché di mamma ce n’è una sola, eccetera eccetera. Una domanda del genere, posta in cima a tutte la altre, basta da sola a dimostrare
In
mangiano ngiano Austria nonvisiscere di lombrico (… anzi!)
E s p e r i e n z e c u l i n a r i e d i u n ’ E x c h a n g e S t u d e n t i t a l i a n a a Vi e n n a quanto sia importante il cibo per gli italiani. Anche il manifesto di Intercultura, innocentemente appeso ad un muro a scuola, con la funzione di farmi uscire dalla retta via provocando reazioni isterico – suicide ai miei genitori, lo diceva a chiare lettere: CERCHIAMO RAGAZZI DISPOSTI A RINUNCIARE A TUTTE LE LORO CERTEZZE. E sotto c’era l’immagine di un succulento piatto di spaghetti al sugo: sano, gustoso cibo italiano, cibo di tutti i giorni, cibo della mamma, sul quale tu, giovane e ingrato studente di scambio, stai sputando sopra per condannarti a un anno di riso, pesce crudo, fast food, wurstel, papaie e chissà, per gli studenti meno fortunati, anche tarantole vive e sformato di viscere di lombrico. Non sono ben informata sulle possibili torture culinarie inflitte agli altri giovani di belle speranze, ma posso raccontarvi come me la sto passando io, iniziando col dichiarare che no, non ho mangiato sformato di viscere di lombrico (almeno
Weißwurst mit Senf Senf, wurstel bianchi accompagnati da una senape molto più dolce di quella che abbiamo in Italia. Anche se i miei piatti preferiti sono di carne, non è affatto vero quello che si dice in Italia, cioè che in Austria e in Germania si mangiano sempre e solo carne e patate. Nella mia famiglia ospitante mangiamo spesso verdure, pasta o spätzle: direi che a conti fatti mangio tanta carne quanta ne mangiavo in Italia, forse addirittura un po’ meno! Inoltre, a scuola e fuori pasto, tutti mangiano tantissima frutta e verdura, abitudine che da noi non esiste proprio. È stato molto strano, i primi giorni di scuola, vedere gente che a ricreazione mangiava mele, pere e, talvolta, anche peperoni o pomodori anziché cioccolata e patatine come facciamo noi italiani (quelli della dieta mediterranea…!). Se invece non vi sentite appagati da mele e pomodori, e desiderate una pausa più sostanziosa e soddisfacente, in Austria potete trovare moltissime panetterie – pastic-
Insomma, la cucina austriaca non ha niente da invidiare a quella italiana. …. Cioè … insomma… beh, pochissime cose comunque. Aprirsi a nuovi orizzonti spesso paga anche in fatto di cibo, per quanto ci sarà sempre il parente di turno ad affermare il contrario! Voi non ascoltatelo e fate di testa vostra. Come? Spaghetti? No, grazie. Prendo le viscere di lombrico!
di Irene Squeo
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cibo e culture
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I L C I B O E L A C A R TA alle origini della fame e dello spreco di risorse alimentari
cibo e finanza 24
di Francesco Mancini
“U U
na volta il futuro era migliore”: questa citazione, insieme amara ed ironica, viene a proposito a commento delle risultanze dell dell’’’ultimo ultimo rapporto della Fao (Organizzazione delle Nazioni Unite per ll’alimentazione e ll’agricoltura) sull’l insicurezza alimentare nel mondo. Il rapporto ((State of Food Insecurity – Sofi 2009) ha infatti segnalato, nell nell’anno in corso, un picco storico, pari a 1,02 miliardi, nel numero delle persone che nel mondo vivono in condizioni di fame, con decine di milioni che ne muoiono annualmente. Si tratta del numero più elevato dal 1970, il primo anno rispetto al quale esistono dati confrontabili, e corrisponde a circa un sesto della popolazione mondiale. Del totale di 1.020 milioni di denutriti, 642 sono localizzati in Asia e nel Pacifico, 265 nell’l’’Africa Africa sub-sahariana, 53 in America Latina e nei Caraibi, 42 nel Vicino Oriente e in Nord
Miseria e nobiltà (film ,1954)
Africa, 15 nei paesi sviluppati. Storicamente, a partire dal triennio 1969-71, il dato assoluto totale aveva manifestato una apprezzabile, anche se non accentuata, tendenza al calo fino al triennio 1995-97, allorché era stato pari a circa 825 milioni, per poi risalire negli anni successivi, sempre più decisamente, fino ai livelli attuali. In percentuale, rapportata al totale della popolazione mondiale, ll’incidenza del numero dei denutriti è calata fino al triennio 2004-06 ed ha evidenziato una brusca tendenza al rialzo negli anni 2008 e 2009. In termini assoluti, nonostante ll’impegno, preso al World Food Summit del 1996 di dimezzare la fame nel mondo entro il 2015, il numero degli affamati cronici dal 1995 ha ripreso ad aumentare. Le cause del record negativo del 2009 vengono ricollegate alla crisi economico-finanziaria in corso, agli alti prezzi degli alimenti, ai redditi in diminuzione ed alla disoccupazione. In accordo con le definizioni adottate dagli organismi dellOnu, dell’’’Onu, per «fame», o sottonutrizione, si intende una «ingestione di calorie insufficiente, inferiore al minimo energeticamente necessario per mantenere un peso corporeo minimo accettabile e una moderata attività fisica». Diversa e molto più diffusa, è la «malnutrizione in nutrienti» (proteine, vitamine, oligoelementi), che riguarda anche persone ipernutrite, concentrate nei paesi «sviluppati» e fra le classi medie dei paesi poveri, pari a un totale di circa un miliardo. Si parla poi di «insicurezza alimentare» quando «le persone non dispongono di accesso fisico, sociale o economico ad alimenti sani e nutrienti per soddisfare le necessità e le preferenze alimentari indispensabili a una vita attiva e sana». Il problema della fame nel mondo, della insufficiente produzione e della ineguale distribuzione degli alimenti a livello mondiale costituisce, nella sua gravità, una conferma delle deplorevoli condizioni in cui versa attualmente l’l’’umanità, umanità, secondo un sostanziale e quasi universale accordo. Al riguardo, si può richiamare quanto riferito dal professor Jean Ziegler, relatore speciale all ONU per il diritto all all’ all’alimentazione, sulla base di dati peraltro meno preoccupanti di quelli attuali: Ogni giorno sul-
la terra circa centomila persone muoiono di fame o delle sue conseguenze immediate. 826 milioni di persone sono oggi cronicamente e gravemente sottoalimentate … La distruzione per fame di milioni di esseri umani ha luogo ogni giorno in una specie di normalità congelata su un pianeta traboccante di ricchezza. Allo stato attuale delle forze produttive agricole, la terra potrebbe nutrire normalmente dodici miliardi di esseri umani, fornendo ogni giorno ad ogni persona una razione di cibo equivalente a 2.700 calorie. Eppure, benché sulla terra vivano poco più di sei miliardi di persone, ogni anno 826 milioni soffrono di sottoalimentazione cronica e invalidante. Considerazioni di semplice buonsenso porterebbero a ritenere che ll’’’umanità umanità e i suoi governanti, in una simile situazione e in presenza di una tendenza all all’incremento della popolazione mondiale prevista per il prossimo futuro in termini piuttosto marcati, si attrezzasse per farvi adeguatamente fronte. Non mancano certo gli strumenti tecnici per aumentare e migliorare la produzione e la distribuzione degli alimenti, oltre che per combattere cause ed effetti di fenomeni quali la deforestazione, la desertificazione, ll’inquinamento ambientale, le mutazioni climatiche, in modo da migliorare le prospettive future. Eppure tutto questo non accade, se non in misura largamente insufficiente. Il cibo, ossia il mangiare, come la necessità di respirare, bere, dormire, abitare, coprirsi, fa parte dei bisogni vitali, che accomunano gli uomini agli altri animali, in quanto connessi in maniera immediata alle possibilità di sopravvivenza dei singoli individui ancor prima che delle specie di appartenenza. Ma le imprese affaristiche e finanziarie non hanno come scopo il soddisfacimento di questo bisogno, che per esse rappresenta sostanzialmente un pretesto, ma sono unicamente interessate a «far soldi» ed a farne il più possibile. Nell attuale situazione storica è certamente Nell’ vero quanto afferma la Fao circa ll’incidenza della lunga crisi, in corso dal quarto trimestre del 2007, sull sull’aggravamento del problema della fame nel mondo. È altrettanto vero, però, che tale problema esisteva già prima, tanto che la citazione di Ziegler si riferisce ad un periodo largamente precedente la crisi attuale e, quindi, anche ad epoche caratterizzate da elevati e crescenti livelli di volumi d d’affari, profitti, prosperità e benessere. Va tenuto sempre ben presente, a tal proposito, che il soddisfacimento dei bisogni vitali
degli esseri umani, compreso quello di respirare aria non inquinata da veleni, nelle società capitaliste nate dalla rivoluzione industriale dipende dalle valutazioni e dalle decisioni di manager e uomini d d’affari e della finanza. A scanso di equivoci, si precisa che, a tale riguardo, fa scarsa o nulla differenza che si tratti di capitalismo di stato o privato o misto, ammesso pure che nella pratica sia sempre agevole, o anche solo possibile, distinguere fra interessi e moventi privati e pubblici. Ma i dirigenti e i proprietari delle imprese d affari e finanziarie, siano essi statunitensi o d’ cinesi o svedesi o altro, non sono interessati al migliore e completo soddisfacimento dei bisogni di chi acquista i loro prodotti e servizi, ma ad espandere i volumi d d’affari e, ancor più, i profitti, oltre che i propri compensi personali. A tal fine, essi sono impegnati ad ottenere il più elevato prezzo compatibilmente con le condizioni in cui si trovano ad operare, ossia ad elevare al più alto livello possibile il valore monetario delle cose che vendono. Oltre che tramite i prezzi, i valori monetari sono stati incrementati negli ultimi decenni anche e soprattutto tramite la creazione, proliferazione e moltiplicazione di strumenti (prodotti) monetari, creditizi e finanziari (azioni, obbligazioni, prestiti, futures, opzioni, derivati e così via). Si tratta di fenomeni che esistevano già prima; la novità sta solo nelle dimensioni assolutamente inusitate e spropositate di quella che, in contrapposizione alla cosiddetta economia reale, viene spesso definita economia di carta, un po’’ impropriamente, se non altro perché in larga misura essa è del tutto virtuale. È stato calcolato, in un momento di crisi finanziaria già in atto, che ll’ammontare globale dei derivati era pari a 12 volte il valore totale delle attività produttive reali esistenti nel mondo. Al riguardo, è certamente corretto affermare che la creazione di valori e prodotti finanziari
Catania, mercato feraluni dal nulla costituisce in pratica un trasferimento della ricchezza reale a vantaggio delle imprese d affari e finanziarie e che si tratta di espediend’ ti intrinsecamente fraudolenti o truffaldini. Ciò non toglie che, a parte molte eccezioni, essi siano perlopiù perfettamente legali. Gli economisti, i governi e le autorità monetarie nazionali ed internazionali hanno da tempo messo a punto e introdotto regole, limiti e divieti, al fine di impedire od ostacolare la creazione dal nulla di valori e strumenti finanziari, onde cercare di evitare la formazione di bolle speculative e le conseguenti crisi. Gli strumenti di controllo e regolamentazione, potenziati a seguito della grande crisi avviatasi nel 1929, negli ultimi decenni sono stati rimossi o annacquati, nell nell’interesse delle imprese d d’affari e finanziarie, supportate dagli economisti, politicanti e media, più o meno consapevolmente al loro servizio. Lattuale L ’ crisi è stata soprattutto conseguenza di questo depotenziamento delle regole e dei controlli e dovrebbe costituire un ulteriore
Wall Street, mercato della borsa
forte monito a reintrodurli, rafforzarli e non più rimuoverli. Per ciò che concerne ll’argomento cibo, è abbastanza evidente che la carta non si mangia e neanche i beni e le grandezze virtuali soddisfano ll’appetito. Ciò comporta che, prima o poi, la creazione a livelli stratosferici di valori e prodotti finanziari riferentisi direttamente o indirettamente al cibo si traducano in un aumento altrettanto elevato del giro d d’affari e dei profitti ad esso ricollegabili e, quindi, in un aumento generalizzato dei prezzi degli alimenti. La ricerca e la propaganda di motivazioni, strumenti e pretesti per gli aumenti dei prezzi, che hanno preceduto e preparato la crisi, non hanno comportato grossi problemi. I prezzi delle materie prime alimentari sono aumentati per tante ragioni, ma, tra le più corpose, vanno annoverati i contributi deliberati dal governo degli Stati Uniti per dirottare parte cospicua dei raccolti di cereali dall dall’industria alimentare alla produzione di biocarburanti. Gravi responsabilità hanno anche le catene alimentari tipo McDonald’s, che, dirottando grandi quantità di cereali dagli uomini agli animali, aggiungono il danno e i costi dell dell’obesità allo spreco di alimenti, rendendo ancor più ineguale la distribuzione e squilibrato il rapporto con la popolazione mondiale. Alla fin fine, ciò che ne risulta, e in effetti è accaduto, quantomeno fino all all’inizio della crisi attuale, è un fortissimo aumento dei prezzi delle materie prime alimentari e degli alimenti, tale da giustificare ll’entità dei valori e strumenti finanziari creati dal nulla. Erano da ritenersi del tutto scontate, quindi, le conseguenze socialmente catastrofiche che tutto ciò ha comportato per le classi povere dei paesi in via di sviluppo e di quelli sviluppati, che le statistiche della Fao evidenziano e le rivolte dei contadini cinesi ed i suicidii di quelli indiani tragicamente testimoniano.
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cibo e libri 26
di Silvia Mazzucchelli
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passa per il Convivio di Dante, nel quale il sapere viene descritto come lo pane de li angeli, fino a giungere alle opere di François Rabelais, di Honoré De Balzac e di Charles Nodier. Risulta tuttavia necessario segnalare anche alcuni casi in cui nutrirsi di un libro, ovvero spingere il proprio desiderio di possesso fino alla completa identificazione con la carta stampata e il suo contenuto, è indice dell’impossibilità di considerare il sapere come nutrimento. Nel Nome della rosa, di Umberto Eco, un monaco medievale decide di avvelenare le pagine di un’opera di Aristotele sul riso, di cui custodisce l’unico esemplare, così da provocare la morte del lettore e nello stesso tempo fare in modo di impedirne la diffusione. Alla fine deciderà, in un gesto estremo,
el saggio Il libro che uccide (2002), Alberto Castoldi elenca alcune fra le ossessioni più perturbanti che riguardano la scrittura e il libro inteso come oggetto. Il saggio prende spunto da alcuni racconti dell’Ottocento francese, riportati nel testo: Le Bibliomane di Charles Nodier, Bibliomanie di Gustave Flaubert, La fausse Esther di Pierre Louÿs, oltre ad alcuni sonetti di Paul Verlaine dedicati allo stesso tema. Nel libro il noto francesista svolge una riflessione sulla bibliomania come passione divorante spinta fino all’assassinio e sugli effetti drammatici esercitati dalla scrittura. La bibliofagia è una fra le passioni più inquietanti. La concezione del libro come nutrimento risale alle origini della cultura occidentale: nella Bibbia si afferma fin dall’esordio che mangiare un oggetto (la mela) comporta l’acquisizione di un sapere. Questa tematica si rivela infatti una costante della tradizione culturale e trova voce nelle opere di numerosi autori. Castoldi, nel suo saggio, delinea un percorso letterario e nel contempo iniziatico Fotomontaggio da: che, a partire dalle trageBartolomé Esteban Murillo, die di Eschilo, consideRagazzi che mangiano meloni ed uva, rate dallo stesso autore 1645-1646, Olio su tela, “briciole degli opulenti Alte Pinakothek, Monaco banchetti di Omero”,
di cibarsi del libro, destinandolo così alla definitiva scomparsa che coincide con la sua morte e con quella della civiltà medievale che considerava il libro un inaccessibile oggetto sacrale: gli occhi di solito bianchi di morte si erano iniettati di sangue, dalla bocca gli uscivano lembi di pergamena come a una belva famelica che si fosse troppo ingozzata e non riuscisse più a trangugiare il suo cibo. Singolare, inoltre, il caso del romanzo À Rebour di Huysmans, nel quale l’autore narra le vicende dell’esteta Des Esseintes che decide di ritirarsi in una raffinata dimora, costruita sin nei minimi dettagli a sua immagine e somiglianza, per sfuggire alla banalità del mondo borghese. Huysmans concepirà la biblioteca di Des Esseintes come un libro, rivestendola in marocchino, ivi compreso il soffitto a volta che simula il dorso di un volume: In ultima analisi, si risolse a far rilegare le pareti come dei libri, in marocchino a grana grossa schiacciata, con pelle del Capo lucidata con pesanti lastre d’ac’ac’acciaio, sotto una potente pressa. Appare ppare evidente come l’estrofl estroflessione del libro sia un sintomo dell’incaincapacità del protagonista di assimilare la scrittura. Egli rimane all’interno interno del volume da lui scritto e illustrato, eppure non riesce a nutrirsi del suo contenuto. La fuga dal mondo della natura, a vantaggio dell’artifi artificio, si concluderà infatti in un fallimento; egli sarà costretto ad abbandonare la sua lussuosa dimora artificiale per evitare la follia e la morte. La stanza della biblioteca, come luogo metaforico che riconduce al libro, rimarrà solo un temporaneo rifugio, ma non il luogo privilegiato nel quale riscrivere una realtà diversa da quella borghese.
BIBLIOFAGIA
Alberto Castoldi insegna letteratura francese all’Università Università di Bergamo. Si è occupato di letteratura di viaggio ((Il fascino del colibrì colibrì), ), del romanzo fra Sette e Ottocento ((Il Il realismo borghese), del ruolo degli intellettuali negli anni ‘30 ((Intellettuali e Fronte popolare in Francia Francia), del “perturbante” in ambito artistico (Clérambault. Stoffe e manichini manichini), del rapporto fra droga e letteratura ((Il testo drogato), della rappresentazione del colore bianco ((Bianco) e di bibliofilia ((Il libro che uccide).
IL CONFINE T RA CO R PO E ANI ANIMA di Katia Arcidiacono
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fogliando le pagine di un famoso magazine mi sono imbattuta in uno slogan particolarmente insolito: se ami qualcuno dagli peso. peso In un primo momento ho pensato alle solite frasi ad effetto per sponsorizzare qualche film per teenager, poi ho letto la sigla “Ministero per le Pari Opportunità” ed il mio interesse è cambiato; più su, l’occhiello recitava: “contro i disturbi del comportamento alimentare la prima cura è l’attenzione”. Un breve trafiletto spiegava che per i DCA (disturbi del comportamento alimentare) il principale strumento di prevenzione è l’attenzione ai primi segnali di disagio. Lavorando ogni giorno a stretto contatto con adolescenti, ho sentito il bisogno di documentarmi ed ho scoperto che la bulimia e l’anoressia nervose sono tra le prime cause di morte per malattia tra le giovani donne. Tali patologie si conoscono fin dagli anni ’70, ma erano ancora sconosciute ai più e considerate rare; sono molto più frequenti, invece, ai nostri giorni. Forse pochi sanno che, già nel 1694, un medico inglese, Richard Morton, ha descritto, per la prima volta, l’anoressia nervosa come malattia. Oggi il 90-95% delle persone colpite da tali disturbi sono donne giovani dei paesi occidentali, di età compresa tra i 12 e i 25 anni, ma ultimamente si registrano anche casi tardivi tra le donne che hanno superato i 30-35 anni. Le ragazze sono più a rischio rispetto ai ragazzi, i quali rappresentano ancora una minoranza. I DCA nascono da un profondo malessere interiore, da disturbi psicologici, dal rifiuto di diventare adulti e di lasciare le sicurezze infantili, dalla paura di affrontare cambiamenti. Le più gravi patologie si manifestano, infatti, con il rifiuto della fisicità, soprattutto nel periodo adolescenziale, quando le trasformazioni corporee e i mutamenti fisiologici sono frequenti per entrambi i sessi. Inevitabilmente aumenta, in questo periodo, l’interesse dei giovani per il proprio corpo, per l’aspetto esteriore e per il peso. Senza contare che la società odierna stigmatizza, e spesso emargina, le persone in sovrappeso e mitizza il corpo magro e snello. Ecco che negli adolescenti diventa forte il desiderio di dimagrire, modellare il proprio corpo cercando di avvicinarsi ai cano-
ni estetici proposti dalla società. Pertanto, si originano stravolgimenti delle abitudini alimentari, assunzioni scorrette di cibo o, addirittura, non assunzione di alimenti essenziali per timore di ingrassare. Si intraprendono diete approssimative, improvvisate, restrittive e severe, assumendo alimenti a basso contenuto calorico, ma anche a basso valore nutritivo, sbilanciando così l’apporto vitaminico e proteico necessario in questa delicata fase di crescita. A causa di tali forzature alimentari le ragazze rischiano di debilitare il proprio corpo e di oltrepassare i limiti del sottopeso; tuttavia, continuano a percepirsi sempre più grasse, anche se è vero l’opposto, e si ostinano a considerare il loro ideale di bellezza un corpo esageratamente longilineo e filiforme. L’ Lessere magri diventa l’obiettivo principale, all’idea di magrezza è associata, erroneamente, quella di bellezza, e solo in questo modo si può gratificare la propria autostima e cambiare la qualità della propria vita, sentirsi carini, interagire positivamente con gli altri. Si assumono atteggiamenti votati ad un “perfezionismo nevrotico”, si sposta sul cibo quel “perfetto controllo” che non si riesce ad avere sulla propria vita. Ma, dopo una fase di euforia, dovuta all’approvazione da parte degli altri, quando sembra che tutto vada per il meglio, al benessere psicologico sperato si sostituiscono un alto livello di depressione, maggiore irritabilità, minore serenità, aumentano disturbi fisici (tra cui la scomparsa del ciclo mestruale) e psicosomatici, peggiori risultati scolastici e peggiore comunicazione a livello sociale, soprattutto con familiari e genitori. A questa fase anoressica può seguire quella bulimica e, al contrario, si cede alla tentazione del cibo, abbuffandosi in modo compulsivo ed ossessivo, per poi ricorrere al vomito, considerato come unico rimedio e compenso. Linsorgere L’ della bulimia avviene in sordina, rispetto all’anoressia, perché non causa improvviso dimagrimento; ci si accorge pertanto della patologia quando diventano evidenti i disturbi fisici legati al vomito indotto. Si consumano grandi quantità di cibo molto rapidamente, anche quando non si ha fame, fino a sentirsi “spiacevolmente” pieni, disgustati, depressi ed, in colpa dopo l’abbuffata, ci si reca immediatamente in bagno per vomitare. Purtroppo, il passaggio più difficile, dopo
l’accertamento della patologia, è convincere la ragazza anoressica o bulimica a curarsi, perché certa di potercela fare da sola. Contrariamente a quanto pensano molti genitori, l’anoressia e la bulimia non sono patologie che si possono curare in famiglia, solo l’amore e la dedizione dei genitori non bastano. Quando la situazione clinica risulta altamente compromessa, e l’organismo danneggiato, si deve procede al ricovero in strutture ospedaliere. Ma anche qui, se, una volta guariti, non si riceve l’adeguato supporto psicologico, si rischia di ricadere nuovamente nella malattia. Il problema coinvolge, spesso, tutta la famiglia del malato e la necessità della terapia non deve sembrare imposta, la paziente deve dimostrare un atteggiamento favorevole e positivo verso la cura, altrimenti potrebbe colpevolizzare i genitori, considerandoli gli unici responsabili della sua malattia. Dopo aver analizzato a fondo la problematica e averne sviscerato cause ed effetti, mi rendo conto che, non solo la famiglia, ma anche la scuola, come agenzia formativa ed educativa, deve essere sensibilizzata alla conoscenza dei disturbi alimentari diffusi tra gli adolescenti, in modo che ci si possa accorgere in tempo della malattia, dei suoi sintomi, e prenderne consapevolezza.
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cibo e mente
l‘arcobaleno
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cibo e classici latini 28
Q
uanti autori latini hanno scritto sul cibo?
Per quanti scopi diversi? •
Per scherzare sulla sua povertà in occasione di uno strano invito a cena fatto ad un suo amico, Catullo (poeta d’amore, del I sec.a.C., nato a Verona) nel carme XIII, 1-5; 7-8, tratto dal Liber scrive: Cenabis bene, mi Fabulle, apud me paucis, si tibi di favent, diebus, si tecum attuleris bonam atque magnam cenam, non sine candida puella et vino et sale et omnibus cachinnis. (...) nam tui Catulli plenus sacculus est aranearum.
“Cenerai bene, o mio caro Fabullo, da me tra pochi giorni, se gli dei ti saranno propizi, se avrai portato con te una buona e lauta cena, senza dimenticare una bella ragazza e vino e arguzie e ogni genere di sollazzi. (...) infatti del tuo Catullo la borsa è piena di ragnatele”.
Chi non conosce Catullo, non capirebbe perché parli di ragnatele ma non si stupirebbe più di tanto a leggere che l’ospite sarà gradito se porterà qualcosa, in questo caso, tutto: dalla cena (insolita richiesta per quei tempi, del tutto normale per quelli odierni!) alla bella ragazza, al buon umore. Peccato che non si specifichino le pietanze richieste e si lasci il lettore a bocca aperta, soprattutto se è ora di pranzo. Magari, vino, buon umore e scherzi, saranno “pietanze” migliori di quelle vere. Quel furbo di Catullo inscena, per esigenze di copione, la parte dello scroccone, per di più povero, come si evince dall’espressione proverbiale: plenus sacculus est aranearum, associata al luogo comune letterario della povertà dei poeti. Dell’invito catulliano, Marziale, poeta del I-II sec.d.C., in Epigrammata, XI, 52, farà in parte un’imitazione, altrettanto scherzosa, ma, in questo caso, la “sostanza” c’è: Cenerai bene da me, Giulio Ceriale; vieni, se non hai preso nessun accordo più gradito.(…) Come prima portata ti sarà presentata della lattuga buona per muovere il ventre e bugie gambi di porro recisi dalle piante; poi un pezzo di giovane tonno conservato, più grosso di un
piccolo sgombro e contornato da uova su foglie di ruta(…) Questi piatti saranno sufficienti per l ’aantipasto.Vuoi ntipasto.Vuoi conoscere le altre portate? Dirò perché tu venga: pesci, ostriche, mammelle di scrofa e uccelli ben nutriti di cortile e di palude…
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Ad un altro Fabullo, sempre Marziale in Epigrammata, III, 12, rimprovera la taccagneria: gli invitati li lascia a digiuno ma, in compenso, li profuma come se fossero cadaveri:
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di Vincenza Iannelli
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Un buon profumo hai dato ieri ai commensali, è vero, ma cibo, niente. E’’ da ridere essere profumati e affamati. Fabullo, chi non mangia e si cosparge di profumo mi sembra proprio un morto. •
Come motivo di vendetta e condanna per le malefatte di qualcuno, il cibo viene chiamato in causa da Lucilio (poeta satirico del II sec. a. C.), il quale nel I libro delle sue Satire, (di cui ci sono pervenuti dei frammenti) prende di mira un certo Lentulo Lupo, a quel tempo defunto. Costui era stato presidente del senato e, durante il suo mandato, aveva contribuito al degrado politico e giuridico a Roma. La punizione inflittagli da Lucilio è esemplare: un’abbuffata di ventresche di tonno e filetti di branzino, e a lui che si chiamava Lupo (inteso in latino sia come nome di persona che come pesce pregiato) Lucilio accosta dei pesci tutt’altro che pregiati: ti uccidono, Lupo, sardelle e salsa di pesce siluro.
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Come bigliettini augurali, Marziale nei suoi Xenia (“Doni per gli ospiti), versi brevissimi di accompagnamento a piccoli doni, solitamente dei cibi, fatti agli amici durante le feste dei Saturnali, scrive: Il pepe (Xenia, ( 5) Quando la sorte ti concede un bianco beccafico dai fianchi larghi e splendenti, se sei saggio, cospargilo di pepe. I funghi porcini (Xenia, ( 48) Facile regalare argento, oro, un mantello, una toga: difficile regalare funghi porcini. La fava ((Xenia, 7) Se la fava pallida bolle nella tua pentola rossa di coccio puoi rifiutare spesso gli inviti a cena dei ricconi. I tartufi Noi, i tartufi che rompiamo con la nostra fragile testa la terra che ci nutre, siamo secondi solo ai porcini. Una trovata, quella di Marziale, sicuramente originale.
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Come parodia della meschinità e volgarità di certi ambienti e dei personaggi ivi presenti ne dà un saggio memorabile Petronio, scrittore vissuto all’epoca dell’imperatore Nerone (I sec. d. C.), nel Satyricon. Di quest’opera, di cui ci sono pervenuti solo alcuni libri, ce n’è uno, il XV, dedicato interamente ad un personaggio - macchietta, Trimalcione, simbolo dell’ostentazione volgare dell’opulenza, protagonista di una indimenticabile cena da lui offerta agli ospiti. Un personaggio che sembra uscito da uno dei film di Verdone: come dimenticare il “coatto” Ivano in Viaggi di nozze con la sua ineccepibile finezza? Nella sala della cena ogni elemento è approntato allo scopo d’impressionare: abbondanti portate e libagioni, bizzarre scenografie, numeri di varietà, mimi, musica ed esibizioni varie; il tutto accompagnato da argomenti pseudo-eruditi.
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Mosaico rritrovato itrovato a Pompei, conservato al Museo archeologico nazionale di Napoli.
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cibo essenziale 30
di Giacomo Pisani
“S
’intende che l’occhio ’’occhio umano gode in modo diverso dall’occhio ’’occhio rozzo, inumano, l’orecchio ’’orecchio umano in modo diverso dall’orecchio ’’orecchio rozzo, ecc. […] Il senso, prigioniero dei bisogni pratici primordiali, ha soltanto un senso limitato. Per l’uomo affamato non esiste la forma umana dei cibi, ma soltanto la loro esistenza astratta come cibi; potrebbero altrettanto bene esser presenti nella loro forma più rozza, e non si può dire in che cosa differisca questo modo di nutrirsi da quelle delle bestie bestie.” Così scriveva Karl Marx, nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, mentre riscopriva la forma specificamente umana dei bisogni, delle passioni, delle sensazioni. Per Marx, persino i sensi risultano storicamente determinati. Le strutture economiche, la proprietà privata, inseriscono l’uomo in una trama di relazioni senza uscita in cui, per vivere, è necessario fare quello che viene richiesto. Ognuno deve compiere delle azioni precise, già stabilite, per avere un posto di lavoro, per avere uno stipendio e per poter vivere. I bisogni che determinano le proprie azioni, allora, sono quelli pretesi dalle strutture economiche circostanti. L’ Lindividuo deve soddisfare bisogni estranei, quelli imposti dal sistema economico, dalle cose, che diventano sempre più potenti, fino a imporre l’egoismo come tratto costitutivo del bisogno stesso. Bisogna lavorare, fare quello che ci dicono per ottenere lo stipendio, e poco ci importa di chi ci sta attorno. Bisogna essere efficienti, battere gli altri sulla velocità, affermarsi per vivere. E’ così che gli uomini iniziano ad appassionarsi in modo diverso al proprio oggetto, che non è più l’oggetto naturale dei propri bisogni, ma l’oggetto obbligato reso necessario da bisogni esteriori. Per Marx, in generale, gli oggetti dei nostri bisogni diventano tali in funzione della loro natura propria e della natura della nostra forza essenziale. I nostri sen-
si sono spinti verso un oggetto in virtù di una “essenza particolare”, quella che fa risvegliare il senso musicale solo attraverso una bella musica, quella che ci fa apprezzare un buon vino, quella che ci fa gradire le carezze di una leggera brezza estiva. Così, la natura diventa umana, assume il proprio valore in funzione delle nostre passioni. I nostri bisogni ricchi sono quelli che ci permettono di vivere nel mondo secondo il nostro piacere spontaneo, fisico e spirituale. Così, quasi inconsciamente, quando ci appassioniamo alla vista di un quadro, tutte le preoccupazioni, gli interessi svaniscono e i nostri occhi risultano appagati nella propria essenza più intima, fino a coinvolgere ogni nostra riflessione in un unico piacevole sentimento, che gratifica i nostri bisogni, quali che siano. Come ben descrive Schelling quest’esperienza quasi mistica, “l’arte porta l’uomo intero, come egli è, alla conoscenza del sommo vero, e qui riposa l’eterna diversità ed il miracolo dell’arte”. Ogni senso, slegandosi dall’interesse determinato dalle preoccupazioni esterne, spesso totalizzanti, può appassionarsi al proprio oggetto. Così, l’uomo potrebbe trovare anche nel cibo il proprio “sommo vero”, una gratificazione disinteressata, in cui il gusto ci riporta alla nostra esistenza umana, autentica, senza contaminazioni. Ma, come dice Marx, “l’uomo in preda alle preoccupazioni e al bisogno non ha sensi per il più bello tra gli spettacoli; il trafficante in minerali vede soltanto il valore com-
merciale, ma non la bellezza e la natura caratteristica del minerale; non ha alcun senso mineralogico”. Così, l’individuo individuo in preda alla fame, a cui il mondo ha tolto ogni possibilità di vita dignitosa, vita sentita, cade in preda a quelle restrizioni alienanti che impoveriscono i bisogni, portando l’uomo uomo alle dipendenze più elementari. A un bambino africano, senza una casa e senza una famiglia, non interessa l’appagamento del gusto con un piatto squisito, quell’appagamento unico che può fargli sentire tale piatto come un tutt’uno uno con se stesso, con i propri sensi. Non può interessargli. Ha bisogno di mangiare, perché quella vita al limite della sopravvivenza non è degna di un essere umano, non permette l’ espressione più propria delle passioni, dei sentimenti. Tutto scorre su un filo sottile, fra la vita e la morte. Il cibo non esiste come prolungamento dell’essenza essenza di quel bambino, non rende quel desiderio di cibo unico e irripetibile. Esiste come cibo in quanto tale e il senso, come quello delle bestie, deve trovare in esso la propria sussistenza. Nessun piacere, nessuna oggettivazione, nessuna realizzazione possono esistere. Solo la mera sopravvivenza, la sola esistenza. La vita, così, si scioglie in una serie di tappe obbligate, che la riducono a proprio accessorio, ritagliando ogni ricchezza, ogni spinta specifica del bambino, di quel bambino, a bisogno astratto. Bisogno di cibo, bisogno di acqua, bisogno di calore. Indipendentemente dai tratti peculiari che fanno la stoffa di quell’individuo in quanto tale. I bisogni diventano strumento delle situazioni circostanti, e l’uomo stesso diventa un mezzo. Ma c’è una briciola di ragione, come la definiva Kant, “un’isola isola piccolissima nell’abisso dell’irrazionale”,, che rende l’uomo, uomo, qualsiasi uomo, un fine in sé, che lo collega all’infinito. Perché l’umanità, in ognuno di noi, fa di ciascuno un universo irripetibile, un mondo a sé. Il mondo che genera i nostri sentimenti, le nostre passioni, i nostri oggetti. Perché, come diceva Marx, “L’uomo è un essere appassionato. La passione è la forza essenziale dell’uomo che tende energicamente al proprio oggetto”. Il nostro impegno è nel far rinascere quell’uomo, in ogni individuo sulla terra, facendo in modo che ogni morso dato a un pezzo di pane sia un suo morso, che ogni attimo sia vissuto come una vita intera. Quella che ci fa sentire il sapore dei pensieri e degli oggetti, dei sogni e delle azioni. Quella che ci fa rivedere noi stessi nel mondo.
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di Pietra Pomice
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L’
accostamento di un particolare alimento ad un dato gruppo etnico, nazionale o regionale, costituisce tradizionalmente un elemento distintivo di identità. Gli italiani all’estero sono associati, e non sempre in tono elogiativo, con gli spaghetti, la pizza o i maccheroni, mentre i meridionali, per ribattere l’epiteto di terroni attribuito loro dai connazionali nordici, li gratificano con il titolo di polentoni. Mangiacipolle, mangiapatate, mangiaravanelli, insieme a decine di altre, sono denominazioni servite di volta in volta a designare, quasi sempre spregiativamente, gruppi sociali diversi da quello di appartenenza. Il cibo, come la lingua, è un elemento di identità forte; non a caso sono entrate nell’uso comune espressioni del tipo: parla come mangi, l’uomo è ciò che mangia oppure dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei. Il kebab e l’arabo, l’hamburger ed il nordamericano, l’arancino ed il siciliano, il cuscus ed il nordafricano, il tortellino e l’emiliano, sono esempi di associazioni mentali che popolano, ormai irreversibilmente, il nostro immaginario. Sbaglieremmo, però, se pensassimo a queste coppie di termini come ad elementi fissi ed immutabili di una etnogastronomia politica. Come si è visto nell’articolo “Cannibalismi”, le culture sono spesso, se non sempre, il risultato di variabili legate alle strutture ed alle congiunture economiche. Prendiamo il caso dei maccheroni. Quale cittadinanza, quale nazionalità potrebbero avere i maccheroni, se non quella napoletana? Giuseppe Pitrè, probabilmente il più grande studioso di usi e tradizioni popolari della Sicilia, attesta che, dal Settecento in poi, in Sicilia ed in tutta Italia, il termine mangiamaccheroni è attribuito ai napoletani. Lo storico Emilio Sereni, nel libro Terra nuova e buoi rossi, riferisce che, nella commedia “La vedova” di Giambattista Cini, del 1569, un napoletano ed un siciliano sono rivali in amore. Il siciliano, rivolgendosi al padre dell’amata, sconsiglia di darla in sposa al napoletano: a nu curnutu caparruni napulitanu, manciafogghia... Al che il napoletano risponde: Oh, te stai loco? E che pienzi parlare, sicilianello, con qualche pezziente pari tuo? Va, va, manciamaccaroni! Il siciliano allora replica: Doh, chi sia uccisu cui ti impinnazau, curnutu; ah? Manciau ieu li maccaruni? Tu manciafogghia, tu napulitanu... Da questo dialogo si ricava, senza dubbio, che prima del Settecento il titolo di mangiamaccheroni spetta ai siciliani, i quali, a loro volta, per ritorsione, chiamano i napoletani mangiafoglia, cioè mangia cavoli. Numerose altre fonti attestano come, proprio in Sicilia, sin dalla seconda metà del Quattrocento, si sia sviluppata la produzione di maccheroni di semola, in forme così avanzate da permetterne l’esportazione sul continente. Correlativamente, prima del Settecento, i napoletani non sono mangiamaccheroni ma manciafogghia. Naturalmente, è impossibile pensare che un popolo possa trarre il proprio sostentamento esclusivamente da un certo tipo di vegetali. Questi, infatti, posso-
no fornire la massa alimentare, possono riempire lo stomaco e dare il senso di sazietà, ma non danno un apporto di elementi nutritivi, specie proteine, sufficienti ad assicurare il necessario equilibrio nella nutrizione. Tali proteine venivano, evidentemente, fornite dal consumo di carne o da derivati di origine animale. In altre parole, nel giro di un secolo, i napoletani sono passati da mangia cavoli (e carne) a mangia maccheroni, vale a dire da una dieta basata sulla combinazione verdure-carne, ad un’altra incentrata prevalentemente sul consumo di carboidrati. Le ragioni di questo radicale cambio di regime alimentare vanno ricercate, innanzitutto, nella fortissima espansione demografica successiva alla grande mortalità scatenata dalla peste del 1656 e poi dall’altra in un progressivo irrigidimento delle strutture economiche e sociali. L’incremento della popolazione si traduce in un aumento dell’offerta di braccia disponibili, ma queste non trovano sufficienti possibilità di lavoro, data l’elevata e progressiva concentrazione delle terre in mano ad una feudalità soprattutto nobiliare ed ecclesiastica che le lasciava in gran parte incolte come riserve di caccia. Nel passaggio tra Sei e Settecento si assiste ad un netto peggioramento delle condizioni generali di vita delle masse rurali ed urbane. Mentre, a poco a poco, la carne scompariva dalle loro mense per far posto, se andava bene, ai maccheroni, quelle masse non sapevano che era il segno di una nuova epoca storica, che avrebbe sancito l’affermazione del capitalismo e sgretolato ciò che rimaneva delle strutture economiche e sociali di tipo comunitario. Oggi, guardando ciò che compare sulle nostre tavole, sapendo che contemporaneamente quello stesso cibo scompare dalle tavole di oltre un miliardo di affamati, abbiamo ragione di pensare che il cibo sia il segno concreto e visibile di un altro cambiamento d’epoca, e dipende solo da noi se sarà in meglio o in peggio.
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cibo e consumi 32
di A. L. D. L’ULTIMO MITO DELL’OCCIDENTE Ci sono due tipi di donne che io sinceramente odio: quelle che dicono ‘qualunque cosa mangi, io non ingrasso di un etto’. Beh, ammetterete che sia ben difficile NON odiarle; quelle che dicono ‘beata te che non in-
centro della nostra vita. Fate la somma tra diete, ricette e prezzi, resterete sbalorditi. Io non lo capisco. Mangio volentieri qualcosa di buono ma perdere tempo in cucina, scherziamo? Mentre si può liquidare la questione con un’insalata e un po’ di formaggio? ( sono diventata vegetariana, anche se non rigidissima.) Passare il tempo discutendo di ricette? In compagnia, nelle serate amicali, quante disquisizioni di ore su piatti, ricette e ristoranti vari! Mi sento un’aliena e ho grandi difficoltà a partecipare. Mi guardo attorno e vedo di solito persone soprappeso, più o meno, ma al 90% circa. Per non parlare dei bambini, dei ragazzi e soprattutto delle ragazze. A scuola le mie alunne (15/18 anni) mi parlavano
Ed io mi affannavo a spiegare, a parlare di neo-colonialismo, di multinazionali agroalimentari, di grandi piantagioni di cacao o di caffè che hanno sostituito le piccole coltivazioni di sussistenza che nutrivano (poco e male ma almeno lo facevano) le classi rurali dei paesi che oggi, in modo eufemistico, definiamo PVS (paesi in via di sviluppo), dato che Paesi sottosvilup-
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grassi azzerando così ogni impegno, grassi’, ogni sacrificio ed ogni difficoltà, come se fosse gratis, un dono del cielo e non una battaglia quotidiana! Come NON odiarle? Sono stata, tanti anni fa, una bambina magra con scarso appetito, che considerava il cibo con leggero disgusto. A parte i dolci che, allora, erano riservati alle feste. Poi, ahimè, il mio interesse è cresciuto ed è cominciata una strenua guerra di cui si possono vincere delle battaglie, quotidiane ma mai definitive. Una serie di battaglie senza sosta, sotto pena (inaccettabile) di diventare grassa! O soprappeso, altra possibilità inaccettabile! E’ una cosa davvero strana, se ci pensate, ma lo spazio che ha il cibo nella nostra vita, nei nostri discorsi, sui giornali, alla Tv è incredibilmente esteso. Sembra che il cibo, in positivo ed in negativo, sia il
spesso delle loro…. smagliature! Smagliature! Ma si può? E poi le vedevo ingoiare mostruosi pezzi di tavola calda, stillanti olio fritto, al grido di ‘ho fame!’ Fame! Tenevo sempre a chiarire che, se si parla di fame nel mondo, NON E’ quella fame lì, quella che loro credevano di conoscere ma NON conoscevano affatto. Allora tentavo di far capire il nesso fra i ‘nostri’ consumi, eccessivi ed i ‘loro’ consumi, insufficienti al fabbisogno giornaliero. Ci sarà un nesso tra il nostro consumo giornaliero di circa 3700 calorie ed il consumo africano di circa 1700? Mi guardavano con occhi sgranati, ottusi, la legge della domanda ed offerta globale appariva incomprensibile per loro. ‘Ma noi paghiamo’, rispondevano, rifiutando di sentirsi responsabili.
pati suona così anti-estetico! E del colonialismo culturale, per cui si sostituiscono ai consumi tradizionali i consumi di tipo europeo, cereali superiori e carne, facendo lievitare domanda e prezzi, mettendo fuori della possibilità d’acquisto acquisto masse sempre più larghe di popolazione. E non solo in Africa ma in molte parti del mondo. E’ semplice da capire: abbiamo preso la
loro terra per produrre beni che sono soprattutto esportati, aumentando il profitto delle multi-nazionali, e spingendo all’inurbamento nelle bidonville masse ex-rurali. Abbiamo anche spinto i consumi di cereali che sono importati e che hanno prezzi troppo alti per le masse di disoccupati che popolano le bidonvilles. Che vivono di piccoli espedienti e di lavoro sotto-pagato o di crimini, per cui l‘offerta di lavoro non manca mai. Oppure si arruolano nelle decine di eserciti semi-privati di cui c’è sempre abbondanza. Anche se, devo dire, mancano i soldi per comprare il cibo ma MAI per comprare un kalashnikov che, come tutti sanno, è molto più importante! Non credo che mi abbiano mai capito. Mi guardavano con occhi ebeti pensando che IO fossi strana. Ed incomprensibile. Che facevo discorsi assurdi. Non sono solo i miei ex alunni a non capire i nessi noi/loro. E’ una situazione generalizzata….. e molto comoda. Al di là del piagnisteo irrilevante sulla fame nel mondo, ben pochi
specchio che dice ‘mi odio, non mi sopporto da quando sono ingrassata così’. Non voglio essere odiata, così mi censuro e blocco l’automatica risposta ‘scusa, non sarebbe meglio dimagrire un po’, se ti dà tanto fastidio?’ So che sarebbe inutile, anzi provocatorio, e taccio. Ma mi sembra davvero che il mondo occidentale, da quando a metà del Settecento, ha cominciato a mangiare tutti i giorni e più volte al giorno, non abbia più smesso di farlo. In modo irresponsabile ed autolesionistico. Ma il problema non è solo quello della fame nel mondo, c’è anche il problema ambientale, di un pianeta che non può reggere questo livello di consumi, specialmente dato che si sta allargando a fasce della sterminata popolazione indiana
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accettano la propria personale responsabilità pro-quota. Bisogna considerare che è vero che, ogni volta che acquistiamo qualcosa, noi compiamo un atto politico di cui dovremmo accettare la responsabilità a breve, medio e lungo termine. Se una farfalla che batte le ali a Stoccolma provocherà un temporale a Katmandu, chissà che cosa mai provocherà l’acquisto di una barretta di cioccolato o un etto di caffè. La cosa più certa, nel primo caso, è un deposito di grasso sulle cosce, se l’acquirente è di sesso femminile, sulla pancia se di sesso maschile. E mi sembra una giusta punizione. A lungo termine, un incremento delle morti per malattie cardio-circolatorie il cui collegamento con l’alimentazione è fuori di dubbio. Sicuri che ne valga la pena? Per pochi momenti di piacere? Quante volte ho sentito, alla fine di un ottimo pasto condito di grandi discussioni su ricette, spezie ed ingredienti (che noia, che argomento monotono ed inflazionato), la frase storica ‘basta, da domani non si mangia più.’ Davvero patetico. Oppure qualche amica, guardandosi allo
poi uccise in modo crudele. Noi giriamo la testa e…. ci preoccupiamo della linea! Seguiti da tanti altri, desiderosi di adottare il nostro stile di vita. I numeri sono spaventosi: 150.000.000 di cinesi benestanti, 100.000.000 di indiani della classe media. CREDETEMI, NON E’ POSSIBILE! E’ stato possibile fino ad ora solo perché eravamo noi, la civiltà occidentale, ad adottare questo livello di consumi. Secondo gli ambientalisti, ci vorrebbero cinque-sei pianeti Terra per alimentare la popolazione della nostra, secondo i nostri stili di vita. Che poi, a proposito della Civiltà Occidentale mi viene sempre in mente la battuta di Gandhi che, di fronte alla domanda su cosa ne pensasse, rispose ‘Che Che sarebbe una buona idea’. Sono passati tanti decenni, abbiamo cambiato secolo e millennio, ma la sua battuta è ancora apprezzabile. E soprattutto realistica. Anch’io io ho un sogno che si può sintetizzare in uno slogan: MANGIARE MENO, MANGIARE TUTTI.
e cinese. E, d’altra parte, ci è possibile dire che loro hanno consumi pericolosamente alti? LORO????? Ma loro sono tanti! Eh, già! Vedo noi occidentali come grasse termiti che stanno rodendo il pianeta e per giunta si lamentano. Che hanno degli inutili sensi di colpa, ma non per il danno che fanno a tutto l’ecosistema, masticando con voraci mandibole grandi quantità di carne di creature costrette a vivere in condizioni orribili (è stata la descrizione di un allevamento industriale di polli e della loro esecuzione, che mi ha fatto capire che NON potevo continuare ad essere complice di quelli che considero delitti contro esseri viventi, colpevoli d’essere deboli di fronte alla nostra avidità e mancanza di scrupoli) e
Pensate quanti problemi si risolverebbero in un sol colpo: saremmo più belli, più sani, più longevi, più civili, più rispettosi degli altri e dell’ambiente. Guardate uno dei tanti volantini dei vari supermercati che infestano la nostra vita e la nostra città, rendendo le strade sempre più sporche e sgradevoli: adesso fate un gioco e separate le cose veramente utili da quelle superflue o addirittura dannose perché troppo ricche di zuccheri raffinati e grassi idrogenati. Facciamo 20% e 80%? Mi trovate troppo pessimista? Beh, fatelo e mi saprete dire. Forse le mie percentuali sono eccessive, ma allora perché i vostri bambini sono i più grassi d’Europa? Perché le malattie cardiocircolatorie ed il cancro continuano ad aumentare, nonostante i miglioramenti della scienza medica? Perché è sempre valida l’antica ricetta egiziana: ‘Mangiamo un terzo per vivere, un terzo per far vivere i medici ed un terzo per far vivere i becchini.’ E se era vero allora……. figuriamoci adesso. ades
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l‘arcobaleno
l‘arcobaleno
L’L appetito vien leggendo: leggendo
cibo e letture 34
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er vivere occorre mangiare: l’alimentazione è una necessità comune a tutti gli esseri viventi. Il “che cosa” e il “come” si cucina e si mangia sono però legati alle tradizioni e ai cambiamenti che avvengono all’interno delle culture, frutto di incontri e di scambi tra popoli e civiltà. Il cibo è segno di identità culturale e allo stesso tempo è segno di scambio tra culture. Una ricerca sul cibo che si mangia in una determinata cultura e del modo in cui se ne parla (letteratura e in alcuni casi anche pittura, cinema) può portare a scoperte affascinanti. Esplorando la questione del cibo si possono attraversare la maggior parte delle discipline e dei campi del sapere: dalla storia alla geografia, dall’economia alla linguistica, dalle religioni alla letteratura, dalla tecnologia alla psicologia, dall’agricoltura alla medicina, dall’ecologia agli usi e costumi delle popolazioni. La selezione di titoli qui presentata intende suggerire alcune proposte di lettura che offrono un esempio di come le letterature europea ed extraeuropea diano spunti culinari all’interno delle loro storie…. Afrodita: racconti, ricette e altri afrodisiaci, di Isabel Allende. - Feltrinelli, 1998 Nel libro troviamo Isabel alle prese con il mondo della cucina, tempio del piacere dei sensi e anticamera del “piacere dei piaceri”. In un invito alla gioia dietro il grembiule, un gioco per nutrirsi ed inebriarsi senza prendersi troppo sul serio, con un patrimonio di ricette piccanti e spiritose condite con le spezie dell’ironia. Cacao, Jorge Amado. - A. Mondadori, 1984 Dopo una breve infanzia agiata e felice, la tragedia della morte del padre e i soprusi dello zio costringono un quindicenne a lavorare in fabbrica. Inseguendo i sogni collettivi di emigrare nelle zone del cacao, il ragazzo finisce per lasciare casa sua alla volta di Pirangi. Là, nella Fazenda Fraternidade, il mito del cacao crolla nell’impatto con la durezza della realtà e con la disperazione della miseria. Un romanzo corale, popolare, scritto con toni appassionati e vibranti da uno scrittore (appena ventenne) che vuole portare alla ribalta letteraria l’esistenza di classi sociali che soffrono. Satyricon, Petronius Arbiter. – Garzanti 1995 Il Satyricon segna il punto più alto e moderno del romanzo antico, di cui peraltro costituisce una continua ironica parodia. La narrazione si sviluppa intorno alla storia contrastata e avventurosa di due innamorati, una coppia omosessuale, più
Selezione bibliografica dei romanzi che narrano del cibo. di Marina La Farina
che mai aperta a varietà di incontri e situazioni, e il lieto fine neppure si intravede. Ma le vicende del duo (o meglio di un perenne e volubile triangolo) sono per l’autore il pretesto narrativo per descrivere una società sfrenata e volgare, in cui campeggiano l’arroganza e il cattivo gusto dei “nuovi ricchi” . La donna da mangiare, di Margaret Atwood. - Corbaccio, 2002 Marian McAlpin è una giovane donna canadese spiritosa e ben educata. Ha un lavoro insoddisfacente per le “Indagini di mercato Seymour”, un fidanzato di nome Peter e un’amica femminista con cui divide l’appartamento. Un giorno Marian diventa matta, o pensa di esserlo diventata dato che all’improvviso smette di mangiare. Il fatto è che non riesce più a capire la differenza fra sé e il cibo. È come se vivesse nel terrore di essere divorata. Dal lavoro, dagli amici, dal fidanzato. E per non farsi mangiare, non mangia. Comincia così una riscossa tragicomica contro tutti i potenziali divoratori. I bucatini di Garibaldi. Avventure storico-gastronomiche di un inglese innamorato dell’Italia, di William Black. - Piemme, 2004 I saraceni di Sicilia e la granita, Mazzini e le trenette al pesto, gli anarchici livornesi e il caciucco, il ghetto di Roma e i carciofi... Non è il risultato di una solenne indigestione notturna, ma lo stile brillante e curioso che un valente viaggiatore, scrittore e gastronomo britannico ha scelto per raccontare il suo straordinario “viaggio in Italia”. Perché al contrario di Goethe e di tanti altri estimatori del Bel Paese che lo hanno preceduto, William Black non cerca ispirazione nei “fori cadenti” ma si affida alle sapienti e antiche ricette di una nazione che ha fatto della sua cucina “l’ottava meraviglia del mondo”. A pranzo con Babette: le ricette di Karen Blixen, di Alacevich Allegra. - Il Leone verde, 2003 Da una ricetta all’altra, un accurato menù messo a punto dalla Babette del famoso testo di Karen Blixen per far venire l’acquolina in bocca a lettori e cultori del gusto. Allegra Alacevich ci conduce in un percorso tra cucina e letteratura e offre le ricette per ricreare uno tra i pranzi più famosi della narrativa e del cinema. [il racconto Il pranzo di Babette, contenuto nella raccolta Capricci del destino di Karen Blixen (Feltrinelli 1978) ha come protagonista una donna, cuoca comunarda che, al crollo dei suoi ideali rivoluzionari, è costretta a sacrificare tutto e a vivere esule (lei, “grande artista”) a contatto con un mondo grigio e frugale. Ma il potere
visionario di Babette trionfa, paradossalmente e orgogliosamente, sulle miserie della quotidianità. Dal testo è stato tratto l’omonimo omonimo film diretto nel 1987 da Gabriel Axel. ] Sotto il sole giaguaro, di Italo Calvino. - Garzanti 1986 Racconti in cui la fantasia di Calvino si esercita nel mondo dei “sensi”. Gli arancini di Montalbano, di Andrea Camilleri. - A. Mondadori, 1999 Nuove storie, in cui il commissario Montalbano si imbatte nei crimini e nei criminali più eterogenei e insoliti. La prima sorsata di birra e altri piaceri della vita, di Philippe Delerm. - Frassinelli, 1998 La prima sorsata di birra, le more nei boschi d’estate, le conversazioni attorno al tavolo di cucina sgranando piselli, il profumo delle mele in cantina, la voce di chi si ama che dice più di quanto dicano le parole, il rosso cupo di un bicchiere di Porto da centellinare... Istanti preziosi, che vanno colti nella loro immediatezza e assaporati con tranquillità. Digiunare, divorare, di Anita Desai. - Einaudi, 2001 Due culture diverse poste a confronto attraverso il cibo. Un’estesa famiglia indiana, composta di zie strambe e cugini inetti, ha i suoi opposti nelle sorelle Uma e Aruna. La prima, più anziana, oppressa dal devoto stuolo di parenti, ancora non riesce a lasciare il nido e guarda con disappunto la minore che, impalmato il rampollo giusto, va costruendo una famiglia perfetta. La scena si sposta in Massachusetts: là il figlio di Aruna osserva, pieno d’incredula nostalgia, la sconcertante vita della famiglia Patton dove gli uomini si abbuffano di carne e le donne sono tutte anoressiche. A confronto due diversi mondi: il cuore compatto e soffocante di una famiglia indiana e la gelida, indifferente libertà di un nucleo familiare americano. La metà di niente, di Catherine Dunne. - Guanda, 1999 Una mattina come tante nella cucina in disordine, nell’aria pungente di una Dublino ancora addormentata. Una mattina come altre quella in cui Ben decide di dire addio alla moglie Rose, ai suoi tre figli e a vent’anni di vita assieme. Rose non parla, non reagisce, non sa nemmeno cosa provare. Con questa scena si apre “La metà di niente”, il diario lucido e drammatico di una donna che, di punto in bianco, si trova sola, senza soldi e con una famiglia da mantenere. Come in un album di fotografie, la nuova vita di Rose si alterna a flashback della vita passata, dei suoi sogni
giovanili, delle sue illusioni romantiche sul matrimonio. Ma tra lacrime e disperazione, tra rabbia e sensi di colpa, Rose diventa forte. La maga delle spezie, di Chiara Banerjee Divakaruni. - Einaudi, 1998 Una vecchia signora indiana in una botteguccia di Oakland, California, con le sue mani nodose sfiora polveri e semi, foglie e bacche, alla ricerca del sapore più squisito o del sortilegio più sottile. E’ Tilo, la Maga delle Spezie. La sua storia inizia in uno sperduto villaggio indiano dove la rapiscono i pirati, attratti dai suoi arcani e misteriosi poteri, per portarla su un’isola stregata e meravigliosa. Lì Tilo apprende la magia delle spezie che in America le permetterà di aiutare chi, come lei, si è lasciato l’India alle spalle. Nella Bottega della Maga, dunque, sfilano vite e desideri, fatiche e speranze d’immigrati, e le spezie, con i loro mille, minuscoli occhi, scrutano ogni gesto della loro signora. Dolce come il cioccolato, di Laura Esquivel. - Garzanti, 1996 Fin dal loro primo incontro, poco più che adolescenti, Pedro e Tita vengono travolti da un sentimento più grande di loro. Purtroppo a causa di un’assurda tradizione familiare, per Tita il matrimonio è impossibile: ma per umana volontà e con la complicità del destino, lei e Pedro si ritroveranno a vivere sotto lo stesso tetto come cognati, costretti alla castità e tuttavia legati da una sensualità incandescente. Frutto di una godibile vena narrativa e di una passione per l’arte culinaria, il romanzo racconta una grande storia d’amore, in cui il cibo diventa metafora e strumento espressivo, rito e invenzione, promessa e godimento, veicolo di una vera comunione erotica. La grande fame : racconti 1932-1959 di John Fante. - Milano, Marcos y Marcos, 2001 Mocciosi che origliano i litigi dei grandi, ragazze attraenti ma troppo chiacchierate, vecchi tirannici e orgogliosi, straccioni arrivati dall’altra altra parte del mondo. Ritratti familiari, scene di vita quotidiana, i sogni e la fame. Una raccolta di racconti, scovati alla morte dell’autore, che celebrano la grande saga dell’immigrazione dell immigrazione italoamericana e lo spaesamento. Pomodori verdi fritti al caffè di Whistle Stop, di Fannie Flagg. - Sonzogno 1993 Evelyn, una donna infelice e molto complessata, incontra in un ospizio Virginia, una vecchietta originale che le racconta una storia di tanti anni prima. Quella del Caffé di Whistle Stop, aperto in Alabama da una singolare coppia al femminile, la dolce Ruth e la temeraria Idgie, e frequentato da stravaganti sognatori, uomini di colore, poetici banditi e vittime della Grande Depressione. La movimentata vicenda di due donne, coinvolte loro malgrado in un omicidio, e la loro tenacia nello sconfiggere le avversità, ridanno a Evelyn la fiducia e la forza necessarie per affrontare le difficoltà dell’esistenza. Chocolat, Joanne Harris. - Garzanti, 1998 Siamo in un villaggio al centro della Francia. La vita scorre tranquilla, forse un po’
troppo placida, in quanto al villaggio sono rimasti soprattutto gli anziani, contadini e artigiani, mentre i giovani sono partiti verso la città. Un martedì di carnevale arrivano nel villaggio Vianne Rocher e la sua bambina Anouk. La donna, molto simpatica e originale, rileva una vecchia panetteria e la trasforma in pasticceria, luogo di incontro di tutti gli anticonformisti del villaggio. Le si oppone il giovane parroco che vede in lei quasi una potenza demoniaca e così si accende una specie di guerra tra benpensanti e “golosi”. Cioccolata da Hanselmann, di Rosetta Loy. - Rizzoli, 1995 Anni Trenta: un uomo, un giovane scienziato ebreo di cui due sorellastre, Isabella e Margot, sono entrambe innamorate. La serenità di un tranquillo rifugio in Svizzera non riesce a cancellare gli orrori della guerra e delle persecuzioni razziali, né a evitare una violenta ribellione contro il ricatto, una scomparsa misteriosa e un epilogo che è un sorprendente antefatto. Il salto dell’acciuga, di Nico Orengo. - Einaudi, 2003 “Storie che s’intrecciano, antiche, vecchie, nuove; pescatori, donne, finanzieri, contrabbandieri di sale, acciugai... pagine dove paesi, montagne, strade, pesci, navigli, alberi, odori, valichi, rade, approdi hanno nomi precisi da molto tempo così che tutto appare vivo, gustato, cantato e concreto.. in tutto il libretto si sente il profumo dell’aglio rosa, del salso del mare, delle valli nascoste e della Olga, la rossa di capelli che passsa nelle pagine come una cometa tra i picchi delle montagne.” (Mario Rigoni Stern) Gargantua e Pantagruele, di Francois Rabelais. - Einaudi 1973 “Questo libro è un enigma inesplicabile, un mostruoso miscuglio di fine e ingegnosa morale e di bassa corruzione. Dove è brutto va di là dal peggiore: è l’incanto della canaglia; dove è buono, va fino allo squisito e all’eccellente e può essere un cibo dei più delicati.” (La Bruyère) Brano tratto dal libro”…e infine, per combattere la rugiada e l’aria cattiva, chiamava la prima colazione: bellissime trippe in padella, belle carbonate, bei prosciutti, bei capretti in graticola, zuppa da mattutino in quantità”. La parte più tenera, di Ruth Reichl. -Ponte alle Grazie, 2002 Ruth Reichl è la critica culinaria più famosa d’America: nel libro parla della sua infanzia, di sua madre che nel giorno libero della bambinaia paga lei, una bambina spaventata, per farsi da babysitter da sola, dei suoi primi passi in cucina con la signora Pavey, la domestica dal passato aristocratico, e con Alice, la cuoca caraibica che nei momenti difficili cucina le sue fantastiche mele al forno con salsa dura. Ma è a casa di un ricco buongustaio francese, fra un intingolo che pare “l’autunno distillato in un cucchiaio” e una chartreuse di pernice imponente come una cattedrale, che Ruth capisce per la prima volta cosa significhi veramente mangiare. Casalinghitudine, di Clara Sereni. Einaudi, 1987 Episodi di vita familiare di una ex sessantottina intrecciati con delle ricette fra le
più varie. La vendetta della melanzana, di Bulbul Sharma. - Marcos y Marcos 2001 Cibo gioioso, cibo goloso, cibo di rito, digiuno odiato. Una raccolta di racconti in cui ricordi, sogni e invidie si confondono con il piacere del cibo tra sfrigolii e rumori di stoviglie. Le relazioni culinarie, di Andreas Staikos. - Ponte alle Grazie, 2001 Dimitris e Damocle vivono nello stesso palazzo, allo stesso piano. Poco a poco si rendono conto di avere in comune anche l’amante, Nanà. Entrambi decidono di conquistarne l’arrendevole palato sbaragliando il rivale in cucina. Ne nasce un duello buffo e bizzarro, a colpi di insalate di ricci di mare, involtini di foglie di vite, polpo in vino bianco, moussaka, kolliva e altre ghiottonerie tipiche della cucina greca. Quanto a Nanà (astuta, esigente e istrionica) non si fa scrupolo di spedire gli ignari ammiratori sulle coste dell’Attica per procurarsi gli ingredienti, interpretando il ruolo della “femme fatale” fino all’amara conclusione della vicenda. Il libro di cucina, di Alice B. Toklas. - La tartaruga, 2000 Durante i quarant’anni trascorsi accanto alla famosa Gertrude Stein, Alice B. Toklas coltivò una segreta ambizione: quella di scrivere un libro anche lei. Quando trovò il coraggio di farlo seppe coniugare due passioni della sua vita: raccontare le vicende dei personaggi famosi che gravitavano attorno alla vita di Gertrude e descrivere le eleganti cenette che Alice preparava per gli ospiti. Così troviamo non solo la ricetta per preparare il branzino freddo “à la Picasso” ma anche il divertente resoconto di quel che accadde quando al pittore fu servito il piatto in questione. Kitchen, di Banana Yoshimoto. Feltrinelli 1991 “Non c’è posto al mondo che io ami più della cucina. Non importa dove si trova, come è fatta: purchè sia una cucina, un posto dove fare da mangiare. Anche le cucine incredibilmente sporche mi piacciono da morire…”. Le ricette di Pepe Carvalho, di Manuel Vazquez Montalban. -Feltrinelli, 1994 “A me piace presentare la cucina come metafora della cultura. Mi spiego. Mangiare significa ammazzare e ingoiare un essere, animale o vegetale, che prima era vivo. Se divorassimo direttamente l’animale morto o la lattuga sradicata, ci definirebbero dei selvaggi. Se invece, prima di cuocerlo, mariniamo l’animale con un bouquet aromatico di erbe di Provenza, inondandolo di aceto, allora abbiamo realizzato un’operazione culturale perché ipocrita come la cultura del nostro tempo. E ben sappiamo che Pepe Carvalho nutre un amore-odio per la cultura, tanto che solitamente consuma le sue raffinatissime cene ‘ipocrite’ al bagliore di caminetti accesi con pagine di libri ‘ipocriti’.” (Manuel Vàzquez Montalbàn).
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Recensioni tratte da vari siti internet.
l‘arcobaleno
Arcimboldo (1530-1593), Verdure in coppa o il giardiniere - olio su legno - Museo Civico, Cremona